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ANTIQVORVM

PHILOSOPHIA
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ANTIQVORVM
PHILOSOPHIA
an international journal

6 · 2012

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MMXII
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SOMMARIO

libertà e scelta
Anne Cheng, La ricezione del concetto di libertà in Cina 11
Johannes Bronkhorst, Free Will and Indian Philosophy 19
Carlo Natali, Un argomento aristotelico contro il determinismo 31
Karen Margrethe Nielsen, The Will: Origins of the Notion in Aristotle’s Thought 47

discussioni e ricerche
Francesco Fronterotta, I fiumi, le acque, il divenire. Su Eraclito, frr. 12, 49A, 91
DK [40, 40c2, 40c3 Marcovich] 71
Maria Isabella Bertagna, Sulla costruzione del racconto nel Protagora di Platone 91
Massimiliano Carloni, Una parafrasi di Omero nella Repubblica di Platone 101
Vincenzo Damiani, Nota testuale a Epicuro, ad pyth., 101 129
David Machek, The Ideal of Quiescent Mind: «Mind» and «Vital Energy» in China
of the Fourth Century b.C. 135

Norme redazionali della Casa editrice 159


LIBERTÀ E SCELTA
LA RICEZIONE
DEL CONCETTO DI LIBERTÀ IN CINA
Anne Cheng

I l tema della libertà verrà affrontato in questa sede principalmente da un punto di vi-
sta storico e solo in parte filosofico poiché è come storica delle idee che mi colloco in
questo dibattito. La mia riflessione dunque inizia da una domanda: la libertà è un con-
cetto estraneo alla tradizione cinese, filosofica o semplicemente intellettuale? Nella no-
stra tradizione, quella dell’Europa occidentale, la nozione di libertà può essere consi-
derata un tratto distintivo, se non un elemento costitutivo della stessa tanto da istituire
la differenza tra «noi» e gli «altri». Un libro assai popolare di Tzvetan Todorov – autore
che pur essendo di origine bulgara è considerato uno dei maggiori intellettuali francesi
viventi – è intitolato Nous et les autres (Noi e gli altri). Il titolo di quest’opera ci pare signi-
ficativo di quanto la diversità tra «noi» e gli «altri» sia parte integrante dell’esperienza
umana occidentale: il mondo è sempre percepito in questi termini, sulla base di
quest’opposizione.1
La questione della libertà è dunque uno dei grandi temi chiamati in causa per eviden-
ziare l’opposizione fra una tradizione di origine greca e latina ed in seguito europea, ed
una tradizione cosiddetta «orientale». Occorre ricordare in proposito che solitamente
in Francia l’Oriente indica sia l’India sia la Cina, mentre in Cina l’India viene considera-
ta, in seguito all’introduzione del buddhismo indiano, come una civiltà occidentale. Ciò
a dimostrazione di quanto relativi possano essere i punti di vista. Non è infatti un caso
che la filosofia cinese sia stata accolta dalla prospettiva europea orientalista del xviii e
xix secolo con numerosi interrogativi che permangono tutt’oggi. Interrogativi sostan-
ziali che partono dal chiedersi se sia davvero plausibile definire «filosofia» il pensiero ci-
nese e, se questo fosse possibile, se essa riveli un pensiero a carattere immanente o tra-
scendente. In quest’ottica appare quantomeno sorprendente la maniera in cui Confucio
è stato accolto senza riserve dal mondo intellettuale europeo del Settecento, quando le
sue opere furono tradotte da missioni cristiani e soprattutto dai gesuiti. Egli fu infatti
presentato come il filosofo dei cinesi per eccellenza: la prima traduzione in latino dei te-
sti confuciani ad opera dei gesuiti fu precisamente intitolata Confucius Sinarum philoso-
phus.2 Solo un secolo dopo però, nell’Ottocento, sotto l’influenza di alcuni filosofi
europei ed in particolare Hegel, la filosofia cinese fu respinta, marginalizzata e negata
in quanto tale. In Francia – paese al quale mi riferisco non avendo molta familiarità con

Anne Cheng, Collège de France, Chaire d’Histoire intellectuelle de la Chine, 11, place Marcelin Berthelot, 75231
Paris Cedex 05, anne.cheng@college-de-france.fr
Cf. Anne Cheng, La Chine pense-t-elle? (lezione inaugurale al Collège de France), Parigi, Fayard, 2009.
1 Tzvetan Todorov, Nous et les autres. La réflexion française sur la diversité humaine, Parigi, Seuil, 1989, ried. coll.
«Points Essais», 2004.
2 Quest’opera monumentale, intitolata Confucius Sinarum Philosophus, sive Scientia Sinensis latine exposita, fu
pubblicata a Parigi nel 1687 per ordine di Luigi XIV. Si tratta dell’opera collettiva di circa trenta gesuiti provenienti
da tutta Europa, compilata sotto la direzione dei fiamminghi Philippe Couplet (1623-1693) e François Rougemont
(1624-1676), dell’italiano Prospero Intorcetta (1626-1696) e dell’austriaco Christian Herdtrich (1624-1684).
12 anne cheng
il pensiero italiano – l’eredità di questo schema hegeliano è tuttora molto forte. Un ma-
nuale di storia della filosofia che dedica un capitolo alla ‘filosofia orientale’ rappresenta,
almeno in Francia, un’eccezione poiché la filosofia è a tutt’oggi considerata – per lo me-
no dalle istituzioni filosofiche – come una disciplina in cui il greco costituisce la lingua
per eccellenza e che ha adottato in un secondo momento il tedesco. Ci si potrebbe allora
persino domandare se per un filosofo dello stampo di Hegel sia mai esistita una filosofia
in lingua francese o italiana, ovvero se fosse a suo parere possibile considerare filosofo
chi non padroneggiasse né il greco né il tedesco.
Il tema della libertà si colloca dunque in questo contesto. Prima però di affrontare
tale questione attraverso considerazioni di carattere filosofico, è opportuno tracciarne
un quadro storico che faciliti la comprensione delle modalità che hanno permesso al
concetto di libertà di approdare in Cina nell’età moderna. Tale concetto è stato inizial-
mente percepito come estraneo a causa delle difficoltà di traduzione, difficoltà che si so-
no presentate anzitutto agli studiosi giapponesi, pionieri in materia di traduzione di
questa nozione. Per sottolineare quanto il concetto di libertà e la sua possibile resa in
lingua cinese abbiamo rappresentato dei fenomeni complessi, suscitando problemi non
solo di ordine linguistico ma anche politico, sociale e culturale, occorre soffermarsi bre-
vemente sul ruolo di mediatore esercitato dal Giappone in questo processo. Ci si può
anzitutto interrogare sulle modalità in cui tale nozione si sia presentata dalla metà
dell’Ottocento, dapprima agli intellettuali giapponesi al momento delle riforme politi-
che dell’epoca Meiji – iniziate nel 1868 – e in seguito agli intellettuali cinesi in un conte-
sto storico alquanto turbolento, ovvero durante le guerre dell’Oppio degli anni 1860.
Per libertà, cosa s’intende esattamente? Questa la prima domanda che si sono posti
gli intellettuali sia cinesi che giapponesi, in virtù delle valenze pluralistiche di questo
concetto. La libertà può essere intesa secondo il significato assunto nella tradizione gre-
co-romana, ovvero come libertas, la condizione dell’uomo libero (il liber) in contrappo-
sizione alla condizione dello schiavo; oppure riferirsi alla libertà dell’uomo in quanto es-
sere creato ad immagine di Dio, qual è adottata nelle controversie sul libero arbitrio al
centro della questione dottrinale della teologia medievale. Infine, la si può pensare nei
termini impiegati nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino elaborati dalla
Rivoluzione francese, o ancora come la intende la tradizione liberale. Queste diverse
valenze di concetto, con cui gli intellettuali cinesi e giapponesi hanno dovuto confron-
tarsi sin dall’inizio, hanno creato loro grandi difficoltà.
Semplificando possiamo affermare che nei loro primi approcci i giapponesi e in se-
guito i cinesi si sono misurati anzitutto con il pensiero anglosassone e in particolare
con quello di John Stuart Mill. On Liberty (Sulla libertà), celebre opera dello studioso in-
glese pubblicata nel 1859, è il primo libro importante sull’argomento ad essere tradotto
dapprima in giapponese e successivamente dal giapponese al cinese. Queste tappe so-
no fondamentali per capire come il concetto di libertà sia stato assimilato ed in seguito
rielaborato dalle tradizioni estremo-orientali. I primi traduttori giapponesi avevano a
disposizione due tecniche distinte per restituire il senso di concetti europei completa-
mente nuovi e estranei alla loro cultura. Non si trattava infatti di rendere esclusivamen-
te il concetto di libertà, ma al contempo di tradurre tutte le nozioni legate alle varie
categorie del sapere occidentale, come il concetto di «filosofia» o ancora quello di «re-
ligione», la cui accezione differiva profondamente in Cina e in Giappone rispetto al-
l’Occidente. Per far fronte alla terminologia d’importazione occidentale dunque, si re-
se necessaria la creazione di neologismi. La prima tecnica di traduzione consisteva
la ricezione del concetto di libertà in cina 13
nella resa fonetica della parola straniera: in questo caso la parola «libertà» veniva resa
in giapponese con riberuci (リべㄦチ). Coloro che hanno una certa familiarità con il
giapponese sanno che la lingua moderna ha integrato numerose parole occidentali e
soprattutto inglesi, peraltro individuabili esclusivamente da un orecchio attento e ca-
pace di riconoscere i nessi fonetici tra parole quali riberuci (リべㄦチ) e «liberty», o tra
«freedom» e furidomu (フリードㄙ). La seconda tecnica consisteva in una traduzione di
tipo semantico, la quale tentava di restituire il senso d’origine della parola. Per fare ciò,
i traduttori giapponesi si sono spesso avvalsi di un lemmario d’origine cinese. Un pro-
cesso, questo, molto complesso e connesso con un’intensa opera di mediazione di lin-
gue e culture diverse.
Per tradurre il concetto di libertà, si ricorse alla terminologia della filosofia cinese
classica, adottando i seguenti termini:
自由
自主
自在
自然
Si tratta di una serie di parole composte da due caratteri e che mostrano, anche per chi
non ha familiarità con il cinese, un elemento comune. La prima parola, ziyou 自由 – che
sarà quella ritenuta più idonea a tradurre il concetto di libertà – corrisponde ad
un’espressione del cinese classico che significa «procedere da sé». È precisamente questo
«da sé» l’elemento comune alle quattro parole. Il secondo termine, zizhu 自主 significa
«essere maestro di sé», mentre il terzo, zizai 自在 «risiedere in sé». La parola che fu infine
adottata, non senza esitazioni da parte dei traduttori giapponesi, fu la prima. Quanto
all’ultima parola, ziran 自然, che ha in comune con le altre la stessa radice, vi ritornere-
mo in seguito, limitandoci per ora a premettere che essa presenta significative analogie
con il concetto di ziyou 自由 e corrisponde in linea di massima all’espressione latina
sponte sua, indicando in altri termini ciò che è relativo agli impulsi e alla spontaneità.
La prima traduzione giapponese di On Liberty apparve nel 1871, a soli dodici anni di
distanza dalla prima edizione inglese del 1859, a dimostrazione di quanto i giapponesi
fossero avidi di sapere occidentale e soprattutto del sapere politico, spinti dall’urgenza
di portare a termine le riforme intraprese all’epoca. Il termine On liberty fu quindi reso
con la parola ziyou 自由. Rispetto all’inglese, tuttavia, questo termine ha un’accezione
diversa, di tipo individualistico nella lingua cinese e rimanda ad un agire secondo i pro-
pri istinti e desideri. Esso può assumere connotazioni alquanto pericolose, poiché oltre
a rendere il concetto di libertà, può nel contempo indicare il libertinaggio. È facile dun-
que intuire quali difficoltà abbiano affrontato i traduttori giapponesi per far sì che tale
parola di origine cinese fosse considerata un termine idoneo per esprimere il concetto
di libertà. Ciononostante, la mediazione giapponese ha preparato il terreno agli intel-
lettuali cinesi della generazione successiva, i quali si sono avvalsi della traduzione giap-
ponese di questa nozione. La parentela tra scrittura giapponese e cinese è cosa nota, co-
me pure il fatto che i giapponesi abbiano preso la scrittura cinese a modello di
riferimento. In questo senso, avvalersi delle traduzioni giapponesi ha significato per gli
studiosi cinesi poter appropriarsi in modo assai diretto ed immediato del sapere occi-
dentale, evitando di addossarsi difficoltà simili a quelle affrontate dai vicini nipponici e
trovandosi per così dire una nozione «pronta per l’uso». La mediazione giapponese è
stata tuttavia in parte occultata dalla Cina a causa degli eventi del Novecento e in primis
14 anne cheng
dell’aggressione da parte del Giappone, rendendo ora difficile effettuare un bilancio
equo ed obiettivo dei contributi dei rispettivi paesi in tale processo. In ogni modo è op-
portuno sottolineare che ritraducendo On Liberty i cinesi, pur avvalendosi della parola
ziyou 自由, hanno inteso la nozione di libertà in termini di sopravvivenza dell’entità ter-
ritoriale e politica della Cina, in particolar modo in un contesto di aggressione da parte
delle potenze occidentali. Le prime traduzioni dal giapponese al cinese di tale nozione
sono infatti apparse durante la rivolta dei Boxer, a cavallo tra Ottocento e Novecento.
Questo dato storico incide sullo slittamento semantico del concetto di libertà: esso rap-
presenta per i cinesi una garanzia di sopravvivenza e di autonomia politica e viene quin-
di considerato come una forza. Ne consegue che essi percepiscano la nozione di diritto
– dei diritti dell’uomo – come un potere capace di garantire l’autonomia.
Prima di analizzare la quarta parola, ziran 自然, ritengo sia opportuno soffermarsi su
un altro termine: quan 權. Questo carattere indica il concetto moderno di diritto; tutta-
via esso rappresenta all’origine una bilancia, designando per derivazione il potere del
sovrano. Il radicale di quan – ossia la radice della parola che indica il campo semantico
generale del termine – è il legno (mu 木), che evoca il materiale di cui era costituita una
bilancia. Nonostante questo termine sia comunemente impiegato nei dibattiti contem-
poranei sui diritti dell’uomo, esso designava originariamente il potere. Ciò implica che
i «diritti» dell’uomo siano percepiti come «poteri» dell’uomo. È quindi indispensabile
avere in mente questo genere di slittamenti semantici quando ci si avventura in dibattiti
tanto complessi. Per tale ragione è opportuno sottolineare quanto le circostanze e gli
avvenimenti di un determinato periodo storico possano incidere sulla comprensione di
concetti d’importazione straniera.
Ho insistito su questi aspetti di carattere storico poiché ritengo importante sfatare il
mito di una Cina eterna, mito che perdura in Francia, dove numerose opere insistono
sul carattere immutabile dell’impero cinese, come se il suo popolo fosse rimasto fossi-
lizzato per tremila anni. Per questo motivo ho tentato di mostrare come un concetto
circoli tra lingue e culture diverse con modalità che possono variare in funzione di par-
ticolari congiunture storiche.
Ci soffermeremo ora sulla parola ziyou 自由, scelta per tradurre il concetto di libertà
e che significa, come sottolineato precedentemente, «procedere da sé». Occorre ricor-
dare a questo proposito che il termine deriva dal vocabolario filosofico della Cina antica
ed in particolare da quello di un autore che risponde al nome di Zhuangzi. Alla cultura
europea sono più noti personaggi quali Confucio – grazie soprattutto ai missionari – e
probabilmente Laozi, in virtù del testo eponimo, meglio conosciuto come Daode jing (Il
Libro della Via e della Virtù), opera a lui attribuita. Meno noto è invece il nome di Zhuan-
gzi, seppure attualmente in Francia siano apparsi numerosi studi sulla figura di que-
st’autore, soprattutto grazie al sinologo svizzero Jean François Billeter.1 Si tratta di un
filosofo vissuto nel iv secolo a.C., all’incirca contemporaneo dei filosofi presocratici
greci, di Socrate e di Platone. Pur non potendo in questa sede attardarci sul pensiero di
quest’autore dell’antichità, è necessario formulare alcune considerazioni sull’uso che
egli faceva della parola ziyou 自由, vale a dire «procedere da sé», che assoceremo al ter-
mine ziran 自然, che significa – come menzionato in precedenza – sponte sua.

1 Jean François Billeter, Leçons sur Tchouang-tseu, Paris, Allia, 2002; Etudes sur Tchouang-tseu, Paris, Allia,
2004; Notes sur Tchouang-tseu et la philosophie, Paris, Allia, 2010.
la ricezione del concetto di libertà in cina 15
Il pensiero di Zhuangzi è segnato da un paradosso: ovvero che l’adeguarsi, l’essere
perfettamente conformi al corso naturale delle cose – che corrisponde all’essere nel Dao
– coincida con la libertà pura. È ben noto che Dao sia uno dei termini che hanno con-
tribuito a creare il mito di una Cina eterna. Avvolta da un alone di mistero, di fatto que-
sta parola indica semplicemente la via, il cammino o il fatto stesso di camminare. A ri-
schio di semplificare in maniera eccessiva, occorre ricordare che nella filosofia europea
il concetto di libertà è stato elaborato in opposizione a quello di necessità; nel pensiero
di Zhuangzi al contrario – in ciò risiede il paradosso – trovarsi nella necessità pura, la
necessità di ciò che non può essere altrimenti, rappresenta di fatto la vera libertà.
Quest’idea occupa uno spazio estremamente importante nel pensiero cinese antico, in-
teso in senso generale. Si prenda ad esempio un passo molto bello di Confucio in cui il
filosofo, giunto all’età di settant’anni, fa una sorta di bilancio della propria vita. Piutto-
sto che insistere sulla carica di ministro occupata nello stato di Lu – suo paese d’origine
– o su altri dati biografici, Confucio ci offre una riflessione sulle diverse età della vita:
«A quindici anni, decisi di apprendere. A trenta, ero saldo sulla via. A quaranta, non ave-
vo più dubbi. A cinquanta, compresi il decreto del Cielo».1
In questo contesto, l’espressione «conoscere il decreto del Cielo» indica la compren-
sione, da parte di Confucio, di ciò che il Cielo gli ha ordinato. All’età di cinquant’anni
si comprende quindi ciò che viene ordinato dal corso naturale delle cose, poiché per
Cielo gli autori cinesi antichi non intendono un’entità superiore, soprannaturale o una
divinità, quanto piuttosto il Dao. Popolo di agricoltori, i cinesi osservano costantemente
il Cielo ed il percorso dei corpi celesti, ed è a tale percorso che fanno riferimento, defi-
nendolo Dao, cammino naturale.
In seguito Confucio affronta l’età successiva, i sessant’anni. Questa età, considerata
in Occidente come l’inizio della vecchiaia, del decadimento fisico e dunque della pen-
sione, nella Cina antica era concepita in tutt’altri termini, come sottolinea lo stesso
Confucio che così prosegue: «A sessanta il mio orecchio era perfettamente intonato».
Grazie a quest’immagine profondamente musicale, Confucio afferma che all’età di
sessant’anni si raggiunge dunque una completa sintonia e si acquisisce la capacità di ar-
monizzarsi col Dao, ovvero col corso naturale delle cose e col divenire degli esseri vi-
venti. Ma il culmine viene raggiunto all’età di settant’anni: «Agivo seguendo il mio cuo-
re, senza per questo trasgredire alcuna norma».
Questo passaggio illustra perfettamente come il concetto di libertà fosse inteso nel-
l’antichità: il grado di libertà raggiunto è tale che esso coincide in un certo senso con la
pura necessità, necessità non intesa in senso costrittivo, ma che trova un’eco piuttosto
nel gesto del calligrafo o nell’opera di un Henri Matisse, il quale affermava in età avan-
zata che questa scaturisse direttamente dal suo cuore. Una tale definizione di libertà ri-
sulta paradossale per le correnti di pensiero europee, le quali, ad esclusione dello stoi-
cismo, hanno elaborato i concetti di libertà e di necessità in opposizione l’uno all’altro.
Secondo Zhuangzi la spontaneità permetterebbe di giungere ad una totale libertà in-
dividuale. Applicata all’uomo nel suo rapporto con il mondo, la nozione di ziran –
espressione al contempo estremamente sintetica ed evocativa della lingua cinese –pre-
suppone che il saggio intrattenga un tale rapporto «senza essere reificato dalle cose»,

1 Dialoghi, ii, 4. Cf. Anne Cheng, Confucio Dialoghi (traduzione dal francese di Claudio Lamparelli), Milano,
Mondadori, 1989, p. 29.
16 anne cheng
concetto reso perfettamente in italiano da Amina Crisma: «Il saggio è colui che non es-
sendo reificato dalle cose è capace di trattare le cose come cose».1 Ciò presuppone che
il saggio accolga la realtà e le cose come uno specchio, oggetto che si limita a riflettere,
a rimandare le immagini senza cercare di farle sue o di esercitare un qualsivoglia influs-
so su di esse. Esso non cerca di plasmarle né di interpretarle, ma si limita a rifletterle
così come sono. La mente veramente libera è, secondo Zhuangzi, come uno specchio.
Quest’idea sarà ripresa più tardi dal buddhismo ed in particolare dal buddhismo Chan,
meglio conosciuto in Occidente come Zen (secondo la pronuncia giapponese). Scuola
di origine indiana, il Chan si sviluppò dapprima in Cina per poi essere introdotto in
Giappone in una fase successiva. Ci troviamo quindi di fronte ad un esempio paradig-
matico di come si siano rovesciati i rapporti tra Cina e Giappone: fino all’età moderna
le conoscenze erano trasferite dalla Cina al Giappone, in seguito è avvenuto il contrario.
In merito allo spirito del saggio che funziona come uno specchio, così commenta un
pensatore cinese contemporaneo:
Di solito noi conosciamo le cose attraverso i concetti e i nomi. Quando li applichiamo alle cose
che si presentano alla nostra attenzione noi andiamo loro incontro. In tal caso, lo spirito non è
puramente ricettivo. Il solo mezzo per rimediare a queste modalità consuete del pensiero è tra-
scendere ed espellere i concetti e i nomi che ci sono abituali al fine di consentire che si faccia il
vuoto nel nostro spirito. È allora che lo spirito diviene puramente ricettivo e pronto ad accogliere
pienamente le cose, e in tal modo ogni cosa ci diviene trasparente. Si producono allora l’illumi-
nazione e l’oblio di sé.2
In tale prospettiva, la libertà si ottiene tramite l’oblio di sé. È questo un tema ricorrente
nell’opera di Zhuangzi, il quale considera il sé come uno schermo che rischia di ostaco-
lare il rapporto con la realtà. La libertà si ottiene solo qualora si dimentichi l’esistenza
del sé, divenendo pura spontaneità (ziran).
Pur essendo consapevole che si tratti di una questione estremamente difficile e com-
plessa, vorrei porre un interrogativo a proposito di questa particolare concezione di li-
bertà qual é elaborata nel pensiero cinese antico. Per sintetizzare, è possibile affermare
che tale libertà può essere vissuta esclusivamente in termini individuali, per esempio
grazie allo yoga o alla meditazione, pratiche che permettono di accedere ad uno stato
di «specchio mentale». Si tratta di pratiche esclusivamente individuali, mentre qualora
la libertà sia pensata in termini di collettività, vale a dire in termini politici, sorgono
enormi problemi. Infatti nel pensiero taoista la concezione di spontaneità pura ha as-
sunto la valenza di energia pura, di forza pura. Lo ziran per il Laozi ha preso il significato
di corso spontaneo e libero dell’energia (il qi 氣), le cui pratiche sono molto popolari in
Occidente nei giorni nostri: mi riferisco in particolar modo alle arti marziali le quali, no-
nostante siano oggi assimilate ad esibizioni da circo, costituiscono nondimeno delle
pratiche dell’energia vitale. Vorrei sottolineare che tale teoria della spontaneità com-
porta il rischio di venire facilmente sovvertita in pensiero dell’energia pura, ovvero di
sfociare nel vitalismo. Basti pensare a come il vitalismo sia stato tradotto, nella tradizio-
ne antica, in termini risolutamente politici. Sapere che il Laozi ha ispirato un’ideologia

1 Anne Cheng, Storia del pensiero cinese (traduzione dal francese da Amina Crisma), 2 vol., Torino, Einaudi,
2000, vol. 1, p. 121.
2 Tang Junyi, The Individual and the World in Chinese Methodology, in Charles A. Moore (ed.), The Chinese Mind:
Essentials of Chinese Philosophy and Culture, Honolulu, University of Hawai’i Press, 1967, p. 272.
la ricezione del concetto di libertà in cina 17
totalitaria potrebbe certo stupire coloro che lo hanno letto come un manuale di medi-
tazione o come un’opera New Age. Il più antico commentario del Laozi è infatti opera
di Han Feizi (iii secolo a.C.), primo teorico del totalitarismo, sulla base del cui pensiero
venne edificato l’impero. Tale ideologia era fondata sul presupposto che l’ordine uma-
no, vale a dire politico, s’identificasse o addirittura si confondesse con l’ordine naturale.
Essa presuppone quindi che l’ordine politico, per essere tale, debba piegarsi all’ordine
naturale, cosmico. Si tratta di un pensiero che può pertanto risultare estremamente pe-
ricoloso, poiché non contempla alcuna forma di opposizione e di contestazione: la con-
tinuità tra ordine del cosmo e ordine socio-politico implica che quest’ordine debba es-
sere totalitario.
Bisognerebbe chiedersi al contrario se il raggiungimento della libertà – almeno intesa
in termini politici e collettivi – non richieda una rottura di questo continuum. Rottura
che non è stata presa in carico dalla tradizione imperiale cinese che, seppur non chiusa
su se stessa ed immutabile per duemila anni, reca tuttora i segni di tale ordine imperiale.
Quest’ordine che presuppone che il potere fluisca dall’alto verso il basso, scaturendo pe-
rennemente da un’unica fonte, ha reso impraticabili in Cina i molteplici modelli di or-
ganizzazione socio-politica europei. In un certo senso questo schema è ancora domi-
nante nella Cina attuale.
FREE WILL AND INDIAN PHILOSOPHY
Johannes Bronkhorst

he Oxford Handbook of Free Will observes, with regard to Western philosophy, that
T the problem of free will and necessity (or determinism) is «perhaps the most volu-
minously debated of all philosophical problems».1 This should not surprise us. This ab-
struse philosophical problem is directly related to a conviction that most of us in the
modern world share, and that was well formulated by William James:
the whole feeling of reality, the whole sting and excitement of our voluntary life, depends on
our sense that in it things are really being decided from one moment to another, and that it is not
the dull rattling off of a chain that was forged innumerable ages ago.2

Many people feel that there is a contradiction between this conviction and one of the
tasks which science sets out to address, viz., finding the rules that govern «the rattling
off of a chain forged innumerable ages ago».
This is not the place to review the different ways in which modern scholars, scientists
and philosophers try to solve the problem.3 James himself was inclined to a spiritual
solution. Others have tried to capitalize on the presumed discovery that nature itself in
its fundamental functioning does not seem to be governed deterministically.4 Others
again have argued that the almost infinite complexity of processes in the human brain
offers us something as good as free will, even if it is not quite the real thing.5
Many psychologists do not waste time on this question. They may be willing to grant
that we have the feeling of conscious will, and may try to explain why. They are not will-
ing to assign a causal role to this feeling in the mechanism that governs our behavior.
They present a variety of arguments and experimental findings to prove The Illusion of
Conscious Will.

Johannes Bronkhorst, Université de Lausanne, Lausanne; johannes.bronkhorst@ unil.ch


This article is indebted to two earlier publications of mine: (i) Appendix ii.3 (Psychology and free will) of my
Absorption: Two Studies of Human Nature (Bronkhorst 2012); (ii) Chapter §4 (Vai®esika and Nyaya psychology) of
my Karma and Teleology: A problem and its solutions in Indian philosophy (Bronkhorst 2000, pp. 17-21). Thanks are
further due to Elisa Freschi.
1 Kane 2002, p. 3, citing Matson 1987, i, p. 158. Dennett (1984, p. 2), commenting on this claim, states: «Any
philosopher ought to feel at least a little embarrassed that with so much work so little progress has been made».
2 James 1890, i, p. 453.
3 The Oxford Handbook of Free Will (Kane 2002), already mentioned, provides a useful presentation of the main
positions. See also Fischer et al. 2007.
4 This remains far from certain. Almost a century after its creation, the indeterministic nature of quantum
physics is regularly challenged. See the review articles in «New Scientist» of 22 March 2008 and 28 March 2009,
and the cover story of 30 April 2011 («End of uncertainty: Goodbye Heisenberg. Hello quantum certainty?»).
Another difficulty with this approach is how undetermined, i.e. random, processes can be supposed to account
for free will.
5 See, e.g., Dennett 2003, p. 225: «I claim that the varieties of free will I am defending are worth wanting
precisely because they play all the valuable roles free will has been traditionally invoked to play. But I cannot deny
that the tradition also assigns properties to free will that my varieties lack. So much the worse for tradition, say
I». The Varieties of Free Will Worth Wanting is the subtitle of an earlier book by Dennett (1984).
20 johannes bronkhorst
This, incidentally, is the title of a book by the psychologist Daniel M. Wegner (2002).
It will be useful to consider the position he puts forward. Conscious will, he points out
(p. 67),
is not a direct perception of [the] relation [between thought and action] but rather a feeling based
on the causal inference one makes about the data that do become available to consciousness –
the thought and the observed act.
The experience of will … is the way our minds portray their operations to us, not their actual op-
eration. Because we have thoughts of what we will do, we can develop causal theories relating
those thoughts to our actions on the basis of priority, consistency, and exclusivity. We come to
think of these prior thoughts as intentions, and we develop the sense that the intentions have
causal force even though they are actually just previews of what we may do. (p. 96).
It follows, Wegner thinks, that conscious will is an epiphenomenon: «Just as compass read-
ings do not steer the boat, conscious experiences of will do not cause human actions»
(p. 318).
James’s conviction that things are really being decided by us from one moment to an-
other will find little comfort in Wegner’s position. He thought that this conviction is in-
compatible with the other one according to which reality is «the dull rattling off of a
chain that was forged innumerable ages ago». Wegner, too, thinks that these two are in-
compatible. In reality they are not. For Wegner, the real action takes place in the brain,
or in the unconscious mind. There is there no place for conscious will. Seen this way,
this is a mere epiphenomenon with no causal role to play. However, Wegner’s conclu-
sion is the outcome of his prior decision as to what psychology is all about. The decision
that the real action is confined to the brain, or to processes that remain below the sur-
face, cannot but exclude conscious activities from the causal chain. It follows from such
an a priori decision that all the decisions we take, including difficult ones which require
much thought (as opposed to the lifting of a finger which figures so prominently in
Wegner’s experiments), are no real decisions at all.
Wegner’s position has to face some serious difficulties. If, as he claims, conscious will
is an illusion, an epiphenomenon that plays no role in determining our behavior, then
the elements that go into the making of conscious will, ultimately pleasure and pain,
play no such role either. This raises the question why evolution has provided us with
those experiences to begin with. The obvious answer – viz. that pursuing pleasure and
avoiding pain bring evolutionary rewards – is impossible to maintain if those experi-
ences cannot even in principle influence behavior.1
If, unlike Wegner and so many other modern thinkers, we opt for a psychology which
includes experiential elements, James’s incompatibility disappears. In that case, our de-
cisions can have a causal effect, for the simple reason that our decisions are part of the
causal chains which our psychology seeks to uncover. This choice does not introduce in-
determinism, to be sure. The causal chains of this new psychology can be as determin-
istic as any. ‘Free’ choices are determined by prior events, whatever their precise nature.

1 Compare the opening sentence of Jeremy Bentham’s Introduction to the Principles of Morals and Legislation:
«Nature has placed mankind under the governance of two sovereign masters, pain and pleasure. It is for them alone
to point out what we ought to do, as well as to determine what we shall do». (cited Kahneman 2011, p. 377) Note
further that pleasure and pain are «multiply realizable»: «They can … be embodied in highly diverse kinds of phys-
ical-chemical processes and substrates». (Deacon 2012, p. 29)
free will and indian philosophy 21
Yet the main demand of those who insist on the acceptance of conscious will, their con-
viction that their decisions are ‘real’ and have causal efficacy, is now fulfilled. As some re-
cent researchers have correctly pointed out: «determinism does not imply that our de-
liberations and conscious purposes are causally irrelevant to what we do».1 The difficult
and painful decisions we sometimes have to make are not just the feelings that accom-
pany processes that are beyond our ken and control. On the contrary, these decisions are
the way in which a process that may be fundamentally deterministic unfolds.2
Introducing experiential notions into psychology as functional elements (rather than
as accompanying epiphenomena) means abandoning (at least for the time being) the at-
tempt to explain human behavior exclusively in terms of ultimately physical and chem-
ical processes. This is a step other sciences have taken before, so it should not count as
an obstacle.3 Evolutionary biology, to take an example, does not and cannot provide the
insights we expect from it if it refuses to think of phenotypes as opposed to genotypes.4
A full account of the molecular processes in organisms is unlikely to clarify why certain
species survive and others don’t. The biologist has to think simultaneously on different
levels if progress is to be made in his field.
A different yet comparable situation may prevail in the study of human psychology.
If we wish to make headway, we have to find place for conscious experiences, not as by-
products, but as functional elements of the theory to be constructed.5 This is not quite
as radical as it may seem at first sight. Goal-directed activity, requiring cognitive maps
and goal-seeking, is known from living organisms of all levels of complexity.6 The ques-

1 Nahmias, Coates & Kvaran 2007, p. 220.


2 Similar remarks could be made about intellectual effort. To cite Mary Midgley: «When Einstein has just
solved a difficult problem, his reasoning cannot be explained by giving even the most accurate account of the ac-
tions of his neurons. To suggest that their actions were its real cause would mean that they did the work on their
own and told him about it afterwards. Anyone who has tried leaving such work to their neurons will agree that
this story is improbable». (letter to «New Scientist», 3 January 2009)
3 An extensive literature has developed around the question of different levels of explanation, and the related
issue of reductionism; see e.g. McCauley 2007; Looren de Jong 2002; Hofstadter 2007, 37 ff. An important
concept here is ‘emergence’ – the notion that important kinds of organization may emerge in systems of many
interacting parts, but not follow in any way from the properties of those parts. See the various contributions in
Clayton & Davies 2006. For a sophisticated attempt to explain mind from matter, see Deacon 2012.
4 «Because the genotype is asymmetrically dependent on the phenotype with respect to natural selection …,
it is the phenotype that offers the best causal explanation of reproductive success … . The phenotypic level has a
causal efficacy and explanatory legitimacy of its own, even if the phenotype is determined by the genotype
(among other things). Identifying phenotypic traits is not a merely heuristic, free-for-all, essentially void kind of
explanation, but rather, it taps real causal factors in an organism’s chances of survival». (Schouten & Looren
de Jong 2004, p. 312).
5 Philosophers will be inclined to invoke the help of emergence; see note 3, above. «Materialist theories of mind
… seek to do justice to two compelling but apparently incompatible scruples. One is that ours is a physical world,
everything happening within it open to physical explanation. The other is that mindedness is a matter of causal sig-
nificance, that it makes a causal difference that there are minds. The more we feel the pull of one of these scruples,
the more mysterious becomes the other. A robust commitment to physicalism leaves the mind looking like an
epiphenomenal by-product of natural processes, a causally inert shadow. But a view of the mind as possessing ae-
tiological autonomy threatens to re-enchant the physical world with supernatural causes and effects. The attrac-
tion of emergentism is that it offers a way to escape the dilemma. An emergentist tries to prise free the soundly
motivated scruples about the dependence and autonomy of the mental from too-rigid theory, to see the problems
as symptoms of the fact that an insight has been poorly encoded in doctrine». (Ganeri 2011, pp. 696-697).
6 Some quotations from thinkers in this field illustrate this: Rose 2003, pp. 177-178: «despite its popularity with
psychological theorists, modellers and neurobiological experimenters, association cannot be the only way in which
memory occurs … For instance, on Skinner’s theory, rats ought to learn to run a maze correctly by learning each
correct turn (first left, second right and so on) individually and sequentially as a chain of stimuli and responses. But
it was quite straightforward to show, by rearranging the maze or altering the cues within it, that the animals are
22 johannes bronkhorst
tion how such cognitive maps and goal-seeking are to be explained without introducing
homunculi (little human beings inside human beings used to explain the latters’ behav-
ior) is complex. Dennett (2005, pp. 137, also 161) suggested:
As long as your homunculi are more stupid and ignorant than the intelligent agent they compose,
the nesting of homunculi within homunculi can be finite, bottoming out, eventually, with agents
so unimpressive that they can be replaced by machines.
This, however, will not do. Deacon (2012, pp. 83-84) rightly comments:
everything [in Dennett’s suggestion] depends on mental processes being a cumulative effect of
the interactions of tiny mindless robots. Though the homunculus problem is in this way subdi-
vided and distributed, it is not clear that the reduction of complex intentionality to many tiny
intentions has done any more than give the impression that it can be simplified and simplified
until it just disappears. But it is not clear where this vanishing point will occur. Though intuitively
one can imagine simpler and simpler agents with stupider and stupider intentional capacities, at
what point does it stop being intentional and just become mechanism?

And on p. 139 he states: «No fractionation … into modules of even smaller scope and
proportion allows the apparent arrow of causality to reverse». Much of the remainder
of Deacon’s book is a sophisticated attempt to show that this arrow of causality can ac-
tually reverse, and how.
This is not the occasion to enter into the details of this fundamental discussion. It
should however be clear that much is gained by including experiential notions as func-
tional terms into psychology. This is indeed the position here taken. One of its imme-
diate rewards, as we have seen, is that the so-called problem of Free Will loses its fangs.
More precisely put, once the causal role that conscious will can play is acknowledged,
the so-called problem of free will is no more than an abstruse philosophical problem
that, even if it could be given a precise formulation (which I doubt), will no longer de-
serve the attention it receives from specialists and lay people alike.

The preceding reflections may be read as an argument in favor of a psychology that in-
cludes experiential notions as functional elements. There may be a need for that in mod-
ern science, but that is not the point to be made here. I will rather argue in what follows

not so inefficient; instead they seem after a few trials to be able to form some sort of a global image of the maze, a map
if you like, in their brains, so that wherever they are placed in it they can deduce where the goal may be and adopt
the most efficient route towards it without being excessively confused by the rearrangement of the maze. Animals
use strategies when they learn; they can create concepts. To understand such mechanisms it is not adequate to re-
duce them to linear sequences of stimulus-response, positive and negative reinforcement». (my emphasis, JB). Also
p. 269: «Cognitive behaviour is not reducible to simple sequences of contingencies of reinforcement but instead re-
flects goal-seeking activities, hypothesis making and many other features which had hitherto been dismissed from
consideration within the Anglo-American tradition in psychology». Rose 2005, p. 22: «[A] free-living cell … needs
to be able to respond appropriately to … changes. One way of conceiving of this capacity to vary a program is as
an action plan, an ‘internal representation’ of the desired goal – at its minimum, that of survival at least until repli-
cation is achieved». Intelligence in cells is also defended in Ford 2009. See further Kandel 2005, p. 118: «investiga-
tions which fail to consider internal representations of mental events are inadequate to account for behavior, not
only in humans but – perhaps more surprisingly – also in simple experimental animals». Freeman 1999, pp. 120-121:
«the ingredients received by brains from their sensory cortices with which to make meanings are produced by the
cortices. They are not direct transcriptions or impressions from the environment inside or outside the body. All
that brains can know has been synthesized within themselves, in the form of hypotheses about the world and the
outcomes of their own tests of the hypotheses, success or failure, and the manner of failure».
free will and indian philosophy 23
that such psychological theories are not unknown in classical India. I will first concen-
trate on the aspect of Vai®esika philosophy (and of the Nyaya philosophy that is strong-
ly influenced by Vai®esika) that deals with human behavior.
Vai®esika has seriously tried to explain human behavior in non-teleological terms. In
this system, the soul is conceived of as a motionless substance. Like other substances,
it can have qualities. Many of the qualities that can inhere in certain other substances,
however, – such as color, or smell, and so on – cannot inhere in the soul. And many of
the qualities that can inhere in the soul cannot inhere in those other substances.
The list of qualities that can only inhere in the soul are together responsible for
Vai®esika psychology.1 As enumerated in the Padarthadharmasamgraha, alias Pra®asta-
padabhasya, they are: knowledge (buddhi), pleasure (sukha), pain (duhkha), desire (iccha),
aversion (dvesa), effort (prayatna), virtue (dharma), sin (adharma), subliminal impres-
sions (samskara).2 The order of this enumeration is not arbitrary. Knowledge of an
object – usually perception – precedes the experience of pleasure or pain connected
with that object; this in its turn gives rise to desire and aversion respectively; next in line
follows effort that seeks to obtain or avoid that object; as a result virtue and sin come
into being, as well as subliminal impressions.
If for the moment we leave aside the issue of virtue and sin, we see that the Vai®esika
scheme has a behaviorist flavor to it: behavior that leads to good experiences is repeated,
behavior that leads to bad experiences is henceforth avoided. But unlike behaviorism,
Vai®esika does not avoid experiential terms – most notably «knowledge», «pleasure»,
«pain», «desire», and «aversion» – which have a place in the fundamental scheme.
Consider the following nutshell description of psychology in the Nyaya Bhasya, a text
that follows the Vai®esika scheme:3
A [soul] which, being conscious, recognizes that pleasure can be produced through a [certain]
means and which, desiring to obtain that [pleasure], makes an effort to obtain the means, will
be connected with pleasure, not [a soul] which is the opposite [of this]. And a [soul] which rec-
ognizes that pain can be produced through a [a certain] means and which, desiring to avoid that
[pain], makes an effort to give up the means, will be abandoned by pain, not [a soul] which is the
opposite [of this].
Elsewhere the same text adds some details:4
From … incorrect knowledge result attraction (raga) towards agreeable things, and aversion
(dvesa) towards disagreeable things. Under the influence of attraction and aversion, faults (dosa)
such as untruth, jealousy, deceit and greed come into being. Prompted by [these] faults [a per-
son], while acting with his body, practices violence, theft and forbidden forms of sexual inter-
course; [while acting] with his voice [he engages in] lying, abusive speech, slander and incoherent
[speech]; [while acting] with his mind [he engages in] plotting against others, craving other peo-

1 See Bronkhorst 1993, pp. 62. 2 See WI, p. 16 §80.


3 NBh, p. 917 l. 9-11 (on NS 3.2.72): yah khalu cetanavan sadhananirvartaniyam sukham buddhva tad ipsan
sadhanavaptaye prayatate sa sukhena yujyate na viparitah / ya® ca sadhananirvartaniyam duhkham buddhva taj jihasuh
sadhanaparivarjanaya yatate sa ca duhkhena tyajyate na viparitah/.
4 NBh, p. 76 l. 10-15 (on NS 1.1.2): etasman mithyajñanad anukulesu ragah, pratikulesu dvesah / ragadvesadhikarac
casatyersyamayalobhadayo dosa bhavanti / dosaih prayuktah ®arirena pravartamano himsasteyapratisiddhamaithunany
acarati, vaca ‘nrtaparusasucanasambaddhani, manasa paradroham paradravyabhipsam nastikyam ceti / seyam papatmika
pravrttir adharmaya / atha ®ubha: ®arirena danam paritranam paricaranam ca, vaca satyam hitam priyam svadhyayam
ceti, manasa dayam asprham ®raddham ceti / seyam dharmaya/.
24 johannes bronkhorst
ple’s property and apostasy. This sinful activity gives rise to sin (adharma). As to pure [activity]:
with his body [he practices] liberality, protecting [others] and serving them; with his voice [he
speaks] what is true, beneficial and agreeable, and [he does] his Vedic recitation; with his mind
[he practices] compassion, non-desiring and trust. It gives rise to virtue (dharma).
The very presence of a desire proves that there must have been an agreeable experience
preceding it. This argument is used in the Nyaya Sutra and Bhasya to establish that the
soul is eternal, or more precisely, that the soul existed before its present birth, for a new-
born being desires the breast of its mother:1
The soul is also eternal for the following reason: Because of the desire for maternal milk in the case
of a person who has died [and is reborn]2 which has been brought about by the repeated experience of being
fed [in this way] (ns 3.1.21). A desire for maternal milk, characterized by activity, is observed in the
case of a just born living being. This is not [possible] without the repeated experience of being
fed. Why? Since it is seen that embodied beings that are suffering from hunger develop a desire
to be fed as a result of the series of memories created by the repeated experience of being fed.
This [desire] is not possible in the case of a just born being without the repeated experience [of
being fed] in an earlier body. An earlier body is therefore inferred, in which this [just born living
being] repeatedly experienced being fed.
For our reflections it is crucial that the scheme underlying these passages uses experi-
ential terms. These experiential terms refer to mental states that are part of the mech-
anism that underlies human behavior. Like all attempts at scientific explanation, deter-
minism is more or less presupposed. It is, at any rate, not an issue in the Indian texts
concerned. More precisely, the question of free will is not an issue, because there is no
place for a felt contradiction between decisions and the mechanism that makes humans
act; there is no place for such a contradiction because human mental activity plays a cru-
cial role in the process. Determinism, seen this way, takes nothing away from the free-
dom to act in accordance with one’s feelings, because these feelings are themselves part
of the mechanism described.
Nyaya-Vai®esika psychology, then, is the kind of psychology in which the conflict be-
tween conscious will and determinism does not arise, because even if we think of it in
deterministic terms, this does not deprive humans of the possibility to act in accordance
with their will. To repeat it once more: free will is not an issue in Nyaya-Vai®esika be-
cause its psychology uses experiential terms among its fundamental notions.

Should we conclude from what precedes that Indian thinkers were immune to the issue
of free will and determinism? I do not think so. In systems of thought that postulated
that other, ‘deeper’, forces than the human will determine one’s actions, the conflict be-
tween the two was acutely felt. An example is provided by the Ajivikas, a religion that
vanished from India without leaving us any texts, but about which we know enough to
assert with confidence that it adhered to a thorough-going determinism.3 Most impor-

1 NBh, p. 745 l. 6 - p. 746 l. 2 (on NS 3.1.21): ita® ca nitya atma: pretyaharabhyasakrtat stanyabhilasat (NS 3.1.21) / jata-
matrasya vatsasya pravrttilingah stanyabhilaso grhyate / sa ca nantarenaharabhyasam / kaya yuktya? dr®yate hi ®aririnam
ksudha pidyamananam aharabhyasakrtat smarananubandhad aharabhilasah / na ca purva®arirabhyasam antarenasau
jatamatrasyopapadyate / tenanumiyate bhutapurvam ®ariram yatranenaharo ‘bhyasta iti/. Preisendanz (1994, 365 f., n.
100) refers to other texts, also outside the Nyaya tradition, that use this argument.
2 On the difficulty of interpreting pretya here, see Preisendanz 1994, 369 f.
3 See Bronkhorst 2003. It is possible that determinism also characterized early Jainism; Bronkhorst 2000a.
free will and indian philosophy 25
tantly, this determinism did not involve the human will. One of its fundamental beliefs
was that all living beings have to pass through an astronomical number of lives spread
over 8,400,000 great world periods (maha-kalpa), at the end of which they will all of
them, ‘fool and wise’, be liberated. In this process the human (or animal) will is power-
less against the forces that are responsible for the fate of living beings. The result is fa-
talism, the conviction that our will is not free. An Ajivika alive today (unfortunately
there are none) might say that the experience of free will is an epiphenomenon.
Fatalism is also known to the Sanskrit epic called Mahabharata. It is referred to as
Kalavada (‘doctrine of Time’).1 It is here sometimes presented as being altogether dif-
ferent from the doctrine of karmic retribution:2 «One does not get anything through
his deeds». Other passages show that no such opposition was felt:3 «Realize that Time
has deeds for its bodily form (karmamurtyatmaka) – it is witness to deeds good and
bad, and it yields its fruit later in Time, giving rise to pleasant and unpleasant things».
And again:4 «The universe is driven by action that is yoked to Time (kalayukta)».
Whether ultimately caused by deeds or otherwise, Kala determines one’s fate in a
way that is inescapable. The Ajivikas used the term Niyati (‘destiny, fate’) to empha-
size the fatalistic aspect of their doctrine. The existence of Niyati does not deny the
role of deeds; quite on the contrary, it describes how karmic retribution works ac-
cording to the adherents of this school of thought. Kala plays a similar role in the
Mahabharata: it may simply sum up the workings of deeds in the opinion of those
who think that karmic retribution follows a fixed pattern from which there is no es-
cape for the individual.
More important, and interesting, for our purposes is the Carvaka school of philoso-
phy. This school explicitly opted for a materialist vision of the world, and claimed in its
foundational text – the Carvaka- or Barhaspatya-sutra – that consciousness is derived
from the four material elements. The relevant sutras read (Bhattacharya 2002, pp.
603-604):
i.2: prthivy apas tejo vayur iti tattvani
i.3: tatsamudaye ®arirendriyavisayasamjñah
i.4: tebhya® caitanyam
This may be translated as follows:
i.2: Earth, water, fire and air are the principles, nothing else.
i.3: Their combination is called ‘body’, ‘sense’ and ‘object’.
i.4: Consciousness [arises] out of these.
It seems clear from this that mental states play no role in the activity of living beings,
and this appears to have been the conviction of the author of this text and of most of
his followers. But not of all of them.
The materialistic position of the Carvaka-sutra does not leave place for mental phe-
nomena except as epiphenomena. At least one commentator on this text, Udbhata,5
was not happy about this, and made an effort to find an interpretation that allows them

1 See Scheftelowitz 1929; Vassilkov 1999; further Hill 2001, 195 ff.; González-Reimann 2002, pp. 20-50;
Bronkhorst 2007, 105 f.; Malinar 2010. 2 Mhbh, 12.26.5a: na karmana labhyate.
3 Mhbh, 12.34.7; tr. Fitzgerald 2004, p. 243. 4 Mhbh, 12.34.10cd.
5 Udbhata was both a Carvaka and a grammarian; Bronkhorst 2008.
26 johannes bronkhorst
a more active role. He did so by proposing a different interpretation to a number of su-
tras, most notably the numbers i.2 and i.4 considered above. In sutra i.2 he took iti not
to indicate that the enumeration is complete (‘nothing else’), but rather the opposite,
viz., that there are further elementary principles, which he then enumerated:1
yad acasta bhattodbhatah: “iti®abdah pradar®anaparo na punah samaptivacana® caitanya®abda-
sukhaduhkhecchadvesaprayatnasamskaranam tattvantaratvat …”
Bhattacharya (2002, p. 615) translates (modified):
As said Bhatta Udbhata, “The word iti does not denote the end [but] is illustrative. There are oth-
er principles, viz. consciousness, sound, pleasure, pain, desire, aversion, effort, subliminal im-
pressions. …”
It is clear from this quotation that Udbhata adds mental phenomena (consciousness,
pleasure, pain, desire, aversion) to the list of elementary principles, and therefore as
functional elements. The added elements, be it noted, correspond almost term by term
to the qualities that can only inhere in the soul according to Pra®astapada, studied
above.
Scholars have wondered whether Udbhata’s addition of Vai®esika qualities to the Car-
vaka list of elementary principles is due to a special link that Udbhata may have had
with the Vai®esika (or Nyaya) school of thought.2 We do not have to address this ques-
tion here. For our present enquiry it suffices to consider that Udbhata appears to have
felt the need to raise mental phenomena to something more than mere epiphenomena
resting on the material elements which alone are ultimately real.
This consideration is strengthened by Udbhata’s interpretation of sutra i.4. We had
translated it as «Consciousness [arises] out of these (i.e., out of the four material prin-
ciples)», and this was most probably its intended meaning. Udbhata makes use of an
ambiguity of Sanskrit (tebhyah can be a dative as well as an ablative case) to propose a
different interpretation:3
udbhatena tu “bhutebhyah” iti padam caturthyantataya vyakhyatam, bhutebhya® caitanyam bhutar -
tham caitanyam svatantram eva ®arirarambhakabhutopakarakam ity arthah
Udbhata interprets the expression “from the elements” (i.e. “out of these” in sutra i.4) as being
in the dative, meaning consciousness is to or for the elements;4 [he says that] consciousness is au-
tonomous and is an assistant to the material elements which constitute the body.
Philosophically the proposal to allow mental elements to play an assisting role, beside
material elements, is not free from difficulty; this has been shown by Ganeri in a recent
article (2011). However, we are at this moment not so much interested in the philosoph-

1 Passage quoted from Vadidevasuri’s Syadvadaratnakara (edited by Motilal Ladhaji Osval, Delhi, Bhartiya
Book Corporation, 1988, p. 1087, l. 1-4) reproduced in Bhattacharya 2002, p. 607, Bha 16.
2 So, e.g., Bhattacharya 2010, p. 423 («Aviddhakarna and Udbhata were basically Naiyayikas. Even if they
were converted to the Carvaka/Lokayata, they brought the whole baggage of Nyaya-Vai®esika terminology when
they composed their commentaries on the Carvakasutra»).
3 Passage quoted from Cakradhara’s Granthibhanga (edited by Gaurinath Sastri, along with Jayantabhatta’s
Nyayamañjari, Varanasi, Sampurnanand Sanskrit Visvavidyalaya, 1982-1984, pp. 257-258; edited by N. G. Shah,
Ahmedabad, 1972, p. 197) reproduced in Bhattacharya 2002, p. 606. Tr. Ganeri 2011, p. 689, modified.
4 Del Toso’s (2011, p. 52) interpretation of bhutartha as «object/thing made by / based on elements» is not
possible.
free will and indian philosophy 27
ical possibility of Udbhata’s position, but rather in the reason why he reinterpreted the
sutras considered the way he did.1
This reason, I suggest, is that Udbhata was not willing to put up with the fatalism im-
plicit in the strict materialism of Carvaka thought. He was not willing to accept that de-
sire and other mental phenomena are mere epiphenomena. He saw that Nyaya-Vai®esi-
ka thought included a psychology in which there was a possibility for human wishes
and desires to play a role. Carvaka thought had no place for such a psychology. To
change that, Udbhata took from Nyaya-Vai®esika the elements he needed – essentially
experiential elements – and added them onto Carvaka ontology. In doing so, he created
a variety of Carvaka philosophy in which there was place for ‘free will’.2 At the same
time he opened a philosophical hornet’s nest.

Bibliographical references
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1 Del Toso (2011, p. 50) suggests that «in order to give more internal consistence to his theories in the light of
the criticism put forward by the non-materialists, as was the case of the objections … raised against Carvaka phi-
losophy by Vatsyayana … in his Nyayasutrabhasya …, it is not impossible that Udbhatabhatta tried to find new in-
terpretations of some problematic Carvaka aphorism[s]». This is not the position here taken.
2 Most remarkably, Pakudha Kaccayana, one of the six heretical teachers presented in the early Buddhist
canon, claims the existence of seven elementary entities: the four elements (earth, water, fire and air), pleasure,
pain and life/soul (jiva); see Basham 1951, p. 16. That is to say, Pakudha adds to the four usual elements at least
two experiental terms. Was he inspired to do so by reflections about ‘free will’? (According to Pratchett 2000,
p. 14 there are five elements: earth, water, fire, air and surprise.)
28 johannes bronkhorst
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Abbreviations
ANISt = Alt- und Neuindische Studien, Hamburg.
NBh = Nyaya Bhasya. For the edition see Nyaya Sutra.
NS = Nyaya Sutra.
NV = Nyaya Varttika of Uddyotakara. For the edition, see Nyaya Sutra.
Vy = Vyomavati of Vyoma®ivacarya, edited by Gaurinath Sastri, 2 vols., Varanasi, Sampurnanand
Sanskrit Vishvavidyalaya, 1983-1984 (M. M. ±ivakumara®astri-granthamala, 6.)
WI = Word Index to the Pra®astapadabhasya: A complete word index to the printed editions of the
Pra®astapadabhasya, by Johannes Bronkhorst & Yves Ramseier, Delhi, Motilal Banarsidass,
1994.
UN ARGOMENTO ARISTOTELICO
CONTRO IL DETERMINISMO
Carlo Natali

1. Un confronto tra due testi difficili

A ristotele discute sia il determinismo logico, sia il determinismo causale, con lo


stesso tipo di argomento. Ciò è indizio del fatto che i due temi sono connessi nel
suo pensiero. Il presente articolo è dedicato ad un tentativo di dimostrazione di questa
tesi.
Si considerino i seguenti due passi:1

De interpretatione 9 (DI 9), inizio


(i) \Ed ÌbÓ ÔsÓ ÙáÓ ùÓÙˆÓ Î·d ÁÂÓÔÌ¤ÓˆÓ àÓ¿ÁÎË ÙcÓ Î·Ù¿-
Ê·ÛÈÓ j ÙcÓ àfiÊ·ÛÈÓ àÏËıÉ j „¢‰É ÂrÓ·ÈØ Î·d âd ÌbÓ
30 ÙáÓ Î·ıfiÏÔ˘ ó˜ ηıfiÏÔ˘ àÂd ÙcÓ ÌbÓ àÏËıÉ ÙcÓ ‰b „¢‰É
ηd âd ÙáÓ Î·ı\ ≤ηÛÙ·, œÛÂÚ ÂúÚËÙ·ÈØ âd ‰b ÙáÓ
ηıfiÏÔ˘ Ìc ηıfiÏÔ˘ ϯı¤ÓÙˆÓ ÔéÎ àÓ¿ÁÎËØ ÂúÚËÙ·È ‰b ηd
ÂÚd ÙÔ‡ÙˆÓ.2 âd ‰b ÙáÓ Î·ı\ ≤ηÛÙ· ηd ÌÂÏÏfiÓÙˆÓ Ôé¯
ïÌÔ›ˆ˜. (ii) Âå ÁaÚ ÄÛ· ηٿʷÛȘ j àfiÊ·ÛȘ àÏËıc˜ j „¢‰‹˜,
35 ηd ±·Ó àÓ¿ÁÎË j ñ¿Ú¯ÂÈÓ j Ìc ñ¿Ú¯ÂÈÓ (iii a) Âå ÁaÚ3 (1) ï ÌbÓ
Ê‹ÛÂÈ öÛÂÛı·› ÙÈ ï ‰b Ìc Ê‹ÛÂÈ Ùe ·éÙe ÙÔÜÙÔ, ‰ÉÏÔÓ ¬ÙÈ
àÓ¿ÁÎË àÏËı‡ÂÈÓ ÙeÓ ≤ÙÂÚÔÓ ·éÙáÓ, Âå ÄÛ· ηٿʷÛȘ
àÏËıc˜ j „¢‰‹˜Ø ôÌʈ ÁaÚ Ôé¯ ñ¿ÚÍÂÈ ±Ì· âd ÙÔÖ˜
ÙÔÈÔ‡ÙÔȘ. (2) Âå ÁaÚ àÏËıb˜ ÂåÂÖÓ ¬ÙÈ Ï¢ÎeÓ j Ôé
18b 1 Ï¢ÎfiÓ âÛÙÈÓ, àÓ¿ÁÎË ÂrÓ·È Ï¢ÎeÓ j Ôé Ï¢ÎfiÓ, ηd Âå
öÛÙÈ Ï¢ÎeÓ j Ôé Ï¢ÎfiÓ, àÏËıb˜ qÓ Ê¿Ó·È j àÔÊ¿Ó·ÈØ Î·d
Âå Ìc ñ¿Ú¯ÂÈ, „‡‰ÂÙ·È, ηd Âå „Â‡‰ÂÙ·È, Ôé¯ ñ¿Ú¯ÂÈØ
(3) œÛÙ\ àÓ¿ÁÎË ÙcÓ Î·Ù¿Ê·ÛÈÓ j ÙcÓ àfiÊ·ÛÈÓ àÏËıÉ ÂrÓ·È.
5 (4) Ôé‰bÓ ôÚ· ÔûÙ öÛÙÈÓ ÔûÙ Á›ÁÓÂÙ·È ÔûÙ àe Ù‡¯Ë˜ Ôûı\
ïfiÙÂÚ\ öÙ˘¯ÂÓ, Ôé‰\ öÛÙ·È j ÔéÎ öÛÙ·È, àÏÏ\ âÍ àÓ¿Á΢ ±·Ó-
Ù· ηd Ôé¯ ïfiÙÂÚ\ öÙ˘¯ÂÓ (j ÁaÚ ï Êa˜ àÏËı‡ÂÈ j ï àÔ-
Ê¿˜)Ø (4.1) ïÌÔ›ˆ˜ ÁaÚ iÓ âÁ›ÁÓÂÙÔ j ÔéÎ âÁ›ÁÓÂÙÔØ Ùe ÁaÚ ïfiÙÂÚ\
öÙ˘¯ÂÓ Ôé‰bÓ ÌÄÏÏÔÓ Ô≈Ùˆ˜ j Ìc Ô≈Ùˆ˜ ö¯ÂÈ j ≤ÍÂÈ. – (iii b) öÙÈ (5) Âå öÛÙÈ

Carlo Natali, Università Ca’ Foscari, Dipartimento di filosofia e beni culturali, Palazzo Marcorà Malcanton,
Dorsoduro 3484/D, 30123 Venezia, natali@unive.it
1 La bibliografia su De interpretatione 9 è sterminata. Panoramiche delle varie posizioni si trovano in Cellupri-
ca 1977, Donini 1989, Weidemann 1994, Gaskin 1995. Per quanto riguarda Metaph. E 3 la bibliografia, sebbene
non così vasta, è tuttavia ragguardevole. Una buona panoramica delle posizioni è in Madigan 1984, vedi anche
Donini 1989, cap. 2. Molte delle questioni discusse dagli studiosi non saranno toccate in questa sede, in cui ci
limitiamo al confronto tra l’andamento degli argomenti nel primo e nel secondo testo. Il problema del confronto
tra i due capitoli è stato discusso principalmente da White 1981 e Gaskin 1995 cap. 14.
2 Minio Paluello (1949) nella sua edizione indica qui l’inizio del nuovo argomento, che noi spostiamo alla
linea 34.
3 Âå ‰‹, Ammon. lemma (A); Âå ‰¤, Ammon. lemma (F); œÛÙ Âå, Ambros. L 93 (sec. ix) e Marc. 201 (sec. x);
?Ô≈Ùˆ˜ Âå, trad. Siriaca.
32 carlo natali
10 Ï¢ÎeÓ ÓÜÓ, àÏËıb˜ qÓ ÂåÂÖÓ ÚfiÙÂÚÔÓ ¬ÙÈ öÛÙ·È Ï¢ÎfiÓ, (6) œÛÙ àÂd
àÏËıb˜ qÓ ÂåÂÖÓ ïÙÈÔÜÓ ÙáÓ ÁÂÓÔ̤ӈÓ1 ¬ÙÈ öÛÙ·ÈØ (6.1) Âå ‰\ àÂd
àÏËıb˜ qÓ ÂåÂÖÓ ¬ÙÈ öÛÙÈÓ j öÛÙ·È, Ôé¯ ÔxfiÓ Ù ÙÔÜÙÔ Ìc ÂrÓ·È
Ôé‰b Ìc öÛÂÛı·È. n ‰b Ìc ÔxfiÓ Ù Ìc ÁÂÓ¤Ûı·È, à‰‡Ó·ÙÔÓ Ìc
ÁÂÓ¤Ûı·ÈØ n ‰b à‰‡Ó·ÙÔÓ Ìc ÁÂÓ¤Ûı·È, àÓ¿ÁÎË ÁÂÓ¤Ûı·ÈØ (7) ±·ÓÙ·
15 ÔsÓ Ùa âÛfiÌÂÓ· àÓ·ÁηÖÔÓ ÁÂÓ¤Ûı·È, (8) Ôé‰bÓ ôÚ· ïfiÙÂÚ\ öÙ˘¯ÂÓ
Ôé‰\ àe Ù‡¯Ë˜ öÛÙ·ÈØ Âå ÁaÚ àe Ù‡¯Ë˜, ÔéÎ âÍ àÓ¿Á΢. –
(iv) …
(v) œÛÙ ‰ÉÏÔÓ
19b 1 ¬ÙÈ ÔéÎ àÓ¿ÁÎË ¿Û˘ ηٷʿÛˆ˜ ηd àÔÊ¿Ûˆ˜ ÙáÓ àÓÙÈ-
ÎÂÈÌ¤ÓˆÓ ÙcÓ ÌbÓ àÏËıÉ ÙcÓ ‰b „¢‰É ÂrÓ·ÈØ Ôé ÁaÚ œÛÂÚ
âd ÙáÓ ùÓÙˆÓ Ô≈Ùˆ˜ ö¯ÂÈ Î·d âd ÙáÓ Ìc ùÓÙˆÓ, ‰˘Ó·ÙáÓ
‰b ÂrÓ·È j Ìc ÂrÓ·È, àÏÏ\ œÛÂÚ ÂúÚËÙ·È.
Traduzione:
(i) Riguardo alle cose che sono e che sono avvenute, è necessario che l’affermazione o la ne-
gazione siano vere o false; e riguardo alle affermazioni universali prese universalmente, sempre
l’una è vera e l’altra falsa, come pure per quelle particolari, come si è detto; ma per quelle uni-
versali dette non universalmente ciò non è necessario, ed anche questo lo abbiamo detto. Invece
riguardo per i particolari che stanno per essere, non è lo stesso.
(ii) Infatti, se ogni affermazione o negazione è vera o falsa, è necessario che tutto si dia o non
si dia;
(iii a) se infatti (1) uno affermi che qualcosa sarà e un altro neghi questa stessa cosa, è chiaro
che uno dei due dirà la verità, se è vero che ogni affermazione è vera o falsa, infatti in queste cir-
costanze non si daranno le due cose insieme. (2) Infatti, se è vero dire che è bianco o non è bianco,
è necessario che sia bianco o non bianco, e se è bianco o non bianco, era vero dirlo o negarlo; se
invece ciò non si dà, si dice il falso, e se si dice il falso, ciò non si dà. (3) Di modo che necessaria-
mente o l’affermazione o la negazione sono vere. (4) Quindi niente è o avviene né per caso né
contingentemente, né lo sarà o non lo sarà, ma tutto sarà per necessità e non contingentemente,
dato che dice il vero o chi afferma o chi nega. (4.1) Altrimenti, infatti, avrebbe potuto accadere co-
me pure non accadere, dato che ciò che è contingente non è ne sarà così piuttosto che non così.
(iii b) Inoltre, (5) se ora è bianco, era vero dire prima che sarebbe stato bianco, (6) di modo che
sarebbe stato sempre vero dire, di qualsiasi delle cose che si verificano, che sarebbe stato. (6.1)
Ma se era sempre vero dire che è o sarà, non è possibile che questo non sia né che non sarà, e ciò
che non è possibile che non avvenga, è impossibile che avvenga, e ciò che è impossibile che non
avvenga, è necessario che avvenga. (7) Quindi tutto ciò che sarà è necessario che avvenga, e (8)
quindi nulla è contingente né per caso, infatti, se è per caso non è necessario.
(iv) …
(v) Cosicché è chiaro che non necessariamente per ogni affermazione e negazione di opposti
l’una sia vera e l’altra falsa; infatti non è così per le cose che sono e quelle che non sono, ma che
possono essere o non essere, è invece nel modo che abbiamo detto.

Metaph. E 3:
(i \) ≠OÙÈ ‰\ ÂåÛdÓ àÚ¯·d ηd ·úÙÈ· ÁÂÓËÙa ηd Êı·ÚÙa
30 ôÓ¢2 ÙÔÜ Á›ÁÓÂÛı·È ηd Êı›ÚÂÛı·È, Ê·ÓÂÚfiÓ. (ii \) Âå ÁaÚ Ìc
ÙÔÜÙ\, âÍ àÓ¿Á΢ ¿ÓÙ\ öÛÙ·È, Âå ÙÔÜ ÁÈÁÓÔ̤ÓÔ˘ ηd ÊıÂÈÚÔ-
̤ÓÔ˘ Ìc ηÙa Û˘Ì‚Â‚ËÎe˜ ·úÙÈfiÓ ÙÈ àÓ¿ÁÎË ÂrÓ·È. (iii \ 1) (1\) fiÙÂÚÔÓ
ÁaÚ öÛÙ·È ÙÔ‰d j Ôû; â¿Ó Á ÙÔ‰d Á¤ÓËÙ·ÈØ Âå ‰b Ì‹, Ôû.

1 ÁÈÓfiÌÂÓˆÓ, Ambros. L 93 (sec. ix), Ammon. (T1).


2 ôÓ¢ ÙÔÜ Á›ÁÓÂÛı·È (scil.Ùa Û˘Ì‚Â‚ËÎfiÙ·) Jaeg. in app.
un argomento aristotelico contro il determinismo 33
ÙÔÜÙÔ ‰b âaÓ ôÏÏÔ. (2\) ηd Ô≈Ùˆ ‰ÉÏÔÓ ¬ÙÈ àÂd ¯ÚfiÓÔ˘ àÊ·ÈÚÔ˘Ì¤-
1027b ÓÔ˘ àe ÂÂÚ·Ṳ̂ÓÔ˘ ¯ÚfiÓÔ˘ ≥ÍÂÈ âd Ùe ÓÜÓ, (3\) œÛÙ ï‰d àÔ-
ı·ÓÂÖÙ·È ÓfiÛÅ, j1 ‚›0 â¿Ó Á âͤÏı–Ø ÙÔÜÙÔ ‰b âaÓ ‰È„‹Û–Ø
ÙÔÜÙÔ ‰b âaÓ ôÏÏÔØ Î·d Ô≈Ùˆ˜ ≥ÍÂÈ Âå˜ n ÓÜÓ ñ¿Ú¯ÂÈ, j Âå˜
ÙáÓ ÁÂÁÔÓfiÙˆÓ ÙÈ. ÔxÔÓ âaÓ ‰È„‹Û–Ø ÙÔÜÙÔ ‰b Âå âÛı›ÂÈ ‰ÚÈ-
5 ̤·Ø (4\) ÙÔÜÙÔ ‰\ õÙÔÈ ñ¿Ú¯ÂÈ j ÔûØ œÛÙ\ âÍ àÓ¿Á΢ àÔı·-
ÓÂÖÙ·È j ÔéÎ àÔı·ÓÂÖÙ·È. (iii \ 2) (5\) ïÌÔ›ˆ˜ ‰b ÎiÓ ñÂÚˉ‹Û– ÙȘ Âå˜
Ùa ÁÂÓfiÌÂÓ·, ï ·éÙe˜ ÏfiÁÔ˜Ø (6\) õ‰Ë ÁaÚ ñ¿Ú¯ÂÈ ÙÔÜÙÔ öÓ
ÙÈÓÈ, ϤÁˆ ‰b Ùe ÁÂÁÔÓfi˜Ø (7\) âÍ àÓ¿Á΢ ôÚ· ¿ÓÙ· öÛÙ·È Ùa
âÛfiÌÂÓ·, ÔxÔÓ Ùe àÔı·ÓÂÖÓ ÙeÓ ˙áÓÙ·Ø (8\) õ‰Ë Á¿Ú ÙÈ Á¤ÁÔÓÂÓ,
10 ÔxÔÓ Ùa âÓ·ÓÙ›· âÓ Ù† ·éÙ†.2 (iv \) àÏÏ\ Âå ÓfiÛÅ j ‚›0,
Ôûˆ, àÏÏ\ âaÓ ÙÔ‰d Á¤ÓËÙ·È. (v \) ‰ÉÏÔÓ ôÚ· ¬ÙÈ Ì¤¯ÚÈ ÙÈÓe˜
‚·‰›˙ÂÈ àگɘ, ·≈ÙË ‰\ ÔéΤÙÈ Âå˜ ôÏÏÔ. öÛÙ·È ÔsÓ ì ÙÔÜ
ïfiÙÂÚ\ öÙ˘¯ÂÓ ·≈ÙË, ηd ·úÙÈÔÓ Ùɘ ÁÂÓ¤Ûˆ˜ ·éÙɘ ôÏÏÔ3
Ôéı¤Ó. àÏÏ\ Âå˜ àÚ¯cÓ Ô›·Ó ηd ·úÙÈÔÓ ÔÖÔÓ ì àÓ·ÁˆÁc ì
15 ÙÔÈ·‡ÙË, fiÙÂÚÔÓ ó˜ Âå˜ ≈ÏËÓ j ó˜ Âå˜ Ùe Ôy ≤ÓÂη j ó˜ Âå˜
Ùe ÎÈÓÉÛ·Ó, Ì¿ÏÈÛÙ· ÛÎÂÙ¤ÔÓ.
Traduzione:
(i’) Che vi siano principi e cause generati e corrotti senza il generarsi e il corrompersi, è
evidente.
(ii’) Infatti, se così non fosse, tutto sarà di necessità, se è necessario che vi sia una qualche causa
di ciò che si genera e si corrompe non per accidente.
(iii’ a) Infatti (1’) questo qui sarà o non sarà; [lo sarà] se si darà quest’altro, e se no, no. E que-
st’altro se si darà un’altra cosa. (2’) E così è chiaro che sottraendo continuamente dei periodi di
tempo a uno spazio di tempo limitato, arriveremo al presente. (3’) Di modo che: costui morirà
di malattia, oppure di morte violenta se sarà uscito di casa; e lo farà se avrà sete; e questo avverrà
se si darà quest’altro, e così si arriva fino a ciò che si dà adesso, o a qualcuna delle cose che si sono
date in passato; per esempio, se avrà sete, e ciò si darà se avrà mangiato cibi salati. (4’) Quest’ul-
tima cosa si dà oppure no, e quindi necessariamente morirà o non morirà.
(iii’ b) Lo stesso (5’) argomento vale se uno si rifà a ciò che è accaduto: (6’) questo, voglio dire
ciò che si è dato in passato, è costituente di qualcosa, (7’) quindi tutte le cose future saranno di
necessità, per esempio che il vivente muoia, infatti (8’) già qualcosa è avvenuto, cioè che in lui
sono i contrari.
(iv’) Ma se morirà di malattia o di morte violenta, non è ancora [necessario],4 lo sarà, invece,
se si darà questa cosa qui.
(v’) È chiaro quindi che si procede fino a un qualche principio, ma questo non risale più ad al-
tro. Dunque questo sarà il principio di ciò che accade a caso, e null’altro è causa del suo generarsi.
Ma a quale principio e a quale causa porti una tale riduzione, se a una causa materiale, o finale
o motrice, è da indagare più approfonditamente.

I due argomenti hanno lo stesso andamento, almeno dal punto di vista esterno. Aristo-
tele dapprima stabilisce una tesi (i, i’), poi afferma che dalla negazione della tesi deriva
che necessariamente tutto è o avviene (ii, ii’), il che per lui è assurdo.
A dire il vero, in DI 9 la tesi (ii) è formulata con l’espressione anankê (18a35) ed solo
successivamente la tesi viene ripetuta con l’espressione ex anankês (18b6), mentre in E 3
Aristotele usa direttamente ex anankês (1027a31). Sulla base di una nota distinzione avan-

1 [ÓfiÛÅ j] Secl. Ross, Jaeger; cfr. a.po.75a 15, phys. 215a 28, top. 150b 7.
2 ·éÙ† ÛÒÌ·ÙÈ EJ°, om. Ab. 3 Om. EJ° Asc.
4 Seguo l’interpretazione di Kirwan, Calvo, Donini; Ross, Reale sottintendono «determinato».
34 carlo natali
zata da Patzig, per cui la prima formula indica la necessità a certe condizioni e la seconda
la necessità assoluta, ci si potrebbe chiedere se la tesi di 18a35 sia identica a quella di
1027a31.1 Si potrebbe pensare che solo alle linee 18b5-6 Aristotele arriva al concetto della
necessità assoluta, quando oppone ex anankês a apo tuchês e hopoter’etuchen. Ma l’argo-
mento di Aristotele in 18a35-b4 passa dalla verità dell’affermazione alla necessità del suo
contenuto, quindi è più probabile ritenere che, quando Aristotele dice: «Quindi (ôÚ·)
niente è o avviene né per caso né contingentemente, né lo sarà o non lo sarà, ma tutto
sarà per necessità (âÍ àÓ¿Á΢, 18b5-6)», intenda chiarire le implicazioni di quanto aveva
affermato a 18a34-35, e non aggiungere una nuova nozione.2 Anche a 18b14 Aristotele
usa anankê per indicare la necessità assoluta degli eventi e non la necessità di una con-
seguenza date certe premesse; ovviamente molte volte in DI 9 Aristotele usa anankê an-
che per indicare la necessità a certe condizioni, ad es. a 18b4.
In entrambi i casi, sia in DI 9 sia in E 3, la necessità è intesa in modo distribuito e non
in modo globale.3
L’argomento è una reductio, come ammesso da quasi tutti a partire dai commentatori
antichi.4 Zadro (1999, p. 245) osserva giustamente che la natura confutativa di DI 9 rende
più difficile comprendere esattamente la tesi positiva che Aristotele vuole sostenere; ciò
vale anche per E 3, come osserva Bonitz (1849, p. 292). Il caso non è isolato nel corpus
delle opere di Aristotele, si pensi solo ad EN vii, 12-15.
A sostegno5 di (ii, ii’) Aristotele poi cita un argomento (iii, iii’) che si suddivide
in entrambi i casi in una prima parte rivolta al futuro (iii a, iii’ a) ed una seconda
parte rivolta al passato (iii b, iii’ b).6 Apparentemente la funzione di questo argo-
mento è solo difendere la reductio, contro un avversario che potrebbe sostenere la ne-
gazione della tesi di partenza (i, i’) ma non ammettere che da essa deriva che tutto
è o avviene in modo necessario. In alternativa si potrebbe pensare che qui Aristotele
stia riportando l’argomento di un determinista che voleva effettivamente derivare la
necessità di tutti gli eventi dalla (ii, ii’). Ma pare difficile individuare storicamente
una posizione simile, e il problema di un eventuale rapporto tra DI 9 e i Megarici è

1 Cfr. Patzig 1963, cap. 2.


2 Contra, Ide (1993, pp. 341 e 352) e Weidemann (1994, pp. 242-243). Quando afferma che la conclusione panta
ex anankês è un risultato indesiderabile Aristotele di certo non vuole negare che, se si dà A, allora necessariamente
B, ma che B sia necessario in assoluto.
3 Per DI 9 la tesi è molto controversa, seguo qui Frede (1985a, pp. 37-38), Weidemann (1994, p. 230), Gaskin
(1995, p. 25). Per E 3 la cosa non è dubbia, Aristotele può solo voler dire che il tizio in questione o necessariamente
morirà o necessariamente non morirà in quel momento, dato che questo è il punto da dimostrare.
4 Asclepio, in Metaph. 371,30-32; Ps. Alex. in Metaph. 454,16-17; Frede (1985, p. 207); Donini (1989, p. 29); Gaskin
(1995, p. 24) e molti altri; fa eccezione McKim 1971, p. 85, che considera l’argomento come una aporia, dato che op-
pone un argomento ad un endoxon.
5 Vi è un problema testuale alla linea 35, vedi nota 3 a pag. 31: le edizioni moderne portano ei gar, che indica un
argomento in favore di (ii); ma alcuni mss. portano ei dê, hôste dei e quindi si indica una conseguenza che deriva
da (ii). In effetti si potrebbe vedere il brano 18a35-39 come una esplicazione del contenuto di (ii), che chiarisce cosa
(ii) comporta nella distribuzione del valori di verità (Frede 1970, pp. 85-87; Fine 1984, p. 36; Weidemann 1994, p.
236; Crivelli 2004, p. 201). La traduzione esatta sarebbe quindi «di conseguenza» (Colli). Questa lettura però è
rimasta minoritaria, e il brano è in genere tradotto con «se infatti» (Zadro, Zanatta), «poiché» (Donini), «for»
(Ackrill), «en effet» (Dalimier), «wenn» (Weidemann). Si può infatti pensare, come afferma Gaskin (1995, p. 25),
che le linee 18a35-39 e a 39-b4 offrano due argomenti paralleli a sostegno di (II), e che, in particolare, le linee 18a35-
39 difendano la (ii) sulla base del principio che non è possibile che la stessa affermazione sia insieme vera e falsa
(a38-39).
6 Ciò vale per DI 9, vedi Boet. in De int. ii, p. 209, 26 sgg.; Gaskin (1995, p. 25); Weidemann (1994, p. 248) Criv-
elli (2004, p. 205) e molti altri. E ciò vale anche anche per E 3, vedi lo Ps. Alessandro, in Metaph. 455,23 e 35-6.
un argomento aristotelico contro il determinismo 35
ancora del tutto aperto. Seguono (iv, iv’) uno o più argomenti volti a stabilire che
non tutto è o avviene in modo necessario. In questo modo ci si oppone ad un avver-
sario che potrebbe accettare la conseguenza (ii, ii’) ma non ammettere che è assurdo
che tutto sia necessario. Questa sezione (iv) in DI 9 è molto ampia, e gli interpreti
sono in disaccordo su come interpretarla, in E 3 invece è brevissima. Noi qui abbia-
mo saltato quella di DI 9, che richiederebbe un ampio studio estraneo allo scopo di
questa discussione. Infine (v, v’) Aristotele conclude che, sulla base di quanto detto
la (i, i’) è vera.
Esaminiamo più da vicino gli argomenti (iii) e (iii’). Entrambi comprendono, come
abbiamo detto, una parte rivolta al futuro (iii a, iii’ a). Questa parte inizia in entrambi
i casi (1-2, 1’-2’) con una antifasi, da cui deriva (3, 3’) la conferma, rispettivamente, di (ii)
e (ii’). Da ciò consegue (4, 4’) la necessità dell’evento. In (4) si trae l’evidente conseguen-
za che, se tutto è necessario, nulla è per caso o contingentemente, il che conferma che
a 18a35 il termine anankê indica una necessità assoluta. In (4’) dal fatto che la causa si dà
ora deriva la necessità dell’ente futuro i cui germi causali sono presenti già oggi. Ritor-
neremo più avanti su questo punto.
Questo punto è formulato diversamente in DI 9 e in E 3. Non possiamo qui impegnar-
ci in una analisi dettagliata delle due serie di argomenti e discutere la loro validità, fare-
mo solo qualche osservazione che deriva dal metterli a confronto.1 La differenza tra i
due trattamenti dipende in parte dalla differenza dei due rapporti (affermazione/fatto)
e (causa/effetto). In DI 9 Aristotele ripete la tesi della validità del PB per il presente e il
passato per affermare la necessaria connessione tra la verità o falsità dell’affermazione
al futuro e il darsi o non darsi del fatto (18a35-b3); in E 3 Aristotele fa riferimento ad una
catena necessaria di cause tale che, risalendo il corso del tempo partire dal futuro, si ar-
riva al presente, il quale o si dà o non si dà (1027a34-b5). In DI 9 si arriva già all’idea che
tutto avviene necessariamente, in E 3 si fa riferimento solo al caso particolare citato nelle
linee precedenti. La generalizzazione a tutti i casi in E 3 rimane implicita. In generale si
può dire che E 3 è molto più breve, schematico e sintetico di DI 9.
Passiamo ora alla parte rivolta al passato (iii b, iii’ b). In entrambi i casi (5, 5’) Aristo-
tele rinuncia all’antifasi e riprende solo uno dei due corni dell’opposizione, quello po-
sitivo (uno ha detto x, è accaduto y). Da questo si deriva, in due modi diversi (6, 6’) che
si dà ciò che è connesso al corno positivo dell’antifasi. In DI 9 Aristotele pare passare
dalla verità di un giudizio passato relativo al presente alla verità di ogni giudizio passato
sul tempo successivo, e poi da questo alla necessità del fatto, tramite varie equivalenze
concettuali. Aristotele passa da «non è possibile che ¬p», a «è impossibile che ¬p», a «è
necessario che p». I critici moderni in genere non danno molto peso a questi argomenti
basati sull’equivalenza, che erano invece molto amati dagli autori antichi nelle loro di-
mostrazioni: ne troviamo esempi a partire da Senofonte (mem. iv 6) fino ad alcuni argo-
menti stoici riportati da Alessandro d’Afrodisia (De fato 35 e 37).2 Ammonio (144,25-145,1)
ritiene che si passi solo da una formulazione meno chiara ad una formulazione più chia-

1 Per l’analisi degli argomenti di DI 9 e la discussione sulla loro validità si possono vedere Anscombe (1956) e
Fine (1984, pp. 36-38), che ritengono gli argomenti invalidi; Frede (1985a, pp. 35-57), Weidemann (1994, pp. 229-
239 e 248-263), Gaskin (1995, cap. 4) Crivelli (2004, cap. 7), che li difendono. Per l’analisi degli argomenti di E 3 e
la discussione sulla loro validità si possono vedere Heinaman (1985), Madigan (1984, pp. 124-125), che dubitano
della loro validità, e Sorabji (1980, pp. 8-9), Weidemann (1986, pp. 49-50), Gaskin (1995, cap. 14), che li difendono.
2 Whitaker (1996, p. 117) vede l’importanza del passo ma non sviluppa la sua analisi.
36 carlo natali
ra dello stesso concetto. In E 3 invece si basa sull’idea che la causa passata inerisca anco-
ra, come causa, al presente. Dalla somma di questo passo e di 1027b1, nasce la possibilità
di collegare la verità del giudizio particolare al futuro con il darsi già al presente delle
cause che determinano ciò che avverrà. Tale dello sviluppo della discussione non è pre-
sente in Aristotele ma si produrrà in età ellenistica.1 In DI 9 anche questa volta si espri-
me esplicitamente una generalizzazione che in E 3 rimane implicita.
La conclusione che viene tratta, in entrambi i casi (7, 7’) è che tutto ciò che sarà, ne-
cessariamente avverrà. In questo caso la generalizzazione è esplicitata anche in E 3. A
questa conclusione si aggiunge una ulteriore conferma, diversa nei due passi (8, 8’): in
DI 9 è solo di tipo semantico, in E 3 Aristotele indica quale evento è già avvenuto.
Il modo di argomentare dei due capitoli superficialmente chiaro, è invece pieno di
ambiguità. In particolare non c’è accordo tra gli interpreti su come intendere la (i) e la
(i’), che sono espresse da Aristotele in modo non del tutto perspicuo.
Per quanto riguarda la (i) la lotta è intensa tra chi sostiene che Aristotele, dopo aver
ricordato il Principio di Bivalenza (d’ora in poi, PB), secondo cui ogni asserzione – e ogni
negazione – devono essere o vera o falsa,2 voglia limitarne l’applicabilità piena esclu-
dendo da questa le proposizioni singolari al futuro, come «Domani ci sarà una battaglia
navale», e chi sostiene che Aristotele non ha mai avuto tale idea, e che intende invece
dire che, mentre le proposizioni singolari al presente ed al passato sono necessariamen-
te vere o necessariamente false, le proposizioni singolari al futuro non lo sono necessa-
riamente. In questo articolo non prenderemo posizione su questo punto, anche se rite-
niamo gli argomenti di Gaskin (1995) e Crivelli (2004) in favore della prima posizione
abbiano un certo peso.
Per quanto riguarda la (i’) invece tra gli interpreti vi è maggiore accordo. La mag-
gioranza infatti pensa che la tesi consista nel dire che vi sono cause accidentali, tali da
generarsi e corrompersi senza un processo di generazione e corruzione, leggendo
quindi E 3 alla luce di quanto detto in E 2 (1026b22-24: degli accidenti non vi è né ge-
nerazione né corruzione). Una minoranza invece pensa che la tesi è che vi sono effetti
accidentali, tali da generarsi e corrompersi istantaneamente ( Jaeger 1957, p. 126; Tom-
maso d’Aquino, In metaph. sect. 1191, ed. Spiazzi 1950, p. 304), e vi sono anche altri sug-
gerimenti meno plausibili.3 In questo caso anche noi accettiamo la posizione della
maggioranza, sia pure con qualche dubbio. Infatti, anche se ammettiamo che la frase
«generarsi e corrompersi» equivalga a «essere oggetto di un processo di generazione e
corruzione», il che è lungi dall’essere evidente, si deve osservare che: (1) di per sé il fat-
to di non derivare da processi di generazione e corruzione non è tipico solo delle cause
accidentali, ma anche della causa formale e di altre realtà come il contatto e l’istante
(Ps. Alex. in Metaph. 453,17), quindi quanto meno la formulazione di E 3 è ambigua; (2)
nel resto dell’argomentazione solo il generarsi viene utilizzato, e nulla pare derivare
dal corrompersi. Ma solo quell’interpretazione, come argomentano bene Madigan
(1984, p. 133) e Judson (1998, pp. 187-189), pare dare senso al capitolo, e la tesi di (i’)
viene riformulata in questo modo in (ii’, 1027a31-2).

1 Si vedano le analisi di White (1983, p. 54) su questo punto.


2 Cito l’ipotesi più semplice, altri ritengono che Aristotele qui voglia negare non il PB, ma un principio diverso
secondo cui in una coppia di asserzioni contraddittorie una è vera e l’altra falsa, come Kirwan (1986, p. 181),
Whitaker (1996, pp. 79 e 109-112). Contra, Crivelli (2004, pp. 35-39 e cap. 7).
3 Hintikka (1973, p. 3): Aristotele farebbe riferimento alla distinzione tra energeia e kinesis.
un argomento aristotelico contro il determinismo 37
Quella che abbiamo esaminato è solo l’impalcatura esterna, per così dire, dell’argo-
mento. Nella sostanza le due serie di argomenti (iii a-b, iii’ a-b) presentano notevoli
differenze di contenuto, e quelli di E 3 sono più schematici e concisi di quelli di DI 9.
Alla base però pare stare in entrambi i casi un’idea simile, combattere la tesi:
– (T) se A, necessariamente B.
Questa si divide in due possibilità: A può essere, o A’ (dire con verità al futuro) o A”
(essersi verificata una causa non accidentale). Generalmente con ‘causa’ nel passo di E
3 si intende ‘causa efficiente’; Frede (1985, p. 220) ritene invece che Aristotele voglia eli-
minare il «totalitarian regime of the telos». Ma gli esempi della malattia e della violenza
spingono decisamente verso la causalità di tipo efficiente.
A dire il vero, le due possibilità A’, A”, differiscono per molti versi, in particolare nel
primo caso B non è dia A’, non dipende causalmente da A’, ma viceversa (18b38-19a1);
nel secondo caso B è dia A”, dipende causalmente da A” (1027a33). Inoltre nel primo caso
non è nemmeno necessario che A’ avvenga, basta che sia possibile (18b36-38), nel secon-
do caso invece è necessario che A” si dia. Ma l’idea della temporalizzazione è presente
in modo simile in entrambi i testi:
– (T1) se a t1 A, allora necessariamente a t2 B,
in cui t1 è sempre precedente a t2, o perché presente rispetto al futuro, o perché pas-
sato rispetto al presente (e al futuro, ma ciò non è rilevante) (Gaskin 1995, p. 7 e cap. 8;
Weidemann 1986, pp. 38-39, 47). Dopo aver esaminato ciò in relazione al presente, al
futuro e al passato, Aristotele ritiene di poter generalizzare la tesi ed affermare che:
– (T3) per tutti i t, se a t1 A, allora necessariamente a t2 B.
La validità di questa conclusione nel caso di DI 9 è stata lungamente discussa dalla
critica contemporanea, mentre nel caso di E 3 i dubbi sembrano minori. È indubbio pe-
rò che Aristotele la ritenesse valida in entrambi i testi. Ad essa egli oppone, sia in DI 9
sia in E 3, delle evidenze contrastanti, in base alle quali il determinismo risulta essere
una tesi assurda (18b31-19a22; 1027b10-11). In DI 9 inoltre, almeno secondo alcuni inter-
preti, egli indica anche delle fallacie nel ragionamento deterministico (19a23-34) (ad es.
Fine 1984, pp. 24-35; Donini 1989, pp. 8-23). In E 3, almeno a nostro parere, questa parte
non si trova.
Inoltre uno degli scopi di E 3 è identico a uno degli scopi di DI 9, il salvare l’esistenza
del contingente e di ciò che avviene per caso (cfr. 18b5-9, 15-16: ïfiÙÂÚ\ öÙ˘¯ÂÓ … àe
Ù‡¯Ë˜, e 1027b12-13: ïfiÙÂÚ\ öÙ˘¯ÂÓ). Di più, E 3 si basa sull’idea della necessità del pre-
sente, e forse anche del passato,1 come fa anche DI 9, almeno secondo vari interpreti,
come Kirwan (1986, p. 183). La nozione della necessità del passato è tradizionale ed ac-
cettata da Aristotele, cfr. Il. xiv, 53-5: Nestore afferma che nemmeno Zeus altitonante
potrebbe far sì che ciò che è avvenuto (teteuchatai) divenga diverso (allôs). Lo stesso dice
il poeta Agatone, in un frammento citato da Aristotele nell’Etica Nicomachea (fr. 5 Nauck
= 1139b10-11).
Tra i due capitoli vi sono però anche notevoli differenze. Vediamo le due principali.
Una differenza importante è che DI 9 si occupa della verità, mentre E 3 si occupa della
causazione, e nessuno dei due capitoli fa riferimento al concetto principale dell’altro: in
DI 9 non si fa riferimento alle cause, in E 3 non si parla di verità. A dire il vero alcuni,
come McKim (1971) e White (1981) hanno tentato di interpretare le tesi di DI 9 come se

1 Sorabji 1980, p. 8; Weidemann 1986, p. 35, cfr. Metaph. 1965a19-21.


38 carlo natali
esse implicassero che la verità oggi di una proposizione che verte su uno stato di cose
p futuro implica la presenza oggi, in tutto o in parte, delle cause che produrranno p in
futuro. Tale tesi, che pare presente nel De fato di Cicerone (20-21), non ci pare affatto im-
plicita in DI 9. Il collegamento tra le due tesi in questo modo, come ho già detto, venne
fatto probabilmente solo nelle discussioni dell’età ellenistica (cfr. Gaskin 1995, pp. 49-53).
Inoltre, e questo è un punto ancora più importante, secondo quasi tutti gli esperti la
funzione di (iii) e di (iii’) non è la stessa. Infatti secondo l’opinione diffusa fin dall’anti-
chità, (iii) sarebbe un argomento «deterministico», cioè volto sostenere pienamente la
tesi (ii); al contrario l’argomento (iii’) sarebbe un argomento «indeterministico», cioè
volto a combattere, e possibilmente confutare, la tesi (ii’). Quindi la somiglianza strut-
turale tra i due argomenti, che del resto quasi nessuno ha sottolineato, sarebbe molto
meno importante del fatto che essi tendono ad uno scopo opposto. Ma ciò è poi vero?

2. E 3 alla luce di Phys . ii, 4-6:


una connessione legittima?
Vedremo ora l’origine dell’interpretazione prevalente di E 3. Il più antico commentato-
re di questo testo, Asclepio, sostiene che Aristotele vuole dimostrare l’esistenza di cause
accidentali. Per questo scopo, egli dice, Aristotele fa una dimostrazione per assurdo, da-
to che la tesi che tutto avviene per necessità va contro l’evidenza (enargeia, 371,21-22;
373,16). Per chiarire cosa intende per cause accidentali Asclepio fa riferimento ad esempi
tratti dalla Fisica, seppure modificati, come la pietra che cade (371,12-14, cfr. Phys. 197b,31-
33) o il cavallo che fugge e trova così la salvezza (371,15-17, cfr. Phys. 197b,15-16). Questi
esempi non sembrano usati per chiarire l’argomento, ma solo per la nozione di ‘acci-
dentalità’. Quando poi arriva all’esempio delle righe 1027b1-5 dice:
Costui morirà di malattia, oppure di morte violenta se sarà uscito di casa; e lo farà se avrà sete;
e questo avverrà se si darà quest’altro, e così si arriva fino a ciò che si dà adesso, o a qualcuna
delle cose che si sono date in passato; per esempio, se avrà sete, e ciò si darà se avrà mangiato
cibi salati.
Asclepio intende che ciò che capita contingentemente è il mangiare cibi salati, mentre
i nemici assediano la città, per poi avere sete, uscire, e venire catturati ed uccisi. Tutti
questi eventi, egli dice, come l’essere un cittadino, lo scoppiare della guerra, il mangiare
cibi piccanti sono tutte cose evidentemente non necessarie (373,16-18). Asclepio pare ba-
sarsi solo sull’evidenza (373,16) sul fatto che tutti gli eventi prima citati non possono es-
sere considerati necessari.
Anche lo Ps. Alessandro di Afrodisia (= Michele di Efeso, sec. xi-xii d.C.) sostiene che
Aristotele vuole dimostrare che degli accidenti vi sono cause accidentali. Da buon bi-
zantino lo Ps. Alessandro articola l’esposizione, ma in realtà non aggiunge molto all’in-
terpretazione di Asclepio. Per la nozione di accidente egli si rifà al capitolo E 2 (453,11-
454,2). Per la spiegazione dell’esempio delle righe 1027b1-5, ripete lo schema di Asclepio:
un tale, cui attribuisce il nome di Nicostrato, durante l’assedio dei nemici morirà, se sarà
uscito dalla città e verrà sopraffatto, questo accadrà se vorrà bere acqua, questo accadrà
se avrà sete, e questo accadrà se avrà mangiato cibi piccanti. Quest’ultimo evento, se-
condo lo Ps. Alessandro, è la causa per accidente. Infatti, egli dice, che non vi è una con-
nessione necessaria tra il mangiare cibi piccanti e l’avere sete, dato che la sete può deri-
vare da molte altre cause. L’interpretazione è sottile: infatti lo Ps. Alessandro sembra
un argomento aristotelico contro il determinismo 39
sostenere che non il mangiare cibi piccanti è accidentale (infatti è frutto di una scelta),
ma è accidentale la connessione tra questo e l’avere sete, nel senso che il mangiare cibi
piccanti può essere sostituto, come causa dell’avere sete, da molti altri eventi. Inoltre
egli sostiene che la sete si produce istantaneamente e senza un processo di generazione,
infatti deriva da pathê del corpo di cui sarebbe come la forma, il che ci pare difficile da
credere (454,34-455,1 e 11-20). I critici contemporanei sono rimasti colpiti dal fatto che lo
Ps. Alessandro citi un nome proprio, Nicostrato, e a volte suppongono che il commen-
tatore citi un fatto storico contemporaneo (a lui, o ad Aristotele?). Di solito, inoltre, non
rilevano che non si tratta dell’Alessandro del iii sec. d.C. Non ci è chiaro come mai certi
studiosi contemporanei ritengano che la tesi di Alessandro sia che la causa accidentale
della morte di Nicostrato è l’incontro con i nemici, mentre lo Ps. Alessandro dice chia-
ramente che a suo parere causa accidentale è il mangiare cibi salati. A dire il vero i com-
mentatori antichi non parlano direttamente di alcun incontro, dicono solo che il tizio,
uscito dalla città, viene catturato e ucciso. Si può però supporre che la cattura sia causata
dall’incontro con una pattuglia nemica. Comunque l’interpretazione dello Ps. Alessan-
dro è diversa da quella che gli viene attribuita in certi saggi contemporanei.
Tra i commentatori moderni Ross sostiene, con qualche reticenza, che il mangiare
cibi salati è la causa ultima nella serie delle cause necessitanti, e che non si può tracciare
il nesso causale al di là di questo evento; ma si astiene dal sostenere che il mangiare cibi
salati è una causa accidentale, dice solo che è presentata come un’archê, un punto di par-
tenza nella catena (1926, p. 363; lo stesso pare dire Kirwan 1971, p. 197). Reale (1993, iii pp.
307-309) da parte sua pare incerto, dapprima dice che il tizio in questione morirà se usci-
rà di casa perché ad es. sarà investito da una macchina; ma poi, con Ross, afferma che
la archê della catena causale è il mangiare cibi salati, che questa è una scelta, e come tale
non è necessitata. Egli pare aver perso di vista il fatto che qui stiamo cercando un esem-
pio di causa accidentale.
Il punto di svolta nella storia recente dell’interpretazione è dato dall’intervento di
Sorabji (1980, cap. 1). Egli interpreta l’esempio nella maniera che segue, poi divenuta
standard:
A man eats spicy foods, and so gets thirsty, and so goes out to the well, where he meets some
ruffians who happen to be passing, and who kill him (p. 9).
Quindi la tesi di Sorabji è che nella catena causale vi è ad un certo momento un con-
giunzione accidentale. Secondo questo autore, l’incontro al pozzo non ha affatto causa.
Questo è il punto più discusso dagli interpreti successivi. È chiaro che Sorabji legge il
brano di E 3 alla luce della descrizione degli eventi accidentali come presentati in Phys.
ii 4-6, in particolare sulla base dell’esempio principale di Phys. 196b33-197a1, la storia del
tizio che va al mercato e, incontrato per caso un creditore, si fa ripagare un debito.
La schema dell’esempio sarebbe questo:1
1) Nicostrato mangia cibi piccanti
2) perciò è preso dalla sete
3) perciò esce di casa per bere
4) [perciò incontra una banda di teppisti, o una pattuglia nemica]
5) perciò viene ucciso.

1 Riprendo lo schema di Donini 1989, pp. 30-31.


40 carlo natali

Il passo (4) è assente dal testo di E 3, e viene introdotto da Sorabji nella sua ricostruzione.
Da allora in poi esso viene assunto immediatamente come un dato certo da molti degli
studiosi successivi.1 Tutti costoro, e svariati altri, discutono questa ricostruzione e
propongono modifiche e integrazioni ad essa. Ma, come ha notato opportunamente Do-
nini (1989, pp. 29-32) nella ricostruzione accettata dai critici più recenti l’evento causale è
identificato con l’unico elemento assente dal testo, ed è difficile che il punto centrale del-
l’argomento aristotelico sia da identificarsi con un passaggio che nel testo non c’è affatto.
Alcuni hanno pensato ad un’altra soluzione, ed hanno rifiutato di individuare nel
passo (4) la connessione causale accidentale. Le proposte sono varie. Frede (1985, p. 221)
sostiene che Aristotele lascia alla nostra immaginazione lo stabilire in quale punto si
verifichi l’interferenza di qualcosa di non connesso alla serie causale. Madigan (1984, pp.
129 e 134) ritiene, come Ross, che il punto di partenza della catena causale che porta al-
l’assassinio di Nicostrato sia la decisione di mangiare cibi salati; ma osserva che questa
decisione, e in generale l’esempio di Nicostrato, non servono affatto a confutare la tesi
del determinismo. Infatti mangiare cibi salati è una scelta e non un evento accidentale.
Infine alcuni ritengono che l’elemento accidentale sia nella connessione tra il passo (2)
e il passo (3) o tra (3) e (5) omettendo (4); si tratta, anche in questa interpretazione, come
in quella dello Ps. Alessandro, della sostituibilità di una causa rispetto al suo effetto, dato
che la connessione non è ‘per lo più’.2
Un’altra possibilità rimane ancora aperta ed è stata proposta da una serie di autori.
Per chiarire di cosa si tratta, possiamo partire dall’osservazione di Madigan sopra ripor-
tata, per cui l’esempio non è utile a negare che tutto avvenga di necessità. Bonitz nel
suo commentario (1849, pp. 292-293) sostiene che l’esempio della morte per violenza del
malcapitato Nicostrato (continuiamo pure a usare questo nome), è un evento futuro
che dipende causalmente da un evento presente; e dato che questo necessariamente o
è o non è, anche quello necessariamente sarà o non sarà. Ma non tutti gli eventi possono
essere collegati con una catena causale continua a qualcosa che si dà al momento pre-
sente. Che ogni vivente muoia è oggi necessario perché oggi nel suo corpo sono già in-
siti i contrari, ma il modo della sua morte diverrà necessario solo ad un certo momento.
Aristotele quindi, secondo questa interpretazione, ci avrebbe fornito in E 3 solo esempi
di catene necessarie, e non degli esempi di catene accidentali. La stessa tesi si può
rintracciare, in modo più o meno chiaro, in Seel (1982, p. 375), Ide (1993, pp. 352-353) e so-
prattutto in Halper (2005, pp. 11-18). Tutti costoro interpretano l’esempio allo stesso mo-
do in cui noi l’abbiamo letto nel § 2, come una dimostrazione della tesi che se nessuna
causa è accidentale tutto è necessario, e non come un argomento per dimostrare che vi
sono cause accidentali. Ma allora dove, in E 3, Aristotele si oppone al determinismo con
un argomento e non solo con un’affermazione? Lo vedremo subito.

3. Un ’ opinione notevole e il suo ruolo in E 3


Rivediamo le linee 1027b8-11 in cui Aristotele trae le somme a partire dal suo esempio:
per esempio è necessario che il vivente muoia, infatti già qualcosa è avvenuto, cioè che in lui sono
i contrari. Ma se morirà di malattia o di morte violenta, non è ancora necessario, lo sarà, invece,
se si darà questa cosa qui.

1 Heinaman 1985, p. 313; Weidemann 1986, pp. 30 e 42; Gaskin 1995, p. 202.
2 Cfr. Donini (1989, pp. 33-34); Polansky, Kuczewski (1998, pp. 306-307).
un argomento aristotelico contro il determinismo 41

Che la razza umana sia necessariamente destinata alla morte è opinione salda ed immu-
tabile fin dall’inizio dei tempi. Per i Greci, la differenza tra gli dei e gli uomini infatti con-
siste soprattutto in questo elemento. Gli dei sono immortali e gelosamente difendono
questa loro prerogativa, opponendosi ai tentativi di salvare dalla morte questo o quel-
l’essere umano. Lo si vede nell’Iliade, si pensi al dialogo tra Zeus ed Era sulla sorte di
Sarpedone:
Terribile figlio di Crono, quale parola hai detto? Un uomo, essere mortale, che da tempo ha in
sorte il suo destino (¿Ï·È Âڈ̤ÓÔÓ ·úÛË) vorresti salvare dalla morte dal lugubre gemito?
Fallo, ma tutti noi, gli altri dei, non ti approveremo (Il. xvi, 431-457; cfr. Od. iii 236-38; Pind. Nem.
vi, vv. 1-11).

Aristotele in E 3 intende in senso medico la nozione tradizionale facendo riferimento ad


Alcmeone di Crotone (fr. 4 D.-K.) ed alla sua propria teoria dei Parva naturalia.1 La cer-
tezza della morte va insieme all’incertezza assoluta sul modo di morire, come diceva già
nel vii sec. a.C., Semonide di Amorgo, osservando che gli uomini ignorano quale fine
abbia loro destinata il dio (fr. 1 D.). Anche in età classica il concetto che la morte può es-
sere casuale è ben presente, come ci dice Lisia nell’Epitafio per i caduti in difesa dei Corinti:
Se fosse possibile a coloro che sono sfuggiti ai pericoli della guerra vivere immortali per il resto
del tempo, sarebbe giusto che i viventi piangessero i caduti per tutto il tempo; ma in realtà (^ÓÜÓ)
la nostra natura è vinta dalle malattie e dalla vecchiaia, e il demone che ha avuto in sorte il nostro
destino, inesorabile (ï Ù ‰·›ÌˆÓ … à·Ú·›ÙËÙÔ˜). Quindi è corretto ritenere felicissimi quelli
che, correndo pericoli per cose grandissime e bellissime, hanno perso la vita, senza affidare le lo-
ro cose alla fortuna o attendere la morte per caso (Ù” Ù‡¯” … ÙeÓ ·éÙfiÌ·ÓÙÔÓ ı¿Ó·ÙÔÓ), ma aven-
do scelto la morte più bella (ÙeÓ Î¿ÏÏÈÛÙÔÓ) (ii, 78-9).

Lisia ripropone una idea tradizionale: fin dall’età arcaica si disse che si può scegliere di
morire combattendo o essere colti per caso dalla morte, ad esempio in casa (Callino, fr.
1 D.). Lisia oppone la morte scelta dagli eroi alla morte casuale che coglie l’uomo qua-
lunque, mentre in E 3 Aristotele parla di cause accidentali, ma il punto non è molto di-
verso. Se uno non sceglie la morte in battaglia, si affida alla sorte e può essere colto dalla
morte in un momento qualsiasi. L’idea tradizionale è che il modo della morte non è pre-
determinato come la morte stessa. I poeti sono interessati soprattutto all’elogio degli
eroi che hanno fatto la loro scelta, il filosofo invece si interessa al contrasto tra l’evento
ineluttabile e la non predeterminazione del modo in cui esso accadrà. La stessa idea
riappare nel De fato di Cicerone (17-18).
A nostro parere la frase di E 3, «è necessario che il vivente muoia, … ma se morirà di
malattia o di morte violenta, non è ancora necessario, lo sarà, invece, se si darà questa
cosa qui», esprime un concetto accettato da tutti al tempo di Aristotele, e considerato
di per sé evidente. La proposta qui avanzata è simile a quella di Polansky e Kuczewski
(1988, p. 307), ma con una differenza. I due autori ritengono che comprendere l’assurdità
della tesi che è già predeterminato che un vivente muoia in un certo modo o in un altro
dipdende dall’aver compreso qual è la relazione di causalità insita nella genersi degli ac-
cidenti; qui invece si sostiene che l’assurdità di tale tesi prova che l’accidente non si ge-
nera tramite un processo e quindi non ha una causa non accidentale.

1 De long. 465b3-4.
42 carlo natali
In E 3 Aristotele si serva di un’idea correntemente accettata per stabilire il principio
cui vuole giungere, che non tutti gli eventi futuri estendono indietro, fino al momento
presente, le loro catene causali e ve ne sono alcuni che non sono ancora predeterminati,
come ad esempio che si verifichi una battaglia navale, o una eclisse (1065a16-17); essi lo
saranno quando si sarà data l’archê, il punto di partenza nella catena causale.1 Tali eventi
non sempre saranno delle scelte, a volte avverranno in modo casuale e, in quanto archai,
non saranno connessi causalmente a nulla di quanto avviene prima. In questo senso sa-
ranno ì ÙÔÜ ïfiÙÂÚ\ öÙ˘¯ÂÓ àÚ¯É.2 Nel richiamo a questo endoxon consiste l’argomento
che Aristotele oppone a chi volesse sostenere che tutto avviene necessariamente. La
lontananza della nostra cultura rispetto a quella greca del iv sec. a.C. ci fa ritenere de-
bole l’argomento, ma io sospetto che per i concittadini di Aristotele esso fosse di una
evidenza lampante.

4. Aristotele e il dibattito ellenistico sul determinismo


Il suggerimento del paragrafo precedente può essere oggetto di dubbi, e in questo caso
non resta che accettare le posizioni di Bonitz, Frede e Seel. In ogni caso, a mio parere,
il parallelismo tra gli argomenti di DI 9 e E 3 esclude che (iii’) sia un argomento contro
il determinismo. È un argomento che spiega come funziona una prospettiva determi-
nista; ma, siccome non tutto è necessario, la premessa da cui parte deve essere rifiutata.
Il punto su cui vorrei invece attirare l’attenzione è che, se quanto detto fin qui è vero,
Aristotele usa lo stesso schema argomentativo sia nel trattare il determinismo, per così
dire, ‘logico’, sia quello, per così dire ‘causale’, il che fa pensare che dal suo punto di
vista questa distinzione sia poco rilevante o addirittura inesistente. Le due questioni so-
no connesse e devono essere trattate allo stesso modo, nel suo pensiero.
Questo va contro un luogo comune della critica contemporanea, secondo il quale
Aristotele non era ancora giunto all’idea del determinismo, e il dibattito su questo tema
si inizia solo in età ellenistica. Il che, in un certo senso specifico, può essere vero, ma
non in senso assoluto. Aristotele prelude al dibattito sul determinismo fornendo una se-
rie di schemi concettuali che saranno alla base della discussione. Ciò avviene sia dal pun-
to di vista della teoria dell’azione e dell’etica, sia dal punto di vista della logica, sia dal
punto di vista della teoria della causalità, anche se non sempre i legami tra queste parti
della sua teoria sono resi espliciti.
Rispetto alla teoria dell’azione, se si esaminano tutte le opere di Aristotele, si trovano
una serie di idee e termini centrali per il dibattito successivo. Egli sostiene che le azioni
umane rientrano in ciò che può avvenire in modi contrari (EE 1222a2) o possono avve-
nire e non avvenire (1223a5-7). Esse dipendono da lui nel senso che egli ne è principio
(eph’autôi, epi tois anthrôpois, archê, EN 1110a16-17, b4; EE 1223a2-3); padrone (kurios,
1223a5) e padre (EN 1115b18). Ha la possibilità di compierle o non compierle (EE 1223a7,
EN 1110a18), di agire e non agire (EN 1115b7-8) e di scegliere questo piuttosto che quello
(EN 1110b4). Egli è principio di movimento prima di tutto delle parti organiche del suo
corpo (EN 1110a15-16). Le azioni oggetto della deliberazione sono volontarie, e quindi

1 Masi (in corso di pubblicazione) propone una lettura più debole della posizione di Aristotele: anche dopo il
darsi dell’archê l’evento dipenderebbe da una connessione causale accidentale.
2 Seguo qui Gaskin (1995, p. 212 n.); in alternativa si può intendere il genitivo come soggettivo, con Donini
(1989, p. 38).
un argomento aristotelico contro il determinismo 43
anche le attività virtuose e viziose (EN 1115b 4-6). Inoltre se tutto è necessario non vi è
senso nel deliberare (DI 9, 18b31-19a10).
Un’osservazione marginale: di fronte a passi come questi, o in casi simili, la strategia
corrente consiste nel cercare in ogni modo di spiegarli in modo compatibile con il de-
terminismo, e di rassegnarsi a leggere in essi una posizione – anche potenzialmente –
indeterministica solo se tutte le altre possibilità di lettura falliscono (es. Fine 1981, Ever-
son 1990; Ide 1993; Bobzien 1998). Il fenomeno non è solo limitato ad Aristotele ma è
stato esteso al Medioplatonismo (Boys Stones 2007). Il presupposto sottinteso in questi
tentativi parrebbe essere che l’antideterminsimo è una posizione filosofica un po’ im-
barazzante, antiscientifica, e che a tutti i costi si deve liberare Aristotele, o qualsiasi al-
tro, da questa macchia nella misura del possibile. Solo dopo che tutti i tentativi sono fal-
liti ci si deve rassegnare, secondo questi interpreti, ad attribuire a qualche antico una
posizione antideterministica. La posizione pare basata su un pregiudizio di tipo scienti-
stico (su questo punto cfr. anche le osservazioni di Labarrière 2009).
Torniamo al rapporto tra Aristotele e la discussione successiva sul determinismo. An-
che per quanto riguarda il PB, e la questione dei futuri contingenti Aristotele pare im-
postare le basi del dibattito successivo, con la sua discussione in DI 9: come il dibattito
sul determinismo nella teoria dell’azione, anche il dibattito su quello che oggi viene de-
finito ‘determinismo logico’ nei secoli successivi si struttura sulla base della discussione
della posizione di Aristotele nel De interpretatione. Questo punto ci pare del tutto evi-
dente, anche se non viene di solito sottolineato dai critici. Il netto distacco che di solito
viene presupposto tra le posizioni di Aristotele e il dibattito delle scuole ellenistiche qui
non pare esistere.
Un passo di Simplicio attesta che gli Stoici risposero alla posizione di Aristotele riaffer-
mando la validità senza restrizioni del PB:
Sulle antifasi che riguardano il futuro gli Stoici hanno la stessa posizione degli altri. Infatti dicono:
«Come stanno le cose per il presente e il passato, così sono per il futuro e le sue parti. Infatti o è
vero il ‘sarà’ o è vero il ‘non sarà’, se [ognuna di esse] deve essere o vera o falsa. Infatti il futuro
stesso è determinato. E se domani vi sarà una battaglia navale, è vero dire che vi sarà, se non vi
sarà è falso dire che vi sarà. Vi sarà o non vi sarà, quindi l’una o l’altra sarà vera o falsa» (in Categ.
406,34-407,5 = SVF ii 198).1
La citazione della battaglia navale, se fosse certamente attribuibile agli Stoici e non a
Simplicio, attesterebbe il rapporto diretto Aristotele e gli Stoici; ma non è necessario
pensare che l’autore stoico citi direttamente il testo di DI 9, per vedere la connessione
tra le due posizioni. L’impegno stoico ad affermare la validità del PB appare anche in
Cicerone, De fato 20-21, e nello Ps. Plutarco, De fato 574f (SVF ii 912).2 Il tema meritereb-
be maggiore approfondimento.
Una delle strategie comuni della critica contemporanea è il trattare in modo separato
i brani in cui Aristotele discute la tesi che tutto è necessario, come se egli avesse com-

1 ÂÚd ‰b ÙáÓ Âå˜ ÙeÓ Ì¤ÏÏÔÓÙ· ¯ÚfiÓÔÓ àÓÙÈÊ¿ÛÂˆÓ Ôî ÌbÓ ™ÙˆÈÎÔd Ùa ·éÙa ‰ÔÎÈÌ¿˙Ô˘ÛÈÓ, ±ÂÚ Î·d âd ÙáÓ ôÏψÓ.
“ó˜ ÁaÚ Ùa ÂÚd ÙáÓ ·ÚfiÓÙˆÓ Î·d ·ÚÂÏËÏ˘ıfiÙˆÓ àÓÙÈΛÌÂÓ·, Ô≈Ùˆ˜ ηd Ùa ̤ÏÏÔÓÙ· ·éÙ¿ ÙÂ, Ê·Û›Ó, ηd Ùa ÌfiÚÈ·
·éÙáÓØ j ÁaÚ Ùe öÛÙ·È àÏËı¤˜ âÛÙÈÓ j Ùe ÔéÎ öÛÙ·È, Âå ‰ÂÖ õÙÔÈ „¢‰É j àÏËıÉ ÂrÓ·È (œÚÈÛÙ·È ÁaÚ Î·Ù\ ·éÙÔf˜ Ùa
̤ÏÏÔÓÙ·). ηd Âå ÌbÓ öÛÙ·È Ó·˘Ì·¯›· ·ûÚÈÔÓ, àÏËıb˜ ÂåÂÖÓ ¬ÙÈ öÛÙ·ÈØ Âå ‰b Ìc öÛÙ·È, „Â܉Ԙ Ùe ÂåÂÖÓ ¬ÙÈ öÛÙ·ÈØ õÙÔÈ
‰b öÛÙ·È j ÔéÎ öÛÙ·ÈØ õÙÔÈ ôÚ· àÏËıb˜ j „Â܉Ԙ ı¿ÙÂÚÔÓ”.
2 I passi non sono discussi o citati in Long, Sedley (1987); sul rapporto tra la posizione di Aristotele e quella
delle scuole ellenistiche sul PB, cfr. White (1983, pp. 40-53) e Gaskin (1995, pp. 51-53 e 86). Per l’analisi della posi-
zione di Crisippo, cfr. Bobzien (1998a, pp. 65-71).
44 carlo natali
piuto degli assaggi qui e là, rispetto ad aspetti singoli del problema, ma non avesse una
posizione generale su di esso. Ma essi invece sono connessi. Il legame tra ‘determinismo
logico’ e teoria dell’azione è dato dal De interpretatione stesso, quando tra le assurdità
che derivano dalla tesi che tutto è necessario appare anche l’idea che la deliberazione
divenga inutile (18b31-33). Se poi esiste davvero l’analogia che qui abbiamo indicato, tra
l’argomento di DI 9 e quello di E 3, allora si possono connettere tra loro anche la discus-
sione del determinismo logico e quella del determinismo causale.
Non vogliamo sostenere che Aristotele sia già impegnato in una discussione sul deter-
minismo al modo in cui essa si sviluppa in relazione alla posizione stoica. Vogliamo però
sostenere che le posizioni di Aristotele sono un anello importante della vicenda storica
che porta dalla discussione del problema, se i malvagi agiscano di loro volontà, già pre-
sente nei poemi omerici e poi ripresa da Socrate, alla discussione della tesi per cui tutto
avviene in modo preordinato e in una catena causale continua e immodificabile.
Non sappiamo come Aristotele sia giunto a discutere tesi deterministiche. Quello che
però ci pare chiaro è che molti dei passi aristotelici più rilevanti per l’idea che non tutto
avviene di necessità hanno un andamento confutativo e dialettico. Sembrano sempre
rivolti contro un avversario. L’argomento di DI 9 e quello di E 3 sono, per ammissione
comune, una reductio ad absurdum. A sua volta, il capitolo iii 7 (= iii 5) dell’Etica Nico-
machea è strutturato nella forma di una discussione, con obiezioni e contro obiezioni
(1113b16, 19, 1114a3, 4, 31-3, b1, 3, 12). Le tesi che tutto è necessario, che il nostro agire e la
deliberazione non dipendono da noi vengono sempre presentate da Aristotele come
una tesi da rifiutare con argomenti.
Legami di queste discussioni con il pensiero dei Megarici o quello di Democrito non
sono mai stati stabiliti in modo evidente. È del tutto possibile pensare che in tutti questi
passi Aristotele costruisca avversari fittizi al fine della discussione, per chiarire meglio
le sue tesi. Ma noi sospettiamo invece che il dibattito sul determinismo sia cominciato
già nell’Accademia antica, in relazione a certe tesi dei dialoghi di Platone sull’agire e la
responsabilità umana apparentemente antitetiche come quelle che si trovano nel mito
di Er e nella sezione del Timeo sulle malattie dell’anima, o le tesi sulla responsabilità dei
malvagi che si trovano nei libri vii e x delle Leggi. La dimostrazione di questo punto ri-
chiederebbe un intero saggio e quindi deve essere rimandata ad un’altra occasione.

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THE WILL:
ORIGINS OF THE NOTION
IN ARISTOTLE’S THOUGHT
Karen Margrethe Nielsen

M ichael Frede ’s posthumously published Sather lectures A Free Will - Origins of


the Notion in Ancient Thought (2011)1 promises to revive discussion of the tangled
web of questions that fall under the heading «the discovery of the will». The thought
that one might make sense of human agency without reference to the will may strike
modern readers as either fantastic or fantastical, depending on their theoretical com-
mitments. But if Frede is to be believed, it is only in the late 1st and early 2nd century AD
that a theory of the will, and also of a free will, came to be articulated for the first time
by the late Stoic philosopher Epictetus (c. AD 55-135).

Epictetus, whose Discourses and Manual came down to us through his student Arrian,
fundamentally changed the way we think about human agency. His discovery – if that
is the right word2 – had repercussions far outside the confines of Stoicism, including on
such thinkers as the Aristotelian commentators Aspasius and Alexander of Aphrodisias
in the late 2nd century AD. It also inspired the early Christian philosopher Nemesius of
Emesa (c. AD 390), whose influential treatise De Natura Hominis served as a reference
point for the church fathers Maxim the Confessor (580-662 AD) and John of Damascus
(died 749 AD). John of Damascus was in turn an important authority for Thomas
Aquinas in his influential analysis of the will in Summa Theologiae (Ia 2ae, q. 6-21), and it
is therefore through Stoic influence rather than through Aristotle that Aquinas came to
have a notion of the will, says Frede.3 Augustine, the hero – or villain – in most accounts

Karen Margrethe Nielsen, University of Western Ontario, Department of Philosophy, Stevenson Hall 3148 1151
Richmond St., London, On, Canada, N6A 5B8, knielse4@uwo.ca
1 Frede delivered the six lectures of which the volume is an edited version as the 84th Sather Professor of Clas-
sical Literature at the University of California at Berkeley in the fall of 1997. At the time of his death, Frede was
still working on further authors and related questions, and was not yet prepared to have the lectures published.
The present volume was edited by David Sedley, with a foreword and endnotes by A. A. Long. In the years between
the delivery of the Sather lectures and his untimely death in 2007, Frede published two articles that bear on the
topic of will and free will in antiquity: John of Damascus on Human Action, the Will, and Human Freedom appeared
in Katerina Ierodiakonou (ed.), Byzantine Philosophy and its Ancient Sources (Oxford, Clarendon Press, 2002) and The
eph’hêmin in ancient philosophy, in «Philosophia», 37 (2007), pp. 110-123. I will refer to the authorial voice in the pres-
ent version of the Sather lectures as ‘Frede’, noting that Frede may have wanted to revise and refine his argument
to a greater extent than what is reflected in the published lectures.
2 As Kajta Vogt notes in her review of A Free Will, which term is used, «discovered» or «invented», «reveals
whether one thinks of the introduction of the will as a step forward or as the beginning of a long-lived aberration
in Western history» (p. 1).
3 Frede’s discussion ends with Augustine, but his remarks indicate that he takes Aquinas and scholastic notions
of the will to be heirs to the Stoic theory, notwithstanding the extent to which they build on Aristotle’s thought.
By contrast, Terence Irwin argues in Who Discovered the Will? (1992) that if Aquinas has a theory of the will (and
no one disputes this) and if this notion can be traced back to Aristotle, as Irwin maintains, then we should infer
that Aristotle has a notion of will. Frede does not consider Irwin’s argument in his lectures.
48 karen margrethe nielsen
of the discovery of the will, is a far less original thinker in this respect than historians
have tended to assume. Says Frede, «Augustine’s notion of the will is just a version of
the Stoic notion of the will» (p. 159). By highlighting the contribution of the pagan
philosopher Epictetus, and downplaying the originality of Augustine, Frede challenges
the argument of his compatriot Albrecht Dihle, who in his 1974 Sather lectures, pub-
lished under the title The Theory of the Will in Classical Antiquity (1982), had argued that
Augustine discovered the will by combining Christian, Hebrew and ancient Greek ideas
in a way facilitated by an accidental feature of his native language Latin.1 But Frede
shows – convincingly, to my mind – that Dihle overestimates Augustine’s importance,
partly because he misinterprets his theory of the will, treating it as voluntarist and in-
determinist, and partly because he omits a detailed study of Stoicism. If Frede is right,
Augustine is heir to the Stoic notion first developed by Epictetus, not the inventor of
the notion in his own right.

Epictetus developed his distinctive notion of assent just as Stoicism was beginning to
lose its importance as an independent school of thought. By the end of the second cen-
tury AD, few thinkers of any note counted themselves as Stoics. Platonism was now
the dominant school, albeit a Platonism with strong syncretistic tendencies, prepared
to incorporate Aristotelian and Stoic ideas where suitable. One Stoic notion that made
its way into Platonism was the notion of rational assent (sunkatathesis). It had already
been incorporated into commentaries on Aristotle’s Nicomachean Ethics – we find it in
Aspasius’ extant paraphrase and in Alexander of Aphrodisias’ treatises On Fate and Man-
tissa, both of which claim to represent Aristotelian orthodoxy while employing Stoic
terms.2 By adopting the Stoic notion of assent, Platonic and Aristotelian thinkers from
the late 2nd century onward advertently or inadvertently inherited the Stoic notion of
will. What may look like mindless terminological eclecticism, then, is in fact the tri-
umph of a late Stoic psychological model of the will, argues Frede. By the 4th century
AD this model was already deeply ingrained in the Platonism to which Augustine was

1 Writes Dihle: «St. Augustine was, in fact, the inventor of our modern notion of will, which he conceived for
the needs and purposes of his specific theology and in continuation of the attempts of Greek theologians, who
developed their doctrine of Trinity in terms of the Neoplatonic ontology. He took the decisive step towards the
concept of human will by reinterpreting a hermeneutical term as an anthropological one. This eventually led him
to an adequate philosophical description of what the biblical tradition taught about man’s fall, salvation, and
moral conduct. But in doing so, he was greatly helped and tacitly guided by the Latin vocabulary of his time»
(Dihle 1992, p. 144).
2 Aristotle holds that non-rational no less than rational animals act voluntarily, though he denies that animals
without a fully developed capacity for rational deliberation are capable of virtue or vice. In an unpromising move,
Alexander tries to explain the difference by driving a wedge between Aristotle’s notion of ‘what is up to us’ (to
eph’hêmin) and what is voluntary (to hekuosion). What is interesting is that he does so with reference to two types
of assent (sunkatathesis): «the voluntary and what is up to us are not indeed the same thing. For it is what comes
about from an assent that is not enforced (to ex abiastou ginomenon sunkatatheseôs) that is voluntary; but it is what
comes about with an assent that is in accordance with reason and judgment that depends on us (to ginomenon meta
tês kata logon te kai krisin sunkatatheseôs). And for this reason, if something depends on us it is also voluntary, but
not everything that is voluntary depends on us» (On Fate, 183.26-30). Alexander later adds that while a non-rational
animal acts in accordance with «impulse and assent», and hence voluntarily, it is peculiar to a human being that
some of the things that are brought about by him (hup’autou) are also up to him (ep’autôi). Alexander’s distinction
between the voluntary and what is up to us is specious – just as Aristotle attributes voluntary action to non-rational
animals, he also claims that their acts are up to them, although they lack the capacity for deliberation and decision
(for his equation of acts that are voluntary and up to the agent, see for instance at EN iii, 1, 1110a17-18; iii, 5, 1113b22;
v, 1135a24-27). In attributing a capacity for non-rational assent to animals, Alexander moves beyond orthodox
Stoicism. See Sauvé Meyer 1998 for further defense.
the will in aristotle ’ s thought 49
exposed. Later thinkers adapted the Stoic notion to serve their own ends, reflecting
their overall philosophical projects and the polemics in which they were engaged.
But the core idea remained the same:
Every voluntary act, that is, everything we do of our own accord, without being forced from the
outside, is caused by an act of rational assent (sunkatathesis).
The will, thus construed, is a rational power of the soul to assent to impressions. It is
the power that explains how we can exercise agency and how we can be responsible for
our actions. Incidentally, Epictetus also treats the will, which he calls prohairesis, as the
power that explains every human act of cognition. We adopt beliefs or acquire knowl-
edge by assenting to impressions that something is the case. The will – a distinctively
human rational capacity for giving or withholding assent to impressions – thus plays a
crucial role both in Stoic epistemology and psychology of action. Plato and Aristotle
are innocent of this notion of the will, says Frede (p. 19). Indeed, they lack any notion
of the will. Frede defends his verdict about Aristotle as follows:
For Aristotle to have had a notion of the will, he would have had to have the appropriate notion
of a choice. Although he did have a notion of a choice, he did not have the kind of notion which
would have allowed him to say that whenever we do something of our own accord (hekontes),
we do so because we choose or decide to act in this way. Aristotle did not have such a notion
since he assumed that we sometimes just act on a nonrational desire (i.e. a desire that has its ori-
gin in the a nonrational part of the soul) without choosing to act in this way and in fact some-
times against our choice. He could assume this since he supposed that there are nonrational parts
of the soul which generate such nonrational desires and that these by themselves suffice to mo-
tivate us to act (p. 31).
Aristotle and Plato, unlike the Stoics, believe in a divided soul. They arrive at the divi-
sion by considering cases of motivational conflict. The core of Plato’s discussion of mo-
tivational conflict in Republic iv hardly needs rehashing;1 Aristotle considers similar cas-
es when he argues, in Nicomachean Ethics i, 13, that continent and incontinent people
«also have in them something apart from reason, clashing and struggling with reason»:
For just as paralyzed parts of the body, when we decide to move them to the right, do the con-
trary and move off to the left, the same is true of the soul; for incontinent people have impulses
(hormai) in contrary directions (EN i, 13, 1102b19-22, transl. Irwin).
The passage is often invoked to argue that Aristotle ascribes desire not just to the part
of soul that «shares in reason in a way, as far as it both listens to reason and obeys it»
(1102b31-32). This is the part with appetites, and «in general desires» (it is epithumêtikon
kai holôs orektikon). He also ascribes desire to the part that is intrinsically rational. This
is the part that «exhorts the incontinent person correctly, and toward what is best»
(1102b17).2

1 For discussion of the disputed details, see the articles in Rachel Barney, Tad Brennan and Charles Brittain
(eds), Plato and the Divided Self, Cambridge-New York, Cambridge University Press, 2012.
2 Frede here takes a stance on a contentious issue: does Aristotle recognize the existence of a class of desire that
originates in the rational part of the soul? Frede maintains, but does not argue, that boulêsis and prohairesis are in-
trinsically rational desires. (For a defense of the opposing view, see Gauthier 1970, p. 193 and 1973, p. 31). Frede’s
interpretation gains support from De Anima iii, 10, 433a23: «Now, it is apparent that understanding (nous) does not
move without desire (for wish (boulêsis) is a desire, and when we are moved in accordance with calculation (logis-
mos), we are also moved in accordance with wish)». In conjunction with De Anima iii, 10, 433b5-13, this places wish
in the rational part of the soul: «Since desires arise that are contrary to one another, as happens when reason and
50 karen margrethe nielsen
Aristotle later names the type of desire that struggles against appetite in incontinent
and continent agents: it is decision (prohairesis). A decision is a desire that presupposes
a wish for an end, and arises when, through deliberation, we identify acts that are ‘pros
to telos’ – conducive to the end – and up to us ‘eph’hêmin’. But although both Plato and
Aristotle have a notion of wish (boulêsis) – and Aristotle has a fully developed theory of
decision (prohairesis) – they both, according to Frede, lack a notion of the will. For they
lack the thought that whenever human beings act of their own accord (hekôn), they do
what they do because they choose or will to act in this way. Not every voluntary act is
caused by an act of rational assent. On a Platonic tripartite or bipartite model of the
soul, desires and emotions can motivate our acts and bypass reason altogether. When
the thirsty man is «driven like a beast to drink», as in Republic iv, reason plays no role in
the causal history leading up to action. When the appetitive part of the soul mutters
‘poteon moi’ in De Motu Animalium (701a32), it is non-rational desire that makes us drink.
Still, Aristotle argues forcefully, both in the Eudemian and in the Nicomachean Ethics, that
action caused by appetite and spirit, no less than action caused by wish and decision,
are acts we do of our own accord – they are, as the standard translations would have it,
voluntary acts, acts for which we merit praise or blame. That is why we blame the in-
continent agent who follows appetite contrary to his decision (prohairesis). It follows
that in the moral psychology of Plato and Aristotle, it is not the case that a specific men-
tal act, an act of assent or a decision, is the immediate cause of all voluntary acts. Only
those acts that we do because we judge them to be good, and conducive to eudaimonia,
are acts that result from wish or decision. Frede thinks that it is this fact that shows that
Aristotle lacks a notion of the will.

Later Platonists and Aristotelians would retain the idea that the soul is bi-partite or tri-
partite, a model inimical to the unified soul of Stoicism, but they also took a «crucial
step» not envisioned by Plato or Aristotle, says Frede, for they now argue, along Stoic
lines, that everything we do of our own accord (hekontes) presupposes an assent of rea-
son (Frede, p. 49). Here, says Frede, the word ‘hekôn’ for the first time starts to mean
‘voluntary’ or ‘willing’ rather that simply ‘of our own accord’, a sense it does not have
in Plato or Aristotle. We should therefore not be misled by the fact that both Aristotle
and Epictetus treat prohairesis as the central notion in their ethics and psychology of ac-
tion. Epictetus’ notion of prohairesis is the first notion of will in the history of philoso-
phy, while Aristotle’s notion is not a notion of will at all.
The crucial elements, then, that mark Epictetus’ discovery of the notion of the will,
can be summarized as follows:

appetites are opposed, and it happens in those that have a perception of time (for understanding (nous) commands
us to hold back on account of the future, while but appetite commands on account of what is present (…) it follows
that what produces movement, the desiring part qua desiring, is one in species (…) but in number it is many». Ar-
guably, Aristotle here maintains that though the desiring part (to orektikon) is one in definition, in rational animals
its powers are distributed over several parts of the soul – boulêsis in the rational part and epithumia and thumos in
the non-rational. See also Topics iv 5, 126a13: «wish is always found in the rational part». By contrast, Politics vii, 15,
1334b20-25 is problematic for Frede’s interpretation, since Aristotle here argues that the non-rational part is prior in
generation to the rational part, since «spirit and wish and appetite» are implanted in children from birth, whereas
reason and understanding only develop as they grow older. In EE ii, 4, 1221b30-32, Aristotle refuses to divide up to
orektikon, and some take this to entail that he places boulêsis in the non-rational part. It is unclear what kind of di-
vision he has in mind, however – as we have seen, what is important is the unity of species, not numerical unity.
For a discussion of the evidence supportive of the view Frede defends, see Reeve 2012, chapter 2, pp. 25-26.
the will in aristotle ’ s thought 51

1. All voluntary acts are caused by volitions (‘willings’).


2. Volitions are mental acts caused by a rational power in the soul.
3. Therefore all voluntary acts are caused by acts of reason (assent (sunkatathesis),
whether in the form of choice or decision (prohairesis)).
We find this notion in Alexander, in Origen, in Plotinus, in Augustine and in all the
thinkers who were inspired by them. It persists, more or less unchanged, from the time
of Epictetus, through the early and Late Middle Ages.

Frede’s assessment of Augustine is unconventional.1 Judging from the reviews of his


lectures, scholars are now prepared to accept it. By contrast, his assessment of Aristotle
is highly conventional. Although I am sympathetic to Frede’s claim that Augustine did
not discover the will, I am less persuaded that Frede’s assessment of Aristotle is correct.
Though Frede’s justification for denying that Aristotle has a notion of the will differs
from that of earlier authors, his assessment of Aristotle is widely shared. A brief survey
of the literature makes this clear. In his masterly commentary on the Nicomachean
Ethics, the scholar René Antoine Gauthier claims that «in the psychology of Aristotle
the will does not exist» (p. 218). In Three Rival Versions of Moral Enquiry (1990), Alasdair
MacIntyre likewise asserts that «Aristotle, like every other pre-Christian author, had no
concept of the will and there is no conceptual space in his scheme for such an alien no-
tion in the explanation of defect and error» (p. 111). Even W. D. Ross, who famously
claimed that «Aristotle shared the plain man’s belief in free will», observes that «it has
often been complained that the psychology of Plato and Aristotle has no distinct con-
ception of the will» (p. 199). Ross doesn’t share this sentiment, but he nevertheless com-
plains that Aristotle «did not examine the problem very thoroughly, and did not express
himself with perfect consistency» (p. 201). More recently, Dorothea Frede remarks in a
forthcoming paper that, «in principle, one could make short shrift with the question of
free will in Aristotle. Given that he has no concept of a will, there is a fortiori no concept
of a free will. To explain the reason for this seeming gap in Aristotle’s psychology takes
somewhat longer» (p. 1).2 What needs explaining, then, by Dorothea Frede’s lights, is
why Aristotle lacked a concept of the will. That he lacked a notion of will is obvious.3

1 It is not, however, without precedent: Gauthier (1970) at one point remarks that «if no one has ever defined
the Augustinian conception of the will, that is simply because this conception does not exist: of all the traits of
the will in Augustine, there is not a single one that is not found earlier in the Stoics» (Commentary, p. 159, translated
in Kahn 1985). This is, incidentally, also Frede’s thesis, though Frede does not mention Gauthier as a forerunner
of his own view.
2 Frede thinks Ross’s assumption – that the notion of a free will is a «part of the repertory of terms in which
the ordinary person thinks about things and in terms of which the ancient Greeks must have already been thinking
all along» (p. 2) – has been quite widespread among scholars. This assumption strikes us as ‘astounding’ nowadays,
says Frede: «(…) Plato and in particular Aristotle had plenty of occasion to refer to a free will. But there is no sign
of such a reference in their works. Scholars did indeed notice this with some puzzlement. But it did not occur to
them to draw what would seem to be the obvious inference, namely, that Plato and Aristotle did not yet have a
notion of a free will and that it was for this reason that they did not talk of a free will» (p. 2).
3 D. Frede, forthcoming paper in Pierre Destrée, Ricardo Salles and Marco Zingano (eds), What is Up to Us?
Studies in Causality and Responsibility in Ancient Philosophy, Academia Verlag, 2013. In authors who champion Au-
gustine as the inventor of the will, the need for an argument to show that Aristotle lacks a concept of the will is
likewise voided. If the relevant notion is one that first appears with Augustine, then it follows trivially that Aris-
totle, like any other pre-Augustinian author, lacks it.
52 karen margrethe nielsen

In this paper, I wish to reopen the case for thinking that Aristotle has a notion of the
will. My focus will be much narrower than Frede’s. I intend to play mole to Frede’s ea-
gle, honing in on a limited aspect of Aristotle’s thought – his theory of decision. I shall
argue that there is, in fact, a notion of the will in Aristotle, and that it lies at the heart
of his ethics and philosophy of action.1 A word of caution about what I do and do not
intend to do. I shall have relatively little to say about the notion of freedom. Frede dis-
parages the libertarian notion of freedom that was first defended by Alexander of
Aphrodisias in On Fate and the Mantissa. The freedom to choose either one of two in-
compatible courses of action all things being equal, is nether coherent nor worth hav-
ing. We don’t deserve praise for doing the right thing because we could have done the
wrong thing and chose not to. The «proto-indeterminism» that Ross discerns in Aris-
totle, and that Aristotle allegedly shares with the plain man, is a sad simulacrum of the
real thing: the freedom to do whatever needs to be done in order to secure one’s own
happiness. This is a type of freedom that we first find defended by Epictetus. Epictetus
thus not only discovered the will, he also discovered the free will, claims Frede. But I
shall not dwell on questions about freedom in this paper. My focus is the will, pure and
simple.
While Frede is certainly right to add his voice to the chorus of critics who have found
Ross’s remark about Aristotle and the ‘plain man’ hopelessly naïve, it is, I would argue,
an open question whether the conventional view about Aristotle and the will is histor-
ically sound. I shall argue that Frede, just like his predecessors, prejudges a number of
central methodological questions, questions that conceptual historians neglect at their
peril. Once these questions are brought into sharper relief, it turns out to be far less
clear-cut that Aristotle lacks a notion of the will.

The Paradox of Inquiry and Conceptual History


Ever since Gilbert Ryle published The Concept of Mind (1949), discussion of the will has
left many philosophers feeling uneasy. Partly, the unease is due to lack of conceptual
specificity. It is unclear what we mean by ‘the will’, and so historians have had a hard
time keeping their eyes fixed on a set of well-defined problems. What, exactly, is re-
quired to have a concept of will? What, if any, are the appropriate conceptual bound-
aries? If we may stipulate the boundaries however we please, then our answers to the
question «Who discovered the will?» will be trivial and uninformative. Historians are
particularly attuned to such problems, and so murmurs of «anachronism» and «caprice»
frequently follow discussions of the origin of the notion of will. But partly, unease
about the will stems from excessive conceptual specificity. Ryle’s debunking arguments
proceed from a highly specific notion of the will – as Frede notes, it is remarkably close
to the notion Dihle claims to find in Augustine. To the extent that Ryle’s highly specific –
and historically parochial – notion has gained currency as the notion of will, it is perhaps
unsurprising that philosophers have wanted to keep their distance. If the question re-

1 Among scholars who have attributed a concept of will to Aristotle, few have offered much in the way of ar-
gument. Exceptions are Irwin (1992), and to a lesser extent, Kenny (1979). It is possible to understand the massive
resistance to the idea as a reaction against earlier, incautious, attributions, though the failure of earlier scholars
like Burnet to argue for treating EN iii, 1-5 as a discussion of the will does not show that they are wrong, only that
it isn’t self-evident that Aristotle’s remarks can be interpreted in this way.
the will in aristotle ’ s thought 53
garding the origin of the notion of the will is reduced to the history of the origin of the
notion that Ryle rejects, then one may be tempted to concur «good riddance».

In the introduction to his lectures, Frede rebukes Dihle for supposing that there is only
one, highly specific notion of free will, the voluntarist one that Dihle traces back to Au-
gustine, and that he dubs «our modern notion of the will». Frede charges that «[Dihle]
hardly seems entitled to the assumption that there is one notion of the will, and a free
will at that, which we all share» (p. 5). By contrast, he presents his own ascription crite-
rion as theoretically neutral, and maintains that he does not prejudge the outcome of
his inquiry by imposing unreasonably narrow restrictions on the notion that is to be
traced to its point of origin in antiquity:
My aim is completely different from Dihle’s. I do not aim to elucidate the origins of some specific
notion of a free will which we might have, let alone a notion I myself favor. For I regard my in-
quiry as purely historical. I do not want it to depend on, and be shaped and slanted by, a notion
of a free will which at best can be regarded as philosophically quite controversial. Rather, I am
interested, as I said at the outset, in trying to find out when and why a notion of a free will arose
in the first place and what notion this was (…) Now though I do not presuppose a specific notion
of a free will, let alone want to endorse or advocate some specific notion of it, I do rely on some-
thing like a general idea of a free will, like a schema which any specific notion of a free will or
any particular version of the notion of a free will, at least in antiquity, will fit into. (p. 6-7).
In contradistinction to Dihle, then, Frede wants to work from what he calls a «general
idea of the will», a schema that any specific notion of will, at least in antiquity, can agree
with. He extracts this notion, by «looking at the ancient texts» and «abstracting it from
those texts that explicitly talk of a will». This gives us a general idea of what we are look-
ing for without committing us to a particular view of the will or free will, or so Frede
claims. Says Frede about his own method: «I have looked at the relevant ancient texts
and have abstracted this schema from those texts which explicitly talk of a will, the free-
dom of the will, or a free will» (p. 7).

These are noble intentions, but perhaps harder to live up to in practice. Exactly how we
determine when a Greek thinker «speaks explicitly about the will» is a question that is
more difficult to answer than Frede lets on. Where does Frede extract his schema for
the will, the preconception whose content we have already encountered? Frede appears
to treat occurrences of «prohairesis» and «voluntas» in ancient texts as cases in point, since
he writes that «the standard Greek term for the will is prohairesis, literally, ‘choice’ or
‘disposition to choose’. Later boulêsis and, in particular, thelêsis will also be used in this
sense, especially in Byzantine times. The standard Latin term, of course, is voluntas». (p.
8-9). Now, Frede’s claim that the Greek prohairesis straightforwardly means ‘will’ should
strike us as controversial. It is a point that some scholars have expended a fair amount
of energy on defending (see e.g. Heda Segvic’s remarks in Choice and Deliberation in
Aristotle).1 But if we grant that prohairesis does mean ‘will’, then if Frede is extracting

1 Criticizing Kenny (1979) for translating Aristotle’s boulêsis as ‘will’, Sedgvic notes that boulêsis is simply a
wish – its object can be things that are up to us as well as things that are not up to us, such as immortality or
having a kingly power over the whole of mankind (see EE ii, 10, 1225b32-34 and EN iii, 2, 1111b22-23). Eventually,
says Segvic, the word boulêsis will be used in the sense that warrants its translation as ‘will’, but she denies that it
is so used in Aristotle. Aristotle’s notion is rather to be found in his discussion of prohairesis: «the term boulêsis
54 karen margrethe nielsen
his schema from Greek texts that explicitly speak of a will, should not Aristotle’s Nico-
machean and Eudemian Ethics be among them? And if so, how can Frede claim to have a
«theoretically neutral» schema when he denies that Aristotle’s theory of prohairesis is a
notion of the will, albeit one that differs from the one that Frede traces back to Epicte-
tus? Either prohairesis doesn’t mean will, in which case Frede is not forced by his own
commitments to use all texts speaking of prohairesis as a basis for schema extraction, or
it does mean will, and Aristotle has a notion of the will, but not one that plays the ex-
planatory role that Frede thinks a notion of the will should play. Then Frede is no longer
a neutral historian, but a judge of the viability of competing notions of the will. Like
Dihle’s voluntarist notion, his preferred notion of the will is just one among a number
of competing notions of the will in antiquity.

As a consequence of his selective application of the schema extraction principle, Frede’s


notion of will cannot accommodate disagreement about the nature and the scope of
the will in antiquity – in particular, he cannot allow that different ancient authors dis-
agreed over the extent to which all voluntary actions are caused by acts of the will. Be-
cause Frede thinks that Aristotle lacks a notion of the will, he refuses to translate ‘hekôn’
as voluntary and ‘akôn’ as involuntary in Aristotle.1 It is often observed that these Greek
terms lack the etymological connection to the Greek terms for wish and decision, boulê-
sis and prohairesis, and that the connection between acts that are voluntary and acts that
result from the will only became conspicuous when Greek terms were translated into
Latin by Cicero (see for instance Tusculan Disputations, iv, 12). There are no linguistic
grounds that would lead Aristotle to conclude that all and only acts that result from an
act of will are voluntary. By contrast, the Latin word for wish is ‘voluntas’; it is derived
from the same root as the term from the voluntary, voluntarium. Certainly, the Greek
term ‘boulêsis’ can be traced back to the same Indo-European root as the Latin voluntas,
just as ‘will’ in English, ‘Wille’ in German or ‘vilje’ in the Scandinavian languages. But
there is no immediate connection in Greek between this term and the term denoting
what we do of our own accord. It thus needs explicit argument that only acts caused by
the will are voluntary. Frede does not, however, think that the lack of an etymological
connection prevents Greek authors from seeing the causal connection and hence from
developing a notion of will. Epictetus spotted it, though he taught in Greek.

The crucial question, then, is whether Frede has in fact arrived at a neutral schema, or
whether his dismissal of Aristotle simply reflects his preference for the Stoic notion of
will over the Aristotelian.

was used by Plato’s Socrates in the Gorgias in a way that picks out certain strands of the concept of the will. Aris-
totle, however, contrasts boulêsis with choice, prohairesis. It is in his account of choice that an implicit notion of
willing is to be found» (Deliberation and Choice in Aristotle, in her From Protagoras to Aristotle: Essays in Ancient Moral
Philosophy, p. 165).
1 Frede here echoes Gauthier (1970), who translates ‘hekôn’ with ‘de son plein gré’ and ‘akôn’ with ‘malgré soi’.
Gauthier defends his choice as follows: «On traduit communément ces mots par ‘volontaire’ et ‘involontaire’. Mais
nos mots de ‘volontaire’ et ‘involontaire’ ont derrière eux toute une philosophie, – celle de la volonté, – qui n’ex-
istait pas à l’époque d’Aristote et que lui-même n’a pas réussi à élaborer; les concepts qu’ils expriment sont le point
d’aboutissement d’un long effort de réflexion dont l’œuvre d’Aristote, après celle de Platon, marque au contraire
le point de départ. C’est se rendre inintelligibles ces premiers balbutiements de la philosophie de la volonté que
de les traduire d’emblée dans les mots savant où elle s’exprimera, adulte» (p. 170).
the will in aristotle ’ s thought 55

Inquiry into the origin of philosophical notions sometimes suffers from what we may
call an echo-chamber problem: the preconception one starts out with needs to be
sufficiently specific to guide the inquiry, but simultaneously sufficiently broad not to
prejudge the question one seeks to answer. If the notion is too broad, one cannot find
anything at all, but if it is too narrow, the answer is simply an echo of the notion one
adopted at the outset. This is, one could argue, a special instance of the paradox of in-
quiry. Excessive specificity in the preconception prejudges the answer, but it does more
than that; by prejudging the answer, it also makes it very hard to reconstruct the philo-
sophical dialectic between different thinkers who disagree over the nature and scope of
will. They will end up talking past each other rather than to each other. It is all too easy
to define the subject of the inquiry in such a way that theories that purport to be com-
peting theories about the same thing end up disagreeing about nothing at all. One way
to avoid this unwelcome result is to distinguish between a concept of the will and a con-
ception of the will. The concepts / conception distinction is frequently invoked in polit-
ical and legal philosophy. In A Theory of Justice, Rawls distinguishes between a concept
of justice and different conceptions of justice that one might defend, of which his own
– justice as fairness – is one. A concept is a broad schema that can be developed in several
compatible or incompatible ways. Thus, different conceptions of the will are different
accounts of the nature of the will. But we do not need to have the right conception of
the will to have a concept of will. I would argue that the connection between the will
and voluntary action that Frede posits should be treated as just one way to develop a
conception of the will, and not as a necessary ingredient in any concept of the will.

From the point of view of historiography, it is potentially risky to treat the concept of
the will as a concept with sharp boundaries.
In trying to determine whether a specific thinker has a notion of the will – whether
it is the right or the wrong one – we should specify a number of roles that the concept
may play in the moral psychology of an author, without privileging any features by
elevating them to the role of necessary and jointly sufficient conditions. To my mind,
this list includes such features as the idea that the will is a cause of action, that it is
relevant for the assessment of moral character or perhaps for the rightness of action,
that it has the power to influence the strength of other desires, that our will reflects
our conception of the good life, that it is compatible or incompatible with determin-
ism, that it can be strong or weak, and so forth. I do not mean the list to be exhaustive.
Some of these roles may be more central than others, such that the absence of all of
them will decisively disqualify a candidate notion as a notion of the will. But there is
leverage in the precise number and the precise nature of the elements involved. This
is not, I hasten to add, to deny that in trying to arrive at the correct conception of the
will we must accept that some conceptions of the will may be better than others; I
am perfectly prepared to allow that. Hobbes’ conception of the will as the «last desire
in deliberation» (see e.g. Leviathan 6, 49; 6, 53), the one that ‘wins’, as it were, strikes
me as a borderline notion, as I am sure Hobbes intended.1 But having the right notion

1 It allows Hobbes to argue, pace Aristotle, that animals have a will, since they deliberate, and it allows him to
argue that when we act because of fear, as we do in setting up a government, we act voluntarily, since fear is a
desire and hence expresses our will. Hobbes’ conclusion about coerced acts accords with Aristotle’s treatment of
56 karen margrethe nielsen
of the will is not a condition for having a notion of the will in the first place, and hav-
ing the Stoic notion of the will is not a prerequisite for having a notion of the will. To
think so is to prejudge many of the debates about the will throughout the history of
philosophy.

The ‘Absurd Hypothesis’:


Ryle ’ s Complaint
As we have seen, Frede treats the will hypothesis as a purported explanation of a phe-
nomenon that we tend to take for granted:
Frede’s Explanandum:
It is a fact that at least sometimes when we do something, we are responsible for what we are
doing, as nothing or nobody forces us to act in this way; rather, we ourselves desire or even
choose to act in this way (p. 3).
The will is then introduced as explanans:
Frede’s Explanans:
In order to get any notion of a will at all, one must assume the following. Unless one is literally
forced or made to do something in such a manner that what one is doing is in no way one’s own
action (as when one is pushing something over because one is pushed oneself ) one does what
one does because something happens in one’s mind which makes one do what one does. More-
over, one has to assume that what happens in one’s mind which makes one do what one does is
that one chooses or decides to act in this way. Or at least one has to assume that there is some-
thing going on in the mind which can be constructed as a choice or decision (…). Thus, for in-
stance, if one feels hungry or feels like having something to eat, one might or might not choose
to have something to eat. If one then does have something to eat, it is because one has chosen
or decided to have something to eat, because one feels hungry (p. 7-8).
And a little further on,
For there to be an action that is one’s own action, there is supposed to be an event in one’s mind,
a mental act, a choice or decision, which brings about the action. The notion of a will, then, is
the notion of our ability to make such choices or decisions which make us act in the way that
we do (p. 8).
Frede thus maintains that the notion of volition is the notion of a mental act that causes
whatever we do of our own accord. This is a notion Ryle rejects. With characteristic
zeal, Ryle describes the notion of a will and the corresponding notion of ‘volitions’ as
an «absurd hypothesis». It is «an inevitable extension of the myth of the ghost in the ma-
chine». To Ryle’s mind, positing the existence of a faculty responsible for acts of volition
just is slicing the world into two parts that somehow interact; one material part, con-
sisting of the body and all extended objects, and one immaterial part – including the
will – which through covert acts of will causes the body to undertake overt acts. Inter-
estingly, Ryle claims that «the Stoics and Saint Augustine» were the first thinkers to ex-

acts done ex anankês in EN iii, 1, but Hobbes’ argument is brisker than the one Aristotle presents. For Hobbes’ re-
jection of the Scholastic notion of will, see his exchange with John Bramhall, in Vere Chappell (ed.), Hobbes and
Bramhall on Liberty and Necessity, Cambridge, Cambridge University Press, 1990.
the will in aristotle ’ s thought 57
plain overt actions as the result of counterpart hidden operations of willing. He thus
concurs with Frede that the first notion of the will is due to the Stoics.
In chapter three of The Concept of Mind, Ryle argues that in addition to problems of
interaction, the volitional theory suffers from a number of further problems, ranging
from the lack of any phenomenological evidence for the existence of volitions, to the
fact that volitions, as what accounts for the voluntary nature of our acts, are also sup-
posed to be subject to moral appraisal. If we think, as philosophers tend to think, that
our acts deserve praise or blame if and only if they are voluntary, then volitions must
themselves be caused by volitions, for otherwise they would not be voluntary, and sub-
ject to moral appraisal. The theory thus falls pray to what we for lack of a better word
may call the «third volition argument» a regress with no end in sight. It results from the
acceptance of three claims that form an uneasy triad:
1. An act is voluntary just in case it is caused by volition.
2. Only voluntary acts merit praise or blame.
3. We merit praise or blame on account of our volitions (rather than our overt acts).
It follows that volitions must be caused by volitions to merit praise or blame, but then
our volitions about volitions should themselves merit praise or blame, and must there-
fore be caused by further volitions. Ryle’s attack on the «absurd hypothesis» is, by his
own admission, a special case of his attack on mind-body dualism. It is peculiar, then,
that Ryle should fault the Stoics, who were unabashed materialists, for first introducing
the will and volitions into our mental vocabulary. If the Stoics are at fault for introduc-
ing a theory of the will, their fault is not introducing the ghost in the machine. Ryle is
plainly wrong that a notion of the will presupposes the view «that there are mental
states and processes enjoying one sort of existence, and bodily states and processes en-
joying another».
Notice, however, that Ryle’s regress objection would seem to hold – if it holds at all
– regardless of what model of the mind one prefers. Arguing that «No one ever says
such a thing as that at 10 a.m. he was occupied in willing this or that, or that he per-
formed five quick and easy volitions and two slow and difficult volitions between mid-
day and lunch-time», Ryle concludes that the existence of volitions is pure fiction:
The fact that Plato and Aristotle never mentioned them in their frequent and elaborate discus-
sions of the nature of the soul and the springs of conduct is due not to any perverse neglect by
them of notorious ingredients of daily life but to the historical circumstance that they were not
acquainted with a special hypothesis the acceptance of which rests not on the discovery, but on
the postulation, of these ghostly thrusts (Ryle 1949, pp. 64-65).1
Here, Aristotle is again said to side with the plain man, but this time the plain man is
not a believer in proto-indeterminist will, but an ingénue with no experience of or com-
mitment to the existence of volitions. If Ryle is right, trying to determine who first dis-
covered the will as the capacity for volitions is attempting to bestow a dubious honor –
that of introducing an «absurd hypothesis» into the philosophy of mind.

1 «If ordinary men ever report the occurrence of these acts, for all that, according to the theory, they should
be encountered vastly more frequently than headaches, or feelings of boredom; if ordinary vocabulary has no
non-academic names for them; if we do not know how to settle simple questions about their frequency, duration
or strength, then it is fair to conclude that their existence is not asserted on empirical grounds» (p. 65).
58 karen margrethe nielsen
Now, Ryle was something of a loose cannon as a historian of philosophy, and his ten-
dency to treat all assumptions about the will as part and parcel of the same Stoic legacy
– including, absurdly, the immateriality of the mind – does not exactly inspire confi-
dence. But I think there is something to be taken from Ryle’s analysis all the same. And
that is his claim that proponents of the volitional model tend to fall pray to a nasty
regress. It is a regress that threatens the coherence of the theory of the will that we find
in Epictetus.
Epictetus solves the problem, I would argue, by entirely moving the locus of moral
appraisal from overt acts to volitions, and arguing that these are free, not by being the
products of volitions themselves, but by being expressions of our mind’s disposition, or
prohairesis, which is who we essentially are as individual agents. No one, not even Zeus,
can take control of our prohairesis. It is therefore unforced and unhindered.
As anyone who has read the Discourses will know, Epictetus’ thought is distinctive.
He takes up a notion that had so far only been used by Aristotelians, namely prohaire-
sis, and puts it to his own characteristic use. By Epictetus’ lights, the state of your
prohairesis determines what sort of person you are, and it also determines how you
behave. Indeed, it is who you are as a person. Unlike bodily motions and the conse-
quences that may or may not flow from them, prohairesis, as the power to give assent
to impressions, is truly in our own power (eph’hêmin). Thus, not even Zeus can get
the better of it (I. 1. 23). Because overt acts can be hindered, they are not up to you,
and your happiness therefore does not depend on what you do as far as bodily move-
ments are concerned. Rather, it depends on assenting only to the right impressions,
and especially to the right impulsive impressions. This assent, says Frede, which you
choose to give, constitutes a willing, and this willing is the impulse which causes you
to act in certain ways (unless you are prevented by external forces): «This ability or
disposition, insofar as it accounts for your willing whatever it is that you will to do,
can be called “the will”» (p. 46). Epictetus calls the will prohairesis rather than boulêsis,
says Frede, because he wants to mark that it is an ability to make choices, of which
willings are just products. The will is thus a capacity for assenting to impressions, a
capacity that can be exercised well or badly, and on which our happiness depends.
«This indeed is the first time that we have a notion of a will», concludes Frede (p. 46).
It is also the first time that we have a notion of free will, he claims. To Epictetus’
mind, your use of the capacity for assent is entirely up to you, whether you are free
man or a slave in the political sense. No power or force in the world could prevent
anyone from making the choices they need to make to live a good life. Conversely,
no power or force, no demon or spirit, could force you to make choices that would
prevent you from living a good life. This means that by Epictetus’ account, your hap-
piness depends entirely on you, whoever you are, that is to say, it depends entirely on
the correct use of your impressions (chrêsis tôn phantasiôn). The correct use of impres-
sions throughout your life just is wisdom, and wisdom as Epictetus construes it is the
virtuous state of your prohairesis. This state – which we may be tempted to call «a
good will» – is sufficient for happiness, however hard it is to develop in actual life for
each and every one of us.

At this point, external actions are no longer important for the successful conduct of life
or the attainment of happiness. But curiously, this also means that the causal role of vo-
litions falls by the wayside. Volitions are no longer morally significant because they nor-
the will in aristotle ’ s thought 59
mally result in action, they are what matters in their own right.1 This means that Frede’s
explanandum is no longer a phenomenon of much philosophical significance. Frede’s
explanandum, recall, was this: «It is a fact that at least sometimes when we do some-
thing, we are responsible for what we are doing, as nothing or nobody forces us to act
in this way; rather, we ourselves desire or even choose to act in this way» (p. 3). In Epicte-
tus, responsibility for overt actions is no longer the main issue. To the extent that Epicte-
tus discovers the notion the will, then, it is a will that is oddly indifferent to the effects
that it is supposed to explain. Epictetus may have discovered a notion of the will, then,
but it is a notion that no longer serves the role that the notion was supposed to serve in
our conceptual taxonomy.

Aristotle ’ s Theory of Decision


In Aristotle, the situation is quite different. Aristotle describes decision (prohairesis) as
an efficient cause of action (hothen hê kinesis, EN vi, 1139a31), and he thinks that our pro-
hairetic state is the measure of our character. He describes vice as «ignorance in the de-
cision» («hê en têi prohairesei agnoia», EN iii, 1, 1110b31-2), and defines virtue as a state of
character concerned with decision (hexis prohairetikê, 1106b36; 1139a23).
The centrality of the notion of prohairesis in the Ethics is frequently missed, but once
we see what roles it plays in Aristotle’s conceptual economy, we will be less inclined to
dismiss the suggestion that Aristotle has a concept of the will. That is not because pro-
hairesis ‘means’ will – the question cannot be settled by translator’s fiat – but because
Aristotle’s theory answers a sufficient number of questions that a theory of will should
answer. Distinguishing decision from mere wish (boulêsis) (which can be for impossible
states of affairs as well as states of affairs that don’t depend on us), Aristotle infers that
we decide on actions that are up to us (eph’hêmin). We identify such actions through de-
liberation (bouleusis) that proceeds from a supposition about the end. The end is an ob-
ject of wish, but until we have traced the principle of the end back to us – to an act we
can do – we will not be moved to act. A virtuous agent will decide on the right act for
the right reason, because it is the best way to promote an end that is good under the cir-
cumstances. The vicious agent may decide on means that are appropriate given his
ends, but his conception of the end is false. There is therefore a sense in which the vi-
cious person is acting because of ignorance, but it is not an ignorance that renders his
act involuntary, claims Aristotle. The vicious person’s ignorance is ignorance of good
and bad (universals) rather than ignorance of matters of fact (particulars – who is doing
what to whom with what instrument and in what way).

1 It is true that acts of rational assent aim at action (providing that the appearance to which they assent is
hormetic). But Epictetus thinks that whether an act of assent results in an overt act is morally insignificant – mere-
ly a causal consequence of a covert act that is up to us. If it is in principle possible for the effect to be prevented
from occurring, then the effect is not up to us, and therefore not an appropriate object of moral appraisal. An act
is up to us if only if we fully control whether it occurs or not such that nothing could or could have prevented it.
By contrast, Aristotle claims that overt acts are up to us if their principle (archê) is in fact in us and we know the
relevant particulars. If the agent «has within him the principle of moving the limbs that are the instruments of
the action», then he acts willingly, because it was up to him to do it or not do it (EN iii, 1, 1110a15-18). The fact that
someone or something could in principle prevent him from moving his limbs does not mean that his external acts
fail to be up to him. Aristotle thinks that we deserve praise or blame depending on the way in which we perform
such external acts – that is, depending on our reasons for doing what we do – and this is a matter of our prohairesis
– whether it is the direct cause, or merely an indirect cause which approves or tacitly allows acts caused by non-
rational desires.
60 karen margrethe nielsen

By drawing this careful distinction between ignorance of universals and particulars, Ar-
istotle can respond to the Socratic paradox. Socrates maintains that no one is willingly
vicious because he fails to distinguish between those who are ignorant of matters of
fact and those who are ignorant of what ends are good. Aristotle defines voluntary acts
as those that have their principle in the agent, who knows the particulars in which his
action consist, and he is thereby free to infer that it is only ignorance about particulars
which would render an act involuntary. The wicked person is responsible for what he
does, since he acts in accordance with his own (mistaken) conception of the good. By
contrast, the virtuous agent knows what ends are worth pursuing and why. Insofar as a
decision is of something for the sake of something (EE ii, 8, 1226a11-12), it reflects both
the agent’s conception of the end as worthy of pursuit and his judgment that his act
promotes this end. Aristotle is well aware that the very same type of acts – returning a
deposit or not overreaching – may be done for different reasons. Though an act may be
right in itself (that is, although it may conform to the behavior we would expect from
a virtuous person), it may not conform to the motives for so acting that we expect of
the virtuous person. Aristotle therefore cannot give a purely behavioral definition of
virtue – he needs a definition that captures the agent’s ends (telê) as well as his means
(ta pros ta telê) – the acts that he performs for their sake. Defining virtue – and vice –
with reference to prohairesis meets both desiderata.
The state of the agent’s prohairesis – whether he makes the right decision for the right
reason, and whether he stands by his decision when the time to act arrives – is therefore
a better indicator of the agent’s character than his acts per se. What matters to our as-
sessment of a person’s character is not simply what he does (though that matters, too),
but why he does it, and whether his doing the right thing was a fluke, or the expression
of a firm and settled disposition.
That is why Aristotle insists that
[f]or actions in accord with the virtues (kata tas aretas), it does not suffice that they themselves
have the right qualities. Rather, the agent must be in the right state when he does them. First, he
must know [that he is doing virtuous actions]; second, he must decide on them (prohairoumenos),
and decide on them for themselves (kai prohairoumenos di’auta); and third he must also do them
from a firm and unchanging state (bebaiôs kai ametakinêtôs echôn) (EN ii, 4, 1105a28-33).

Aristotle immediately adds that as conditions for having a virtue, «knowledge counts
for nothing, or [rather] for only a little, whereas the other conditions are all-important»
(EN ii, 4, 1105a35-36).
It bears emphasizing in this context that Aristotle does not think that the object of
moral appraisal is the decision itself. Rather, he argues that we say that actions are done
virtuously by looking at what the agent does and the reason for which he did it – in
short, how he acted. Aristotle identifies a settled disposition to make the right decisions
with prudence. Only a prudent man will satisfy all three of Aristotle’s criteria for virtue
of character. He will do the right thing, knowing that what he does is virtuous, and will
decide on the virtuous actions for their own sake, and will do them from a firm and un-
changeable state – without any indecision or wavering – since he lacks insubordinate
desires. Aristotle can therefore hold that «it is by deciding (tô prohaireisthai) on good and
bad that we are men of a certain character (poioi tines esmen)» (EN iii, 2, 1112a2). He later
remarks that «the controlling element (to kurion) of virtue and character lies in decision
the will in aristotle ’ s thought 61
(en têi prohairesei)» (viii, 13, 1163a23). Prohairesis is therefore the pivotal term in Aristotle’s
ethics and moral psychology.
Aristotle defines decision as a «deliberate desire to do an act that is up to us» (orexis
bouleutikê tôn eph’hêmin, 1113a11). We deliberate in order to find actions that are up to us
to perform which promote our ends – ends that we desire because we judge them to be
such that we ought to pursue them for their own sake: «The principle of an action – the
source of motion, not the goal – is decision; the principle of decision is desire and goal-
directed reason» (EN vi, 2, 1139a31-33). Insofar as decision presupposes both a wish for an
end and deliberation about how to attain it, it rests crucially on an operation of practical
reason. Aristotle describes the part of the soul responsible for making decisions as the
«guiding part», to hêgoumenon, and likens its role to that of Homeric kings:
What we decide to do is what we have judged [to be right] as a result of deliberation. For each
of us stops inquiring how to act as soon as he traces the principle back to himself, and within
himself to the guiding part (to hêgoumenon) for this is the part that decides. This is also clear from
the ancient political systems described by Homer; there the kings would first decide and then
announce their decisions to the people. We have found, then, that what we decide to do is what-
ever action, among those up to us, we deliberate about and [consequently] desire to do. Hence
also decision will be deliberate desire to do an action that is up to us; for when he have judged
[that it is right] as a result of deliberation, we desire to do it in accord with our wish (kata tên
boulêsin) (EN, iii, 3, 1113a4-13).1
Aristotle here confirms that the part that makes decisions is the «guiding part», to
hêgoumenon. Scholars have unanimously agreed that this is a slightly arcane way of re-
ferring to the rational part of the soul insofar as it is responsible for deliberation (i.e.
qua logistikon). There can be little doubt, then, that reason makes decisions. Deliberation
that takes an appetitive desire (epithumia) or a spirited desire (thumos) as its starting point
does not result in decision (prohairesis) in Aristotle’s technical use of that term (1111b10-
19). I can’t decide to take exercise as a means to health unless I desire health for the sake
of something that I judge to be unqualifiedly good (EN 1139a31; 1140b4-7). No one de-

1 The text at 1113a13 is controversial. Oxford Classical Texts reads «kata tên bouleusin» («in accordance with de-
liberation») in lieu of «kata tên boulêsin» («in accordance with wish»). There is evidence both internal and external
to Aristotle’s corpus that «kata tên boulêsin» expresses Aristotle’s view. First, the claim Aristotle advances if we read
«kata tên boulêsin» rather than «kata tên bouleusin» fits hand in glove with observations Aristotle makes both in the
EE (1226b17-19), and in in De Anima (433a24-25). In EN vi, 9, Aristotle denies that a person who is good at finding
means to satisfy his non-rational desires possesses euboulia, good deliberation. The incontinent agent, who acts on
appetite contrary to right reason and decision, can «use rational calculation» (logismos) to reach his end (1142b17-
22). But this use of rational calculation does not issue in a decision. His calculation about how to attain the object
of appetite must therefore differ from the deliberation that issues in a decision. And the difference must consist in
the kind of desire that motivates it. Second, the reading «kata tên boulêsin» is corroborated by the earliest extant
commentary on the Ethics, by the 2nd century ad commentator Aspasius. Aspasius writes: «Boulêsis appears to be
very close to prohairesis, since first of all, it is in the rational part of the soul, where what most controls prohairesis
is (to kuriôtaton tês prohaireseôs), and second, because it is part of prohairesis. [W]henever (hotan) intellect (nous), af-
ter having deliberated, has approved and chosen (sunaisesê kai helêtai), wish (boulêsis), being a desire, has an impulse
together with it (sunexhormâ autô) [Or: springs forward together with it] (In Eth. Nicom. 68, 27-30)». Aspasius adds
that linguistic usage supports Aristotle’s technical analysis. Unfortunately, the text of the commentary breaks off
at this point – it is not clear from the surviving scraps what Aspasius’ intended supporting example is. What is im-
portant for my purposes is that a manuscript reading «kata tên boulêsin» is at least as old as Aspasius’s commentary.
One extant manuscript of the EN, ‘Mb’ (‘cod. Marcianus 213’) supports Aspasius rather than the oct by reading
«kata tên boulêsin». Aspasius may have been commenting on a manuscript of which codex Marcianus 213 is a de-
scendant. If this is so, then ‘Mb’ has a very old pedigree. If he did not, then there are at least two manuscript tra-
ditions for «kata tên boulêsin», and not just one.
62 karen margrethe nielsen
cides on the spur of the moment, but deciding requires more than technical delibera-
tion: it requires consideration both of how one ought to act relative to one’s ends, and
of what ends are worth pursuing.

The Role of Prohairesis :


Direct and Indirect Approval
If we are willing to accept that Aristotle has a notion of volition as an act – krisis – of
the rational part of the soul, then we have conceded that Aristotle thinks that decision
is a desire that depends for its existence on an act of reason. Burnet treats this as suffi-
cient proof that there is a notion of will in Aristotle, for commenting on the passage
and Aristotle’s reference to ‘to hêgoumenon’, he remarks «This shows that prohairesis is
really what we call the will, though the idea is, generally speaking, foreign to Aristotle’s
thought in this form» (Burnet, note ad 1113a3-5). Others have taken the claim to be in-
sufficient to show that Aristotle’s notion of prohairesis is really a notion of will, for al-
though a decision is a desire produced by reason when it judges that we ought to act in
a specific way, and deliberation takes a wish for an end as its point of departure, a deci-
sion cannot be what the scholastics call an essentially rational desire, for it derives its
motivational impetus from wish, and wish, qua desire, belongs in the non-rational part
of the soul.
In this vein, René Antoine Gauthier denies that Aristotle has a notion of essentially
rational desires, for the desiderative element in decision is a wish, and wishes, like all
desires, are non-rational.1 Aristotle therefore lacks the scholastic notion of ‘voluntas’.2
Gauthier concludes that the notion of will is «entirely alien to Aristotle» (p. 194). By con-

1 La partie désirante peut enfin écouter jusqu’au bout la voix de la raison et modeler son mouvement sur la
règle qu’elle lui dicte: le désir qui naît en elle est alors désir raisonné et raisonnable, c’est le souhait (boulêsis). Désir,
le souhait est, par essence, un acte de la partie irrationelle, comme Aristote le dit expressément dans un texte de
livre vii de la Politique (15, 1334b20-25), qui date de son enseignement à Assos et est donc contemporain de l’Éthique
à Eudème; mais, désir raisonné et raisonnable, il appartient, par participation, à la partie rationelle a laquelle il obéit;
ainsi s’explique que, dans les Topiques (iv, 5, 126a12-13) qui datent des premières années de sa carrière et sont sans
doute antérieurs même à son séjour à Assos, comme dans le traité De l’âme (iii, 9, 432b5) qui est l’un de ses derniers
écrits, Aristote ait pu le placer dans la partie rationelle. Ce qui est sûr en tout cas, c’est qu’Aristote n’a jamais songé
à en faire un acte de raison, et que nulle part chez lui n’apparaît la notion qu’élaborera plus tard la philosophie
chrétienne d’un désir rationelle par essence qui sera pour elle la volonté: il n’y a pas trace chez Aristote d’une telle
conception de la volonté, et moins encore, bien sûr, de rien qui évoque ce que la psychologie moderne appelle
volonté, activité spécifiquement distincte de l’émotion qu’est le désir. Aussi pêtri de raison qu’il puisse être, le
souhait aristotélicien reste, dans son essence, désir, et c’est sa nature de désir qui lui assignera son rang, sur lequel
nous allons revenir, de principe de l’action humaine. (Gauthier 1973, p. 31).
2 Following Alexander of Aphrodisias’ De Anima, Gauthier maintains that wish (boulêsis) does not belong to
the rational part of the soul, and he consequently criticizes the scholastics for ascribing a notion of essentially ra-
tional desires to Aristotle. On Gauthier’s interpretation, Aristotle ascribes all desires to the non-rational part of
soul, but distinguishes between appetite (epithumia), spirit (thumos) and wish (boulêsis) with reference to whether,
or to what degree, the non-rational part obeys the decrees of the rational part of soul: «[D]e toute façon, le souhait
[boulêsis] ne saurait, pour Aristote, appartenir par essence à la partie rationnelle: il reste un désire (orexis) et appar-
tient donc par essence à la partie désiderante (to orektikon), c’est-a-dire à la partie irrationnelle (1, 13, 1102b13-1103a3;
De l’âme, iii, 9, 432b3-7). Mais cette partie irrationelle qu’est la partie désiderante peut rester purement et simple-
ment irrationelle en se fermant à la voix de la raison, soit qu’elle ne l’entende pas, – alors naît en elle la convoitise,
– soit qu’à peine entendue elle la devance, – alors naît en elle l’emportement (vii, 7, 1149a25-b2); – mais elle peut
aussi devenir en quelque sorte rationelle en obéissant à la voix de la raison, en se laissant modeler par la règle qu’é-
dicte la raison: alors naît en elle le souhait. Le souhait est donc un désire, c’est-à-dire un mouvement de la partie
irrationelle, mais un désire raisonné ou raisonnable, logistikê orexis, Rhét., i, 10, 1369 a2; il n’est en aucune façon ce
que sera plus tard pour la scolastique la voluntas, à savoir un désire rationel par essence».
the will in aristotle ’ s thought 63
trast, Frede is prepared to concede that Aristotle places wish and decision in the rational
part of the soul, but he takes this to be insufficient to show that he has a notion of will.
In order to have a notion of will, Aristotle must have believed that the rational part of
its soul, in its capacity as will, plays two different roles: it must produce desires in its
own right, desires that reflect our rational judgment, and it must approve desires that
spring from the non-rational part of the soul. Thus, on Frede’s conception, Aristotle has
a notion of will only if he holds that the rational part of the soul serves two different
functions in the genesis of action. It must be involved in all instances of voluntary be-
havior.

As I have emphasized, I don’t think Frede here identifies a necessary condition for hav-
ing a notion of the will, and I therefore don’t think showing that reason in fact plays this
double role is crucial for showing that Aristotle has a notion of will. But it may all the
same be crucial for showing that Aristotle has a specific notion of will, namely one that
is worth having. If Aristotle has a notion of the will as a power of reason to adjudicate
between desires, such that the agent is not merely a passive victim pulled this way or
that by whatever desire happens to arise in is soul at any time, then he can show that
we are in control of our actions, and that we are their authors (and not simply causes),
whether those actions are directly caused by a decision, or merely appropriately related
to our capacity for making decisions on the basis of deliberation.
Aquinas and later Aristotelians let reason play a double role in the motivation of ac-
tion, both as a source of rational desires in its own right (i.e., as the capacity that pro-
duces wish and decision), and as a universal judge whose assent gives its stamp of ap-
proval even to non-rational desires that reason would otherwise reject (see for instance
ST 1a 2ae, q15, art. 2). This is not a thought that we find spelled out in Aristotle. Still, one
might argue that although Aristotle does not make an explicit assent of reason a pre-
condition for voluntary action, he nevertheless maintains that reason acquiesces by fail-
ing to intervene when we act contrary to our decision or simply on a non-rational de-
sire. The Stoics are prepared to maintain that acts of assent may sometimes amount to
tacit acquiescence. When you discover, after typing furiously on your paper, that you
have consumed a whole bowl of chocolate M&M’s without really meaning to, you
haven’t assented explicitly to every act of reaching your hand out and putting a choco-
late in your mouth. That’s just not the nature of munching. Rather, you have let your
hand do the munching. The Stoics must maintain that acquiescence is assent to salvage
the plausibility of their theory. But in that case, it seems that Aristotle can allow it too.
Thus, when you akratically act on a non-rational desire, reason abdicates its responsi-
bility and lets you do it, and this means that reason is involved, either as the source of
the desire or as power of tacit assent, in every voluntary action. The distance between
Aristotle and the Stoics is not as large as Frede presumes.
If Aristotle allows that reason is involved, either directly or indirectly, in all voluntary
acts, insofar as it either explicitly endorses an act and judges that it is right, or it merely
‘lets’ appetite and spirit have their way, then he must also think that reason could, in
principle, resist these desires – i.e., it must have the capacity to prevent them from be-
coming efficient causes of action. In other words, it must be up to us to control our ac-
tions. There is scattered evidence that this is, indeed, Aristotle’s view, and although he
never discusses the question systematically, I believe that what he does say about the
matter provides sufficient grounds for ascribing the view to him.
64 karen margrethe nielsen
To gain a clearer view of this question we may consider Aquinas’ distinction between
direct and indirect willing in the Summa (1a 2ae, q6, art. 3). In an article that bears quot-
ing in full, Aquinas asks whether there can be voluntariness without any act:
Objection 1. It would seem that voluntariness cannot be without any act. For that is voluntary
which proceeds from the will. But nothing can proceed from the will, except through some act,
at least an act of the will. Therefore there cannot be voluntariness without act.
Objection 2. Further, just as one is said to wish by an act of the will, so when the act of the will
ceases, one is said not to wish. But not to wish implies involuntariness, which is contrary to vol-
untariness. Therefore there can be nothing voluntary when the act of the will ceases.
Objection 3. Further, knowledge is essential to the voluntary, as stated above (1,2). But knowl-
edge involves an act. Therefore voluntariness cannot be without some act.
On the contrary, The word “voluntary” is applied to that of which we are masters. Now we
are masters in respect of to act and not to act, to will and not to will. Therefore just as to act and
to will are voluntary, so also are not to act and not to will.
I answer that, Voluntary is what proceeds from the will. Now one thing proceeds from anoth-
er in two ways. First, directly; in which sense something proceeds from another inasmuch as this
other acts; for instance, heating from heat. Secondly, indirectly; in which sense something pro-
ceeds from another through this other not acting; thus the sinking of a ship is set down to the
helmsman, from his having ceased to steer. But we must take note that the cause of what follows
from want of action is not always the agent as not acting; but only then when the agent can and
ought to act. For if the helmsman were unable to steer the ship or if the ship’s helm be not en-
trusted to him, the sinking of the ship would not be set down to him, although it might be due
to his absence from the helm.
Since, then, the will by willing and acting, is able, and sometimes ought, to hinder not-willing
and not-acting; this not-willing and not-acting is imputed to, as though proceeding from, the
will. And thus it is that we can have the voluntary without an act; sometimes without outward
act, but with an interior act; for instance, when one wills not to act; and sometimes without even
an interior act, as when one does not will to act.
Reply to Objection 1. We apply the word “voluntary” not only to that which proceeds from
the will directly, as from its action; but also to that which proceeds from it indirectly as from its
inaction.
Reply to Objection 2. “Not to wish” is said in two senses. First, as though it were one word,
and the infinitive of “I-do-not-wish”. Consequently just as when I say “I do not wish to read”, the
sense is, “I wish not to read”; so “not to wish to read” is the same as “to wish not to read”, and in
this sense “not to wish” implies involuntariness. Secondly it is taken as a sentence: and then no
act of the will is affirmed. And in this sense “not to wish” does not imply involuntariness.
Reply to Objection 3. Voluntariness requires an act of knowledge in the same way as it re-
quires an act of will; namely, in order that it be in one’s power to consider, to wish and to act.
And then, just as not to wish, and not to act, when it is time to wish and to act, is voluntary, so
is it voluntary not to consider.

On Aquinas’ account of the will, then, a (culpable) omission can be voluntary even if it
is not preceded by an act of will, provided that the agent could and ought to have acted.
At the same time, Aquinas holds that what is voluntary is what proceeds from the will.
Consequently, if the agent failed to act when he could have acted and ought to have
acted, the omission does proceed from his will, and is therefore voluntary. The helms-
the will in aristotle ’ s thought 65
man never resolved not to steer the ship, but he is responsible for the ship’s sinking
since he voluntarily failed to perform a duty he was capable of performing. It is being
suitably related to the will, not being caused by an act of will, that makes the omission
voluntary.
Do we have any reason to think that Aristotle takes the agent’s capacity for prohairesis
to be indirectly involved even in cases where the agent acts on non-rational desires?
There can be no better test of this than Aristotle’s discussion of akrasia, which pitches
a rational desire motivated by wish and decision against an appetitive desire stemming
from the non-rational part of the soul.

Frede is certainly right to note that Aristotle denies that all voluntary acts are caused by
prohairesis – the incontinent agent acts «against his decision» (EN vii, 8, 1151a6). But if
we inquire whether Aristotle thinks that our capacity for decision is involved even in
cases where a decision is not the direct cause of action, we will see that Aristotle’s re-
marks give room for a far more nuanced picture than what Frede allows. The issue is
one of being in control (kurios) of one’s actions. When Aristotle says that human beings
are in control of their actions, does he simply mean that we act on whatever desire hap-
pens to be strongest, or does he think that our capacity for rational reflection means
that we stand in a different relationship to our appetitive and spirited desires than ani-
mals who lack reason or have it only in immature form (beasts and children)? When I
am «driven like a beast to drink», am I in fact driven in the very same way that a beast
is driven? Does the fact these desires arise in an animals that have the capacity for delib-
eration and decision make a difference to their role in causing action?
Frede thinks that Aristotle thinks that our upbringing decides whether we succumb
to temptation – when we act against our own judgment, it is because of «a long story
about how in the past one has failed to submit oneself to the training, practice, exercise,
discipline, and reflection which would ensure that one’s nonrational desires are reason-
able» (p. 23-24). This failure is not one that is ultimately due to us, since it depends on
what kind of upbringing we have benefited from. This claim runs up against fairly
prominent evidence in the Ethics that Aristotle does not support the view that we are
passive vis-à-vis our non-rational desires. We have the capacity to control our action if
we «rouse our rational calculation»:
Some people are like those who do not get tickled themselves if they tickle someone else first;
if they see and notice something in advance, and rouse themselves and their rational calculation
(ton logismon), they are not overcome by feelings, no matter whether something is pleasant or
painful (EN vii, 7, 1150b22-26).
And in the Metaphysics, he argues that
In the case of non-rational capacities, it is necessary (anankê) that whenever the agent and the
thing acted on meet in the conditions suitable for their capacities, the one acts and the other is
acted on. But this is not necessary in the case of rational capacities. For whereas each non-ratio-
nal capacity acts in <only> one way, each rational capacity acts in contrary ways, and so <if ra-
tional capacities were necessarily actualized whenever the agent and the thing acted on meet,>
each would act in contrary ways at the same time, which is impossible. Something else, then,
must control the action (einai to kurion), namely desire or decision (prohairesis), for when the
agent has an overriding desire (oregêtai kuriôs) for one alternative, that is how it will act, whenever
it is in conditions suitable for its capacity and meets the thing acted on. Necessarily, then, when
anything with a rational capacity desires to act in a way for which it has a capacity, and it is in the
66 karen margrethe nielsen
conditions suitable for the capacity, it acts (hôste to dunaton kata logon hapan anankê, hotan oregêtai
hou echei tên dunamin kat hôs echei, touto poiein) (Metaphysics ix, 5, 1048a5-15).
It is thus decision – not non-rational desire – that ‘controls’ human action. When we act
voluntarily on non-rational desires, we are not ‘driven’ like a beast to do so; our capacity
for rational deliberation gives us the ability to decide what we ought to do. That, pre-
sumably, is the sense of Aristotle’s claim in EN iii, v, that «when acting is up to us, so is
not acting, and when no is up to us, so is yes; and if not acting, when it is fine, is up to
us, then acting, when it is shameful, is also up to us» (EN iii, v, 1113b9-11). Aristotle is
not here taking a stand on the existence of libertarian freedom – rather, he is arguing
that as rational principles we control what we do. We are furthermore capable of con-
forming our actions to a correct conception of what we ought to do – this capacity for
‘orthorexia’ explains why we, unlike non-rational animals, are capable of virtue and vice.
How can this be squared with Aristotle’s claim that we sometimes abandon our de-
cision under the sway of appetitive desires? If my ‘controlling part’ (hêgoumenon) is
weak, and my prohairetic state is not ‘firm and unchangeable’, in what way do I still
control my actions? When I act akratically, is reason still in some way responsible for
failing to works as it should?
It is often argued that ‘weakness of will’ is a misnomer for the affliction off the incon-
tinent agent. That this is so is by no means obvious, but it would still be misleading to
translate ‘akrasia’ directly as ‘weakness of will’, since that closes up what ought to be
an open question. But even if we cannot answer that question in the affirmative by stat-
ing that akrasia literally ‘means’ weakness of will, we may still answer it in the affirma-
tive. The will is weak if it fails to function as it should – that is, if it fails reliably to guide
the agent’s actions. Much has been written about the process of deciding and the object
of decision in Aristotle. Less has been said about the agent’s ‘hexis prohairetikê’, his state
or disposition vis-à-vis decision. This is often treated as a disposition to make specific
decisions (that is, it is defined exclusively with reference to the object of decision: what
the agent decides to do). But Aristotle also thinks the quality of the state is defined with
reference to the way in which it performs its task: whether it does so reliably or unreli-
ably. As Aristotle notes, a prohairetic state can be firm and unchanging or infirm and
vacillating. It is only when we allow that agents may differ with respect to the way in
which they stand to their decisions, and not just in what they decide to do, that we can
explain Aristotle’s remark that “it is by deciding (tô prohaireisthai) on good and bad that
we are men of a certain character (poioi tines esmen)” (EN iii, 2, 1112a2) and that «the con-
trolling element (to kurion) of virtue and character lies in decision (en têi prohairesei)» (vi-
ii, 13, 1163a23). For the weak akratês decides on the very same course of action as the vir-
tuous agent, but he abandons it under pressure from non-rational desires, while the
impetuous akratês fails to pause to deliberate, and hence doesn’t make a decision at all.
But this omission still tells us something about his prohairetic state. He is not disposed
to reliably deliberate and decide in accordance with his conception of the good.
Incidentally, shifting the focus from what has been decided – the object of an act of
judgment – to the agent’s prohairetic disposition also allows us to solve a problem in
Aristotle’s taxonomy of akrasia. While the weak person deliberates, but then abandons
the result of his deliberation due to feelings, the impetuous person is led on by his feel-
ings because he has not deliberated (vii, 7, 1150b20-25). However, Aristotle thinks both
suffer from akrasia. How can they both abandon their decision if the impetuous agent
the will in aristotle ’ s thought 67
does not even deliberate? Aristotle explains that their failure to exercise their capacity
for rational deliberation is to blame. Quick-tempered and volatile people are most
prone to impetuosity, «for in quick-tempered people the appetite is so fast, and in
volatile people so intense, that they do not wait for reason, because they tend to follow
appearance» (vii, 7, 1150b26-29). And he argues that by «rousing themselves and their ra-
tional calculation» (logismos) they could have resisted their feelings. It is thus their failure
to exercise their capacity for rational deliberation, and hence for reaching the right de-
cision, that explains their impetuosity. In failing to exercise this capacity, they show that
they lack a «firm and unchanging state». Insofar as this is a failure of the rationally cal-
culating part to function properly (when and how it should), it reveals that the pro-
hairetic state of impetuous agents is not virtuous, even if, unlike weak agents, they fail
to act contrary to a decision they have actually made. Because they act on their feelings
when they should not, and because they both could have checked themselves, had they
paused to deliberate, and would have wanted to check themselves, their failure is expli-
cable as a failure to properly exercise their capacity for making decisions. Their pro-
hairetic state is unstable. If we allow that the agent’s capacity for making decisions is in-
volved, albeit indirectly, in cases of impetuous akrasia, then to the extent that the
rationally calculating part is «sleeping at the helm», the acts of impetuous agents ex-
press the state of their will – the disposition to deliberate and decide appropriately.

Conclusion
Like the Stoics, Aristotle does not think of the will as a separate mental faculty. It is a
capacity of the rational part of the soul – viz., its capacity to deliberate and make deci-
sions. But the existence of such a faculty cannot be crucial for determining whether
there is a notion of will in Aristotle, at least not if we follow Frede and agree that Epicte-
tus has a notion of will. If intellectualist notions of will fail to qualify, then so, by Frede’s
lights, would the Stoic – and Augustinian – notion. In his article Discovering the Will,
Charles Kahn notes that, «Unfortunately, there is no single concept designated by the
will in modern usage. Hence the historical problem of the emergence of the will is not
a single problem, but a labyrinth of problems where different threads lead in different
directions» (Kahn, Discovering the Will, p. 235). Like Kahn, I believe it is possible to trace
these different threads back to their different points of origins. In this paper, I have
traced some threads back to Aristotle.1

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1 I wish to thank audiences at the University of Oslo, Bristol University, and the Ancient Philosophy Workshop
at Oxford for their helpful questions and comments. Discussions with Gail Fine were invaluable in early as well
as late stages of my work. I am much indebted to Alexander Bird, Lesley Brown, David Charles, Ursula Coope,
Eyolfur Emilsson, Christel Fricke, Olav Gjelsvik, Terence Irwin, James Ladyman, Seiriol Morgan, Giles Pearson,
Øyvind Rabbås and Christopher Taylor for questions that forced me to be more specific on particular points. Fi-
nally, I wish to thank Giuseppe Cambiano for inviting me to contribute this paper to «Antiquorum Philosophia»,
and for showing such patience while waiting for the final version.
68 karen margrethe nielsen
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DISCUSSIONI E RICERCHE
I FIUMI, LE ACQUE, IL DIVENIRE
su eraclito, frr. 12, 49a, 91 dk [40, 40c2, 40c3 marcovich]
Francesco Fronterotta

T ra i materiali eraclitei superstiti, quelli che richiamano la metafora dei fiumi e del-
le acque che in essi scorrono, di norma associata nella tradizione all’immagine
della realtà in divenire e alla concezione della sua natura come un flusso continuo più
o meno disordinato, sono certamente fra i più celebri e fortunati, anche in virtù del
fatto che, a torto o a ragione, sono stati utilizzati fin da Platone e Aristotele per rap-
presentare in modo esemplare la prospettiva filosofica di Eraclito. Si tratta essenzial-
mente di tre frammenti, catalogati nella raccolta di Diels e Kranz come 12, 49a e 91, e
corrispondenti, nell’edizione di Marcovich a 40, 40c2 e 40c3. Questa semplice indica-
zione lascia emergere il problema che occorre prioritariamente porsi in relazione ai
tre frammenti evocati, cioè quello della loro autenticità, ammessa da Diels e Kranz e
da un certo numero di studiosi, fra i quali spicca oggi Mouraviev, ma respinta, per i
frr. 49a e 91 DK [40c2 e 40c3 Marcovich], da altri commentatori e in primo luogo da
Marcovich, secondo il quale, come suggerisce la numerazione stessa che egli ha adot-
tato, andrebbero considerati come semplici reminiscenze del fr. 12 DK [40 Marcovich],
l’unico autentico;1 non manca naturalmente, come vedremo, chi ha assunto posizioni
intermedie.2

Francesco Fronterotta, Università di Roma ‘La Sapienza’, Dipartimento di filosofia, Via Carlo Fea 2, 00161 Ro-
ma, francesco.fronterotta@fastwebnet.it
Questo articolo deriva dalla rielaborazione di una relazione da me presentata al xxii Seminario di Storia della fi-
losofia antica, tenutosi presso l’Università degli Studi di Trento dal 7 al 9 giugno 2012. Ringrazio tutti i partecipanti
per le osservazioni e suggerimenti che mi hanno proposto; mia rimane naturalmente la responsabilità di eventuali
imprecisioni o errori.
1 Come è noto, nell’edizione richiamata nella nota seguente, Marcovich ha adottato una classificazione che di-
stingue fra ‘citazioni’ (letterali), ‘parafrasi’ e ‘reminiscenze’ eraclitee e, nell’ambito di ciascuna di queste voci, sta-
bilisce un grado di maggiore o minore prossimità rispetto al (presunto) originale e di eventuale reciproca deriva-
zione attraverso l’indicazione di lettere (a, b, c…) contrassegnate da una sequenza di esponenti (a1, a2, a3 …). La
numerazione 40c2 e 40c3 (per i frr. 49a e 91 DK), con l’ulteriore indicazione che si tratta di ‘reminiscenze’, indica
perciò che, secondo Marcovich, questi brani non contengono che allusioni o evocazioni del (presunto) originale
eracliteo (in tal caso corrispondente al fr. 40 [12 DK]), trasmesse da fonti lontane (donde la lettera ‘c’) e derivate
(donde gli esponenti ‘2’ e ‘3’) rispetto al (presunto) originale stesso. Ricordo invece, a puro titolo informativo e
senza perciò ripercorrerne in quanto segue gli argomenti francamenti piuttosto deboli (cfr. in proposito Leonar-
do Tarán, Heraclitus: the River Fragments and their Implications, «Elenchos», 20 (1999), pp. 9-52, p. 52, n. 130), che
Mary Margaret Mackenzie, Heraclitus and the Art of Paradox, «Oxford Studies in Ancient Philosophy», 6 (1988),
pp. 1-4, ha difeso l’autenticità di tutti e tre i frammenti, come pure la loro appartenenza a un comune contesto teo-
rico nell’originale eracliteo.
2 Per brevità e semplicità mi riferirò esclusivamente in quanto segue alle seguenti edizioni o raccolte dei fram-
menti eraclitei: Geoffrey Stephen Kirk, Heraclitus. The Cosmic Fragments, Cambridge, University Press, 19622;
Miroslav Marcovich, Eraclito. Frammenti, introduzione, traduzione e commento a cura di M. M., Firenze, La
Nuova Italia, 1978 (traduzione italiana, con alcune correzioni, della precedente versione inglese: Heraclitus. Greek
text with a short commentary, Merida, Los Andes University Press, 1967; rist. Sankt Augustin, Academia Verlag, 2001);
Charles H. Kahn, The Art and Thought of Heraclitus, Cambridge, Cambridge University Press, 1979; Carlo Di-
ano, Giuseppe Serra, Eraclito. I frammenti e le testimonianze, a cura di C. D. e G. S., Milano, Mondadori, 1980;
Jean-François Pradeau, Héraclite. Fragments [Citations et témoignages], traduction et présentation par J.-F. P.,
Paris, Flammarion, 2002; Serge Mouraviev, Heraclitea. Recensio: Fragmenta, iii.B: Libri reliquiae superstites, Sankt
72 francesco fronterotta

1. Il fr. 12 DK [40 Marcovich]


Per semplice comodità dell’esposizione prendo le mosse dal fr. 12 DK [40 Marcovich],
che riproduco:
ÔÙ·ÌÔÖÛÈ ÙÔÖÛÈÓ ·éÙÔÖÛÈÓ âÌ‚·›ÓÔ˘ÛÈÓ1 ≤ÙÂÚ· ηd ≤ÙÂÚ· ≈‰·Ù· âÈÚÚÂÖ.
Per coloro i quali entrano negli stessi fiumi, sempre diverse scorrono le acque.
Il frammento è riportato dallo stoico Cleante (iv-iii secolo a.C.) attraverso una citazio-
ne di Ario Didimo (seconda metà del i secolo a.C.), a sua volta richiamata da Eusebio
(iii-iv secolo d.C.), Praeparatio evangelica xv 20.2 (= ii 384 Mras = Dox. 470-71 = SVF i
519), nel contesto di una presentazione della dottrina di Zenone sull’origine e la natura
dell’anima, con queste parole:
Riguardo all’anima, Cleante, esponendo le opinioni di Zenone in relazione a quelle degli altri fi-
sici, afferma che Zenone sostiene che l’anima è un’esalazione sensibile,2 proprio come Eraclito
(ηı¿ÂÚ ^HÚ¿ÎÏÂÈÙÔ˜), il quale infatti, volendo mostrare che le anime, per esalazione, divengo-
no sempre nuove,3 le paragonò ai fiumi, esprimendosi così: … (Cleante cita qui il fr. 12 DK [40
Marcovich]), anche le anime, dal canto loro, sono esalazioni dagli elementi umidi (ηd „˘¯·d ‰b
àe ÙáÓ ñÁÚáÓ àÓ·ı˘ÌÈáÓÙ·È). Alla maniera di Eraclito, dunque, Zenone dichiara che l’anima è
un’esalazione e dice che è sensibile perché la sua parte dominante può essere modificata dalle
cose esterne attraverso gli organi sensibili e può ricevere impressioni, giacché queste sono le pro-
prietà dell’anima.4
Seguendo un’attestata tradizione interpretativa,5 non considero autentica, almeno non
letteralmente, l’ultima parte della citazione (ηd „˘¯·d ‰b àe ÙáÓ ñÁÚáÓ
àÓ·ı˘ÌÈáÓÙ·È), in primo luogo perché, come fatto valere da Kirk e Marcovich, il verbo
àÓ·ı˘ÌÈáÓÙ·È è certamente sospetto in quanto non risulta attestato prima di Aristote-
le;6 in secondo luogo, mi pare si tratti di un’aggiunta esplicativa, da parte del citatore,
che si ricollega al suo esame della dottrina zenoniana dell’anima più che alla citazione
eraclitea come tale e che tende di conseguenza a stabilire un legame, non altrimenti pre-

Augustin, Academia Verlag, 2006, voll. i-iii; i: Textus, versiones, apparatus, iii: Ad lectiones adnotamenta. Fra gli studi
recenti, l’articolo di L. Tarán citato nella nota precedente fornisce un accurato status quaestionis e una serie di det-
tagliate e puntuali proposte interpretative, che condivido solo in parte, ma di cui darò conto via via.
1 Per ragioni puramente interpretative, alcuni commentatori (Rivier e Fränkel, cfr. Marcovich, op. cit., p. 137)
hanno proposto di espungere il participio âÌ‚·›ÓÔ˘ÛÈÓ, sul quale tuttavia non sussiste esitazione nella tradizione
manoscritta, evidentemente per rendere più esplicito il riferimento alla nozione di un divenire perenne di tutte le
cose («negli stessi fiumi scorrono sempre diverse acque»), facendo cadere così il richiamo al punto di vista di «co-
loro i quali entrano» in essi, che, come tenterò di argomentare nel seguito (cfr. infra, § 4), mi pare ridimensionare
il ‘divenire’ delle acque riconducendolo appunto al punto di vista di chi vi entra.
2 ·åÛıËÙÈÎcÓ: correzione, proposta da Wellmann, di ·úÛıËÛÈÓ j dei manoscritti, che pare effettivamente insod-
disfacente.
3 Ó·ڷd: correzione, proposta da Meerwaldt, di ÓÔÂÚ·d dei manoscritti, basata sulla constatazione – interpre-
tativa e tuttavia indubitabile – che la dottrina stoica dell’‘esalazione’ suppone un rinnovamento continuo delle ani-
me (per cui sono sempre Ó·ڷ›) e non certo un loro progresso intellettuale (per cui divengono sempre ÓÔÂÚ·›).
4 Il contesto di questa citazione è estremamente problematico e ha subito un certo numero di correzioni in al-
trettanti punti cruciali: cfr. le due note precedenti e Marcovich, op. cit., p. 137, Diano, Serra, op. cit., p. 155, e
Tarán, art. cit., pp. 21-22.
5 Cfr. Kirk, op. cit., pp. 367-369, Marcovich, op. cit., p. 147, n. 1, e Kahn, op. cit., pp. 52-53 e 166; ma l’ipotesi risale
a Bywater.
6 Anche se Mouraviev, op. cit., iii, p. 20, n. 4, non considera decisiva questa constatazione.
su eraclito, frr. 12, 49a, 91 dk 73
sente nei materiali eraclitei superstiti, fra la dottrina del divenire e del mutamento, espo-
sta attraverso l’immagine dei fiumi e dello scorrimento delle acque, e la teoria dell’ani-
ma come esalazione dagli elementi umidi – una teoria che, del resto, è qui attribuita
esplicitamente dal citatore allo stoico Zenone, ma che richiama un’opinione che sem-
bra effettivamente consistente con la psicologia eraclitea1 – e ciò al fine di trovare con-
ferma in Eraclito della dottrina stoica dell’anima come esalazione continua e continua-
mente rinnovata dagli elementi umidi, appunto stabilendo una relazione fra due tesi
eraclitee fra loro indipendenti, quella dell’anima che proviene dagli elementi umidi (o
dall’acqua) e quella del flusso perenne delle acque dei fiumi, che, se scorrono sempre
diverse, produrranno esalazioni sempre diverse e, di conseguenza, anime sempre nuove
o rinnovate.2
Prima di procedere a un esame della traduzione del fr. 12 DK [40 Marcovich] sopra
proposta, e alla sua interpretazione, conviene soffermarsi brevemente sulle testimo-
nianze (più o meno direttamente riconducibili all’originale eracliteo) che la dossografia
platonico-aristotelica ci fornisce intorno all’immagine dei fiumi e delle acque che in essi
scorrono e al suo significato filosofico.

2. La dossografia platonico-aristotelica
Proprio tali testimonianze, talvolta assimilabili a vere e proprie varianti di questo fram-
mento o quantomeno ad allusioni a esso, assai numerose nella tradizione platonico-ari-
stotelica, hanno infatti particolarmente contribuito alla fortuna della metafora eraclitea
del fiume e delle sue correnti.3
Per quanto riguarda Platone, vanno innanzitutto ricordati i riferimenti del Cratilo
(401d-402a; 411b-c; 439c-440d) e del Teeteto (152d-e; 156a; 160d; 177c; 179d; 179e-183a, pas-
sim), ripresi più allusivamente in alcuni passi del Fedone (90b-c), del Sofista (249b) e del
Filebo (43a), dai quali emerge fondamentalmente la tesi seguente: ¿ÓÙ· (o Ùa ùÓÙ· o Ùa
Ú¿ÁÌ·Ù·) ¯ˆÚÂÖÓ (o ®ÂÖÓ o ÌÂÙ·›ÙÂÈÓ o å¤Ó·È o ʤÚÂÛı·È o ÎÈÓÂÖÛı·È) e, per converso,
Ôé‰bÓ Ì¤ÓÂÈ, sicché le cose che sono vengono paragonate alla corrente di un fiume

1 Cfr. il fr. 36 DK [66 Marcovich], che pare sancire in modo inequivocabile l’origine dell’anima a partire dall’ele-
mento umido o acquoso: … âÍ ≈‰·ÙÔ˜ ‰b „˘¯‹. Cfr. pure, in questa direzione, Kahn, op. cit., pp. 259-260.
2 Cfr. in ultimo l’articolata dimostrazione di Tarán, art. cit., pp. 21-28. Si noti del resto che, come ha suggerito
Cristina Viano, «Énésidème selon Héraclite»: la substance corporelle du temps, «Revue Philosophique de la France et
de l’Étranger», 192 (2002), pp. 141-158, specie 154-155, la formula ηı¿ÂÚ ^HÚ¿ÎÏÂÈÙÔ˜, che introduce il riferimento
a Eraclito e la citazione diretta, da parte di Cleante, delle sue parole, si trova spesso utilizzata in ambito dossogra-
fico a indicare il richiamo, per finalità dialettiche e critiche, di tesi eraclitee evocate in modo fittizio per rafforzare
o contestare altre posizioni discusse: nel caso presente, sarebbe dunque Cleante ad associare le due tesi eraclitee
dell’origine dell’anima dall’elemento umido e del continuo scorrimento delle acque dei fiumi, di per sé auto-
nome e indipendenti, per trarne una conferma della dottrina stoica dell’esalazione continua e continuamente rin-
novata delle anime dagli elementi umidi, sostenuta appunto da «Zenone … proprio come Eraclito». In direzione
contraria, cioè tentando di difendere l’autenticità della seconda parte della citazione di Cleante e l’ipotesi di un
suo stretto rapporto teorico e argomentativo con la prima parte, si è mosso Jaap Mansfeld, Heraclitus in the
Psychology and Physiology of Sleep and on Rivers, «Mnemosyne», 20 (1967), pp. 1-29, e più ancora Mouraviev, op. cit.,
i, p. 43, e iii, p. 20, n. 2, che propone di sottintendere un soggetto femminile, nella prima parte, che anticiperebbe
il riferimento alle anime contenuto nella seconda parte, così intendendo che a entrare nei fiumi e a essere investi-
te da acque sempre diverse sarebbero appunto le anime che, infatti, derivano dall’esalazione di effluvi umidi. Pos-
sibilisti rispetto all’ammissione dell’autenticità della seconda parte della citazione, benché da collocare in un con-
testo originale diverso da quello della metafora dei fiumi, appaiono Diano, Serra, op. cit., pp. 26 e 155-156, e
Pradeau, op. cit., pp. 103 e 213.
3 Per un’esaustiva rassegna si veda Marcovich, op. cit., pp. 137-147.
74 francesco fronterotta
(ÔÙ·ÌÔÜ ®Ô” àÂÈο˙ˆÓ Ùa ùÓÙ·, Crat. 402a), o direttamente ai flussi delle sue acque
(ÔxÔÓ ®Â‡Ì·Ù· … Ùa ¿ÓÙ·, Theaet. 160d), e tale corrente e il suo movimento resi equiva-
lenti al divenire, alla generazione e alla corruzione (Ùa Ú¿ÁÌ·Ù· … ÌÂÛÙa ÂrÓ·È ÊÔÚĘ
ηd ÁÂÓ¤Ûˆ˜ à›, Crat. 411c), in modo che – è la conclusione tratta da Platone che la at-
tribuisce tuttavia allo stesso Eraclito – «non potresti entrare due volte nello stesso fiu-
me» (‰d˜ ☠ÙeÓ ·éÙeÓ ÔÙ·ÌeÓ ÔéÎ iÓ âÌ‚·›Ë˜, Crat. 402a).1 A questa radicale prospettiva
ontologica Platone contrappone, particolarmente nei passi citati del Cratilo, la ben nota
ipotesi di un ambito dell’essere distinto e superiore al piano sensibile cui il divenire è
confinato, di natura intellegibile, caratterizzato da stabilità e immutabilità: la ragione
di una simile ipotesi è esplicitamente ricondotta da Platone, ancora nel Cratilo (439c-
440d), a considerazioni di ordine epistemologico, perché, se si accogliesse la prospettiva
di un divenire perenne e inarrestabile delle cose che sono, nessuna conoscenza sarebbe
possibile (Ôé‰b ÁÓáÛÈÓ ÂrÓ·È … Âå ÌÂÙ·›ÙÂÈ ¿ÓÙ· ¯Ú‹Ì·Ù· ηd ÌˉbÓ Ì¤ÓÂÈ), mutando
a un tempo, e costantemente, tanto il soggetto quanto l’oggetto della conoscenza, co-
me pure la conoscenza stessa; solo concedendo che esistano degli enti immutabili ed
estranei al divenire, che dunque permangono stabilmente nella propria condizione, co-
me è il caso delle idee intellegibili di cui Platone formula l’ipotesi, si potrà ammettere
che di essi si dia vera conoscenza. Sembra inoltre abbastanza chiaro che Platone intro-

1 La nettezza e la radicalità di questa conclusione non sono a mio avviso soggette a dubbi o esitazioni possibili:
nessuna disposizione ordinata né regola né misura sono infatti imposte, secondo Platone, al divenire eracliteo che
si verifica «in ogni senso e in ogni modo» (cfr. Crat. 411b-c: … ·éÙÔÖ˜ Ê·›ÓÂÙ·È ÂÚÈʤÚÂÛı·È Ùa Ú¿ÁÌ·Ù· ηd ¿ÓÙˆ˜
ʤÚÂÛı·È), «in alto e in basso» (cfr. Phil. 43a: … àÂd ÁaÚ ±·ÓÙ· ôÓˆ Ù ηd οو ®ÂÖ), al punto che, nella sua presen-
tazione delle dottrine eraclitee, è la totalità delle cose che sono che si identifica con il movimento universale (cfr.
Theaet. 156a: Ùe ÄÓ Î›ÓËÛȘ qÓ Î·d ôÏÏÔ ·Úa ÙÔÜÙÔ Ôé‰¤Ó …) e l’essenza stessa a trovarsi in moto (cfr. Theaet. 177c:
… ÙÔf˜ ÙcÓ ÊÂÚÔ̤ÓËÓ ÔéÛ›·Ó ϤÁÔÓÙ·˜ …), giungendo così all’esito estremo, delineato particolarmente nel Teeteto
(152d-e), che, nel tutto in divenire, di nulla si può dire che ‘è’, appunto perché tutto diviene sempre (öÛÙÈ ÌbÓ ÁaÚ
Ô鉤ÔÙ\ Ô鉤Ó, àÂd ‰b Á›ÁÓÂÙ·È), e ogni possibile ontologia si configura, se così si può dire, come una reontologia
che sfocia in una meontologia. Va ricordato in proposito lo studio ormai classico di Terence Irwin, Plato’s Hera-
cliteanism, «The Philosophical Quarterly», 27 (1977), pp. 1-13, nel quale si trova ben formulata l’interpretazione, tut-
tora maggioritariamente diffusa, secondo la quale la tesi del divenire, nelle sue diverse forme, restituisce l’effettiva
interpretazione platonica di Eraclito (indipendentemente dalla sua correttezza come rappresentazione storica-
mente fedele del pensiero di quest’ultimo). In opposizione a questa linea esegetica, alcuni commentatori, fra i qua-
li spiccano Charles H. Kahn, Plato and Heraclitus, «Proceedings of the Boston Area Colloquium in Ancient Phi-
losophy» 1 (1977), pp. 241-258 e, più di recente, Enrique Hülsz, Plato’s Ionian Muses: Sophist 242d-e, in corso di
stampa in Beatriz Bossi and Thomas M. Robinson, a cura di, Plato’s Sophist Revisited. Papers presented at the In-
ternational Spring Seminar on Plato’s Sophist (26-31 May 2009, Centro de Ciencias de Benasque ‘Pedro Pascual’,
Spain), Berlin, hanno invece sostenuto che la tesi del divenire e del flusso perenne di tutte le cose, come è rappre-
sentata particolarmente nel Cratilo e nel Teeteto, costituisce un’intenzionale distorsione platonica, fondata su una
ricostruzione volutamente forzata e forse parzialmente ironica della genealogia del ‘mobilismo’ universale nella
storia del pensiero greco precedente, dell’originale dottrina eraclitea, che Platone tuttavia conoscerebbe e illustre-
rebbe adeguatamente in altri riferimenti presenti nei dialoghi, per esempio nel Simposio (187a-b) e nel Sofista (242d-
e), che attestano una migliore comprensione della dottrina, questa si autenticamente eraclitea e consapevolmente
attribuita da Platone a Eraclito, dell’unità e dell’armonia dei termini opposti (su questa linea cfr. già, dello stesso
Enrique Hülsz, Flujo y logos. La imagen de Heráclito en el Cratilo y el Teeteto de Platón, in Enrique Hülsz Piccone,
a cura di, Nuevos Ensayos sobre Heráclito. Actas del Segundo Symposium Heracliteum, Ciudad de México, Universidad
Nacional Autónoma de México, 2009, pp. 361-390). Per quanto mi riguarda, ritengo però che, se non vi è dubbio
sul fatto che Platone presenti nei dialoghi anche riferimenti a tesi eraclitee di cui siamo in grado di riconoscere l’at-
tendibilità storica perché più direttamente e letteralmente riconducibili ai frammenti pervenutici – come è il caso,
appunto, della tesi dell’armonia e dell’unità dei termini opposti – ciò non implica necessariamente che si debba
respingere come semplicemente ironica la sua testimonianza relativa alla tesi del divenire, giacché risulta abba-
stanza palese dalla lettura dei dialoghi che egli attribuisce a Eraclito, come dottrine filosofiche altrettanto fonda-
mentali e fra loro distinte, tanto la tesi del divenire universale quanto quella dell’unità e dell’armonia dei termini
opposti; e mi pare naturalmente ancor più notevole che, se Platone conosce l’Eraclito ‘storico’, egli presenti poi
anche una versione ideologicamente riveduta e corretta della sua riflessione.
su eraclito, frr. 12, 49a, 91 dk 75
duce una distinzione fra due diverse concezioni della dottrina del divenire della realtà,
o piuttosto fra due livelli o gradazioni del divenire stesso: Eraclito avrebbe infatti soste-
nuto che «non potresti entrare due volte nello stesso fiume» (Crat. 402a), dunque am-
mettendo implicitamente che sia possibile entrarvi almeno una volta e che, di conse-
guenza, la sua concezione del divenire preveda la persistenza delle cose che sono
almeno in coincidenza con una prima e unica ricognizione di esse, ponendo invece il lo-
ro completo mutamento in coincidenza con un’eventuale seconda ricognizione; alcuni
eraclitei posteriori avrebbero invece difeso una versione ancor più radicale di tale dot-
trina, incompatibile con ogni forma di ricognizione o riconoscimento delle cose che so-
no, anche per una prima e unica volta, come pure con qualunque genere di pensiero o
di discorso stabili, sicché risulta loro impossibile denominare le cose che sono e indicarle
gli uni agli altri con il linguaggio, conoscerle e scambiare così gli uni con gli altri le pro-
prie rispettive conoscenze e dunque stabilire una scuola con maestri, allievi e relative
dottrine da insegnare (Theaet. 179e-180c): «E infatti, Socrate, di queste concezioni eraclitee
(ÂÚd ÙÔ‡ÙˆÓ ÙáÓ ^HÚ·ÎÏÂÈÙ›ˆÓ) o, come tu dici, omeriche e ancora più antiche, non
è possibile discutere direttamente con quelli di Efeso (ÙÔÖ˜ ÂÚd ÙcÓ òEÊÂÛÔÓ), che si ar-
rogano la qualifica di esperti, più di quanto sia possibile discutere con dei tarantolati».1
Sulla stessa linea, e ricorrendo alle medesime formule, mi pare si collochino le nume-
rose allusioni aristoteliche, che ribadiscono l’attribuzione a Eraclito e agli eraclitei della
tesi del divenire di tutte le cose (¿ÓÙ· ÎÈÓÂÖÙ·È, Top. i 11, 104b21; ÎÈÓÂ~Ûı·È … ¿ÓÙ· ηd
à›, Phys. viii 3, 253b9; âÓ ÎÈÓ‹ÛÂÈ ‰\ ÂrÓ·È Ùa ùÓÙ·, De an. i 2, 405a28), espressamente li-
mitata, come è ovvio in seguito all’introduzione, da parte di Platone, delle idee intelle-
gibili, al caso delle realtà sensibili (¿ÓÙ· Ùa ·åÛıËÙa ÎÈÓÂÖÛı·È … à›, Phys. viii 8, 265a2;
ê¿ÓÙˆÓ ÙáÓ ·åÛıËÙáÓ àÂd ®ÂfiÓÙˆÓ, Metaph. i 6, 987a32 e xiii 4, 1078b13). Ancora come
Platone, anche Aristotele riconosce esplicitamente le implicazioni epistemologiche del-
la tesi del divenire, affermando che, se le cose sensibili sono soggette al movimento, di
esse non può esservi scienza (ÙáÓ ·åÛıËÙáÓ àÂd ®ÂfiÓÙˆÓ Î·d âÈÛÙ‹Ì˘ ÂÚd ·éÙáÓ ÔéÎ
ÔûÛ˘, Metaph. i 6, 987a32), e che, ancor più nettamente, «se tutte le cose si muovono,
nulla sarà vero» (Âå ‰b ¿ÓÙ· ÎÈÓÂÖÙ·È, ÔéıbÓ öÛÙ·È àÏËı¤˜, Metaph. iv 8, 1012b26). Infine,
pure in linea con la testimonianza platonica, Aristotele sancisce apertamente la distin-
zione fra due diverse posizioni, riconducibili a due diverse generazioni di eraclitei, che
egli individua rispettivamente in Eraclito stesso e nel suo allievo Cratilo: come emerge
da un passo assai importante del De caelo (iii 1, 298b29), infatti, Eraclito avrebbe affer-
mato che, anche se tutte le cose divengono e scorrono, e nulla è stabilmente (Ùa ÌbÓ
ôÏÏ· ¿ÓÙ· Á›ÓÂÛı·È … ηd ®ÂÖÓ, ÂrÓ·È ‰b ·Á›ˆ˜ Ôéı¤Ó), «vi è una cosa soltanto che per-
mane sottostante» (íÓ ‰¤ ÙÈ ÌfiÓÔÓ ñÔ̤ÓÂÈÓ), che è appunto ciò da cui tutte le cose pren-
dono forma (âÍ Ôy Ù·ÜÙ· ¿ÓÙ· ÌÂÙ·Û¯ËÌ·Ù›˙ÂÛı·È ¤Ê˘ÎÂÓ) – una sintesi, questa, che,
per quanto possa essere influenzata dalla caratteristica attitudine aristotelica a reinter-
pretare la posizione dei predecessori alla luce della sua riflessione e dei suoi schemi teo-

1 Che Platone assegni rispettivamente una versione più moderata e una più radicale della dottrina del divenire
a Eraclito e a una posteriore generazione di suoi seguaci, che dunque distingue anche cronologicamente dal mae-
stro, appare chiaro, nel Teeteto, in 179d, dove si afferma che la tesi del divenire universale si diffonde «in Ionia per
ogni dove (ÂÚd ÌbÓ ÙcÓ \IÔÓ›·Ó … ¿ÌÔÏ˘), visto che i seguaci di Eraclito (Ôî … ÙÔÜ ^HÚ·ÎÏ›ÙÔ˘ ëÙ·ÖÚÔÈ) si fanno
corifei di questa dottrina con notevole vigore»; ed è inoltre significativo che tali eraclitei posteriori, se attivi in Io-
nia, non possano essere identificati con Cratilo, di cui si deve invece arguire, in base alla testimonianza aristotelica
che discuterò subito oltre, che abbia operato ad Atene, se ha avuto Platone stesso come discepolo (Metaph. i 6,
987a32-b1). Cito la traduzione del Teeteto da Franco Ferrari, a cura di, Platone, Teeteto, Milano, Rizzoli, 2011.
76 francesco fronterotta
rici, non lascia trasparire nessuna ambiguità rispetto all’attribuzione a Eraclito di una
concezione del divenire che non coinvolge assolutamente e radicalmente l’intera realtà,
perché pare limitata da Aristotele all’ambito delle cose sensibili che si generano e si cor-
rompono e non si estende al sostrato comune da cui quelle derivano. E tutto ciò si trova
ampiamente confermato nel celebre passo di Metaph. iv 5, 1010a7-19, in cui Aristotele
presenta la sua ricostruzione della genesi e della natura dell’eraclitismo nelle sue diverse
versioni: infatti, a partire dalla comune ammissione del movimento della natura (ÄÛ·Ó
… Ù·‡ÙËÓ ÎÈÓÔ˘Ì¤ÓËÓ ÙcÓ Ê‡ÛÈÓ) e dal riconoscimento che tale assunto impedisce ogni
forma di conoscenza e discorso veri su ciò che è soggetto a movimento (ηÙa ‰b ÙÔÜ
ÌÂÙ·‚¿ÏÏÔÓÙÔ˜ ÔéıbÓ àÏËı¢fiÌÂÓÔÓ), è possibile dedurre «l’opinione più estrema …
quella di chi si proclama seguace di Eraclito e che difese Cratilo» (ì àÎÚÔÙ¿ÙË ‰fiÍ· … ì
ÙáÓ Ê·ÛÎfiÓÙˆÓ ìÚ·ÎÏÂÈÙ›˙ÂÈÓ Î·d Ô¥·Ó KÚ·Ù‡ÏÔ˜ Âr¯ÂÓ), che consiste, come già Platone
ricordava nel Teeteto, nell’astenersi da ogni discorso (ÔéıbÓ … ‰ÂÖÓ Ï¤ÁÂÈÓ) e nell’attenersi
a un rigoroso silenzio; donde il ben noto rimprovero da Cratilo rivolto a Eraclito per
aver detto che (ÂåfiÓÙÈ ¬ÙÈ) «non è possibile entrare due volte nello stesso fiume» (‰d˜
Ù† ·éÙ† Ôٷ̆ ÔéÎ öÛÙÈÓ âÌ‚ÉÓ·È), perché Cratilo «riteneva che non vi si possa entra-
re neanche una volta» (·éÙe˜ ÁaÚ +ÂÙÔ Ôé‰\ ±·Í). S’intende naturalmente che la posi-
zione di Cratilo implica la negazione della possibilità, secondo Aristotele invece ammes-
sa da Eraclito, di entrare almeno una volta nello stesso fiume, ossia di riconoscere una
configurazione, pur temporanea e destinata a essere sostituita nella successione tempo-
rale da altre e diverse configurazioni, della realtà nella quale ci si trova, e ciò in virtù del
fatto che, se il divenire è assunto in modo radicale, il mutamento e il movimento che
esso comporta non consentono di individuare nessuna, pur temporanea e parziale, con-
figurazione definita della realtà o, tornando alla metafora del fiume, nessuna disposizio-
ne a nessun titolo neanche istantaneamente e per un’unica volta riconoscibile delle ac-
que che vi scorrono.1 Ancora in altre parole, quella attribuita a Eraclito da Platone e da

1 Anche nel caso di Aristotele, come per Platone (cfr. supra, p. 74, n. 1), è naturalmente possibile evocare passi
più o meno espliciti nei quali le tesi eraclitee sono presentate ed eventualmente discusse in un quadro di maggiore
attendibilità storica, misurabile in base alla prossimità ai contenuti dei frammenti pervenutici, o comunque indi-
pendentemente da significative reinterpretazioni (o manipolazioni) ideologicamente orientate. Per quanto riguar-
da per esempio la questione che qui ci interessa, ossia quella dell’immagine del fiume e delle acque che in esso
scorrono, si può ricordare almeno che, in Meteor. i 9, 347a2-3, nel corso di una spiegazione dei fenomeni naturali
di rarefazione e condensazione determinati dal percorso del sole e dall’aumento o dalla diminuzione di calore che
esso produce, Aristotele paragona appunto tale processo al movimento ciclico di un fiume «che scorre in cerchio
in su e in giù» (œÛÂÚ ÔÙ·ÌeÓ ®¤ÔÓÙ· ·ÎÏÅ ôÓˆ ηd οو): quando infatti il sole è vicino e il calore più intenso,
l’acqua del fiume evapora ‘in su’; quando il sole si allontana e il calore è meno intenso, invece, il vapore si condensa
in acqua e ridiscende ‘in giù’. La regolarità e l’ordine stabile di questo processo inducono Aristotele a fornirne una
rappresentazione circolare, forse allusivamente riecheggiata dagli antichi poeti nell’immagine del fiume Oceano
che circonda la terra (devo l’indicazione di questo passo a Elisabetta Cattanei). Non vi è dubbio che Aristotele si
riferisca qui a Eraclito, pur non nominandolo esplicitamente; come è pure evidente che non emerge nessun richia-
mo alle implicazioni logico-epistemologiche che dall’immagine del fiume e delle sue acque vengono tratte nei
passi da me citati ed esaminati poco sopra. Resta però interamente da dimostrare l’effettiva prossimità di questo
riferimento all’originale eracliteo, visto che nei frammenti pervenutici l’immagine del fiume non risulta mai as-
sociata al ciclo dei fenomeni meteorologici o fisico-cosmologici, mentre è presente in essi un essenziale richiamo
ai soggetti che fanno il loro ingresso nelle acque sempre diverse degli stessi fiumi e alla conseguente differenza di
punto di vista fra coloro i quali colgono l’unità dei fiumi e coloro i quali si perdono invece nella molteplicità delle
loro acque. E ancora una volta, come sottolineato in riferimento a Platone supra, p. 74, n. 1, quand’anche si dimo-
strasse che Aristotele conosce e presenta l’immagine eraclitea del fiume e delle acque anche in una versione filo-
logicamente più fedele e storicamente più attendibile rispetto all’originale di cui danno testimonianza i frammenti
pervenutici, risulterebbe a maggior ragione notevole che egli ne proponga altrove, e maggioritariamente, una ver-
sione rielaborata e reinterpretata alla luce dei suoi interessi e obiettivi filosofici.
su eraclito, frr. 12, 49a, 91 dk 77
Aristotele pare assimilabile a una forma di divenire sequenziale, per cui il flusso delle cose
(o delle acque) che scorrono suppone appunto che a scorrere sia una successione di se-
quenze fra loro diverse ma ogni volta di per sé riconoscibili; mentre quello degli eraclitei
posteriori e di Cratilo sembra manifestarsi come un divenire integrale, per cui cioè il flus-
so delle cose (o delle acque) che scorrono suppone che a scorrere siano tracce, se così
si può dire, talmente instabili e sfuggenti da apparire non solo irriconoscibili di per sé
ma anche in sé ontologicamente inconsistenti.
Si constata allora, da questo esame sommario delle testimonianze di Platone e di
Aristotele, che l’immagine del fiume e dell’ingresso in esso, certamente originale di
Eraclito, rimane in un solo passo platonico (Crat. 402a) e in un solo passo aristotelico
(Metaph. iv 5, 1010a7-19, che potrebbe dipendere almeno in parte da Platone, di cui Ari-
stotele riprende per lo più termini e concetti), che sono fra l’altro gli unici passi assimi-
labili a citazioni vere e proprie (^HÚ¿ÎÏÂÈÙÔ˜ ϤÁÂÈ; ^HÚ·ÎÏ›ÙÅ … ÂåfiÓÙÈ). Ora, in que-
sti due passi è riportata come propriamente eraclitea l’affermazione secondo la quale
«non è possibile entrare due volte nello stesso fiume», della quale occorre chiedersi
adesso se sia equivalente a, o quantomeno compatibile con, il contenuto del fr. 12 DK
[40 Marcovich] riportato da Cleante. La risposta a questo interrogativo deve essere, a
mio avviso, duplice. Per un verso, se «per coloro i quali entrano negli stessi fiumi, sem-
pre diverse scorrono le acque», risulta abbastanza ovvio che sia impossibile entrare due
volte nello stesso fiume, perché un fiume comprende in sé correnti in continuo movimento
che, dunque, non rimangono identiche nello stesso punto di entrata di un soggetto, sic-
ché tale soggetto, nella stessa estensione di tempo in cui penetra nel fiume oppure, in-
differentemente, penetrando una seconda volta nello stesso fiume,1 sarà toccato da ac-
que via via diverse. Per altro verso, e capovolgendo la questione, mi pare impossibile
accertare invece se, stante il fatto che «non è possibile entrare due volte nello stesso fiu-
me», ne consegua che «per coloro i quali entrano negli stessi fiumi, sempre diverse scor-
rono le acque». In altre parole, mentre la testimonianza platonico-aristotelica relativa a
Eraclito è compatibile con, e in certa misura discende da, il fr. 12 DK [40 Marcovich],
l’inverso non è verificabile, perché il fr. 12 DK [40 Marcovich] può anche essere compa-
tibile con l’affermazione concorrente che è impossibile entrare anche una sola volta nello
stesso fiume, cioè con la testimonianza platonico-aristotelica relativa non a Eraclito, ma
a Cratilo; e mi pare che ciò dipenda senza dubbio dal fatto che il fr. 12 DK [40 Marcovich]
non solleva in nessun modo, nell’ambito dell’immagine del fiume e dello scorrimento
delle sue acque, l’ulteriore e più specifico problema del grado o dell’intensità di tale
scorrimento, un problema che invece si trova al centro dell’interesse manifestato da Pla-
tone e Aristotele nella loro genealogia dell’eraclitismo, non così necessariamente con-
traddicendo la formulazione del fr. 12 DK [40 Marcovich], ma certo esaminandone uno
sviluppo particolare che in quello rimaneva inesplicato.2
Dall’una all’altra versione muta poi certamente il punto di vista che viene assunto:
nel fr. 12 DK [40 Marcovich], infatti, i fiumi sono presentati come unità in sé permanenti
di acque sempre diverse e mobili («negli stessi fiumi … sempre diverse acque»), mentre
nella versione platonico-aristotelica è il fiume stesso nel suo insieme a mutare («non è

1 Sulla distinzione fra una concezione progressiva e una iterativa dell’ingresso nel fiume, tornerò infra, p. 86, n. 1.
2 Discuterò infra, nel § 4, specie p. 86, n. 2, alcune ipotesi di traduzione e di interpretazione del fr. 12 DK [40
Marcovich] che tendono a ridimensionarne ulteriormente la distanza rispetto alla testimonianza fornita da Plato-
ne e da Aristotele.
78 francesco fronterotta
possibile entrare due volte nello stesso fiume»), ma, s’intende, solo in quanto somma di
acque sempre diverse, cioè rispetto alla sua configurazione o composizione d’insieme
e non certo suggerendo che si tratti di un ‘altro’ fiume, come si evince per esempio da
Crat. 402a e da Theaet. 160d, da cui risulta chiaro che il divenire delle cose che sono, che
rende impossibile entrare due volte nello stesso fiume, è associato da Eraclito non al fiu-
me come tale, ma alla sua corrente, cioè alle acque che lo compongono (ÔÙ·ÌÔÜ ®Ô”
àÂÈο˙ˆÓ Ùa ùÓÙ·; ÔxÔÓ ®Â‡Ì·Ù· … Ùa ¿ÓÙ·). In nessuna delle due versioni si attribui-
sce insomma a Eraclito la tesi secondo cui il fiume resta identico sotto ogni profilo né
quella, simmetrica, secondo cui il fiume muta sotto ogni profilo, perché, essendo com-
posto da acque sempre diverse, esso muta necessariamente la disposizione dei suoi ele-
menti e delle sue parti componenti, senza però che mutino, dal punto di vista del fiume
nella sua totalità, la quantità e la qualità delle acque in esso presenti.1
Pur ammettendo la non contraddittorietà fra il fr. 12 DK [40 Marcovich] e la testimo-
nianza platonico-aristotelica, mi pare poco probabile che contengano entrambi mate-
riali eraclitei autentici, e ciò sulla base di due ordini di considerazioni, per quanto con-
getturali e di carattere necessariamente interpretativo. Innanzitutto, i due passi di
Platone e di Aristotele implicano apparentemente, e nonostante tutto, una parafrasi del-
le parole di Eraclito: «[Eraclito] … paragonando le cose che sono alla corrente di un fiu-
me, dice da qualche parte (o in un certo senso, Ô˘) che …» (Crat. 402a); «[Cratilo] … rim-
proverando perfino Eraclito per aver detto che …» (Metaph. iv 5, 1010a13-14). In secondo
luogo, e soprattutto, tanto Platone quanto Aristotele conoscono (o inventano?)2 la ver-
sione della dottrina del divenire che gli eraclitei posteriori (cfr. Theaet. 179e-180c) o forse
Cratilo (cfr. Metaph. iv 5, 1010a7-19) avrebbero professato, radicalizzando la tesi originale
di Eraclito e sostenendo che, se il principio del divenire è assunto con rigore, si rende
impossibile pronunciare sensatamente qualunque parola o anche discendere una volta
soltanto (Ôé‰\ ±·Í) nello stesso fiume; ma appunto in virtù di tale distinzione, Platone
e Aristotele propongono la tesi eraclitea in una formulazione che appare come una ver-
sione ristretta e logicamente derivata rispetto a quella fornita dal fr. 12 DK [40 Marco-
vich], tanto da risultare inoltre antagonista rispetto alla tesi ascritta agli eraclitei poste-
riori e a Cratilo. Storicamente attendibile oppure no, questa rielaborazione della
dottrina eraclitea lascia trasparire l’interesse pressoché esclusivo di Platone e di Aristo-

1 Buona parte dei commentatori ritiene invece che il contenuto della testimonianza platonico-aristotelica sia
in palese contrasto con il fr. 12 DK [40 Marcovich], pur riferendosi al medesimo contesto teorico e argomentativo
eracliteo originale, nella misura in cui, mentre quest’ultimo valorizza la tesi della stabilità e dell’unità del fiume
nel suo insieme rispetto alla mobilità e alla mutevolezza delle diverse acque che in esso scorrono, la versione pla-
tonico-aristotelica rappresenterebbe di per sé una radicalizzazione di questa tesi, perché implicherebbe che a mu-
tare, dalla prima alla seconda volta in cui vi si entra, sia lo stesso fiume come tale. Da una simile interpretazione
discende, per esempio per Kirk, op. cit., pp. 367-380, e Marcovich, op. cit., pp. 147-148, l’inautenticità della formula
riportata da Platone e da Aristotele (ed evidentemente riecheggiata nel fr. 91 DK [40c3 Marcovich], che discuterò
nel § 3) o quantomeno il suo carattere di parafrasi non letterale e concettualmente approssimativa dell’originale
eracliteo, come suggerisce Kahn, op. cit., pp. 166-169. Dal canto suo, Tarán, art. cit., pur negando, contro gli in-
terpreti appena citati, che la testimonianza platonico-aristotelica contenga una versione radicale della tesi del di-
venire (p. 14), e che perciò si trovi da questo punto di vista in contrasto con il fr. 12 DK [40 Marcovich], sostiene tut-
tavia che, mentre essa ha davvero a che fare con la tesi eraclitea del divenire esemplificata dallo scorrimento delle
acque di un fiume, il fr. 12 DK [40 Marcovich] si colloca invece in un diverso contesto teorico e argomentativo, che
è quello della contemporanea affermazione dell’identità dei fiumi nel loro insieme e della diversità delle acque in
essi presenti da parte di coloro i quali vi penetrano, e ciò, appunto, indipendentemente da ogni riferimento al di-
venire (pp. 35-36). Sul dettaglio dell’interpretazione di Tarán tornerò nel § 3.
2 Cfr. infra, p. 79, n. 2.
su eraclito, frr. 12, 49a, 91 dk 79
tele per la tesi del divenire della realtà, di cui essi si sforzano di stabilire una gradazione,
individuando una forma di divenire integrale e assoluto (appunto difesa dagli eraclitei
posteriori e da Cratilo), che non consente neanche un primo e unico (±·Í) riconosci-
mento immediato o istantaneo della realtà da parte del soggetto, e una forma di dive-
nire più moderato e, per così dire, sequenziale (difesa da Eraclito), che consente invece
tale riconoscimento, ma ne sancisce pure l’immediatezza o l’istantaneità, sicché, a un
secondo tentativo (‰›˜), la realtà è già mutata e non corrisponde più alla descrizione che
il soggetto ne ha fornito la prima volta.1 Come si vede, l’intento che emerge dalla testi-
monianza platonico-aristotelica è in ogni caso quello di ‘tradurre’ la dottrina eraclitea
dal punto di vista della definizione dello statuto logico-epistemologico del soggetto di
fronte a una realtà in divenire, vale a dire delle sue possibilità di conoscenza e di desi-
gnazione delle cose esistenti, se queste sono sottoposte a un mutamento perenne – un
intento palesemente estraneo alla riflessione di Eraclito che, stando almeno ai materiali
autentici in nostro possesso, non pare stabilire nessuna connessione esplicita fra la tesi
del divenire e considerazioni di ordine epistemologico o epistemico; mentre, altrettanto
evidentemente, la citazione platonico-aristotelica prescinde da qualunque riferimento
alla tesi, questa si certamente eraclitea, della distinzione e dell’opposizione fra le acque
rispetto all’unità e alla permanenza dei fiumi che le comprendono, una tesi che è invece
al centro della citazione riconducibile a Cleante e sulla cui interpretazione nel contesto
del pensiero di Eraclito tornerò nel § 4.
Così stando le cose, ipotizzo che quella platonico-aristotelica sia in effetti una ridu-
zione scolastica, utile a illustrare la posizione di Eraclito e, a un tempo, dei suoi seguaci,
rendendola intellegibile nel quadro concettuale predisposto da Platone e da Aristotele
e compatibile con i loro interessi e con la loro impostazione di ricerca, una riduzione
che, precisamente per queste ragioni, si trova in seguito ampiamente diffusa nella dos-
sografia posteriore.2

1 Ne consegue che, se, come vuole Tarán, art. cit., pp. 15-16, Platone e Aristotele sembrano effettivamente
attribuire a Eraclito una versione del mobilismo universale più moderata rispetto a quella, radicale, difesa da
Cratilo e dagli eraclitei posteriori, non si tratta però a mio avviso di una tesi che colloca il divenire del reale in un
contesto ontologico di identità e stabilità che suppongono una misura costante e inalterabile del movimento: cfr.
pure supra, p. 74, n. 1.
2 Cfr. per esempio Simplicio, Phys. 77.30 e 1313.8 Diels. A Simplicio, che riporta una volta la versione platonica,
con il verbo alla seconda persona singolare, e una volta la versione aristotelica, con il verbo all’infinito, possono
essere accostate le allusioni di altri commentatori come Olimpiodoro e Filopono. Proprio in quanto maturata a
mio avviso nell’ambito della dossografia platonico-aristotelica, la cui ‘canonizzazione’ scolastica si deve natural-
mente alle Ê˘ÛÈÎáÓ ‰fiÍ·È teofrastee e le cui tracce giungono fino ai commentatori neoplatonici, mi pare difficile
formulare ipotesi concrete, anche soltanto probabili, sull’origine della versione proposta da Platone e da Aristotele
e a maggior ragione sull’eventuale ‘anello della catena’, magari di ambiente eracliteo, che l’avrebbe ricavata dal
fr. 12 DK [40 Marcovich]: si vedano per esempio, in proposito, gli ormai classici contributi di Geoffrey Stephen
Kirk, The Problem of Cratylus, «American Journal of Philology», 72 (1951), pp. 225-253, che attribuisce a Platone una
completa reinterpretazione, nel Cratilo, delle tesi eraclitee con la conseguente radicalizzazione della dottrina del
divenire del tutto e pone la testimonianza di Aristotele in un rapporto di stretta dipendenza da Platone (contra
Rodolfo Mondolfo, specialmente in El problema de Cratilo y la interpretación de Heráclito, «Anales de Filología
Clásica», 6 [1954], pp. 157-174) e di D. J. Allan, The Problem of Cratylus, «American Journal of Philology», 75 (1954),
pp. 271-287. Una posizione alternativa assai netta è difesa da Tarán, art. cit., pp. 16-17 e 19-20, che argomenta invece
in favore dell’indipendenza della testimonianza platonico-aristotelica (e del fr. 91 DK [40c3 Marcovich] che ne de-
riva, sul quale tornerò nel § 3) rispetto al fr. 12 DK [40 Marcovich] e della sua autenticità, specie facendo notare co-
me sarebbe poco ragionevole credere che Platone e Aristotele, e Cratilo citato da quest’ultimo, riportino come
inequivocabilmente eraclitea, appunto in quanto, fra l’altro, sottoposta a critica da parte dello stesso Cratilo, una
formula spuria o comunque parafrasata dall’originale. L’argomento è chiaro, ma suppone di accettare alla lettera
la testimonianza di Platone e soprattutto di Aristotele, con la loro ricostruzione delle successive generazioni di
80 francesco fronterotta

3. I frr. 49A e 91 DK [40c2 e 40c3 Marcovich]


Dall’esame condotto intorno alla testimonianza platonico-aristotelica, e dalle conclu-
sioni che ne ho tratto, derivano una serie di conseguenze tanto immediate quanto rile-
vanti per gli altri due frammenti ‘dei fiumi’ e ‘delle acque’ evocati al principio, cioè il
49a e il 91 DK [40c2 e 40c3 Marcovich], che conviene perciò esaminare adesso. Prendo le
mosse dal secondo di essi, cioè quello che con ogni evidenza si ricollega più direttamen-
te alla testimonianza di Platone e Aristotele e a essa può essere perciò accostato nella
valutazione. La citazione è a opera di Plutarco, De E apud Delphos 392a-b, nel contesto di
un ragionamento più articolato che occorre riportare per intero:
Ôٷ̆ ÁaÚ ÔéÎ öÛÙÈÓ âÌ‚ÉÓ·È ‰d˜ Ù† ·éÙ†, ηı \HÚ¿ÎÏÂÈÙÔÓØ Ôé‰b ıÓËÙɘ ÔéÛ›·˜ ‰d˜ ±„·Ûı·È
ηÙa ≤ÍÈÓ àÏÏ\ ç͇ÙËÙÈ Î·d Ù¿¯ÂÈ ÌÂÙ·‚ÔÏɘ ÛΛ‰ÓËÛÈ Î·d ¿ÏÈÓ Û˘Ó¿ÁÂÈ,1 ÌÄÏÏÔÓ ‰b Ôé‰b ¿ÏÈÓ
Ôé‰\ ≈ÛÙÂÚÔÓ, àÏÏ\ ±Ì· Û˘Ó›ÛÙ·Ù·È Î·d àÔÏ›ÂÈ Î·d ÚfiÛÂÈÛÈ Î·d ôÂÈÛÈ.
(a) “Non è possibile entrare due volte nello stesso fiume”, secondo Eraclito, e neanche è possibile
toccare due volte l’essenza mortale nella stessa condizione, ma per l’acutezza e la rapidità del
suo cambiamento, (b) “si disperde e di nuovo si riunisce”, o piuttosto non “di nuovo” né “suc-
cessivamente”, ma “allo stesso tempo”, “si costituisce e si disfa, si avvicina e si allontana”.
Gli editori e i commentatori sono divisi nella valutazione del brano e delle due parti –
(a) e (b) – che abitualmente in esso si distinguono: Kirk accetta la seconda parte della ci-
tazione plutarchea (b), perché costruita su una sequenza di coppie di verbi che sarebbe-
ro assai insoliti in Plutarco e dunque possibilmente autentici, e suggerisce di collocarla

eraclitei cui corrispondono altrettanti gradi di evoluzione della loro dottrina; ma considerando il fatto appena ac-
cennato qui, e su cui tornerò nel § 4, che i contenuti teorici di tale ricostruzione sembrano in contrasto con i ma-
teriali eraclitei certamente autentici, mentre rispecchiano piuttosto l’‘uso’ che, dell’eraclitismo, fanno Platone e
Aristotele, credo che tale testimonianza debba essere assunta con estrema prudenza e con una certa dose di scet-
ticismo rispetto alle sue implicazioni di fondo. Quanto si deve riconoscere è che, anche ammettendo in linea di
massima la veridicità storica della testimonianza di Platone e di Aristotele su una generazione di eraclitei attivi fra
Atene e la Ionia nell’età di Platone, poche certezze sussistono intorno alla loro identità e alle loro dottrine, se è
vero che, per esempio, non siamo in grado di collocare con assoluta sicurezza il personaggio di Cratilo nel gruppo
degli eraclitei posteriori di cui Platone parla nel Teeteto; né di affermare che vi sia piena coerenza nella presenta-
zione di Cratilo, da parte di Platone, nel Cratilo; né, infine, nella sua presentazione da parte di Platone e da parte
di Aristotele, nel iv libro della Metafisica. Così stando le cose, non ritengo si possa andare oltre l’ipotesi congettu-
rale che, a partire dalla tesi che emerge dal fr. 12 DK [40 Marcovich], dell’unità e della permanenza dei fiumi di
contro alla pluralità e al divenire delle acque, che, come ampiamente argomentato fin qui, considero autentica-
mente eraclitea, possa essere stato valorizzato, da parte di seguaci più o meno ortodossi e più o meno diretti di
Eraclito, e con maggiore o minore serietà e senso del paradosso, l’elemento del divenire e della mutevolezza delle
acque anche indipendentemente dal riferimento alla stabilità e all’equilibrio complessivo del fiume che le contie-
ne, ormai assurto a rappresentazione, come un unico e solo fiume, della totalità del reale che comprende le cose
particolari in divenire – eventualmente individuando proprio qui quella critica rivolta (da Cratilo?) a Eraclito per
non aver compreso che, se il divenire è assunto nella sua radicalità ed estensione per le singole cose che sono, nes-
suna permanenza risulta possibile per il tutto che delle singole cose che sono è la somma. Se un simile passo può
essere stato compiuto ancora in ambiente eracliteo, perché in una certa misura compatibile con il contesto teorico
originale, mi pare invece che non si possa che attribuire a Platone e Aristotele il problema ulteriore, che sorge evi-
dentemente e inequivocabilmente soltanto nel quadro della loro prospettiva onto-epistemologica, del ‘grado’ del
divenire delle cose che sono e della sua compatibilità con la loro effettiva sussistenza e conoscibilità, ovviamente
in riferimento al soggetto che fra le cose in divenire è immerso come in un fiume e le cui acque può denominare
e conoscere, a seconda dell’intensità del loro scorrimento, una sola volta, più volte o nessuna volta. Ringrazio
Franco Trabattoni e Mario Vegetti per avermi indotto ad approfondire questo punto.
1 Marcovich, op. cit., p. 143, ha proposto, dopo Û˘Ó¿ÁÂÈ, la congettura <·ñÙ‹Ó> (riferito alla ıÓËÙɘ ÔéÛ›·˜),
per fornire un accusativo ai verbi ÛΛ‰ÓËÛÈ e Û˘Ó¿ÁÂÈ, che non sono attestati nell’uso intransitivo che occorrerebbe
attribuire loro qui.
su eraclito, frr. 12, 49a, 91 dk 81
come seguito del fr. 12 DK [40 Marcovich] in questa sequenza: ÔÙ·ÌÔÖÛÈ ÙÔÖÛÈÓ ·éÙÔÖÛÈÓ
âÌ‚·›ÓÔ˘ÛÈÓ ≤ÙÂÚ· ηd ≤ÙÂÚ· ≈‰·Ù· âÈÚÚÂÖØ ÛΛ‰ÓËÛÈ Î·d Û˘Ó¿ÁÂÈ, Û˘Ó›ÛÙ·Ù·È Î·d
àÔÏ›ÂÈ, ÚfiÛÂÈÛÈ Î·d ôÂÈÛÈ; al contrario, Kahn considera la citazione plutarchea, al-
meno nella sua prima parte (a), come una parafrasi dell’originale eracliteo, il quale a
sua volta doveva essere anch’esso connesso al fr. 12 DK [40 Marcovich], costituendone
la premessa o la conclusione; Diano, Serra giudicano invece la prima parte della citazio-
ne plutarchea come una variante deteriore del fr. 49a DK [40c2 Marcovich], che discu-
terò più avanti, e la seconda parte (b) come autentica; Pradeau ritiene autentica dal can-
to suo solo la prima parte della citazione (a), mentre giudica il linguaggio della seconda
parte come non originale; infine, Mouraviev ricava dalla citazione plutarchea due di-
stinti frammenti, corrispondenti alle due parti (a) e (b) ed entrambi a suo avviso auten-
tici.1 Tentiamo perciò di fare ordine fra queste diverse proposte.
Per quanto riguarda innanzitutto la seconda parte della citazione plutarchea (b),
nessuna delle tre coppie di verbi introdotte ha, a mio avviso, possibilità di essere au-
tentica e ciò per più ragioni: il riferimento di Plutarco a Eraclito sembra concludersi a
ηı\ HÚ¿ÎÏÂÈÙÔÓ, riguardando così soltanto la prima parte (a) della citazione; nella
seconda parte della sua citazione (b), Plutarco fornisce, tramite le tre coppie di verbi in
questione, una spiegazione che si riferisce piuttosto al caso della composizione dell’«es-
senza mortale» di cui sta trattando che non all’immagine del fiume, che egli ha richia-
mato subito prima, e poi immediatamente abbandonato, come metafora di una realtà
mutevole appunto analoga all’«essenza mortale»; l’uso intransitivo della prima coppia
di verbi (ÛΛ‰ÓËÛÈ e Û˘Ó¿ÁÂÈ), che pare imposto dal parallelo con le due coppie succes-
sive, non è altrimenti attestato; non è chiaro infine come le tre coppie di verbi possano
essere tutte autentiche, se la seconda e la terza, per esplicita indicazione di Plutarco, co-
stituiscono una correzione della prima.2 Aggiungerei infine, a titolo di ipotesi, che, di-
versamente dal movimento delle maree e in generale delle acque del mare, di cui si può
sostenere che si muovono di movimenti opposti di flusso e riflusso, di unione e divisio-
ne, ben illustrati dalle coppie di verbi utilizzati da Plutarco e associabili alla condizione
che lo stesso Plutarco riconosce per l’«essenza mortale», le acque di un fiume si dispon-
gono in correnti senza dubbio mobili, mutevoli e sempre diverse, ma di cui mi sembra
arduo negare che procedano esclusivamente in un’unica direzione e non certo «avanti»
e «indietro».3
Passiamo perciò alla prima parte della citazione plutarchea (a), e agli argomenti re-
centemente avanzati da Tarán, che rappresentano probabilmente la più articolata difesa
della sua autenticità. Come accennato poco sopra,4 Tarán assume un duplice punto di
partenza: (1) la testimonianza platonico-aristotelica, cui la prima parte della citazione
plutarchea (a) va certamente associata, non può essere messa in dubbio come fedele re-

1 Cfr. rispettivamente, e nell’ordine, Kirk, op. cit., pp. 382-384; Kahn, op. cit., pp. 168-169; Diano, Serra, op.
cit., pp. 12 e 124-125; Pradeau, op. cit., pp. 102-03 e 211-212; e Mouraviev, op. cit., i, pp. 233-236, e iii, pp. 114-115.
2 Cfr. pure Marcovich, op. cit., pp. 142-144 e 148-152, che propende tuttavia in favore dell’inautenticità dell’in-
tera citazione plutarchea, compresa la prima parte (a), respinta per le ragioni esposte supra, p. 78, n. 1; e Tarán,
art. cit., pp. 43-44.
3 A meno che non si accosti il «fiume» eracliteo, in base alla suggestione fornita da Aristotele, Meteor. i 9, 347a
(brevemente esaminata supra, p. 76, n. 1), all’immagine del fiume Oceano che avvolge circolarmente la terra, così
rappresentando il suo corso d’acqua come un flusso che ritorna eternamente su se stesso. Tuttavia, oltre che im-
probabile, perché essenzialmente infondata, questa associazione non risulta neanche del tutto congrua, visto che,
benché raccolto in un percorso ciclico e sempre identico, un flusso circolare avanza comunque in un’unica dire-
zione e non «avanti» e «indietro». 4 Cfr. supra, p. 79, n. 2.
82 francesco fronterotta
soconto della tesi eraclitea; (2) tale testimonianza è necessariamente indipendente, e
perfino incompatibile, con il fr. 12 DK [40 Marcovich], al quale non può essere ricondot-
ta e dal quale non può essere ricavata, e ciò nella misura in cui la testimonianza plato-
nico-aristotelica e il fr. 91 DK [40c3 Marcovich] riportato da Plutarco che ne deriva affer-
mano che «non è possibile entrare due volte nello stesso fiume», lasciando intendere che
è invece possibile entrarvi almeno una volta, perché, a causa di una forma di divenire in
qualche modo moderato, la disposizione del fiume, che permane identica nel corso del
primo ingresso di un soggetto nelle sue acque, muta invece in occasione del suo secon-
do ingresso – e su questo punto si sarebbe concentrato l’ormai noto rimprovero di Cra-
tilo; mentre il fr. 12 DK [40 Marcovich], secondo il quale «per coloro i quali entrano negli
stessi fiumi, sempre diverse scorrono le acque», implica un’affermazione che attesta la
contemporanea identità del fiume e diversità delle sue acque e che rimane valida indi-
pendentemente dal numero di volte in cui un soggetto entra in esso (ed eventualmente
anche se tale soggetto non vi entra affatto). Paradossalmente, quindi, il fr. 12 DK [40
Marcovich] finirebbe per avvicinarsi piuttosto, secondo Tarán, a una posizione radicale
come quella attribuita a Cratilo da Platone e da Aristotele («i fiumi rimangono identici
e le loro acque mutano sempre», dunque è impossibile entrarvi anche solo un’unica vol-
ta) che non alla posizione che questi ultimi riconoscono invece come propriamente era-
clitea («i fiumi rimangono identici e le loro acque mutano moderatamente», sicché è pos-
sibile entrarvi una volta, ma non più di una volta). Per sanare questa contraddizione,
Tarán suggerisce l’ipotesi che i due frammenti, il 12 DK [40 Marcovich] e il 91 DK [40c3
Marcovich] riportato da Plutarco, con la testimonianza platonico-aristotelica da cui de-
riva, appartengano a contesti teorici e argomentativi diversi nell’originale eracliteo e ab-
biano perciò un significato diverso: il fr. 91 DK [40c3 Marcovich], effettivamente connes-
so alla dottrina del divenire, con la sua indicazione di una forma di mutamento
universale, ma sufficientemente moderato da rimanere compatibile con la descrizione
e la conoscenza delle cose che mutano; il fr. 12 DK [40 Marcovich], invece, che riecheg-
gerebbe la contrapposizione eraclitea – ampiamente attestata nei materiali superstiti
(cfr. per esempio i frr. 2 e 89 DK [23 e 24 Marcovich]) – fra i «mondi privati» e le cono-
scenze particolari e illusorie che i molti «dormienti» erroneamente si costruiscono, sim-
boleggiati dalle acque diverse e mutevoli in cui penetrano coloro i quali entrano nei fiu-
mi, e l’unica conoscenza vera dell’unico cosmo cui attingono i pochi «svegli», evocata
dall’indicazione della permanenza e dall’identità dei fiumi.1 Tra l’altro, una simile diffe-
renza di contesto e di interpretazione sarebbe incoraggiata dalla constatazione che,
mentre il fr. 12 DK [40 Marcovich] richiama l’immagine dei «fiumi» al plurale, il fr. 91
DK [40c3 Marcovich] e la tradizione da cui dipende vi si riferiscono invece sistematica-
mente al singolare.2
Proprio in riferimento a quest’ultimo rilievo, tuttavia, vanno svolte almeno due con-
siderazioni. Innanzitutto, se è opportuno sottolineare le differenze grammaticali e sin-
tattiche fra i due distinti costrutti e tentarne una spiegazione,3 non credo possa essere

1 Cfr. Tarán, art. cit., rispettivamente pp. 48-51 e 33-36. Per l’interpretazione del fr. 12 DK [40 Marcovich], Tarán
dichiara di riprendere e sviluppare un suggerimento di H. Cherniss (p. 34, n. 78).
2 Cfr. ancora Tarán, art. cit., p. 47.
3 Una possibile spiegazione del passaggio dal plurale, del fr. 12 DK [40 Marcovich], al singolare, della testimo-
nianza platonico-aristotelica e del fr. 91 DK [40c3 Marcovich], si può trarre a mio avviso dalla considerazione che,
mentre il plurale accentua il valore gnomico dell’affermazione di Eraclito e dell’immagine che vi è contenuta, per
cui «i fiumi» divengono indicazione della concreta estensione universale, «totale» o «organica», della validità di tale
su eraclito, frr. 12, 49a, 91 dk 83
però trascurata l’evidenza immediata della comune metafora che viene in essi impiega-
ta, cioè quella del fiume e delle acque che scorrono in esso e dell’ingresso che vi si com-
pie; e mi pare francamente improbabile che Eraclito abbia potuto utilizzare nella sua
opera quest’unica e identica metafora a più riprese, in contesti teorici diversi e con si-
gnificati diversi – l’oscurità di Eraclito è celebre, ma un’attitudine del genere rasente-
rebbe la dissimulazione, se non la dissociazione mentale. In secondo luogo, all’interpre-
tazione di Tarán del fr. 12 DK [40 Marcovich] si può obiettare che, di norma, quando
Eraclito contrappone l’unico «mondo» degli «svegli» ai «mondi privati» dei dormienti
(per esempio nei frr. 2 e 89 DK [23 e 24 Marcovich] che Tarán richiama), lo fa appunto
valorizzando l’unicità e l’universalità del primo di contro alla molteplicità e alla parti-
colarità dei secondi, il che pare frapporre un ostacolo insuperabile alla comprensione
dei «fiumi» (al plurale) del fr. 12 DK [40 Marcovich] come allusione al «mondo» (al sin-
golare) degli «svegli».
D’altro canto, anche al di là dell’interpretazione specifica del fr. 12 DK [40 Marcovich],
l’esame da me condotto in precedenza della testimonianza platonico-aristotelica mi in-
duce a contestare l’impostazione generale adottata da Tarán nella sua analisi del fr. 91
DK [40c3 Marcovich], come pure, ovviamente, le conclusioni che egli ne trae in favore
della sua autenticità. Credo di aver mostrato infatti che tale testimonianza non è di per
sé incompatibile o contraddittoria rispetto al fr. 12 DK [40 Marcovich], mentre l’inverso
rimane inverificabile, nella misura in cui la testimonianza platonico-aristotelica, con il
fr. 91 DK [40c3 Marcovich] che ne deriva, rappresenta un caso ristretto della tesi generale
del fr. 12 DK [40 Marcovich], da essa estrapolabile, certo, ma in essa non espressamente
prevista; e se tale ricostruzione è corretta – se, in altre parole, il fr. 91 DK [40c3 Marco-
vich] consiste davvero di un’estrapolazione di matrice platonico-aristotelica dal fr. 12
DK [40 Marcovich] – ne segue necessariamente che la testimonianza platonico-aristote-
lica non può essere considerata pienamente attendibile e portatrice di contenuti auten-
tici, perché si rivela nella migliore delle ipotesi come l’esito più o meno coerente e con-
seguente di un’incisiva rielaborazione, da parte di Platone e di Aristotele, della tesi
originale di Eraclito.1
Tale rielaborazione si basa su un’astrazione dal suo contesto della tesi eraclitea del
movimento e del flusso (espressa variamente con i verbi ¯ˆÚÂÖÓ, ®ÂÖÓ, ÌÂÙ·›ÙÂÈÓ,
å¤Ó·È, ʤÚÂÛı·È, ÎÈÓÂÖÛı·È), che, per lo più dissociata dall’immagine originale del fiume
(che, lo ricordo, rimane in un solo passo platonico – Crat. 402a – e in un solo passo ari-
stotelico – Metaph. iv 5, 1010a7-19), viene ridotta, tanto seccamente quanto scolastica-
mente, all’affermazione del divenire (Á¤ÓÂÛȘ) e della continua generazione e corruzio-
ne della realtà, di cui Platone e Aristotele si premurano di precisare insistentemente che
si tratta della realtà sensibile, e ciò senza dubbio al fine di giustificare l’introduzione (da
parte di Platone) di una realtà intellegibile immobile e immutabile, distinta e separata
dalla sfera sensibile. Le acque dei fiumi vengono intese allora come metafora di tutte le
cose che sono (ÔÙ·ÌÔÜ ®Ô” àÂÈο˙ˆÓ Ùa ùÓÙ·, Crat. 402a; ÔxÔÓ ®Â‡Ì·Ù· … Ùa ¿ÓÙ·,
Theaet. 160d) e rese come ¿ÓÙ· (Ùa ·åÛıËÙ¿), sicché la tesi del divenire del tutto diventa,
presa assolutamente, pura e semplice dottrina eraclitea. In questa intera collezione di

affermazione, il singolare si adatta piuttosto alla semplificazione concettuale, forse operata da Platone e da Ari-
stotele, che raffigura «il fiume» nella forma dell’universalità astratta di una rappresentazione sintetica dell’unità
del reale.
1 Su tale rielaborazione, e sulla congetturale ricostruzione che ne ho suggerito, cfr. supra, p. 79, n. 2.
84 francesco fronterotta
riferimenti o allusioni cade perciò ogni riferimento alla dottrina dell’unità e della com-
posizione di tutte le cose che sono e rimane esclusiva la tesi del divenire perenne appli-
cata all’ambito sensibile e articolata in un quadro eminentemente epistemologico:
emergono cioè in sintesi (1) la metafora del fiume come immagine del divenire e del
mutamento perenne delle sue acque, e non più della distinzione e dell’opposizione fra
acque diverse negli stessi fiumi; e (2) l’accento posto sul soggetto che vi entra in quanto
è coinvolto in tale flusso e avvolto nel relativismo radicale che esso produce, e non più
in quanto è capace di comprendere come, in base a punti di vista diversi, l’effettiva di-
stinzione e opposizione fra acque diverse si ricomponga nell’unità del fiume.1 Si com-
prenderà facilmente, di conseguenza, come a mio avviso il fr. 91 DK [40c3 Marcovich]
riportato da Plutarco nella prima parte della sua citazione (a) non possa che essere giu-
dicato come una variante parafrasata, che appunto tradisce l’incisiva rielaborazione pla-
tonico-aristotelica appena tratteggiata, estrapolata dal fr. 12 DK [40 Marcovich], che ne
rappresenta plausibilmente la versione originale, in quanto restituisce una formulazio-
ne che è a un tempo la più coerente con i materiali eraclitei autentici e la meno soggetta
a indebite suggestioni teoriche estranee alla riflessione di Eraclito.
Queste considerazioni mi consentono di procedere più speditamente nella valutazio-
ne dell’ultimo frammento in esame, il 49a DK [40c2 Marcovich]. Citato da Eraclito
Omerico, un autore stoico la cui cronologia oscilla tra la seconda metà del i secolo a.C.
e il ii secolo d.C., nelle sue Quaestiones homericae (24.5), un’opera in difesa di Omero di
cui viene proposta una lettura allegorica in polemica con Platone ed Epicuro, esso suo-
na così:
ÔÙ·ÌÔÖ˜ ÙÔÖ˜ ·éÙÔÖ˜ âÌ‚·›ÓÔÌ¤Ó Ù ηd ÔéÎ âÌ‚·›ÓÔÌÂÓ, ÂrÌ¤Ó Ù ηd ÔéÎ ÂrÌÂÓ.
Negli stessi fiumi entriamo e non entriamo, siamo e non siamo.
In questa formulazione,2 il fr. 49a DK [40c2 Marcovich] riflette, mi pare, la posizione più

1 Il solo Pradeau, op. cit., pp. 98-102 e 104-113, 206-211 e 214-219 – con Mouraviev, op.cit., i, pp. 209-211, e iii, p.
99, ma limitatamente ai passi seguenti: Platone, Crat. 402a; Simplicio, Phys. 887.1 e 1313.8 Diels; e Luciano, Vit. auctio
14, da cui Mouraviev estrae, come frammento, questo collage di sentenze: ¿ÓÙ· ¯ˆÚÂÖ Î·d Ôé‰bÓ Ì¤ÓÂÈ. ¿ÓÙ· ®ÂÖ.
öÌ‰ÔÓ Ôé‰¤Ó –, accetta l’insieme delle testimonianze platonico-aristoteliche come contenente materiale eracliteo
autentico o comunque un suo fedele resoconto.
2 Un problema assai complesso, cui posso soltanto accennare qui, riguarda l’esatta formulazione del frammento,
di cui possediamo una versione latina dovuta a Seneca, Ep. Mor. 58.23: in idem flumen bis descendimus et non descendimus.
Come si vede, Seneca introduce un bis, corrispondente al greco ‰›˜ che ci è noto dal fr. 91 DK [40c3 Marcovich], tra-
lascia l’ultima parte della citazione (ÂrÌ¤Ó Ù ηd ÔéÎ ÂrÌÂÓ) trasmessaci da Eraclito Omerico e, mentre quest’ultimo
indica i «fiumi» (nei quali «entriamo e non entriamo») al plurale (ÔÙ·ÌÔÖ˜ ÙÔÖ˜ ·éÙÔÖ˜), Seneca conserva il singolare.
Premesso che la cronologia di Eraclito Omerico è incerta, e che ciò non consente di accertare se uno dei due citatori
possa dipendere dall’altro, e quale, nell’ampia disamina svolta in proposito da Tarán, art. cit., pp. 36-40, vi è almeno
un argomento particolarmente convincente che suggerisce a mio avviso di preferire la versione riportata da Eraclito
Omerico: l’introduzione, da parte di Seneca, di bis è, in questo contesto, incongrua, se è vero che, perché l’afferma-
zione che «nello stesso fiume scendiamo e non scendiamo» sia vera, se il flusso delle acque muta continuamente, è
sufficiente che ciò avvenga «una sola volta» e non «due volte» (mentre, se affermassimo che «nello stesso fiume due
volte scendiamo e non scendiamo», ciò implicherebbe evidentemente che «una sola volta» non è sufficiente, ma ne
occorrono appunto almeno due – il che è falso). L’ipotesi originariamente formulata da Schleiermacher di conget-
turare un ‰›˜ nella versione di Eraclito Omerico (ÔÙ·ÌÔÖ˜ ÙÔÖ˜ ·éÙÔÖ˜ <‰d˜> âÌ‚·›ÓÔÌ¤Ó Ù ηd ÔéÎ âÌ‚·›ÓÔÌÂÓ) è
dunque certamente infondata, perché è piuttosto il testo di Seneca a manifestare un’incongruenza logica che nessun
tentativo di difesa ha a mio avviso efficacemente dissolto. È anzi possibile che la presenza di bis, nella citazione di Se-
neca, possa essere l’esito dell’influenza della tradizione dossografica che, attraverso Teofrasto, risale alla testimo-
nianza platonico-aristotelica che, come abbiamo visto, fa della contrapposizione fra ±·Í e ‰›˜ la chiave di volta per
distinguere la posizione di Eraclito da quella di Cratilo e dei suoi seguaci. La ‘canonizzazione’ del ‰›˜ come autenti-
su eraclito, frr. 12, 49a, 91 dk 85
radicale degli eraclitei posteriori e di Cratilo ricordata da Platone e da Aristotele e am-
piamente discussa in precedenza, secondo la quale non è possibile penetrare neanche
una sola volta nello stesso fiume, perché, nell’istante medesimo in cui vi si entra, il fiu-
me è già mutato e quindi, di fatto, non è già più lo stesso in cui si sta entrando, sicché
se ne può concludere che in esso si entra e a un tempo non si entra – una posizione,
questa, da cui il fr. 49a DK [40c2 Marcovich] finisce inoltre per dedurre esplicitamente
come conseguenza una conferma dell’opinione aristotelica che Eraclito vada annove-
rato fra i negatori del principio di non contraddizione, se viene precisato che «negli stes-
si fiumi … siamo e non siamo», s’intende, allo stesso tempo. A ciò si aggiunga pure, a com-
plicare ulteriormente il quadro, che una formulazione come quella riportata da Eraclito
Omerico, se risulta in generale in sintonia con la ricostruzione della genealogia dell’era-
clitismo ascrivibile a Platone e Aristotele, appare però in contraddizione con la posizio-
ne che, in tale ricostruzione, viene da Platone e Aristotele (e dal fr. 91 DK [40c3 Marco-
vich]) attribuita a Eraclito, il quale avrebbe sostenuto l’impossibilità di penetrare una
seconda volta (‰›˜) nello stesso fiume, dunque ammettendo implicitamente la possibi-
lità di penetrarvi almeno una volta (±·Í), una possibilità, quest’ultima, negata invece
dagli eraclitei posteriori e da Cratilo.
Per un verso, dunque, da accostare al fr. 91 DK [40c3 Marcovich] per la comune ap-
partenenza a una tradizione che dipende dalla rielaborazione platonico-aristotelica del
fr. 12 DK [40 Marcovich], per altro verso in contraddizione con esso per la diversa collo-
cazione riservata alla versione eraclitea della tesi del divenire rispetto a quella degli era-
clitei posteriori e di Cratilo, il fr. 49a DK [40c2 Marcovich] mi pare così, per entrambe
queste ragioni, soggetto ad assai fondati sospetti quanto alla sua autenticità.1

4. I fiumi, le acque, il divenire


È a questo punto finalmente possibile, completato l’esame dei tre frammenti eraclitei
‘dei fiumi’, rispetto alla loro costituzione testuale e al contesto della loro trasmissione,
avanzare alcune considerazioni di carattere interpretativo sull’unico frammento la cui
autenticità non sia apparsa esposta a dubbi significativi, il 12 DK [40 Marcovich], che ri-
propongo qui di seguito:
ÔÙ·ÌÔÖÛÈ ÙÔÖÛÈÓ ·éÙÔÖÛÈÓ âÌ‚·›ÓÔ˘ÛÈÓ ≤ÙÂÚ· ηd ≤ÙÂÚ· ≈‰·Ù· âÈÚÚÂÖ.
Per coloro i quali entrano negli stessi fiumi, sempre diverse scorrono le acque.

camente eracliteo in questa linea della tradizione può aver condotto alla sua impropria introduzione anche in linee
dossografiche diverse della tradizione eraclitea (devo questa ipotesi a Silvia Fazzo).
1 Cfr. pure Kirk, op. cit., pp. 373-374, e Marcovich, op. cit., p. 152. A favore dell’autenticità si esprimono invece
Diano, Serra, op. cit., pp. 12 e 121-123, e Mouraviev, op. cit., i, pp. 124-125, e iii, p. 59; mentre in dubbio rimane
Kahn, op. cit., pp. 288-289. Pur concordando con la tesi dell’inautenticità del fr. 49a DK [40c2 Marcovich], L. Tarán,
art. cit., pp. 41-42, argomenta diversamente: a suo avviso, la citazione trasmessa da Eraclito Omerico non sarebbe
che una parafrasi del fr. 12 DK [40 Marcovich] e avrebbe lo stesso significato che, come visto poco sopra, Tarán at-
tribuisce a quest’ultimo. La ragione per cui negli «negli stessi fiumi entriamo e non entriamo» (fr. 49a DK [40c2
Marcovich]) sarebbe infatti che «per coloro i quali entrano negli stessi fiumi, sempre diverse scorrono le acque» (fr. 12
DK [40 Marcovich]), ma, poiché quest’ultima affermazione implica secondo Tarán un riferimento ai «mondi pri-
vati» che i «dormienti» credono reali, di contro all’unico «mondo comune» degli «svegli», anche il fr. 49a DK [40c2
Marcovich] indicherebbe la contrapposizione fra gli «svegli», che sono consapevoli dell’identità e della permanen-
za dei fiumi nei quali sanno di «entrare», e i «dormienti», che invece si perdono nella diversità e nella molteplicità
delle acque diverse nelle quali dunque credono di «entrare e non entrare». Non occorre, credo, tornare sulle moti-
vazioni che mi hanno indotto a respingere una simile interpretazione.
86 francesco fronterotta

Come si comprenderà dalla traduzione proposta, collego il dimostrativo ÙÔÖÛÈÓ ·éÙÔÖÛÈÓ


al sostantivo ÔÙ·ÌÔÖÛÈ e intendo âÌ‚·›ÓÔ˘ÛÈÓ come un participio presente al dativo plu-
rale: in questo modo, diviene manifesto il riferimento all’unità e alla permanenza come
caratteristiche attribuite ai fiumi nel loro insieme, nonostante la diversità e la mobilità
delle acque che scorrono in essi. Sarebbe grammaticalmente possibile, tuttavia, connet-
tere ÙÔÖÛÈÓ ·éÙÔÖÛÈÓ con âÌ‚·›ÓÔ˘ÛÈÓ (o perfino, ma più difficilmente, l’articolo ÙÔÖÛÈÓ
con il sostantivo ÔÙ·ÌÔÖÛÈ e il dimostrativo ·éÙÔÖÛÈÓ con il participio âÌ‚·›ÓÔ˘ÛÈÓ), sug-
gerendo così che unità e permanenza siano caratteristiche che appartengono ai soggetti
che entrano nei fiumi («Per gli stessi che entrano nei fiumi …» oppure, più esplicitamen-
te, «per coloro i quali, rimanendo gli stessi, entrano nei fiumi …»), nonostante siano coin-
volti nel movimento e nello scorrimento di acque sempre diverse.1 Questa seconda op-
zione determina un sostanziale mutamento di prospettiva e di punto di vista delle
parole attribuite a Eraclito, perché si rinuncia a stabilire un rapporto esplicito fra i fiumi
come totalità composita delle diverse acque che comprendono in sé e le acque stesse
che invece si succedono e si sovrappongono le une alle altre, mentre si pongono piut-
tosto in risalto la condizione del soggetto e la sua identità di fronte al divenire perenne
delle acque dei fiumi nelle quali si immerge come un’unità. Non è inverosimile che, pro-
prio in base a una lettura di questo genere, una parte della tradizione esegetica e dosso-
grafica antica, e precisamente quella risalente a Platone e ad Aristotele esaminata in pre-
cedenza, sia giunta, per un verso, (1) ad accentuare la tesi del divenire in modo esclusivo
(«… sempre diverse scorrono le acque»), cioè indipendentemente da qualunque riferimen-
to alla dottrina dell’unità di tutte le cose che è invece conservato se si mantiene l’indi-
cazione della permanenza e dell’identità dei fiumi («… negli stessi fiumi, sempre diverse
scorrono le acque»); e, per altro verso, (2) a sottolineare in modo altrettanto esclusivo il
ruolo e la funzione del soggetto («Per gli stessi … sempre diverse scorrono le acque»), specie
rispetto alle sue possibilità di conoscenza e di designazione della realtà in divenire.2

1 Meno naturale mi sembra la resa preferita da Mouraviev, op. cit., i, p. 43, e iii, p. 20, n. 2, che considera
âÌ‚·›ÓÔ˘ÛÈÓ non come un participio, ma come la terza persona plurale del presente indicativo («Essi [o esse, cfr.
supra, p. 73, n. 2] entrano negli stessi fiumi …»). Non pertinente trovo la precisazione di Marcovich, op. cit., pp.
147-148, che distingue, ancora nel participio âÌ‚·›ÓÔ˘ÛÈÓ, fra un senso progressivo o corrente, che starebbe a indicare
un unico ingresso nei fiumi nella sua estensione temporale («Per coloro i quali avanzano il passo [oppure: si accin-
gono ad entrare] …»), e un senso iterativo, che segnalerebbe invece diverse e successive entrate nei fiumi («Per coloro
i quali entrano parecchie volte …»): mi pare infatti che le parole di Eraclito si prestino a entrambe le interpretazioni,
che non sono peraltro fra loro concorrenti, ma senz’altro complementari, se è vero che le acque dei fiumi sono
sempre diverse sia per chi compia un unico ingresso in esse, nel corso della durata di tale ingresso, sia, a maggior
ragione, per chi compia tale ingresso più volte e successivamente. Come già argomentato in precedenza, e come
tornerò a ribadire nella nota seguente, il fr. 12 DK [40 Marcovich] non chiama in causa il problema dell’intensità o
del grado dello scorrimento delle acque dei fiumi, e di conseguenza della sua compatibilità con un solo ingresso in
essi o due o più ancora, ma esprime una contrapposizione – quella fra l’unità e l’identità dei fiumi e la molteplicità
e la diversità delle acque – valida in generale e senza eccezioni di sorta.
2 Ancora due opzioni mi sono state suggerite, rispettivamente da Francesca Masi e da Michele Abbate, come
ipotesi di costruzione e di traduzione del fr. 12 DK [40 Marcovich], ed entrambe con l’obiettivo di spiegare almeno
in parte in che modo, a partire da questo frammento, si siano prodotte nella tradizione posteriore, fin da Platone
e Aristotele, significative deviazioni e divergenze rispetto all’originale. La prima opzione prevede di intendere
âÌ‚·›ÓÔ˘ÛÈÓ come terza persona plurale del presente indicativo e di dissociare i due ≤ÙÂÚ·, facendo del primo il sog-
getto di âÌ‚·›ÓÔ˘ÛÈÓ e del secondo l’attributo di ≈‰·Ù·; avremmo così ÔÙ·ÌÔÖÛÈ ÙÔÖÛÈÓ ·éÙÔÖÛÈÓ ≤ÙÂÚ· âÌ‚·›ÓÔ˘ÛÈÓ
ηd ≤ÙÂÚ· ≈‰·Ù· âÈÚÚÂÖ, «negli stessi fiumi diversi <soggetti> entrano e diverse acque scorrono». Così traducendo,
il fr. 12 DK [40 Marcovich] si rivela in effetti meno distante dal fr. 49a DK [40c2 Marcovich], perché avremmo che,
in virtù dello scorrere di acque sempre diverse (fr. 12 DK [40 Marcovich]), si potrebbe sostenere che «negli stessi fiu-
mi entriamo e non entriamo» (fr. 49a DK [40c2 Marcovich]), mentre, in virtù dell’ingresso di soggetti sempre diversi
su eraclito, frr. 12, 49a, 91 dk 87
Passando all’interpretazione complessiva del frammento e alla sua collocazione nel
contesto del pensiero di Eraclito, e tenendo conto naturalmente dell’esame condotto

(fr. 12 DK [40 Marcovich]), si potrebbe concludere che «negli stessi fiumi siamo e non siamo» (fr. 49a DK [40c2 Mar-
covich]), tra l’altro riconducendo così al fr. 12 DK [40 Marcovich] tanto la tesi dell’unità delle diverse acque negli
stessi fiumi (che si ricollega alla dottrina eraclitea dell’unità dei termini opposti), quanto la tesi del divenire delle
acque e dei diversi soggetti che, penetrandovi, ne sperimentano l’intensità e la gradazione (che sarebbe all’origine
della rielaborazione platonico-aristotelica della dottrina eraclitea). Questa resa non mi sembra tuttavia né sintatti-
camente né concettualmente possibile: ritengo improbabile, infatti, che l’espressione ≤ÙÂÚ· ηd ≤ÙÂÚ· possa essere
scomposta, sia per ragioni di costruzione sia per ancor più ovvie ragioni di ritmo e di stile, e trovo innaturale che
il primo ≤ÙÂÚ· funga da soggetto di un verbo al plurale, âÌ‚·›ÓÔ˘ÛÈÓ, mentre ci si aspetterebbe un singolare, e che,
come neutro plurale, possa alludere ai ‘soggetti’ che entrano nei fiumi, cui assai più facilmente può fare riferimento
âÌ‚·›ÓÔ˘ÛÈÓ, se inteso come un participio presente al dativo plurale; va poi ricordato quanto più volte segnalato fin
qui, cioè che nei materiali eraclitei autentici non emerge nessuna relazione fra la tesi del divenire e lo statuto epi-
stemologico del soggetto che in esso si trova immerso (che è invece un tema tipicamente platonico-aristotelico) né
tantomeno l’idea che il ‘soggetto’ o i ‘soggetti’ che nelle acque che scorrono, o nella realtà in divenire, sono immersi
risultino a loro volta coinvolti in tale flusso di diversità (un’idea anch’essa impensabile, per quanto mi consta, nella
storia del pensiero greco che precede la riflessione socratico-platonica sull’unità e la permanenza del sé o della co-
scienza). La seconda opzione di costruzione e di traduzione del fr. 12 DK [40 Marcovich], pur conservando una sin-
tassi più tradizionale, attribuisce all’espressione ≤ÙÂÚ· ηd ≤ÙÂÚ· il significato di «di volta in volta» o, meglio ancora,
«da una volta all’altra» (in quanto ≤ÙÂÚÔ˜, diversamente da ôÏÏÔ˜, implicherebbe sempre una diversità fra due, e non
più di due, elementi), con la seguente traduzione d’insieme: «per coloro i quali entrano negli stessi fiumi scorrono
di volta in volta (oppure: da una volta all’altra, ossia: dalla prima alla seconda volta) acque diverse». Si vede bene
come, in questo caso, la distanza fra il fr. 12 DK [40 Marcovich] e la testimonianza platonico-aristotelica, con il fr. 91
DK [40c3 Marcovich] che ne dipende, sarebbe sostanzialmente colmata, giacché troveremmo già nel primo l’indi-
cazione esplicita che lo scorrimento delle diverse acque negli stessi fiumi è posto in relazione con i successivi in-
gressi in esse dei soggetti che vi entrano, in modo che il mutamento delle acque dei fiumi si verifica da un primo a
un secondo ingresso in esse dei soggetti che vi entrano, consentendo così un solo ingresso nello stesso fiume (=
nelle stesse acque), ma non più di uno, e ponendo perciò la premessa dell’introduzione del ‰›˜ che la tradizione pla-
tonico-aristotelica e il fr. 91 DK [40c3 Marcovich] stabiliscono come vincolo insuperabile del divenire eracliteo: «non
è possibile entrare due volte (‰›˜) nello stesso fiume», e ciò in quanto «scorrono acque diverse da una volta all’altra
(≤ÙÂÚ· ηd ≤ÙÂÚ·)», ma è bensì possibile entrarvi una volta, perché nel corso di quest’unica volta le acque permangono
identiche, di contro alla restrizione operata da Cratilo e dagli eraclitei posteriori che negano anche questa possibi-
lità (Ôé‰\ ±·Í). Proprio una simile conclusione rivela a mio avviso l’indifendibilità, in primis da un punto di vista
interpretativo, di questa costruzione e traduzione del fr. 12 DK [40 Marcovich] che, come già rilevato in precedenza,
prevede invece che, per chi vi entra, le acque siano sempre diverse nell’ambito degli stessi fiumi, e ciò indipenden-
temente dal numero di volte in cui vi entra, sicché sarebbe del tutto controintuitivo immaginare che, così stando
le cose, le acque di un fiume cessassero di scorrere e si immobilizzassero pur nel breve corso di un solo ingresso; e
d’altro canto, anche dal punto di vista del significato attribuito all’espressione ≤ÙÂÚ· ηd ≤ÙÂÚ·, e senza considerare
che la scelta lessicale di Eraclito potrebbe dipendere da esigenze di carattere ritmico o stilistico (eventualmente for-
zando lievemente l’uso corrente di ≤ÙÂÚÔ˜), bisogna osservare che, se già ≤ÙÂÚÔ˜ implica la diversità fra due elementi,
la sua reiterazione non può che comportare un’analoga reiterazione di tale diversità: sarebbe allora ≤ÙÂÚ· ≈‰·Ù· a
significare «… acque diverse da una volta all’altra», mentre ≤ÙÂÚ· ηd ≤ÙÂÚ· ≈‰·Ù· dovrebbe essere reso indicando la
reiterazione di tale diversità: «… acque diverse di volta in volta e di volta in volta», cioè «… sempre diverse». Per quanto
ingegnose, dunque, le opzioni prospettate non si configurano come valide alternative alla costruzione e alla tradu-
zione più diffusa, e da me adottata, del fr. 12 DK [40 Marcovich]. Neanche rilevante per la comprensione esatta del
frammento mi pare di conseguenza la questione, per la quale ringrazio Silvia Fazzo, del valore da attribuire alle
forme plurali âÌ‚·›ÓÔ˘ÛÈÓ e ÔÙ·ÌÔÖÛÈ: Eraclito si riferisce a più soggetti che entrano in più fiumi, uno per ciascun fiu-
me e in modo che ogni soggetto entra più volte in ciascun fiume, oppure a più soggetti che entrano nello stesso fiume,
qualsiasi esso sia, in modo che è allora sufficiente che ogni soggetto entri una sola volta nello stesso fiume? La pluralità
di ingressi nei fiumi è in entrambi i casi garantita, ma, nel primo caso, in riferimento allo stesso soggetto che vi
entra più volte, così anticipando l’interesse che la tradizione posteriore, con la testimonianza platonico-aristotelica
che ne fornisce una formulazione esemplare, manifesterà per la gradazione e l’intensità dello scorrimento delle ac-
que diverse misurato in base al numero di ingressi che è possibile compiervi, mentre, nel secondo caso, in riferi-
mento a più soggetti che entrano più volte nello stesso fiume, quindi al limite una sola volta per ciascun soggetto,
così prescindendo da ogni possibile relazione fra il grado di scorrimento delle acque e il numero di ingressi che in
esse può compiere un soggetto. Ancora una volta, però, va rilevato come nel fr. 12 DK [40 Marcovich] sia in gioco
la contemporanea, e duplice, affermazione dell’unità e della permanenza dei fiumi rispetto alla molteplicità e alla
diversità delle acque che in essi scorrono e come ciò chiami in causa una distinzione dei punti di vista accessibili a
88 francesco fronterotta
intorno all’intenso lavorio esegetico di cui è stato oggetto da parte di Platone e di Ari-
stotele e nella tradizione dossografica che da essi dipende, azzardo l’ipotesi che esso
possa essere collocato nell’ambito della sequenza dei materiali eraclitei relativi alla dot-
trina del conflitto e dell’unità dei termini opposti di cui si fa portatore il ÏfiÁÔ˜ annun-
ciato fin dal celebre fr. 1 DK [1 Marcovich] e di cui ricostruirei congetturalmente e sche-
maticamente come segue gli sviluppi. Dopo aver introdotto nei suoi termini generali il
contenuto del ÏfiÁÔ˜, descritto come un sapere universale e comune, ben distinto dalle
fallaci apparenze degli uomini (frr. 41, 32 e 11 DK [85, 84 e 83 Marcovich]), che individua
in fiÏÂÌÔ˜ il principio originario di tutte le cose (frr. 53 e 80 DK [29 e 28 Marcovich]),
nella forma di un conflitto inesauribile e fondamentale che si ricompone tuttavia in
un’armonia generale (frr. 51, 8 e 54 DK [27, 27d1-28b1 e 9 Marcovich]), che sancisce l’unità
del tutto (fr. 10 DK [25 Marcovich]) in virtù della ricomposizione unitaria dei termini op-
posti, esaminata attraverso numerosi esempi e da diversi punti di vista (frr. 111, 59, 103,
60, 62, 88, 21 e 26 DK [44, 32, 34, 33, 47, 41, 49 e 48 Marcovich], vengono descritte nel fram-
mento 12 DK [40 Marcovich] le modalità concrete della ricomposizione unitaria dei ter-
mini opposti e di tutte le cose, con il riconoscimento di una forma di processualità che
assume il profilo di un eterno movimento e mutamento di tutte le cose esistenti che,
come le acque dei fiumi, si succedono e si alternano continuamente, pur appartenendo
agli stessi fiumi e lasciandone perciò inalterata la struttura e la natura complessiva. In
tale ottica, l’ammissione del divenire pare funzionale a giustificare la possibilità e i modi
del conflitto fondamentale alla radice della reciproca alternanza di tutte le cose e dei ter-
mini opposti, che si colloca tuttavia a sua volta, dal punto di vista universale del ÏfiÁÔ˜,
nella superiore prospettiva dell’unità del tutto. In altre parole, secondo questa interpre-
tazione del frammento, il divenire si configura come la legge del mutamento e della suc-
cessione di tutte le cose, senza che, tuttavia, il sapere che insegna l’unità del tutto e tale
stessa prospettiva unitaria siano affetti nel loro insieme dal divenire, giacché, invece, lo
riassumono nell’economia generale della ricomposizione di tutte le cose di cui il dive-
nire è appunto condizione e a un tempo semplice modalità concreta. Si capisce allora
come, più che un processo di alterazione confinato all’ambito propriamente fisico, co-
smologico o fisiologico, il divenire descriva un generale mutamento ontologico come
alternanza e variazione delle cose che sono nella totalità dell’essere.
Mi sembra che un simile quadro esegetico trovi una significativa conferma nel fr. 88
DK [41 Marcovich],1 che indica appunto nel reciproco scambio di posizione e di ruolo

coloro i quali dei fiumi e dello scorrimento delle loro acque sono spettatori e che di certo con tale spettacolo non
interferiscono, che rimangano al suo esterno, vi si accostino o vi penetrino, una, due o più volte; uno spettacolo
che rimane perciò indipendente dallo scorrere del tempo, perché è comunque sempre vero nella sua contempora-
nea duplicità: in nessun momento le acque potrebbero rimanere immobili e cessare di mutare, rallentando o arre-
stando più o meno a lungo il proprio scorrimento, giacché cadrebbe così la loro contrapposizione all’unità e alla
permanenza dei fiumi in cui scorrono, mentre è appunto tale contrapposizione che, rimanendo costante, giustifica
la corrispondente duplicità di punti di vista degli spettatori, che è preservata appunto a condizione di restare im-
mutata nel tempo o indipendentemente da esso. Ciò induce a concludere allora nuovamente che la questione stessa
dell’‘ingresso’ nelle acque da parte degli spettatori, ed eventualmente del numero di volte in cui tale ingresso si ve-
rifica, è completamente ininfluente rispetto alla tesi che il fr. 12 DK [40 Marcovich] difende ed estranea alla conce-
zione del reale che Eraclito vi propone.
1 Ù·éÙfi Ù\ öÓÈ ˙áÓ Î·d ÙÂıÓËÎe˜ ηd âÁÚËÁÔÚe˜ ηd ηıÂ܉ÔÓ Î·d Ó¤ÔÓ Î·d ÁËÚ·ÈfiÓØ Ù¿‰Â ÁaÚ ÌÂÙ·ÂÛfiÓÙ· âÎÂÖÓ¿
âÛÙÈ ÎàÎÂÖÓ· ¿ÏÈÓ ÌÂÙ·ÂÛfiÓÙ· Ù·ÜÙ·: «come una stessa cosa sussistono il vivo e il morto, lo sveglio e il dormiente,
il giovane e il vecchio, giacché questi, scambiandosi di ruolo, sono quelli e quelli, di nuovo scambiandosi di ruolo, sono
questi».
su eraclito, frr. 12, 49a, 91 dk 89
fra i termini opposti, da intendere come una forma continua e alterna di mutamento e
di movimento (ÌÂÙ·ÂÛfiÓÙ· … ¿ÏÈÓ ÌÂÙ·ÂÛfiÓÙ·), la causa e la spiegazione della loro
unità e reciproca implicazione (Ù·éÙfi). E particolarmente nel fr. 84ab DK [56ab Marco-
vich],1 rispetto al quale è possibile stabilire un plausibile parallelo: alla correlazione in-
trodotta nel fr. 12 DK [40 Marcovich] fra gli «stessi fiumi» e le «sempre diverse acque»
corrisponde infatti quella, che apre il fr. 84ab DK [56ab Marcovich], fra «permanenza» e
«mutamento di condizione» (àÓ··‡ÂÙ·È – ÌÂÙ·‚¿ÏÏÔÓ), sicché la stabile condizione di
unità del tutto (che, come i «fiumi» del fr. 12 DK [40 Marcovich], rimane «lo stesso» e,
come il soggetto inespresso del fr. 84ab DK [56ab Marcovich], «permane») si fonda pro-
priamente sul conflitto sottostante fra i termini opposti singolarmente presi e sul dive-
nire di tutte le cose (che, come le «acque» del fr. 12 DK [40 Marcovich], sono «sempre di-
verse» e, come il soggetto inespresso del fr. 84ab DK [56ab Marcovich], «mutano
condizione»); infine, pure analogo, benché di segno opposto, mi sembra il senso dell’in-
dicazione, nel fr. 12 DK [40 Marcovich], di «coloro i quali entrano negli stessi fiumi» e,
nel fr. 84ab DK [56ab Marcovich], dei soggetti, ancora una volta non esplicitati, che «ope-
rano alle stesse condizioni», un’indicazione che introduce evidentemente la distinzione
fra i punti di vista di chi giunge a cogliere l’unità del tutto al di sopra del divenire e del
mutamento delle cose particolari, nel primo caso, e di chi invece, nel secondo caso, del-
l’irriducibile opposizione statica fra le cose particolari rimane prigioniero, incapace di
innalzarsi alla superiore prospettiva dell’unità del tutto.
Ciò consente inoltre di precisare lo statuto e i lineamenti ontologici del tutto rispetto
alle singole cose che lo compongono (come pure dei fiumi rispetto alle diverse acque
che comprendono in sé), giacché l’unità e la permanenza del tutto non costituiscono
un superamento o una negazione delle differenze fra le singole cose che lo compongo-
no, ma, al contrario, è proprio in quanto rimangono sempre diverse e perciò coinvolte
in un movimento di reciproca implicazione e alternanza, in virtù del divenire che le ca-
ratterizza, che le cose particolari possono contribuire esaustivamente a completare la
totalità del reale. L’‘identità’ del tutto non va dunque intesa nel senso dell’assoluta in-
discernibilità delle sue parti o dei suoi componenti, ma piuttosto come l’identità ‘orga-
nica’ di ciò che non muta rispetto alla quantità e alla qualità delle sue parti o dei suoi
componenti, perché nessuno di essi viene a mancare o ad aggiungersi, ma solo a modi-
ficare il proprio ruolo e la propria collocazione nel tutto. Del resto, se le singole cose
esistenti, e fra esse anche i termini opposti, giungessero a una condizione di piena iden-
tità e coincidenza, non sarebbero più, evidentemente, cose diverse o termini opposti, ma
si ridurrebbero a un’unica realtà; l’affermazione eraclitea dell’unità del tutto pare sup-
porre invece la reciproca implicazione di tutte le cose, sicché, come facce o aspetti di-
stinti dell’unica realtà e pur conservando la propria opposizione, tutte le cose concor-
rono, da un punto di vista più generale, all’unità e all’identità “dinamica” del tutto;
donde l’importanza della tesi del divenire, indispensabile per giustificare tale dinami-
smo di tutte le cose nella loro alternanza e nella loro successione, sempre tuttavia nel
contesto della dottrina dell’unità del tutto e a questa subordinata.
Ritengo perciò in ultima analisi, tornando ancora a una volta, e conclusivamente, sul-
la testimonianza platonico-aristotelica relativa ai frammenti eraclitei ‘dei fiumi’ e ‘delle
acque’, che essa non deve essere considerata inattendibile in quanto richiama la tesi del

1 ÌÂÙ·‚¿ÏÏÔÓ àÓ··‡ÂÙ·ÈØ Î¿Ì·Ùfi˜ âÛÙÈ ÙÔÖ˜ ·éÙÔÖ˜ ÌÔ¯ıÂÖÓ Î·d ôÚ¯ÂÛı·È: «mutando condizione permane: è pe-
noso operare alle stesse condizioni ed esservi sottoposti».
90 francesco fronterotta
divenire, ma soltanto nella misura in cui assume questa tesi in un’ottica astratta e asso-
luta che, trascurando il contesto eracliteo originale, porta a innalzare il principio del di-
venire a legge fondamentale ed esclusiva del mondo sensibile, al fine esplicito di con-
trapporgli un mondo intellegibile dotato di stabilità e immutabilità. Ciò produce, nella
tradizione posteriore, una progressiva distinzione fra le due dottrine eraclitee dell’unità
del tutto, e degli opposti, e del divenire, quest’ultima eventualmente connessa all’am-
bito psicologico, che conquistano una reciproca autonomia, mentre appaiono invece,
stando almeno ai materiali presumibilmente autentici di Eraclito, così strettamente
connesse che la seconda ricade nell’ambito più generale della prima, di fatto come un
suo corollario.1

1 Questa mi sembra la massima concessione possibile relativamente all’attribuzione a Eraclito di una dottrina
del divenire della realtà: sulla stessa linea le conclusioni di Kirk, op. cit., pp. 377-378, che si limita però ad applicare
la tesi del divenire all’ambito fisico-cosmologico, e di Kahn, op. cit., pp. 167-168; a un contesto esegetico di carattere
psicologico si allude in Diano, Serra, op. cit., p. 156, mentre Marcovich, op. cit., p. 153, propende per un’inter-
pretazione del fr. 12 DK [40 Marcovich] nell’ambito della dottrina dell’unità dei termini opposti, negando decisa-
mente ogni connessione con la tesi del divenire, di cui egli dubita che possa essere considerata, tout court, come
autenticamente eraclitea.
SULLA COSTRUZIONE DEL RACCONTO
NEL PROTAGORA DI PLATONE
Maria Isabella Bertagna

C i sono motivi per pensare che nel Protagora di Platone Prodico e Ippia siano
tratteggiati con buona verosimiglianza, pur nell’inevitabile trazione caricaturale.
Anche Protagora lo immaginiamo vicino, nelle caratteristiche descritte, al personaggio
storico.1 Nel corso del dialogo Protagora presenta il suo mestiere (316 c 5-317 c 5), ne di-
fende validità e utilità contro le perplessità di Socrate (317 e 3-328 d 2), dà prove concrete
della sua abilità su un testo, un’ode di Simonide, di non semplice esegesi (338 e 6-347 a
5).2 In questo articolato ‘manifesto’ è ragionevole pensare che Platone faccia utilizzare
a Protagora la tipologia di argomentazione e gli strumenti stilistici caratteristici della
sua attività.
Platone fa parlare Protagora con una tecnica fondata su prolessi e analessi, fondata sul-
la segnalazione dell’errore che inficia l’çÚıfiÙ˘, con una prosa ricca di ripetizioni di ter-
mini omoradicali destinate a provocare un effetto avvolgente. E nello stesso tempo co-
struisce il dialogo con una simile tecnica, con problemi e racconti anticipati e poi ripresi,
con una sfida che, giocata proprio sul terreno caro a Protagora, lo vede soccombere non
tanto nella questione dell’insegnabilità o meno della virtù, ma con la dimostrazione sul
campo che la ricerca condotta secondo i suoi metodi è sterile, non ha senso.

Socrate ÚÔÌËıÔ‡ÌÂÓÔ˜
Una spia lessicale, all’inizio e alla fine del dialogo, e l’organizzazione del racconto all’in-
terno del mito fanno sospettare una costruzione fondata su prolessi e analessi.3
Nella prima sezione dell’incontro di Socrate con Protagora (316 a 6-317 e 6), alla
domanda di Socrate se la conversazione con Ippocrate può avvenire alla presenza di un
pubblico o è preferibile che si svolga in privato, Protagora risponde che è un giusto
scrupolo: çÚıᘠÚÔÌËı” … ñbÚ âÌÔÜ (316 c 5). Un avverbio, çÚıá˜,4 che è caratteristico
dell’insegnamento di Protagora e un verbo, ÚÔÌËı¤ÔÌ·È, che subito incuriosisce, per-
ché sembra alludere a Prometeo e al mito che di lì a poco sarà narrato (320 c 8-323 c 2).
L’interesse aumenta se leggiamo la conclusione del dialogo (361 c 2-d 6), dove Socrate

Maria Isabella Bertagna, Università di Pisa, Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica, Piazza Mat-
teucci 2, 56126 Pisa, m.bertagna@flcl.unipi.it
1 Il problema della ricostruzione delle personalità storiche dei sofisti è delicato e destinato a soluzioni solo
parziali o ipotetiche. In particolare per Ippia cfr. Patzer 1986, pp. 11-14, che sottolinea la necessità e nel contempo
la difficoltà di dare una «historische Korrektur» a quanto su Ippia ricaviamo da Platone e Aristotele. Sulla sintonia
delle posizioni di Protagora, Prodico, Socrate e Ippia nel Protagora con la loro figura storica cfr. Giuliano 1991,
pp. 126-135 (2004, pp. 21-30). Sulla ‘riconoscibilità’ di Protagora cfr. Vegetti 2004, pp. 154-157. Offre uno sguardo
d’insieme sulla sofistica Classen 1976.
2 Sulle caratteristiche dell’insegnamento dei sofisti nell’interpretazione di Platone cfr., fra gli altri, Nightin-
gale 1995, pp. 47-55. Sull’interpretazione dell’ode di Simonide cfr. Most 1994, pp. 127-152 (1995, pp. 137-169),
Giuliano 1991, pp. 105-190 (2004, pp. 1-86). 3 Cfr. Backes 1992, Braun 2005.
4 Sull’çÚıfiÙ˘ quale criterio di interpretazione di termini e di testi cfr. Brancacci 1996 e Corradi 2006.
92 maria isabella bertagna
rievoca il mito narrato da Protagora ed esprime un giudizio giocato sul rapporto fra
¶ÚÔÌËı‡˜, eroe positivo del mito, e un participio, ÚÔÌËıÔ‡ÌÂÓÔ˜, che attribuisce a sé.
Nel mito Prometeo è piaciuto a Socrate più di Epimeteo, perché ha dimostrato di saper
provvedere al ‚›Ô˜ degli uomini, così come Socrate si prefigge di provvedere al suo ‚›Ô˜,
nella sua interezza, ÚÔÌËıÔ‡ÌÂÓÔ˜ ñbÚ ÙÔÜ ‚›Ô˘ ÙÔÜ âÌ·˘ÙÔÜ ·ÓÙe˜ ¿ÓÙ· Ù·ÜÙ·
Ú·ÁÌ·Ù‡ÔÌ·È.1
Se il verbo ÚÔÌËı¤ÔÌ·È, che ha in Platone solo cinque occorrenze, si trova di fatto a
aprire e chiudere il Protagora e se questo verbo è, come ovvio, in rapporto etimologico
con Prometeo, che è personificazione del saper prevedere e provvedere, il mito di Pro-
meteo ci appare, nel gioco dell’anticipazione e della ripresa, incastonato in una struttu-
ra ad anello.2 Leggiamo il mito, nella consapevolezza di questa struttura più ampia che
lo contiene.

Il ÌÜıÔ˜
Epimeteo ha distribuito tutte le ‰˘Ó¿ÌÂȘ agli ôÏÔÁ·.3 Per l’uomo, nell’imminenza della
sua uscita dalla terra alla luce, non c’è più nulla. Epimeteo è in aporia. Giunge Prome-
teo, per la supervisione, e si trova di fronte al problema (320 c 8-321 c 7). L’aporia ora è
sua, àÔÚ›0 ÔsÓ Û¯fiÌÂÓÔ˜, e per uscirne ruba, ÎϤÙÂÈ, la sapienza tecnica, ÙcÓ öÓÙ¯ÓÔÓ
ÛÔÊ›·Ó, insieme con il fuoco, ÛfÓ ˘Ú›, a Efesto e Atena4 e ne fa dono all’uomo, ‰ˆÚÂÖÙ·È
àÓıÚÒÅ, così l’uomo ottiene la sapienza per la vita, ÙcÓ ÂÚd ÙeÓ ‚›ÔÓ ÛÔÊ›·Ó. Non però

1 Sull’importanza del ÚÄÁÌ· di Socrate, la ricerca in sé, cfr. Tulli 1989, pp. 11-12, 34-36.
2 Questione dibattuta, se il mito sia di Protagora o di Platone. L’ipotesi più convincente, che sia di Platone,
confezionato in mimesi di Protagora. Taylor 19912, p. 78, ritiene plausibile che il mito sia riconducibile a Prota-
gora, per l’interesse, nel v secolo ampio, per l’origine della civiltà e per la presenza nell’elenco delle opere di Pro-
tagora, così come lo presenta Diogene Laerzio (ix 55 = 80 B 8b DK), di un trattato ¶ÂÚd Ùɘ âÓ àÚ¯” ηٷÛÙ¿Ûˆ˜.
Alla stessa opera fa risalire il mito Vlastos 1956, pp. ix-xi (1976, pp. 273-276). Manuwald 1996 analizza nel dettaglio
i nuclei che possono plausibilmente risalire al Protagora storico e individua nello scritto ¶ÂÚd ÔÏÈÙ›·˜ citato da
Diogene Laerzio (ix 55 = 80 B 8a DK) una possibile fonte. Simile argomentazione in Manuwald 1999, pp. 170-171,
e Manuwald 2002, pp. 59-61, nella convinzione che almeno il nucleo del mito sia di Protagora. Certo il racconto
piacevole, che ha presa sull’uditorio, doveva far parte delle strategie oratorie dei sofisti, come ci conferma l’Eracle
al bivio di Prodico. Palese poi la presenza nel mito di elementi tradizionali e elementi della cultura scientifica del
v secolo, in particolare, la descrizione dell’equilibrio biologico che si mantiene nella ripartizione delle qualità agli
esseri viventi. Infine lo stile, non meno importante, secondo Manuwald, per il rinvio al Protagora storico, uno stile
legato, continuo, sostanzialmente paratattico, con frequenti ripetizioni. Certo uno stile che non è quello di Plato-
ne. Già Norden 19967, pp. 367-379 (2002, pp. 483-494), individua questa caratteristica dello stile usato per il mito:
lo definisce esempio di ϤÍȘ ÂåÚÔ̤ÓË, confezionata da Platone per imitare «lo stile narrativo dell’antica Ionia». Per
la ϤÍȘ ÂåÚÔ̤ÓË vedi Aristotele (Retorica iii 9, 1409a 27). Morgan 2000, pp. 132-137, ritiene il mito sostanzialmente
di Protagora, illustrativo di un uso sofistico del mito. Vegetti 2004, pp. 154-157, sottolinea come in generale sia ne-
cessaria la riconoscibilità del personaggio Protagora rispetto al Protagora storico e come esistano, nelle tesi che
qui vengono esposte, specifici punti di contatto con le pur scarne testimonianze che ci rimangono del pensiero di
Protagora: «è ragionevole supporre che il mito derivi da scritti del sofista». Cambiano 1991, pp. 3-13, p. 202, pur ri-
tenendo probabile che Platone abbia utilizzato materiale contenuto nel ¶ÂÚd Ùɘ âÓ àÚ¯” ηٷÛÙ¿Ûˆ˜, si pone
il problema se tutto il contenuto concettuale del mito appartenga al Protagora storico o contenga interpolazioni
di Platone. Osserva anche i punti di contatto con il mito del Politico, nonostante le importanti varianti che nel Po-
litico sono evidenziate. Decisamente a favore di una lettura che insista sulla presenza di Platone nel mito di Pro-
meteo è Friedländer 1964-19753, i, p. 346 (2004, pp. 204-205, n. 7 p. 1240), che sottolinea le divergenze dalle posi-
zioni sofistiche. Arrighetti 2012 legge il mito del Protagora e quello del Politico quale intervento di Platone sulla
tradizione poetica, a integrare quanto in Esiodo rimaneva vago, sullo sfondo, cioè l’origine dell’uomo.
3 Per ôÏÔÁÔÓ con valore di ‘animale’ cfr. Democrito B 164 DK.
4 Atena e Efesto sono connessi alle Ù¤¯Ó·È già in Omero, Od. vi 232-235, xxiii 159-162, e nell’Inno a Efesto, 1-4.
Nel corpus di Platone li troviamo citati insieme anche nel Politico (274 c 5-d 1), nel Crizia (109 b 1-d 2), nelle Leggi (920
d 7-8). Cfr. Nesselrath 2006, pp. 135-144.
sulla costruzione del racconto nel protagora di platone 93
la sapienza politica (321 c 3-d 5). A questo punto il racconto non procede, bensì viene ri-
visitato, fino ad una nuova versione (321 e 1-e 4). La ripetizione del racconto avviene do-
po una sequenza che fa da cerniera (321 d 5-e 1): la sapienza politica è presso Zeus, ma
Prometeo non può più entrare, ÔéΤÙÈ âÓ¯ÒÚÂÈ ÂåÛÂÏıÂÖÓ, nella dimora di Zeus, Âå˜ ÌbÓ
ÙcÓ àÎÚfiÔÏÈÓ ÙcÓ ÙÔÜ ¢Èe˜ ÔúÎËÛÈÓ, invece entra di nascosto, Ï·ıgÓ ÂåÛ¤Ú¯ÂÙ·È, nella
comune dimora di Atena e Efesto, Âå˜ Ùe Ùɘ \AıËÓĘ ηd ^HÊ·›ÛÙÔ˘ ÔúÎËÌ· Ùe ÎÔÈÓfiÓ.
E ora la ripetizione del racconto del furto, con termini identici o opportunamente va-
riati rispetto alla prima versione. Prometeo, dopo aver rubato, ÎϤ„·˜, l’arte del fuoco,
ÙcÓ öÌ˘ÚÔÓ Ù¤¯ÓËÓ, di Efesto, insieme con quella di Atena, la dona all’uomo, ‰›‰ˆÛÈÓ
àÓıÚÒÅ, per il quale si realizza così la possibilità di vita, ÂéÔÚ›· ÙÔÜ ‚›Ô˘ Á›ÁÓÂÙ·È. Se
la seconda parte è costruita con gli stessi termini della prima, parallelismi si trovano an-
che nella sezione che fa da cerniera. Vediamo nel dettaglio: lo stesso verbo è utilizzato
in tempi e modi diversi, ÎϤÙÂÈ, ÎϤ„·˜, nella prima versione la sapienza è öÓÙ¯ÓÔÓ e
si accompagna al fuoco, la Ù¤¯ÓË nella seconda è definita öÌ˘ÚÔ˜, con evidente strut-
tura chiastica, nella prima versione troviamo il verbo ‰ˆÚÂÖÙ·È, nella seconda il sinoni-
mo ‰›‰ˆÛÈÓ, uniti all’identico àÓıÚÒÅ. La ì ÂÚd ÙeÓ ‚›ÔÓ ÛÔÊ›· diventa, alla fine di tut-
to il racconto, ÂéÔÚ›· ÙÔÜ ‚›Ô˘, con ovvio richiamo alla àÔÚ›· iniziale. Analogamente,
nella sezione di snodo, a Prometeo non è possibile Âå˜ ÙcÓ ÙÔÜ ¢Èe˜ ÔúÎËÛÈÓ ÂåÛÂÏıÂÖÓ,
ma Âå˜ Ùe Ùɘ \AıËÓĘ ηd ^HÊ·›ÛÙÔ˘ ÔúÎËÌ· ÂåÛ¤Ú¯ÂÙ·È: medesima radice ÔúÎ- con suf-
fissi diversi, stesso verbo, modi e tempi diversi.1 Con una oggettiva difficoltà di com-
prensione. Perché, se il furto del fuoco non si è ancora verificato, per Prometeo non è
più (ÔéΤÙÈ) possibile accedere alla dimora di Zeus? Forse c’è l’allusione all’inganno or-
dito ai danni di Zeus prima del furto del fuoco, cioè al banchetto di Mecone narrato nel-
la Teogonia di Esiodo (535-557)?2
Una simile costruzione non può che essere consapevole. Che ipotesi possiamo fare?
La più plausibile sembra appunto quella che lega la costruzione che qui Platone fa del
mito con le modalità espressive di Protagora. Queste pagine hanno palesi contatti con
la produzione arcaica,3 che spesso fa uso di prolessi, anticipando un evento, poi ripreso
con ulteriori dettagli.4 Il Prometeo della Teogonia di Esiodo viene presentato nel mo-

1 Colpisce, nelle parole di Protagora, un battente uso di poliptoti o comunque di termini omoradicali posti in
stretta contiguità. Alcuni significativi esempi: a) ‘manifesto’ di Protagora (316 b 5-317 c 5, 318 d 5-319 a 2) Û˘ÓÔ˘Û›·˜,
Û˘ÓÂÖÓ·È, Û˘ÓÔ˘Û›·Ó – ïÌÔÏÔÁá, ïÌÔÏÔÁÂÖÓ, ïÌÔÏÔÁÂÖÓ – ›ÛÂÙ·È, ö·ıÂÓ b) mito di Prometeo (320 c 8-323 a 4) ÓÂÖÌ·È,
Ó›̷ÓÙÔ˜, Ó¤ÌÂÈ, Ӥ̈Ó, öÓÂÌÂÓ, ÓÂÓ¤ÌËÓÙ·È, Ó›̈, ÓÂÓ¤ÌËÓÙ·È, Ó›̈ – äfiÚÂÈ, àÔÚÔÜÓÙÈ, àÔÚ›0 – ı›·˜, ıÂÔÜ,
ıÂÔ‡˜, ıÂáÓ – ÌÂÙ¯fiÓÙˆÓ, ÌÂÙ¤¯ÔÈÂÓ, ÌÂÙ¤¯ÂÈÓ – Û˘Ì‚Ô˘Ïɘ, Û˘Ì‚Ô˘Ï‡–, Û˘Ì‚Ô˘Ï‹Ó c) discorso (324 d 6-328 d 2)
ÁÚ¿ÌÌ·Ù·, ÁÂÁÚ·Ì̤ӷ, ÁÚ·ÌÌ·ÙÈÛÙ·›, ÁÚ¿ÊÂÈÓ, ñÔÁÚ¿„·ÓÙ˜, ÁÚ·ÌÌ¿˜, ÁÚ·Ê›‰È, ÁÚ·ÌÌ·ÙÂÖÔÓ, ÁÚ¿ÊÂÈÓ,
ÁÚ·ÌÌáÓ, ñÔÁÚ¿„·Û· – ·éÏËÙ·›, ·éÏÔÜÓÙ·, ·éÏ‹ÛÂÈ, ·éÏËÙáÓ, ·éÏËÙ¿˜, ·ûÏËÛÈÓ, ·éÏËÙÔÜ, ·éÏËÙ·›, ·éÏ‹Ûˆ˜.
2 In generale, sulla complessa questione del mito di Prometeo in Esiodo, nelle due diverse versioni in Teogonia,
521-616, e negli Erga, 47-105, cfr. Strauss Clay 2003, pp. 100-128. Per il rapporto con il Prometeo di Eschilo cfr. Solm-
sen 1949.
3 Per l’interpretazione di Protagora intellettuale che propone nuovi valori, ma attraverso la rielaborazione di
valori tradizionali, cfr. da ultimo Bonazzi 2012, pp. 52-55, con il rinvio alla bibliografia con simile orientamento.
4 Per la prolessi e analessi nell’epica arcaica cfr. de Jong 20042, pp. 81-90, che, in relazione all’Iliade, ne analizza
la funzione: creare pathos, sottolineare l’importanza o il valore simbolico di oggetti, richiamare informazioni im-
portanti. Una strategia ‘prolettica’ riconosce Kahn 1996 allo stesso Platone. Contro una rigida interpretazione
evoluzionistica del pensiero di Platone, Kahn propone una interpretazione unitaria che presuppone una continuità
di pensiero, soprattutto nei cosiddetti ‘dialoghi socratici’, velata dal fatto che Platone non scrive trattati, ma opere
letterarie. Opere letterarie che possono presentare molte differenze, ma che contengono spie, allusioni, addirittu-
ra enigmi destinati ad essere sciolti solo leggendo i dialoghi gli uni alla luce degli altri. Non lontana l’interpreta-
zione sviluppata prima da Erler 1987. In generale, sull’elaborata costruzione dei dialoghi e sulla necessità di non
scindere mai, in relazione a Platone, la tensione speculativa dalla creazione artistica cfr. Rowe 20082.
94 maria isabella bertagna
mento della terribile pena inflittagli da Zeus (521-534), senza indicazione delle cause di
tale punizione. Alla punizione Esiodo fa riferimento, anche con problemi oggettivi di
interpretazione sulla liberazione di Prometeo, alla fine del mito (616). Ancora più inte-
ressante il mito di Pandora negli Erga (60-105).1 Vengono enumerati gli dei cui Zeus or-
dina di contribuire, ognuno per la sua parte, alla creazione e alla preparazione di Pan-
dora. Dopo una frase che sembra chiudere il racconto (69), il racconto ha un nuovo
inizio,2 con Efesto che plasma la terra e via via gli altri dei che provvedono a dotare Pan-
dora di tutti gli attributi, anche con variazioni rispetto ai versi immediatamente prece-
denti: nella ripresa è Atena e non Afrodite a ornare Pandora ed è Ermes, non Efesto, a
infonderle la voce, al punto che questi versi sono considerati sospetti da vari editori.3

Verso il ÏfiÁÔ˜
Ma il mito è sviluppato con una costruzione più ampia, ulteriore interessante esempio
di tecnica narrativa. Protagora si accinge a dimostrare a Socrate che la virtù è insegna-
bile e chiede esplicitamente se in questa direzione è più gradito un ÌÜıÔ˜ o un ÏfiÁÔ˜
(320 c 2-4).4 Gli astanti lasciano a lui la scelta e Protagora inizia con un ÌÜıÔ˜, certo più
piacevole, opportunamente elaborato dal più anziano del gruppo, ÌÜıÔ˜ che sarà segui-
to comunque da un ÏfiÁÔ˜.5 Dopo la parte del mito che abbiamo analizzato, la seconda
(322 a 3-323 a 5). Le Ù¤¯Ó·È6 non sono in grado di assicurare agli uomini la difesa, la so-
pravvivenza è possibile solo con un’aggregazione sociale, che a sua volta è possibile solo
a seguito dell’acquisizione della virtù politica. Sarà Zeus a donarla agli uomini, attraver-
so ·å‰Ò˜ e ‰›ÎË.7 Anche in questa sezione del mito un susseguirsi di immagini poco con-
gruenti, se ci poniamo nell’ottica di un racconto cronologicamente ordinato: Protagora
prima parla di culto degli dei, sviluppo del linguaggio, costruzione di case, ma come è

1 Sulla giustapposizione delle due descrizioni e sulle principali posizioni della critica cfr. Calabrese 1995, pp.
112-121, che sottolinea, oltre al passaggio dall’astrazione dell’ordine alla concretezza dell’esecuzione, la modifica
del punto di vista: la prima descrizione presenta Pandora come Zeus l’ha concepita, la seconda descrizione è fatta
dalla parte degli uomini. Sui miti di Pandora e Prometeo cfr. Casanova 1979. Sul mito di Pandora, recentemente
Musäus 2004.
2 In Arrighetti 2006, pp. 27-57, l’analisi di brani sia della Teogonia che degli Erga in cui manca linearità nel rac-
conto, come, ad esempio, la castrazione di Urano (Teogonia 180-192). Sulla peculiare trattazione, nell’epica arcaica,
del rapporto fra eventi che si danno contemporaneamente prese avvio il noto studio di Zielinski 1901.
3 Cfr. Arrighetti 1998, pp. 408-416.
4 Per il complesso rapporto tra ÌÜıÔ˜ e ÏfiÁÔ˜ in Platone cfr. Janka, Schäfer 2002 e Ferrari 2006, con ampia
bibliografia. L’approccio ermeneutico più recente evita il declassamento del mito dei dialoghi di Platone a mo-
mento ‘irrazionale’ o ornamento letterario, ma evita anche un innalzamento quale nucleo speculativo superiore.
Piuttosto, il mito, inteso come narrazione su eventi o oggetti che sfuggono alla verifica razionale, integra il risul-
tato raggiunto attraverso l’argomentazione dialettica, lo suggerisce o lo anticipa, in modo chiaro e fascinoso, in
funzione della ricerca. Sullo specifico rapporto fra ÌÜıÔ˜ e ÏfiÁÔ˜ nel Protagora, Romano 2004 sottolinea come il
ÌÜıÔ˜ sia una â›‰ÂÈÍȘ, mentre il ÏfiÁÔ˜ una àfi‰ÂÈÍȘ: il ÌÜıÔ˜ indica, il ÏfiÁÔ˜ dimostra.
5 Che il ÌÜıÔ˜ produca incantamento, malia nell’uditorio è esplicito, ad esempio, in Fedone 114 d, in Leggi x 903
a-b. Cfr. Gaiser 1984, pp. 125-155.
6 Sul valore delle Ù¤¯Ó·È in questo mito cfr. Cambiano 1991, pp. 6-8, 56-60. Manuwald 1996, pp. 116-122,
Manuwald 1999, pp. 172-182, 195-197.
7 Anche questi due termini rinviano all’epica arcaica: ad esempio, negli Erga 192-193, dove compaiono nello stes-
so verso. Cfr. Arrighetti 1998, pp. 396-397, 426-427, 430-431. Brisson 2004 mette in parallelo ·å‰Ò˜ e ‰›ÎË del Pro-
tagora con le virtù necessarie nella città della Repubblica, ÛˆÊÚÔÛ‡ÓË e ‰ÈηÈÔÛ‡ÓË (431 e 10-435 a 3), termini usati
dallo stesso Protagora a conclusione del mito (322 d 5-323 a 4), in parallelismo con ·å‰Ò˜ e ‰›ÎË, per indicare la mo-
derazione e la giustizia indispensabili ai cittadini che vogliano deliberare su questioni politiche. Cfr. Manuwald
1999, pp. 196-197.
sulla costruzione del racconto nel protagora di platone 95
possibile senza aggregazione sociale?1 E ancora. Ermes chiede a Zeus se giustizia e pu-
dore devono essere distribuiti a tutti gli uomini o solo ad alcuni, come le altre arti, per
ciascuna delle quali è sufficiente che in un dato gruppo uno solo la possegga (322 c 3-d
1). Ma la situazione descritta, con medici e professionisti già dotati delle loro Ù¤¯Ó·È,
sembra proprio quella dell’Atene di Protagora, non certo quella del tempo in cui gli uo-
mini vivevano ÛÔÚ¿‰ËÓ.2 Per comprendere, bisogna far riferimento a quanto sarà de-
scritto dopo il racconto incentrato sulla nascita degli uomini e sulla costruzione della
vita sociale: il ÏfiÁÔ˜ sul percorso paideutico nell’Atene del tempo, che culmina con l’ap-
prendimento dei ÓfiÌÔÈ (324 d 2-326 e 5).3 Con apparente contraddizione: se Zeus prov-
vede a dotare gli uomini di ·å‰Ò˜ e ‰›ÎË, la virtù politica è innata, non insegnabile. Ma
è possibile superare la difficoltà. Zeus determina le basi grazie alle quali condurre la vita
di una collettività, con il dono di Zeus gli uomini hanno, ʇÛÂÈ, una duplice àÚÂÙ‹ im-
prescindibile per la vita stessa di una città (327 a 1-3). Sta poi all’educatore rendere con-
creta questa potenzialità.4 Il mito fonda il percorso paideutico, ma solo nel ÏfiÁÔ˜ viene
illustrato tale percorso, che risulta frutto di un costante scambio tra ʇÛȘ e Ù¤¯ÓË:5 se
la duplice àÚÂÙ‹ infusa da Zeus fosse qualità ottenuta dagli uomini una volta per sem-
pre, non avrebbe senso in generale nessuna forma di educazione alla vita politica, ma
soprattutto non avrebbe senso l’attività di Protagora.6 Il mito, con il riferimento ana-
cronistico a culto degli dei, lingua e raffinate Ù¤¯Ó·È, insufficienti senza la virtù politica,
appare prolettico rispetto al successivo ÏfiÁÔ˜, che rispecchia, questa volta sulla linea del
tempo, il percorso paideutico fino al suo culmine, l’acquisizione della virtù politica.7

1 Il riferimento agli dei è apparso ad alcuni studiosi, come Friedländer 1964-19753, i, n. 7 p. 346 (2004, n. 7 p.
1240), incongruente con la posizione agnostica che sugli dei sembra avere Protagora (80 B 4 DK). Secondo l’inter-
pretazione di Manuwald 1999, pp. 176, 192-193, gli uomini, a differenza degli altri esseri viventi, che sono privi di
ragione, possono acquisire ÛÔÊ›· e Ù¤¯ÓË. Questa caratteristica che distingue gli uomini dagli animali ha il valore
di qualità divina e questa particolare forma di affinità con gli dei è all’origine del culto che gli uomini riservano lo-
ro. Ma il culto degli dei, ci dice Protagora, non garantisce la sopravvivenza umana, così come non la garantisce il
sapere tecnico. Cfr. Vegetti 2004, pp. 144-147.
2 Taylor 19912, pp. 84-85, cerca di attenuare la contraddizione interpretando il termine come «small groups»,
non «isolated individuals», ma la sezione contiene altre difficoltà, come sottolinea Manuwald 1999, pp. 173-182, ad
esempio la presenza di una raffinata divisione del lavoro in una condizione pre-associata, e dunque, più che atte-
nuare la portata di tali incongruenze, è utile prendere atto che si tratta di un mito e come tale non legato a una
puntuale, cronologica rappresentazione della civiltà. Cfr. anche Manuwald 1996. Recentemente Bonazzi 2012,
pp. 45-49, sottolinea, rinviando in particolare a Farrar 1988, p. 88, e Sihvola 1989, p. 95, che il mito non va letto
quale resoconto storico-scientifico, ipotesi che va incontro a molte difficoltà, ma quale presentazione di ciò che è
davvero essenziale per l’uomo: caratteristica fondamentale dell’uomo è non tanto il linguaggio, la capacità tecnica
o il culto degli dei, ma la dimensione politica.
3 Con il ÌÜıÔ˜ Protagora sembra rispondere solo al primo dei due controesempi all’insegnabilità della virtù
elaborati da Socrate (322 d 5-323 a 4), mentre al secondo si propone di rispondere con un ÏfiÁÔ˜ (324 d 1-7). Ma il le-
game è strettissimo: il ÌÜıÔ˜ fonda la possibilità del percorso paideutico descritto nel ÏfiÁÔ˜. E nella conclusione
di questa sezione l’articolazione ÌÜıÔ˜-ÏfiÁÔ˜ viene univocamente connessa alla dimostrazione che la virtù è inse-
gnabile (328 c 3-d 2).
4 Cfr. Di Benedetto 1971, pp. 114-116: il percorso paideutico descritto da Protagora fa sì che nella città non ci
siano individui incapaci di inserirsi nel contesto sociale. Di Benedetto confronta con questa sezione del Protagora
il Teeteto, 167 c, dove Protagora tratta il problema del rapporto tra uomo politico e città, un rapporto che definisce
parallello a quello fra maestro e discepolo, fra medico e malato, fra agricoltore e pianta: l’uomo politico deve agire
in modo che la città si renda conto di ciò che è utile.
5 Cfr. B 3 DK, per lo stretto rapporto tra ʇÛȘ e ôÛÎËÛȘ. Anche in Democrito (B 33 DK) la ʇÛȘ dell’uomo è
sottoposta dalla ‰È‰·¯‹ a un cambiamento di forma, al punto che tale modifica forgia una nuova ʇÛȘ.
6 Cfr. Schiappa 20032, pp. 157-189, Vegetti 2004, pp. 150-153.
7 L’apprendimento della lingua, prima parlata poi scritta, fa parte delle prime fasi dell’educazione del ragazzo,
così come l’apprendimento di valori etici. Le tecniche specialistiche sembrano rinviate ad una fase successiva al
percorso paideutico, dunque anche all’acquisizione della virtù politica, e non destinate, ovviamente, a tutti.
96 maria isabella bertagna
Una caratteristica narrativa, di sapore arcaico, specifica di Protagora,1 cui sembrano
alludere anticipazioni e riprese che coinvolgono Socrate.2 Abbiamo sottolineato in
apertura il verbo ÚÔÌËı¤ÔÌ·È: riguarda Socrate, ma è legato etimologicamente a Pro-
meteo nel mito narrato da Protagora e chiude ad anello il dialogo, di nuovo nelle mani
di Socrate, che lo riferisce a sé, con il rinvio molto puntuale alla sua capacità di provve-
dere al ‚›Ô˜.3

Il manifesto di Protagora e la ÂÖÚ· di Socrate


Una situazione analoga si crea nella sezione in cui Protagora rivendica antichità alla so-
fistica e cita Omero, Esiodo e Simonide (316 d 3-7).4 Di nuovo un tratto arcaico, il ricorso
al catalogo,5 di nuovo un’anticipazione, perché di Simonide, la cui presenza in questo
elenco dei classici non è canonica, verrà analizzata l’Ode a Scopas (338 e 6-347 a 5).6 E di
nuovo un intreccio con Socrate, che di Simonide, con citazione anche di Esiodo, farà
ampia analisi, che alla ÛÔÊÈÛÙÈ΋, quale Ù¤¯ÓË ·Ï·È¿ (316 d 3-4), opporrà una ÊÈÏÔÛÔÊ›·
·Ï·ÈÔÙ¿ÙË (342 a 7-8) e che puntuale, al termine della sezione di critica letteraria, nel
desiderio di riprendere il dialogo, rievocherà le battute iniziali di Protagora: nessuno più
di Protagora è adatto a una discussione sulla virtù, lui che rende gli altri ricchi di virtù,
che non ha paura di proclamarsi attivo nel solco della sofistica (348 e 2-349 a 4).

L’âÓ·ÓÙ›ÔÓ
Ancora più significativo, a mio parere, un altro esempio di intreccio. Al termine del lun-
go discorso di Protagora, Socrate chiede a Protagora se giustizia, temperanza, santità,

1 Che Platone giochi un po’ con questa caratteristica dell’esposizione di Protagora mi sembra confermato dal
fatto che cita solo tre volte l’Aletheia di Protagora e lo fa utilizzando la tecnica dell’anticipazione. Nel Cratilo So-
crate stabilisce un rapporto fra il convenzionalismo linguistico di Ermogene e il relativismo di Protagora e nel fare
questo anticipa con àÏËı‹˜ e àÏ‹ıÂÈ· (386 c 2-3) il titolo del trattato esplicitamente indicato dopo (391 c 6). Nel Tee-
teto accade qualcosa di simile: Socrate rinvia al trattato di Protagora (152 a 1-4), citandone l’incipit, senza nominare
il titolo, cui invece allude poco più avanti, attraverso ÙcÓ àÏ‹ıÂÈ·Ó (152 c 8-10). Il titolo comparirà solo dopo (161 c
4 e 171 c 6). E non sembra un voler vedere troppo se un’allusione si coglie anche nel Protagora, nel corso dell’analisi
dell’ode di Simonide dove l’àÏ·ı¤ˆ˜ dell’ode (339 b 1) viene trasformato in àÏ·ı›0 (339 d 3), àÏËı›0 (343 d 6). Sul-
l’Aletheia di Protagora cfr. Corradi 2011.
2 In una sorta di agone dialettico tra Socrate e Protagora. A questo proposito, alcuni studiosi sottolineano i
contatti dell’impianto generale del nostro dialogo con la commedia, ad esempio Capra 2001. Anche Casertano
2004, sottolinea l’impianto teatrale del dialogo, che, fra le altre caratteristiche, presenta scambi di ruolo e scher-
maglie fra i protagonisti. Blondell 2002, pp. 121-125, 252-256, considera l’agonismo di Socrate in un quadro com-
plessivo.
3 La struttura è evidentemente quella della Ringkomposition. Alla luce di quanto si è detto, non è da escludere
che Platone suggerisca Prometeo-Socrate, Epimeteo-Protagora: cfr. Morgan 2000, pp. 147-153. E sulla stessa linea
cfr. l’osservazione di Bonazzi 2012, 55.
4 Importante questo rinvio ai poeti e più in generale ai ÛÔÊÔ› che Protagora pone alle origini della sofistica, in
particolare per il legame che in questo modo Protagora instaura tra il suo insegnamento e la tradizione. Bran-
cacci 2002 discute il passo, attraverso il confronto con l’Apologia e l’Ippia maggiore. Sulla presenza nel corpus
platonico del gruppo di poeti, retori, sofisti e politici cfr. recentemente Capuccino 2011, pp. 88-91, Notomi 2011,
pp. 308-311, e Tulli 2012.
5 Cfr. Denyer 2008, pp. 87-90, che sottolinea la struttura catalogica di questa sezione.
6 Cfr. Giuliano 1991, p. 112 (2004, p. 8), che ipotizza questa inclusione di Simonide nel gruppo dei poeti-sofisti
«allo scopo di calare la critica che Protagora muoverà all’Encomio (339a-d) nel contesto dello spirito competitivo
che caratterizza l’attività sofistica». Anche Denyer 2008, pp. 88-89, pensa che l’inclusione nel canone di Simonide
abbia lo scopo dell’anticipazione, perché Simonide, nonostante la sua fama, certo non compariva convenzional-
mente con Omero e Esiodo, ai quali lo stesso Platone nello Ione (532 a) fa seguire Archiloco e nell’Apologia (41 a)
fa seguire Orfeo e Museo.
sulla costruzione del racconto nel protagora di platone 97
sapienza, coraggio sono parti della virtù o sono nomi diversi per la virtù (329 c 2-d 2).1
Nel corso della discussione Protagora è costretto a affermazioni fra loro in contraddi-
zione: a) che ogni virtù ha un unico contrario e dunque avendo sapienza e saggezza lo
stesso contrario, cioè l’àÊÚÔÛ‡ÓË, sono la stessa virtù e b) che sapienza e saggezza sono
parti autonome della virtù. Socrate chiede a Protagora di scegliere (333 a 5-8). In tutta la
sezione c’è ovvia insistenza, dato l’argomento, su âÓ·ÓÙ›ÔÓ, il ‘contrario’, che però è an-
che segno della contraddizione di Protagora. Contraddizione sottolineata da Socrate
con termini che rinviano alle arti delle Muse: Ôî ÏfiÁÔÈ êÌÊÔÙ¤ÚÔÈ Ôé ¿Ó˘ ÌÔ˘ÛÈÎá˜
ϤÁÔÓÙ·ÈØ Ôé ÁaÚ Û˘Ó2‰Ô˘ÛÈÓ … àÏÏ‹ÏÔȘ. ¶á˜ ÁaÚ iÓ Û˘Ó2‰ÔÈÂÓ …2 Questi termini an-
nunciano la successiva sezione âÓ·ÓÙ›ÔÓ gestita, ora, da Protagora, quando, nell’analisi
dell’ode a Scopas, vede una contraddizione: Simonide non ha composto l’ode çÚıá˜, se
âÓ·ÓÙ›· ϤÁÂÈ ·éÙe˜ ·ñÙ† (339 b 9). L’ode a Scopas è qui chiamata sempre $ÛÌ·,3 omo-
radicale di Û˘Ó-2‰ˆ: prima erano i discorsi di Protagora non armonici, ora è l’$ÛÌ· di
Simonide inficiato da una contraddizione. Socrate invoca la ÌÔ˘ÛÈ΋ di Prodico perché
lo aiuti a salvare Simonide dalle accuse di Protagora (340 a 7-b 2). Nello scambio delle
parti, sarà cura di Socrate dimostrare che una contraddizione non c’è. Dopo la sezione
di critica letteraria, Socrate (349 a 6) chiede di tornare al dialogo, lasciando da parte i
poeti, e propone di osservare di nuovo la questione non risolta se ci sono più virtù o se
sono stati usati nomi diversi per la virtù. Alle riflessioni di Socrate, Protagora reagisce
dicendo che Socrate non può dimostrare che il suo ragionamento non sia corretto, Ôé¯
çÚıᘠ(350 d 1-2). Ma la ricerca continua, puntuale, serrata, fino alla definizione di virtù
quale sapienza. Alla fine del dialogo (361 a 5), Socrate, nel segno dell’âÓ·ÓÙ›ÔÓ, sottolinea
il rovesciamento delle posizioni: Socrate, che prima sosteneva che la virtù non è inse-
gnabile, ora è arrivato alla posizione contraria, identificando virtù con sapienza, ÓÜÓ
Û·˘Ù† ÙàÓ·ÓÙ›· Û‡‰ÂȘ (361 a 7), così come specularmente Protagora, togliendo alla
virtù lo status di sapienza, ÓÜÓ ÙÔéÓ·ÓÙ›ÔÓ öÔÈÎÂÓ Û‡‰ÔÓÙÈ çÏ›ÁÔ˘ ¿ÓÙ· ÌÄÏÏÔÓ
Ê·ÓÉÓ·È ·éÙe j âÈÛÙ‹ÌËÓ (361 b 8-c 1). Rovesciamento che, come abbiamo già conside-
rato, è ribadito proprio nella conclusione dal parallelismo Socrate-Prometeo e, implici-
tamente, da quello Protagora-Epimeteo.
La ricerca della contraddizione, con un continuo gioco di anticipazioni e riprese, sem-
bra dunque un filo rosso che attraversa il dialogo, una ricerca che doveva essere tipica
dell’insegnamento di Protagora, in stretta connessione con la definizione di çÚıfiÙ˘, e
che viene messa in scena quasi come gara, che vede in vantaggio prima l’uno poi l’altro
dei contendenti, con la vittoria finale di Socrate, che nel momento in cui attribuisce a
Protagora e a sé l’approdo alla posizione contraria, vanifica la rilevanza della ricerca del-
la contraddizione nei termini suggeriti da Protagora.

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1 Su questa sezione in generale cfr. Trabattoni 2004: Protagora esprime il particolare, la differenza, mentre
Socrate sposta il dibattito sul terreno dell’universale.
2 Û˘Ó2‰ˆ ha solo cinque occorrenze in Platone: due qui nel Protagora. Le altre nel Gorgia (461 a 2), nella Repub-
blica (432 a 3), nel Fedone (92 c 3), dove Û˘Ó2‰ˆ è usato con valore metaforico tratto dal contesto musicale per indi-
care coerenza fra affermazioni diverse o concordia fra cittadini.
3 Quindici occorrenze, a fronte di sole altre cinque occorrenze in tutto il corpus.
98 maria isabella bertagna
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UNA PARAFRASI DI OMERO
NELLA REPUBBLICA DI PLATONE
Massimiliano Carloni

N el terzo libro della Repubblica Socrate, trattando delle categorie di ‰È‹ÁËÛȘ ‰Èa
ÌÈÌ‹Ûˆ˜ e di êÏÉ ‰È‹ÁËÛȘ, vuole fornire al suo interlocutore Adimanto un
esempio concreto della differenza fra queste forme di narrazione. A questo scopo pren-
de i primi tre discorsi dell’Iliade e li rielabora in forma diegetica pura – opera cioè una
transmodalizzazione intramodale sul testo omerico.1 Tuttavia, questa non è l’unica tra-
sformazione testuale cui viene sottoposto il brano. Introducendo la sua rielaborazione,
Socrate annuncia infatti la compresenza di un altro cambiamento: il passaggio dalla for-
ma poetica alla forma prosastica.
La prosicizzazione di un testo poetico non doveva essere una pratica inusuale ai tempi
di Platone. Un frammento dei Banchettanti di Aristofane (233 K.-A. = 28 Cassio) ci attesta
l’uso di spiegare le particolarità lessicali del testo omerico, e in un passo della stessa
Repubblica Socrate fa riferimento alla pratica della prosicizzazione come a qualcosa di
precedentemente esperito dal suo interlocutore.2 L’esegesi linguistica ai testi poetici (e
soprattutto ai testi omerici) avrà poi una notevole fortuna nell’antichità posteriore:
scoli, glossari, lessici e parafrasi testimoniano la diffusione di una pratica che si protrae
fino all’età bizantina e oltre. Questi prodotti della tradizione esegetica possono fornirci
elementi importanti per ricostruire le categorie sulle quali si fondava e veniva percepita
nell’antichità l’opposizione linguistico-stilistica fra poesia e prosa. Purtroppo, per quan-
to riguarda l’età più remota della critica antica, le nostre possibilità di conoscenza di
questa opposizione formale sono limitate dalla scarsità del materiale disponibile.
L’esempio di prosicizzazione che ci viene fornito dal terzo libro della Repubblica costi-
tuisce per noi una delle poche opportunità di toccare con mano questo aspetto della fi-
lologia omerica antica in un’età di diversi secoli anteriore al resto della nostra tradizio-
ne. L’indagine concreta sul testo di questa parafrasi ci permetterà di notare come
Platone avesse una precisa coscienza della differenza stilistica fra poesia e prosa, e come
potesse percepire anche minime differenze fra le due forme di espressione; inoltre, la
coscienza di quest’opposizione era legata anche ad una percezione dell’impatto di certe
scelte formali su altri aspetti non meramente linguistici.
Benché l’attenzione degli studiosi si sia spesso concentrata sugli aspetti legati alla
transmodalizzazione operata dalla parafrasi platonica, tuttavia anche la trasformazione

Massimiliano Carloni, Scuola Normale Superiore, Piazza dei Cavalieri 1, 56126 Pisa, massimiliano.carloni@
sns.it
1 Resp. iii 393d7-394a7. La terminologia usata è quella di Gérard Genette, Palinsesti, trad. it., Torino, Einaudi,
1997, pp. 334 ss. Per transmodalizzazione intramodale si intende un «cambiamento nel funzionamento interno del
modo». Il testo dell’Iliade, infatti, si basa fondamentalmente sul modo di rappresentazione narrativo, ma contiene
alcune parti (i discorsi diretti) che sfruttano un modo drammatico; la trasformazione platonica agisce solo su queste
parti drammatiche, rendendole narrative al pari del resto dell’Iliade. Dal saggio di Genette si riprenderanno anche i
termini ipotesto e ipertesto, per riferirsi rispettivamente al testo omerico e alla sua prosicizzazione.
2 Resp. x 601b âÂd Á˘ÌÓˆı¤ÓÙ· Á ÙáÓ Ùɘ ÌÔ˘ÛÈÎɘ ¯ÚˆÌ¿ÙˆÓ Ùa ÙáÓ ÔÈËÙáÓ, ·éÙa âÊ\ ·ñÙáÓ ÏÂÁfiÌÂÓ·, ÔrÌ·›
Û Âå‰¤Ó·È Ôx· Ê·›ÓÂÙ·È. ÙÂı¤·Û·È Á¿Ú Ô˘.
102 massimiliano carloni
prosicizzante è stata oggetto di alcune analisi.1 Questo lavoro si propone di esaminare
secondo una tipologia formale i cambiamenti apportati dalla prosicizzazione, cercando
di rilevare la sistematicità con cui ha operato Platone e osservando non solo aspetti
strettamente grammaticali, ma anche implicazioni stilistiche e contenutistiche dei suoi
interventi.
Un’analisi di questo tipo si potrebbe scontrare, ovviamente, con il problema del gra-
do di intenzionalità che possiamo postulare per gli interventi prosicizzanti attuati in
questa parafrasi. In realtà, per quanto riguarda il nostro caso, il problema è effettivo solo
in parte. Quest’analisi non ci servirà, infatti, per vedere come Platone abbia interpretato
questo specifico brano omerico: non cerchiamo modifiche minime o allusioni con cui
Platone avrebbe volutamente fornito personali opinioni critiche sull’inizio dell’Iliade.
Questo esempio di parafrasi ci tornerà utile, invece, per comprendere come si configu-
rasse la sua più generale percezione dello stile omerico (una percezione che poteva es-
sere costituita anche da meccanismi automatici di risposta alla lingua poetica). In questo
compito, ci aiuterà rilevare appunto l’aspetto sistematico degli interventi platonici: la
prosicizzazione che analizzeremo è l’applicazione concreta di una concezione stilistica
più ampia; anche quando esamineremo interventi più strettamente legati alla natura di
questo brano, considereremo questi cambiamenti all’interno delle categorie più ampie
che avremo delineato.
In questo lavoro si cercherà, inoltre, di esaminare il rapporto che si crea fra la prosi-
cizzazione e la transmodalizzazione. Da questo punto di vista, l’analisi della parafrasi
platonica non è priva di problemi. Come abbiamo accennato, all’interno della struttura
argomentativa di Resp. iii la parafrasi che andiamo ad esaminare ha la funzione princi-
pale di mostrare la differenza concreta fra due forme di narrazione. Sembra inevitabile,
quindi, che la presenza contemporanea della transmodalizzazione abbia influito sulle
scelte di Platone anche per quanto riguarda gli aspetti legati alla prosicizzazione. Da una
parte, infatti, dobbiamo tenere a mente che la transmodalizzazione comporta degli
adattamenti grammaticali, non solo al livello di riferimenti spazio-temporali, ma anche
per quanto riguarda la necessità di collegare il discorso indiretto alla narrazione per
mezzo di un verbum dicendi (compito che, data la complessità di certi discorsi omerici,
può essere non sempre agevole). Dall’altra parte, è possibile rilevare che proprio in cor-
rispondenza dei discorsi la resa prosastica della parafrasi risulta molto vicina all’ipote-
sto. Possiamo pensare che Platone volesse rendere più evidenti le precise corrisponden-
ze – di somiglianza o di differenza – fra discorso diretto originale e discorso indiretto
della parafrasi; oppure la motivazione potrebbe essere anche più involontaria: Platone
non badava ad una prosicizzazione sistematica in una parafrasi nella quale la transmo-
dalizzazione è comunque la trasformazione più importante. Nell’ultima parte del lavo-
ro, quindi, cercheremo di capire quanto peso si possa attribuire alla transmodalizzazio-
ne rispetto alla parallela trasformazione della prosicizzazione.
L’altro intento di questa analisi è quello di inserire la parafrasi platonica nel quadro
della filologia omerica antica. L’approccio di questo lavoro, infatti, sarà duplice. Da una
parte si condurrà un’analisi linguistica interna alla prosicizzazione platonica; dall’altra,

1 Cfr. Edouard Des Places, Citations et Paraphrases de Poètes chez Démosthène et Platon, in Mélanges O. Navarre,
Toulouse, Privat, 1935, pp. 129-137 (= Etudes Platoniciennes, Leiden, Brill, 1981, pp. 24-32) e Luigi Spina, Platone ‘tra-
duttore’ di Omero, «Eikasmos», 5, 1994, pp. 173-179. Des Places esprime una serie di osservazioni formali seguendo
l’ordine del testo platonico, mentre Spina dà un taglio più sistematico alla sua analisi.
una parafrasi di omero nella repubblica di platone 103
si userà una serie di opere della tradizione esegetica successiva da cui si citeranno usi
paralleli alle scelte platoniche: glossari (papiri con Scholia minora), lessici (soprattutto
Apollonio Sofista ed Esichio), scoli (principalmente gli Scholia D iliadici)1 e parafrasi.
Queste ultime, ovviamente, rappresentano un termine di confronto particolarmente
interessante per la prosicizzazione platonica: sarà utile fornire alcune veloci indicazioni
sulle loro caratteristiche generali. K. Lehrs, in uno dei primi contributi della filologia
moderna alla comprensione del fenomeno delle parafrasi omeriche, ha stabilito, secon-
do una categorizzazione poi sostanzialmente mantenuta negli studi successivi, una dif-
ferenziazione fra parafrasi grammaticali e parafrasi retoriche.2 Le prime hanno la funzio-
ne principale di ‘testo di supporto’ ai fini della comprensione dell’originale omerico; le
seconde mostrano una maggiore indipendenza e una più evidente caratterizzazione sti-
listica (occupandosi, per esempio, anche di aspetti sintattici del testo omerico). A questa
divisione si aggiunge ovviamente la variazione dovuta al fattore cronologico: i nostri
esempi di parafrasi spaziano dalle testimonianze papiracee fino alle prosicizzazioni dei
dotti bizantini. Come vedremo, però, è possibile rilevare una certa continuità, grazie
all’individuazione di interventi ricorrenti che costituiscono la base del modo di fare
parafrasi. Anche la distinzione fra parafrasi grammaticali e retoriche, benché effettiva-
mente esistente, non deve essere troppo enfatizzata: i confini fra le due categorie pos-
sono essere non sempre netti, e comunque anche le parafrasi retoriche sono prosiciz-
zazioni precise dell’originale omerico, che presentano corrispondenze anche notevoli
con l’ipotesto e che sono ben lontane da libere rinarrazioni o da altri tipi di esercizi re-
torici. Nel corso dell’analisi, si useranno due parafrasi retoriche dell’inizio dell’Iliade,
una contenuta alla fine del primo libro dell’Ars rhetorica attribuita dalla tradizione ad
Aristide (art. rhet. 14 = ii, 510 Spengel, prosicizzazione di A 1-44), l’altra conservataci su
una tavoletta lignea di fine iii secolo (Bodl. Gr. Inscr. 3019, d’ora in avanti Bodl. Inscr.:
parafrasi di A 1-21).3 La parafrasi ps.-aristidea, fra l’altro, mostra numerose corrispon-
denze con la prosicizzazione platonica, tanto che si può ritenere praticamente certa una
dipendenza (più o meno diretta) da essa:4 in ogni caso, sarà utile citarla, sia per la para-
frasi del proemio dell’Iliade (che non può ovviamente dipendere da Platone) sia per con-
tatti o eventuali differenze rispetto alla parafrasi platonica (dettagli che potranno aiutar-

1 I papiri con Scholia minora contengono liste di spiegazioni glossematiche a specifici passi omerici; la maggior
parte di essi riguarda brani del primo e del secondo libro dell’Iliade. Cfr. Albert Henrichs, Scholia minora zu
Homer i , «ZPE», 7, 1971, pp. 99-117. Gli Scholia D – le cui spiegazioni spesso coincidono con le glosse degli Scholia
minora – ci sono testimoniati dalla tradizione manoscritta bizantina. Cfr. Helmut van Thiel, Die D-Scholien der
Handschriften, «ZPE», 132, 2001, pp. 1-13; Franco Montanari, Studi di filologia omerica antica, i, Pisa, Giardini, 1979,
pp. 3-25. Le Worterklärungen degli Scholia minora e degli Scholia D possono avere radici anche molto antiche: con
i paralleli citati da queste e dalle altre fonti, tuttavia, non si vuole inferire per forza un collegamento diretto fra le
spiegazioni platoniche e questo materiale esegetico, ma si vuole notare una qualche continuità, lungo il grande
corso della filologia omerica antica, nei modelli di ricezione e spiegazione del testo omerico.
2 Cfr. Karl Lehrs, Die Pindarscholien, Leipzig, Hirzel, 1873, pp. 49-50.
3 L’edizione della parafrasi della Bodl. Inscr. si trova in Peter J. Parsons, A School-Book from the Sayce Collection,
«ZPE», 6, 1970, pp. 135-141. Si citerà il testo con alcune piccole correzioni indicate dallo stesso Parsons.
4 Fra le corrispondenze più rilevanti: ad v. 19 ëÏÂÖÓ ÙcÓ TÚÔ›·Ó ηd ÛˆıÉÓ·È Ôúη‰Â, v. 21 ·å‰ÂÛıÉÓ·È ÙeÓ ıÂfiÓ, v.
28 â·ÚΤÛÔ˘Û·Ó, v. 33 Ù·ÜÙ· àÎÔ‡Û·˜, v. 35 ó˜ ‰b à¤Û¯Â ÙÔÜ ÛÙÚ·ÙÔ¤‰Ô˘, oltre all’uso del discorso indiretto (ec-
cetto che per metà della preghiera di Crise). Certo non è sorprendente che un brano composto da Platone fun-
gesse da modello nei secoli successivi, tuttavia questo è un elemento interessante per capire il modo in cui è stata
recepita questa piccola composizione platonica: essa – non concepita come testo didattico e nemmeno come
esempio di pura prosicizzazione, bensì inserita in Resp. iii come elemento funzionale all’argomentazione sulla
Ì›ÌËÛȘ – diviene modello per un testo, quello ps.-aristideo, che nei manoscritti è presentato esplicitamente con
il titolo ‘·Ú¿ÊÚ·ÛȘ’.
104 massimiliano carloni
ci a comprendere meglio quest’ultima). Si citerà, inoltre, da una parafrasi retorica del
nono libro dell’Odissea (vv. 425-436), contenuta anch’essa nel trattato pseudo-aristideo,
immediatamente dopo la parafrasi iliadica. Fra le parafrasi grammaticali, si useranno
quella falsamente attribuita da un manoscritto a Michele Psello (xi sec.), oltre alla pa-
rafrasi che troviamo all’inizio del codice Veneto A (scritta da una mano del xv sec.?). Si
citerà, infine, dalla parafrasi di Manuele Moscopulo (xiii sec.: prosicizzazione sostan-
zialmente grammaticale, ma con una certa patina retorica); da essa dipende la parafrasi
di Teodoro Gaza (xv sec.).1
L’analisi che condurremo sulla parafrasi platonica prenderà in considerazione tre li-
velli testuali principali, avanzando – a grandi linee – secondo una progressione a partire
dagli interventi più piccoli fino a quelli che coinvolgono strutture più ampie: cambia-
menti sul piano lessicale; escissione o amplificazione di piccoli segmenti testuali; inter-
venti sul piano delle strutture sintattiche. Una quarta parte sarà dedicata a considerare
una sezione particolare della parafrasi platonica, cioè la prosicizzazione della preghiera
di Crise (che ci permetterà di formulare alcune considerazioni sull’incontro fra la parole
platonica e i filtri interpretativi connessi ad una certa langue culturale), mentre alla fine
del lavoro, come già accennato, si esaminerà più da vicino il rapporto fra prosicizzazio-
ne e transmodalizzazione. Queste sezioni, ovviamente, non rimarranno concettual-
mente separate l’una dall’altra: come vedremo nel corso dell’analisi, interventi diversi
possono cooperare nella determinazione di un certo risultato finale.2

1 Uno dei lavori fondamentali sulle parafrasi omeriche è quello di Arthur Ludwich, Aristarchs Homerische
Textkritik, ii, Leipzig, Teubner, 1885, pp. 487-552 (da cui si citerà la parafrasi ps.-pselliana, quella del Veneto A e quel-
la di Teodoro Gaza). Per Moscopulo cfr. Simonetta Grandolini, La parafrasi al primo libro dell’Iliade di Manuel
Moschopulos, in Studi in onore di Aristide Colonna, Università degli studi di Perugia, Istituto di filologia classica, 1982,
pp. 131-149.
2 Nell’analisi si considererà il testo omerico sul quale si è basato Platone come sostanzialmente corrispondente
con quello che leggiamo noi. Si veda la tavola nella prossima pagina per una comparazione linea per linea fra testo
omerico e parafrasi platonica. Si include fra parentesi e in corsivo anche il piccolo riassunto dei vv. 12-16 (393d2-4),
che precede la parafrasi vera e propria; il testo di Platone viene stampato con la lezione â·ÚΤÛÔÈ dei manoscritti
A (Paris. gr. 1807) e D (Marc. gr. 185, coll. 576), che crea però alcune difficoltà (cfr. William Watson Goodwin,
Syntax of the Moods and Tenses of the Greek Verb, London, Macmillan, 1912, pp. 44-45 § 132, che tuttavia accetta
â·ÚΤÛÔÈ); Slings corregge in â·ÚΤ۷È.
12 …n ÁaÚ qÏı ıÔa˜ âd ÓÉ·˜ \A¯·ÈáÓ (393d2-4 qÏıÂÓ ï XÚ‡Û˘
13 Ï˘ÛfiÌÂÓfi˜ Ù ı‡Á·ÙÚ· Ê¤ÚˆÓ Ù’ àÂÚ›ÛÈ’ ôÔÈÓ·, Ùɘ Ù ı˘Á·ÙÚe˜ χÙÚ· ʤڈÓ
14 ÛÙ¤ÌÌ·Ù’ ö¯ˆÓ âÓ ¯ÂÚÛdÓ ëÎË‚fiÏÔ˘ \AfiÏψÓÔ˜ ηd îΤÙ˘…)
15 ¯Ú˘Û¤Å àÓa Û΋ÙÚÅ, ηd Ï›ÛÛÂÙÔ ¿ÓÙ·˜ \A¯·ÈÔ‡˜, (393d4 … ÙáÓ \A¯·ÈáÓ,
16 \AÙÚ½‰· ‰b Ì¿ÏÈÛÙ· ‰‡ˆ, ÎÔÛÌ‹ÙÔÚ ϷáÓØ Ì¿ÏÈÛÙ· ‰b ÙáÓ ‚·ÛÈϤˆÓ)
17 \AÙÚ½‰·È Ù ηd ôÏÏÔÈ â¸ÎÓ‹Ìȉ˜ \A¯·ÈÔ›,

\EÏıgÓ ï îÂÚÂf˜ Ëû¯ÂÙÔ (cfr. 12 n ÁaÚ qÏı + 15 Ï›ÛÛÂÙÔ)

18 ñÌÖÓ ÌbÓ ıÂÔd ‰ÔÖÂÓ \OχÌÈ· ‰ÒÌ·Ù’ ö¯ÔÓÙ˜ âΛÓÔȘ ÌbÓ ÙÔf˜ ıÂÔf˜ ‰ÔÜÓ·È
19 âÎ¤ÚÛ·È ¶ÚÈ¿ÌÔÈÔ fiÏÈÓ, Âs ‰’ Ôúη‰’ îΤÛı·ÈØ ëÏfiÓÙ·˜ ÙcÓ TÚÔ›·Ó ·éÙÔf˜ ÛˆıÉÓ·È,
20 ·Ö‰· ‰’ âÌÔd χ۷ÈÙ ʛÏËÓ, Ùa ‰’ ôÔÈÓ· ‰¤¯ÂÛı·È, ÙcÓ ‰b ı˘Á·Ù¤Ú· Ôî ÏÜÛ·È ‰Âͷ̤ÓÔ˘˜ ôÔÈÓ·
21 ê˙fiÌÂÓÔÈ ¢Èe˜ ˘îeÓ ëÎË‚fiÏÔÓ \AfiÏψӷ. ηd ÙeÓ ıÂeÓ ·å‰ÂÛı¤ÓÙ·˜.
22 òEÓı’ ôÏÏÔÈ ÌbÓ ¿ÓÙ˜ âÂ˘Ê‹ÌËÛ·Ó \A¯·ÈÔd Ù·ÜÙ· ‰b ÂåfiÓÙÔ˜ ·éÙÔÜ Ôî ÌbÓ ôÏÏÔÈ
23 ·å‰ÂÖÛı·› ı’ îÂÚÉ· ηd àÁÏ·a ‰¤¯ı·È ôÔÈÓ·Ø âÛ¤‚ÔÓÙÔ Î·d Û˘Ó“ÓÔ˘Ó,
24 àÏÏ’ ÔéÎ \AÙÚ½‰– \AÁ·Ì¤ÌÓÔÓÈ ≥Ó‰·Ó ı˘Ì†, ï ‰b \AÁ·Ì¤ÌÓˆÓ äÁÚ›·ÈÓÂÓ
25 àÏÏa ηÎᘠàÊ›ÂÈ, ÎÚ·ÙÂÚeÓ ‰’ âd ÌÜıÔÓ öÙÂÏÏÂØ âÓÙÂÏÏfiÌÂÓÔ˜
26 Ì‹ Û Á¤ÚÔÓ ÎԛϖÛÈÓ âÁg ·Úa ÓˢÛd Îȯ›ˆ
27 j ÓÜÓ ‰Ëı‡ÓÔÓÙ’ j ≈ÛÙÂÚÔÓ ·sÙȘ åfiÓÙ·, ÓÜÓ Ù àÈ¤Ó·È Î·d ·sıȘ Ìc âÏıÂÖÓ,
28 Ì‹ Ó‡ ÙÔÈ Ôé ¯Ú·›ÛÌ– ÛÎÉÙÚÔÓ Î·d ÛÙ¤ÌÌ· ıÂÔÖÔØ Ìc ·éÙ† Ùfi Ù ÛÎÉÙÚÔÓ Î·d Ùa ÙÔÜ ıÂÔÜ ÛÙ¤ÌÌ·Ù· ÔéÎ â·ÚΤÛÔÈØ
29 ÙcÓ ‰’ âÁg Ôé Ï‡ÛˆØ Ú›Ó ÌÈÓ Î·d ÁÉÚ·˜ öÂÈÛÈÓ ÚdÓ ‰b Ï˘ıÉÓ·È ·éÙÔÜ ÙcÓ ı˘Á·Ù¤Ú·,
30 ìÌÂÙ¤ÚÅ âÓd ÔúÎÅ âÓ òAÚÁÂ˚ ÙËÏfiıÈ ¿ÙÚ˘ âÓ òAÚÁÂÈ öÊË ÁËÚ¿ÛÂÈÓ ÌÂÙa ÔyØ
31 îÛÙeÓ âÔȯÔ̤ÓËÓ Î·d âÌeÓ Ï¤¯Ô˜ àÓÙÈfiˆÛ·ÓØ
32 àÏÏ’ úıÈ Ì‹ Ì’ âÚ¤ıÈ˙ ۷ÒÙÂÚÔ˜ œ˜ ΠӤ˷È. àÈ¤Ó·È ‰’ âΤÏ¢ÂÓ Î·d Ìc âÚÂı›˙ÂÈÓ, ¥Ó· ÛᘠÔúη‰Â öÏıÔÈ.
33 lø˜ öÊ·Ù’, ö‰ÂÈÛÂÓ ‰’ n Á¤ÚˆÓ ηd â›ıÂÙÔ Ì‡ıÅØ ï ‰b ÚÂÛ‚‡Ù˘ àÎÔ‡Û·˜ ö‰ÂÈÛ¤Ó Ù ηd à“ÂÈ ÛÈÁ”,
34 ‚É ‰’ àΤˆÓ ·Úa ıÖÓ· ÔÏ˘ÊÏÔ›Û‚ÔÈÔ ı·Ï¿ÛÛË˜Ø àÔ¯ˆÚ‹Û·˜ ‰b âÎ ÙÔÜ ÛÙÚ·ÙÔ¤‰Ô˘
35 ÔÏÏa ‰’ öÂÈÙ’ à¿Ó¢ı ÎÈgÓ äÚÄı’ n ÁÂÚ·Èe˜ ÔÏÏa Ù† \AfiÏψÓÈ Ëû¯ÂÙÔ,
36 \AfiÏψÓÈ ôÓ·ÎÙÈ, ÙeÓ ä˛ÎÔÌÔ˜ ٤Π§ËÙÒØ
37 ÎÏÜı› Ì¢ àÚÁ˘ÚfiÙÔÍ’, n˜ XÚ‡ÛËÓ àÌÊÈ‚¤‚Ëη˜ Ù¿˜ Ù âˆÓ˘Ì›·˜ ÙÔÜ ıÂÔÜ àӷηÏáÓ Î·d ñÔÌÈÌÓ“ÛÎˆÓ Î·d à·ÈÙáÓ,
una parafrasi di omero nella repubblica di platone

38 K›ÏÏ¿Ó Ù ˙·ı¤ËÓ TÂÓ¤‰ÔÈfi Ù rÊÈ àÓ¿ÛÛÂȘ,


39 ™ÌÈÓıÂÜ Âú ÔÙ¤ ÙÔÈ ¯·Ú›ÂÓÙ’ âd ÓËeÓ öÚ„·, Âú ÙÈ ÒÔÙ j âÓ Ó·áÓ ÔåÎÔ‰ÔÌ‹ÛÂÛÈÓ
40 j Âå ‰‹ ÔÙ¤ ÙÔÈ Î·Ùa ›ÔÓ· ÌËÚ›’ öÎË· j âÓ îÂÚáÓ ı˘Û›·È˜ ί·ÚÈṲ̂ÓÔÓ ‰ˆÚ‹Û·ÈÙÔØ
41 Ù·‡ÚˆÓ 䉒 ·åÁáÓ, Ùe ‰¤ ÌÔÈ ÎÚ‹ËÓÔÓ â¤Ï‰ˆÚØ zÓ ‰c ¯¿ÚÈÓ Î·Ùˇ¯ÂÙÔ
105

42 Ù›ÛÂÈ·Ó ¢·Ó·Ôd âÌa ‰¿ÎÚ˘· ÛÔÖÛÈ ‚¤ÏÂÛÛÈÓ. ÙÂÖÛ·È ÙÔf˜ \A¯·ÈÔf˜ Ùa L ‰¿ÎÚ˘· ÙÔÖ˜ âΛÓÔ˘ ‚¤ÏÂÛÈÓ.
106 massimiliano carloni

1. Analisi lessicale
Una delle caratteristiche più evidenti del linguaggio omerico è rappresentata senza dub-
bio dalle sue particolari scelte lessicali: non è un caso che una delle nostre più antiche
testimonianze dell’esegesi linguistica ad Omero riguardi – come abbiamo accennato –
proprio le spiegazioni glossematiche.1
Anche nella parafrasi platonica, ovviamente, molte delle parole dell’ipotesto vengono
sostituite da sinonimi più adatti alla lingua della prosa. Per illustrare questi cambiamenti
lessicali possiamo partire da una serie di esempi che rappresentano in modo chiaro lo
scarto fra lessico poetico e lessico prosastico: si tratta, infatti, di quei casi nei quali la si-
nonimia fra poetismo e glossa è abbastanza stretta, e l’opposizione semantica principale
fra le due parole riguarda fondamentalmente la loro connotazione (determinata dall’ap-
partenenza ad un certo registro stilistico). Un primo banale esempio si trova già all’inizio
della parafrasi, quando Platone riprende velocemente il contenuto del v. 12 (n ÁaÚ qÏıÂ
> âÏıgÓ ï îÂÚ‡˜). Qui, come a 393b2 (ÙeÓ îÂÚ¤·, ÚÂÛ‚‡ÙËÓ ùÓÙ·), Platone indica il per-
sonaggio di Crise utilizzando la parola îÂÚ‡˜. Anche Omero usa îÂÚ‡˜ per riferirsi a Cri-
se (v. 23 îÂÚÉ·), tuttavia questo non è l’unico termine che nell’Iliade indica la sua funzione
sacerdotale, né è la parola che Omero effettivamente utilizza alla prima comparsa di Cri-
se: al v. 11, infatti, troviamo Ô≈ÓÂη ÙeÓ XÚ‡ÛËÓ ä̷ٛÛÂÓ àÚËÙÉÚ· (espressione alla quale
rinvia appunto il pronome anaforico ¬ del v. 12, riecheggiato all’inizio della parafrasi pla-
tonica). Di questo àÚËÙ‹Ú non troviamo nessuna traccia né nella parafrasi platonica né
nelle parti di testo che la introducono, e neppure nelle parafrasi posteriori, che usano
tutte la parola îÂÚ‡˜: Worterklärung fra l’altro riportata anche dagli Scholia D (in tutte
e tre le occorrenze di àÚËÙ‹Ú nell’Iliade, cioè A 11, A 94 e E 78), dagli Scholia minora
(PAchm 2, 29; PBerol inv. 5014 verso, 18; POslo 12, 2.11: in tutti e tre i papiri come prosi-
cizzazione dell’àÚËÙÉÚ· di A 11) e da lessici come quelli di Apollonio Sofista (41, 28) e di
Esichio (· 7177). Queste corrispondenze trovano una conferma molto antica nella testi-
monianza che ci viene data da Aristotele, il quale nella Poetica (1457b 35) considera àÚËÙ‹Ú
una creazione linguistica di Omero (ÂÔÈË̤ÓÔÓ) equivalente a îÂÚ‡˜.2 Questo passo,
sebbene non possa assicurarci che Platone considerasse questa parola proprio come una
coniazione omerica, tuttavia conferma in qualche modo i dati che noi traiamo dalla let-
teratura greca conservata: àÚËÙ‹Ú probabilmente appariva ai Greci di età classica come
una parola squisitamente omerica (anzi iliadica: solo tre occorrenze, e tutte nell’Iliade),
senza sostanziali differenze semantiche rispetto a îÂÚ‡˜ (come si vede dai contesti in cui
le due parole vengono usate).3 La trasformazione lessicale, d’altra parte, può attuarsi an-
che con interventi minori sulle parole dell’ipotesto. Nella tradizione esegetica, per esem-
pio, un particolare tipo di Worterklärung è rappresentato da quelle glosse che prosiciz-
zano le parole omeriche aggiungendo elementi prefissali, cioè sostituendo al simplex
poetico un termine composto che indichi più chiaramente le implicazioni semantiche

1 Cfr. p. 101.
2 La presenza di nuove formazioni linguistiche all’interno della poesia era contemplata anche da Isocrate, il
quale in Evag. 9 afferma che il poeta ha la possibilità di ‰ËÏáÛ·È Ìc ÌfiÓÔÓ ÙÔÖ˜ ÙÂÙ·Á̤ÓÔȘ çÓfiÌ·ÛÈÓ, àÏÏa Ùa ÌbÓ
ͤÓÔȘ, Ùa ‰b ηÈÓÔÖ˜, Ùa ‰b ÌÂÙ·ÊÔÚ·Ö˜.
3 Omero stesso, come abbiamo detto, si riferisce a Crise usando îÂÚ‡˜; inoltre, nella ripetizione del gruppo di
versi di questa scena in A 370-380, Achille, riferendo l’accaduto a Teti, userà all’inizio proprio il nominativo îÂÚ‡˜.
Sia îÂÚ‡˜ che àÚËÙ‹Ú possono essere legati a connotazioni di onore e rispetto (come fanno vedere le parole soli-
tamente utilizzate insieme a questi due termini: cfr. A 11, 23, 377). Cfr. LfrgE s.v. àÚËÙ‹Ú.
una parafrasi di omero nella repubblica di platone 107
della parola. Questo tipo di procedimento riguarda soprattutto i verbi di moto, che nel
testo omerico possono essere molto generici: nella parafrasi platonica, infatti, úıÈ (v. 32)
e ‚É (v. 34) dell’ipotesto vengono sostituiti rispettivamente dai più specifici àÈ¤Ó·È e
à“ÂÈ, così come troviamo negli Scholia D (ad A 32 àÏÏ’úıÈ: àÏÏ’ôÈıÈ) e nelle parafrasi di
Moscopulo e Gaza (ad A 34: àÉÏıÂ). Un intervento sulla parte prefissale di una parola
omerica (in questo caso non un’aggiunta, ma un cambiamento di prefisso) si trova anche
nella corrispondenza fra il verbo â¤ÙÂÏÏ (che Omero usa in tmesi nell’espressione
ÎÚ·ÙÂÚeÓ ‰’ âd ÌÜıÔÓ öÙÂÏÏÂ, v. 25) e la glossa platonica âÓÙÂÏÏfiÌÂÓÔ˜. A differenza che
nei casi precedenti, qui Platone non vuole esplicitare un elemento semantico addiziona-
le, bensì vuole ottenere un equivalente prosastico del verbo omerico: a questo scopo egli
interviene sull’ipotesto nel modo meno invasivo possibile, mantenendo così uno stretto
collegamento formale fra parola poetica e glossa (viene conservata, infatti, la parte les-
sematica del verbo omerico). Questo procedere secondo un principio di somiglianza for-
male fra poetismo e glossa si incontra anche nella tradizione successiva: il cambiamento
del prefisso da âÈ- a âÓ-, infatti, trova paralleli – per citarne alcuni – in un glossario su
papiro (PBerol inv. 11518, 4.131 ad ¢ 64) e nei lessici di Apollonio Sofista (74, 26 âÈÙÂÖÏ·ÈØ
âÈÙ¿Í·È, âÓÙ›ϷÛı·È) e di Esichio ( 5310 âÈÙ¤ÏÏÂÈØ âÓÙ¤ÏÏÂÙ·È. â¤Ú¯ÂÙ·È; 5311
âÈÙ¤ÏÏÂÈÓØ âÓÙ¤ÏÏÂÛı·È; 5312 âÈÙ¤ÏÏÂÔØ âÓÙ¤ÏÏÔ˘).1
Non sempre, tuttavia, il rapporto fra poetismo e glossa è così diretto come in questi
primi esempi che abbiamo analizzato. In altri casi, infatti, il significante e il significato
dell’espressione poetica possono subire, nella prosicizzazione, un mutamento di mag-
giore consistenza, il quale rende più articolata la corrispondenza fra parola poetica e pa-
rola prosastica. In questi casi, il legame fra cambiamento formale e cambiamento se-
mantico si fa più stretto. Un primo esempio lo troviamo nella corrispondenza fra
l’âÎ¤ÚÛ·È omerico (v. 19) e l’ëÏfiÓÙ·˜ della parafrasi platonica, dove la necessità di sosti-
tuire una parola non prosastica come âÎ¤ÚÛ·È si lega anche alla volontà di utilizzare
un linguaggio più strettamente denotativo: la scelta lessicale platonica, meno espressiva
e icastica dell’originale omerico, defigura l’ipotesto e al tempo stesso lo ‘spiega’, poiché,
a differenza dell’omerico âÎ¤ÚÛ·È (che ‘visualizza’ la presa di Troia attraverso un suo
singolo – benché importante – aspetto, cioè il saccheggio), essa passa ad un livello infe-
renziale superiore, comunica un significato più generico, concentrando l’attenzione su
quanto è veramente utile alla comprensione del testo.
La stessa compresenza di cambiamenti più o meno invasivi si trova anche nel gruppo
formato dalle spiegazioni sintetiche, cioè da tutte quelle glosse che comprimono in un
numero minore di parole (spesso una) espressioni poetiche più lunghe. In alcuni casi le
spiegazioni sintetiche hanno un effetto minimo sull’ipotesto: esemplare, da questo pun-
to di vista, è la prosicizzazione del sintagma ¶ÚÈ¿ÌÔÈÔ fiÏÈÓ (v. 19) – tipica ed evidente
perifrasi poetica – per mezzo del più semplice ÙcÓ TÚÔ›·Ó. Questo è un procedimento
sovrapponibile a ciò che ci fornisce la tradizione esegetica più strettamente ‘grammati-
cale’: lo Sch. D ad A 19 riporta come spiegazione ¶ÚÈ¿ÌÔ˘ ‰b fiÏÈÓ ÙcÓ òIÏÈÔÓ
ÂÚÈÊÚ·ÛÙÈÎá˜; allo stesso modo, per ¶ÚÈ¿ÌÔ˘ fiÏÈÓ di B 37, POxy 4630, 1.17 riporta ÙcÓ
òIÏÈÔÓ. In altri casi l’uso di categorie descrittive generalizzanti – componente essenziale
della sintesi – comporta una più evidente perdita di certi effetti che il testo artistico ori-

1 Le spiegazioni di Apollonio Sofista sono un buon esempio di come la lessicografia antica potesse utilizzare
interventi parziali sulle parole (cambiamenti del solo lessema o del solo prefisso) per mantenere una certa somi-
glianza formale fra originale poetico e glossa.
108 massimiliano carloni
ginale produceva. Questo è il caso del passaggio da ÁÉÚ·˜ öÂÈÛÈÓ a ÁËÚ¿ÛÂÈÓ: nel-
l’espressione omerica Platone doveva percepire, oltre alla già citata amplificazione
quantitativa, anche un certo effetto figurativo legato alla particolare costruzione del sin-
tagma. In effetti, da un punto di vista strettamente interno questa perifrasi è costituita
da un termine astratto legato ad un verbo non privo di una qualche ‘violenza’ semanti-
ca: una sorta di blanda ‘personificazione’ – se così vogliamo definirla – della vecchiaia,
o almeno qualcosa di più rispetto alle spente catacresi del linguaggio quotidiano. L’at-
tenuazione della violenza di quest’espressione, d’altronde, va di pari passo con l’elimi-
nazione del η› enfatico che precede ÁÉÚ·˜ öÂÈÛÈÓ nel testo omerico.

2. Trasformazione quantitativa
Una delle caratteristiche che distanziano maggiormente la poesia omerica dall’espres-
sione prosastica è la tendenza generale della prima ad utilizzare una maggiore quantità
di testo per esprimere una stessa idea di fondo: lo stile omerico, come molti altri stili
poetici, tende visibilmente all’amplificazione quantitativa. Abbiamo già notato nella pa-
rafrasi platonica alcuni esempi di spiegazioni sintetiche, le quali operano micro-riduzio-
ni sulle espressioni del testo omerico. La riduzione quantitativa, tuttavia, coinvolge an-
che livelli testuali maggiori, e spesso procede all’escissione di più o meno ampi segmenti
dell’ipotesto.
Per l’analisi dei cambiamenti riduttivi della parafrasi platonica sarà utile cercare ele-
menti dalle caratteristiche abbastanza simili: osservando il trattamento di espressioni
che costituiscono gruppi omogenei, possiamo riconoscere la sistematicità con cui opera
il nostro breve ipertesto. Uno di questi ‘gruppi’ è costituito da tutte quelle espressioni
aggettivali o appositive (gli â›ıÂÙ·) che si legano ai sostantivi del testo omerico; anche
in un brano non molto lungo è facile trovare parecchi di questi elementi. Se guardiamo
alla tradizione parafrastica successiva, possiamo notare che questo aspetto dello stile
omerico può ricevere trattamenti diversi. Si prenda, per esempio, un epiteto come
â¸ÎÓ‹Ìȉ˜ (A 17): se le parafrasi più strettamente grammaticali optano fra un calco
strutturale della parola omerica (ÂûÔÏÔÈ, la scelta della parafrasi ps.-pselliana) o una pe-
rifrasi con un verbo generico come ö¯ÂÈÓ (Ven. A: Ôî ηÏa˜ ÎÓËÌÖ‰·˜ ö¯ÔÓÙ˜), la più li-
bera parafrasi moscopulea – pur ritenendo l’epiteto – cerca di interpretare la concreta
indicazione omerica in senso più generale e forse più funzionale al contesto (ÔÏÂÌÈ-
ÛÙ·›: se Omero si riferisce ai begli schinieri degli Achei, significa che vuole ricordare la
loro funzione di guerrieri).
Più interessante ai fini del nostro discorso, però, è il comportamento delle parafrasi
retoriche: se analizziamo la parafrasi della Bodl. Inscr. e quella iliadica dello Ps.-Aristide,
osserviamo che le espressioni epitetiche sono quasi sempre oggetto di sistematiche
escissioni.1 Questo stesso fenomeno si riscontra anche in Platone, che elimina tutte le
espressioni epitetiche dell’ipotesto: 18 \OχÌÈ· ‰ÒÌ·Ù’ ö¯ÔÓÙ˜; 20 Ê›ÏËÓ; 24 \AÙÚ½‰–;

1 Quasi sempre, dal momento che occasionalmente si possono trovare alcuni epiteti, concordemente alle esi-
genze particolari di un certo parafraste: la maggior parte delle occorrenze riguarda soprattutto le ‘prime compar-
se’ dei personaggi importanti del poema, dove una descrizione dettagliata è più giustificabile (cfr. Aristid. ad A 7
\A¯ÈÏÏÂf˜ ï ¶ËϤˆ˜ ηd \AÁ·Ì¤ÌÓˆÓ ï \AÙÚ¤ˆ˜ ‚·ÛÈÏÂf˜ ÙáÓ ^EÏÏ‹ÓˆÓ, dove si nota comunque una certa riela-
borazione del verso omerico). In altri rari casi un epiteto viene sostituito da un’altra determinazione similmente
epitetica, ma più precisa e più funzionale al contesto: cfr. Aristid. ad È 432 (dove la generica determinazione ome-
rica ù¯’ ôÚÈÛÙÔ˜ ê¿ÓÙˆÓ diventa ñÂÚÌÂÁ¤ı˘ ηd ñ¤Ú‰·Û˘˜: caratteristiche fondamentali del montone sotto al
quale Odisseo dovrà nascondersi).
una parafrasi di omero nella repubblica di platone 109
36 ôÓ·ÎÙÈ, ÙeÓ ä˛ÎÔÌÔ˜ ٤Π§ËÙÒ. Ogni personaggio che compare nella parafrasi viene
indicato per mezzo di espressioni costituite da non più di un sostantivo:1 sistematicità
che risulta ancora più evidente se consideriamo un altro paio di casi particolari. Nel pro-
sicizzare il v. 22 Platone rende la sequenza ôÏÏÔÈ … ¿ÓÙ˜ … \A¯·ÈÔ› con il semplice
ôÏÏÔÈ, senza indicare il sostantivo cui si riferisce l’aggettivo (\A¯·ÈÔ›); similmente, nella
prosicizzazione del v. 21 la lunga espressione ¢Èe˜ ˘îeÓ ëÎË‚fiÏÔÓ \AfiÏψӷ viene sin-
tetizzata nel semplice, funzionale ÙeÓ ıÂfiÓ, benché il nome di Apollo non sia mai stato
indicato precedentemente (neppure nella sezione di testo che precede la parafrasi: com-
parirà solo nella successiva prosicizzazione del v. 36). Platone vuole focalizzare l’atten-
zione su quelli che sono gli elementi contenutistici essenziali, quelli veramente impor-
tanti e pertinenti nel quadro di questa specifica narrazione; al tempo stesso, egli vuole
destilizzare l’ipotesto in modo da poter applicare con più facilità ed evidenza un nuovo
assetto sintattico-stilistico (di cui tratteremo più avanti). Nella sua prosicizzazione Pla-
tone si appoggia al particolare contesto – testuale ed extratestuale – in cui si inserisce
questo ipertesto: gli Achei, infatti, erano già stati nominati durante la discussione fra
Socrate e Adimanto (393d4 îΤÙ˘ ÙáÓ \A¯·ÈáÓ: ripetere il nome degli Achei nella para-
frasi sarebbe stata un’inutile – benché minima – ridondanza), e in ogni caso qualunque
fruitore della Repubblica – sulla base della sua preconoscenza di queste celebri vicende
– non avrebbe avuto alcuna difficoltà a risolvere piccole ‘incoerenze’ testuali e integrare
mentalmente il nome degli Achei o quello di Apollo (che era certamente il dio per ec-
cellenza dell’inizio dell’Iliade).2
La riduzione quantitativa non va a colpire, tuttavia, solo le espressioni epitetiche. Pla-
tone elimina anche altri elementi aggiuntivi che appaiono non immediatamente fun-
zionali al loro contesto: espressioni sostanzialmente ornamentali, o perlomeno ridon-
danti rispetto ad indicazioni fornite altrove dall’ipotesto. Anche questo tratto della
prosicizzazione platonica trova corrispondenze con le parafrasi retoriche successive, le
quali tendono a conservare gli elementi più rilevanti della narrazione omerica e cercano
di menzionare non più di una volta elementi formali o contenutistici che nell’ipotesto
si ripetono. Le escissioni operate da queste parafrasi possono coinvolgere elementi di
varia misura: la parafrasi ps.-aristidea decide di omettere singole espressioni non essen-
ziali (A 26 ÎԛϖÛÈÓ … ·Úa ÓË˘Û›; A 32 Ì‹ Ì’ âÚ¤ıÈ˙Â, conservato invece da Platone) e di
evitare alcune ridondanze (come A 10 çϤÎÔÓÙÔ ‰b Ï·Ô›, che ripete il concetto già espres-
so dalle prime parole del poema; nella prosicizzazione di A 28, invece, lo ÛÎÉÙÚÔÓ e lo
ÛÙ¤ÌÌ·, già comparsi ai vv. 14-15, vengono sostituiti da ÙcÓ îÎÂÙËÚ›·Ó); la parafrasi della
Bodl. Inscr. omette gli Achei fra i destinatari della richiesta di Crise (i veri destinatari so-
no gli Atridi: rr. 34-35 â‰Â‹ıË ÙáÓ \AÙÚÂȉáÓ)3 e riorganizza la disposizione dei contenuti
del testo in modo da rendere pienamente funzionale ogni elemento (la descrizione di
Crise ai vv. 13-15 viene omessa: gli ÛÙ¤ÌÌ·Ù· e gli ôÔÈÓ· compaiono invece nel discorso
del sacerdote, dove conquistano un pieno ruolo argomentativo).

1 Con l’eccezione, ovviamente, di ·éÙÔÜ ÙcÓ ı˘Á·Ù¤Ú·, dove l’aggiunta della specificazione in genitivo è legata
alla conversione in discorso indiretto.
2 Fra l’altro, anche in altri autori compare frequentemente proprio l’espressione ï ıÂfi˜ per indicare Apollo,
soprattutto in contesti legati al vaticinio e al santuario di Delfi (che rendono immediatamente comprensibile
l’indicazione generica). Cfr. Guy L. Cooper, Attic Greek Prose Syntax, Ann Arbor, University of Michigan Press,
vol. 1, p. 394.
3 Questo intervento, fra l’altro, non è dissimile da quanto fa Platone a 392e3-5: ï ÔÈËÙ‹˜ ÊËÛÈ ÙeÓ ÌbÓ XÚ‡ÛËÓ
‰ÂÖÛı·È ÙÔÜ \AÁ·Ì¤ÌÓÔÓÔ˜ àÔÏÜÛ·È ÙcÓ ı˘Á·Ù¤Ú·.
110 massimiliano carloni
Anche qualora queste parafrasi indulgano ad una certa elaborazione retorica o alla
ripetizione di alcuni elementi, questo arricchimento quantitativo non deriva se non
raramente dall’ornamentazione omerica, bensì è il risultato di un lavoro personale
sulla base dello scheletro formale-contenutistico dell’ipotesto: il lungo giro di parole
con cui lo Ps.-Aristide prosicizza A 22-25, inserendo addirittura una ripetizione polip-
totica del verbo àÊ›ËÌÈ (âÓÙ·Üı· Ôî ÌbÓ ôÏÏÔÈ ¿ÓÙ˜ ≤ͷÓÙfi Ù ÙÔf˜ ÏfiÁÔ˘˜ ηd
àÓÂıÔÚ‡‚ËÛ·Ó àÊÈ¤Ó·È ÙcÓ ·Ö‰· Ù† îÂÚÂÖ, \AÁ·Ì¤ÌÓˆÓ ‰b ÔûÙ’ äÊ›ÂÈ Î·d ÚÔÛË›ÏÂÈ
ÎÙÏ.) non ha niente a che vedere con la formulazione che troviamo nel testo omerico.
Anzi è probabile che questa rielaborazione si appoggi sullo ‘svuotamento’ dell’ipote-
sto già operato in Platone. In questo punto, infatti, il testo omerico presenta una delle
sue tipiche ripetizioni in corrispondenza di strutture a ‘domanda e risposta’, come
nello schema ‘un personaggio ordina x; un altro personaggio obbedisce ed esegue x’;
oppure – questo è il nostro caso – ‘un personaggio chiede x; un altro personaggio ap-
prova x’. I vv. 22-23, che indicano l’oggetto dell’approvazione degli Achei, riecheggia-
no la richiesta di Crise ai vv. 20-21; la corrispondenza non è perfetta, ma una certa ri-
dondanza – perlomeno contenutistica – è percettibile: da una parte abbiamo gli
elementi ‘accettare il riscatto’ e ‘venerare il dio’, dall’altra (in ordine inverso) ‘rendere
onore al sacerdote’ e ‘accettare il riscatto’. Gli ôÔÈÓ· portati da Crise, inoltre, erano
già comparsi al v. 13, accumulando ben tre occorrenze nel brano A 1-44: non è un caso
che sia nello Ps.-Aristid. sia nella Bodl. Inscr. essi vengano nominati non più di una
volta (lo Ps.-Aristid. li menziona solo nella prosicizzazione del v. 13, mentre la Bodl.
Inscr., come già detto, sviluppa retoricamente il motivo degli ôÔÈÓ· nel discorso di
Crise). Anche Platone, che ha già menzionato il riscatto (ad v. 20: ‰Âͷ̤ÓÔ˘˜ ôÔÈÓ·),
enuncia il concetto espresso dai vv. 22-23 sottolineando – più genericamente – la rea-
zione degli Achei (âÛ¤‚ÔÓÙÔ Î·d Û˘Ó“ÓÔ˘Ó) piuttosto che il contenuto concreto della
loro approvazione: vedremo come questo cambiamento sarà utile ai fini di un inter-
vento più significativo al livello della figurazione sintattica, soprattutto in rapporto
con la prosicizzazione dei vv. 24-25.1 Sempre legato in qualche modo alla figurazione
sintattica, inoltre, è un ulteriore cambiamento riduttivo. Il verso 33 si chiude con
un’espressione piuttosto generica (â›ıÂÙÔ Ì‡ıÅ); il concetto espresso viene poi ri-
preso e specificato all’inizio del verso successivo, dove si indica l’effettiva azione con
la quale Crise obbedisce ad Agamennone (‚É ‰’ àΤˆÓ ÎÙÏ.). Platone elimina l’espres-
sione generica del v. 33 ed esplicita subito il più preciso à“ÂÈ ÛÈÁ” (prosicizzazione,
appunto, del v. 34), oltretutto collegandolo al verbo precedente ö‰ÂÈÛÂÓ per mezzo di
una più stretta correlazione Ù η›. Il risultato non è meramente quantitativo. La con-
figurazione del testo omerico era caratterizzata da una certa asimmetria, dal momen-
to che usava una coppia di membri alla fine del v. 33, ma riprendeva il discorso con
l’aggiunta di un terzo elemento (accostato paratatticamente agli altri due, fra l’altro,
per mezzo di un semplice ‰¤); Platone preferisce a questo movimento a tre una più
regolare e conchiusa struttura binaria.2

1 Cfr. pp. 115-117.


2 Volendo, si potrebbe andare anche oltre. \A“ÂÈ ÛÈÁ”, infatti, mostra una particolare somiglianza con il sin-
tagma â›ıÂÙÔ Ì‡ıÅ: anche à“ÂÈ, a differenza dell’aoristo omerico ‚É, è una forma verbale all’imperfetto, segui-
ta da un sostantivo al dativo. Si potrebbe pensare che, nel sostituire â›ıÂÙÔ Ì‡ıÅ con la prosicizzazione di ‚É ‰’
àΤˆÓ, Platone abbia anche ‘adattato’ questa locuzione alla forma sintattica dell’espressione sostituita. Un ulte-
riore indizio si potrebbe addirittura vedere nella somiglianza prosodica fra le due espressioni: entrambe, infatti,
presentano una lunghezza di 9 morae. In questo caso, inoltre, la percezione (e di conseguenza la ‘memorizzazione’)
una parafrasi di omero nella repubblica di platone 111
Non sempre, tuttavia, la parafrasi platonica procede per riduzione. In un caso Plato-
ne utilizza in combinazione un procedimento di escissione e uno di espansione, al fine
di eliminare alcuni tratti evidenti dello stile omerico. Nella prosicizzazione del v. 35, in-
fatti, il vago e omerico à¿Ó¢ı ÎÈÒÓ viene sostituito dalla più precisa e prosastica fra-
se participiale àÔ¯ˆÚ‹Û·˜ ‰b âÎ ÙÔÜ ÛÙÚ·ÙÔ¤‰Ô˘. L’uso di quest’espressione focalizza
l’attenzione sul rapporto fra gli attanti della vicenda: se nell’ipotesto, per il movimento
di Crise, abbiamo come punto di riferimento principale la riva del mare (34 ·Úa ıÖÓ·
ÔÏ˘ÊÏÔ›Û‚ÔÈÔ ı·Ï¿ÛÛ˘, mentre alla provenienza si accenna solo successivamente,
appunto col breve e vago à¿Ó¢ı ÎÈÒÓ), nella parafrasi questa lunga e poetica espres-
sione viene eliminata e il termine di confronto è dato invece dall’accampamento acheo.
Non è più un movimento verso un luogo non ben determinato, bensì un moto da un
luogo che è rilevante per la vicenda (luogo che, in sostanza, rappresenta gli Achei, con
i quali Crise ha appena interagito). Con questo piccolo cambiamento di focus, la para-
frasi platonica elimina un tratto descrittivo fortemente poetico; al tempo stesso questa
rielaborazione può darci degli indizi su quale importanza attribuisse Platone a certi ele-
menti del testo omerico, come la lunga espressione del v. 34. Se parte della critica mo-
derna motiva l’allontanamento di Crise proprio in relazione al suo avvicinamento alla
riva del mare (Omero avrebbe voluto presentarci la preghiera di Crise in uno scenario
evocativo, tipicamente legato a sentimenti di tristezza e tensione) o addirittura arriva
ad interpretare lo spostamento verso il mare in un’ottica non solamente letteraria, ma
anche cultuale-religiosa, Platone – omettendo quell’espressione e concentrando la
propria attenzione sulla distanza spaziale di Crise dall’accampamento – sembrerebbe
essere più vicino ad un’interpretazione strettamente funzionale dell’allontanamento
del sacerdote, come quella che danno gli Scholia vetera (Crise non vuole farsi sentire da-
gli Achei).1 Un altro caso di aumento lo troviamo alla fine del discorso di Crise agli
Achei, dove l’avverbio öÓı· (v. 22) viene espanso nell’espressione Ù·ÜÙ· ‰b ÂåfiÓÙÔ˜
·éÙÔÜ. Nell’esempio precedente la vaga indicazione spaziale dell’ipotesto veniva piena-
mente esplicitata e funzionalizzata in relazione al suo contesto: qui, similmente, la bre-
ve indicazione temporale öÓı· diventa un lungo genitivo assoluto che determina in
modo preciso il momento temporale indicato. Non è forse un caso che fra i pochissimi
casi di espansione presenti nella parafrasi platonica vi siano proprio espressioni spazio-

della prosodia di â›ıÂÙÔ Ì‡ıÅ sarebbe stata favorita dal fatto che quest’espressione rappresenta un segmento
metrico particolare e ben distinguibile nell’esametro (cioè la cosiddetta clausola bucolica). Bisogna comunque no-
tare che le due espressioni non hanno la stessa precisa struttura prosodica, dal momento che la quarta e la quinta
mora di à“ÂÈ ÛÈÁ” sono rappresentate dal dittongo ÂÈ, e quindi – a differenza di â›ıÂÙÔ Ì‡ıÅ – l’espressione pla-
tonica sarebbe una clausola di esametro solo ipotizzando uno spondeo in quinta sede. Inoltre, rimane in ogni caso
che questo piccolo cambiamento non possa essere dovuto ad un’effettiva volontà di ‘imitazione’ del testo omerico,
ma semplicemente ad una più generica reminiscenza dell’ipotesto e ad una generale tendenza ad evidenziare le
sue strutture binarie (tendenza che ritroveremo anche ai livelli maggiori della costruzione sintattica di questa pa-
rafrasi: cfr. pp. 114ss.).
1 Sch. bT ad A 35: à¿Ó¢ı ÎÈÒÓ: ¥Ó· Ìc àÎÔ‡ÛˆÛÈÓ Ôî ÔϤÌÈÔÈ. Simon Pulleyn, Homer Iliad 1, Oxford, Oxford
University Press, 2000 ad loc. esclude questa interpretazione: secondo lo studioso Crise avrebbe potuto ricorrere
senza problemi ad una «silent prayer». Secondo Geoffrey Stephen Kirk, The Iliad: A Commentary, Vol. 1 (Books
1-4), Cambridge, Cambridge University Press, 1985 ad loc. l’allontanamento aumenterebbe l’efficacia rituale della
preghiera: non lo dice molto chiaramente, ma sembra riferirsi proprio alla funzionalità religiosa della riva del ma-
re. Pulleyn indica che non vi sono paralleli validi per questa concezione (non vale, per esempio, il fatto che Achille
faccia la stessa cosa quando prega la madre: Teti è una divinità marina); lo stesso Platone, in effetti, non sembre-
rebbe recepire questa indicazione di luogo come qualcosa di veramente essenziale per la preghiera di Crise.
112 massimiliano carloni
temporali: elementi di questo tipo sono oggetto di grande attenzione nelle parafrasi
successive.1

3. Analisi sintattica
L’espansione di öÓı·, fra l’altro, ha anche l’effetto di migliorare la connessione sintattica
e logica fra il discorso di Crise e la narrazione successiva: questo primo discorso, in effet-
ti, non viene terminato da una specifica formula di chiusura (come, per esempio, S˜
öÊ·ÙÔ del v. 33).2 Platone può essersi accorto di questa particolarità e, per ovviare alla
scarsa coesione del testo omerico in questo punto, ha introdotto un costrutto subordi-
nativo e tipicamente prosastico (Ù·ÜÙ· ‰b ÂåfiÓÙÔ˜ ·éÙÔÜ), che – per mezzo del prono-
me Ù·ÜÙ· – si ricollega anaforicamente a ciò che precede.3 Questa proposizione ha non
solo la funzione di veicolare un’indicazione temporale, ma anche quella di rendere più
chiaro il nesso causa-effetto fra il discorso di Crise e ciò che segue (conformemente al
valore più genericamente circostanziale che, al di là di ogni specifica funzione, rappre-
senta il fondamento semantico del genitivo assoluto): Omero si limitava a dire «a questo
punto»; nella parafrasi platonica, invece, viene esplicitato che Crise ha detto qualcosa, da
cui scaturiscono le differenti reazioni degli Achei e di Agamennone.
La funzione coesiva svolta da questa espansione trova conferma anche nelle più ge-
nerali caratteristiche formali della parafrasi platonica. Probabilmente Platone percepi-
va in modo chiaro anche le difficoltà e le peculiarità sintattiche del suo ipotesto: lo stile
omerico, infatti, si caratterizza per un andamento prevalentemente paratattico, in cui i
singoli elementi vengono spesso uniti per mezzo della generica particella ‰¤. L’opposi-
zione fra questa semplice paratassi e la riorganizzazione sintattica operata da una para-
frasi come quella platonica non è solo una questione di stile, bensì tocca, più in genera-
le, il problema della connessione logica del discorso: il testo omerico, infatti, lascia
inferire la maggior parte dei collegamenti logico-temporali al lettore stesso, mentre
una parafrasi spesso cerca di mettere in più esplicita relazione i vari elementi testuali.
Nel risolvere le particolarità sintattiche dello stile omerico, le parafrasi (soprattutto
quelle retoriche: le parafrasi grammaticali si occupano molto meno degli aspetti sintat-
tici) possono procedere in due modi principali. Da una parte, possono mantenere la pa-
ratassi ed esplicitare i collegamenti logici fra i vari segmenti testuali per mezzo dell’in-
tegrazione di espressioni più o meno ampie.4 Dall’altra, possono utilizzare strutture
subordinative, operando sul testo omerico interventi non molto invasivi: cfr. Bodl.
Inscr. rr. 27-30 ad A 10 ÓfiÛÔÓ âÓ¤‚·ÏÂÓ Ù† ^EÏÏËÓÈΆ ÛÙÚ·ÙÔ¤‰Å ñÊ’w˜ Ôî ≠EÏÏËÓ˜ …

1 Ven. A ad A 35 ÌÂÙa Ùe âÍÂÏıÂÖÓ àe ÙÔÜ \AÁ·Ì¤ÌÓÔÓÔ˜ fiÚÚˆıÂÓ ÙÔÜ Ó·˘ÛÙ¿ıÌÔ˘ ÔÚ¢fiÌÂÓÔ˜ ÎÙÏ.; Mosch.
ad A 68-69 ï ÌbÓ Ô≈Ùˆ˜ ÂågÓ âοıÈÛÂ, ÌÂÙa ‰b ÙÔ‡ÙÔ˘˜ ÙÔf˜ ÏfiÁÔ˘˜ àÓ¤ÛÙË ï K¿Ï¯·˜ ÎÙÏ. Ciò non esclude che in
certi casi vengano eliminate espressioni temporali considerate meno importanti e funzionali: si veda, per esempio,
la coincidenza fra Platone e Moscopulo nell’eliminare öÂÈÙ· del v. 35 (Pl. àÔ¯ˆÚ‹Û·˜ ‰b âÎ ÙÔÜ ÛÙÚ·ÙÔ¤‰Ô˘
ÔÏÏa Ù† \AfiÏψÓÈ Ëû¯ÂÙÔ, Mosch. àÂÏıgÓ ‰b fiÚÚˆ ï ÁËÚ·Èe˜ âÈÙÂٷ̤ÓËÓ àÓ¤ÂÌÂÓ Â鯋Ó).
2 Si tratta di uno dei pochi casi di discorso senza Abschlussformel in Omero: cfr. Rudolf Führer, Formpro-
blem-Untersuchungen zu den Reden in der frühgriechischen Lyrik, München, Beck, 1967, pp. 45ss.
3 Avvicinabile a questo intervento sintattico è anche l’uso dell’espressione Ô≈Ùˆ˜ Âr<Â> da parte della Bodl.
Inscr., la quale vorrebbe così integrare la formula di chiusura che manca nel testo omerico. A questa scelta può
aver concorso anche la grande importanza attribuita da questa parafrasi al discorso di Crise, oltre al fatto che que-
sta potrebbe forse essere proprio la fine del brano prosicizzato dal parafraste.
4 Queste aggiunte si configurano spesso come parte negativa di una correctio, struttura che ‘motiva’ la presenza
di un certo segmento del testo omerico sulla base del suo contrario: cfr. Bodl. Inscr. rr. 48-49 ad A 20 Ôé ÚÔÖη
Ôé‰b ‰ˆÚÂ3, àÏÏa âd χÙÚÔȘ ÎÙÏ.; Aristid. ad A 4 ÔÏÏÔÖ˜ ‰b Ôé‰b Ù·Êɘ ñÉÚÍÂ Ù˘¯ÂÖÓ, àÏÏ’ Ôî ÌbÓ Î‡Ó˜ ÎÙÏ.
una parafrasi di omero nella repubblica di platone 113
‰ÈÂÊı›ÚÔÓÙÔ (dove si esplicita il rapporto causa-effetto fra i due cola del verso). Nel mi-
gliorare la coesione del testo omerico, Platone preferisce procedere per subordinazio-
ne, e in particolare facendo ampio uso di forme participiali. In diversi casi, quando due
proposizioni coordinate hanno verbi finiti che si riferiscono entrambi ad uno stesso
soggetto, Platone subordina una proposizione all’altra trasformandone il verbo finito
in un participio: si veda, per esempio, la prosicizzazione del v. 25 (àÏÏ’ ÔéÎ … ≥Ó‰·ÓÂ
ı˘Ì†, / àÏÏa ηÎᘠàÊ›ÂÈ, … ‰’ âd … öÙÂÏÏ diventa ï ‰b \AÁ·Ì¤ÌÓˆÓ äÁÚ›·ÈÓÂÓ
âÓÙÂÏÏfiÌÂÓÔ˜).1
Tali cambiamenti concordano con quello che è l’ideale stilistico generale della prosa:
entro certi limiti un grado anche minimo di ipotassi rappresenta una sorta di ‘necessità’
della langue prosastica greca. Tuttavia, interventi di questo tipo possono risultare più ric-
chi di implicazioni stilistiche e logiche, cooperando, talvolta, con altri cambiamenti
dell’ipotesto. Per esempio, un’ulteriore occorrenza del nesso sintattico verbo finito-par-
ticipio si trova nella prosicizzazione del v. 33 (ï ‰b ÚÂÛ‚‡Ù˘ àÎÔ‡Û·˜ ö‰ÂÈÛÂÓ). In questo
caso, però, le due proposizioni che troviamo in Omero non hanno lo stesso soggetto,
col risultato che il procedere giustappositivo che caratterizza l’ipotesto è ancora più evi-
dente: S˜ öÊ·Ù’ (sc. Agamennone), ö‰ÂÈÛÂÓ ‰’ n Á¤ÚˆÓ. Il cambiamento operato da Pla-
tone non è semplicemente meccanico: la coesione viene rafforzata grazie alla trasfor-
mazione di S˜ öÊ·ÙÔ in àÎÔ‡Û·˜ (riferito al soggetto ‘Crise’), cioè attraverso un
cambiamento del punto di vista dal quale viene guardata l’azione di Agamennone. An-
che qui, come nel caso dell’espansione di öÓı·, la maggiore unitarietà del discorso con-
tribuisce a rendere più chiaro il nesso causale fra il discorso di un personaggio e la rea-
zione del suo destinatario: Crise si mette paura perché ha udito le parole a lui rivolte da
Agamennone. Nell’operare questo cambiamento, fra l’altro, Platone colpisce uno dei
tratti stilistici più caratteristici e identificativi dello stile omerico, cioè il nesso di chiusu-
ra S˜ öÊ·ÙÔ (che compare 424 volte nei due poemi). Anche in un altro caso la struttu-
razione verbo finito-participio elimina un tratto particolare del testo omerico. Platone
prosicizza un verso del discorso di Crise (20 ·Ö‰· ‰\ âÌÔd χ۷ÈÙ ʛÏËÓ, Ùa ‰\ ôÔÈÓ·
‰¤¯ÂÛı·È) con ÙcÓ ‰b ı˘Á·Ù¤Ú· Ôî ÏÜÛ·È ‰Âͷ̤ÓÔ˘˜ ôÔÈÓ·: questo cambiamento sosti-
tuisce una giustapposizione di frasi coordinate per mezzo di ‰¤ («liberatemi la figlia» e
«accettate il riscatto») con una più coesa strutturazione participiale. L’intervento di Pla-
tone, però, potrebbe coinvolgere anche un altro aspetto della formulazione omerica.
Cercando – come spesso succede in questa parafrasi – un equilibrio fra cambiamento e
conservazione dell’ipotesto, Platone mantiene l’ordine dei cola che troviamo nell’ipote-
sto, ma, mutando sintatticamente ‰¤¯ÂÛı·È e sfruttando un possibile valore egressivo
del participio, sembrerebbe precisare una relazione logico-temporale che doveva appa-
rirgli non chiaramente espressa nel testo omerico (anzi i due cola del verso 20 sembre-
rebbero disposti in un ordine inverso rispetto a quello atteso, in una sorta di hysteron
proteron).
I cambiamenti sintattici operati da questa parafrasi, tuttavia, non sono solo dei piccoli
aggiustamenti, limitati allo stretto contesto di un singolo verso. Già osservando alcuni
tratti della prosicizzazione dei vv. 20-21 possiamo avere un’idea della più generale ope-

1 Sempre nell’ottica di una maggiore coesione testuale, nella resa del v. 35 Platone tralascia di prosicizzare
ÁÂÚ·Èfi˜, dal momento che il sostantivo esplicita nuovamente il soggetto già espresso dal Á¤ÚˆÓ del v. 33 (che, ap-
punto, viene reso da Platone con ï ÚÂÛ‚‡Ù˘): Omero, per collegare sintatticamente, utilizza una ripetizione; Pla-
tone, invece, sfrutta il pronome zero.
114 massimiliano carloni
razione stilistica di Platone, che – sfruttando contemporaneamente sintassi e trasforma-
zione quantitativa – tende a costruire il suo discorso secondo un ritmo più compatto e
simmetrico, delineando in modo chiaro la configurazione degli elementi del testo ome-
rico. Al ‰Âͷ̤ÓÔ˘˜ ôÔÈÓ· che abbiamo visto poco sopra, infatti, si affianca un ÙeÓ ıÂeÓ
·å‰ÂÛı¤ÓÙ·˜, che è il risultato della contrazione del v. 21 e dell’adattamento di ê˙fiÌÂÓÔÈ
alla nuova situazione sintattica determinata dal cambiamento ‰¤¯ÂÛı·È > ‰Âͷ̤ÓÔ˘˜.
Questi piccoli cambiamenti sono i segnali formali che fanno percepire la distanza fra
questa rielaborazione prosastica e la sostanziale asimmetria che si trova nei versi ome-
rici. Nell’ipotesto le due espressioni che legittimano la richiesta di Crise non hanno lo
stesso ruolo sintattico (ê˙fiÌÂÓÔÈ dipende da ‰¤¯ÂÛı·È, che a sua volta è coordinato a
χ۷ÈÙÂ) e mostrano una notevole disparità quantitativa: la menzione del riscatto occu-
pa mezzo verso, mentre la frase participiale domina un verso intero.1 In Platone, invece,
le due espressioni si strutturano in una coppia perfettamente simmetrica: non solo per
l’aspetto strettamente sintattico (due participi aoristi entrambi dipendenti da ÏÜÛ·È), ma
anche per la loro comparabile consistenza quantitativa. Come abbiamo accennato pre-
cedentemente, nel contesto della figurazione sintattica si giustificano ancora di più i
procedimenti riduttivi che abbiamo avuto modo di osservare nella parafrasi platonica:
l’essenzialità dell’espressione è funzionale ad una più chiara ed equilibrata definizione
dei vari membri del testo, e permette a Platone di intervenire più facilmente su certi
aspetti stilistici. L’uso dell’unico sostantivo ÙeÓ ıÂfiÓ – al posto della lunga espressione
del v. 21 – evidenzia la disposizione chiastica dei cola (participio ‰Âͷ̤ÓÔ˘˜ + sostantivo
ôÔÈÓ· + η› + sostantivo ÙeÓ ıÂfiÓ + participio ·å‰ÂÛı¤ÓÙ·˜), la quale contribuisce a
sottolineare la connessione e la complementarità fra le due azioni descritte.
Anche nella tradizione parafrastica successiva, del resto, ritroviamo questa tendenza
a organizzare il testo omerico secondo criteri di regolarità e simmetria: strutture binarie
di parallelismo o antitesi vengono messe in evidenza non solo dalle parafrasi più pro-
priamente retoriche, ma anche da quelle che si tengono abbastanza vicine al testo ome-
rico. In particolare, le correlazioni Ì¤Ó … ‰¤ (siano esse riprodotte a partire dal testo
omerico oppure create dallo stesso parafraste) rappresentano la situazione sintattica do-
ve più frequentemente una parafrasi introduce elementi di corrispondenza formale e/o
semantica fra due proposizioni: in questo modo, il rapporto logico che lega i due mem-
bri della correlazione diventa più facilmente individuabile. Da questo punto di vista, un
buon esempio è rappresentato dalla parafrasi dello Ps.-Aristide all’Odissea, che, nel pro-
sicizzare È 431ss., parte dalla correlazione Ì¤Ó … ·éÙ¿Ú già presente nel testo omerico,
ma riformula i due membri della contrapposizione in modo da indicare più chiaramen-
te in che cosa consista la loro opposizione: Âå˜ ÌbÓ ÔsÓ ÙÔf˜ ôÏÏÔ˘˜ ñÉÚ¯ÔÓ ≤ÙÔÈÌÔÈ,
·éÙe˜ ‰b â¯›ÚÔ˘Ó ÙÚfiÅ ÙÔȆ‰Â. La parafrasi ps.-aristidea all’Iliade, invece, abbina alle
correlazioni Ì¤Ó … ‰¤ un certo grado di ripetizione verbale, anche in forma di poliptoto
all’inizio di due proposizioni: Aristid. ad A 3-4 ÔÏÏÔd ÌbÓ ÁaÚ … ‰ÈÂÊı¿ÚËÛ·Ó, ÔÏÏÔÖ˜
‰b Ôé‰b Ù·Êɘ ñÉÚÍÂ Ù˘¯ÂÖÓ ÎÙÏ.2

1 Tanto che Kirk, ad loc., arriva a considerare la seconda metà del v. 20 come una semplice parentesi, mentre
l’elemento veramente determinante per l’accettazione della richiesta è rappresentato dalla venerazione dovuta ad
Apollo (e di riflesso al suo sacerdote).
2 Come abbiamo accennato, anche le parafrasi grammaticali mostrano una qualche tendenza all’uso di strut-
ture binarie: in più casi Moscopulo integra particelle Ì¤Ó per creare antecedenti a ‰¤ già presenti nel testo omerico
(cfr. ad A 18-20 ñÌÖÓ ÌbÓ Âúı ‰ÔÖÂÓ Ôî ıÂÔd … âÎÔÚıÉÛ·È ÌbÓ ÙcÓ fiÏÈÓ … ηÏᘠ‰b àÂÏıÂÖÓ … âÌÔd ‰b ÙcÓ ·Ö‰·
ÎÙÏ.: qui addirittura con una correlazione Ì¤Ó … ‰¤ ‘incastonata’ dentro un’altra); parafrasi come quella del Veneto
una parafrasi di omero nella repubblica di platone 115
L’analisi della prosicizzazione dei vv. 22-25 ci permetterà di osservare come la presen-
za di una correlazione oppositiva si leghi – anche in Platone – all’uso di una struttura-
zione sintattica più regolare, che può arrivare a modificare anche profondamente il con-
tenuto verbale dell’ipotesto. Un primo segnale di questa rielaborazione è rappresentato
dal cambiamento delle particelle del testo omerico: Platone, infatti, sostituisce la
contrapposizione omerica fra Ì¤Ó e àÏÏ¿ (22 òEÓı’ ôÏÏÔÈ ÌbÓ ¿ÓÙ˜ … 24 àÏÏ’ ÔéÎ
\AÙÚ½‰–) con la più regolare correlazione Ì¤Ó … ‰¤. Fin qui, però, la trasformazione po-
trebbe apparire come un semplice adattamento grammaticale, utile a sostituire l’inso-
lita contrapposizione ̤Ӆ àÏÏ¿ con qualcosa di più comune. In realtà, basta osservare
il contenuto stesso dei cola della contrapposizione per vedere come una certa tendenza
alla simmetria stilistica investa visibilmente tutti gli elementi dell’ipotesto.
La parafrasi di questi versi presenta cola brevi e sintatticamente molto più semplici
dei loro corrispettivi omerici (nel primo colon, due verbi coordinati, senza ulteriori de-
terminazioni; nel secondo, un verbo singolo legato ad un participio). A questa decisa ri-
formulazione si accompagna una serie di piccoli ma importanti cambiamenti formali:
il nome di Agamennone diventa soggetto del primo colon (non più dativo, quindi, ma
nominativo in parallelo con l’ôÏÏÔÈ del primo membro); con l’escissione di ¿ÓÙ˜ …
\A¯·ÈÔ› e di \AÙÚ½‰–, entrambi i soggetti sono rappresentati da un singolo sostantivo;
infine, se nel testo omerico âÂ˘Ê‹ÌËÛ·Ó (aoristo) si contrapponeva a ≥Ó‰·Ó ı˘Ì† e
àÊ›ÂÈ (imperfetti), in Platone anche i verbi riferiti agli Achei sono all’imperfetto. In Ome-
ro, dunque, trovavamo una complessa costruzione, con forti tratti di variatio, probabil-
mente funzionali anche alla sottolineatura della violenta reazione di Agamennone: Pla-
tone, al contrario, crea un’opposizione caratterizzata da una precisa corrispondenza
formale fra i suoi membri. Questo risultato finale, tuttavia, non viene ottenuto solo con
mezzi strettamente grammaticali: i piccoli cambiamenti morfosintattici e quantitativi
che abbiamo elencato, infatti, vanno di pari passo con l’uso di un lessico particolarmen-
te distante dalle espressioni dell’ipotesto. Sia per i verbi del primo membro della con-
trapposizione sia per quelli del secondo, Platone semplifica molto la struttura origina-
ria, concentrandosi – piuttosto che sui particolari concreti – sui nuclei semantici
dell’opposizione: egli sfrutta, tuttavia, formulazioni piuttosto ricercate, le quali, oltre a
creare un parallelismo più stretto da un punto di vista semantico, lasciano trasparire i
tratti di uno stile prosastico alto e per alcuni aspetti specificamente platonico.
Partiamo dalla resa prosastica del secondo colon della contrapposizione. Platone eli-
mina la complessa sequenza composta dalla litote del v. 24 e dalla successiva afferma-
zione positiva del v. 25 (àÏÏa ηÎᘠàÊ›ÂÈ); tuttavia non si ferma ad una mera destiliz-
zazione dell’originale: per intuire una certa pregnanza semantica della scelta lessicale
qui attuata basta osservare la differenza fra äÁÚ›·ÈÓÂÓ della parafrasi e l’uso lessicale di
392e5 (dove Socrate, riassumendo questo brano, indica la reazione di Agamennone col
più piano verbo ¯·ÏÂ·›ÓÂÈÓ). Il verbo àÁÚÈ·›Óˆ, in effetti, è un verbo non privo di im-
portanza nel corpus platonico; basti osservare le altre due occorrenze nella Repubblica:
in entrambi i casi (493b5; 501e2) esso denota la folla dal punto di vista della sua distanza
dalla filosofia e dal vero sapere. Non è un caso, fra l’altro, che un composto di questo

A e di Gaza, d’altra parte, possono intervenire sull’ordo verborum per eliminare eventuali asimmetrie del testo ome-
rico: Ven. A ad A 50-1 ÚáÙÔÓ ÌbÓ âÙÈ̈ڋ۷ÙÔ Ùa˜ ìÌÈfiÓÔ˘˜ ηd ÙÔf˜ Ï¢ÎÔf˜ ηd Ù·¯ÂÖ˜ ·ӷ˜, ÌÂÙa Ù·ÜÙ· ·éÙÔÖ˜
ÙÔÖ˜ ≠EÏÏËÛÈ ÎÙÏ. Gaza (diversamente da Mosch.) ηd ÚáÙÔÓ ÌbÓ Ùa˜ ìÌÈfiÓÔ˘˜ âÙÈ̈ڋ۷ÙÔ Î·d ÙÔf˜ Ù·¯ÂÖ˜ ·ӷ˜,
öÂÈÙ· ‰b ηْ·éÙáÓ ÎÙÏ.
116 massimiliano carloni
verbo fortemente connotativo (âÍ·ÁÚÈ·›ÓÂÛı·È) venga utilizzato in Resp. i 336d8 niente-
meno che per Trasimaco.
Oltre a questo particolare uso lessicale, l’esame di un piccolo problema presente nel
primo colon della correlazione può aiutarci a comprendere meglio i dettagli della riela-
borazione platonica. I significati espressi dai due verbi âÛ¤‚ÔÓÙÔ Î·d Û˘Ó“ÓÔ˘Ó, infatti, ri-
calcano in qualche maniera il contenuto del v. 23 dell’ipotesto (dove vengono menzio-
nati, da una parte, l’·å‰g˜ degli Achei verso il sacerdote, dall’altra, l’accettazione della
sua offerta concreta), tuttavia la corrispondenza non è perfetta. Un elemento non irri-
levante è rappresentato dal verbo âÛ¤‚ÔÓÙÔ, che sembrerebbe essere il corrispettivo pro-
sastico di ·å‰ÂÖÛı·› ı’ îÂÚÉ·: corrispondenza curiosa, se si pensa che il precedente
ê˙fiÌÂÓÔÈ, che esprimeva la venerazione addirittura verso un dio, aveva avuto come pro-
sicizzazione proprio il più semplice ·å‰ÂÛı¤ÓÙ·˜.1 Des Places notava il problema: secon-
do lui questa configurazione poteva essere dovuta a esigenze eufoniche e ritmiche, che
l’uso di un Û¤‚ÔÌ·È participio e un ·å‰¤ÔÌ·È imperfetto non avrebbero potuto soddisfa-
re.2 Premesso che è difficile determinare in modo esauriente le motivazioni che posso-
no aver spinto Platone a queste scelte lessicali, si possono tuttavia trovare degli indizi
interessanti prendendo in considerazione la costruzione e il significato di âÛ¤‚ÔÓÙÔ, ol-
tre ad alcuni aspetti del parallelismo formale che caratterizza questa pericope. Il proble-
ma appena descritto, infatti, non è effettivamente presente. È verosimile che âÛ¤‚ÔÓÙÔ
sia utilizzato qui con costruzione assoluta, in accordo con l’originaria intransitività del
verbo Û¤‚ÔÌ·È.3 \EÛ¤‚ÔÓÙÔ non esprime la venerazione verso il sacerdote, ma il senti-
mento religioso degli Achei in sé: non esiste, quindi, nessuna contraddizione fra un
·å‰ÂÛı¤ÓÙ·˜ riferito a ÙeÓ ıÂfiÓ e un âÛ¤‚ÔÓÙÔ che avrebbe come oggetto ÙeÓ îÂÚ¤· (ov-
viamente sottinteso). L’uso assoluto di âÛ¤‚ÔÓÙÔ è confermato anche dal suo contesto
linguistico, e nello specifico dal successivo verbo coordinato Û˘Ó“ÓÔ˘Ó, caratterizzato
anch’esso dalla costruzione assoluta. Per certi versi, âÛ¤‚ÔÓÙÔ non rappresenta nemme-
no un processo verbale separato, con un proprio complemento oggetto, bensì costitui-
sce un modificatore semantico di Û˘Ó“ÓÔ˘Ó. Il nesso âÛ¤‚ÔÓÙÔ Î·d Û˘Ó“ÓÔ˘Ó forma un’en-
diadi che fonde i due processi verbali in un unico aggregato semantico, concordemente
ad un uso stilistico generale della prosa attica, che in certi casi preferisce la coordinazio-
ne di due elementi rispetto all’uso di attributi o avverbi.4 Inoltre, con tale costruzione
risulterebbe anche migliorato il parallelismo formale con il colon successivo, dove tro-
viamo una formulazione similmente breve e priva di determinazioni aggiuntive
(äÁÚ›·ÈÓÂÓ), la quale focalizza anch’essa l’attenzione – in modo non troppo specifico o
concreto – sul significato espresso dal verbo assoluto. Infine, che âÛ¤‚ÔÓÙÔ non sia effet-
tivamente la prosicizzazione della prima metà del v. 23 lo conferma anche un’analisi più
attenta del rapporto fra ipotesto e ipertesto. È vero che ·å‰ÂÖÛı·› ı’ îÂÚÉ· esprime
un’idea in qualche modo legata a âÛ¤‚ÔÓÙÔ, ed è abbastanza indubitabile che Platone,

1 L’uso inverso a quello della nostra parafrasi è confermato, fra l’altro, proprio da un passo platonico, dove
·å‰¤ÔÌ·È è riferito a uomini e Û¤‚ÔÌ·È a dèi: Leg. 917b ÔûÙ àÓıÚÒÔ˘˜ ·å‰Ô‡ÌÂÓÔ˜ ÔûÙ ıÂÔf˜ Û‚fiÌÂÓÔ˜.
2 Des Places, Citations et Paraphrases, cit., p. 134 (= Etudes, cit., p. 29).
3 Guy L. Cooper, Greek Syntax: Early Greek Poetic and Herodotean Syntax, Ann Arbor, University of Michigan
Press, 2003, pp. 1996-1997 fornisce vari esempi di Û¤‚ÔÌ·È intransitivo in prosa e in poesia. Fra l’altro, l’unica occor-
renza di Û¤‚ÔÌ·È in Tucidide (ii 53) è contraddistinta proprio dall’uso assoluto: Ùe ÌbÓ ÎÚ›ÓÔÓÙ˜ âÓ ïÌԛŠηd Û¤‚ÂÈÓ
ηd Ìc âÎ ÙÔÜ ¿ÓÙ·˜ ïÚÄÓ âÓ úÛÅ àÔÏÏ˘Ì¤ÓÔ˘˜.
4 Un esempio in Pl. Prot. 333e: ÙÂÙÚ·¯‡Óı·È Ù ηd àÁˆÓÈÄÓ. Cfr. John Dewar Denniston, Lo stile della prosa
greca, trad. it. a cura di E. Renna, Bari, Levante, 1993, pp. 100-102.
una parafrasi di omero nella repubblica di platone 117
nell’optare per la coppia di verbi âÛ¤‚ÔÓÙÔ Î·d Û˘Ó“ÓÔ˘Ó, sia stato guidato proprio dalla
simile coppia del v. 23. Tuttavia, nel testo omerico entrambi i cola del v. 23 sono subor-
dinati al verbo âÂ˘Ê‹ÌËÛ·Ó: quello che ci viene comunicato dai vv. 22-23 è l’approva-
zione concreta della richiesta di Crise da parte degli Achei, la loro decisione di rendere
onore al sacerdote. Quest’idea, nella parafrasi, viene espressa già dal solo Û˘Ó“ÓÔ˘Ó, che
indica appunto l’accettazione effettiva della richiesta. \EÛ¤‚ÔÓÙÔ, in ultima analisi, rap-
presenta un elemento aggiuntivo della rielaborazione platonica, che mostra il lato ‘in-
teriore’ – per così dire – della reazione degli Achei: esso esprime qualcosa che non viene
affermato esplicitamente nel testo omerico, ma che viene lasciato inferire al lettore dalla
rappresentazione concreta delle azioni degli Achei.

4. La preghiera di Crise ad Apollo


4. 1.
In un altro caso l’intervento di Platone si incontra e si fonde con elementi formali di lan-
gue, determinati dai filtri linguistico-culturali con cui egli legge il contenuto di una se-
zione particolare del brano omerico: questa sezione è la preghiera di Crise ad Apollo.
Come si può ben immaginare, la preghiera di Crise ha comportato per Platone diffi-
coltà maggiori nel processo di transmodalizzazione: se già negli altri discorsi vi erano
proposizioni con ottativi, congiuntivi e imperativi che complicavano il lavoro, qui Pla-
tone ha dovuto riportare in discorso indiretto una forma – quella della preghiera – che
fa dei vocativi e della ‘formularità’ di certi elementi le sue caratteristiche fondamentali.
Al posto di un modo di procedere lineare, allora, Platone ha preferito ripartire la resa
della preghiera in due movimenti fondamentali: un’indicazione generale dei suoi ele-
menti costitutivi, e successivamente una prosicizzazione più precisa del suo contenuto.
Il particolare trattamento riservato a questa preghiera si vede già da come viene pa-
rafrasata l’espressione che la introduce: a differenza che nella formula di apertura del
discorso precedente,1 qui Platone mantiene il complemento oggetto generico cui è le-
gato il verbo che introduce il discorso nel testo omerico, dando una resa prosastica dei
vv. 35-36 molto vicina all’ipotesto (ÔÏÏa Ù† \AfiÏψÓÈ Ëû¯ÂÙÔ). Infatti, invece di ripor-
tare le parole di Crise utilizzando proposizioni infinitive (le quali avrebbero necessitato
appunto di un verbo senza complemento oggetto), Platone lega a questa frase tre forme
participiali che riassumono i tre elementi fondamentali della preghiera: Ù¿˜ ÙÂ
âˆÓ˘Ì›·˜ ÙÔÜ ıÂÔÜ àӷηÏáÓ Î·d ñÔÌÈÌÓ“ÛÎˆÓ Î·d à·ÈÙáÓ. Uno dei primi vantaggi
di questa particolare soluzione è che si possono salvare, in qualche modo, i vocativi con
cui il sacerdote invoca Apollo: se nei discorsi precedenti Platone aveva eliminato – coe-
rentemente con la conversione in discorso indiretto – \AÙÚ½‰·È Ù ηd ôÏÏÔÈ â¸ÎÓ‹Ìȉ˜
\A¯·ÈÔ› (v. 17) e Á¤ÚÔÓ (v. 26), in questo caso deve almeno fornire un’indicazione sintetica
dell’epiclesi iniziale, senza la quale la forma della preghiera non sarebbe nemmeno iden-
tificabile. La funzione svolta da questi tre participi, inoltre, non si ferma qui. Essi, cate-
gorizzando sinteticamente le tre parti della preghiera (vv. 37-39: l’epiclesi; 39-41: il ricor-
do dei propri meriti; 41b-42: la richiesta finale),2 danno al lettore dei segnali precisi per

1 V. 25 ÎÚ·ÙÂÚeÓ ‰’ âd ÌÜıÔÓ öÙÂÏÏ > âÓÙÂÏÏfiÌÂÓÔ˜.


2 Questa divisione corrisponde con la tripartizione che gli studiosi moderni propongono per questa e per altre
preghiere greche. L’idea di un modello tripartito della preghiera greca (che ha incontrato una notevole fortuna
critica, almeno fino a un paio di decenni fa) trova le sue radici nello studio di Carl Ausfeld, De Graecorum Preca-
tionibus Quaestiones, «Jahrbücher für classische Philologie», Suppl. 28, 1903, pp. 502-547.
118 massimiliano carloni
identificare la struttura del discorso che si sta parafrasando e aumentano la coesione lo-
gico-sintattica del testo. Essi forniscono, per così dire, una cornice – non solo gramma-
ticale ma anche tematica – entro cui inserire le frasi successive (le quali sviluppano i due
elementi rappresentati da ñÔÌÈÌÓ“ÛÎˆÓ e à·ÈÙáÓ). Per inserire questa ‘cornice’, Pla-
tone non si è limitato ad una conversione strettamente linguistica, bensì ha applicato al
suo ipotesto una certa categorizzazione culturale (e più specificamente cultuale-religio-
sa). Qui Platone è intervenuto, dunque, in modo più deciso e personale che altrove: di
questa sua maggiore presenza è segno evidente il linguaggio marcatamente prosastico
che caratterizza questa parte. Tutti e tre i participi che Platone utilizza, infatti, sono co-
stituiti da verbi prefissati. Due verbi su tre, inoltre, sono usati con costruzione assoluta,
senza che siano date precisazioni ulteriori sul loro significato. Le caratteristiche di que-
sta sintetica formulazione segnalano che essa si poggiava probabilmente su usi lessicali
particolari, che risultavano comprensibili in quanto specializzatisi semanticamente in
un determinato ambito e condivisi, quindi, all’interno di una più o meno ampia com-
petenza linguistica. Non è forse un caso che, in una terminologia tecnica come quella
della Retorica attribuita dalla tradizione a Dionigi di Alicarnasso, vediamo susseguirsi a
distanza di qualche riga i due usi lessicali platonici, proprio nell’ambito della trattazione
di alcune preghiere omeriche:
9.14 âÂd ηd ·î ÙáÓ ¯·Ú›ÙˆÓ à·ÈÙ‹ÛÂȘ ÔéÎ ôÓ¢ ÙÔÜ âÛ¯ËÌ·Ù›Ûı·È Á›ÓÔÓÙ·È. Ôî ÁaÚ ·åÙÔÜÓÙ˜
Ùa˜ ¯¿ÚÈÙ·˜ ·Úa ÙáÓ Âs ÂÔÓıfiÙˆÓ âÓ Î·ÈÚ† Ê˘Ï·ÙÙfiÌÂÓÔÈ Ùe çÓÂȉ›˙ÂÈÓ ÂéÚÂᘠà·ÈÙÔÜÛÈ.
ηd ‰Â›ÎÓ˘ÛÈÓ ìÌÖÓ ï ÔÈËÙ‹˜, Ù›˜ ÌbÓ iÓ qÓ àÙ¤¯ÓÔ˘ à·ÈÙ‹Ûˆ˜ ÙÚfiÔ˜ ÎÙÏ.
9.15 Ùe ‰b ñÔÌÈÌÓ“ÛÎÂÈÓ âÈÌÂÏᘠÚ·ÁÌ·Ù‡ÂÙ·ÈØ “ZÂÜ ¿ÙÂÚ, Âú ÔÙ ‰‹ Û ÌÂÙ’ àı·Ó¿ÙÔÈÛÈÓ
öÙÈÛ· / j öÂÈ j öÚÁÅ” (Hom. A 503-4)

Per di più, anche l’uso di âˆÓ˘Ì›· e àӷηϤˆ – nei significati religiosi che troviamo
qui – presenta alcuni paralleli: in particolare, l’uso di âˆÓ˘Ì›· per indicare un ‘appel-
lativo’ del dio si basa sulla distinzione terminologica fra questa parola e ùÓÔÌ· (che in-
vece indica il ‘nome proprio’ del dio).1
Queste particolarità formali, d’altronde, si potrebbero inscrivere all’interno delle ca-
ratteristiche distintive delle parafrasi retoriche (o semi-retoriche), le quali tendono – in
modo più marcato rispetto alle controparti più strettamente grammaticali – a inserire
elementi formali decisamente prosastici. Questi possono consistere anche in parole o
espressioni di significato molto specifico, appartenenti a vocabolari propri di determi-
nati ambiti contenutistici: essi sono gli indizi formali dell’applicazione, da parte del pa-
rafraste, di specifiche categorie interpretative. Nelle parafrasi retoriche possiamo quindi
trovare espressioni come ÔéÎ àe Ù·éÙÔÌ¿ÙÔ˘ Û˘Ó¤ÂÛ ÙÔÛ·ÜÙ· Ú¿ÁÌ·Ù· (Aristid. ad
A 5); perifrasi molto precise per singole parole dell’ipotesto (Ven. A sfrutta termini tipici
della medicina per spiegare la ÓÔÜÛÔÓ di A 10: àÚÚˆÛÙ›·Ó ı·Ó¿ÛÈÌÔÓ; Mosch. spiega
Ù›ÛÂÈ·Ó di A 42 secondo le formule delle leggi: ‰fiÙˆÛ·Ó Ôî ¢·Ó·Ô› … ÙcÓ ÚÔÛ‹ÎÔ˘Û·Ó
ÙÈ̈ڛ·Ó Âå˜ âΉ›ÎËÛÈÓ ÙáÓ âÌáÓ ‰·ÎÚ‡ˆÓ); parole o concetti afferenti all’ambito della
guerra e delle sue ‘regole’ (campo semantico frequentemente attivato dal testo dell’Ilia-
de: Bodl. Inscr. r. 41 usa il termine specifico ·Ú·ÛÙ‹Û·Ûı·È per ‘assoggettare’; rr. 31-33

1 Come si vede bene in un passo di Erodoto (ii 52ss.). L’intera espressione Ù¿˜ Ù âˆÓ˘Ì›·˜ ÙÔÜ ıÂÔÜ àӷηÏáÓ
trova un parallelo più tardo in Arriano (An. 5.2.6): ÛÙÂÊ¿ÓÔ˘˜ ÛÔ˘‰” à’ ·éÙÔÜ ÔÈÂÖÛı·È, ó˜ ηd ÛÙÂÊ·ÓÒÛ·Ûı·È
Âr¯ÔÓ, âÊ˘ÌÓÔÜÓÙ·˜ ÙeÓ ¢ÈfiÓ˘ÛfiÓ Ù ηd Ùa˜ âˆÓ˘Ì›·˜ ÙÔÜ ıÂÔÜ àӷηÏÔÜÓÙ·˜.
una parafrasi di omero nella repubblica di platone 119
ad A 13 Ùɘ ı˘Á·ÙÚe˜ ·éÙÔÜ XÚ˘ÛË›‰Ô˜ ÓfiÌÅ ÔϤÌÔ˘ ·å¯Ì·ÏˆÙÈÛı›Û˘).1 In altri casi
(forse più vicini a ciò che succede nella parafrasi platonica) il parafraste può fare un uso
sistematico di certe categorie interpretative applicandole su un’intera sezione del testo
omerico, al fine di indicare chiaramente la funzione di ognuno dei segmenti del brano
parafrasato. Un buon esempio è rappresentato dalla parafrasi del proemio dell’Iliade: es-
so veniva percepito senz’altro come una sezione particolare del testo omerico, caratte-
rizzata tanto da una certa struttura interna che la distingueva da altre parti del poema,
quanto da formulazioni non molto consuete.2 Queste sue caratteristiche hanno spinto
le parafrasi retoriche a riorganizzare il suo assetto testuale secondo una serie di catego-
rie logiche e narrative (tipiche, per alcuni aspetti, della scrittura storiografica e dell’ese-
gesi letteraria): per esempio, prima della prosicizzazione di A 1, si annuncia esplicita-
mente quel verso come ‘inizio’ e si indica precisamente il compito in cui il poeta chiede
l’aiuto della dea (Bodl. Inscr. ôÚÍÔÌ·È àe ÛÔÜ, t MÔÜÛ·, ÙÔÈ·‡Ù˘ â¯fiÌÂÓÔ˜ Ùɘ
ñÔı¤Ûˆ˜Ø ·éÙc ÔsÓ ÌÔÈ ·Ú›ÛÙ·ÛÔ ÎÙÏ.: si noti l’uso della categoria di ñfiıÂÛȘ); si usa
la categoria di ‘conseguenza’ per sintetizzare la frase relativa di A 2 ed esprimerne in
modo più diretto il contenuto (Aristid. Ùa Û˘Ì‚¿ÓÙ· à’·éÙɘ, Bodl. Inscr. Ùa˜ âÎ
Ù·‡Ù˘ Û˘Ì‚Â‚Ë΢›·˜ ÙÔÖ˜ ≠EÏÏËÛÈ Û˘ÌÊÔÚ¿˜); si annuncia la parte successiva al proe-
mio come esposizione della «causa» (Bodl. Inscr. rr. 22-26 Ùe ‰’·úÙÈÔÓ … ÂÈÚ¿ÛÔÌ·È Î·d
ÙÔÜÙÔ àÓ·‰È‰¿Í·È, Aristid. ad A 12 ·åÙ›·Ó ‰b ·éÙÔÜ ÁÂÓ¤Ûı·È Ù‹Ó‰Â).

4. 2.
La seconda parte della preghiera di Crise, quale viene prosicizzata nella parafrasi plato-
nica, ci aiuterà a vedere un ulteriore aspetto del legame fra quest’ultima e i filtri lingui-
stico-culturali attraverso cui è passato il testo omerico.
Innanzitutto, notiamo che nella succitata pericope della Retorica dello Ps.-Dionigi
ñÔÌÈÌÓ“ÛÎÂÈÓ indica proprio una frase caratterizzata dall’attacco Âú ÔÙÂ, che troviamo
anche nei nostri vv. 39-40: questo nesso compare più volte all’inizio della seconda parte
delle preghiere omeriche, introducendo spesso il ricordo dei propri meriti nei confronti
del dio. Quello della ‘memoria’, inoltre, è un lessema ed un concetto ricorrente anche
al di là della specifica formula Âú ÔÙÂ:3 in primo luogo, nelle preghiere omeriche (si veda
ÙáÓ ÌÓÉÛ·È di Il. xv 375). In età posteriore, il coro dei Sette a Tebe di Eschilo invoca l’aiuto

1 Cfr. anche Bodl. Inscr. rr. 46-48 ad A 20 àfi‰ÔÙ¤ ÌÔÈ ÙcÓ ÌÔÓÔÁÂÓÉ ı˘Á·Ù¤Ú· mÓ ì ÙÔÜ ÔϤÌÔ˘ … ·å¯Ì¿ÏˆÙÔÓ
ñÌÖÓ âΉ¤‰ˆÎÂÓ, dove Koenen suggerisce di integrare ‰›ÎË. Cfr. Parsons, art. cit., p. 138.
Per quanto riguarda la parafrasi platonica, si notino per esempio la costruzione prosastica del genitivo assoluto
Ù·ÜÙ· ‰b ÂåfiÓÙÔ˜ ·éÙÔÜ (che specifica l’öÓı· del v. 22: cfr. p. 111-112), così come la precisione denotativa dell’espres-
sione àÔ¯ˆÚ‹Û·˜ ‰b âÎ ÙÔÜ ÛÙÚ·ÙÔ¤‰Ô˘, specificazione dell’elemento generico à¿Ó¢ı del v. 35 (cfr. p. 111):
anche nelle parafrasi retoriche parole piuttosto generiche, per esempio ÏfiÁÔ˜ e ÌÜıÔ˜, vengono spesso sostituite
da glosse più precise e al tempo stesso marcatamente prosastiche (Mosch. ad A 25 â›Ù·ÁÌ· ‰b â¤Ù·ÙÙÂ, con
iterazione del lessema; Ven. A ad A 33 â›ÛıË Ù” ÚÔÛÙ¿ÍÂÈ ·éÙÔÜ). Cfr. anche p. 112 n. 1.
2 Si tratta, in effetti, di un’invocazione – non molto contestualizzata – ad un ente esterno alla narrazione (la
dea), seguita da un accumulo indifferenziato di frasi relative che hanno come soggetto ÌÉÓÈÓ, le quali descrivono
gli effetti dell’ira di Achille presentandoli come sue ‘azioni’ (l’ira ha portato molti mali, l’ira ha scagliato le anime
nell’Ade); infine, la domanda monostica di A 8 e la sua risposta (è la dea che parla?) possono provocare alcuni
problemi, così come il passaggio piuttosto immediato alla narrazione vera e propria (attraverso la frase causale di
A 11-12).
3 La seconda sezione della preghiera, non a caso, è stata denominata da Meyer hypomnesis, termine ripreso poi
da Miller e da altri studiosi: cfr. Andrew M. Miller, From Delos to Delphi: A Literary Study of the Homeric Hymn to
Apollo, Leiden, Brill, 1986, pp. 2ss.
120 massimiliano carloni
degli dèi ricordando i sacrifici compiuti in precedenza (179-80: ÊÈÏÔı‡ÙˆÓ ‰¤ ÙÔÈ fiÏÂÔ˜
çÚÁ›ˆÓ / ÌÓ‹ÛÙÔÚ˜ öÛÙ ÌÔÈ); in Lisia si trova (in riferimento alle guerre persiane) ÔÖ·È
‰’ Ôé¯ îÎÂÙÂÖ·È ıÂáÓ âÁ¤ÓÔÓÙÔ j ı˘ÛÈáÓ àÓ·ÌÓ‹ÛÂȘ (2.39), dove le suppliche vengono ac-
costate proprio alla pratica di ricordare agli dèi i sacrifici passati. Questo elemento ri-
corrente acquista ancora più concretezza se andiamo a considerare la frase che nella pa-
rafrasi segue i tre participi appena analizzati. Essa ricalca abbastanza da vicino la forma
delle proposizioni condizionali omeriche: si noti, in particolare, la presenza del nesso Âú
(ÙÈ) ÒÔÙÂ, il quale riprende l’omerico Âú ÔÙÂ (che – come abbiamo visto – è un ele-
mento identificativo non di secondo piano per questo tipo di preghiera). Tuttavia, le dif-
ferenze non sono minime: tralasciando per adesso altre caratteristiche di cui tratteremo
più avanti, vediamo che alla struttura omerica, che usa verbi concreti (39 âd … öÚ„·,
40 ηÙa … öÎË·) e complementi oggetti specifici, determinati ognuno da proprie quali-
ficazioni (39 ¯·Ú›ÂÓÙ’ … ÓËfiÓ, 40-1 ›ÔÓ· ÌËÚ›’… Ù·‡ÚˆÓ 䉒 ·åÁáÓ), corrisponde nella
parafrasi platonica un più generico verbo ‰ˆÚ‹Û·ÈÙÔ, il quale regge un complemento
oggetto costituito da un pronome indefinito con participio (ÙÈ … ί·ÚÈṲ̂ÓÔÓ). Ma
questa forma non è invenzione di Platone. Erodoto, in riferimento a Creso, scrive
âÈ‚ÒÛ·Ûı·È ÙeÓ \AfiÏψӷ âÈηÏÂfiÌÂÓÔÓ, Âú Ù› Ôî ί·ÚÈṲ̂ÓÔÓ âÍ ·éÙÔÜ â‰ˆÚ‹ıË,
·Ú·ÛÙÉÓ·È Î·d ®‡Û·Ûı·› ÌÈÓ âÎ ÙÔÜ ·ÚÂfiÓÙÔ˜ ηÎÔÜ (i 87). Platone, quindi, non solo
non avrebbe inventato questa formula dal niente, ma neppure il suo uso in discorso in-
diretto. Un’ulteriore occorrenza di questa formula si trova in Aristofane. Nella Pace (vv.
385 sgg.) il coro intona una preghiera a Hermes:
XO. Mˉ·Ìá˜, t ‰¤ÛÔı\ ^EÚÌÉ, Ìˉ·Ìá˜, Ìˉ·Ìá˜,
Âú ÙÈ Î¯·ÚÈṲ̂ÓÔÓ
¯ÔÈÚ›‰ÈÔÓ ÔrÛı· ·Ú\ â-
ÌÔÜ <ÁÂ> ηÙ‰ˉÔÎÒ˜, …

La vicinanza di questa formula ad Omero non sarebbe solo una nostra impressione. Ba-
sta consultare gli Scholia vetera al verso 386: Âú ÙÈ Î¯·ÚÈṲ̂ÓÔÓ: ·Úa Ùe ïÌËÚÈÎeÓ Âú ÔÙ¤
ÙÔÈ ¯·Ú›ÂÓÙ’ âd ÓËeÓ öÚ„·.
La questione potrebbe coinvolgere anche i filtri culturali e le pratiche religiose della
vita reale. È vero che, per certi versi, potremmo considerare questi contatti fra l’Âú ÔÙÂ
omerico e la formula usata dagli autori posteriori come collegamenti ad un livello
letterario: d’altronde, le modalità letterarie e intertestuali che sono spesso legate alle
parodie di Aristofane andrebbero a favore di un’interpretazione del genere. Tuttavia, le
cose sono forse più complesse. La coincidenza fra Erodoto, Aristofane e Platone è diffi-
cilmente interpretabile in un senso strettamente letterario; inoltre, la coincidenza con-
tenutistica con altri passi che attestano la pratica del ricordo dei sacrifici passati sembra
provare che la formula Âú ÙÈ (…) ί·ÚÈṲ̂ÓÔÓ fosse qualcosa di cui i tre autori citati
avevano una certa esperienza concreta. La preghiera, nella religione greca, era stretta-
mente legata alla relazione di ‘reciprocità’ che si veniva a creare fra uomo e divinità:1 la
formula Âú ÙÈ (…) ί·ÚÈṲ̂ÓÔÓ rappresentava il corrispettivo moderno dell’Âú ÔÙÂ
omerico.
In ogni caso, Platone non si ferma ad una semplice ripresa letterale. La tensione sti-
listica cui egli sottopone questa formula è abbastanza evidente: Platone segue sempre

1 Su questo aspetto della relazione uomo-divinità e sulle sue manifestazioni nella forma della preghiera, cfr. Si-
mon Pulleyn, Prayer in Greek Religion, Oxford, Clarendon, 1997, pp. 16-38
una parafrasi di omero nella repubblica di platone 121
lo stile simmetrico e chiaro che aveva usato precedentemente. Il nesso Âú ÙÈ … ί·ÚÈ-
Ṳ̂ÓÔÓ ‰ˆÚ‹Û·ÈÙÔ, come abbiamo detto, consente di accomunare sotto un unico ogget-
to i due oggetti omerici; Platone, poi, va oltre, e per mantenere parte delle indicazioni
omeriche ‘apre’ il nesso Âú ÙÈ ÒÔÙ … ί·ÚÈṲ̂ÓÔÓ in un ampio iperbato, che rac-
chiude due complementi paralleli (entrambi introdotti dalla disgiuntiva õ) di struttura
âÓ + genitivo + dativo. Con questa resa, Platone va incontro sia alla tendenza della prosa
all’unità sintattica (non abbiamo più due oggetti indipendenti, ma due determinazioni
parallele del singolo oggetto ÙÈ) sia alla tendenza alla nominalizzazione e alla generaliz-
zazione. Le espressioni âÓ Ó·áÓ ÔåÎÔ‰ÔÌ‹ÛÂÛÈÓ e âÓ îÂÚáÓ ı˘Û›·È˜, infatti, concettualiz-
zano l’originale omerico sfruttando nomi astratti come ÔåÎÔ‰fiÌËÛȘ e ı˘Û›· (qui con
valore pienamente verbale, nel senso di ‘atto (ripetuto) del sacrificare’, mentre l’offerta
concreta viene indicata dal genitivo îÂÚáÓ); tutti i sostantivi, oltretutto, sono al plurale.1
Sembra oscillare fra langue religiosa e parole platonica, invece, l’uso del nesso zÓ ‰c
¯¿ÚÈÓ, che connette la proposizione Âú ÙÈ ÒÔÙ … alla richiesta finale espressa da
ηÙˇ¯ÂÙÔ. Un confronto col corpus platonico ci rivela che potrebbe trattarsi di una tes-
sera stilistica tipica dello stile più tardo ed aulico: esso compare – nella stessa precisa for-
ma – altre tre volte nelle Leggi (776a, 853d, 935b); l’uso di ¯¿ÚÈÓ come preposizione, inol-
tre, è generalmente diffuso in quel dialogo. Ci si può chiedere, d’altra parte, se qui si
tratti solo di una questione di necessità grammaticale o di stile platonico: non è del tutto
escluso che Platone sia stato influenzato, nella scelta di questo nesso, da un certo lin-
guaggio tipico delle preghiere o di altre forme di comunicazione verbale con gli dèi. Il
termine ¯¿ÚȘ e le parole con radice ¯·Ú-, in effetti, sono particolarmente frequenti e
importanti nelle preghiere greche, concordemente all’idea di reciprocità che ne è alla
base;2 per quanto riguarda il preciso nesso che stiamo esaminando, benché risulti diffi-
cile trovare un valore semantico forte in un ¯¿ÚÈÓ grammaticalizzato come preposizio-
ne, formule simili – che segnalano il passaggio fra la descrizione dei doni e la richiesta
finale – si trovano diffusamente in testimonianze più tarde (per esempio, gli epigrammi
votivi del vi libro dell’Antologia Palatina: cfr. vi 188 Leon. v. 3 ‰ÒÚˆÓ ¯¿ÚÈÓ).3

5. Transmodalizzazione e prosicizzazione
L’esempio della preghiera di Crise ci ha mostrato come Platone possa sfruttare le po-
tenzialità della sua lingua prosastica (dalla precisione terminologica alla concettualizza-

1 Fatto che stupisce ancora di più per ÔåÎÔ‰fiÌËÛȘ. Quest’ultimo termine è caratteristico degli stili che tendono
maggiormente all’uso degli astratti: non a caso, dopo le prime occorrenze in Tucidide e in Platone, esso ha una
grande fortuna con Aristotele. L’uso al plurale che troviamo qui, però, è particolarmente raro: gli altri casi di
ÔåÎÔ‰ÔÌ‹ÛÂȘ in Platone riguardano il suo uso come sinonimo di ÔåÎÔ‰ÔÌ‹Ì·Ù·, cioè col significato ben meno
astratto di ‘edifici’ (risultato concreto dell’azione del costruire).
Si noti che anche nelle parafrasi retoriche successive l’uso di espressioni specificamente prosastiche può con-
tribuire a creare un certo distacco nei confronti della concretezza espressiva omerica: si veda Bodl. Inscr. rr. 8-10
ad A 4-5 œÛÙ ηd ‰Èa Ùe ÏÉıÔ˜ ÙáÓ àÔÏÏ˘Ì¤ÓˆÓ àÓ·ÈÚÂÖÛı·È â’ âÓ›ˆÓ Ùɘ Ù·Êɘ ÙeÓ ÓfiÌÔÓ, che defigura il testo
omerico eliminando l’immagine dei cani e degli uccelli che sbranano i cadaveri (qui potrebbe trattarsi, fra l’altro,
di una censura dovuta alla circolazione della parafrasi in ambiente scolastico: cfr. Parsons, art. cit., p. 140).
2 Cfr. Robert Parker, Pleasing Thighs: Reciprocity in Greek Religion in Reciprocity in Ancient Greece, edited by
Christopher Gill, Norman Postlethwaite, Richard Seaford, Oxford, Oxford University Press, 1998, pp. 105-125.
3 Cfr. André-Jean Festugière, \AÓı’zÓ. La formule «en échange de quoi» dans la prière grecque hellénistique,
«RSPT», 60, 1976, pp. 389-418. Non è un caso che la parafrasi ps.-aristidea – benché prosicizzi la preghiera di Crise
senza far ricorso al discorso indiretto – sembri rifunzionalizzare il platonico zÓ ‰c ¯¿ÚÈÓ proprio come una formula
di passaggio fra seconda e terza parte della preghiera (àÓÙ’ âΛӈÓ).
122 massimiliano carloni
zione) per venire incontro alle necessità determinate dalla conversione in discorso indi-
retto: in questo modo transmodalizzazione e prosicizzazione interagiscono strettamen-
te nella creazione di un certo risultato formale. Più in generale, per interpretare corret-
tamente questa parafrasi non si possono ignorare – come già detto – i problemi
riguardanti il rapporto fra le due trasformazioni testuali attuate: è necessario compren-
dere i limiti entro cui sono operanti autonomamente e i modi in cui una influenza
l’altra.
Tralasciando i più o meno ovvii aggiustamenti grammaticali che la conversione in di-
scorso indiretto porta con sé, ricordiamo che – come abbiamo detto all’inizio di questo
lavoro1 – l’effetto più evidente della transmodalizzazione nella nostra parafrasi consiste
in una maggiore vicinanza al testo omerico in corrispondenza dei discorsi. Questa fe-
deltà all’ipotesto può coinvolgere più livelli: alcuni dei mantenimenti più evidenti ri-
guardano l’ordo verborum omerico. La maggior parte del primo discorso di Crise e la pro-
sicizzazione del v. 42 sono buoni esempi di questo procedere quasi verbum de verbo: fra
le parole dell’ipotesto e dell’ipertesto c’è una stretta corrispondenza, tanto che anche
l’irregolarità del testo omerico (che contrappone ñÌÖÓ Ì¤Ó di A 18 a ·Ö‰· ‰¤ di A 20,
laddove ci aspetteremmo, invece, un’opposizione ñÌÖÓ Ì¤Ó e âÌÔd ‰¤) rimane nella para-
frasi platonica (âΛÓÔȘ ÌbÓ … ÙcÓ ‰¤).2 Nell’ambito lessicale, invece, la fedeltà all’ipote-
sto si manifesta attraverso la conservazione di alcune parole omeriche che non possono
dirsi propriamente prosastiche. Un caso emblematico di questa intrusione del linguag-
gio poetico si verifica, per esempio, nella prosicizzazione del v. 20, dove viene mante-
nuto il termine ôÔÈÓ·: poco prima di questa parafrasi, invece, Socrate aveva citato il
contenuto del v. 13 parafrasando proprio ôÔÈÓ· con χÙÚ· (393d3; scelta lessicale coin-
cidente, fra l’altro, con le Worterklärungen date dalla tradizione glossografica: PAchm
2, 30; Sch. D ad A 13). Questa tendenza a riprodurre alcuni tratti del testo omerico, però,
non è tale da neutralizzare completamente il ruolo della prosicizzazione. Anche all’in-
terno dei discorsi è possibile individuare più punti in cui la prosicizzazione opera piena-
mente, senza particolari limitazioni dovute alla transmodalizzazione: anastrofi come
Û·ÒÙÂÚÔ˜ œ˜ ΠÎÙÏ. (v. 32) o parole poetiche come ¯Ú·›ÛÌ– (v. 28), per esempio, non
trovano posto nella parafrasi platonica. In generale, possiamo affermare che i principali
fenomeni testuali legati alla prosicizzazione coinvolgono senza sostanziali differenze
tanto la parte narrativa quanto i discorsi. Questa constatazione, però, ci spinge d’altra
parte ad esaminare più attentamente i punti in cui la prosicizzazione viene ‘ostacolata’
dalla transmodalizzazione, al fine di comprendere secondo quali criteri specifici si con-
figuri la fedeltà all’ipotesto. Perché certi elementi omerici vengono mantenuti, mentre
altri sono oggetto di regolare prosicizzazione?
La risposta può venire proprio dal particolare rapporto che si viene a creare fra pro-
sicizzazione e transmodalizzazione. Queste due, infatti, non sono solo trasformazioni
concorrenti, bensì possono anche trovarsi a cooperare nella determinazione di certi ri-
sultati formali: il loro rapporto è – per così dire – di collaborazione. Ciò risulta evidente
dalla considerazione dei casi in cui Platone mantiene alcuni elementi di lessico omerico.
I limiti entro cui egli può mantenere parole poetiche dell’ipotesto, infatti, sono definiti

1 Cfr. p. 102.
2 Interessante notare che, al contrario di Platone, altre parafrasi ‘correggono’ Omero: Mosch. ñÌÖÓ ÌbÓ ÂúıÂ
‰ÔÖÂÓ Ôî ıÂÔd … âÌÔd ‰b ÙcÓ ·Ö‰· ÙcÓ Ê›ÏËÓ Ï‡Û·ÙÂ; Aristid. Û˘Ó¢¯fiÌÂÓÔÓ âΛÓÔȘ ÌbÓ ëÏÂÖÓ ÙcÓ TÚÔ›·Ó… ·ñÙ† ‰b
ñ¿ÚÍ·È Ï‡Û·Ûı·È ÙcÓ ÎfiÚËÓ.
una parafrasi di omero nella repubblica di platone 123
dalle possibilità linguistico-stilistiche della prosa: può trovare posto nella parafrasi solo
ciò che, oltre ad essere utile alla transmodalizzazione, è anche ‘compatibile’ con la lin-
gua prosastica. Il filtro della prosa, in ultima analisi, è sempre presente; certo non biso-
gna dimenticare che in questo caso abbiamo a che fare con una lingua prosastica piut-
tosto alta, capace di integrare con facilità elementi poetici (come è tipico di certo stile
platonico). Anzi questa parafrasi rappresenta per noi un indicatore delle ampie poten-
zialità della lingua prosastica platonica e, al tempo stesso, delle sue limitazioni e dei suoi
confini, che la tengono sempre lontana dalla lingua poetica: grazie al fatto che questo
testo si appoggia ad un ipotesto, noi possiamo avere un’idea delle concrete opzioni sti-
listiche davanti alle quali si è trovato Platone.
Un confronto con le altre opere platoniche ci rivela che ognuna delle parole omeriche
mantenute nella parafrasi ha almeno un’ulteriore occorrenza nel corpus. Si pensi, per
esempio, al verbo Ù›Óˆ (v. 42), che compare più volte nelle Leggi, oltre che in altre opere;1
similmente, il termine ôÔÈÓ· presenta un’ulteriore occorrenza (benché col significato
di ‘ricompensa’, non di ‘riscatto’) sempre nelle Leggi, mentre ÛÙ¤ÌÌ·Ù· (v. 28) compare
nel contesto del mito di Er, come addobbo delle Moire, accanto ad un verbo composto
di tono decisamente elevato (617c2-3 Ï¢¯ÂÈÌÔÓÔ‡Û·˜, ÛÙ¤ÌÌ·Ù· âd ÙáÓ ÎÂÊ·ÏáÓ
â¯Ô‡Û·˜).2 Per quanto riguarda ÛÎÉÙÚÔÓ (v. 28) – parola diffusa in epica e tragedia ma
piuttosto rara in prosa – un confronto col corpus platonico ce ne chiarisce la natura di
poetismo non totalmente gratuito, non opponibile ad una più semplice alternativa pro-
sastica. Platone usa ÛÎÉÙÚÔÓ alla fine del Gorgia (526d1), in un contesto – la descrizione
dell’aldilà – caratterizzato da tema e stile piuttosto elevati e omerizzanti: e non a caso
è inclusa in d2 una citazione omerica (Ï 569), sempre con ÛÎÉÙÚÔÓ, cui si ricollega l’uso
platonico del termine. Esso viene usato specificamente per Minosse, il quale ÌfiÓÔ˜
avrebbe uno ÛÎÉÙÚÔÓ, in opposizione alla semplice ®¿‚‰Ô˜ di Radamanto ed Eaco.
Inoltre, anche Tucidide usa ÛÎÉÙÚÔÓ: una volta sola, e non a caso in riferimento ai per-
sonaggi omerici (1.9.4 ηd âÓ ÙÔÜ Û΋ÙÚÔ˘ ±Ì· Ù” ·Ú·‰fiÛÂÈ ÂúÚËÎÂÓ ·éÙeÓ ÔÏÏ”ÛÈ
Ó‹ÛÔÈÛÈ Î·d òAÚÁÂ˚ ·ÓÙd àÓ¿ÛÛÂÈÓ). Da questi passi possiamo comprendere la duplice
funzione di ÛÎÉÙÚÔÓ nella parafrasi platonica: da una parte, la designazione denotativa
di un oggetto che, nella sua funzione simbolica e rappresentativa, non compariva molto
spesso nella letteratura prosastica greca; dall’altra, la forte carica connotativa che que-
sto termine doveva avere per Platone e per la comunità linguistica del tempo: esso rap-
presentava un collegamento immediato, un richiamo verbale alla materia dell’epica.
Queste corrispondenze, inoltre, potrebbero illuminare ulteriormente i mantenimen-
ti lessicali della nostra parafrasi. Come abbiamo visto, le altre occorrenze delle parole
omeriche esaminate fungono da elementi identificativi di stile elevato, e non è invero-
simile che anche nella nostra parafrasi questi termini, benché si configurino come man-
tenimenti del testo omerico (in qualche modo legati alla transmodalizzazione), siano
frutto anche di una più generica volontà di innalzamento stilistico, non diversamente
da ciò che succede in numerosi altri brani del corpus platonico. È vero che tutti questi

1 Anche con la sua costruzione meno comune, cioè con accusativo della cosa per cui bisogna pagare: cfr. Leg.
viii 843e ÙÈÓ¤Ùˆ ÙcÓ ‚Ï¿‚ËÓ.
2 Si noti, fra l’altro, che Platone non conserva meccanicamente il singolare ÛÙ¤ÌÌ· del v. 28, il cui uso è raris-
simo e probabilmente determinato da ragioni metriche, bensì utilizza il più diffuso plurale ÛÙ¤ÌÌ·Ù·. Il termine
ÛÙ¤ÌÌ·Ù· doveva avere una forte connotazione religiosa, e anche Tucidide ne presenta un’occorrenza in iv 133:
ηd ï ÓÂg˜ Ùɘ ≠HÚ·˜ ÙÔÜ ·éÙÔÜ ı¤ÚÔ˘˜ âÓ òAÚÁÂÈ Î·ÙÂη‡ıË, XÚ˘Û›‰Ô˜ Ùɘ îÂÚ›·˜ χ¯ÓÔÓ ÙÈÓa ı›Û˘ ìÌ̤ÓÔÓ Úe˜
Ùa ÛÙ¤ÌÌ·Ù· ÎÙÏ.
124 massimiliano carloni
mantenimenti si trovano nei discorsi, ed è altrettanto vero che un uso raro come quello
dell’aggettivo ± con significato riflessivo è probabilmente funzionale a mantenere una
più precisa corrispondenza col testo omerico:1 tuttavia, la parafrasi platonica non è
priva di una certa raffinatezza stilistica anche nelle sezioni che prosicizzano le parti nar-
rative del testo omerico. Inoltre, bisogna ricordare che questi mantenimenti lessicali
coinvolgono parole del vocabolario tematico del brano, non semplici componenti del vo-
cabolario stilistico: sono, cioè, assi portanti da un punto di vista contenutistico.2 In effet-
ti, anche le parafrasi successive ci testimoniano la tendenza a mantenere alcuni elementi
del vocabolario tematico del testo omerico: queste parole, infatti, rappresentano degli
‘appigli’ all’ipotesto che identificano la parafrasi come retorica, come prodotto non me-
ramente epesegetico, bensì concorrente – per certi versi – col testo omerico stesso.3
Nell’ottica di questo legame fra le due trasformazioni testuali, d’altra parte, si potreb-
bero considerare ulteriori elementi formali. Anche in altri casi, infatti, ricondurre un de-
terminato fenomeno testuale esclusivamente ad una sola delle due trasformazioni po-
trebbe non essere la via migliore per comprendere lo statuto ipertestuale di questa
parafrasi: gli effetti formali delle due trasformazioni, infatti, possono essere talvolta
molto simili, e non è escluso che in alcuni punti arrivino a sovrapporsi e a coincidere.
Nella valutazione di questo aspetto della parafrasi platonica un buon esempio è rappre-
sentato dal discorso di Agamennone (vv. 26-32). L’intervento più evidente operato su
questo discorso coinvolge i suoi ultimi versi: Platone riduce i vv. 30-31 in una semplice
coppia di complementi (âÓ òAÚÁÂÈ … ÌÂÙa Ôy). La differenza fra ipotesto e ipertesto è
grande. Da una parte, una visualizzazione icastica e brutale del destino della figlia di
Crise: la lontananza dalla patria, il lavoro al telaio, il servizio sessuale. Dall’altra, due
espressioni strettamente denotative, che indicano l’elemento essenziale della lunga de-
scrizione omerica. Potremmo categorizzare questa ñÔÙ‡ˆÛȘ omerica come elemen-
to di stile poetico, ridondante, ornamentale, non funzionale, e conseguentemente ri-
condurre l’intervento platonico all’effetto della prosicizzazione. Ciononostante, non si
può ignorare il ruolo giocato da questi versi nel rendere evidenti la violenza e la reazio-
ne inappropriata di Agamennone attraverso le sue stesse parole. La forte riduzione di
questo segmento del testo omerico, quindi, potrebbe essere ricondotta alla transmoda-
lizzazione – la principale trasformazione attuata sull’ipotesto – piuttosto che alla prosi-
cizzazione. Fino ad adesso, d’altronde, abbiamo trattato della conversione da ‰È‹ÁËÛȘ

1 Così James Adam, The Republic of Plato, Cambridge, Cambridge University Press, 1902 ad loc.: «Plato chooses
the word because it expresses Homer’s âÌ¿ briefly and neatly, rather than from any conscious desire to make the
paraphrase archaic». Si noti, comunque, che nella trattazione di tessere di stile elevato integrate nella lingua della
prosa, la categoria di ‘arcaico’ non è sempre la più adatta, e forse è preferibile ricorrere alla categoria più generica
di ‘poetico’: qui non si tratta della percezione di una lontananza diacronica, bensì della percezione di un’opposi-
zione di registro fra poesia e prosa.
2 In un’ottica di minore o maggiore rilevanza, non sembra essere un caso che l’intero verso 42 venga prosiciz-
zato in modo molto fedele all’ipotesto. Sicuramente questo verso doveva avere agli occhi di Platone un certo im-
patto, da un punto di vista sia tematico sia stilistico: esso – da solo – esprime la richiesta di Crise dopo la lunga pre-
messa dei cinque versi precedenti («particularly terse» lo definisce, per la sua struttura tripartita, Pulleyn ad loc.).
Si tratta, fra l’altro, dell’unico caso nell’Iliade in cui la richiesta viene formulata in un singolo verso (se si eccettua
la preghiera monostica di Il. xxiii 770): cfr. Homers Ilias: Gesamtkommentar, a cura di Joachim Latacz, René Nünlist,
Magdalene Stoevesandt, t. i.1, fasc. 2, München, Saur, 2000, ad loc.
3 Si veda, per esempio, la parafrasi moscopulea, che nel brano A 1-44 mantiene ÌÉÓÈÓ, ìÚÒˆÓ, ÛÙ¤ÌÌ·Ù· e
ôÔÈÓ· (in due delle tre occorrenze omeriche): tali parole poetiche vengono quasi sempre sostituite con equiva-
lenti prosastici dalla rielaborazione di Teodoro Gaza, che si propone di comporre una parafrasi dallo scopo più
strettamente didattico.
una parafrasi di omero nella repubblica di platone 125
‰Èa ÌÈÌ‹Ûˆ˜ a êÏÉ ‰È‹ÁËÛȘ nei termini di ‘discorso diretto’ e ‘discorso indiretto’, dal
momento che ci siamo occupati soprattutto degli aspetti più strettamente grammaticali
di questa trasformazione: cambiamenti di riferimenti spazio-temporali, collegamenti
fra verba dicendi e discorsi. Tuttavia, la transmodalizzazione può influire su aspetti più
sostanziali dei discorsi, e non solo nell’ottica di una neutralizzazione della prosicizza-
zione (come abbiamo appena visto trattando dei mantenimenti di certo lessico omerico
nella parafrasi). L’opposizione fra Ì›ÌËÛȘ (che riproduce le precise parole dei discorsi) e
‰È‹ÁËÛȘ (che rappresenta, che si distacca e filtra attraverso un certo schema linguistico
eventi e discorsi) è ben più di una mera distinzione grammaticale fra ‘discorso diretto’
e ‘discorso indiretto’. La ‰È‹ÁËÛȘ portata all’estremo non è solo ‘discorso indiretto’:
essa può addirittura non essere nemmeno ‘discorso’, ma soltanto ‘indicazione’ di di-
scorso, interpretazione di un’enunciato altrui.1 Non può sorprendere, dunque, che la
transmodalizzazione possa coinvolgere in modo anche marcato l’aspetto contenutisti-
co di un discorso, e non solamente le sue caratteristiche più superficialmente formali.
Tutto ciò si accorda, inoltre, con il contesto sostanzialmente etico e formativo all’inter-
no del quale Socrate conduce la discussione sulla poesia del terzo libro della Repubblica:
il rifiuto di certa Ì›ÌËÛȘ è funzionale ad evitare che ôÓ‰Ú˜ àÁ·ıÔd si trovino a pronun-
ciare parole come quelle di Agamennone, assolutamente non degne di loro.
Alla forte riduzione dei vv. 30-31 si accompagnano anche altri cambiamenti minori che
attenuano i tratti fortemente mimetici del discorso di Agamennone. In particolare, al v.
29 Platone converte la forma paratattica del testo omerico (ÙcÓ ‰’ âÁg Ôé Ï‡ÛˆØ Ú›Ó ÌÈÓ
ÎÙÏ.) in una struttura ipotattica: ÚdÓ ‰b Ï˘ıÉÓ·È ·éÙÔÜ ÙcÓ ı˘Á·Ù¤Ú·, âÓ òAÚÁÂÈ öÊË
ÁËÚ¿ÛÂÈÓ ÎÙÏ., dove l’originale avverbio Ú›Ó è stato adattato a congiunzione. A questa
subordinazione si affianca anche il passaggio (già descritto nelle pagine precedenti) da
ηd ÁÉÚ·˜ öÂÈÛÈÓ a ÁËÚ¿ÛÂÈÓ: cambiamento che, oltre ad attenuare l’espressività
dell’originale, permette di riferire sia il verbo della proposizione temporale (Ï˘ıÉÓ·È)
che quello della reggente (ÁËÚ¿ÛÂÈÓ, appunto) allo stesso soggetto (ÙcÓ ı˘Á·Ù¤Ú·). Con
questa generale trasformazione la coesione del periodo risulta alquanto aumentata, e
l’effetto prodotto dal ritmo spezzato del v. 29 viene praticamente neutralizzato.2
Ci si può chiedere, quindi, se questi interventi siano da ricondurre alla prosicizzazione
o piuttosto alla transmodalizzazione. Si può osservare, per esempio, che qualche tratto
violento del discorso di Agamennone rimane anche nella parafrasi (le minacce contenu-
te nei vv. 28 e 32b); dall’altra parte, il discorso di Agamennone presenta comunque più
cambiamenti quantitativi e sintattici rispetto a quello precedente (e, per alcuni aspetti,
anche rispetto alla preghiera di Crise, in cui i cambiamenti sono perlopiù imposti dalle
necessità grammaticali della transmodalizzazione). Forse il vero problema non è cercare
una distinzione netta fra transmodalizzazione e prosicizzazione, bensì individuare le lo-

1 La differenza fra i versi 26-27 del testo omerico (Ì‹ Û Á¤ÚÔÓ ÎԛϖÛÈÓ âÁg ·Úa ÓˢÛd Îȯ›ˆ / j ÓÜÓ ‰Ëı‡ÓÔÓÙ’
j ≈ÛÙÂÚÔÓ ·sÙȘ åfiÓÙ·) e la prosicizzazione platonica (ÓÜÓ Ù àÈ¤Ó·È Î·d ·sıȘ Ìc âÏıÂÖÓ) può rappresentare un esem-
pio, anche se non perfetto, di questa più forte opposizione fra Ì›ÌËÛȘ che riproduce e ‰È‹ÁËÛȘ che interpreta: benché
la parafrasi platonica si sforzi comunque di mantenere alcuni tratti formali dell’originale omerico (si veda, in par-
ticolare, la conservazione di ÓÜÓ e ·sıȘ), l’enunciato platonico (che esprime l’ordine di Agamennone in modo chia-
ro e immediato, conservandone e riportandone il nucleo semantico principale) è ben di più di una conversione in
forma indiretta dell’enunciato omerico (che ricorre ad una formulazione piuttosto complicata, in cui l’identifica-
zione dell’effettivo ‘ordine’ pronunciato da Agamennone è lasciata alle inferenze del fruitore). Si potrebbe parlare,
d’altra parte, del passaggio da Ì›ÌËÛȘ a ‰È‹ÁËÛȘ nei termini di ‘semplificazione’ del testo omerico: aspetto che ac-
comunerebbe per certi versi la prosicizzazione e la transmodalizzazione, come ribadiremo più avanti.
2 Cfr. Sch. bT ad v. 29c: ÔÏÏa˜ ÂÚÈÎÔa˜ ö¯ÂÈ ï ÏfiÁÔ˜, Ùe ı˘ÌÈÎeÓ âÌÊ·›ÓˆÓ.
126 massimiliano carloni
ro intersezioni. Nella concretezza della produzione letteraria, e in particolare nell’epica
omerica, Ì›ÌËÛȘ e poesia erano aspetti strettamente connessi: la natura stessa del testo
omerico non ci permette di separarli del tutto. La poesia omerica spesso si faceva
Ì›ÌËÛȘ, e proprio su questa fondava molta della sua capacità di coinvolgimento;1 d’altra
parte, la Ì›ÌËÛȘ sfruttava le potenzialità formali dello stile poetico per esplicarsi com-
piutamente: il discorso di Agamennone è un ottimo esempio proprio di questa coinci-
denza fra caratterizzazione esasperata del personaggio e amplificazione stilistica.
Il legame fra transmodalizzazione e prosicizzazione, inoltre, potrebbe andare anche
oltre questi aspetti. Certo esse rimangono sempre trasformazioni separate: vengono an-
nunciate da Socrate individualmente, e individualmente possiamo esaminarle noi per
mezzo dell’analisi linguistica. Tuttavia ci si può chiedere, per esempio, se la maggiore
coesione del testo assicurata dalla prosicizzazione non sia utile anche al processo di
transmodalizzazione: il discorso indiretto, per quanto possa essere libero, ha comunque
una libertà sintattica minore rispetto al discorso diretto. La maggiore compattezza for-
nita dallo stile prosastico permette di evitare troppi stacchi sintattici fra le frasi che di-
pendono dai verba dicendi: un discorso indiretto sintatticamente meno spezzato permet-
te di collegare più facilmente il suo contenuto ad un unico verbo reggente.2 D’altra
parte, si può pensare al passaggio da Ì›ÌËÛȘ a ‰È‹ÁËÛȘ come ad una ‘semplificazione’
del testo omerico, non diversamente da quello che è il risultato formale della prosiciz-
zazione. Oltre alla parafrasi dei vv. 30-31, si consideri come Platone, rendendo in prosa
e in discorso indiretto i vv. 26-27, elimini la complessità dell’inizio del discorso di Aga-
mennone. La formulazione piuttosto indiretta dell’originale omerico (in cui Agamen-
none connota sprezzantemente l’azione di Crise come un «perdere tempo») lascia il po-
sto a due verbi di moto perfettamente simmetrici (‘andare via’ e ‘venire di nuovo’: ÓÜÓ
Ù àÈ¤Ó·È Î·d ·sıȘ Ìc âÏıÂÖÓ). La formulazione platonica è in sostanza la ripetizione
di ciò che troviamo alla fine del discorso di Agamennone (v. 32 àÏÏ’ úıÈ Ì‹ Ì’ âÚ¤ıÈ˙Â):
si crea cioè una sostanziale corrispondenza fra inizio e fine del discorso, anche con una
certa somiglianza formale (âÓÙÂÏÏfiÌÂÓÔ˜ ÓÜÓ Ù àÈ¤Ó·È Î·d ·sıȘ Ìc âÏıÂÖÓ … àȤӷÈ
‰’ âΤÏ¢ÂÓ Î·d Ìc âÚÂı›˙ÂÈÓ: difficile comunque pensare ad una cosciente Ringkomposi-
tion). Il risultato finale consiste in un appianamento della variatio e dell’ornamentazione
omerica, a favore di espressioni più strettamente denotative e univoche.3

1 Si pensi, ovviamente, alla figura del rapsodo-attore quale è presentata nello Ione.
2 Si pensi alla prosicizzazione del primo discorso di Crise: l’uso delle strutture participio – verbo finito ëÏfiÓÙ·˜
ÙcÓ TÚÔ›·Ó ·éÙÔf˜ ÛˆıÉÓ·È e ÙcÓ ‰b ı˘Á·Ù¤Ú· Ôî ÏÜÛ·È ‰Âͷ̤ÓÔ˘˜ ôÔÈÓ· sostituiscono l’accostamento di frasi
coordinate con ‰¤. In questo modo, l’unica coordinazione sintattica che si viene a creare nel discorso indiretto è
quella – giustificabile – fra i membri della correlazione Ì¤Ó (A 18) e ‰¤ (A 20). D’altra parte, abbiamo visto, con la
prosicizzazione del v. 29, come simili subordinazioni siano funzionali anche all’annullamento degli effetti formali
dovuti al discorso diretto.
3 Sulla prosicizzazione dei vv. 26-27 cfr. anche p. 125 n. 1. L’aumento del livello di ripetizione verbale può essere
visto come il risultato formale di un ipertesto che si pone con un certo distacco nei confronti della materia del suo
ipotesto: il discorso critico, per esempio, in quanto trattamento metatestuale di un altro testo, può farsi anche
estremamente denotativo, e di conseguenza ripetitivo.
Proprio da interventi del genere si può capire la distanza fra Platone e il suo ‘imitatore’ ps.-aristideo. Il primo,
infatti, tende a risolvere il problema sintattico creato dal collegamento fra verbum dicendi e discorso indiretto sot-
toponendo il testo a quel processo di ‘semplificazione’ che troviamo anche nelle parti che parafrasano i segmenti
narrativi del testo omerico. Si veda, per contrasto, la scelta dello Ps.-Aristide: nella sua parafrasi, dove l’incontro
fra transmodalizzazione e prosicizzazione si configura in maniera diversa (e forse meno unitaria) che in Platone,
la parafrasi di questi versi si concretizza in un piccolo tour de force sintattico finalizzato al mantenimento quasi pe-
dissequo della struttura omerica: Aristid. ad A 25-28 ηd ÚÔÛË›ÏÂÈ Âå Ï‹„ÔÈÙÔ ·éÙeÓ j ÓÜÓ âӉȷÙÚ›‚ÔÓÙ· j ·sıȘ
ÙáÓ ·éÙáÓ ≤ÓÂη ≥ÎÔÓÙ·, ó˜ ÔéÎ â·ÚΤÛÔ˘Û·Ó ÙcÓ îÎÂÙËÚ›·Ó ·éÙ† ÎÙÏ.
una parafrasi di omero nella repubblica di platone 127
Queste annotazioni possono portarci a riflessioni più ampie sul rapporto fra transmo-
dalizzazione e prosicizzazione, e in particolare ad alcune considerazioni sulla rilevanza
e la funzionalità della prosicizzazione in questa parafrasi. Come abbiamo potuto vedere
dalla nostra analisi, la prosicizzazione che viene attuata nella parafrasi platonica rivela
un certo spessore teorico. Essa non si limita ovviamente ad un mero scioglimento del
verso: la destilizzazione della lingua poetica giunge in profondità, andando a colpire
sistematicamente anche i minimi elementi dello stile omerico; e non mancano occasio-
ni in cui Platone cerca di sovrapporre al testo omerico tratti stilistici marcatamente
prosastici.
Può essere difficile cercare una rilevanza teorica della prosicizzazione oltre questi
aspetti interni alla parafrasi. Certo l’opposizione poesia-prosa viene considerata, da un
punto di vista più generale e teorico, in altri passi dei dialoghi platonici;1 per il nostro
specifico caso, è tuttavia difficile dare un pieno ruolo argomentativo alla prosicizzazione
nel contesto più ampio della Repubblica. Non possiamo istituire un collegamento fra
questa parafrasi e il passo succitato di Resp. x,2 come se il nostro brano rappresentasse
la prolessi di un problema che Platone riprenderà più avanti: anche qualora si tralascino
le difficoltà che Resp. x presenta dal punto di vista del suo inserimento nell’opera intera,
è innegabile che il tema principale della trattazione dell’ultimo libro è quello della Ì›ÌË-
ÛȘ in senso ontologico, e l’attenzione data agli aspetti più concreti della produzione
poetica va via via diminuendo. Tuttavia, resta senza dubbio rilevante che la transmoda-
lizzazione si accompagni, in questa rielaborazione omerica, ad una così profonda pro-
sicizzazione: tanto più che questo è l’unico caso nella trattazione sulla poesia in cui So-
crate passa dall’indicare i Ù‡Ô˘˜3 al prodigarsi in qualcosa di più concreto. Le due
trasformazioni testuali attuate e gli ambiti in cui esse agiscono sono – come abbiamo
visto – in qualche modo legati. La prosicizzazione non è solo una semplice trasforma-
zione ‘di comodo’. Il fatto stesso che Platone presenti un brano omerico nel suo stile (o
almeno nello stile della prosa), filtrando anche le parole dei discorsi omerici attraverso
movenze tipiche di un’altra forma di espressione, sottolinea la presa di distanza dal testo
omerico e contribuisce all’appianamento degli elementi più superficialmente affasci-
nanti del testo omerico. La prosicizzazione, eliminando lo stile poetico, e la transmo-
dalizzazione, eliminando la Ì›ÌËÛȘ, hanno qualcosa in comune: esse annullano i due
mezzi sui quali si fonda il potere psicagogico della ϤÍȘ omerica.

1 Si pensi a Gorg. 502c5-7. 2 Cfr. p. 101 n. 2. 3 Resp. ii 378e.


NOTA TESTUALE A EPICURO,
AD PYTH., 101
Vincenzo Damiani

… ηd ηÙa ‰È‹ıËÛÈÓ <‰Èa> ÙáÓ ÓÂÊáÓ ÙÔÜ ÏÂÙÔÌÂÚÂÛÙ¿ÙÔ˘ ʈÙfi˜, Õ àe ÙÔÜ ˘Úe˜ Ó¤ÊË
Û˘ÓÂÊϤ¯ı·È ηd Ùa˜ ‚ÚÔÓÙa˜ àÔÙÂÏÂÖÛı·È [ηd] ηÙa ÙcÓ ÙÔ‡ÙÔ˘ ΛÓËÛÈÓØ Î·d ηÙa ÙcÓ ÙÔÜ
Ó‡̷ÙÔ˜ âÎ‡ÚˆÛÈÓ ÙcÓ ÁÈÓÔ̤ÓËÓ ‰È¿ ÙÂ Û˘ÓÙÔÓ›·Ó ÊÔÚĘ ηd ‰Èa ÛÊÔ‰ÚaÓ Î·Ù›ÏËÛÈÓØ Î·d
ηÙa ®‹ÍÂȘ … (775.20-776.4 Marcovich)
ηd von der Mühll : j BPFD|‰Èa add. Schneider|j àe - àÔÙÂÏÂÖÛı·È ut additamentum eiecit Usener|Õ
Bignone, Bailey : j BPFD|Û˘ÓÂÊϤ¯ı·È Usener, Bignone (cf. Lucret., 5.150 s.) : Û˘ÓÂÈϤ¯ı·È BPFD|ηd
post àÔÙÂÏÂÖÛı·È del. Bignone|ηÙa1 del. Usener|ÙÔÜ om. FD, Frob.|Û˘ÓÊÔÓ›·Ó B1 (corr. B2) : Û˘ÓÙÔÓ›·˜ F,
Eudocia|ʈÚĘ B|ηٷÚÚ‹ÍÂȘ F, ηٷڋÍÂȘ P1Q

S iamo nella sezione sulle cause generatrici dell’àÛÙÚ·‹. La trattazione riguarda,


nello specifico, i rapporti che intercorrono, nella formazione dei lampi, tra le nubi
e la luce dispersa proveniente dagli astri. Il riferimento al verificarsi della ‚ÚÔÓÙ‹1 e la
difficoltà di inserirlo nella struttura sintattica del periodo hanno spinto Usener, seguito
poi da von der Mühll, Kochalsky e Isnardi Parente, a considerare l’inciso che va da j àfi
ad àÔÙÂÏÂÖÛı·È come un’aggiunta.2 Bignone3 (probante Bailey)4 ha invece sostenuto la
necessità di lasciare a testo la cursoria osservazione: nella sua edizione mantiene sia l’in-
serzione di Schneider di un ‰È¿ dopo ‰È‹ıËÛÈÓ sia il Û˘ÓÂÊϤ¯ı·È di Usener, modifica la
disgiuntiva õ prima di àfi in Õ, senza il η› dopo àÔÙÂÏÂÖÛı·È e stabilisce la fine della
digressione dopo ΛÓËÛÈÓ. Questa la traduzione da lui fornita: «oppure per la filtrazione
delle particelle sottilissime della luce attraverso le nubi, donde essendosi esse incendiate
si produca il tuono per l’impetuoso propagarsi del fuoco». In una nota supplementare,
aggiunta in fase di correzione delle bozze dell’Epicuro, lo stesso Bignone prospetta una
soluzione maggiormente interventista: il η› sarebbe, in realtà, segno della presenza
originaria di due diverse cause per il verificarsi del tuono,5 di cui la prima farebbe parte
di una lacuna integrata nel modo seguente: ηÙa Ù<cÓ ÛÖÍÈÓ Î·d ηÙa Ù>cÓ ÙÔ‡ÙÔ˘ ΛÓË-
ÛÈÓ. Su posizioni più conservatrici si attestano Arrighetti, che mantenendo invariata
l’estensione della parentetica accoglie l’espunzione di η› dopo àÔÙÂÏÂÖÛı·È e traduce
«o per il raccogliersi (Û˘ÓÂÈϤ¯ı·È) di nuvole formate di fuoco, quando si producono an-
che i tuoni, per la mobilità di quello […]», dove àe ÙÔÜ ˘Úfi˜ è inteso come comple-
mento di materia riferito a Ó¤ÊË;6 e Boer, che stabilisce allo stesso modo i confini del-
l’excursus, ossia da õ a ΛÓËÛÈÓ, e non apporta modifiche alla tradizione salvo accettare

Vincenzo Damiani, Scuola Normale Superiore, Piazza dei Cavalieri 1, 56126 Pisa, vincenzo.damiani@sns.it
1 Di cui si parla più diffusamente nella sezione precedente (100).
2 Nel testo dell’additamentum Usener corregge Û˘ÓÂÈϤ¯ı·È con Û˘ÓÂÊϤ¯ı·È, in ηd ηÙa ÙcÓ ÙÔ‡ÙÔ˘ ΛÓËÛÈÓ
espunge il ηٿ. Giussani 1896, iv, p. 193 ritiene la precisazione, apparentemente fuori contesto, frutto di uno
spostamento rispetto alla sezione originaria sui tuoni. 3 Bignone 1920, p. 132 n. 5.
4 Bailey 1926, pp. 304-305. 5 Con rimando a Lucr., 6.145 ss.
6 Arrighetti 1973, pp. 91 e 483. Vedi anche Arrighetti 1955, p. 75.
130 vincenzo damiani
il Û˘ÓÂÊϤ¯ı·È di Usener.1 Il testo resta infine del tutto inalterato nell’edizione di Bol-
lack-Laks, che isolano l’inciso j àfi … àÔÙÂÏÂÖÛı·È traducendo: «[…] ou bien à cause
du filtrage par les nuages de la lumière la plus fine – à moins que des nuages ne soient
réunis par le feu et que les coups de tonnerre ne se produisent – et à cause du mouve-
ment de celle-ci. D’autre part, encore, par l’embrasement du vent, qui a lieu en raison
de l’intensité de son mouvement et en raison d’une compression violente».2
Un intervento su àe ÙÔÜ ˘Úe˜ Ó¤ÊË Û˘ÓÂÈϤ¯ı·È potrebbe offrire una soluzione plau-
sibile delle difficoltà sintattiche e concettuali del passo. Innanzitutto, l’interruzione
dell’elenco delle cause da cui scaturisce il lampo con un inciso sulle ‚ÚÔÓÙ·› costituisce
una notazione conciliabile con l’argomentazione, poiché questo tipo di richiamo inter-
no ad argomenti trattati in altri luoghi è peculiare della forma dell’epitome: si conside-
rino, ad esempio, l’ulteriore rimando proprio alle cause del tuono durante l’esposizione
di quelle del fulmine (103) e il riferimento alla grandine all’interno della sezione sulla ne-
ve (107). Inoltre, i tre fenomeni della ‚ÚÔÓÙ‹, dell’àÛÙÚ·‹ e del ÎÂÚ·˘Ófi˜, che nella Ad
Pythoclem vengono considerati consecutivamente in questo preciso ordine, si trovano in-
terconnessi anche nelle opere meteorologiche del corpus aristotelico: nel De mundo
(395a11-28) incontriamo la medesima successione e nei Meteorologica (369a10-12) leggia-
mo un’esplicita affermazione riguardo alla loro comune origine: ÂÚd ‰b àÛÙÚ·ɘ ηd
‚ÚÔÓÙɘ, öÙÈ ‰b ÂÚd Ù˘ÊáÓÔ˜ ηd ÚËÛÙÉÚÔ˜ ηd ÎÂÚ·˘ÓáÓ Ï¤ÁˆÌÂÓØ Î·d ÁaÚ ÙÔ‡ÙˆÓ ÙcÓ
·éÙcÓ àÚ¯cÓ ñÔÏ·‚ÂÖÓ ‰ÂÖ ¿ÓÙˆÓ. In ragione di questi dati credo si possa riflettere sul
testo che offre la tradizione prescindendo dal sospetto della sua estraneità al discorso, fo-
calizzando l’attenzione su due punti: 1) la parentetica inizia con un õ che non può dare
un senso soddisfacente, giacché l’uso di una disgiuntiva a questo punto starebbe piutto-
sto a introdurre una nuova causa del fulmine, il che, data la menzione della ‚ÚÔÓÙ‹, sem-
bra da escludere; 2) secondo il testo dei manoscritti, Û˘ÓÂÈϤ¯ı·È può avere come sog-
getto soltanto il neutro plurale Ó¤ÊË: si avrebbe così un «raccogliersi di nubi di fuoco»,
come intendono Arrighetti e Boer, o un «raccogliersi di nubi ad opera del fuoco», come
traducono Bollack e Laks. La difficoltà del nesso e la presenza di ˘Úfi˜ hanno portato
Usener all’emendamento, adottato da non pochi degli editori successivi, in Û˘ÓÂÊϤ¯ı·È,
una forma di perfetto con aumento per la quale non risultano attestazioni parallele oltre
alle due indicate da Usener stesso in apparato.3
Per quanto concerne il primo problema, la congettura Õ di Bignone, oltre all’ovvietà
paleografica, ha il vantaggio di essere consona all’usus scribendi che si può ricavare da
quello che resta delle opere di Epicuro.4 Riguardo invece al secondo, propongo le se-
guenti correzioni: 1) integrazione di un âÓ dopo ˘Úfi˜ con la sostituzione di Ó¤ÊÂÈ a Ó¤ÊË
(supponendo qui una corruzione per itacismo); 2) passaggio dal genitivo ˘Úfi˜ all’ac-
cusativo ÜÚ (che avrà dunque funzione di soggetto dell’infinitiva);5 3) espunzione del
η› post àÔÙÂÏÂÖÛı·È, con Bignone e Arrighetti. La parentetica dovrà infine chiudersi
dopo ΛÓËÛÈÓ. Ecco la forma che il testo viene ad assumere:

1 Boer 1954, p. 7b: «[…] oder durch Hindurchsickern des feinstteiligen Lichtes durch die Wolken, wobei vom
Feuer Wolken in Brand geraten und die Donner auch durch die Bewegung von diesem bewirkt werden
<können>».
2 Bollack, Laks 1978, p. 93. 3 Usener 1887, p. 45.
4 Per interventi simili cfr. Ad Pyth., 87: Õ ñ¿Ú¯ÂÈ coni. Woltjer: j codd.; 98: Õ ‰˘Ó·ÙfiÓ coni. Us.: Âå ‰˘Ó·ÙfiÓ codd.
Per l’uso di Õ, Ad Pyth., 99: Õ ÌbÓ … Õ ‰¤; 116: Õ Ì¿ÏÈÛÙ·; 34.11.3 Arr.: Õ àÙfiÌÔ˘˜ ηd Õ ÎÈÓÔ˘Ì¤Ó·˜ àÙfiÌÔ˘˜; 34.16.2
Arr.: Õ âÍ›[·ÌÂÓ]. Õ svolgerebbe qui la stessa funzione di congiunzione comparativa del ηٿ che al paragrafo
103 introduce l’altro breve excursus sul tuono. 5 Cfr. Widmann 1935, p. 168.
nota testuale a epicuro, ad pyth ., 101 131

j ηÙa ‰È‹ıËÛÈÓ <‰Èa> ÙáÓ ÓÂÊáÓ ÙÔÜ ÏÂÙÔÌÂÚÂÛÙ¿ÙÔ˘ ʈÙfi˜, Õ àe ÙÔÜ ÜÚ <âÓ> Ó¤ÊÂÈ Û˘ÓÂÈ-
Ϥ¯ı·È ηd Ùa˜ ‚ÚÔÓÙa˜ àÔÙÂÏÂÖÛı·È [ηd] ηÙa ÙcÓ ÙÔ‡ÙÔ˘ ΛÓËÛÈÓØ Î·d ηÙa ÙcÓ ÙÔÜ Ó‡̷ÙÔ˜
âÎ‡ÚˆÛÈÓ ÙcÓ ÁÈÓÔ̤ÓËÓ ‰È¿ ÙÂ Û˘ÓÙÔÓ›·Ó ÊÔÚĘ ηd ‰Èa ÛÊÔ‰ÚaÓ Î·Ù›ÏËÛÈÓ, ηd ηÙa ®‹ÍÂȘ ÎÙÏ.
[…] oppure per il filtrare attraverso le nubi della luce più sottile (allo stesso modo in cui, dal rac-
cogliersi di fuoco in una nube, si formano anche i tuoni per il movimento di questo [scil. del fuo-
co]); e anche per l’incendiarsi del vento che avviene a causa sia dell’intensità del moto sia della
forte rotazione, e per la lacerazione delle nubi etc.
La parentetica Õ … ΛÓËÛÈÓ s’inserirebbe coerentemente nell’elenco dei ÙÚfiÔÈ che ri-
guardano l’interazione tra le nubi e l’elemento igneo in forza del fatto che questa stessa
interazione caratterizza, almeno in parte, il verificarsi dei tuoni, com’è chiaro dai passi
che seguono: ηÙa ·Ú¿ÙÚÈ„ÈÓ Î·d Û‡ÁÎÚÔ˘ÛÈÓ ÓÂÊáÓ ï ˘Úe˜ àÔÙÂÏÂÛÙÈÎe˜ Û¯ËÌ·ÙÈ-
ÛÌe˜ âÍÔÏÈÛı·›ÓˆÓ àÛÙÚ·cÓ ÁÂÓÓ3 (101); ηÙ\ âÎÚÈÈÛÌeÓ âÎ ÙáÓ ÓÂÊáÓ ñe ÓÂ˘Ì¿ÙˆÓ
ÙáÓ ÙÔÈÔ‡ÙˆÓ ÛˆÌ¿ÙˆÓ L ÙcÓ Ï·ÌˉfiÓ· Ù·‡ÙËÓ ·Ú·Û΢¿˙ÂÈ (101); ηÙ\ âÌÂÚ›ÏË„ÈÓ
(scil. âÓ ÙÔÖ˜ Ó¤ÊÂÛÈ) ‰b ÙÔÜ àe ÙáÓ ôÛÙÚˆÓ Î·ÙÂÛ·Ṳ́ÓÔ˘ ʈÙfi˜ (101); ηÙa ‰È‹ıËÛÈÓ
<‰Èa> ÙáÓ ÓÂÊáÓ ÙÔÜ ÏÂÙÔÌÂÚÂÛÙ¿ÙÔ˘ ʈÙfi˜ (101); Õ àe ÙÔÜ ÜÚ <âÓ> Ó¤ÊÂÈ
Û˘ÓÂÈϤ¯ı·È ηd Ùa˜ ‚ÚÔÓÙa˜ àÔÙÂÏÂÖÛı·È [ηd] ηÙa ÙcÓ ÙÔ‡ÙÔ˘ ΛÓËÛÈÓ (101); ηÙa ÙcÓ
ÙÔÜ Ó‡̷ÙÔ˜ âÎ‡ÚˆÛÈÓ ÙcÓ ÁÈÓÔ̤ÓËÓ ‰È¿ ÙÂ Û˘ÓÙÔÓ›·Ó ÊÔÚĘ ηd ‰Èa ÛÊÔ‰ÚaÓ
ηÙ›ÏËÛÈÓ (101); ηÙa ®‹ÍÂȘ ‰b ÓÂÊáÓ ñe ÓÂ˘Ì¿ÙˆÓ öÎÙˆÛ›Ó Ù ˘Úe˜ àÔÙÂÏÂÛÙÈ-
ÎáÓ àÙfiÌˆÓ (102). Non solo, ma quelle parole corrisponderebbero anche, per la tipolo-
gia dei processi posti alla base del fenomeno del tuono, a quanto Epicuro dice nella se-
zione di pertinenza (100), caratterizzandosi come una precisazione ulteriore di quelle
indicazioni, precisazione soltanto ora possibile, dopo che è stata passata in rassegna la
gran parte delle declinazioni del rapporto nube-fuoco: (100) ηÙa Ó‡̷ÙÔ˜ âÓ ÙÔÖ˜
ÎÔÈÏÒÌ·ÛÈ ÙáÓ ÓÂÊáÓ àÓ›ÏËÛÈÓ […] ηd ·Úa ˘Úe˜ ÂÓÂ˘Ì·ÙˆÌ¤ÓÔ˘ ‚fiÌ‚ÔÓ âÓ
·éÙÔÖ˜ ~ (101) àe ÙÔÜ ÜÚ <âÓ> Ó¤ÊÂÈ Û˘ÓÂÈϤ¯ı·È […] ηÙa ÙcÓ ÙÔ‡ÙÔ˘ ΛÓËÛÈÓ.
La corruzione da ÜÚ a ˘Úfi˜ si spiega facilmente con l’influenza del ÙÔÜ che precede:
un errore analogo, ma in direzione inversa, è testimoniato da uno dei manoscritti nel
testo del fr. 66 Us. [= Diog. Laert., 10.137], in cui, a fronte di un originario àԉ›ÍÂÈ ‰b
¯ÚÉÙ·È ÙÔÜ Ù¤ÏÔ˜ ÂrÓ·È ÙcÓ ì‰ÔÓcÓ ÎÙÏ. si legge, in F, àԉ›ÍÂÈ ‰b ¯ÚÉÙ·È Ùe Ù¤ÏÔ˜ ÂrÓ·È
ÙcÓ ì‰ÔÓ‹Ó.
Per la possibile caduta della preposizione âÓ e per interventi d’integrazione analoghi
a quello ipotizzato sopra si veda, nell’Epistola ad Erodoto, 70.2: âÓ om. B; 74.14: âÓ add.
Usener; 75.8: âÓ ‰¤ ÙÈÛÈ codd. fere omnes, ÙÈÛd ‰b F; 77.10: âÓ àÛıÂÓ›· codd. fere omnes, âÓ
om. FDP4f; nell’Epistola a Pitocle, 88.8(767): Ù†‰Â codd., <âÓ> Ù†‰Â Usener; nell’Epistola
a Meneceo, 131.12-13: âÓ Ù·Ö˜ êÏ·Ö˜] âÓ om. F; nello Gnomologio Vaticano, 17: àÎÌ” V, <âÓ>
àÎÌ” Bailey.
Non è impossibile, inoltre, che l’âÓ sia caduto per la presenza di Û˘Ó- subito dopo. Una
corruzione simile sembra essersi generata in uno dei luoghi elencati sopra, Ep. ad Men.,
131: Ùe Û˘ÓÂı›˙ÂÈÓ ÔsÓ âÓ (âÓ om. F) Ù·Ö˜ êÏ·Ö˜ Î·Ö Ôé ÔÏ˘ÙÂϤÛÈ ‰È·›Ù·È˜. Non infre-
quenti, infatti, nell’uso di Epicuro, sono casi di verbi composti con Û˘Ó- che reggono il
solo dativo: un esempio si trova nell’Epistola ad Erodoto, 50.5(744): Û˘ÓËÌ̤ÓËÓ Ù”
Ê·ÓÙ·ÛÙÈΔ âÈ‚ÔÏ”, uno nell’Epistola a Pitocle; 88.19(766): Ùa Û˘Ó·ÙfiÌÂÓ· ÙÔ‡ÙÅ; uno
nelle Massime capitali, i: œÛÙ ÔûÙ çÚÁ·Ö˜ ÔûÙ ¯¿ÚÈÛÈ Û˘Ó¤¯ÂÙ·È; uno nello Gnomologio
Vaticano, 27: âd ‰b ÊÈÏÔÛÔÊ›·˜ Û˘ÓÙÚ¤¯ÂÈ Ù” ÁÓÒÛÂÈ Ùe ÙÂÚÓfiÓ.
Riguardo al nesso âÓ Ó¤ÊÂÈ si possono confrontare alcuni passi paralleli: il primo si
trova negli Analitici Secondi aristotelici (93b7), in cui, benché l’affermazione sia inserita
132 vincenzo damiani
come exemplum fictum di carattere logico, si tratta dello stesso argomento: Ù› âÛÙÈ
‚ÚÔÓÙ‹; ˘Úe˜ àfiÛ‚ËÛȘ âÓ Ó¤ÊÂÈ. Il secondo proviene dalla già citata sezione del De
mundo, sulle cause del tuono (395a11-14): ÂåÏËıbÓ ‰b ÓÂÜÌ· âÓ Ó¤ÊÂÈ ·¯ÂÖ Ù ηd ÓÔÙÂÚ†,
ηd â͈ÛıbÓ ‰È\ ·éÙÔÜ, ‚È·›ˆ˜ ®ËÁÓ‡ÔÓ Ùa Û˘ÓÂ¯É ÈÏ‹Ì·Ù· ÙÔÜ Ó¤ÊÔ˘˜, ‚ÚfiÌÔÓ Î·d
¿Ù·ÁÔÓ Ì¤Á·Ó àÂÈÚÁ¿Û·ÙÔ, <n˜> ‚ÚÔÓÙc ϤÁÂÙ·È, œÛÂÚ âÓ ≈‰·ÙÈ ÓÂÜÌ· ÛÊÔ‰Úá˜
âÏ·˘ÓfiÌÂÓÔÓ. Una terza conferma è fornita dal capitolo sulle àÛÙÚ··› dei Meteorologica
(369b11-12, 15-17): η›ÙÔÈ ÙÈÓb˜ ϤÁÔ˘ÛÈÓ ó˜ âÓ ÙÔÖ˜ Ó¤ÊÂÛÈÓ âÁÁ›ÁÓÂÙ·È ÜÚ […] ÙcÓ ÌbÓ
ÔsÓ ‰È¿Ï·Ì„ÈÓ àÛÙÚ·cÓ ÂrÓ·È ÙcÓ ÙÔ‡ÙÔ˘ ÙÔÜ ˘Úfi˜, ÙeÓ ‰b „fiÊÔÓ âÓ·ÔÛ‚ÂÓÓ˘Ì¤ÓÔ˘
ηd ÙcÓ Û›ÍÈÓ ‚ÚÔÓÙ‹Ó. Il fatto che del fuoco si sia raccolto all’interno di una nube costi-
tuisce poi il presupposto della seconda digressione sulla ‚ÚÔÓÙ‹ che s’incontra, come
anticipato, a proposito del ÎÂÚ·˘Ófi˜ (103): ηd ηÙ\ à˘ÙcÓ ‰b ÙÔÜ ˘Úe˜ öÎÙˆÛÈÓ (scil.
âÎ ÙÔÜ Ó¤ÊÔ˘˜) àÓÂÈÏÔ̤ÓÔ˘.
L’espunzione del η› post àÔÙÂÏÂÖÛı·È, infine, si può agevolmente giustificare con-
siderando l’altissima frequenza, nel testo dell’epistola, di elenchi di cause scanditi dal-
l’espressione ηd ηٿ, che facilmente avrebbe potuto essere inserita per errore in un
contesto in cui la correlazione ηd ηٿ … ηd ηٿ non è tuttavia operante.1
Attraverso l’intervento proposto è possibile conservare la coerenza dell’argomenta-
zione condotta da Epicuro: in questo modo si spiegano, infatti, sia la funzione comples-
siva della parentetica sul tuono e il suo legame sintattico col contesto, della cui genuinità
non c’è dunque motivo di dubitare, sia l’uso di Û˘ÓÂÈϤ¯ı·È, che indica appunto l’accu-
mularsi del fuoco all’interno della nube (âÓ Ó¤ÊÂÈ).

Bibliografia
Arrighetti 1955 = Graziano Arrighetti, Sull’epistola di Epicuro a Pitocle, «Annali Scuola Nor-
male Superiore, Pisa», Classe di Lettere, s. ii 24, 1955, pp. 67-86.
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Boer 1954 = Emilie Boer, Epikur, Brief an Pythokles, Deutsche Akademie, Institut f. hellenis-
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Bollack, Laks 1978 = Jean Bollack, André Làks, Epicure à Pythoclès, Lille, Editions de la
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Hessler 2008 = Jan Erik Hessler, Ergebnisse der Arbeit am Kommentar zu Epikurs Brief an
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19832.
Kochalsky 1914 = Arthur Kochalsky, Das Leben und die Lehre Epikurs. Diogenes Laertius Buch
X, Leipzig-Berlin, Teubner, 1914.

1 Per esempi analoghi di errori indotti dalla comprensione errata di questa correlazione, con i conseguenti in-
terventi sul testo, cfr. Ad Pyth., 92.9: ηd ηÙa ôÓ·„ÈÓ Á›ÓÂÛı·È ‰‡Ó·Ûı·È ηd ηÙa Û‚¤ÛÈÓ, in cui Usener propone di
espungere il ηÙa ante ôÓ·„ÈÓ (anche se l’espunzione del primo η› potrebbe meglio rispondere a criteri di econo-
mia); 108.12: ‰ÚfiÛÔ˜ Û˘ÓÙÂÏÂÖÙ·È Î·d ηÙa Û‡ÓÔ‰ÔÓ Úe˜ ôÏÏËÏ· âÎ ÙÔÜ à¤ÚÔ˜ ÙáÓ ÙÔÈÔ‡ÙˆÓ, dove F omette il η› ante
ηٿ; 110.7: ôψ˜ ÂÚd ÙcÓ ÛÂÏ‹ÓËÓ Á›ÓÂÙ·È Î·d ηÙa ¿ÓÙÔıÂÓ à¤ÚÔ˜ ÚÔÛÊÂÚÔ̤ÓÔ˘ Úe˜ ÙcÓ ÛÂÏ‹ÓËÓ, dove ηd
ηٿ è lezione dei manoscritti: η› è espunto da von der Mühll (che elimina anche il successivo ηٿ) e mutato in
õ da Marcovich, mentre il solo ηٿ è espunto da Usener e Marcovich; 115.3: ηd ηÙa ΛÓËÛÈÓ Ôy iÓ ì ïÚÌc âÍ àگɘ
ηÙa ÙcÓ Û‡ÓÔ‰ÔÓ Á¤ÓËÙ·È secondo i codici: il primo ηٿ è espunto da Usener, seguito da Marcovich.
nota testuale a epicuro, ad pyth ., 101 133
Marcovich 1999 = Miroslav Marcovich, Diogenes Laertius. Vitae philosophorum, Stuttgart-
Leipzig, Teubner, 1999.
von der Mühll 1922 = Peter von der Mühll, Epicuri epistulae tres et ratae sententiæ, Leipzig,
Teubner, 1922.
Usener 1887 = Hermann Usener, Epicurea, Leipzig, Teubner, 1887.
Widmann 1935 = Hans Widmann, Beiträge zur Syntax Epikurs, Stuttgart, W. Kohlhammer, 1935.
THE IDEAL OF QUIESCENT MIND:
«MIND» AND «VITAL ENERGY»
IN CHINA OF THE FOURTH CENTURY B.C .
David Machek

Introduction: concepts, problems, thesis

A ccording to a popular view, which is still very influential among the scholars who
write on the Chinese thought, there is a substantial dichotomy between Western
and Chinese intellectual traditions as to their overall assumptions about the structure
of reality: while the Western thought inclines to dualistic ontology, the Chinese
thought prefers monistic worldview, where all things are but instances of the same stuff
penetrated by the same organizing principle. This assumption is behind the fascination
of many Western scholars by Chinese thought as a tradition which is happily free from
dualistic schemes. For instance, in the introduction to their Thinking through Confucius,
American philosophers David Hall and Roger Ames introduced a distinction between
«polarity» and «dualism» to explain the basic divergence of the two traditions. By polar-
ity, they mean a relationship in which each member of the pair depends on its counter-
part and «each pole can only be explained by reference to the other».1 According to the
polar view, the reality is substantially continuous, and differentiation into individual en-
tities comes as a differentiation in degree or intensity, not in substance. In contrast, du-
alism assumes an essential disjunction or sharp qualitative discontinuity between the
both members of the pair, where one cannot be adequately explained in terms of the
other. (This is a definition of dualism that I will be using throughout this paper.) In her
survey of Chinese thought, French sinologist Anne Cheng, similarly, expresses her com-
mitment to this comparative scheme. She argues that Chinese thought prefers a «gen-
erative model…that does not lead to emergence of disjunctive terms such as being-
nothingness, soul-body, God-world, subject-object, reality-appearance, Good-Evil etc.»
The reason for this is, she believes, that «Chinese were aware of the danger of dualism».2
Some of the recent scholarship on Chinese thought indicated, however, that this
comparative scheme may need substantial qualifications. While no one would probably
want to attribute to the old Chinese texts the kind of ontological dualism as we know
it from some of Plato’s dialogues, most typically Phaedo and Republic, we cannot still in-
fer from this that these texts uniformely espoused the notion of the world which is en-
tirely continuous in all of its aspects, and thus essentially free from any conflict or ten-
sion. In his two monographs,3 Michael Puett convincigly argued that the ancient
Chinese texts display an acute sensitivity for a discontinuity, even a tension, between the
realm of human action and the divine or Heavenly realm. In one of his articles, Paul

David Machek, University of Toronto, Department of East Asian Studies, Robarts Library, 14087 130 St. George
Street, Toronto, Ontario, Canada M5S 3H1; Department of East Asian Studies, Charles University in Prague,
Celetná 597/13, 116 36 Praha 1; david.machek@utoronto.ca
1 Hall, Ames [1], p. 18. 2 Cheng [5], p. 29. 3 Puett [16] and [17].
136 david machek
Goldin suggested that mind-body dualism might have been an issue on the agenda of
ancient Chinese thought.1 These works indicate that it is not utterly implausible to at-
tribute some kinds of dualism at least to some of the old Chinese texts. Perhaps not the
ontological dualism in the sense of dichotomizing two different kinds of being but du-
alisms that we may call cosmological (concerned with the structure or hierarchy of the
world as exemplified by the Heaven-man relation) and psychological (concerned with
the parts or functions of human mind).2 If this assumption turns out to be justified, the
question is how much tension is there between these dualisms and the fact that none
of the pre-Buddhist Chinese texts seems to reject the monistic ontology. This rather
general issue underlies analyses offered in this paper; these analyses, in turn, are best to
be read as a case study of this general issue in a specific context. The particular theme
of this study is a relation between the notions of «mind» (xin 心) and «vital energy» (qi
氣) as reflected in two texts from China of the fourth century B.C. – Confucian classic
Mengzi 孟子 and the «Inner Workings» (Neiye 內業) chapter from Guanzi,3 a text often
labeled as Daoist.4
The fourth century B.C. is the time of emergence of «mind» (xin 心) as a central the-
oretical concept in the Chinese thought. The centrality of this term reflects an in-
creased interest in theories of human action, and in accounts of how to achieve excel-
lence in action, i.e. the theories of self-cultivation. A particular motif prominent in
different accounts of self-cultivation is quiescence of mind as a value that represents the
ideal of perfect action: Guanzi emphasizes a notion of «still mind» (xin jing 心靜); Mengzi
develops a theory of how to achieve «unmoved mind» (budong zhi xin 不動之心). The
major determining factor of the stillness of mind in these texts is «vital energy» (qi 氣).
By the fourth century B.C., this notion has already been established in the context of
Chinese thought. Generally, qi is a fluid stuff, which, in its countless configurations,
makes up all existing things.5 Since the vital energy is essentially of one and the same
kind in its various manifestations, it is chiefly with regard to this concept why many in-

1 Goldin [8].
2 It is important to note that the terms «ontological», «cosmological» and «psychological» are based on con-
cepts (kosmos, psuche, to on) from a different intellectual tradition and hence we cannot expect that they will cor-
respond neatly with specific concepts from the Chinese tradition (this is especially true in the case of the «onto-
logical»). Nevertheless, they are still helpful in articulating basic intuitions about different senses in which we may
address the issue of dualism. true tradition (this is the Chidadition and hence we cannot expect that they will cor-
relate with specific concepts from the Chinese tradition (this is especially true in the case of the «ontological»).
Nevertheless, they are still helpful in articulating basic intuitions about different senses in which we may address
the issue of dualism.
3 Guanzi is a historically and thematically diverse compendium of texts. Besides several philosophically rele-
vant essays, it includes mainly texts on political and economical issues. Although there is no general consensus
about its datation, most recent interpretations assume that the «Inner Workings» originate roughly from the time
of Mengzi. (Cf. Rickett [17], Puett [16]). There are other chapters in the Guanzi that are very close to the pro-
blems addressed in the «Inner Workings», namely «Art of Mind» (Xin shu 心術) and «Purifying the Mind» (Bai xin
白心), but as they seem to originate from a later period, I did not consider them in the present discussion. Hence,
whenever the paper refers to the Guanzi, the reference is solely to the «Inner Workings».
4 Note that the classification of ancient texts as belonging to different schools of thought is of a much later
date than the texts discussed in this paper. The most influential scheme of the division of philosophical schools
was proposed by historian Sima Tan 司馬談 as late as in the first century B.C. I believe that for the purposes of
the present discussion, the adherence to the traditional doctrinal classification does not prove especially helpful
and might even be misleading.
5 In his comprehensive survey on the notion of vital energy in Chinese thought, Cai Fanglu [3], pp. 7-8, obser-
ves that «vital energy» during the Warring States period (5.-3. century B.C.) becomes «a common, standard expres-
sion for common basic substance of all things, and a basic starting point for explaining all phenomena».
«mind» and «vital energy» in china of the fourth century b.c. 137
terpreters consider Chinese thought essentially monistic. As will become obvious from
our readings of these texts, and, as follows, after all, from the notion of vital energy as
an all-encompassing stuff, any disquiet in one’s mind is to be explained as a condition
of vital energy. In particular, it is the vital energy in form of harmful emotions. On the
other hand, also the mental quiescence is understood in terms of vital energy; for in-
stance, Guanzi uses the expression «well-ordered vital energy» (qi li 氣理). The crucial
question is this: if all mental states and activities are nothing but instances of vital en-
ergy, how can the mind liberate itself from the disturbances generated by the vital en-
ergy? Supposing that any program of self-cultivation is based on a conscious mental ef-
fort, how would that effort be feasible without an asumption of some essential
discontinuity between the vital energy, which is the cause of disturbances, and some
other force, which is in charge of eliminating these very disturbances?
This issue is reflected in the texts. I will try to show that they are both committed, at
different stages of their narrative, to two different, and, in fact, disjunctive assumptions
about the relation between mind and vital energy: on the one hand, they ground the
possibility of attainment of the unmoved mind on the assumption that mind is nothing
but a particular constellation of vital energy, and so can become thoroughly one with
cosmic transformations; on the other hand, they adopt the view that mind and vital en-
ergy are distinct and incommensurable concepts, and that is why the mind is able to be
in charge of how vital energy influences it. The goal of this paper is to reconstruct how
is this ambivalent commitment embedded in each of these texts and what are the par-
ticular motivations that underlie it. In the next four paragraphs, I will briefly sketch my
argument.
A particular conceptual pair that I wish to lean on in order to identify the drives be-
hind the ambivalent relation between mind and vital energy is feeling and thought as
two basic modalities in which the human mind operates. For reasons that will become
clear in the course of the argument, I will occasionally also be using terms spontaneity
and reflectivity to refer to this dichotomy. The distinction between feeling (spontaneity)
and thought (reflectivity) does not straightforwardly converge with the distinction be-
tween vital energy and mind, and this is why one can be used as an explanatory tool for
the other. The modus operandi of vital energy is inherently spontaneous; transforma-
tions between its different configurations happen naturally, from itself and by itself.
When the notion of vital energy is used in a psychological discourse, it retains the sig-
nificance of spontaneity. This psychological spontaneity shows in a close link between
vital energy and feelings, which are typically understood as configurations of vital en-
ergy. Since the mind can operate both in the spontaneous and in the reflective modality,
it can be conceived both as being identical with and being different from the vital ener-
gy: in its spontaneous mode, the mind is at one with vital energy, in its reflective mode,
it is different from it. Thus, the paradoxical commitment to two disjunctive assump-
tions about the relation between mind and vital energy reflects the fact that sometimes
the texts emphasize the thinking and sometimes the feeling modality of mind.
But why do they do so? The answer will be delivered on two different levels. The
first is a level of particular conceptual patterns in which the ambivalence comes to
light in each of the two texts. I will argue that the difference between these patterns
is substantial, and that this is due to different assumptions about the goal of self-cul-
tivation adopted by each of these texts. The second level is more general. My argu-
ment is that behind the divergence in particular motivations, there is a deeper philo-
138 david machek
sophical reason for the ambivalent position on the relation between mind and vital
energy in both texts. It is one peculiar feature of human condition. Let me briefly
anticipate these answers.
The «Inner Workings» and the Mengzi are most likely closely coeval and share a great
deal of philosophical vocabulary as well as underlying assumptions and concerns. In
spite of these similarities, the two texts seem to espouse two significantly different ob-
jectives of human self-cultivation and action. Mengzi’s ideal of the unmoved mind is in-
herently a moral notion. One is unmoved only when one fully develops one’s natural
moral inclinations into virtues, which means, in Mengzi’s view, when one accepts and
fulfills what has been ordained by Heaven. For the author of the «Inner Workings», in
contrast, the attainment of unmoved mind means that one reaches the supreme position
within the hierarchy of the universe and thus himself acquires full control over all things.
As Michael Puett argues, «the cosmology of the Inner Workings is one of hierarchical
monism, and one’s goal is to gain even more potency over the world of forms by becom-
ing even more refined».1 The underlying discourse in which Mengzi formulates his ideal
is predominantly psychological, while the author of the «Inner Workings» does so main-
ly in the cosmological context. Corrolary with this is that Mengzi’s narrative is centered
more on the notion of mind than vital energy, while it is rather the opposite case in the
«Inner Workings». We shall see that this asymmetry determines the particular patterns
in which the ambivalent relation between mind and vital energy is articulated.
The simultaneous adherence to two disjunctive assumptions about the relation be-
tween mind and vital energy, as apparent in both texts, indicates an asymmetry between
the structure of two types of human action – becoming virtuous, i.e. the process of self-
cultivation as acquiring the excellence in action, and being virtuous, i.e. the action that
results from the disposition acquired by this process. On one’s way to excellence in ac-
tion, one must lean on one’s intellectual faculties in order to shape one’s spontaneous
drives. But once one acquires the right disposition, one also closes the gap between
what one thinks is the right thing to do and what one is spontaneously inclined to do.
This conclusion would provide a plausible justification for the claim that the Chinese
ethical theories cannot be purely monistic: the theories of becoming virtuous, in con-
trast to the accounts of being virtuous, naturally operate with a distinction between
feeling and thought in order to explain how this transformation can be achieved.
The plan of this paper is as follows. First three parts provide a broader theoretical ba-
sis for the textual interpretation. The first part examines the notion of «mind» with a
particular emphasis on the bimodality of feeling and thought. The second part seeks to
draw a parellel between theories of mind and debates on the relation between two ma-
jor cosmological realms – Heaven and man. The third part interconnects these two per-
spectives in an outline of the relationship between mind and vital energy. The fourth
and the fifth part present a close reading of the relevant passages from these two texts
and so endorse the analysis outlined in the first three parts.

The Problematique of «Mind»


In the contemporary scholarly literature, the most widely accepted English translations
of the term xin 心 are «heart» and «mind». These terms refer to two basic meanings of

1 Puett [16], p. 135.


«mind» and «vital energy» in china of the fourth century b.c. 139
the word xin: the bodily organ that corresponds with heart as we understand it today,
and the faculty of perception and thought. Thus, many interpreters advance composite
term «heart/mind» as an ideal translation. The slash expresses the popular view, in-
formed by the broad interpretive stance outlined in the introduction, that the term xin
represents the absence of mind-body dualism in ancient Chinese thought,1 and that the
functions attributed to the «mind» aspect and the «heart» aspect cannot be sharply dis-
tinguished. As for the precise articulation of this relation, there is a divergence among
interpreters. For example, Antonio Cua argues carefully that «xin has both cognitive
and emotive aspects» and that the translation heart/mind «rightly presumes a rejection
of an exclusive disjunction between reason and emotions».2 James Behuniak seems to
make a slightly stronger claim when he says that the concept of xin «underscores insep-
arability of feeling and thinking».3 On my understanding of his account, the insepara-
bility implies that there is a close mutual tie between both functions, so that one cannot
think without feeling (and vice versa). Even stronger thesis was proposed by David
Wong, who claims that in the Confucian tradition there is no distinction between rea-
son and emotions as we know it from the Western tradition.4 In advocating his thesis
that feelings are inherently cognitive, Wong seems to argue for a blend of the both func-
tions. All above claims were made in the context of interpretations of Mengzi but they
are representative of the ways these issues have been discussed in relation to the ancient
Chinese thought in general.
This brief survey indicates that the issue of the internal relation between different
aspects or functions of xin is remarkably blurred. Although some authors do take a
position on this issue, they introduce it mostly as an assumption for the sake of an-
other discussion instead of treating it as a problem on its own terms. Hence the pop-
ularity of the «heart/mind» variant, which encompasses different aspects of the term
without forcing one to take a definite position on the specific nature of this relation-
ship. But what exactly is the relation between the «heart» aspect and the «mind» as-
pect? Is each single activity of the xin a blend of the heart aspect and the mind aspect
(as Wong seems to argue), or do «heart» and «mind» refer to two different – and clearly
distinguished – functions of the xin? In other words, does the xin, in each and every
of its acts, fuse feeling and thought into a single mental act, or does it sometimes feel
and sometimes think? And if the latter is the case, one may wonder whether each of
these functions is assigned to a different sub-faculty within the xin, or whether the xin
remains structurally unitary and merely switches between different modes. To ignore
these questions means to miss a great deal of philosophically stimulating issues that
were, mostly implicitly, discussed at the time. The questions concerning the structure
of xin were of crucial importance in the discussed texts and I believe that, contrary to
common perception, none of them shows unqualified commitment to the blend mod-
el. Instead, it seems that both Mengzi and Guanzi think about xin in terms of a func-
tional bimodality or even structural bipartition. For the matter of convenience, I will
translate xin as «mind» throughout this paper. This choice does not entail, however,
any interpretive claim in terms of emphasis on thought rather than on feeling. It is
simply a label that turns out to be relatively acceptable in most contexts within this
paper.

1 Graham [9], p. 22. 2 Cua [7], p. 127.


3 Behuniak [2], p. 27. 4 Wong [22], p. 31.
140 david machek
What one finds in the Mengzi is a notion of functional bimodality of mind. In the fa-
mous passage 2A:6, Mengzi argues that every human mind is endowed with «four
sprouts» (si duan 四端) which have the potential to be developed into full moral virtues.
These sprouts are described as spontaneous affections; at the same time, they are de-
fined as a kind of xin. Everyone who sees a child in an imminent danger of falling into
a well will immediately and inevitably have a «compassionate mind» (ceyin zhi xin 惻隱
之心) or a «disdainful mind» (xiuwu zhi xin 羞惡之心).1 Note that Mengzi takes care to
emphasize that these affections are free from some kinds of reflective activity: one has
this feeling «not because one sought to get in good with the child’s parents, not because
one wanted fames among one’s neighbors and friends».2
Wong refers to this passage in order to endorse his thesis about the blend of intellec-
tual and affective modalities. According to his argument, the spontaneous compassion
always includes a cognitive modality, in this case a «recognition of child’s endanger-
ment».3 This point, however, may be more a symptom of Wong’s tendency to interpret
the text in light of some modern theories of emotions rather than a reflection on what
Mengzi is aiming at. The implied differentiation within the human mind, as we shall see
shortly, is based not on a distinction between affection and cognition, but on a distinction
between spontaneity (or responsiveness) and reflection (or deliberation). These two
pairs of distinctions do not overlap: as implied by Wong’s claim that the cognitive modal-
ity of affection is unconscious, the recognition of child’s endangerment is as sponta-
neous as the affective component. And while it makes a good sense to argue for the blend
of affection and cognition as two aspects of the same spontaneous response, it is prob-
lematic to blur what we call spontaneous and reflective modality of the human mind.
The conscious reflection clearly is an important capacity that Mengzi attributes to
xin. In the following passage, Mengzi gives «thinking», sometimes also translated as «re-
flection» (si 思), as a typical function of mind in contrast to spontaneity of sense per-
ception, which is fully captured by external things:
耳目之官不思,而蔽於物。物交物,則引之而已矣。心之官則思,思則得之,不思則不得也。
The organs of ears and eyes do not think as they are screened by things. [It is the case that] things
interact with other things and simply lead them along. But the organ of mind thinks. If it thinks,
it will get it. If it does not think, it won’t get it.4

As the context indicates, «to get it» refers to success in one’s self-cultivation. The impli-
cation is that the reflective modality is responsible for the proper cultivation of the men-
tal sprouts, i.e. the spontaneous modality of one’s mind. Hence Mengzi’s emphasis on
the notion of «reflection» or «introspection» (fan 反) as an important part of the moral
development.5 The dichotomy of reflection and spontaneity is reinforced by the differ-
ence between what is given and what is up to us, i.e. having the feelings by nature and
doing the thinking as an activity that determines whether one’s moral development is
completed or not. Hence, I take it, the dichotomy between feeling and thinking must be
as stark as the dichotomy between what is innate and what is acquired by human effort.

1 All quotes from Mengzi are translated according to Van Norden [21]. His translation is occasionally
modified, particularly in rendering of technical terms.
2 Mengzi 2A6; Van Norden, p. 46. 3 Wong [22], p. 32.
4 Mengzi 6A:15; Van Norden, p. 156. 5 Mengzi 1A:7, 4A:4, 7A:4.
«mind» and «vital energy» in china of the fourth century b.c. 141
And since the latter dichotomy in its stark form clearly is a core assumption of Mengzi’s
theory of self-cultivation, this must also hold for the bimodality of human mind.
It is plausible, then, to understand Mengzi’s theory of self-cultivation as a specific ac-
count of the relation between spontaneous and reflective modalities of the human
mind. A peculiar articulation of this relation offers Mengzi’s theory of «extension» (tui
推). As the famous story about king’s compassion with an ox indicates,1 the process of
moral development conceived as extension depends on one’s ability to recognize that
one should feel in certain cases analogically with other cases, in which one does so spon-
taneously, and actually feel that way. When the king saw an ox as it was being led to the
execution ground, he could not bear the sight and ordered to replace the ox with a
sheep. According to Mengzi, all the king needs now in order to become a perfect ruler
is to extend the very same feeling of compassion to the common people. Note that nei-
ther this theory necessarily implies blend of feeling and thought. On the contrary, one
may argue that it actually presupposes that reflection as the agent of extension remains
clearly separated from feeling as the object of this activity. Mengzi does not seem to say
that the compassion with the people should be more intellectual or deliberated than the
compassion with the ox; the nature of the feeling remains identical, it is merely redi-
rected at a different object. Although Mengzi establishes a functional relation between
feeling and thought, these remain clearly distinguished: sometimes we feel and some-
times we think what we should feel (although we may actually not feel that way).
Scholars have paid little attention to this functional bimodality of mind in the Mengzi.
One exception is Benjamin Schwartz. My reliance on the distinction between spontane-
ity and reflectivity is indebted to his interpretation:
The spontaneous tendency towards goodness is embedded in an unreflective, almost Taoist-level
of the heart. Yet when we speak of thought and will (zhi) we are dealing with the distinctly un-
Taoist yu-wei realm of deliberated goal-oriented judgment and conscious decision.2

Besides rightly pointing to two substantially different functions of mind, Schwartz takes
a further step and assigns them to two different levels within the mind. This implies that
the functional bimodality is based on a structural bipartition of the mind. However, in or-
der to explain that the mind is able to operate in different modalities, one does not nec-
essarily need to split it into two different levels, and there is no textual evidence that
Mengzi would be committed to any version of structural bipartition. If Mengzi were
committed to this view, his position would become very close to Guanzi. Like Mengzi,
the author of «Inner Workings» establishes the functional bimodality of mind. Unlike
Mengzi, this text seems to make the further step and grounds the functional bimodality
on a structural division:
我心治,官乃治;我心安,官乃安。治之者心也,安之者心也。心以藏心,心之中又有心焉。
When one’s mind is regulated, the senses are also regulated; when one’s mind is quiescent, one’s
senses are also quiescent. What regulates them is the mind; what brings them to quiescence is
[also] the mind. The mind therefore contains [another] mind: in the mind, there is [another]
mind.3

1 Mengzi 1A7.12; Van Norden, pp. 9-11. 2 Schwartz [19], p. 273.


3 All quotes from the «Inner Workings» are translated on the basis of Rickett’s [17] version, which I occasio-
nally modify. Guanzi viii.2; Rickett, pp. 46-47.
142 david machek

As the text emphasizes repeatedly, the function of the regulating mind is to think (si 思),
while the function of the mind that is being regulated is to feel and to desire. Both func-
tions are clearly separated: the regulative mind thinks and the quiescent mind feels. The
particular form of this division, as the text implies, is a hierarchical subordination: the
reflective mind can and should entirely control the activity of spontaneous mind. Thus
the structural bipartition of mind provides a conceptual basis for the functional subor-
dination of feeling to thought, of spontaneity to reflectivity.
Like the Mengzi, this text also draws a clear line between thought and feeling. What
makes it different from the Mengzi is the emphasis on regulation and hierarchy. We
may speculate that the absence of idea of bipartition of mind in Mengzi’s theory
might be motivated exactly by his reluctance to specify the relation between feeling
and thought as a functional subordination of the former to the latter. On the basis of
the overall shape of Mengzi’s theory, it seems unlikely that Mengzi would agree with
the idea that the thought ideally regulates the feelings. The doctrine of the «sprouts»
implies that feelings need not to be «regulated» as to their nature or intensity but
merely need to be taken care of and «extended». While the regulation implies limita-
tion of feelings, the extension suggests rather their proliferation, although in a con-
trolled manner.
The underlying context for this divergence will become clearer from the perspective
of cosmological considerations. In order to understand what is the significance of these
differences and how they square with the whole of the theories, I proceed to discuss
how the bimodality or bipartition of mind correlate with the positions that the authors
of these texts took in one of the most important cosmological debates of the day: what
is the relation between Heaven and man.

The Heaven - man Debate


Heaven and man (tian ren 天人), together with Heaven and earth (tian di 天地), are the
broadest terminological pairs used by the early Chinese texts for a big-picture concep-
tualization of the world. Although the Heaven-man distinction refers primarily to two
cosmological realms, we shall see that it also works as a general classificatory scheme
on the level of human action. My argument in this section will be based on an assump-
tion that there is a correlation between cosmological and psychological level: Heaven
corresponds with spontaneity and man with reflectivity. We shall see that even though
both theories are committed to some kind of bimodality of mind, their understanding
of the Heaven-man relation diverge quite substantially. This divergence can be traced
back to the difference in the exact articulations of the bimodality of mind. The hierar-
chical model of mind from the Guanzi justifies the power that a sage can acquire in the
monistic cosmos, in which man is on its top as the most perfect entity. In contrast,
Mengzi does not specify the bimodality as hierarchical because the relation between
feeling and thought is not the one of power and control but rather the one of accept-
ance. This acceptance means that one fully employs one’s specifically human abilities
to develop the natural endowment.
In one of his articles on Mengzi, Roger Ames argues, consistently with his above the-
sis (p. 1), that the relationship between Heaven and man in the ancient Chinese thought
is also polar, just like the relation between yin 陰 and yang 陽, two basic poles of the vital
«mind» and «vital energy» in china of the fourth century b.c. 143
energy.1 The idea of polarity is also implied in the traditional Chinese idea of «fusion
of Heaven and man» (tianren heyi 天人合一), also mentioned by Ames, which has been
attributed to Mengzi by many interpreters as his ideal vision.2 A passage usually cited
in support of this view is 7A:1.
孟子曰:盡其心者,知其性也。知其性,則知天矣。存其心,養其性,所以事天也。殀壽不
貳,修身以俟之,所以立命也。
Mengzi said: To fully fathom one’s heart is to understand one’s nature. To understand one’s na-
ture is to understand Heaven. To preserve one’s mind and nourish one’s nature is the way to
serve Heaven. To not become conflicted over the length of one’s life but to cultivate oneself and
await one’s fate is the way to take one’s stand on fate.3

Although this sequence expresses an interconnection between the both realms, Heaven
and man, this interconnection is clearly based on an asymmetry: man should serve
Heaven, not vice versa. From this perspective, the polar notion of fusion is misleading
as it implies that man is on a par with Heaven just as yang is on a par with yin. The asym-
metry between Heaven and man led some scholars to argue against the fusion-reading
of Mengzi. Angus Graham claimed that it was Mengzi, along with his contemporary,
(Daoist) Zhuangzi, who assumed rather a discontinuity between the two realms. Gra-
ham talks about the «fourth century B.C. split between Heaven and man»,4 which was
«the start of the first metaphysical doubt in Chinese thought».5 His conclusions were
endorsed, from a different perspective, by Michael Puett, who shows, in addition, that
Graham’s claim needs further qualification, particularly in relation to the Guanzi, which
does not seem to share this doubt.
The assumption of the split between Heaven and man fits well with our thesis about
disjunctive relation between different modalities of mind. Mengzi ties the distinction
between Heaven and man to these two modalities:
不明乎善,不誠其身矣。是故誠者,天之道也;思誠者,人之道也。
If one is not enlightened about goodness, one will not make oneself genuine. For this reason,
genuiness is Heaven’s way. Reflecting upon genuiness is human way.6

One may infer that «genuiness» also (if not predominantly) refers to the original natural
endowment in the human mind. The dichotomy between Heaven and man is, although
retaining its cosmological significance, introduced primarily as an explanatory frame-
work for the human action. We can see this tendency also with Mengzi’s contemporary
Zhuangzi, who defines sage as a person who embodies two substantially different
modalities of action:
其一,與天為徒;其不一,與人為徒。天與人不相勝也,是之謂眞人。
In his oneness, he is a follower of Heaven; in his doubleness, he is a follower of man.7

From the context of Zhuangzi’s thought, we can understand «oneness» and «double-
ness» as referring to the respective absence («constantly goes by the spontaneous and

1 Ames [2], p. 80. 2 Zhang Dainian [24], p. 177. 3 Van Norden [21], p. 171.
4 Graham [9], p. 108. 5 Graham [10], p. 15.
6 Mengzi 4A:12; Van Norden, p. 95. 7 Zhuangzi, p. 234.
144 david machek
does not add anything to the process of life») and presence («distinguishing between
what is the case and what is not the case»)1 of conceptual, distinguishing thought.
In order to arrive at a clearer understanding of Heaven-man distinction in the Mengzi,
it may be helpful to approach this reconstruction from the perspective of Mengzi’s cri-
tique of Mozi 墨子, the most influential thinker of the fifth century B.C. In Mozi’s view,
Heaven and man are purely cosmological categories. There is a direct interaction be-
tween Heaven and man: Heaven has its own intentions, man has its own intentions, and
the goal of human action is to conform human intentions to the intentions of Heaven,
so as to achieve the maximal benefit. This mutual relation is straightforwardly articu-
lated in the Tianzhi 天志 («Heaven’s Intention») chapter of the Mozi:
Heaven desires righteousness and abhors unrighteousness. In this case, then, if I lead the ordi-
nary people of the world to conduct their affairs with righteousness, I will, in fact, be doing what
Heaven desires. If I do what Heaven desires, Heaven will also do what I desire. What, then, do I
desire and what do I abhor? I desire good fortune and prosperity and I abhor bad fortune and
calamity.2

The idea that Heaven has intentions also opens the possibility to negotiate with Heaven
and to influence its intentions by proper rituals and sacrifices. The existence of this com-
munication channel is one of Mozi’s arguments against the doctrine of fate (ming 命).
There are two particular issues in Mengzi’s critique of Mozi that indicate the shift in
the assumptions about the relation between Heaven and man: his rejection of the no-
tion of «benefit» (li 利) and his emphasis on «fate» as an important concept in his theory
of self-cultivation.
In Mozi’s view, the ideal relation between the realm of Heaven and the realm of man
is intrinsically tied with the notion of benefit. Benefit thus becomes a value in a very
strong sense: it is not merely a result of private effort of an individual but a necessary
consequence of an ideal order in the world. Hence, as apparent from the above citation,
the benefit is intimately linked with the notion of righteousness. Exactly this connec-
tion is critisized explicitly by Mengzi in the very first story of his book. In opposition to
Mozi, Mengzi rejects the close relation between benefit and righteousness and argues
that they are not only not interdependent, but that focus on benefit may conflict with
focus on righteousness:
苟為後義而先利,不奪不饜。未有仁而遺其親者也,未有義而後其君者也。王亦曰仁義而已
矣,何必曰利?
But when people put benefit before righteousness, they cannot be satisfied without grasping for
more. Never have the benevolent left their parents behind. Never have the righteous put their
ruler last. Let Your Majesty speak only of benevolence and righteousness. Why must one speak
of benefit?3

Elsewhere, Mengzi expresses the contrast between benefit and righteousness in terms
of one’s delight in moral values in contrast to political ambitions, and ties this contrast
explicitly with the dichotomy between Heaven and man:

1 Zhuangzi, p. 221. 2 I follow a translation by Ian Johnston [13], p. 235.


3 Mengzi 1A:1; Van Norden, p. 1.
«mind» and «vital energy» in china of the fourth century b.c. 145

孟子曰:有天爵者,有人爵者。仁義忠信,樂善不倦,此天爵也;公卿大夫,此人爵也。

There are Heavenly honors, and there are human honors. Benevolence, righteousness, devotion,
faithfulness, delighting in goodness without tiring–these are Heavenly honors. Being a duke,
High Minister, or Chief Counselor–these are human honors.1

These two kind of «honors», again, remind one of the possible conflict between the
benefit one may gain from an official position and the value of a morally genuine ac-
tion.
Another indication of the asymmetry between Heaven and man is the emphasis on
the notion of fate. This follows from an assumption of a significantly less antropomor-
phic and more impersonal notion of Heaven. As Mengzi says, «Heaven does not speak»
(天不言; Mengzi 5A:5), and so any possibility of negotiation with Heaven is excluded.
Mengzi understood fate as a demonstration of the supreme power of Heaven whose
workings surpass the realm of human deliberation:
舜、禹、益相去久遠,其子之賢不肖,皆天也,非人之所能為也。莫之為而為者,天也;莫
之致而至者,命也。
The differences in the periods during which Shun, Yu, and Yi were Prime Ministers, and that the
sons of the former two were not worthy–these are all due to Heaven. These are not doings of
men. When no one does it, yet it is done–this is due to Heaven. When no one extends it yet it is
reached–this is fate.2

Despite the notion of fate as an irreversible ordeal, the above citation from 7A:1 talks
about fate as something that one should «take stand to» (li ming 立命). Although Mengzi
makes clear that Heaven and man represent two distinct instances of agency, this does
not mean that they are disconnected. On the contrary, that which distinguishes man
from Heaven, i.e. the capacity for reflection, should be used primarily to deal responsi-
bly with one’s Heavenly endowment.
This position on the relation between Heaven and man correlates closely with the bi-
modality of the human mind. The reflection as a typically human modality should be
relied on to develop the feelings as incipient sprouts of moral virtues: by knowing one’s
nature, one preserves, i.e. takes care of and develops, one’s spontaneous affections. In
other words, the reflection serves feelings in the same way as man should serve Heaven.
And yet, this constellation does not imply a hierarchical subordination – man is not reg-
ulated by Heaven, feeling does not rule over thought. The split between Heaven and
man means that they are of a different kind: although interrelated through the idea of
morality and fate, they remain two incommensurable instances, and this interrelation
actually makes sense only on the assumption of their incommensurability.
The peculiarity of Mengzi’s position is that the relation between Heaven and man
is neither polar nor, as in the Guanzi, hierarchical. Coming from the same time period,
Guanzi does work with the Heaven-man pair. But unlike the Mengzi and the Zhuangzi,
it never considers them as incommensurable perspectives. Here, both terms are used
merely in cosmological context: «As for the human life, Heaven generates its essence,
Earth generates its form, when put together, there is a human.» (凡人之生也,天出其

1 Mengzi 6A:16; Van Norden, p. 156. 2 Mengzi 5A:6; Van Norden, p. 125.
146 david machek
精,地出其形,合此以为人).1 Man is a product of natural generative forces, a com-
pound of essence and form. One could imagine to obtain a similar account from
Zhuangzi or Mengzi. The important difference is, however, that Guanzi makes a fur-
ther step and actually understands Heaven as material of which man is made. In effect,
man is by no means inferior to Heaven. On the contrary, the account even implies that
man, by combining Heaven with earth, brings the Heavenly material to a higher
synthesis. This account justifies the claim that when one’s mind becomes stable, «all
under Heaven will submit» and «all under Heaven will obey».2 This ambition differs
starkly from Mengzi’s emphasis on fate as inevitable order of Heaven that must be
accepted.
Also the cosmological account in the Guanzi fits neatly with its model of mind, where
spontaneity-feeling is regulated by reflectivity-thought. The relation between thinking
mind and feeling mind is hierarchical: ideally, thought rules over feeling. One level of
mind is able to control the other level because they are essentially of the same kind; the
only difference is that one is more refined than the other. The divergence between the
monistic cosmology from the «Inner workings» and the dualistic tendency in the Mengzi
will become more apparent when we consider what kind of relation these texts estab-
lished – or sought to establish – between mind and vital energy.

Vital Energy and Mind


As well as «mind», «vital energy» (qi 氣) is also a crucial term in the philosophical dis-
cussions of the time. However, while «mind» was not established as a philosophical con-
cept before the fourth century B.C., «vital energy» was already widely used by that time
as a crucial notion of cosmological theories. In the «Duke Zhao» chapter, the body of
Zuozhuan 左傳 develops a theory of «six kinds of vital energy» (liu qi 六氣), i.e. yin, yang,
wind, rain, darkness and brightness, which interact with each other and so give rise to
all things and processes. Human body and mind are no exceptions: «human likes, dis-
likes, delight, anger, sorrow and joy are all generated by six kinds of vital energy». In
Guoyu 國語, this theory is further developed. «Vital energy» is understood as yang vital
energy and yin vital energy, where the former corresponds to Heaven and the latter to
earth. What we have here seems to accord fully with the polar relationship as defined
by Ames. When both polarities of vital energy are properly balanced, its flow is harmo-
nious and the world is well ordered. All political and climatic imbalances result from a
disharmony of the vital energy: «The Zhou dynasty is going to decline! As for the vital
energy of Heaven and earth, it does not fail in its proper sequence. If it does make a
mistake it is because people mess it. Yang is down and cannot get released, yin forces it
so that it cannot rise. This is why there are earthquakes.» (周將亡矣!夫天地之氣,不
失其序;若過其序,民亂之也。陽伏而不能出,陰迫而不能烝,于是有地震。)3
In sum, the earliest meaning of «vital energy» as philosophical term is an all-embracing
natural force, which, by itself, makes up natural laws, processes, and individual entities.
The conceptual framework in which vital energy was originally coined as philosophical
term was Heaven and earth, or yin 陰 and yang 陽 . All major philosophical texts of
this  period inherited this monistic, naturalistic and polar notion of vital energy.
Guanzi  introduces a term «essence» (jing 精 ), defined as a refined form of vital

1 Guanzi xii; Rickett, p. 52. 2 Guanzi vii.1; Rickett, p. 44. 3 Guo Yu, p. 26.
«mind» and «vital energy» in china of the fourth century b.c. 147
energy.1 This essence is declared to be that which «gives life» (ci ze wei sheng 此則為生).
Mengzi construes the notion of «flood-like vital energy» (haoran zhi qi 浩然之氣), which
«fills up the space between Heaven and earth» (sai tian di zhi jian 塞 天 地 之 間 ).2
Zhuangzi explains bodily illness as a «discord in the vital energy of yin and yang»
(yinyang zhi qi you zhen 陰陽之氣有沴).
The main point of divergence between Guanzi and Mengzi is that Guanzi under-
stands the mind fully within the discourse of vital energy, while Mengzi seems, at least
to some extent, hold the view that the mind is a faculty that cannot be fully explained
in terms of the vital energy. At one point, Mengzi introduces a strikingly non-monistic
model for human action, where the vital energy is juxtaposed with «intention» (zhi
志 ), an act of mind in its reflective function: «Intention is the general of vital energy
(夫志,氣之帥也); the vital energy is that which fills the body (氣,體之充也). Wher-
ever the intention arrives, the vital energy follows (夫志至焉,氣次焉).»3 This formu-
lation invokes a mind-body dualism. We can find similar formulations in the Zhuangzi,
a text which was also committed to an assymetry between Heaven and man. In the
sixth chapter of the Zhuangzi, one finds a description of the mental state of a sage suf-
fering from a fatal bodily illness: «There is a discord in the vital energy of yin and yang,
but his mind is relaxed and free from any concerns.»4 Here we can see the naturalistic
notion of vital energy articulated in terms of yin and yang contrasted with the mind
as an independent faculty that remains unaffected by this condition. This observation
about Mengzi and Zhuangzi supports the idea of a correlation between cosmological
and psychological level: since there is a split between Heaven and man, the mind as
substantially human mind must be – at least from some perspective – incommensu-
rable with the natural order in the sense of spontaneous transformations of vital
energy.
This correlation is bolstered by the fact that we do not find any indication of similar
duality between mind and vital energy in Guanzi. True, the pairing of both terms is even
more frequent here than in the two other texts; but it is significant that this relation goes
beyond juxtaposition and parallelism. For instance, Guanzi is not reluctant to merge
mind and vital energy into a single notion: «vital energy of the mind» (xinqi 心氣).5 Re-
peatedly, the text talks about «the shape/body of mind» (xin zhi xing 心之形), which also
indicates the tendency to understand mind as a material entity. This contrasts with the
Zhuangzi, where «mind» is also often paired with «shape/body», but the usage of these
terms suggests the dualistic relationship.6 The tendency to merge both concepts ac-
cords with the integrative relation between Heaven and man. Man is generated by
Heaven and earth, and his mind is a configuration of the vital energy of Heaven and
earth; in turn, his mind, being of the same substance in a more refined form, naturally
controls the processes generated by Heaven and earth. It comes as no surprise, then,
that vital energy has its own intentions just like the mind: «When the intention of vital
energy is achieved, the world submits; when the intention of mind is settled, the world
obeys» (氣意得而天下服,心意定而天下聽 ).7 One does not find such a close paral-
lelism between mind and vital energy in the Mengzi.

1 Guanzi i.1; Rickett, p. 39. 2 Mengzi 2A:2; Van Norden, p. 39.


3 Mengzi 2A:2; Van Norden, p. 39. 4 Zhuangzi 6/23.
5 Guanzi x.2; Rickett, p. 50. 6 Cf. Goldin [8].
7 Guanzi x.2; Rickett, p. 50.
148 david machek
Now that the main conceptual relations have been outlined, we may take a more de-
tailed look at the theories of self-cultivation in the Mengzi and in the «Inner workings».
The close reading will help to uncover the patterns of the relation between mind and
vital energy in specific contexts and to understand their significance. The textual basis
for this analysis will consist of some relevant sequences from the «Inner workings» as a
whole, while the interpretation of Mengzi will be limited only to the flood-like vital en-
ergy passage as this is actually the only – although one greatly significant – topos where
the text works with the notion of vital energy. It is the passage to which I shall turn now.

Mengzi ’ s «Flood-like Vital Energy»


and the Unmoved Mind
The notion of «flood-like vital energy» (haoran zhi qi 浩然之氣) is elaborated in of one
of the longest and most often interpreted passages in the Mengzi.1 At its beginning,
Mengzi’s disciple Gongsun Chou asks his master whether he would have an «unmoved
mind» (budong zhi xin 不動之心) if he were appointed a Prime Minister in Qi, the most
powerful state at that time. In what follows, Mengzi discusses how his method of attain-
ing of the unmoved mind differs from the way of his ideological rival Gaozi 告子. As the
argument proceeds, Mengzi is moving from a dualistic position, accepting some of the
Gaozi’s views, to a monistic view represented by the idea of «flood-like vital energy».
The discussion begins with a comparison of different kinds of courage (yong 勇 ).
Courage appears as an important motiv in the Confucius’s Analects and is also a signifi-
cant theme in the Mengzi.2 As Alan Chan points out,3 an assumption implied in the early
Chinese discussions of courage is that courage is a specific condition of vital energy.
Hence the implicit identification of a true courage, invoking the vital energy, with the
idea of unmoved mind indicates what is the main philosophical move of the whole pas-
sage: the conceptual blurring of vital energy with mind.
Mengzi first argues that courage increases with introspectiveness. In the initial move,
he compares warrior Bogong You, who represents courage in a sense of dauntless rash-
ness in response to external stimuli, with certain Meng Shishe, who was able to remain
fearless regardless of the circumstances. The difference is in the direction of their men-
tal focus. As Zhu Xi 朱熹 (1130-1200) puts it in his commentary, «Bogong You focused
on his enemy, Meng Shishe focused on holding to himself».4 According to Mengzi, it
was Meng Shishe who was able to «preserve what is crucial» (shou yue 守約);5 this is
probably because his courage was based on inner firmness and not contingent on
external circumstances. In the next step, Meng Shishe is compared with Confucius’s
disciple Zengzi. But now, it is Zengzi who was able to «preserve what is crucial», while
Meng merely «preserved [his own] vital energy» (shou qi 守氣). Here, the distinguishing

1 Mengzi 2A:2; Van Norden, pp. 35-43.


2 For an analysis of Mengzi’s discussion of courage see Van Norden [22].
3 Chan [4], p. 45. 4 Si shu [18], p. 60.
5 The word yue has been read in various ways. For a good summary of the debate see Shun [20], pp. 73-74. I
follow the most widely held reading (first advanced by Zhao Qi, and later developed by Zhu Xi) that yue refers to
anything what is more essential in a particular context. Alan Chan makes an interesting observation that «the word
yue appears several times in the Zhuangzi in the sense of what “binds” or “ties” things together, often in the context
of a discussion of what is genuine or authentic of things.» (Chan [4], p. 66) This interpretation of yue fits well
into the context of the discussion of courage: Meng Shishe’s courage can be considered more authentic than Bo
Gongyou’s in the sense of his reliance on what is more original or genuine.
«mind» and «vital energy» in china of the fourth century b.c. 149
criterion is not the direction of focus but the object of this focus. Both Meng Shishe
and Zengzi were oriented towards themselves; but while Meng only managed to main-
tain a certain condition of the vital energy, i.e. the fearlessness, Zengzi focused on
ethical self-reflection (zifan 自反). Although the link remains implicit, the difference
between the courages of Meng Shishe and Zengzi seems to be based on a sharp
distinctness of vital energy and mind, or, more precisely, the reflective modality of
mind. At this point, Mengzi seems to hold a dualistic view of the relation between
mind and vital energy.
This dualistic strain is perhaps the reason why Gongsun Chou prompts Mengzi to
explain the difference between his and Gaozi’s method of self-cultivation. On the basis
of the preceding account, the difference does not seem substantial. A summary of
Mengzi’s agreement and disagreement with Gaozi is expressed in two succint formulas:
告子曰:不得於言,勿求於心;不得於心,勿求於氣。不得於心,勿求於氣,可。不得於
言,勿求於心,不可。
Gaozi said: «What you do not get from the doctrines, do not seek in your mind; what you do not
get from your mind, do not seek in the vital energy.» «What you do not get from your mind, do
not seek in the vital energy» – this is admissible. «What you do not get from the doctrines, do
not seek in the mind» – this is inadmissible.

Mengzi’s agreement with Gaozi refers to the above distinction between vital energy
and «what is crucial». «What is crucial» appears to be the reflective capacity of mind.
The true courage is established primarily on the level of mind, and the desired config-
uration of vital energy is secured by a specific condition of the mind. The true courage,
or the state of unmoved mind, must be rooted in the reflective activity of one’s mind.
However, Mengzi rejects the second Gaozi’s formula, i.e. «what you do not get from
doctrines, do not seek in mind». As Kwong-loi Shun observes, the problem implied in
this phrase concerns «shaping one’s motivations according to an ideal vision of human
action».1 The main target of Mengzi’s critique of Gaozi, expressed on several occasions
in the text, is his assumption that the motivations should be shaped from outside by ad-
hering to a given standard, just like craftsmen produce their artefacts by observing a
given template. In this case, the standards are represented by the doctrines. According
to Gaozi, the self-cultivation has two interrelated yet clearly distinct steps: first, the
mind acquires an intellectual understanding of the doctrines, and then it accordingly
regulates the vital energy, so that it conforms to these doctrines. Mengzi disagrees
about externality of morality to our mind as he believes that all men have sprouts of
virtues innately in their minds. Hence the external doctrines cannot be the principal
source of virtues.
In rejecting Gaozi’s formula, Mengzi refers to the spontaneous function of mind: the
sprouts of virtues are specific affections. So there seems to be an asymmetry between
Gaozi’s and Mengzi’s understanding of what the mind is: Gaozi reduces the mind to its
reflective capacity in both formulas. For Mengzi, it is the reflective modality when he
agrees with Gaozi: it is the power of reflection that distinguishes the mind from the vital
energy. However, it is the spontaneous modality when he disagrees with Gaozi: our af-
fections are inherently moral even before we understand any doctrines. In his move

1 Shun [20], p. 118.


150 david machek
from dualism to monism, Mengzi implicitly reitirates his assumption about the bi-
modality of mind. The monistic perspective is naturalistic and emphasizes the sponta-
neous modality of mind: the mind grows into morality by itself, without any need for
external guidance; the dualistic perspective is intellectualistic and emphasizes the reflec-
tive capacity: one needs to rely on one’s thought in order to work with the raw affective
material – «what you do not get in mind, do not seek in vital energy». In the effort to
define his position against Gaozi, the doubleness of this position comes to the fore.
This ambivalence can be traced further. Interestingly enough, in the next sequence,
which explains the grounds of Mengzi’s disagreement with Gaozi, the text does not
work with the word «mind». Instead, it introduces the word «intention» (zhi 志). The
characters for mind and for intention are cognate; along with the majority of inter-
preters, I understand «intention» as an intentional and reflective modus operandi of
mind. This shift, I think, reflects Mengzi’s effort to clarify that, at this stage of his argu-
ment, he wishes to talk about mind in its reflective capacity. Hence, at this moment, he
remains on the dualistic position and does not dramatically part from Gaozi:
夫志,氣之帥也。氣,體之充也。夫志至焉,氣次焉。故曰,持其志,無暴其氣。
Intention is the general of vital energy; vital energy is that which fills the body. Wherever inten-
tion arrives, vital energy follows. Therefore it is said: hold on to your intention and do not make
violence to your vital energy.

This view expresses a clear functional subordination of vital energy to mind-intention,


analogous to a soldier’s subordination to his general. In the next sequence, however,
Mengzi makes an interesting move and suggests a more coordinate relation:
志壹則動氣,氣壹則動志也。今夫蹶者趨者,是氣也,而反動其心。
When intention focuses on one thing, it moves vital energy; when vital energy focuses on one
thing, it moves the intention. Now what stumbles and runs is the vital energy, but it conversely
moves the mind.

This functional symmetry substantially qualifies the general–soldier model. Not only
can vital energy slip out of the control of intention, it can even become focused and
move the mind in a certain direction, exactly in the same way as the intention can move
vital energy. It is no more a mere filling, but an active agent. At this point, Mengzi seems
to move from the hierarchical relationship to a coordinate one: there is still a differen-
tiation between mind and vital energy but they are functionally almost equivalent. And
yet the vital energy is still a power that remains subordinated to the mind: it merely
blindly stumbles and runs, just like the soldiers.
The same ambivalence is also implied by the next sequence. When Gongsun Chou
asks Mengzi what he is good at, Mengzi gives two items: «I understand the doctrines,
and I am good at cultivating my flood-like vital energy.» (我知言,我善養吾浩然之氣).
This ties the argument back to the triad of doctrines, mind, and vital energy, and reiti-
rates Mengzi’s ambivalent position to the Gaozi’s doctrine. The knowledge of the doc-
trines, emphasized by Gaozi, is acknowledged by Mengzi as an important part of the
self-cultivation. At the same time, Mengzi points out the importance of internal culti-
vation of the vital energy which Gaozi reduces to a passive and obedient element.
The complexity of Mengzi’s position is reflected by a divergence within the second-
ary scholarships on this passage. Some scholars emphasized Mengzi’s dualism be-
«mind» and «vital energy» in china of the fourth century b.c. 151
tween mind/intention and vital energy.1 For instance, Schwartz argues that the ideal
condition of vital energy is attained when it becomes controlled by the intention:
«The senses and the vital energy can be ultimately controlled only by the determina-
tion to act rightly».2 Once well controlled, the vital energy, in turn, reinforces the
innate propensity to righteousness, just as an obedient soldier supports his general.
According to this reading, understanding of doctrines is the way to cultivate the flood-
like vital energy. Other scholars, such as Alan Chan, read the text in a purely natura-
listic way, rejecting any duality between mind and vital energy in the process of
cultivation and argue that «vital energy is essentially the operation and movement of
mind».3 From this perspective, the relationship between doctrines and vital energy is
reversed: «understanding of the doctrines» comes naturally once one has acquired the
flood-like vital energy.4
In the next step, Mengzi officially defines the notion of flood-like vital energy. In do-
ing so, he develops an account of moral self-cultivation as a spontaneous, continuous
growth of vital energy:
敢問何謂浩然之氣。曰難言也。其為氣也,至大至剛,以直養而無害,則塞於天地之間。其
為氣也,配義與道。無是,餒也。是集義所生者,非義襲而取之也。行有不憐於心,則餒
矣。我故曰告子未嘗知義,以其外之也。
I would like to ask about the meaning of the flood-like vital energy. [Mengzi] said: It is difficult
to say. It is a vital energy which is extremely vast and extremely hard. If one cultivates it with up-
rightness and does not harm it, it will fill up the space between Heaven and earth. It is a kind of
vital energy which pairs with righteousness and tallies with the Dao. If not, it starves. It is some-
thing that is generated by accumulated righteousness and cannot be obtained by stealing of
righteousness. When one’s actions do not satisfy one’s mind, then it starves. Therefore I say that
Gaozi never understood righteousness: he considered it something external.
This is an attempt to provide a theory of moral development that would offer a serious
alternative to Gaozi’s dualistic and externalist model. The principal move of this argu-
ment lies in merging of discourse of mind with the discourse of vital energy. A remark-
able rhetorical feature of this passage is that Mengzi plays on the indeterminacy of the
relation between the two discourses: even though he blurs the line between them, the
text never reaches the point where it would explicitly assert their identity. This allows
him to construe the argument as a combination of two different yet interrelated and
mutually reinforcing moves: on the one hand, Mengzi intellectualizes the vital energy;
on the other hand, he materializes the mind.
As indicated by the motif of filling up everything between Heaven and earth, the idea
of flood-like vital energy retains a continuity with the unqualified vital energy as a pri-
marily cosmological notion. At the same time, this particular kind of vital energy is said
to be generated by righteousness as a quality rooted in one’s mind. The force of this
move is to block the possibility of vital energy perturbing the mind: this specific kind
of vital energy cannot move the mind contrary to its own intentions because the flood-
like vital energy itself grows from the genuine mental qualities. The ideal condition im-
plied by this argument seems to be that one’s spontaneous inclinations will always nat-

1 Some version of this interpretation was proposed by Zhu Xi [18], David Nivison [15], Benjamin Schwartz
[19] and Kwong-loi Shun [20]. 2 Schwartz [19], p. 274.
3 Chan [4], p. 53. 4 «zhiyan 知言 is in fact an item on the yangqi 養氣 agenda» (Chan [4], p. 61).
152 david machek
urally accord with what one would decide to do on a careful reflection. One acquires
the unmoved mind (or the true courage) when one’s thinking that something is the
right thing to do (reflectivity) and one’s doing it right away (spontaneity) become one
and the same thing. The flood-like vital energy, which fills one’s body, knows itself what
is right. This notion of moral maturity reminds one of the famous Confucius’s state-
ment that at «seventy he could do whatever his mind desired without transgressing the
norms» (七十而從心所欲,不逾矩; Lunyu 2/4).
While the move towards the notion of this special, intellectualized vital energy refers
more to the action that ideally results from the process of self-cultivation, the parallel
perspective, i.e. materializing of mind, points rather to the process of moral develop-
ment itself. The intellectualization of vital energy closely correlates with the tendency
to think about mind in terms of a material entity. If the energy is generated by right-
eousness, then the righteousness, i.e. the righteous mind, must be of the same kind as
the vital energy. The image of growth immediately reminds one of the motif of feel-
ings as sprouts of virtues. These sprouts, however, were earlier introduced as a
metaphor for mind, not for vital energy. By collapsing the discourse of mind into the
discourse of vital energy, Mengzi can construe the moral development as a natural
process: the mind has an innate, spontaneous tendency to grow into the full virtue. If
the intellectualizing of vital energy makes clear that one’s spontaneous action can be
naturally in accord with one’s reflected intentions, then the materializing of mind tells
us that one’s intellectual development is inherently spontaneous.
The blurring of mind with vital energy may imply that Mengzi resolves the ambigu-
ity of his argument about moral development by fully integrating the intellectualistic
elements (the intention as general) into the naturalistic explanatory model (the image
of sprouts). This may well be the case on the level of ideal action; however, if taken as
an explanation of how to acquire the disposition to act that way, it needs a substantial
qualification. The subsequent passage makes clear that the reflective activity was not
simply dissolved in the spontaneity but rather turned into an external condition of the
proper course of one’s natural development:
必有事焉,而勿正,心勿忘,勿助長也。無若宋人然:‘宋人有閔其苗之不長而揠之者,茫
茫然歸,謂其人曰:今日病矣!予助苗長矣!’其子趨而往視之,苗則槁矣。天下之不助長
者寡矣。
One must work at it, but do not [force it by what one considers] right. One should not forget
about it [in one’s] mind, but neither should one ‘help’ it grow. Do not be like the man from Song.
Among the people of the state of Song there was a farmer who, concerned lest his sprouts not
grow, pulled on them. Obliviously, he returned home and said to his family. ‘Today I am worn
out. I helped the sprouts grow.’ His son rushed out and looked at them. The sprouts were with-
ered. Those in the world who do not ‘help’ the sprouts grow are few.
Although the mind has been materialized and its growth explained in terms of a natural
process, the successful outcome of this process appears still to be contingent on an in-
tellectual effort that is external to this growth itself.
An obvious consequence of this theory is that the oscillation between naturalism and
intellectualism has not really been resolved but merely shifted to another level; now, the
reflective effort has been turned into an external condition of this spontaneous devel-
opment. This condition is, in fact, a kind of skill. Although the text tends to present this
skill rather negatively – it is a kind of non-interference, absence of harming – it is obvi-
«mind» and «vital energy» in china of the fourth century b.c. 153
ously not a trivial ability: one needs to know how to be «upright» and what kind of con-
duct «satisfies one’s mind». The effort based on this ability is described as an intentional,
reflective activity. So the result of the blurring of vital energy with mind is that there is
some very important aspect of mental activity, i.e. the effort to preserve the sprouts,
that must not be identical with vital energy because it is a condition of its growth. This
naturally follows from Mengzi’s insistence that humans are utterly responsible for their
moral development. Although we may take this theory as an alternative to Gaozi, this
model of moral cultivation still commits Mengzi to a dualism between reflective and
spontaneous modalities of one’s mind.
A notion that might help understand the complexity of this passage is habituation.
The external condition of the natural growth would amount to one’s intentional effort
to establish a firm habit. «Accumulating of righteousness» would read as a perseverance
in not violating one’s genuine moral inclinations. Although these inclinations still do
not have the robustness of the full virtue, by consistent self-reflection and focused effort
in responding to these affections, our action becomes increasingly confident and resist-
ant to any impulses that could conflict with moral intuitions. In other words, one de-
velops the virtue, i.e. the settled disposition to act in the right way, by doing virtuous
things, i.e. by accumulating many individual acts that are already virtuous in their
essence.1
This circularity is echoed by an ambiguity of Mengzi’s treatment of the relation be-
tween full virtues and sprouts of virtues. On the one hand, as we know, Mengzi argues
that spontaneous affections are only sprouts of virtues, i.e. potentialities that might or
might not be developed into virtues. On the other hand, Mengzi also declares that the
sprouts actually are the virtues themselves: «The feeling of compassion is benevolence.
The feeling of disdain is righteousness.» (惻隱之心,仁也;羞惡之心,義也).2 On a
charitable reading of Mengsi’s theory, these statements are not necessarily conflicting.
We can see why the sprouts must be, at the same time, both different from and identical
with the virtues. They must be identical, since the virtues are made of the material in-
herent in the sprouts; but they must also be different, since initial spontaneous respons-
es lack the constancy and integrity of the firm disposition.
The notion of habituation offers a promising model of the relation between natura-
listic and intellectualistic perspective in Mengzi’s thought. The gap between the sprouts
and the full virtues underscores the importance of thought. At the initial stage of self-
cultivation, the responses are both vulnerable and not enough developed to guide us
through some more problematic situations than seeing a child in danger. This is why
thinking and doctrines are indispensable: they help us overcome this initial, unsettled
stage and reach the point when the repetition of many adequate responses establishes
a solid habit. Having this habit, one always does what is right without having to think
about it. At this stage, the disposition becomes independent of the initial effort and
turns into a second nature. This process is analogous with learning skills in general. At
the beginning, we need to concentrate and think carefully in order to perform even the
simplest moves but as we do it for some time we can handle increasingly complex op-
erations quite routinely. The activity of reflection gradually grows into the sponta-

1 This phrasing reminds one of a theory of self-cultivation from the Aristotle’s Ethics. Although I do not wish
to compare the two accounts here, the idea of circularity inherent in both theories is of some relevance for my
argument. 2 Mengzi 6A:6; Van Norden, p. 149.
154 david machek
neous action. However, at the beginning of the process, it is vital for it to be different
from the spontaneous impulses.
To read Mengzi’s argument about the flood-like energy as an account of habituation
helps to explain the oscillation between monistic and dualistic frameworks. To have a
habit and to build a habit are two substantially different modalities of action. The con-
dition of unmoved mind as the result of self-cultivation can be effectively explained by
the image of flood-like vital energy which blurs spontaneity and reflectivity. As for the
effort of self-cultivation itself, it cannot be explained without the bimodality of mind
where reflectivity and spontaneity are clearly disjunctive. This dichotomy correlates
with the ambiguity of Heaven and man relation in the Mengzi. Being virtuous could be
taken as an instance of fusion of what is of man with what is of Heaven, where the
Heavenly endowment is fully realized within the realm of the human world. At the
same time, the bimodality of mind as a condition for the moral growth, i.e. for becoming
virtuous, is a clear indication of the split between heaven and man.

Guanzi: Quiescent Mind as a Means


When we turn to the Guanzi, we are struck by several close similarities with the Mengzi
on the level of vocabulary and even some individual ideas. Several of these similarities
are particularly noticeable. One of them is the recurrent vocabulary of «getting» (de 得
) and «losing» (shi 失). For both authors, these terms refer to the success or failure in the
self-cultivation process; for both, the success depends on the proper use of «thought»
(si 思) – a crucial term in both theories. Furthermore, both texts talk about the self-cul-
tivation in terms of fostering of vital energy; and what is even more important is that
both emphasize that vital energy cannot be forced but must grow by its own nature:
是故此氣也,不可止以力,而可安以德;不可呼以聲,而可迎以音。敬守勿失,是為成德,
德成而智出,萬物果得。
This vital energy cannot be made to stay by force, yet it may be brought to rest by spiritual power
(de). Never to be summoned by one’s call, it may be welcomed by one’s awareness.1 Respectfully
preserve and never lose it, this is how the spiritual force is completed; when the spiritual force is
completed, wisdom develops; when the wisdom develops, all things can indeed be obtained.2

The notion of vital energy in this passage could well be substituted for Mengzi’s flood-
like vital energy or for the sprouts of virtue. When one takes care of it, one will develop
certain mental qualities: moral virtues like righteousness in case of Mengzi and spiritual
power (de 德) in case of Guanzi. The similarity goes even deeper since this account also
seems to be circular: the spiritual power is both means to cultivate the vital energy and
outcome of this process. This is a strong indication that both texts were grappling with
the similar conceptual pattern.
For all the similarities, even the above citation indicates a substantial divergence be-
tween the Mengzi and the Guanzi. While in the Mengzi the vital energy is introduced on-
ly to explain the workings of mind, in the Guanzi it is much more central to its philo-
sophical project – both as «vital energy» and as «vital essence» (jing 精 ). In the
philosophical discourse of the time, «vital essence» usually refers to a refined form of
vital energy, and this is also the case in the «Inner Workings»: «The vital essence is the

1 Most commentaries read 音 as 意. 2 Guanzi i.3; Rickett, pp. 39-40.


«mind» and «vital energy» in china of the fourth century b.c. 155
essence of the vital energy» (精也者,氣之精也者).1 The whole text begins with a the-
sis that «it is the vital essence of things which gives them life» (凡物之精,此則為生).2
By definition, the person who «stores [the vital essence] in one’s breast is called the sage»
(藏於胸中,謂之聖人).3 This is the basis for the claim that through the cultivation of
vital energy, «all things can be obtained».
This ambitious goal of self-cultivation is amplified by the idea that what is at stake is
getting hold of the Dao, i.e. the «ultimate creative force in the universe»:4
道也者,口之所不能言也,目之所不能視也,耳之所不能聽也; 所以修心而正形也。人之所
失以死,所得以生也。事之所失以敗,所得以成也。
Dao is what the mouth cannot say, what the eyes cannot see, what the ears cannot hear; that
through which we cultivate our mind and correct our shape; that through which people die,
when they lose it, that through which they live, when they get it; that through which their affairs
go wrong if they lose it, that through which their affairs are accomplished if they get it.5

The attainment of the Dao, or the One (yi 一),6 is a way to live instead of to die, to suc-
ceed instead of to fail, to control things instead of being controlled by them. These are
the ultimate goals of self-cultivation. Thus, the methods of self-cultivation are identical
with the methods of getting hold of the ultimate principle of reality. The text gives sev-
eral steps to acquire this spiritual control. But the most important condition in this
process seems to be the quiescence of mind. Once this condition has been secured, the
Dao will naturally stay there as in its natural environment:
彼道自來,可藉與謀。靜則得之,躁則失之,靈氣在心,一來一逝。其細無內,其大無外,
所以失之,以躁為害,心能執靜,道將自定。
That the Dao will come spontaneously can be relied on and planned for. When one is quiescent,
one will get it, when one is worried, one will lose it. The psychic vital energy (lingqi) in mind
comes and goes, so subtle that there is nothing inside of it, so great that there is nothing outside
of it. When the mind is able to hold of the quiescence, Dao will settle there spontaneously.7

To stabilize one’s mind is a dependable technique to deal with the inherent fluidity and
inconstancy of the Dao and to make it stand in one place:
凡道無所,善心安愛,心靜氣理,道乃可止。
The Dao has no [fixed] place, yet it will peacefully settle in a good mind. When the mind is qui-
escent and the vital energy patterned, the Dao can then be made to stay.8

The quiescence of mind is clearly of paramount importance in the self-cultivation


process. It is significant that this quiescence is understood mainly as a freedom from ex-
cessive emotions: the success of self-cultivation depends merely on one’s ability to
«eliminate worry, joy, happiness, anger, desire and [thoughts of] profit» (去憂樂喜怒欲
利).9 The emphasis on emotions reflects the fact that throughout the predominant part

1 Guanzi vi.3; Rickett, p. 43. 2 Guanzi i.1; Rickett, p. 39.


3 Guanzi i.1; Rickett, p. 43. 4 Rickett, p. 29.
5 Guanzi v; Rickett, p. 42.
6 The text does not explicitly assert that the Dao is the One. However, the context implies that having the Dao
and having the One have the same effects. 7 Guanzi xv.2; Rickett, p. 54.
8 Guanzi iv.1; Rickett, p. 41. 9 Guanzi ii.2; Rickett, p. 41.
156 david machek
of the text, the mind is taken essentially as a spontaneous, feeling faculty and so virtu-
ally undistiguished from the notion of vital energy. Mind is described as a material thing
which spontaneously grows, fills itself and completes itself. «The mind is such as to ben-
efit from peace and quiet. Do not trouble it, do not confuse it, and when in harmony,
it will spontaneously complete itself» (彼心之情,利安以寧,勿煩勿亂,和乃自成).1
The tendency to conceptualize mind in terms of vital energy is noticeable in the text.
For instance, take the honorific description of vital energy:
是故民氣,杲乎如登於天,杳乎如入於淵,淖乎如在於海,卒乎如在於己。
The human vital energy: How bright! As if mounting the heavens. How dark! As if entering an
abyss. How vast! As if filling the ocean. How compact! As if contained within the self.2

The description of mind is almost entirely parallel to this:


折折乎如在於側,忽忽乎如將不得,渺渺乎如窮無極
How clear! As if right at our side. How nebulous! As if beyond comprehension. How expansive!
As if exhausting the limitless.3

But if the abstinence from excessive emotions and desires is so crucial, and if these
emotions are typical states of mind, what is it that prevents the mind from having them?
In other words, how should one imagine the process of self-cultivation without a dual-
ity between that which cultivates and that which is cultivated?
The theory of the «mind within the mind» is delivered to answer exactly this
question. On the one hand, there is the mind which feels, i.e. can either be disturbed,
or quiescent. On the other hand, there is the mind which thinks, i.e. regulates the feel-
ings. So the success of self-cultivation depends entirely on the proper function of the
regulating mind. When the regulation is effective, the mind is quiescent, when the mind
is quiescent, the Dao comes and stays, when the Dao comes and stays, one has the con-
trol over things. The model of two-level mind can be understood as an attempt to de-
fend a theory of self-cultivation in a monistic framework: to place the dividing line into
the mind itself and not between mind and vital energy allows to import a specific kind
of differentiation without openly compromising the continuity implied by the monistic
framework.
The conceptual basis for this model is the hierarchical subordination. The hierarchi-
cal model can establish a qualitative difference between the sage and the other things
without abandoning the idea that the mind of sage is made of the same stuff as the oth-
er things. In order to acquire an effective control over things, there cannot be a radical
discontinuity between the ruler and the things; rather, the supremacy of the sage is
based on the fact that he shares his vital essence with the vital essence of all things. To
be on top of the universal hierarchy means to be a part of it. This is reflected by the for-
mulation of the bimodality of mind: in the mind, there is another mind – the ruling,
i.e. the reflective part, is a part of the mind as a whole. At the same time, in order to
make the theory viable, the ruling part of mind must be clearly differentiated from the
feeling part. This is the reason why the internal duality within the mind is asserted more

1 Guanzi ii.2; Rickett, p. 40. 2 Guanzi i.2; Rickett, p. 39.


3 Guanzi ii.2; Rickett, p. 40.
«mind» and «vital energy» in china of the fourth century b.c. 157
explicitly than in the Mengzi and the bimodality is even based on the structural biparti-
tion. The vocabulary of regulation implies the kind of dualism that Mengzi rejects in
Gaozi’s theory. The reason is that the author of the text needs to show clearly how this
kind of regulation is possible in the framework of the monistic cosmology. The bipar-
tition of mind is so explicit because it is construed, while the monistic framework is as-
sumed by default.

Conclusion
The underlying conceptual issue of the above interpretation is the relation between
mind and vital energy: are they essentially two or are they essentially one? I tried to
show that both texts provide a twofold answer to this question. We may summarize
these answers as follows. In the hierarchical yet continuous universe of the «Inner
Workings», there is an implicit assumption of their oneness; however, the notion of
subordination of feeling to thought pulls in the direction of their discontinuity and to
the import of the «mind within the mind» theory. The configuration in the Mengzi is
symmetrically opposite. By default, vital energy is a force that needs to be controlled
by mind. It is the blurring of mind with vital energy what is carefully construed; the
motivation for this is to account for the integration of spontaneity and reflectivity. The
difference between functional bimodality (Mengzi) and structural bipartition (Guanzi)
of mind accords with these conclusions. Although the structural bipartition asserts the
dichotomy within the mind more explicitly, it is more readily compatible with the
monistic framework than the functional bimodality as it implies continuity within the
hierarchical order as well as substantial unity of Heaven and man. On the other hand,
the structural indeterminacy of functional bimodality provides a conceptual basis for
the more complicated relationship between Heaven and man.
Obviously, the relation between mind and vital energy is an important topos that
provides insights into the ways philosophers in this period were thinking about human
self-cultivation. It seems even that mind and vital energy represent more than two in-
dividual terms: in fact, they form two incommensurable explanatory frameworks. We
are now in a position to specify how both texts use the relation between mind and
vital energy to construe their arguments. Each text has its major discourse, i.e. mind
(Mengzi) or vital energy (Guanzi), and, at some stage of their argument, they imple-
ment into this major discourse a minor discourse, i.e. vital energy or mind, respective-
ly. Mengzi uses the monistic notion of vital energy to illustrate mental processes and
to support his theory of moral development as a habituation. The author of the «In-
ner Workings» introduces the bimodality of mind in order to justify the sage’s
supreme position within a continuous hierarchy of a monistic cosmos. The general
pattern behind this divergence is that the texts identify mind with vital energy in order
to formulate the ideal of human action, i.e. the condition of the unmoved mind; but
they also emphasize reflection as a feature of mind which must remain substantially
different from the vital energy otherwise it would be impossible to explain the me-
chanics of the self-cultivation process. An important implication of this interpretation
might be that the ancient Chinese thought cannot be entirely monistic or polar, as op-
posed to the «Western» thought, simply because both traditions need to reflect some
inherent features of the human condition of which the activity of conscious self-cul-
tivation is just one example.
158 david machek

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NORME REDAZIONALI
DELLA CASA EDITRICE*
Citazioni bibliografiche
Una corretta citazione bibliografica di opere monografiche è costituita dalle seguenti parti,
separate fra loro da virgole:
- Autore, in maiuscolo/maiuscoletto sia il nome che il cognome; da omettere se l’opera ha soltanto dei
curatori o se è senza attribuzione. Se vi sono più autori, essi vanno posti uno di seguito all’altro, in
maiuscolo/maiuscoletto e separati fra loro da una virgola, omettendo la congiunzione ‘e’;
- Titolo dell’opera, in corsivo alto/basso, seguìto dall’eventuale Sottotitolo, in corsivo alto/basso, separato
da un punto. Se il titolo è unico, è seguìto dalla virgola; se è quello principale di un’opera in più tomi, è
seguìto dalla virgola, da eventuali indicazioni relative al numero di tomi, in cifre romane tonde, omet-
tendo ‘vol.’, seguìte dalla virgola e dal titolo del tomo, in corsivo alto/basso, seguìto dall’eventuale
Sottotitolo, in corsivo alto/basso, separato da un punto;
- eventuale numero del volume, se l’opera è composta da più tomi, omettendo ‘vol.’, in cifre romane
tonde;
- eventuale curatore, in tondo alto/basso, preceduto da ‘a cura di’, in tondo minuscolo. Se vi sono più
curatori, essi, in tondo alto/basso, seguono la dizione ‘a cura di’, in tondo minuscolo, l’uno dopo l’altro
e separati tra loro da una virgola, omettendo la congiunzione ‘e’;
- eventuali prefatori, traduttori, ecc. vanno posti analogamente ai curatori;
- luogo di edizione, in tondo alto/basso;
- casa editrice, o stampatore per le pubblicazioni antiche, in tondo alto/basso;
- anno di edizione e, in esponente, l’eventuale numero di edizione, in cifre arabe tonde;
- eventuale collana di appartenenza della pubblicazione, senza la virgola che seguirebbe l’anno di edizio-
ne precedentemente indicato, fra parentesi tonde, col titolo della serie fra virgolette ‘a caporale’, in tondo
alto/basso, eventualmente seguìto dalla virgola e dal numero di serie, in cifre arabe o romane tonde, del
volume;
- eventuali numeri di pagina, in cifre arabe e/o romane tonde, da indicare con ‘p.’ o ‘pp.’, in tondo
minuscolo.
Esempi di citazioni bibliografiche di opere monografiche:
Sergio Petrelli, La stampa in Occidente. Analisi critica, iv, Berlino-New York, de Gruyter, 20005, pp. 23-28.
Anna Dolfi, Giacomo Di Stefano, Arturo Onofri e la «Rivista degli studi orientali», Firenze, La Nuova
Italia, 1976 («Nuovi saggi», 36).
Filippo De Pisis, Le memorie del marchesino pittore, a cura di Bruno De Pisis, Sandro Zanotto, Torino,
Einaudi, 1987, pp. vii-14 e 155-168.
Storia di Venezia, v, Il Rinascimento. Società ed economia, a cura di Alberto Tenenti, Umberto Tucci, Renato
Massa, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, 1996.
Umberto F. Giannone et alii, La virtù nel Decamerone e nelle opere del Boccaccio, Milano-Napoli,
Ricciardi, 1974, pp. xi-xiv e 23-68.
*
Una corretta citazione bibliografica di articoli èditi in opere generali o seriali (ad es. enciclo-
pedie, raccolte di saggi, ecc.) o del medesimo autore oppure in Atti è costituita dalle seguenti
parti, separate fra loro da virgole:
- Autore, in maiuscolo/maiuscoletto sia il nome che il cognome; da omettere se l’articolo ha soltanto
dei curatori o se è senza attribuzione. Se vi sono più autori, essi vanno posti uno di seguito all’altro, in
maiuscolo/maiuscoletto e separati fra loro da una virgola, omettendo la congiunzione ‘e’;
* Fabrizio Serra, Regole editoriali, tipografiche & redazionali, Pisa-Roma, Serra, 20092, § 1. 17 (Euro 34.00, ordini a: fse@libra-
web.net). Le Norme sono consultabili e scaricabili alle pagine ‘Pubblicare con noi’ e ‘Publish with us’ del sito Internet www.libra-
web.net.
160 norme redazionali della casa editrice
- Titolo dell’articolo, in corsivo alto/basso, seguìto dall’eventuale Sottotitolo, in corsivo alto/basso, sepa-
rato da un punto;
- Titolo ed eventuale Sottotitolo di Atti o di un lavoro a più firme, preceduto dall’eventuale Autore: si
antepone la preposizione ‘in’, in tondo minuscolo, e l’eventuale Autore va in maiuscolo/maiuscoletto
(sostituito da Idem o Eadem, in forma non abbreviata, se è il medesimo dell’articolo), il Titolo va in
corsivo alto/basso, seguìto dall’eventuale Sottotitolo, in corsivo alto/basso, separato da un punto;
- eventuale numero del volume, se l’opera è composta da più tomi, omettendo ‘vol.’, in cifre romane
tonde;
- eventuale curatore, in tondo alto/basso, preceduto da ‘a cura di’, in tondo minuscolo. Se vi sono più
curatori, essi, in tondo alto/basso, seguono la dizione ‘a cura di’, in tondo minuscolo, l’uno dopo l’altro
e separati tra loro da una virgola, omettendo la congiunzione ‘e’;
- eventuali prefatori, traduttori, ecc. vanno posti analogamente ai curatori;
- luogo di pubblicazione, in tondo alto/basso;
- casa editrice, o stampatore per le pubblicazioni antiche, in tondo alto/basso;
- anno di edizione e, in esponente, l’eventuale numero di edizione, in cifre arabe tonde;
- eventuale collana di appartenenza della pubblicazione, senza la virgola che seguirebbe l’anno di
edizione precedentemente indicato, fra parentesi tonde, col titolo della serie fra virgolette ‘a caporale’,
in tondo alto/basso, eventualmente seguìto dalla virgola e dal numero di serie, in cifre arabe o romane
tonde, del volume;
- eventuali numeri di pagina, in cifre arabe e/o romane tonde, da indicare con ‘p.’ o ‘pp.’, in tondo
minuscolo.
Esempi di citazioni bibliografiche di articoli èditi in opere generali o seriali (ad es. enciclopedie,
raccolte di saggi, ecc.) o del medesimo autore oppure in Atti:
Sergio Petrelli, La stampa a Roma e a Pisa. Editoria e tipografia, in La stampa in Italia. Cinque secoli di
cultura, ii, Leida, Brill, 20024, pp. 5-208.
Paul Larivaille, L’Ariosto da Cassaria a Lena. Per un’analisi narratologica della trama comica, in Idem, La
semiotica e il doppio teatrale, iii, a cura di Giulio Ferroni, Torino, utet, 1981, pp. 117-136.
Giorgio Marini, Simone Cai, Ermeneutica e linguistica, in Atti della Società Italiana di Glottologia, a cura di
Alberto De Juliis, Pisa, Giardini, 1981 («Biblioteca della Società Italiana di Glottologia», 27), pp. 117-136.
*
Una corretta citazione bibliografica di articoli èditi in pubblicazioni periodiche è costituita
dalle seguenti parti, separate fra loro da virgole:
- Autore, in maiuscolo/maiuscoletto sia il nome che il cognome; da omettere se l’articolo ha soltanto
dei curatori o se è senza attribuzione. Se vi sono più autori, essi vanno posti uno di seguito all’altro, in
maiuscolo/maiuscoletto e separati fra loro da una virgola, omettendo la congiunzione ‘e’;
- Titolo dell’articolo, in corsivo alto/basso, seguìto dall’eventuale Sottotitolo, in corsivo alto/basso, sepa-
rato da un punto;
- «Titolo rivista», in tondo alto/basso (o «Sigla rivista», in tondo alto/ basso o in maiuscoletto spaziato,
secondo la specifica abbreviazione), preceduto e seguìto da virgolette ‘a caporale’, non preceduto da ‘in’
in tondo minuscolo;
- eventuale curatore, in tondo alto/basso, preceduto da ‘a cura di’, in tondo minuscolo. Se vi sono più
curatori, essi, in tondo alto/basso, seguono la dizione ‘a cura di’, in tondo minuscolo, l’uno dopo l’altro
e separati tra loro da una virgola, omettendo la congiunzione ‘e’;
- eventuali prefatori, traduttori, ecc. vanno posti analogamente ai curatori;
- eventuale numero di serie, in cifra romana tonda, con l’abbreviazione ‘s.’, in tondo minuscolo;
- eventuale numero di annata e/o di volume, in cifre romane tonde, e, solo se presenti entrambi, prece-
duti da ‘a.’ e/o da ‘vol.’, in tondo minuscolo, separati dalla virgola;
- eventuale numero di fascicolo, in cifre arabe tonde;
- luogo di pubblicazione, in tondo alto/basso (opzionale);
norme redazionali della casa editrice 161
- casa editrice, o stampatore per le pubblicazioni antiche, in tondo alto/basso (opzionale);
- anno di edizione, in cifre arabe tonde;
- eventuali numeri di pagina, in cifre arabe e/o romane tonde, da indicare con ‘p.’ o ‘pp.’, in tondo
minuscolo; eventuale interpunzione ‘:’, seguìta da uno spazio mobile, per specificare la pagina che
interessa.
Esempi di citazioni bibliografiche di articoli èditi in pubblicazioni periodiche:
Bruno Porcelli, Psicologia, abito, nome di due adolescenti pirandelliane, «rli», xxxi, 2, Pisa, 2002, pp. 53-
64: 55.
Giovanni De Marco, I ‘sogni sepolti’: Antonia Pozzi, «Esperienze letterarie», a. xiv, vol. xii, 4, 1989, pp.
23-24.
Rita Gianfelice, Valentina Pagnan, Sergio Petrelli, La stampa in Europa. Studi e riflessioni,
«Bibliologia», s. ii, a. iii, vol. ii, 3, 2001, pp. v-xi e 43-46.
Fonti (Le) metriche della tradizione nella poesia di Giovanni Giudici. Una nota critica, a cura di Roberto Zucco,
«StNov», XXIV, 2, Pisa, Giardini, 1993, pp. vii-viii e 171-208.
*
Nel caso di bibliografie realizzate nello ‘stile anglosassone’, identiche per volumi e periodici,
al cognome dell’autore, in maiuscolo/maiuscoletto, segue la virgola, il nome e l’anno di pub-
blicazione fra parentesi tonde seguito da virgola, a cui deve seguire direttamente la rimanente
specifica bibliografica come prima esposta, con le caratteristiche tipografiche inalterate, omet-
tendo l’anno già indicato; oppure, al cognome e nome dell’autore, separati dalla virgola, e al-
l’anno, fra parentesi tonde, tutto in tondo alto/basso, segue ‘=’ e l’intera citazione bibliogra-
fica, come prima esposta, con le caratteristiche tipografiche inalterate. Nell’opera si utilizzerà,
a mo’ di richiamo di nota, la citazione del cognome dell’autore seguìto dall’anno di pubblica-
zione, ponendo fra parentesi tonde il solo anno o l’intera citazione (con la virgola fra autore
e anno), a seconda della posizione – ad es.: De Pisis (1987); (De Pisis, 1987) –.
È da evitare l’uso di comporre in tondo alto/basso, anche fra apici singoli, il titolo e in cor-
sivo il nome o le sigle delle riviste.
Esempi di citazioni bibliografiche per lo ‘stile anglosassone’:
De Pisis, Filippo (1987), Le memorie del marchesino pittore, a cura di Bruno De Pisis, Sandro Zanotto,
Torino, Einaudi, pp. 123-146 e 155.
De Pisis, Filippo (1987) = Filippo De Pisis, Le memorie del marchesino pittore, a cura di Bruno De Pisis,
Sandro Zanotto, Torino, Einaudi, 1987.
*
Nelle citazioni bibliografiche poste in nota a pie’ di pagina, è preferibile anteporre il nome al
cognome, eccetto in quelle realizzate nello ‘stile anglosassone’. Nelle altre tipologie bibliogra-
fiche è invece preferibile anteporre il cognome al nome. Nelle citazioni bibliografiche relative
ai curatori, prefatori, traduttori, ecc. è preferibile anteporre il nome al cognome.
L’abbreviazione ‘Aa.Vv.’ (cioè ‘autori vari’) deve essere assolutamente evitata, non avendo
alcun valore bibliografico. Può essere correttamente sostituita citando il primo nome degli
autori seguìto da ‘et alii’ o con l’indicazione, in successione, degli autori, separati tra loro da
una virgola, qualora essi siano tre o quattro.
Per completezza bibliografica è preferibile indicare, accanto al cognome, il nome per esteso
degli autori, curatori, prefatori, traduttori, ecc. anche negli indici, nei sommari, nei titoli cor-
renti, nelle bibliografie, ecc.
I nomi dei curatori, prefatori, traduttori, ecc. vanno in tondo alto/basso, per distinguerli da
quelli degli autori, in maiuscolo/maiuscoletto.
L’espressione ‘a cura di’ si scrive per esteso.
Qualora sia necessario indicare, in forma abbreviata, un doppio nome, si deve lasciare uno
spazio fisso fine pari a ½ pt (o, in subordine, uno spazio mobile) anche tra le lettere maiuscole
puntate del nome (ad es.: P. G. Greco; G. B. Shaw).
162 norme redazionali della casa editrice
Nel caso che i nomi degli autori, curatori, prefatori, traduttori, ecc. siano più di uno, essi si
separano con una virgola (ad es.: Francesco De Rosa, Giorgio Simonetti; Francesco De
Rosa, Giorgio Simonetti) e non con il lineato breve unito, anche per evitare confusioni con i
cognomi doppi, omettendo la congiunzione ‘e’.
Il lineato breve unito deve essere usato per i luoghi di edizione (ad es.: Pisa-Roma), le case
editrici (ad es.: Fabbri-Mondadori), gli anni (ad es.: 1966-1972), i nomi e i cognomi doppi (ad
es.: Anne-Christine Faitrop-Porta; Hans-Christian Weiss-Trotta).
Nelle bibliografie elencate alfabeticamente sulla base del cognome dell’autore, si deve far
seguire al cognome il nome, omettendo la virgola fra le due parole; se gli autori sono più di
uno, essi vanno separati da una virgola, omettendo la congiunzione ‘e’.
Nelle bibliografie, l’articolo, fra parentesi tonde, può essere posposto alla prima parola del
titolo – ad es.: Alpi (Le) di Buzzati –.
Nei brani in corsivo va posto in tondo ciò che usualmente va in corsivo; ad esempio i titoli
delle opere. Vedi supra.
Gli acronimi vanno composti integralmente in maiuscoletto spaziato. Ad es.: agip, clueb,
cnr, isbn, isnn, rai, usa, utet, ecc.
I numeri delle pagine e degli anni vanno indicati per esteso (ad es.: pp. 112-146 e non 112-46;
113-118 e non 113-8; 1953-1964 e non 1953-964 o 1953-64 o 1953-4).
Nelle abbreviazioni in cifre arabe degli anni, deve essere usato l’apostrofo (ad es.: anni ’30).
I nomi dei secoli successivi al mille vanno per esteso e con iniziale maiuscola (ad es.: Settecen-
to); con iniziale minuscola vanno invece quelli prima del mille (ad es.: settecento). I nomi dei
decenni vanno per esteso e con iniziale minuscola (ad es.: anni venti dell’Ottocento).
L’ultima pagina di un volume è pari e così va citata. In un articolo la pagina finale dispari
esiste, e così va citata solo qualora la successiva pari sia di un altro contesto; altrimenti va
citata, quale ultima pagina, quella pari, anche se bianca.
Le cifre della numerazione romana vanno rispettivamente in maiuscoletto se la numera-
zione araba è in numeri maiuscoletti, in maiuscolo se la numerazione araba è in numeri
maiuscoli (ad es.: xxiv, 1987; XXIV, 1987). Vedi supra.
L’indispensabile indicazione bibliografica del nome della casa editrice va in forma abbrevia-
ta (‘Einaudi’ e non ‘Giulio Einaudi Editore’), citando altre parti (nome dell’editore, ecc.) qua-
lora per chiarezza ciò sia necessario (ad es.: ‘Arnoldo Mondadori’, ‘Bruno Mondadori’,
‘Salerno Editrice’).
Opera citata
Nel ripetere la medesima citazione bibliografica successiva alla prima in assoluto, si indicano
qui le norme da seguire, per le opere in lingua italiana:
- può essere usata l’abbreviazione ‘op. cit.’ (‘art. cit.’ per gli articoli; in corsivo poiché sostituiscono anche
il titolo) dopo il nome, con l’omissione del titolo e della parte successiva ad esso:
Giorgio Massa, op. cit., p. 162.
ove la prima citazione era:
Giorgio Massa, Parigi, Londra e l’Europa. Saggi di economia politica, Milano, Feltrinelli, 1976.
- onde evitare confusioni qualora si citino opere differenti dello stesso autore, si cita l’autore,
il titolo (o la parte principale di esso) seguìto da ‘, cit.,’, in tondo minuscolo, e si omette la parte
successiva al titolo:
Giorgio Massa, Parigi, Londra e l’Europa, cit., p. 162.
- se si cita un articolo inserito in un’opera a più firme già precedentemente citata, si scriva:
Corrado Alvaro, Avvertenza per una guida, in Lettere parigine, cit., p. 128.
ove la prima citazione era:
Corrado Alvaro, Avvertenza per una guida, in Lettere parigine. Scritti 1922-1925, a cura di Anne-Christine
Faitrop-Porta, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1996.
norme redazionali della casa editrice 163

Brani riportati
I brani riportati brevi vanno nel testo tra virgolette ‘a caporale’ e, se di poesia, con le strofe se-
parate fra loro da una barra obliqua (ad es.: «Quest’ermo colle, / e questa siepe, che da tanta
parte»). Se lunghi oltre le venticinque parole (o due-tre righe), vanno in corpo infratesto, senza
virgolette; devono essere preceduti e seguìti da un’interlinea di mezza riga bianca e non devo-
no essere rientrati rispetto alla giustezza del testo. Essi debbono essere riprodotti fedelmente
rispetto all’originale, anche se difformi dalle nostre norme.
I brani riportati di testi poetici più lunghi e di formule vanno in corpo infratesto centrati
sul rigo più lungo.
Nel caso in cui siano presenti, in successione, più brani tratti dalla medesima opera, è suffi-
ciente indicare il relativo numero di pagina (tra parentesi tonda) alla fine di ogni singolo brano
riportato, preceduto da ‘p.’, ‘pp.’, evitando l’uso di note.

Abbreviazioni
Diamo qui un breve elenco di abbreviazioni per le opere in lingua italiana (facendo presente
che, per alcune discipline, esistono liste specifiche):

a. = annata lett. = lettera, -e


a.a. = anno accademico loc. cit. = località citata
A., Aa. = autore, -i (m.lo/m.tto) m.lo = maiuscolo (tip.)
a.C. = avanti Cristo m.lo/m.tto = maiuscolo/maiuscoletto (tip.)
ad es. = ad esempio m.tto = maiuscoletto (tip.)
ad v. = ad vocem (c.vo) misc. = miscellanea
an. = anonimo ms., mss. = manoscritto, -i
anast. = anastatico n.n. = non numerato
app. = appendice n., nn. = numero, -i
art., artt. = articolo, -i N.d.A. = nota dell’autore
art. cit., artt. citt. = articolo citato, articoli citati N.d.C. = nota del curatore
(c.vo perché sostituiscono anche il titolo) N.d.E. = nota dell’editore
autogr. = autografo, -i N.d.R. = nota del redattore
°C = grado centigrado N.d.T. = nota del traduttore
ca = circa (senza punto basso) nota = nota (per esteso)
cap., capp. = capitolo, -i n.s. = nuova serie
cfr. = confronta n.t. = nel testo
cit., citt. = citato, -i op., opp. = opera, -e
cl. = classe op. cit., opp. citt. = opera citata, opere citate (c.vo
cm, m, km, gr, kg = centimetro, ecc. (senza punto perché sostituiscono anche il titolo)
basso) p., pp. = pagina, -e
cod., codd. = codice, -i par., parr., §, §§ = paragrafo, -i
col., coll. = colonna, -e passim = passim (la citazione ricorre frequente
cpv. = capoverso nell’opera citata, c.vo)
c.vo = corsivo (tip.) r = recto (per la numerazione delle carte dei
d.C. = dopo Cristo manoscritti; c.vo, senza punto basso)
ecc. = eccetera rist. = ristampa
ed., edd. = edizione, -i s. = serie
es., ess. = esempio, -i s.a. = senza anno di stampa
et alii = et alii (per esteso; c.vo) s.d. = senza data
F = grado Farenheit s.e. = senza indicazione di editore
f., ff. = foglio, -i s.l. = senza luogo
f.t. = fuori testo s.l.m. = sul livello del mare
facs. = facsimile s.n.t. = senza note tipografiche
fasc. = fascicolo s.t. = senza indicazione di tipografo
Fig., Figg. = figura, -e (m.lo/m.tto) sec., secc. = secolo, -i
164 norme redazionali della casa editrice
sez. = sezione tip. = tipografico
sg., sgg. = seguente, -i tit., titt. = titolo, -i
suppl. = supplemento trad. = traduzione
supra = sopra v = verso (per la numerazione delle carte dei
t., tt. = tomo, -i manoscritti; c.vo, senza punto basso)
t.do = tondo (tip.) v., vv. = verso, -i (non puntata)
Tab., Tabb. = tabella, -e (m.lo/m.tto) vedi = vedi (per esteso)
Tav., Tavv. = tavola, -e (m.lo/m.tto) vol., voll. = volume, -i

Diamo qui un breve elenco di abbreviazioni per le opere in lingua inglese:


A., Aa. = author, -s (m.lo/m.tto, caps and small ms., mss. = manuscript, -s
caps) n.n. = not numbered
a.d. = anno Domini (m.tto, small caps) n., nn./no., nos. = number, -s
an. = anonymous n.s. = new series
anast. = anastatic p., pp. = page, -s
app. = appendix Pl., Pls. = plate, -s (m.lo/m.tto, caps and small caps)
art., artt. = article, -s r = recto (c.vo, italic; senza punto basso, without full
autogr. = autograph stop)
b.c. = before Christ (m.tto, small caps) s. = series
cm, m, km, gr, kg = centimetre, ecc. (senza punto suppl. = supplement
basso, without full stop) t., tt. = tome, -s
cod., codd. = codex, -es tit. = title
ed. = edition v = verso (c.vo, italic; senza punto basso, without full
facs. = facsimile stop)
f., ff. = following, -s vs = versus (c.vo, italic; senza punto basso, without
lett. = letter full stop)
misc. = miscellaneous vol., vols. = volume, -s

Le abbreviazioni Fig., Figg., Pl., Pls., Tab., Tabb., Tav. e Tavv. vanno in maiuscolo/maiu-
scoletto, nel testo come in didascalia.
Paragrafi
La gerarchia dei titoli dei vari livelli dei paragrafi (anche nel rispetto delle centrature, degli
allineamenti e dei caratteri – maiuscolo/maiuscoletto spaziato, alto/basso corsivo e tondo –)
è la seguente:
1. Istituti editoriali
1. 1. Istituti editoriali
1. 1. 1. Istituti editoriali
1. 1. 1. 1. Istituti editoriali
1. 1. 1. 1. 1. Istituti editoriali
1. 1. 1. 1. 1. 1. Istituti editoriali
L’indicazione numerica, in cifre arabe o romane, nelle titolazioni dei vari livelli dei paragrafi,
qui indicata per mera chiarezza, è opzionale.

Virgolette e apici
L’uso delle virgolette e degli apici si diversifica principalmente tra:
- « », virgolette ‘a caporale’: per i brani riportati che non siano in infratesto o per i discorsi diretti;
- “ ”, apici doppi: per i brani riportati all’interno delle « » (se occorre un 3º grado di virgolette, usare gli
apici singoli ‘ ’);
- ‘ ’, apici singoli: per le parole e le frasi da evidenziare, le espressioni enfatiche, le parafrasi, le traduzioni
di parole straniere, ecc.
norme redazionali della casa editrice 165

Note
In una pubblicazione le note sono importantissime e manifestano la precisione dell’autore.
Il numero in esponente di richiamo di nota deve seguire, senza parentesi, un eventuale
segno di interpunzione e deve essere preceduto da uno spazio finissimo.
Le note, numerate progressivamente per pagina o articolo o capitolo o saggio, vanno poste
a pie’ di pagina e non alla fine dell’articolo o del capitolo o del saggio.
Analogamente alle poesie poste in infratesto, le note seguono la tradizionale impostazione
della costruzione della pagina sull’asse centrale propria della ‘tipografia classica’ e di tutte le
nostre pubblicazioni. Le note brevi (anche se più d’una, affiancate una all’altra a una distanza
di tre righe tipografiche) vanno dunque posizionate centralmente o nello spazio bianco del-
l’ultima riga della nota precedente (lasciando in questo caso almeno un quadratone bianco a
fine giustezza). La prima nota di una pagina è distanziata dall’eventuale parte finale dell’ultima
nota della pagina precedente da un’interlinea pari a tre punti tipografici (nelle composizioni
su due colonne l’interlinea deve essere pari a una riga di nota). Le note a fine articolo, capitolo
o saggio sono poste a una riga tipografica (o mezzo centimetro) dal termine del testo.

Ivi e Ibidem · Idem e Eadem


Nei casi in cui si debba ripetere di séguito la citazione della medesima opera, variata in qualche
suo elemento – ad esempio con l’aggiunta dei numeri di pagina –, si usa ‘ivi’ (in tondo alto/
basso); si usa ‘ibidem’ (in corsivo alto/basso), in forma non abbreviata, quando la citazione è
invece ripetuta in maniera identica subito dopo.
Esempi:
Lezioni su Dante, cit., pp. 295-302.
Ivi, pp. 320-326.
Benedetto Varchi, Di quei cinque capi, cit., p. 307.
Ibidem. Le cinque categorie incluse nella lettera (1, 2, 4, 7 e 8) sono schematicamente descritte da Varchi.

Quando si cita una nuova opera di un autore già citato precedentemente, nelle bibliografie
generali si può porre, in luogo del nome dell’autore, un lineato lungo; nelle bibliografie
generali, nelle note a pie’ di pagina e nella citazione di uno scritto compreso in una raccolta
di saggi dello stesso autore (Vedi supra) si può anche utilizzare, al posto del nome dell’autore,
l’indicazione ‘Idem’ (maschile) o ‘Eadem’ (femminile), in maiuscolo/maiuscoletto e mai in
forma abbreviata.
Esempi:
Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal, Milano, Sonzogno, 1936.
—, L’umorismo, Milano, Arnoldo Mondadori, 1998.
Luigi Pirandello, L’esclusa, Milano, Arnoldo Mondadori, 1996.
Idem, L’umorismo, Milano, Arnoldo Mondadori, 1999.

Maria Luisa Altieri Biagi, La lingua in scena, Bologna, Zanichelli, 1980, p. 174.
—, Fra lingua scientifica e lingua letteraria, Pisa-Roma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, 1998,
pp. 93-98.
Maria Luisa Altieri Biagi, La lingua italiana, Pisa-Roma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali,
2004.
Eadem, Fra lingua scientifica e lingua letteraria, Pisa-Roma, Istituti editoriali e poligrafici internazionali,
1998, pp. 93-98.
166 norme redazionali della casa editrice

Parole in carattere tondo


Vanno in carattere tondo le parole straniere che sono entrate nel linguaggio corrente, come:
boom, cabaret, chic, cineforum, computer, dance, film, flipper, gag, garage, horror, leader,
monitor, pop, rock, routine, set, spray, star, stress, tea, thè, tic, vamp, week-end, ecc. Esse
vanno sempre poste nella forma singolare.

Parole in carattere corsivo


In genere vanno in carattere corsivo tutte le parole straniere. Vanno inoltre in carattere corsivo:
alter ego (senza lineato breve unito), aut-aut (con lineato breve unito), budget, équipe, media (mez-
zi di comunicazione), passim, revival, sex-appeal, sit-com (entrambe con lineato breve unito), soft.

Illustrazioni
Le illustrazioni devono avere l’estensione eps o tif. Quelle in bianco e nero (bitmap) devono
avere una risoluzione di almeno 600 pixels; quelle in scala di grigio e a colori (cmyk e non rgb)
devono avere una risoluzione di almeno 300 pixels.

Varie
Il primo capoverso di ogni nuova parte, anche dopo un infratesto, deve iniziare senza il rientro,
in genere pari a mm 3,5.
Nelle bibliografie generali, le righe di ogni citazione che girano al rigo successivo devono
rientrare di uno spazio pari al capoverso.
Vanno evitate le composizioni in carattere neretto, sottolineato, in minuscolo spaziato e
integralmente in maiuscolo.
All’interno del testo, un intervento esterno (ad esempio la traduzione) va posto tra paren-
tesi quadre.
Le omissioni si segnalano con tre puntini tra parentesi quadre.
Nelle titolazioni, è nostra norma l’uso del punto centrale in luogo del lineato.
Per informazione, in tipografia è obbligatorio l’uso dei corretti font sia per il carattere
corsivo che per il carattere maiuscoletto.
Esempi:
L aur a (errato); Laura (corretto)
L AURA (errato); Laura (corretto)
Analogamente è obbligatorio l’uso delle legature della ‘f ’ sia in tondo che in corsivo (ad es.:
‘ff’, ‘fi’, ‘ffi’, ‘fl’, ‘ffl’; ‘ff’, ‘fi’, ‘ffi’, ‘fl’, ‘ffl’).
Uno spazio finissimo deve precedere tutte le interpunzioni, eccetto i punti bassi, le virgole,
le parentesi e gli apici. Le virgolette ‘a caporale’ devono essere, in apertura, seguìte e, in chiu-
sura, precedute da uno spazio finissimo.
I caratteri delle titolazioni (non dei testi) in maiuscolo, maiuscolo/maiuscoletto e maiusco-
letto devono essere equilibratamente spaziati.
Tutte le opere da noi èdite sono composte in carattere Dante Monotype.
Negli originali cartacei ‘dattiloscritti’, il corsivo va sottolineato una volta, il maiuscolo/
maiuscoletto due volte, il maiuscolo tre volte.
È una consuetudine, per i redattori interni della casa editrice, l’uso di penne con inchiostro
verde per la correzione delle bozze cartacee, al fine di distinguere i propri interventi redazio-
nali.
composto in car attere dante monotype dalla
fabrizio serr a editore, pisa · roma.
stampato e rilegato nella
tipo gr afia di agnano, agnano pisano (pisa).

*
Dicembre 2012
(cz 2 · fg 21)
ANTIQVORVM PHILOSOPHIA
*
Sommari · Summaries

1 · 2007
Forme di dibattito e di confutazione degli avversari nel pensiero antico: Luca Casta-
gnoli, «Everything is true», «everything is false». Self-refutation arguments from Democritus
to Augustine; Louis-André Dorion, Elenchos dialectique et elenchos rhétorique dans la
défense de Socrate; Luc Brisson, Une réfutation contagieuse: Banquet (199c-201c et 201e-
203a); Giuseppe Cambiano, Come confutare un libro? Dal Fedro al Teeteto di Platone;
Walter Cavini, Principia contradictionis. Sui principi aristotelici della contraddizione (§§
1-3); Ermelinda Valentina Di Lascio, Solecisms on things. The argument ·Úa Ùe ÛÎÉÌ·
Ùɘ Ϥ͈˜ in Aristotle’s Sophistical Refutations; Jean Levi, De la dispute sophiste au
dialogue philosophique; Christopher Cullen, Actors, networks and ‘disturbing spectacles’ in
institutional science: 2nd century Chinese debates on astronomy; Johannes Bronkhorst,
Modes of debate and refutation of adversaries in classical and medieval India: a preliminary
investigation. Discussioni e ricerche: Luciana Repici, Aristotele, l’anima e l’incorruttibili-
tà: note su De longitudine et brevitate vitae, 1-3; Stefano Bacin, Kant, i filosofi antichi e i
limiti della loro recezione. A proposito di un libro recente.

2 · 2008
Il problema dell’io nel pensiero antico e moderno: Brad Inwood, Introduction; Richard
Sorabji, Self and Morality: Cross-Cultural Perspectives; Jonardon Ganeri, Self and Moral-
ity: Some Indian Perspectives on Sorabji; Claus Oetke, ‘Self ’ and ‘Soul’ in Indian Philosophy;
Jiyuan Yu, After Socrates and After Confucius: Self, Virtue, and Soul; Christopher Gill, The
Ancient Self – Where now?; Jennifer Whiting, The Lockeanism of Aristotle; Elena Bovo,
Carlos Lévy, Le ‘je’ de l’être juif chez Philon d’Alexandrie et Lévinas. Discussioni e
ricerche: Walter Cavini, Principia contradictionis. Sui principi aristotelici della contrad-
dizione (§ 4); Laura M. Castelli, Te íÓ Ï¤ÁÂÙ·È ÔÏÏ·¯á˜. Questioni aristoteliche sui si-
gnificati dell’uno.

3 · 2009
Jaap Mansfeld, Bothering the Infinite. Anaximander in the Nineteenth Century and
Beyond. L’autorità degli antichi e i commenti filosofici: Michael Puett, Sages, Gods,
and History: Commentarial Strategies in Chinese Late Antiquity; Marwan Rashed, Le
prologue perdu de l’abrégé du Timée de Galien dans un texte de magie noire; Rachel Bar-
ney, Simplicius: Commentary, Harmony, and Authority; Han Baltussen, Simplicius and
the Subversion of Authority; Luc Brisson, Le commentaire des œuvres de Platon comme
révélation de vérités divines; Amos Bertolacci, Different Attitudes to Aristotle’s Authority
in the Arabic Medieval Commentaries on the Metaphysics. Discussioni e ricerche: Wei
Liu, Aristotle’s City-Soul Analogy: Some Preliminary Observations.
4 · 2010
Johannes Bronkhorst, Philosophy and language in India: a brief overview; Alexis Pin-
chard, Les langues indo-européennes sont-elles les langues de l’être? Le témoignage indo-
iranien; Magali Annèe, Le verbe être de Parménide: elaboration strategique d’une entite
linguistique infaillible; Nicholas White, Plato’s Conceptual Paradeigmatism; Nicolas
Zufferey, Les mots et les choses en Chine ancienne. Discussioni e ricerche: Dimitri El
Murr, Les Formes sans l’âme: Parm. 131a-133a est-il une critique de la participation?; Tiziano
Dorandi, ‘Editori’ antichi di Platone; Emanuele Bordello, Aspetti aristotelici nell’opera di
Philippa Foot; Chiara Ghidini, In memory of Giovanni Pugliese Carratelli.

5 · 2011
La percezione: Jane Geaney, Self as container? Metaphors we lose by in understanding early
chinese texts; Pierre-Marie Morel, Perception et divination chez Aristote. Images oniriques et
moteurs éloignés; Luciana Repici, La sensazione in Lucrezio; Teun Tieleman, Galen on
perception; Giuseppe Cambiano, Speusippo e la percezione scientifica; Anne Clavel, La
perception peut-elle échapper au concept? La contribution jaina au débat indien. Discussioni
e ricerche: Phillip Sidney Horky, On the phylogenetics of wisdom: A response to Alexis
Pinchard, Les langues de sagesse dans la Grèce et l’Inde anciennes; Marco Sgarbi,
Metaphysica § 7. 1072 b 10-13.

6 · 2012
Libertà e scelta: Anne Cheng, La ricezione del concetto di libertà in Cina; Johannes
Bronkhorst, Free Will and Indian Philosophy; Carlo Natali, Un argomento aristotelico contro
il determinismo; Karen Margrethe Nielsen, The Will: Origins of the Notion in Aristotle’s
Thought. Discussioni e ricerche: Francesco Fronterotta, I fiumi, le acque, il divenire.
Su Eraclito, frr. 12, 49A, 91 DK [40, 40c2, 40c3 Marcovich]; Maria Isabella Bertagna, Sulla
costruzione del racconto nel Protagora di Platone; Massimiliano Carloni, Una parafrasi di
Omero nella Repubblica di Platone; Vincenzo Damiani, Nota testuale a Epicuro, ad pyth.,
101; David Machek, The Ideal of Quiescent Mind: «Mind» and «Vital Energy» in China of the
Fourth Century b.C.
HISTOIRE INTELLECTUELLE DE LA CHINE

Les « Budé chinois » entrent aux Belles Lettres


La « Bibliothèque chinoise », inaugurée par nombreux collègues, toutes générations
les Éditions des Belles Lettres en mars 2010, est confondues, depuis les grands maîtres qui
née d’un rêve très ancien, celui de créer un nous ont formés jusqu’aux jeunes chercheurs
équivalent chinois de la fameuse collection des qui assureront la relève. Il va mobiliser toutes
« Budé » en grec et en latin. Elle est aussi née les compétences disponibles et porter à la
d’une rencontre qui a eu lieu en 2007 entre connaissance d’un public élargi la richesse et
deux représentantes des Belles Lettres, leur la diversité, non seulement des sources
présidente Caroline Noirot et leur coordina- extrême-orientales, mais aussi des approches
trice Marie-José d’Hoop, et deux sinologues, disciplinaires mises au point pour les étudier
Pr Anne Cheng Anne Cheng, actuellement titulaire de la chaire en contexte francophone (rappelons que la
d’Histoire intellectuelle de la Chine au Collège sinologie européenne est née avec la création,
de France, et Marc Kalinowski, directeur dès 1814, d’une chaire de langue et littéra-
d’études à l’École pratique des hautes études, ture chinoises et tartare-mandchoues au
spécialiste de l’histoire culturelle de la Chine Collège de France).
ancienne et médiévale.
Les deux premiers titres de la collection sont
La « Bibliothèque chinoise » a pour ambition représentatifs de la dynastie des Han, longue
première de proposer des textes en langue clas- de quatre siècles (- 206 à + 220) et fonda-
sique dans tous les domaines des lettres et des trice du premier empire chinois centralisé,
sciences sans restriction (philosophie, histoire, assurant une pax sinica au moment où
poésie, traités politiques et militaires, mais l’autre extrémité du continent eurasiatique
aussi médecine, astronomie, mathématiques, connaissait la pax romana. Dans la traduc-
etc.). Ces textes seront choisis pour leurs tion de Jean Levi, La dispute sur le sel et le
qualités littéraires, pour l’importance qu’ils fer (Yantielun) retranscrit un débat tenu lors
ont connue dans la culture chinoise ainsi que d’un conseil impérial en – 81 sur la question
pour la possibilité ainsi offerte au lecteur non des monopoles d’Etat et, plus généralement,
sinologue d’entrer de plain-pied dans les sur la meilleure manière de gouverner. Quant
ouvrages les plus représentatifs de l’immense au Fayan (Maîtres mots) du grand lettré
production écrite qui caractérise cette culture, Yang Xiong (-53 à + 18), traduit par Béatrice
depuis l’époque de Confucius (VIe-Ve siècles) L’Haridon, il se présente comme un brillant
jusqu’à l’ère moderne au début du XXe siècle. pastiche des Entretiens de Confucius. A noter
que ces deux ouvrages, présentés lors d’une
Le domaine chinois ne sera pas le seul réception à la Fondation Hugot le 18 mars
concerné, mais aussi les domaines coréen, 2010, ont bénéficié d’une subvention du
japonais, vietnamien, en somme toutes les Collège de France qui marque ainsi son
aires culturelles qui ont pratiqué le chinois clas- soutien à une entreprise si fidèle à sa devise,
sique comme langue commune aux élites Docet omnia, en ce qu’elle s’emploie à faire
lettrées, un peu à la manière dont les clercs de entrer les sources en chinois dans les huma-
l’Europe du Moyen Âge jusqu’aux Lumières nités classiques, à les rendre accessibles à
se sont servis du latin comme lingua franca. l’étudiant comme à l’honnête homme éclairé
et curieux et, en fin de compte, à les faire
A l’instar de la collection Budé, les œuvres sont sortir de leur irréductible « altérité ». 
proposées en édition bilingue avec texte original
et traduction française en regard, assorties
d’une longue introduction et d’un apparat
critique développé (notes, chronologie, glos-
saire, index), destinés non pas à faire étalage
d’érudition, mais à guider et faciliter la lecture.

Ce projet de la « Bibliothèque chinoise » a


déjà été accueilli avec enthousiasme par de
Riviste · Journals

ACTA PHILOSOPHICA
Rivista internazionale di filosofia
diretta da Francesco Russo

ANTIQVORVM PHILOSOPHIA
An International Journal
Rivista diretta da Giuseppe Cambiano

ARCHIVIO DI FILOSOFIA
Rivista fondata nel 1931 da Enrico Castelli
già diretta da Marco Maria Olivetti
e diretta da Stefano Semplici

BRUNIANA & CAMPANELLIANA


Ricerche filosofiche e materiali storico-testuali
Rivista diretta da Eugenio Canone e Germana Ernst

HISTORIA PHILOSOPHICA
An International Journal
Rivista diretta da Paolo Cristofolini

FABRIZIO SERRA EDITORE


PISA · ROMA
www.libraweb.net
Riviste · Journals

HISTORY OF ECONOMIC IDEAS


Rivista diretta da Riccardo Faucci

IL PENSIERO ECONOMICO ITALIANO


Rivista diretta da Massimo A. Augello

LA CRITICA SOCIOLOGICA
Rivista trimestrale fondata e diretta da Franco Ferrarotti

PER LA FILOSOFIA
Filosofia e insegnamento
Rivista quadrimestrale
dell’Associazione Docenti Italiani di Filosofia

STUDI KANTIANI
Rivista fondata da Silvestro Marcucci
e diretta da Giuliano Massimo Barale e Claudio La Rocca

FABRIZIO SERRA EDITORE


PISA · ROMA
www.libraweb.net
F ABRIZIO S ERRA EDITORE
Pisa · Roma
www.libraweb.net
Fabrizio Serra
Regole editoriali,
tipografiche & redazionali
Seconda edizione
Prefazione di Martino Mardersteig · Postfazione di Alessandro Olschki
Con un’appendice di Jan Tschichold
Dalla ‘Prefazione’ di Martino Mardersteig
[…] O ggi abbiamo uno strumento […], il
presente manuale intitolato, giustamente, ‘Re-
gole’. Varie sono le ragioni per raccomandare
quest’opera agli editori, agli autori, agli appas-
sionati di libri e ai cultori delle cose ben fatte e
soprattutto a qualsiasi scuola grafica. La prima
è quella di mettere un po’ di ordine nei mille
criteri che l’autore, il curatore, lo studioso ap-
plicano nella compilazione dei loro lavori. Si
tratta di semplificare e uniformare alcune nor-
me redazionali a beneficio di tutti i lettori. In
secondo luogo, mi sembra che Fabrizio Serra
sia riuscito a cogliere gli insegnamenti prove-
nienti da oltre 500 anni di pratica e li abbia inse-
riti in norme assolutamente valide. Non possia-
mo pensare che nel nome della proclamata
‘libertà’ ognuno possa comporre e strutturare
un libro come meglio crede, a meno che non si
tratti di libro d’artista, ma qui non si discute di
questo tema. Certe norme, affermate e conso-
lidatesi nel corso dei secoli (soprattutto sulla
leggibilità), devono essere rispettate anche og-
gi: è assurdo sostenere il contrario. […] Fabri-
zio Serra riesce a fondere la tradizione con la Non credo siano molte le case editrici che
tecnologia moderna, la qualità di ieri con i curano una propria identità redazionale metten-
mezzi disponibili oggi. […] do a disposizione degli autori delle norme di stile
da seguire per ottenere una necessaria uniformi-
* tà nell’ambito del proprio catalogo. Si tratta di
Dalla ‘Postfazione’ di Alessandro Olschki
una questione di immagine e anche di professio-
[…] Q ueste succinte considerazioni sono
soltanto una minuscola sintesi del grande
nalità. Non è raro, purtroppo, specialmente nel-
le pubblicazioni a più mani (atti di convegni,
impegno che Fabrizio Serra ha profuso nelle pubblicazioni in onore, etc.) trovare nello stesso
pagine di questo manuale che ripercorre minu- volume testi di differente impostazione redazio-
ziosamente le tappe che conducono il testo nale: specialmente nelle citazioni bibliografiche
proposto dall’autore al traguardo della nascita delle note ma anche nella suddivisione e nell’im-
del libro; una guida puntualissima dalla quale postazione di eventuali paragrafi: la considero
trarranno beneficio non solo gli scrittori ma an- una sciatteria editoriale anche se, talvolta, non è
che i tipografi specialmente in questi anni di facilmente superabile. […]
transizione che, per il rivoluzionario avvento
dell’informatica, hanno sconvolto la figura
classica del ‘proto’ e il tradizionale intervento 2009, cm 17 × 24, 220 pp., € 34,00
del compositore. isbn: 978-88-6227-144-8
Le nostre riviste Online,
la nostra libreria Internet
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Istituti editoriali
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Giardini editori
e stampatori Edizioni Gruppo editoriale
in Pisa® dell’Ateneo® internazionale®

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