Sei sulla pagina 1di 135

Facoltà: Scienze della Comunicazione

Catterdra:Sociologia delle arti e della moda

Corso di laurea: Scienze e tecnologie della Comunicazione

Anno accademico: 2009/2010

Sessione: Estiva

Titolo: Soniche berlinesi. Etnografia di una metropoli dissonante.

Relatore: Luisa Valeriani

Correlatore: Lucilla Rami Ceci

Candidato: Giuseppe Birardi

21 giugno 2010
2
a Vitangelo e Angela

3
4
Indice

Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 6

Un’antropologia dell’ascolto 11

Etnografia dell’io e della metropoli 39

Berlin 61

Parte empirica 89
Premessa metodologica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 90
MoHa! . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 98
- . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 103
Feel like lovers . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 109
Sudden Infant . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 112
Das klein fieldrecording festival . . . . . . . . . . . 119
Bloodythings e Mornings . . . . . . . . . . . . . . . 124
- . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 126
Tracklist . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 129
Webgrafia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 131
Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 132

5
Introduzione

Questa ricerca è iniziata nel settembre 2008 con una borsa Era-
smus che mi ha permesso di essere per un anno studente del corso
di Musik und Medien presso la Humboldt Universität a Berlino.
Se può essere pensabile un canto della città, in questo tempo
la mia solitudine, l’essere straniero, il trasloco, il viaggio sono
stati parte della molteplicità di linee vocali che ogni giorno si
dispiegano per le sue strade, su spartiti improvvisativi e cangian-
ti. Distinguendo l’antropologia culturale, come riflessione storica
comparata sulle categorie e il soggetto che ricerca, dall’etnografia,
come singola ricerca empirica sul campo, questa tesi é l’etnografia
dell’incontro con questa metropoli e la sua polifonia dissonante.
Sono stato la prima volta a Berlino nell’agosto dello stesso
anno con un’amica, per cercarvi casa. Ciò che mi colpì subito fu
la sproporzione delle architetture che mi diede una sensazione di
città straniera che non seppi definire: vuoti e pieni si alternavano
diversamente dal tipo di urbanizzazione a cui ero stato abitua-
to a Roma, i volumi sembravano dilatati, le dimensioni sfalsate.
La ricerca di una stanza dove abitare fu la nostra occasione di
fare conoscenza con Berlino. Visitammo più di venti apparta-
menti in sette giorni e, sebbene le visite non durassero mai più
di trenta minuti, non avevamo tempo per altro, la velocità dei
mezzi pubblici permetteva ogni giorno di coprire distanze enormi
e questo stato di viaggio continuo all’interno della città ci pro-
curava una stanchezza alla quale non eravamo abituati. Ogni
proposito di visitare luoghi centrali saltò, partivamo ore prima
di ogni appuntamento muovendoci senza fermarci ai contorni di
quartieri diversi, cercando di immaginare la vita in quei luoghi
da ciò che trovavamo per strada: manifesti, ingressi socchiusi ai
cortili, ristoranti, persone ferme ad aspettare, parchi autobus e

6
U-bahn. Questi si trasformavano negli indizi per le nostre mete
notturne: un cinema in un cortile a Kreuzberg, un lago urbano
sotto un temporale, un rave tra le costruzioni abbandonate dietro
la stazione di Warschauerstrasse. Da molto mi interessava l’idea
di scrivere una tesi sui "paesaggi sonori" di una città e la mia
domanda di ricerca si focalizzava su un territorio di esplorazione
delle relazioni tra la metropoli e i suoni e i silenzi, e sui panorami
ibridi creatisi dall’intrecciarsi di istanze architettoniche, culturali
e musicali nel tessuto urbano. Il modo in cui le strade risuona-
vano così ampie, i cortili così sospesi, la musica noise, la techno,
le U-bahn e le S-bahn mi convinsero così per una profonda fasci-
nazione, un desiderio di ascoltare e di capire che si mescolava a
quello abitativo di trovare casa. Un desidero di abitare Berlino e
l’emozione di esserne abitati.
Col passare del tempo la ricerca si è dilatata, frammenta-
ta e ricomposta incorporando parti diverse del nostro incontro.
Cosa è successo? L’oggetto "su cui" fare ricerca si é dislocato
assorbendo lembi della mia storia, dell’abitare, del conoscere e
del riconoscermi. L’ascolto è stato a sua volta ascoltato. Le po-
lifonie si sono fatte silenziose. Le solitudini sono state popolate.
Una ricerca sui paesaggi sonori di una metropoli mi é sembrata
infine possibile solo lasciandosi penetrare dai suoi flussi sonici,
seguendo le linee parziali che venivano a tracciarsi, lasciando che
l’interlocutrice-metropoli cedesse il posto a una parzialità multi-
vocale di persone, artisti, luoghi, panorami, che sono diventati
territori di ricerca insieme a me. Una ricerca sui paesaggi sonori
mi è sembrata possibile solo ammettendo i suoni non come eventi
temporali, ma come spazi frastagliati di incontro con l’altro. In
questo testo ripercorro le linee di un certo tipo di poetiche sonore,
o soniche, degli spazi della metropoli contemporanea dove a mio
avviso si sviluppano discorsi profondi di sconfinamenti , e cerco di

7
risalire i loro molteplici legami con storie, corpi, comunicazioni,
modi, architetture. Non propongo un "ascolto" totalizzante di
Berlino; il metodo é mimetico e pluralizzato; gli ascolti multipli,
dislocati, parziali, dissonanti.
Una prima parte di questo testo affronta i criteri epistemo-
logici per una antropologia sonica della metropoli berlinese e si
articola in tre movimenti etnografici-compositivi. Il primo in-
troduce un discorso aperto sulla specificità antropologica nella
ricerca sonora e, per inverso, su di un approccio sonico all’etno-
grafia urbana. Da una parte la parola è degli autori e delle mu-
siche che hanno segnato uno "scorniciamento" nell’epistemologia
dell’ascolto (della musica nei panorami acustici, del compositore
nella polifonia decentrata, del suono fissato su supporto nel suo-
no concretamente ascoltato); dall’altra, attraverso le letture di
Adorno e di Bateson, la dissonanza e la polifonia sono visti co-
me concetti relazionali non solo musicali, che contengono il senso
dell’altro da sé secondo trame fluide e decentrate; questi concetti,
se liberati dalla rigidità monologica dell’autore, spingono verso
una ricerca sonica indisciplinante e indisciplinata dello sconfina-
mento, appropriata al ventriloquismo dei flussi metropolitani. Lo
sconfinamento disegna un campo di ricerca ibrido, al confine tra
panorami sonici e comunicazionali, movimenti dialogici e multivo-
cali, etnografia della metropoli ed etnografia dell’io. La relazione
tra questi territori e la città di Berlino é l’oggetto del secondo
movimento. Infine si cerca di "esporre" la città in una mappa,
come ogni mappa diversa dal suo territorio, che ne evidenzi le
molteplicità di segni, divisioni, stili. Il terzo movimento tenta in
parte di perturbare l’ordine di pensiero prima creato esponendo
e ricomponendo un corpo metropolitano fatto di elementi diversi
(architetture musiche film corpi arte) in un contesto a loro estra-
neo. La seconda parte del testo racconta l’ esperienza etnografica

8
in un montaggio di singole etnografie soniche: un concerto schi-
smogenico, un artista noise, un panorama urbano dissonante, un
festival di montaggio sonoro, un soundwalk.
Nel testo ogni movimento è in una certa autonomia dagli al-
tri; non vi é unità che può ricongiungere le parti in una "sinfonia
della grande città", come il film di Walter Ruttman nel 1927 ave-
va tentato di mostrare. Vorrei che ne venisse fuori una polifonia
concreta, eteroclita, e frammentata. Una visione-ascolto parziale
e perturbante di una Berlino tra le tante che coesistono in questa
città. Una sonica dissonante berlinese al confine tra etnografia
dell’io e della metropoli.

grazie

Luisa, per l’opportunità di esserci conosciuti attraverso la tesi, per aver


risvegliato in me la forza di credere nelle mie idee. Massimo, per l’a-
micizia che c’è tra noi, e per essermi sempre vicino. Ana, per avermi
aiutato, per essere stata paziente in ogni parte del mondo ti trovassi.
Esse, per il tuo amore, la tua bellezza, le idee nel tuo sguardo.
Papà, per la tua creatività e la tua tenerezza. Mamma, per accen-
dere costantemente in me la voglia di andare avanti, per le volte che
danziamo insieme. Ulrike, per ritrovarci e essere amici sempre. Se-
bastian, für deine Zuneigung, für den guten Rat. Laura, per avermi
fatto conoscere i geniale Dilettanten. Pippen, per la tua forza. Marti-
na e Dario (!). Mattia. Stefania. Nonno Giuseppe e Nonna Barbara.
Tutte le persone che hanno partecipato alla cattedra di Antropologia
Culturale.

9
10
Un’antropologia
dell’ascolto

l’orecchio non ha palpebre

(Murray Schafer, Il paesaggio sonoro)

l’alterità non si profila sulla riva del mare


ma sull’orlo della pelle

(Clifford Geerz, Gli Usi della Diversità)

Uno dei motivi che mi hanno spinto a scrivere questa tesi è


una certa inquietudine, che ha accompagnato dall’inizio i miei
studi di antropologia culturale, nel portare i discorsi di questa
antropologia nel campo dei suoni e della musica, che sono la mia
passione.
Nell’autunno del 2005 il corso di Antropologia culturale della
facoltà di Scienze della Comunicazione era denso di riferimen-
ti musicali: l’album Africa/Brass di Coltrane, la cavalcata delle
Valchirie di Wagner nel film Apocalypse Now, i Nação Zumbi,

11
African Rhythms di Reich, Ligheti e dei Pigmei Aka, Laurie An-
derson, l’opera 101 di Beethoven, Meredith Monk, il gamelan
balinese, Aphex Twin. Il modo trasversale e concreto in cui le
sonorità erano state affrontate nel corso, strideva più in profon-
do con la mia insofferenza verso la staticità dell’idea di Musica
che mi avevano insegnato durante i miei studi e con parte di ciò
che costituiva il mio orizzonte di ascolti a quel tempo, suggeren-
domi vie e soluzioni inedite. Durante la seconda settimana mi
fu consigliato il libro “Il paesaggio sonoro” di Murray Schafer.
Ne rimasi profondamente insoddisfatto: la complessità e l’esoti-
smo dei rifermenti proposti nel corso non trovavano spazio in una
scrittura programmatica e in gran parte letteraria come quella di
Schafer. Come vedremo, una teorizzazione così totale e scevra di
storie parziali non può che suonare vuota. Un’antropologia del-
la musica necessita di attualizzarsi continuamente in ascolti che
la smuovano da rigidità teoriche e la spingano nel campo ibri-
do e contestato dell’etnografia. È iniziata in questo modo una
ricerca che univa elementi diversi delle letture di antropologia,
le esperienze quotidiane, le sonorità per me inedite che scoprivo.
Una tale esperienza di ricerca è inquieta e sconfinante; per me ha
comportato il mischiare la lettura all’ascolto, lo scrivere al fare
musica. In questo capitolo affronto un discorso aperto sugli studi
del paesaggio sonoro, l’etnomusicologia classica, la filosofia della
musica di Adorno, assieme ad una serie di musiche che possono
risuonare con parti di questo discorso, al fine di cercare di definire
un’antropologia dell’ascolto, così come si è configurato nella mia
ricerca a Berlino.

- Nei primi tempi della mia ricerca a Berlino ho dovuto con-


frontarmi con la domanda di cosa comporti l’ascolto di una città.
Presupponendo per ascolto un atto cosciente, diverso dal sentire,

12
questo tipo di ascolto deve essere diverso da quello che è possibile
fare di un disco, o di un concerto. Per primo intercorre il fatto che
in una città ci abitiamo: in qualche modo l’ascoltare e l’abitare
entrano in una relazione molto significativa. Leggiamo Rimbaud
che sovrappone al paesaggio urbano il suo ascolto proiettato in
una successione dei piani sequenza, all’interno della visione di una
città:

“Ce sont des villes! [...] Des chalets de cristal et


de bois qui se meuvent sur des railes et des poulies
invisibles. Les vieuz cratères ceints de colosses et de-
palmiers de cuivre rugissent mélodieusement dans les
feux. Des fêtes amoureuses sonnent sur les canaux
pedus derrière les chalets. La chasse des carillon crie
dans les gorges; des corporations de chanteurs géam-
ts accourent dans des vêtements et des oriflammes
éclatants comme la lumière des cimes. Sur les plates-
formes au milieu des gouffres les Rolands sonnent leur
bravoure. Sur les passerelles de l’abime et les toites
des auberges, l’ardeur di ciel pavoise les mâts. [...]” 1
(Rimbaud, 1875)

Qui lo sguardo e l’ascolto vivono lo stesso afflato visionario


di una composizione urbana irreale, che nel seguito si perde tra
riferimenti mitologici, geografie statunitensi, popolazioni libiche.
1
“Sono città ![...] case di cristallo e di legno si muovono su rotaie e fili
invisibili. i vecchi crateri cinti di colossi e di palmizi di rame ruggiscono
melodiosamente nei fuochi. Feste amorose suonano nei canali appesi dietro
le case. Il motivo di caccia dei carillon grida nelle gole. Corporazioni di
cantori giganti accorrono con vesti e orifiammi sfolgoranti come la luce delle
vette. Sulle piattaforme in mezzo alle voragini gli orlandi fanno squillare il
loro coraggio. Sulle passerelle dell’abisso e sui tetti delle locande l’ardore del
cielo imbandiera i pennoni.”

13
Il contesto urbano è luogo di estensione dell’ascolto oltre una sua
conclusione e sembra assoggettare ogni luogo al suo grido. Tale
ventriloquismo di luoghi che gridano aggredisce un tipo di sguardo
che potremmo definire paesaggista: l’occhio che vuole accarezzare
tutto il paesaggio soccombe e deve rimettersi alla potenza sonora
delle singole parti. E allo stesso modo l’accumulazione di descri-
zioni e di suoni trasborda la possibilità di ascoltare il tutto in
un insieme. Le illuminations che anticipano il viaggio di Rim-
baud che fugge dall’ Europa appaiono come momenti traslucidi
in cui le sue emozioni collidono in un resoconto di immaginazioni
ed esperienze. Vi si prefigura un viaggio fatto di smarrimenti e
di sregolamenti intenzionali, un tempo futuro metabolizzato in
un’attesa inquieta. Nella visione del paesaggio urbano non vi è il
senso di permanenza nella città, ma il movimento del viaggio e la
discontinuità dello spostamento: i piani sequenza si sovrappon-
gono in modo disarmonico con tagli netti, mentre la descrizione
a “volo d’uccello” si mescola ad una perlustrazione uditiva che si
rivela faticosa e frammentaria.
Credo che la situazione e la sensibilità elaborata da Rimbaud
lo avvicinino ad un certo discorso di etnografia metropolitana che
qui voglio portare avanti, nel momento in cui riconosciamo l’ele-
mento del viaggio come inscritto nella particolarità dello sguardo
da lui prodotto. Individuiamo in questo testo un tentativo inte-
ressante di ascolto urbano, ovvero il suo configurarsi come ascolto
interminato rispetto alla specificità dell’esperienza metropolita-
na. Se l’ascolto è esperienza diretta, a questa si impone l’esten-
sione dei luoghi e del tempo che viviamo all’interno della città,
che superano le normali capacità di attenzione e determinano in
più sensi uno sconfinamento. L’incongruenza è sensibile e cru-
ciale. L’ascolto, per dilatarsi temporalmente all’intero tempo di
permanenza, all’abitare, si trova a trasbordare in zone e tempi

14
prima riservati ad altro. Dove prima c’era solo un ascolto di-
stratto, la città richiede di mescolare i confini di questi sentire.
Non smettere di ascoltare quando siamo stanchi, quando siamo
occupati, quando siamo all’interno del nostro appartamento, nel
riposo, perché la città si fa sentire dappertutto. Non vi può essere
un tasto “pause” che ci permetta di ascoltare altro, né un modo di
cambiare ciò che ascoltiamo all’infuori del muoverci tra gli spazi
diversi di cui la metropoli si compone. Tale è la scommessa di un
ascolto impossibile, che, non potendo esaurirsi in una rinuncia, si
risolve in un tentativo prolungato di ascolto di momenti e orari
diversi dell’abitare, per poi ricomporli all’interno della ricerca.
Nel fatto che il tempo dell’ascolto costituisce un temporalità
unica affine a quella del viaggio, la tensione tra il viaggio e l’a-
bitare è la stessa che è insita tra il disco ascoltato e la città. Il
modo è inverso a quello di Rimbaud, che presagisce nella città i
paesaggi che incontrerà solo partendo; esso è nell’ordine rivelato
dalle parole di Walter Benjamin che descrivono l’individuo della
Parigi del XIX secolo come dormiente: egli “-simile in questo al
folle- intraprende attraverso il suo corpo un viaggio macrocosmi-
co [...]. Gran parte di ciò che per l’individuo è esterno appartiene
per la collettività alla propria interiorità; le opere architettoni-
che, le mode, persino il tempo atmosferico, sono, all’interno della
collettività, ciò che i processi organici, i sintomi della malattia e
della salute, sono all’interno di un individuo.”(Benjamin, 1983) Il
dormiente vede la propria intimità mischiarsi con l’esterno della
città. Sostengo che la ricerca dell’ ascolto metropolitano favorisce
il transitare tra una dimensione oraria dell’abitare e una periodi-
ca del viaggio, secondo un meccanismo per il quale questi tempi
costellano l’intimità dell’ abitante delle esteriorità della metropo-
li. La fruizione mescolata che ne deriva è affine a quella che il
personaggio Max ha della televisione nelle premesse del film Vi-

15
deodrome (di David Cronenberg, 1984). Poiché egli è direttore
di un network, la televisione non è qualcosa che può vedere solo
quando lui lo decide. Essa rappresenta sia la sua quotidianità, sia
il suo lavoro: si accende da sola di notte con una registrazione per
svegliarlo in tempo per i suoi appuntamenti, altera i suoi ritmi
giornalieri (Max mischia la cena con la colazione, pizza imbevuta
nel caffè), spesso rimane accesa mentre dorme. Lo sregolamento
della quotidianità del protagonista è il presupposto per lo svilup-
po del film, nel quale il suo rapporto col mezzo televisivo diviene
sempre più ambiguo e surreale.
Fare ricerca dell’ascolto della città in cui si vive può risultare
parimenti complesso. Trasformare momenti di silenzio in occasio-
ni di ascolto, registrare i suoni del mio cortile, prestare attenzione
alle differenze dei luoghi andando in metro all’università e uscen-
do con conoscenti per andare ai concerti è stato un lasciare che i
gesti quotidiani si facessero ricoprire dall’ascolto di nuovi signifi-
cati. L’ascolto come ricerca in questo modo ha condiviso il posto
con la possibilità inedita di una ricerca che si configurasse come
ascolto. Ho notato come questo mi ha cambiato e ha avuto co-
me conseguenza il farmi posizionare sulla soglia. È diventato un
sentirsi abitato dalla città in cui si vive, fatto di elementi diversi,
di periodi di silenzio (anche interiore) e di attenzione, di rumori
assordanti, ma anche di banalità e di distrazioni. Un sentire che
va oltre l’ascolto.
Il silenzio, i silenzi di cui Berlino è piena, sono stati gli spazi
nei quali la città mi ha accolto e hanno segnato i miei primi tempi.
Ho traslocato nel Settembre 2008, un mese e mezzo prima dell’i-
nizio dei corsi universitari, praticamente senza avere conoscenze
sul posto, e con una padronanza del tedesco tale da rendere il
chiedere la colazione la mattina alla backerei una prova giornalie-
ra. La mia prima casa era sulla Hasenheide, nella parte bassa di

16
Kreuzberg, quartiere storicamente al confine tra est e ovest. Ave-
vo trovato un posto in un corso di mattina di tedesco base della
Volkhochschule di Friederichshein, più a nord est, e per il primo
mese spendevo i pomeriggi camminando per ore e attraversando
i quartieri a piedi. Il silenzio di questo periodo non è stato un
sintomo di chiusura, né l’effetto di mancanza di comunicazione,
ma è stato il contesto nel quale accadevano i miei primi incontri
e la conoscenza della città.
Esiste un dio poco conosciuto nella mitologia greca che rac-
chiude il senso di un silenzio inquieto e aperto verso l’ascolto,
non chiuso in una pausa imbarazzante tra le parole, rappresenta-
to nella figura del giovane Arpocrate. “Arpocrate incarna il dio
del silenzio, ma di un silenzio molto vigile dove non c’è alcuno
spazio per la disattenzione. Un silenzio che non ha nulla a che
fare con il torpore o la narcosi, va oltre la parola e il linguaggio
[. . . ], un silenzio d’attesa che nasce nello spazio potente del sonno
e apre alle periferie, ai margini, ai bordi del mondo” (Fiorentino,
2003, p. 25).2 Un dio che presiede quei momenti di assenza di
parole dette e che dà spirito all’eloquenza dei linguaggi non ver-
bali densi di significati e riferimenti. Ad uno straniero che arriva
a Berlino i silenzi non paiono solo residuali: spesso il silenzio è
il modo ingombrante e vivo col quale la città fa sentire la sua
presenza, ed è molto più difficile da ignorare che i rumori di ogni
giorno; riempie le strade, i cortili, il passare del tempo. Per inver-
so i pochi suoni che si impongono all’orecchio acquistano un gusto
particolare: a volte, quando di pomeriggio tutto tace il passare
della U-bahn può sembrare un gesto teatrale. Può nascere un
rapporto silenzioso tra te e la città, con certezza non spiegabile
2
Per un approfondimento sull’argomento vedere anche l’articolo
“Polifonie di Silenzi” di Massimo Canevacci, visionabile sul sito
www.scomposizionisoniche.wordpress.com

17
a parole, in cui trovano spazio discorsi fatti di accenni, di rumori
sottili, di ricordi. Qui i luoghi non sono solo lo sfondo sul quale
si definiscono i dialoghi.
L’assunto che il silenzio assoluto non esiste, dimostrato dall’e-
sperimento di John Cage che in una stanza insonorizzata continua
a sentire il pulsare del suo corpo, non basta a svincolare l’espe-
rienza del silenzio. Il celebre componimento 4’33” per qualsiasi
strumento, che consiste nel non eseguire alcun suono, propone
una relatività del silenzio secondo la quale questo può raccogliere
indiscriminatamente tutti i suoni ambientali: un relativo assoluto
che non va oltre l’affermazione zen del paradosso. Se la prima esi-
bizione ha costituito uno choc per la musica occidentale, questo
componimento ha assunto, esecuzione dopo esecuzione, il ruolo di
un vuoto contenitore di rito della tosse del pubblico, il traffico del-
la strada adiacente, qualche risata nervosa, l’attesa dell’applauso
finale. La sua ricerca attesta l’intenzione di aprire le orecchie ad
un altro universo di suoni a cui prima non si faceva attenzione:
attraverso il silenzio fare rendere conto che il silenzio non è tale
ma popolato di molti suoni. La sua teorizzazione dell’ascolto che
deriva da questa posizione ha segnato l’inizio una rivoluzione ever-
siva verso canoni epressivi della musica occidentale; ma l’aspetto
relazionale e comunicativo del silenzio ne è risultato mutilato, non
dovendo i suoni “significare assolutamente niente” ed essere “sol-
tanto suoni” (cfr. Cage, 1961). Un’ idea del silenzio differente è
contenuta in un pezzo degli Einszurzende Neubauten, una band
berlinese molto famosa della quale riparleremo più avanti. “Si-
lence is sexy” pronunciata dalla voce delicata di Blixa Bargeld,
mentre una sigaretta brucia lentamente nel sottofondo, attesta
un relatività parziale del silenzio: "That line was the nucleus li-
ne. I just had this line and I just knew I wanted to do something
with silence. If you work with silence in music, you automatically

18
think of the famous John Cage piece, four minutes 33 where the-
re’s only silence being played and as Master Cage always had this
Zen attitude towards the whole thing he wanted to concentrate
the listener’s intention to all the sounds that are surrounding in
any given moment. In that fashion, we actually started recording
this, but it didn’t work, it didn’t do the trick and then I reali-
sed that this wasn’t what I was looking for. I was looking for
the total opposite of what John Cage was looking for, I was loo-
king for the tension and the audibility of silence. It took several
tries and a lot of research to find that you can make the silen-
ce audible, mainly the invention of smoking the cigarette. That
suddenly makes the silence audible. It is so much a metaphor for
waiting... “ 3 Le pause delle quali il pezzo si compone portano in
risalto il suono di una boccata di fumo lenta e goduta, orlata dal
respiro di Blixa. In questi momenti l’orecchio tende per sentire i
più piccoli movimenti corporali, il fumo della sigaretta si espande
col suo odore, si percepisce il dischiudersi delle labbra; un ascol-
to animato da un palpitare sensuale che scandisce l’attesa; viene
narrata la storia particolare di questo silenzio attraverso una re-
lazione intensa con l’ascoltatore. Questo silenzio si traduce nella
3
“Questa era era la linea fondamentale. Avevo solo questa linea e volevo
solo fare qualcosa col silenzio. Se lavori col silenzio nella musica, pensi auto-
maticamente al famoso pezzo di John Cage, quattro minuti e 33 dove c’e solo
il silenzio suonato e come Maestro Cage lui ha sempre avuto questa attitudi-
ne zen in tutto e ha voluto concentrare l’attenzione dell’ascoltatore su tutti
i suoni che lo circondano in ogni momento dato. In verità abbiamo iniziato
a registrare questo proprio in questo modo, ma il gioco non ha funzionato, e
ho capito che questo non era ciò che io cercavo. Io ceravo l’opposto di quello
che Cage cercava, cercavo la tensione e l’udibilità del silenzio. Ci sono volute
parecchie prove e molta ricerca per capire che puoi rendere udibile il silenzio,
soprattutto attraverso la trovata della sigaretta. Che rende immediatamente
il silenzio udibile. E molto anche una metafora per l’attesa..” intervista a
Blixa Bargeld su "X-Press Magazine", Perth, Western Australia, Aprile 2000

19
musica muta di un rapporto amoroso. Per questo l’orecchio non è
focalizzato indiscriminatamente verso tutti i suoni intorno, ma è
teso e inquieto verso l’altro oltre la registrazione. Cionondimeno
l’essere straniero in una metropoli porta nel silenzio che si affron-
ta un palpitare che non è del tutto estraneo a questo sensuale, in
quanto è acceso di attenzioni e aperture verso gli altri e verso lo
spazio intorno. Berlino é silenziosa e sexy, diciamo parafrasando
il suo primo cittadino.

Questa tensione ora affrontata tra interiorità e spazi della me-


tropoli non trova posto nello studio di Murray Schafer, che pure
ha inaugurato gli studi sui paesaggi sonori. In tale contesto appa-
re fondamentale affrontare questo autore, tanto più che la maggior
parte degli studi odierni in questo ambito sono basati sul suo la-
voro; lo stesso World Soundscape Project è stato fondato negli
anni 70 in Canada sotto la sua guida.
L’intento degli studi di Schafer è stato quello di unificare, a
fronte di un sensibile cambiamento del paesaggio sonoro mon-
diale, le ricerche in diversi campi su “quale rapporto esiste tra
l’uomo e i suoni del suo ambiente, che cosa accade quando questi
suoni cambiano” (Schafer 1977 pg. 13 e sgg). Separiamo diversi
aspetti all’interno del suo lavoro. L’importanza data dalla scel-
ta dell’oggetto di studio è cruciale: il soundscape, col significato
di “tutti i suoni intorno a noi”, intende un rapporto significativo
con il luogo, e quindi il contesto nel quale i suoni sono ascoltati.
Ciò che ne consegue è il rifiuto dell’universalismo del linguaggio
musicale, in favore del relativismo culturale. Sul piano musicale
questi studi portano a termine e formalizzano il lungo processo
di “scorniciamento” che la musica colta occidentale ha affronta-

20
to a partire dagli inizi del ’900, secondo una visione storica che
partendo dall’esclusività della musica sacra giunge all’abolizione
della tonalità di Schöneberg, i metodi di sintesi elettronica in-
trodotti da Stockhausen, l’intonarumori di Russolo, l’utilizzo di
materiali registrati di Pierre Schaeffer e da ultimo le performances
concettuali di John Cage, secondo il quale “la musica è i suoni,
i suoni che ci circondano, ci si trovi o meno in una sala da con-
certo”. Mettendo da parte per il momento la sostanziale diversità
di approcci di questi sperimentatori, è necessario rilevare la pro-
gressiva estensione del materiale sonoro al quale ci si è rivolti
nella ricerca musicale. I soundscapes studies si rivolgono per que-
sto, con tono provocatorio, a “chiunque e qualsiasi cosa sappiano
emettere un suono”. Per opposto la ricerca etnomusicologica, fi-
no a tempi odierni, si è distinta quasi interamente per una cieca
chiusura dell’oggetto di studio alle musiche in senso tradizionale,
di volta in volta posizionato nell’alterità esterna di culture “na-
tive” o in quella interna del folklore (con tentativi poco eleganti
di includervi, come “subculture” moderne, l’hip hop o la tecno).
Poche eccezioni, tra le quali il celebre tentativo di Steven Feld
sul rapporto tra le musiche Kaluli e il paesaggio acustico della
pianura della Papua Nuova Guinea (cfr. Feld 1982), confermano
un panorama di ricerche etnomusicologico arretrato. Il materiale
sonoro affrontato non rappresenta una differenza meramente te-
matica; ci sono alcune implicazioni importanti, dal momento che
la musica, trattata come un prodotto osservabile, ha giustifica-
to una pratica di ascolto che nel tempo si é consolidata a tutti
gli effetti come una pratica di potere. La storia dell’etnomusi-
cologia, intrecciandosi con l’impiego della notazione scritta e, a
partire dai tempi delle incitazioni di Boas ai suoi allievi, con l’u-
tilizzo estensivo del fonografo durante le ricerca, è stata anche
una storia di appropriazione (cfr. Brady, 1999). Sono famose le

21
campagne di ricerca della “song catcher” Frances Densmore che
al motto di “Save the lore!” ha prodotto intorno agli anni 20
un numero abnorme di registrazioni di canti delle popolazioni del
Minnesota nella convinzione di salvare per i posteri culture desti-
nate all’estinzione. L’impressione di poter conservare una parte
di cultura integralmente fissandola su un supporto4 , accanto al-
l’eredità della musicologia comparativa sviluppatasi attorno alla
fine dell’800, ha assecondato un’attitudine di ricerca che tuttora
non riesce ad allontanarsi con chiarezza da alcune dinamiche del
collezionare, come sono state analizzate in ambito più generale
da James Clifford (Clifford 1988) (ne è prova l’ambiguità con la
quale in questi anni l’UNESCO sta definendo il dominio del Cul-
tural Heritage nel campo etnomusicologico). Una teorizzazione
come quella del Paesaggio sonoro ha il merito, seppure solo “a
seguito dei rischi dell’inquinamento acustico”, di riportare il mo-
mento dell’ascolto al centro dello studio. Schafer dimostra una
sensibilità particolare a riguardo. Secondo la sua introduzione a
The tuning of the world “udito e tatto si’incontrano nel punto
in cui le più basse frequenze udibili si trasformano in sensazioni
tattili. Udire è toccare a distanza” (...) “l’occhio si proietta verso
l’esterno, l’orecchio conduce all’interno. Assorbe l’informazione.
Secondo Wagner, “l’uomo esteriore si rivolge all’occhio, l’uomo
interiore all’orecchio”. L’orecchio è anche un orifizio erotico. L’a-
scolto di suoni gradevoli - i suoni della musica, ad esempio - è
simile al delicato scorrere della lingua dell’amante nell’orecchio
dell’amato” (Scafer 1977)

4
Come fa notare Gregory Bateson, “a rigore non esistono dati veramente
’grezzi’, e ogni registrazione viene in qualche misura sottoposta a elaborazione
e trasformazione da parte dell’uomo o dei suoi strumenti” (Bateson 1976,
p.22)

22
Facendo un parallelo con la ricerca etnografica, in queste ri-
flessioni si possono cogliere i presupposti per un idea di ascolto
che perde la connotazione di strumento di analisi etnomusico-
logica per divenire un territorio complesso di incontro, dove il
ruolo dell’altro non è affatto marginale. E vengono prospettate le
basi per una critica della rigidità della figura di un Io che ascol-
ta e che annota, a fronte di suoni che non sono più catturabili
quanto penetranti. Purtroppo queste non sono le conclusioni di
Schafer, che lascia queste affermazioni senza seguito durante il
testo, né dell’etnomusicologia che al suo lavoro si riconduce. Il
taglio dato al suo studio porta i soundscapes di The tuning of
the world ad essere qualcosa di lontano da dei ’territori ascoltati’.
Il paesaggio sonoro è una costruzione fatta unicamente di suo-
ni (“tutti i suoni che ci circondano”). Qui la presenza dell’altro
non è contemplata: e reificata nei suoni che in questo modo di-
ventano oggetto passibile di osservazione, selezione, misurazione.
La definizione della musica “semplicemente come suoni” sulla scia
dell’avanguardia di John Cage, oltre ad essere improntata da un
apertura totale verso il materiale sonoro, si rivela programmati-
ca nell’evitare di dedicarsi ad argomenti che sono invece centrali
in un’etnografia dell’ascolto, quali il proprio e altrui posiziona-
mento, il territorio, i contesti particolari. Il soundscape inglo-
ba indiscriminatamente tutto: “il mondo viene considerato come
un’immensa composizione musicale”.
Il materiale sonoro al quale ci si riferisce si differenzia dall’ap-
proccio scelto per gli studi. L’epistemologia paesaggistica formu-
lata da Schafer trova pieno riscontro nella scelta di affidarsi nel-
la definizione degli studi sul soundscape al dualismo Apollineo-
Dionisiaco. Secondo questo dualismo esistono “due concezioni
fondamentali” su che cosa sia la musica illustrate da due miti
greci, sul quale poggiano “tutte le successive teorie della musica”.

23
In uno si narra di come Atena abbia fondato l’arte del suonare
commossa dal pianto straziante delle sorelle della Medusa deca-
pitata. Nell’altro Hermes inventa la lira scoprendo le proprietà
acustiche di alcuni materiali insieme ad un guscio di tartaruga
usato come cassa di risonanza. Questi miti vengono ricondotti
dall’autore alle due categorie di Apollineo e Dionisiaco recupera-
te dalle riflessioni di Nietzsche sulla nascita della tragedia greca:
Apollo, dio al quale la lira è consacrata, si fa simbolo di una con-
cezione “esterna e armonizzante” della musica; Dionisio è invece
suono che “prorompe dall’animo umano”, espressione soggettiva.
Questa operazione mi appare incorretta almeno per due ordini di
motivi: il primo eurocentrico, in quanto schemi utilizzati per la
cultura greca classica vengono applicati meccanicamente a tutte
le culture e a tutte le epoche, producendo che l’anahata indiano
è apollineo, le passioni di Bach sono dionisiache (il fraintendi-
mento è affine a quello di Meredith Ruth che classificò in questo
modo i popoli nativi Pueblo); il secondo filologico, in quanto per
Nietzsche queste categorie sono mescolate e non sono separabili
ontologicamente. Invece Schafer afferma che “per l’uomo moder-
no la produzione di suoni è carica di soggettività. Il paesaggio
sonoro odierno si caratterizza quindi per il suo edonismo e per il
suo dinamismo. La mia ricerca si propone di riaffermare invece
una concezione della musica come momento di ricerca dell’influen-
za armonizzante dei suoni del mondo, dei suoni che ci circonda-
no”. La scelta scientifica adottata non è neutrale ed implica nella
sua oggettività un atteggiamento per più versi ambivalente. Poi-
ché all’apertura a tutti i suoni sostenuta dall’epistemologia del
soundscape non corrisponde una libertà di ascolto e di ricerca,
ma l’esclusione dell’interiorità soggetto dal mondo esterno al fine
di riscoprirne l’armonia. Il mito che viene invocato è infine quello
neo-illuminista del mondo come enorme strumento musicale, del

24
quale bisogna “cercare di riscoprire il segreto dell’accordatura”.
Questo atteggiamento si dimostra funzionale, in modo diverso
da come abbiamo visto per l’etnomusicologia, ad un discorso che
prevede la costruzione di un’autorità scientifica separata dal pro-
prio oggetto di studi. La dinamica è affine a quelle già esaminate
da Adorno e Horkheimer nell’ambito della critica della Dialettica
dell’ Illuminismo, che, scritta verso la metà degli anni ’40, cerca-
va di analizzare il processo di civilizzazione all’interno del quale
si era formata la ratio alla base della situazione di Stato autori-
tario a loro contemporanea. L’Illuminismo è visto come processo
di emancipazione dell’uomo dalla natura, nel quale egli si libera
rendendo sottomessa l’altra in modo da poterla studiare razio-
nalmente, pagando per questo il prezzo di doversi alienare dalla
natura stessa5 .
Analizziamo il testo di Schafer. Una base importante per il
suo studio si trova nell’atteggiamento di sostenere la naturalità e
l’armonia dei suoni del mondo, a cui contrappone l’inquinamen-
to e il rumore provocato dall’avanzare della cultura dell’uomo,
come ammette sin dalle prime righe: “Ai giorni nostri il pae-
saggio sonoro ha raggiunto il massimo della volgarità” (p. 1).
Ciò è osservabile nella divisione della prima parte tra “primi pae-
saggi sonori” e “il paesaggio sonoro postindustriale”, giustificata
nell’introduzione al capitolo dei paesaggi rurali da una ulteriore
differenziazione, la cui nomenclatura è permutata dal linguaggio
tecnico, tra paesaggi ad alta e bassa fedeltà: hi-fi vs. lo-fi. “In
genere la campagna è un ambiente a maggiore alta-fedeltà rispet-

5
Poiché il nostro interesse è quello di ricostruire la formazione dell’autorità
scientifica negli studi del paesaggio sonoro dell’autore, lasciamo da parte per
il momento il rovesciamento dialettico che della razionalità nel suo opposto
che secondo Adorno e Horkheimer segue questo processo, che pure è stato il
fulcro della loro critica.

25
to alla città, e così è per la notte rispetto al giorno, per i tempi
antichi rispetto a quelli moderni (...). La serena calma del pae-
saggio sonoro hi-fi permette un ascolto a maggiore distanza, nello
stesso modo in cu in un paesaggio rurale è possibile una visione
a largo raggio (...)[Qui] l’orecchio umano è all’erta, come quello
di un animale” (p. 67) - Al contrario il paesaggio a bassa fedeltà
è quello della modernità, delle metropoli rumorose, nato “dalla
congestione sonora. La rivoluzione industriale introdusse moltis-
simi suoni nuovi, che ebbero conseguenze disastrose per molti dei
suoni dell’uomo e della natura, che finirono con l’esserne oscurati”
(p. 105). Proprio il rumore, inteso in senso comunicazionale come
sovrabbondanza di segnali non pertinenti, è secondo Schafer il re-
sponsabile di quello che viene chiamato “inquinamento acustico”,
ciò che determina che “l’uomo non ascolti più con attenzione”.
L’ascolto distaccato che egli propone risulta essere una soluzio-
ne razionale alla costruzione di questa dicotomia nei suoni del
mondo che, dialetticamente, viene ricostruita all’interno dell’uo-
mo attraverso l’opposizione tra concezione razionale e irrazionale
della musica. Ancora, l’inquinamento acustico è il motivo per cui
l’unico ascolto che ha ragione di essere intrapreso è un ascolto con-
sapevole, pulito, capace di rilevare l’armonia esterna delle cose e
individuare i suoni indesiderati. E il prezzo di questo per Schafer
é la rinuncia alla propria interiorità, all’espressione nei suoni. Co-
me per Odisseo, al quale, volendo fruire del canto celestiale delle
sirene, la scelta di non avere “orecchie piene di cerume” comporta
la condizione di incatenarsi e rinunciare al proprio canto.
Ciò che viene categorizzato come dionisiaco è confuso come
sintomo di sentimentalismo, edonismo. Proprio l’espressione è
ciò che è vietato nel paesaggio sonoro, dove solo è ammesso il
repertorio dei suoni e la sua organizzazione. Per questo alla mu-
sica si sostituisce il design acustico ( o per dirla con Cage “un

26
termine con maggiore significato: organizzazione del suono”, cfr
1961), destinato allo studio comparato di dati raccolti da cultu-
re molto diverse tra loro, alla protezione dei suoni “minacciati
di estinzione”, allo studio “del profondo valore simbolico che i
suoni hanno sempre avuto per gli uomini” e “delle diverse mo-
dalità del comportamento umano nei diversi contesti sonori” al
fine del miglioramento della forma e della bellezza del paesaggio
sonoro. Già Adorno aveva evidenziato, nell’ analisi della dode-
cafonia di Schönberg, i rischi della soppressione dell’espressione
nell’arte. Con Ausdruck (espressione) egli intende un momento
fondamentale per l’arte di sviluppare un moto liberatorio verso
un oltre (una promesse du bonheur, sostiene citando Stendhal) in
una dimensione sociale a cui è importante che essa non rinunci,
poiché nella sua assenza si rivela la razionalità alienata. Non a
caso la concezione Apollinea della musica seguita da Schafer si ac-
compagna all’estetica di un’armonia universale, della matematica
acustica che rinuncia a qualsiasi contributo che vada oltre lo stu-
dio e l’allargamento del materiale sonoro. Pierre Schaefer è visto
solo come eccelso studioso della morfologia dei suoni, mentre vie-
ne ignorata la poetica concrète della sua musica; Satie con le sue
Gymnopedie diventa l’antesignano della musica Moozak da distra-
zione; Russolo come acuto osservatore dell’ambiente metropoli in-
troduce l’universo dei rumori nelle sue composizioni e manifesta
il sintomo preoccupante del degrado mondiale dell’ambiente so-
noro6 . Lo ’scape’, lontano dai panorami delle teorizzazioni ibride
di Benjamin, Canevacci o Appadurai intende, come la traduzione

6
“Gli esperimenti di Russolo rappresentano un punto nodale nella storia
della percezione acustica, un capovolgimento dei ruoli tra figura e sfondo,
con l’immondizia al posto della bellezza. Nel campo delle arti visive Marcel
Duschamp fece più o meno la stessa cosa, in quegli stessi anni, esponendo un
vaso da notte” (p. 159)

27
italiana del titolo tradisce, una poetica paesaggistica che assimila
e appiattisce per rendersi disponile all’ascolto che si sostituisce
allo sguardo esaminatore. L’armonia è a ciò funzionale.
Un’ etnografia dei flussi comunicazionali della metropoli deve
rifiutare una simile filologia paesaggistica e armonica, e riscoprire
nella dissonanza un momento irrinunciabile della ricerca.

“la forza di seduzione dello stimolo sopravvive an-


cora solo dove sono più forti le forze della rinuncia,
cioè nella dissonanza, che non ammette di credere
all’inganno dell’armonia costituita” (Adorno, 1956)

Sostenere le dissonanze in questo caso non significa solo contrad-


dire un’estetica musicale, ma anche proporre un tipo di ascolto
che va oltre i dualismi tra apollineo e dionisiaco e costituisce una
critica immanente all’autorità dell’ascolto che si fa osservazione
oggettiva. La dissonanza nella filosofia di Adorno ha la missio-
ne di essere mimetica musicale alle tensioni, le incongruenze, le
impurità della società che la produce; poiché si traduce in espres-
sione dell’interiorità dell’ascoltatore, il suo perturbare l’ascolto
mette in discussione la dolce atarassia procurata dall’esteriorità
dei suoni. Così per il pubblico di massa degli anni ’40 “le disso-
nanze che li spaventano parlano della loro condizione personale,
e unicamente per questo risultano loro insopportabili” (Adorno,
1949, pg. 14) Ammettere un paesaggio sonoro dissonante signifi-
ca mettere in crisi il distacco di un ascolto oggettivo, e rimettere
in gioco le complessità di quel “toccarsi a distanza” accennato
nell’introduzione di The tuning of the world. I rumori della me-
tropoli non sono solo da ignorare, raccontano qualcosa di più che
una ricerca etnografica deve decidere di affrontare; rappresentano
la scommessa di un’espressività polifonica metropolitana, così co-
me i cluster ritmici e le commistioni rumoristiche della Sao Paolo

28
Underground Orchestra ne danno un esempio ventriloquistico del-
la metropoli del Brasile. D’altra parte nasce l’esigenza di criticare
la rigidità monofonica che la figura dell’autore conserva nella filo-
sofia della musica di Adorno, attraverso il quale la composizione
si fa dispiegamento di una verità unica e irripetibile. Non intendo
qui porre in discussione il contenuto di verità dell’opera d’arte,
quanto perlomeno attestare il processo che ha reso questa verità
più problematica, parziale e dialogica, come Walter Benjamin ha
invece osservato in più ambiti tra i quali l’analisi della riproduci-
bilità tecnica dell’opera d’arte (cfr. Benjamin, 1936). Parliamo
della possibiltà del soundscape di produrre nell’ascolto un oltre
musicale sulla base delle dialogiche culturali che affollano le me-
tropoli. Leggiamo qui un passo dell’Arte dei rumori del futurista
Luigi Russolo:

“Attraversiamo una grande capitale moderna, con


le orecchie più attente che gli occhi, e godremo nel
distinguere i risucchi d’acqua, d’aria o di gas nei tubi
metallici, il borbottio dei motori che fiatano e pulsano
con una indiscutibile animalità, il palpitare delle val-
vole, l’andirvieni degli stantuffi, gli stridori delle seghe
meccaniche, i balzi dei tram sulle rotaie, lo schioc-
car delle fruste, il garrire delle tende e delle bandie-
re. Ci divertiremo ad orchestrare idealmente insieme
il fragore delle saracinesche dei negozi, le porte sba-
tacchianti, il brusio e lo scalpiccio delle folle, i diver-
si frastuoni delle stazioni, delle ferriere, delle filande,
delle tipografie, delle centrali elettriche e delle ferrovie
sotterranee” (Russolo, 1913)

29
In un articolo del 2004 sui grafismi sonici 7 Massimo Canevacci
parla di un tipo di ascolto etnografico come dimenticanza atti-
va: “un approccio antropologico alla musica – un sentire che non
si restringe all’orecchio ma che coinvolge l’intero tessuto corpo-
rale – è alla ricerca multi-sensoriale di ascoltare l’inascoltabile.
Cercare di immaginare quello che ancora non è stato immagi-
nato.”(Canevacci, 2004) La dimenticanza attiva è un riferimento
all’opera di Nietzsche, nel momento in cui, nella Genealogia della
Morale, focalizza la sua critica sulla promessa come strumento di
dolore inflitto attraverso la rigidità e il peso della memoria: la
promessa è un privarsi di parte di sé nel presente proiettando-
lo in un futuro del quale ci si rende custodi, e in qualche modo
schiavi (le promesse devono essere rispettate). La memoria è il
luogo di conservazione di questo dolore autoinflitto e di ordini,
poteri istituiti, interpretazioni e identità consolidate. In questo
contesto, al contrario della mnemotecnica intimamente legata al
dolore, l’oblio è azione cosciente e liberatoria di creare spazio a
nuovi pensieri: “Chiudere di tanto in tanto porte e finestre della
coscienza; un po’ di silenzio, un po’ di tabula rasa della coscien-
za, affinché vi sia ancora posto per il nuovo, per prevedere, per
predeterminare – è questo il vantaggio della dimenticanza attiva”
(Nietsche 1887)
La differenza tra l’ascolto e la dimenticanza è primariamente
una differenza di ordine temporale. Un ascolto come dimentican-
za attiva, come quello proposto nell’articolo, sposta l’agire dal
passato dei ricordi al qui ed ora del suono percepito: la dimenti-
canza diviene sensibilità di creare spazi nel momento dell’ascolto,
del suono che si attualizza nella carne, dove suoni ascoltati, ri-
cordi, esperienze, emozioni, contesti e gesti siano lasciati liberi
7
Grafismi sonici, articolo apparso su Mediazione, visionabile su
http://www.mediazone.info/site/it-IT/TEMI/Temi/Grafismi_sonici.html

30
di disordinarsi creando soluzioni inedite. Significa mixare - sug-
gerisce Canevacci - la cavalcata delle walkirie di Wagner con la
violenza dell’attacco degli elicotteri in Apocalipse Now, affontare
l’opera 111 per pianoforte di Beethowen per ritrovarvi una cri-
tica alla dialettica hegeliana, come avviene nel Doctor Faustus
di Thomas Mann. Come l’oblio può diventare occasione creati-
va di reinvenzione, così l’ascolto si rende volutamente ambiguo,
fraintende da dove provengono i suoni, sente ritmi e melodie non
eseguite, segue con l’immaginazione i movimenti che producono
ciascuna vibrazione, rifiuta l’ interpretazione ovvia imposta dalla
memoria. Tale modo implica pratiche di ascolto esplicitamente
scorrette, non fedeli al contesto in cui i suoni sono stati prodotti.
Stockhausen, costretto a continui trasferimenti in aereo duran-
te le stagioni di concerti, amava passare il viaggio con l’orecchio
poggiato ad ascoltare le evoluzioni silenziose dei motori. David
Lynch dice di aver tratto fuori buona parte del suo ultimo film,
Inland Empire, ascoltando il gracchiare di un vecchio grammo-
fono. Walter Benjamin nell’infanzia covava i suoi sogni al ritmo
della ferrovia e dei battipanni del Western berlinese. I Sonic You-
th usano portare sempre un piccolo apparecchio radio sul palco,
perché il pubblico possa sentire cosa si perde mentre ascolta quel
concerto.
Altre volte sono le musiche stesse a richiedere un orecchio
capace di andare oltre. Nel 1968, nello stesso periodo delle speri-
mentazioni elettroniche di Stockhausen e di quelle minimaliste di
Reich e Riley dalle quali era isolato a causa del regime comuni-
sta, György Ligeti compone alcuni pezzi che cambiano le premesse
stesse dell’ascolto. Non ha a disposizione le tecnologie di sintesi
sonora del centro di Köln né la possibilità di sperimentare il pha-
sing utilizzando suoni registrati come faceva Reich in California:
partendo dall’ascolto della musica barocca di Frescobaldi e le ca-

31
pacità timbriche e esecutive del clavicembalo8 elabora una serie di
composizioni che sovrappongono strutture diverse e indipendenti
in modo ripetuto, così da produrre uno slittamento dell’ascolto
ad una linea musicale terza non presente nelle singole esecuzioni.
Scrive una Passacaglia Ungherese stravolta da una serie di clu-
ster e di accordi di una fisicità mai immaginata prima per uno
strumento barocco, un Rock ungherese asimmetrico e distorto che
stride ancor più al susseguirsi esatto delle corde pizzicate. Con-
tinuum rappresenta in questo il pezzo più programmatico: è una
ripetizione interminata di due arpeggi all’unisono eseguiti ad una
velocità estrema che si modula nel tempo in incongruenze e arit-
mie sempre più vistose. Il “continuum” in questo modo non può
più riferirsi ad un supposto andamento piatto della composizio-
ne, quanto ad un contrappunto fittissimo che rompe la linearità
dell’ascolto e lo obbliga a muoversi inquieto per ricostruirsi una
ricezione possibile di un’esecuzione impossibile. L’unisono de-
flagra in una trama di differenze che rendono impraticabile un
ascolto unitario, aprendo la via a un numero di ascolti parziali e
tra loro dissonanti; simile è un ascolto prodotto da una metropoli
polifonica.
Questi studi per clavicembalo testimoniano la ricerca musi-
cale di Ligeti che in questo periodo si focalizza sulla discrepanza
dell’ascolto; in seguito egli trova che la sua ricerca è riconducibile
a una serie di studi contemporanei (i cluster delle composizioni
di Xenachis, il phasing sperimentato da Reich) sulle strutture di
moirè. Una spiegazione di cosa si intende per struttura di moi-

8
A quell’epoca quasi nessuno componeva per clavicembalo, che era visto
per lo più come un antenato del pianoforte. Ligeti lo scelse, oltre per la di-
versità di timbro e di estensione, anche per la possibilità di suonare a velocità
molto maggiori a causa delle corde pizzicate e non percosse e la presenza di
due tastiere che permettevano diteggiature altrimenti impraticabili.

32
rè è contenuta in un libro di Gregory Bateson; e la coincidenza
merita di essere rilevata, perché Bateson è una figura unica nel
panorama antropologico che si è interessata in particolare mo-
do alle dinamiche comunicazionali dell’arte. “Quando due o più
strutture ritmiche si combinano” - scrive Bateson - “avvengono
interessanti fenomeni che illustrano molto bene l’arricchimento
di informazione che si ha quando una descrizione si combina con
un’altra. Nel caso di strutture ritmiche, la combinazione di due
di esse ne genera una terza. [...]L’esempio più semplice di quelli
che chiamo "fenomeni di moir", è la ben nota produzione di batti-
menti quando vengono combinati due suoni di frequenza diversa”
(Bateson, 1984, pag. 63). Ciò che é interessante è che Bateson
non parla di questo fenomeno come qualcosa ristretto solo alla
psicoacustica ma come un meccanismo più vasto che si realizza in
ambiti diversi. Egli sostiene che il “confronto per sovrapposizio-
ne” sia qualcosa che ha a che fare con “la natura dell’ esperienza
estetica”. Che le strutture moirè si riferiscano più in generale ad
una struttura del sentire che predilige il momento del montaggio
rispetto all’osservazione del tutto, e che tale momento produca un
oltre non sintetizzabile in modo esplicativo né rintracciabile ne-
gli elementi singoli; che questo sentire acconsenta a un confronto
non solo tra gli elementi esterni ma anche con gli elementi interni,
come i ricordi, le sensazioni, le proprie conoscenze.
Le riflessioni di Bateson partono da presupposti diversi, come
la teoria cibernetica e l’ecologia della mente, ma giungono vici-
ni ad un tipo di antropologia urbana come quella che Benjamin
sviluppa durante le sue ricerche nella capitale parigina, in riferi-
mento al corpus poetico di Baudelaire. Questa è la sua descrizione
di una nuova sensibilità ai flussi urbani:
“Con l’invenzione dei fiammiferi verso la fine del
secolo, comincia una serie di innovazioni tecniche che

33
hanno in comune il fatto di sostituire una serie com-
plessa di operazioni con un gesto brusco. Questa evo-
luzione ha luogo in molti campi; ed è evidente, per
esempio, nel telefono, dove al posto del moto continuo
con cui bisognava girare la manovella dei primi appa-
recchi, subentra lo stacco del ricevitore. Fra i gesti
innumerevoli di azionare, gettare, premere eccetera è
stato particolrarmente grave di conseguenze lo “scatto
del fotografo”. Bastava premere un dito per fissare un
evento per un periodo illimitato di tempo. L’appa-
recchio comunicava all’istante, per così dire, uno choc
postumo. A esperienze tattili di questo genere si af-
fiancavano esperienze ottiche, come quelle che suscita
la parte degli annunci in un giornale, ma anche il traf-
fico delle grandi città. Muoversi attraverso il traffico,
comporta per il singolo una serie di chocs e di collisio-
ni. Negli incroci pericolosi, è percorso da contrazioni
in rapida successione, come dai colpi di una batteria.
[...] Così la tecnica sottoponeva il sensorio dell’uomo
a un training di ordine complesso. Venne il giorno in
cui il film corrispose a un nuovo e urgente bisogno di
stimoli. Nel film la percezione a scatti si afferma come
principio formale.”(Benjamin, 1955, p. 110)9 .

Vogliamo aggiungere a quest’ elenco di figure ritmiche da città del


novecento le accelerazioni vertiginose dei flussi dei passanti nelle
linee sotterranee che collegano la città odierna, le serie di scatti
di interruttori degli elettrodomestici che costellano l’abitazione
(contrapposti a quelli numerosi e silenziosi dei media digitali, nei
quali si distinguono per ordine di pensiero gli chocs senza dolore
9
Su questo si veda il confronto portato avanti in Canevacci 1993.

34
degli ipertesti), l’inflazione degli schermi e delle superfici comuni-
cazionali nelle architetture. Ne risulta un immagine di metropoli
contemporanea trasfigurata dalle sue poliritmie. Non per nulla
il minimalismo trova una delle sue composizioni più strepitose
quando sposa le ritmiche e le registrazioni urbane nell’opera City
life, scritta da Steve Reich nel 1995, della quale la descrizione di
Benjamin si fa inconsapevole precedente. Nella sovrapposizione
incessante di stimoli provenienti da contesti diversi, in una certa
misura viene chiesto all’abitante della grande città lo sforzo sen-
soriale di andare oltre, traendo dalla combinazione delle differenze
il senso della propria esperienza. Infatti la “percezione a scatti”
alla quale Benjamin si riferisce parlando del film, altro non è che
il montaggio cinematografico. Lo stacco tra le inquadrature, i
volti e le scene che da il senso alla narrazione. Appare cruciale
sottolineare le differenze tra il film e l’esperienza metropolitana.
Primo, mentre il film mostra nelle suture dei suoi tagli la scelta
ponderata di un autore che veicola un messaggio, l’esperienza ur-
bana affronta un dispiegamento di discrepanze che è policentrico
e polifonico, col significato che il senso del montaggio spetta nella
sua parzialità soltanto allo sguardo e al corpo del fruitore, che
ne è lo spettatore e può dire di partecipare in modo asimmetrico
alla “regia”. Secondo, il film come mezzo tecnico di riproduzio-
ne confina nella cornice di uno schermo l’alterità che invece la
metropoli dispiega senza confini precisi nei cluster di contesti cul-
turali e particolari che l’abitante sente di attraversare durante la
giornata. Il risultato di questa differenza è che, in questo caso,
nella “percezione a scatti” alla quale egli è sottoposto, alle alte-
rità esterne e sincretizzate che compongono i panorami urbani
vengono a sovrapporsi, in modi più o meno consapevoli, territori
personali e intimi. Il dormiveglia, il sonno, l’interno dell’abitazio-
ne, l’essere sovrappensiero in metro, gli annunci di casa mischiati

35
a quelli dei concerti. In tanti casi simili l’esterno della città può
farsi sentire all’interno del suo tentativo di abitarla. In queste
zone ritroviamo soggettività e dialogiche pronte a mettere in crisi
i nostri posizionamenti. Pronte a dislocarci e disorientarci. In
questi che potremmo chiamare gli orli dell’esperienza, si profila
l’incontro con la metropoli.

36
10

10
Frances Densmore durante una sessione di registrazione col capo dei
Blackfoot for Bureau of American Ethnology.

37
38
Etnografia dell’io e della
metropoli

“Il ritmo della ferrovia urbana e dei battipanni mi


cullava nel sonno. Era la conca in cui si formavano
i miei sogni. Prima quelli informi, forse percorsi dal-
lo scorrere dell’acqua o dall’odore del latte, poi quel-
li tessuti a lungo: sogni di viaggi e di pioggia [...]; e
quando, più oltre nel corso dell’anno, un polveroso tet-
to di foglie sfiorava mille volte al giorno il muro della
casa, lo strusciare dei rami fu per me un apprendista-
to di cui non ero all’altezza. Perché nel cortile tutto
per me si trasformava in cenno” (Benjamin, Infanzia
berlinese 1987, p. 5)

Questo capitolo è un tentativo di delineare quelle zone di in-


contro, ma a volte anche di distanza incolmabile, che hanno co-
stituito il field of work della mia ricerca nella metropoli. Come si
legge già nel capitolo precedente, il tentativo di trovare un modo
di narrare la metropoli, ha suscitato in me una quantità di do-
mande tali da dover includere parti della mia esperienza, del mio
essere stato a Berlino, per poter ricomporre anche parzialmente

39
l’impatto e la forza dell’ incontro con una metropoli come quel-
la tedesca. Perché, per molti punti di vista, Berlino non è una
città facile per trasferirvisi, in particolare per uno straniero. Nel
mio caso ad esempio, il freddo, così persistente e così a lungo, la
lingua tedesca sono state difficoltà che ho dovuto affrontare con
decisione e sistematicità per riuscire ad arginare la sensazione di
estraneità nella quale più di una volta mi spingevano a trovarmi.
Ci sono aspetti che rendono questa città dura e spigolosa; essi
sopravvivono con forza nelle architetture del periodo sovietico,
si pronunciano nelle pulsazioni di certe scene techno, smuovono
nei gridi di alcune manifestazioni antifasciste dalle linee parti-
colarmente serrate. Tali aspetti confliggono con molti altri che
rendono Berlino una delle città più vivibili e a misura d’uomo del
mondo. Così, dopo il ritorno in Italia dal periodo Erasmus, Ber-
lino è divenuto la meta del mio prossimo trasferimento, il luogo
in cui si sono accesi diversi interessi di ricerca, amicizie, affetti
cui non voglio rinunciare al momento. Ci sono poi parti della
città che sanno essere altrettanto dolci come quelle altre dure e
spigolose. La direzione presa da questa ricerca rispecchia in par-
te questa dissonanza. L’intimità, nella mia esperienza, è stata
mescolata all’estraneità. Ascoltare la metropoli mi ha portato
anche a suonarvi come artista ed essere a mia volta ascoltato,
incontrare altre persone che mi hanno permesso di risalire a co-
noscenze e musiche che si sono poi rivelate fondamentali. Molto
di questo è diventato parte del campo di ricerca. Una visione
oggettiva o una qualunque molteplicità di sguardi sulla metropoli
mi si sono dimostrati insufficienti o inadeguati per rappresenta-
re questo. Non si tratta di una posizione totalmente soggettiva
quella che ho adottato, non cerco di esprimere il mio punto di
vista o proporre la mia opinione nel contesto di un relativismo
assoluto. Includere la propria soggettività all’interno del campo

40
di ricerca risponde al tentativo di rappresentare più da vicino il
territorio affrontato, come l’antropologia culturale ha capito da
alcuni anni e per questo sta producendo una serie di etnografie
scritte in modi sperimentali. Come sottolinea Gregory Bateson,
una mappa non può mai coincidere col territorio che rappresenta
(cfr Bateson, 1972). Se la mappa più oggettiva e formalmen-
te giusta deve seguire forme e regole estranee al territorio per ciò
stesso diventando parzialmente “scorretta”, l’alternativa è cercare
di narrare, “mettere insieme i dati” provenienti da contesti e voci
molto diverse, seguendo regole dettate da sguardi che riescano a
dislocarsi. Le mappe più utili a riguardo sono quindi quelle capaci
di disorientare più che orientare. Un’attività, questa dell’orienta-
mento, che nella storia innanzitutto europea ha significato fissare
culturalmente la posizione di un’alterità all’esterno, “l’Oriente”,
al fine di collocare un centro, una posizione eurocentrica fondata
attorno alla figura di un io rigido, uguale dappertutto11 . Diso-
rientare intende in questo modo “liberare l’oriente”, non confinarlo
più all’esterno e permettergli di rivelarsi come alterità vicina, ma
anche rinunciare alla centralità dell’io. Decentrare questa figura
incontestabile. Ciò che le mappe trasferiscono dal territorio, d’al-
tronde, sono le sue differenze 12 ; l’ alterità, o meglio al plurale le
alterità hanno nel contesto etnografico il ruolo fondamentale, in

11
Walter Benjamin ha avuto occasione di sostenere in una citazione ormai
celebre: “Non sapersi orientare in una città non significa molto. Ci vuole
invece una certa pratica per smarrirsi in esse come ci si smarrisce in una fo-
resta” (Benjamin, 1987, p. 18). Per una critica e una filologia dell’ individuo
culturalmentecostituito cfr. Clifford, 1988, cap. 3.
12
Una linea su una mappa geografica, ad esempio, non può segnalare che
una porzione del terreno rappresentato ha una data altitudine, piuttosto
può segnalare il dislivello esistente tra quel rilievo e le parti confinanti. Per
un approfondimento a riguardo, cfr. Bateson, 1972. Inoltre, sul rapporto
mappa-metropoli, Canevacci, 1993.

41
relazione al quale gli sguardi, se dislocati, devono essere capaci di
smuovere l’etnografo dalla sua rigidità, dalla sua posizione ester-
na rispetto al campo di ricerca, al fine di dare spazio alle delicate
dimensioni di questi rapporti. Da una parte significa cercare la
familiarità in ciò che si profila come straniero; saper anche estra-
niare ciò che è più familiare (qui l’io, che “annota e che scrive”,
fa parte a pieno titolo di questa zona destinata al dislocamento);
mettere in discussione il carattere culturalmente costituito del-
la propria individualità. Come nota questa descrizione contenuta
nell’absract di un seminario di etnografia nella metropoli tenutosi
qualche anno fa presso la facoltà di Scienze della Comunicazione
che frequento:
“Se si accetta la sfida che Clifford Geertz lancia
nel testo Gli Usi della Diversità, si accetta conce-
pire l’antropologo come un mercante dello stupore,
come una persona capace di destabilizzare le creden-
ze, i punti fermi e fondamentali della propria cultura
d’appartenenza. Il compito dell’antropologo è infatti
quello di relativizzare le particolari forme di concepi-
re il mondo, per rendere possibile il contatto tra le
diversità. Lo spaesamento di fronte alla diversità e il
rispetto per l’individualità d’una cultura diversa, che
non deve essere valutata o descritta secondo parame-
tri ad essa estranei, sono strumenti indispensabili per
l’esperienza etnografica: l’esperienza della descrizio-
ne dell’altro. Nella società contemporanea, più che
mai, l’antropologo trova l’alterità a casa propria, nel
suo stesso contesto di provenienza. La sua capacità
di stupirsi non dipende più soltanto dalle grandi di-
stanze percorse alla ricerca di cacciatori di teste, di
sistemi di parentela matrilineari o di gente che predi-

42
ce il tempo scrutando le viscere di un maiale. Ades-
so l’antropologo deve essere in grado di stupirsi an-
che di fronte a quello che vede ogni giorno, nella sua
città, nel suo quartiere, negli stessi contesti in cui è
nato e cresciuto. Deve imparare, cioè, a cimentarsi
con differenze che nascono dentro la sua tradizione.”
(Fieldwork. Un’esperienza etnografica nella metropo-
li, seminario a cura di A.M.Forero Angel, G.Grechi,
A.Passani, L.Puntillo, A.Silvestri, 2008)
Dall’altra parte compiere questa operazione di disorientamento
attesta la necessità di rendere il sé uno spazio di etnografia accan-
to agli altri, di renderlo perciò suscettibile delle contraddizioni,
contestazioni, interventi esterni e crisi che normalmente avven-
gono in ogni campo di ricerca. Non significa in nessun modo
abbandonare la scrittura alla psicanalisi, ma con consapevolezza
ammettere nel testo una parte del territorio che altrimenti rimar-
rebbe mutilato, la cui presenza è invece innegabilmente centrale
nello svolgersi della ricerca.
Nel dibattito dell’antropologia degli ultimi anni è stato dato
un posto di riguardo alla riflessione su quali spazi hanno le voci
degli altri rispetto a quella dell’autore nel contesto della scrittura
etnografica. Per troppo tempo siamo stati abituati a resoconti
che portavano la voce di una sola individualità che rendeva tutte
le altre anonime, resoconti spesso portati a delineare regole e sti-
pulare oggettività più che a narrare la particolarità del contesto
culturale affrontato. D’altra parte la necessità di spiegare cul-
ture, fenomeni e popoli in modo oggettivo (necessità alla quale
l’antropologia è stata spinta anche dal voler fondare uno status
scientifico per la propria disciplina; cfr. Clifford, 1988 cap. 1) si
è affiancata a delle strategie narrative e autoriali che potessero
giustificare l’assenza di altre voci in nome di questa oggettività.

43
La rinuncia a far trasparire il proprio coinvolgimento e parte del-
la propria soggettività è stato il prezzo da pagare per sviluppare
un controllo sulle altre soggettività nell’etnografia, in larga parte
tramutate nella funzione impersonale di informatori, fornitori di
dati.
Il rifermento celebre di questa crasi tra soggettività e autore
etnografico è agli Argonauti del pacifico occidentale di Bronislaw
Malinowski (1922), e a quella sua appendice postuma che non
avrebbe mai dovuto essere pubblicata, secondo l’intenzione del-
l’autore: Diario nel senso stretto del termine (1967), il diario di
campo redatto durante la stessa ricerca presso le isole Trobriand.
Secondo l’analisi di James Clifford i testi costituiscono due rifra-
zioni parziali della sua esperienza sul campo tra loro incongruen-
ti: da una parte Malinowski, nell’intenzione deliberata di fissare i
criteri della descrizione scientifica delle culture, tenta di forgiare
la figura autorevole dell’etnografo coloniale come referente unico
di un testo che si fa interpretazione univoca, tramite il ricorso
ad una serie di documenti della cultura del posto (trascrizioni di
canti, detti, schemi, fotografie); dall’altra è protagonista dei suoi
sfoghi nei diari notturni, dove traspare una soggettività lacerata
da pulsioni contrastanti verso il suo ruolo scientifico e verso la
popolazione autoctona, e confonde nel testo sogni, descrizioni di
incontri, sensazioni, sguardi estranei. L’alterità ritorna. In que-
sto modo così problematico e ambiguo, con la pubblicazione di
questa postuma, si inseriscono nella discussione dell’antropologia
culturale le questioni che si focalizzano attorno alla rappresenta-
bilità delle dialogiche nel rapporto con l’altro, nonché il dilemma
della traduzione nel testo etnografico della sostanziale polifonia
incontrata nel campo di ricerca. Le verità che vengono esposte
in modo sicuro e inequivocabile in tante etnografie nascondono
la loro provenienza da verità parziali, voci contrastanti, frasi pro-

44
nunciate in contesti politicamente ambigui. Spesso la complessità
di queste parzialità rimane non tradotta, contraccambiata con la
capacità di esposizione e di osservazione dell’autorità etnografica.
Dove finiscono queste storie e queste voci?
Nel delineare il problema della polifonia sopra esposto, risalia-
mo al campo della critica letteraria dove nelle ricerche di Michail
Bachtin il concetto di polifonia è stato impiegato per la prima vol-
ta in ambito culturale, come strategia narrativa per rappresentare
le altre voci “estraniando” la scrittura nel punto di vista di que-
ste alterità; in modo, potremmo dire, ventriloquistico. Mentre la
polifonia nell’ambito della musica occidentale colta nasce attorno
al 1300 come armonizzazione su più linee melodiche di un tema
secondo le decisioni monologiche del compositore, la dimensione
polifonica alla quale Bachtin si riferisce, attribuendone la sco-
perta all’opera di Dostoevskij, è quella di “un’intersezione, una
consonanza o un’intermittenza tra le repliche del dialogo aperto
e le repliche del dialogo interiore degli eroi. Un determinato com-
plesso di idee, di pensieri e di parole si fa sentire attraverso varie
voci tra loro distinte, risuonando in ognuna in modo diverso. Og-
getto delle intenzioni dell’autore non è affatto questo complesso
di idee in quanto tale, come qualcosa di neutrale a sé identico.
No, oggetto delle intenzioni è proprio il modo in cui il tema si fa
sentire attraverso molte e diverse voci, la sua, per così dire, in-
superabile plurivocità e eterovocità di principio” (Bachtin, 1979,
pp. 191-192). Questo modello di dialogo è pervaso dal senso del-
la disgregazione e della parzialità. L’autore rinuncia all’utopia di
una totalità rappresentabile, di una Verità, anche nel caso della
finzione della realtà del romanzo da lui creata. Si può dire que-
sto un dialogo che per certi versi è opposto al modello platonico
dove “la pluralità delle voci si spegne nell’idea”(p. 193), ultima,
del filosofo. Nell’opera di Dostoevskij le questioni ultime delle

45
quali i personaggi si fanno portatori rimangono implicite fino alla
fine. Essi appaiono traviati da interrogativi e risoluzioni che non
possono essere manifestati, perché la loro intimità è intraducibi-
le a parole anche per l’autore, che non sente di essere padrone
dell’animo e del destino dei personaggi, e rinuncia ad essere nar-
ratore onnisciente. Non entra nella psicologia e nella causalità dei
loro pensieri (come avviene ad esempio nella narrazione realista
di Flaubert), e nemmeno ne fornisce una interpretazione. Inve-
ce partecipa con trasporto alle loro vicende umane. I personaggi
hanno interiorità uniche e irriducibili, cionondimeno partecipano
tutti alla polifonia nella quale si dispiega la complessità di idee al-
la base dell’opera, e nessuno rinuncia al contributo della sua voce.
Mentre questa complessità rimane ineffabile. Se dovessimo trova-
re un parallelo musicale, alla polifonia monologica della tradizione
classica occidentale si potrebbe contrapporre la dimensione par-
tecipativa e improvvisativa della polifonia dei canti pigmei-aka,
dove all’espressione individuale è lasciata libertà di relazionarsi
in modo autonomo rispetto ad un pattern comune che non può
essere esposto singolarmente(cfr. Arom, 1985).
L’interesse della narrazione si sposta verso l’unico frammento
territoriale osservabile,
“non quello che avviene all’interno, ma quello che
avviene al confine della propria e altrui coscienza,
sulla soglia “(Bachtin, 1979, p. 324).
Questa soglia, questo limen, spinge verso scoper-
te extraterritoriali in una zona delicatissima in cui
le parti terminali del proprio sé e quelle iniziali del-
l’altro si allungano, si confondono, si intrecciano in
corpi-interzone. La geografia del proprio corpo deve
essere ridisegnata secondo mappe rigorosamente nuo-
ve, mappe decentrate, mappe più utili a disorientare

46
che a orientare. “L’uomo non ha un territorio interiore
sovrano, ma è tutto e sempre al confine e, guardando
dentro di sé, egli guarda negli occhi l’altro e con gli
occhi dell’altro” (ib.).
Ora siamo disorientati, dislocati, traslocati. Si de-
linea attraverso le interzone dialogiche una etnografia
della soglia, in quella zona torbida del risveglio, dove
sonno e veglia sono ancora privi di contorni precisi,
dove le geografie si disorientano e diventano geofilie.
Tutto questo è radicalmente contro le fusioni indistin-
te, le dissoluzioni individuali, i misticismi collettivi, i
materialismi estatici.”(Canevacci 2004, pp. 55-56)
In questo modo così delicato Canevacci ricuce l’ “insuperabile plu-
rivocità e eterovocità” all’intimo dei tessuti dell’esperienza. Una
polifonia esterna si allaccia ad una polifonia interna ed una po-
lifonia del confine. Cerchiamo ora di distinguere gli ambiti del
discorso che portiamo avanti. Il concetto di polifonia esposto ade-
risce alla situazione dell’esperienza durante la ricerca etnografica,
non della sua scrittura; supporre di poter ricreare questa polifonia
come lo scrittore crea la realtà del suo romanzo è un abbaglio che
equivale a fraintendere la mappa per il territorio. I personaggi
delle etnografie esistono realmente come persone e non sono in-
ventati, c’è un tempo vissuto dal quale non si può prescindere.
Mentre lo scrittore crea una realtà, l’etnografo cerca di tradurla
in un testo dopo esservi stato parte. È risaputo che tradurre equi-
vale anche a tradire. Al suo ritorno l’etnografo ha colto solo parti
dei molti modi in cui la polifonia ha risuonato e la sua intenzione
di narrare, mettere insieme, si deve scontrare con materiali che
a volte non hanno nulla a che fare l’uno con l’altro, disseminati
di spazi che rimangono bianchi. Le soluzioni si focalizzano sul-
l’adozione di strategie narrative per le quali l’unità perduta (e

47
mai interamente posseduta) viene parzialmente ricostruita in una
serie di immagini accanto alla testualizzazione dell’autore. Ma,
come osserva Clifford, “non c’è metodo scientifico o posizione eti-
ca in grado di garantire la verità di tali immagini”(Clifford, 1988,
p. 37). Lo stesso antropologo analizza le strategie narrative di
alcune opere etnografiche a lui coeve che adottano scritture speri-
mentali lasciando sempre più spazio alla trascrizione di dialoghi,
alla caratterizzazione degli informatori che escono dall’anonima-
to per figurare a volte persino come coautori. Si nota però anche
che l’organizzazione formale non costituisce di per sé una prova
di polifonia, quanto le qualifiche degli informatori possono anche
ascriversi solo a testimonianze di corretta deontologia. Ad ambi-
guità su terreni affini giungono usi più recenti di elaborati video e
etnografie scritte che seguono il paradigma dell’incrocio tra auto
ed eterorappresentazione nella collaborazione tra osservatori in-
terni e esterni al contesto affrontato. Il paradigma, da solo, non
costituisce un presupposto sufficiente per mettere in discussione la
posizione di autorità dell’etnografo nell’interpretazione. Parallela
ai testi permane una esperienza etnografica intessuta di rapporti
politici e fittamente polifonici che difficilmente può essere dira-
data o rielaborata nella distribuzione di ruoli di rappresentazione
(per una trattazione su questo argomento, cfr. Canevacci, 2007).
Il campo etnografico rimane un campo contestato. Un punto
fondamentale della questione sta nel fatto che l’autore non può
sperare di nascondere la sua autorità dietro nessuna strategia nar-
rativa, se vuole rappresentare una plurivocità di cui la sua persona
è stata parte integrante, senza aprire la scrittura alla rielaborazio-
ne della sua esperienza personale, permettendo persino che essa
riveli quanto la sua stessa individualità apparentemente unitaria
sia invece costruita, molteplice, ambigua. Non significa rinuncia-
re all’autorialità dell’opera, bensì esporla, aprirla allo sguardo e

48
alla decostruzione, mostrare le alterità e le disgiunture di cui an-
che questa è popolata. Vale lo stesso anche per il contenuto del
testo: come nota Clifford le etnografie sono naturalmente piene
di elementi incongruenti, citazioni e fotografie estratte da conte-
sti diversi dal tema micrologico trattato, che però normalmente
vengono armonizzate e contestualizzate nell’analisi; finiscono cioè
per diventare prove dirette o indirette del racconto, tramite la loro
collocazione e la cornice descrittiva fornita. Di per sé vorrebbe-
ro comunicare anche altro. Le stesse opere di Malinowski sono
affollate di documenti esterni di cui, per sua stessa ammissione,
egli non comprende in pieno il significato. Penso che questa “ete-
roglossia addomesticata” deve avere la possibilità di liberarsi in
ogni parte, deve cioè poter dire parole che vanno anche oltre l’in-
tenzione dell’autore. L’ autore dal canto suo può abituarsi ad una
delicatezza verso il materiale e le persone, ma anche gli argomenti
di cui scrive, cercando di rispettarne le intenzioni comunicative,
rinunciando a forzarne l’interpretazione e abituandosi ad un ruo-
lo più marginale, cui l’antropologo di professione difficilmente è
stato disposto (specialmente da quando storicamente l’etnografo
e l’antropologo, “il descrittore-traduttore della consuetudine” e “il
costruttore di teorie generali sull’umanità” si sono fusi nella stes-
sa figura; cfr. Clifford 1988). Ne consegue che l’etnografia stessa
si attesta sempre più come un resoconto limitato dell’esperienza
di ricerca, ma allo stesso tempo spinge verso un uso della scrit-
tura che va oltre l’intento euristico della rappresentazione. Dal
momento che non vi è più una verità assoluta da esporre, né im-
peri che attendono informazioni sulle loro colonie, né molteplicità
di senso riproducibili in modo imparziale, quale diventa il senso
dello scrivere un’etnografia? A mio parere la situazione contem-
poranea porta verso una scrittura che si presti a essere sempre
più parziale, posizionata, sempre più vicina ad essere un tassello

49
aggiunto a quella polifonia precedente, più che una sua rappre-
sentazione. "Nessun membro della comunità verbale trova mai
parole della lingua che siano neutre, immuni dalle aspirazioni e
dalle valutazioni altrui, che non siano abitate dalla voce altrui.
No, ognuno riceve la parola attraverso la voce altrui, e questa
parola ne resta colma. Interviene nel suo proprio contesto a par-
tire da un altro contesto, permeato dalle intenzioni altrui. La sua
propria parola trova una parola già abitata" (Bachtin, 1988, p
282). La scrittura spinge verso il gesto. Per questo motivo, ad
esempio, questa tesi si presenta come i frutti forse precocemente
raccolti di un lavoro che può essere solo parzialmente documen-
tato. Sento questa tesi come parte di una ricerca che continua
oltre la sua stesura, ed è affiancata alla mia attività come arti-
sta, al termine del mio percorso di studi come studente di laurea
triennale, al mio prossimo trasloco. Ed è per me un modo di fare
il punto della situazione, esporre alcune idee che mi passavano in
testa da un po’ di tempo, coltivare rapporti con persone e cose
verso cui nutro un profondo affetto, condividere qualcosa di un
contesto culturale che mi ha cambiato tanto. Fa parte del mio
stesso riposizionarmi e disorientarmi.
Il fatto di scrivere un’etnografia di una metropoli non esime
l’etnografo dall’usare la stessa delicatezza che dovrebbe nei con-
fronti di un gruppo sociale, perché anche questa è popolata di
alterità, di sguardi e di voci che hanno diritto di essere rispetta-
te. Egli sembra dover posizionarsi come ci si posiziona nell’ascolto
in un dialogo fitto nel quale può aver poca voce in capitolo. Par-
tecipa alla vita che scorre in essa, intrattiene rapporti con altre
persone, è partecipe della molteplicità delle sue comunicazioni e
può percorrerne con lo sguardo le prospettive contrastanti nelle
architetture, ma non per questo ha la possibilità di coglierne la
struttura fondamentale o di spiegarne l’anima. Nel particolare

50
della mia esperienza di ricerca il referente della metropoli è sem-
brato come lo sfondo troppo fuori fuoco di una fotografia che è
impossibile rendere nitido. A Berlino gli sguardi che cercano di
spaziare più lontano sono portati a perdersi; né può essere tentata
una mappatura da un punto di osservazione posizionato in alto,
come quelle prodotte dallo sguardo e dalle tecniche di fotografia
aeree adoperati da Marcel Griaule durante le sue etnografie dei
villaggi dell’Africa subsahariana (cfr. Clifford 1988): ogni tentati-
vo di sviluppare un controllo nella distanza è destinato a rivelarsi
inutile, a parte l’ottenimento del profilo enigmatico di uno skyli-
ne acuminato. Di cosa è fatta una metropoli? Nella mia ricerca
gli elementi a esporsi prima a fuoco non sono stati i più lontani.
Quasi subito sono venuto a contatto con una scena di avanguardia
musicale dispersa in tanti piccoli locali nella città, la cui geografia
notturna, fatta di U-bahn e strade sconosciute percorse a piedi,
si sovrapponeva a quella meno oscura del giorno dove, alcune set-
timane dopo, per caso, lo sguardo mi permetteva di riconoscere
l’effettiva vicinanza di quei luoghi raggiunti con itinerari molto
diversi. Nel frattempo una lenta esposizione mi svelava il fascino
delle intimità racchiuse nei cortili che costellano molte abitazioni.
Poi si sono aggiunti i luoghi, le architetture, le prospettive mul-
tifaccettate di piazze e stazioni, le industrie tramutate in club di
musica techno, i panorami estesi che si aprono in alcune giunture
delle vie di trasporto. Non c’è stata una temporalità netta in
questo avvicendamento, poiché nella città i piani e le prossimità
sono abituati a sovrapporsi nel tempo indefinito della quotidiani-
tà. Il termine più prossimo da opporsi a quello distante e globale
della metropoli è stato così quello della mia esperienza, della nar-
razione del sé. Negli spazi tra questi due si sono configurati gli
elementi molteplici che compongono l’etnografia. Senza dubbio la
dimensione dell’ascolto ha segnato il punto di svolta della ricerca.

51
Come notava ancora Murray Schafer il suono è solito mettere in
crisi il senso della proprietà privata che i muri, le porte e i cancel-
li hanno costituito visualmente attraverso lo sguardo (cfr 1977).
La spazialità, stando alle regole dell’ascolto, segue dei confini che
tendono a mescolarsi, dal momento in cui poi questi si presenta-
no così intricati e complessi come in una metropoli. Il punto di
partenza per le ricerche di Simmel sulla metropoli è stato l’os-
servazione di come l’estrema vicinanza, a volte l’addossamento,
cui l’abitante è abituato nell’ambiente urbano determina lo spo-
stamento di alcuni confini, quelli dell’autodeterminazione, della
riservatezza, nella interiorità dell’individuo (cfr Simmel 1957). Si
profila lungo questi limina la possibilità dello sconfinamento: l’in-
contro dell’individuo con la metropoli corrisponde, in una certa
parte, all’avvicinarsi della metropoli all’individuo. Cionondimeno
non ho dimenticato la città immergendo la scrittura in una visio-
ne personale; non ho rinunciato al tentativo di narrare Berlino e
di dare voce alle sue parti.
Scrivere diviene anche un atto di amore verso la metropoli.
Ad esempio lo scrittore Italo Calvino definì i suoi racconti delle
Città invisibili “un ultimo poema d’amore alle città, nel momento
in cui diventa sempre più difficile viverle come città” (da una
sua conferenza tenuta a New York nel 1983). Affondando a più
turni nelle sue strade comunicazionali, perdendovicisi, tentando
di rappresentarne la poliprospettività, pezzo su pezzo, lo scrittore
rimane intaccato dalla sua influenza. Ancora una volta torna
alla mente l’esperienza urbana dell’antropologo “spontaneo” della
metropoli, Walter Benjamin.

“Quando poi, talvolta già verso mattina, mi sof-


fermavo in un passo carraio, mi ero irrimediabilmente
impigliato nei nastri d’asfalto della città, e non erano

52
le mani più pulite quelle che mi liberavano” (1987, p.
95)
Lui ha dedicato a Berlino, la città che gli ha dato i natali, un li-
bro, dal titolo Infanzia berlinese intorno al Millenovecento; lo ha
scritto nel momento particolare della sua vita in cui, costretto a
continui trasferimenti in Europa per sfuggire al pericolo nazista,
capisce che probabilmente non può più farvi ritorno. Ne deriva-
no pagine di una delicatezza rara, compenetrate di considerazioni
rispetto al suo passato, e una scrittura singolare che coltiva per
molto tempo13 . Infanzia berlinese ripercorre in una successione
di brevi frammenti descrittivi il rapporto di intimità che l’autore
aveva con la città. Non possono essere lette come normali memo-
rie: più che raccontare episodi della sua vita, le descrizioni par-
tono da un luogo della città stessa, attraverso il quale emerge un
frammento del suo riconoscersi indissolubilmente legato ad esso.
Non sono semplici ricordi, ma momenti nei quali Benjamin sente
forte l’origine dei suoi modi di percepire e di guardare il mondo,
nonché alcuni presagi della sua storia personale da adulto (cfr.
Szondi, 1978) . Nei dintorni di alcune statue nel Tiergarten, il
parco centrale, Benjamin trova di aver provato per la prima volta
l’amore pur non conoscendone ancora il nome; nell’occasione di
una fanfara per la strada che conduce al giardino zoologico il suo
sguardo cerca di stringersi per la prima volta ad una passante;
nel salone di casa le sue prime letture di E.T.A. Hofmann si con-
fondono all’inquietudine di aver tratto il libro vietato dalla teca
e all’allarme dei suoni ascoltati, che avrebbero potuto segnalare
l’arrivo dei genitori. È tra le strade del Western berlinese che
riconosce di aver subito quel fascino che poi lo porterà a ricer-
care l’arte del disorientarsi che apprenderà solo più tardi. Non
13
Mentre vengono fornite quattro edizioni dal 1932 al 1938, la
pubblicazione avverrà solo nel 1950 ad opera di Adorno.

53
appartiene al suo libro più famoso sulla capitale francese, infatti,
la citazione che celebra lo smarrimento urbano.
Nell’introduzione Benjamin scrive di essersi sforzato di impa-
dronirsi di “quelle immagini in cui l’esperienza della grande città si
sedimenta in un bambino della borghesia”(p .3). In queste imma-
gini l’intimità del bambino è pronta a dispiegarsi senza differenza
sul territorio che lo circonda, quanto l’età ancora tenera gli per-
mette una permeabilità particolare rispetto agli esterni della città
(“E una mattina, dopo lunga parentesi, con esili forze mi abban-
donavo di nuovo al rumore di battipanni: entrava dalle finestre e
nel cuore del bambino si scolpiva più profondamente che la voce
dell’amata ne cuore dell’uomo”, p. 39). Gli spazi descritti dal
libro - angoli di strade, piazze, stanze dell’appartamento di fami-
glia, posti al giardino zoologico, intérieurs- celano dietro il velo
del ricordo una geografia una geografia interiore. La narrazione
personale si confonde dolcemente con le descrizioni dei luoghi, in
modo che in poco tempo gli spazi pubblici sconfinano in inde-
finiti spazi privati, diventano zone liminali, soglie sulle quali si
compone l’identità dell’autore e si modulano le prime eco dei suoi
incontri con l’altro. Leggiamo un pezzo, dedicato alle logge, le
stanze della casa che affacciano sui cortili:
“Una di esse, che in estate era ombreggiata da una
marquise, fu per me la culla in cui la città depose il
nuovo cittadino. Le cariatidi che sorreggevano la log-
gia del piano successivo avevano forse momentanea-
mente abbandonato il loro posto per cantare accanto
a essa una canzone che niente, è vero, conteneva di
ciò che più tardi mi aspettava, e che tuttavia reca-
va la parola magica grazie alla quale l’aria dei cortili
anche in seguito non smise di inebriarmi. Credo che
una traccia ve ne fosse ancora fra i vigneti di Capri,

54
dove tenni tra le braccia l’amata; e in questa stessa
aria vivono le immagini e le allegorie che dominano il
mio pensiero come le cariatidi all’altezza delle logge
dominano sui cortili del Western berlinese”(p. 5)
Inoltre, si rendono possibili una serie di piccoli rituali e di frain-
tendimenti. I racconti, infatti, oltre che per la bellezza della nar-
razione, stupiscono per l’irregolare consequenzialità del linguag-
gio, che segue una sensibilità analogica nel giustapporre discorsi
diversi con una facilità allarmante, giustificata solo dall’età infan-
tile alla quale si riferisce. Se altrove le trattazioni di Benjamin
si distinguono per il metodo del montaggio letterario, qui ne vie-
ne svincolato un uso addirittura surreale. Il genere di inversioni
logiche che ricorre nel testo è suggerito già dalla postilla procu-
rata al frontespizio: “Colonna della Vittoria brunobiscotto/ con
lo zucchero invernale dei giorni dell’infanzia”(p. 1). Come Egli
scrive nel saggio Sulla facoltà mimetica, nel 1932, anno nel quale
inizia i lavori di scrittura di Infanzia berlinese: “Il gioco infanti-
le è tutto pervaso da condotte mimetiche, e il loro campo non è
affatto limitato a ciò che un uomo imita dall’altro. Il bambino
non gioca solo a “fare” il commerciante o il maestro, ma anche
il mulino a vento e il treno” (Benjamin 1955, p. 71). Seguendo
questa lettura, non solo lo stile narrativo adottato risulta l’unico
funzionale a rappresentare, a sua volta mimeticamente, il mondo
interiore della sua infanzia; ma se, come egli spiega, “in questa
stessa aria vivono le immagini e le allegorie che dominano il [suo]
pensiero” l’ intento della scrittura deve essere più profondo. In
essa si deposita anche una riflessione su di sé, sul suo metodo di
pensare, sul suo stesso essere mimetico alle città e ai libri di cui
scrive.
A volte i confini dell’ io narrato sembrano essere così fragili da
potersi spezzare a causa di un riflesso, o un tremito: “Nel nostro

55
giardino c’era un chiosco decrepito e abbandonato. Lo amavo per
le sue vetrate multicolori. Quando all’interno passavo di vetro in
vetro, mi trasformavo; mi coloravo come il paesaggio che, ora av-
vampante ora polveroso, ora sommesso ora lussureggiante, stava
nella finestra. [. . . ] qualcosa di simile avveniva con le bolle di
sapone. Attraversavo la stanza dentro di loro e mi mescolavo al
gioco di colori della volta sino a quando scoppiava.” (p. 72); o,
durante la caccia alle farfalle: “Quanto più io stesso con tutte le
fibre aderivo all’animale, quanto più nell’intimo divenivo farfalla,
tanto più l’insetto nel suo agire assumeva il colore dell’umana de-
terminazione, e infine era come se la sua cattura fosse il prezzo in
virtù del quale unicamente potevo riappropriarmi del mio essere
uomo”(p. 16) . Prima di dedicarsi a questo libro Benjamin ave-
va già scritto di Parigi, Marsiglia, Weimar, Napoli, Mosca. Nel
giustificare la sostanziale differenza tra i progetti egli scrive: “Lo
stimolo superficiale, l’esotico, il pittoresco agisce soltanto sul fo-
restiero. Perché un nativo giunga a rappresentare l’immagine di
una città occorrono motivi diversi e più profondi. Motivi che in-
ducono a viaggiare nel passato anziché in luoghi lontani.” (1993,
p. 468) Conosciamo come il tema del tempo non sia in Benjamin
un tema riconducibile unicamente alla nostalgia: ha in sé anche
la forza messianica dell’origine e della predizione (cfr. Benjamin,
1955). I racconti hanno a che fare solo in parte con la narrativa.
Possiamo dire che le immagini richiamate nella città della sua
infanzia hanno, infatti, il valore di allegoria per il suo pensiero:
il montaggio letterario e della porosità all’altro che sono stati i
fondamenti del suo metodo mimetico trovano qui i loro primi ri-
flessi. Un allegoria, ma una allegoria urbana e reale. 14 Non è un

14
Per averne un altro esempio possiamo leggere il finale del racconto il
calzino: “Ripetevo di continuo la dimostrazione di questo avvenimento. Mi
insegnò che forma e contenuto, custodia e custodito sono la stessa cosa. Mi

56
caso che lui scelga per questa riflessione la Berlino della sua infan-
zia. Attraverso la lente del ricordo e l’immaginazione del fanciullo
vi deve aver trovato qualcosa che lo ha smosso. L’intimità con-
divisa dei cortili, i rituali silenziosi dei Panorama (una sorta di
precursori del cinema in voga a quei tempi), le geografie interne
dei parchi e del giardino zoologico, disposte facilmente a prestar-
si come ibridi tra la città e i labirinti che lui disegnava sui suoi
quaderni, la toponomastica quasi enciclopedica delle sue strade,
la teatralità delle proporzioni architettoniche, i silenzi profondi
delle strade infranti d’improvviso dai gesti quotidiani. Va anche
aggiunto l’urbanizzazione travagliata e particolare di questa città,
così anche prima che i conflitti mondiali che ne stravolgessero di
nuovo l’aspetto (cfr. infra. cap 3). La Berlino che vien fuori dai
ricordi di infanzia di Benjamin è pure una Berlino trasformata.
Si può dire però che il pensiero dello scrittore ha trasformato la
città almeno quanto la città ha saputo trasformare il suo sguardo.

Vi è una parola molto bella in tedesco, un neologismo, che sta


a significare la “solitudine di due persone”: zweisamkeit. Questo
vocabolo non si traduce nella solitudine, einsamkeit, che possono
provare due che stanno insieme, non è questa la direzione in cui
volge il plurale. Indica invece quello stato di unione nel quale
queste due persone possono ritrovarsi, il loro tendere l’uno verso
l’altro, il loro affondarsi a vicenda e il loro bastarsi. La zweisa-
mkeit è quel rapporto delicato per il quale a volte si preferisce
lasciare da soli due persone che si stanno conoscendo, o che si
stanno amando già solo con lo sguardo. È quel rapporto fatto di
discorsi sottili ricamati da fili invisibili. La rivoluzione semantica
causata dal semplice sostituire un due al numero uno ha del-

educò a estrarre la verità dalla poesia con la stessa cautela con cui la mano
infantile estraeva il calzino dalla “borsa” ” (p. 58)

57
l’incredibile, come il mondo parziale e delicato si dischiude alla
pronuncia di questo vocabolo; l’apertura della solitudine, il suo
dischiudersi. Nietzsche quando, intimando al solitario di scegliere
i due opposti della solitudine e della moltitudine, gli ricorda che
esso può divorare se stesso (nella solitudine) o venire divorato da-
gli altri (nella moltitudine). L’ uomo della folla ritratto da Edgar
Alan Poe sembra il più vorace divoratore di se stesso, colui che
trova nella moltitudine la solitudine più vera. Anche Simmel ci
ha messo in guardia sull’indifferenza che pure lo stare così vici-
ni provoca nell’abitante della metropoli. Eppure c’è chi decide,
nonostante tutto, di aprire la propria solitudine all’altro; di so-
stenere lo sguardo di ogni passante e permettergli, anche per un
momento, il riconoscimento; di lasciare anche la città specchiarsi
nei suoi occhi, e ai suoi paesaggi più aperti di devastargli il cuore.
È nello sguardo del flâneur, è nei versi intrisi di folla che Baudelai-
re scrive a Parigi. Una piccola rivoluzione che inizia a farsi strada
a partire dalle periferie del corpo. Sentendo protendere il proprio
equilibrio statico verso altri equilibri instabili, danzanti; sentendo
piano piano lo sfioramento dei movimenti. Questo è il modo in
cui volgo lo sguardo ai volti di Berlino in continua ed irregolare
ricostruzione, alle sue strade deserte di notte, alle finestre aperte
nei cortili, agli amici che ha saputo procurarmi, ai tanti sguardi
straneri.
Di questo sono anche debitore a S., che ha vissuto con me
per quattro mesi in un appartamento nella parte nord di Berlino,
a Wedding. Con lei ho imparato il significato della zweisamkeit.
Condividere le nostre solitudini, le paure, i nostri ascolti sulla
città, creando dei discorsi che non si sono più chiusi.

58
59
60
Berlin

In questo capitolo tento di narrare alcuni aspetti della metro-


poli, partendo dall’osservazione del suo territorio urbano come un
tessuto vivo, un bodyscape, e cerco di evidenziarne le cicatrici e le
contrapposizioni. Queste, a livello architettonico, possono essere
definite come le dissonanze del paesaggio berlinese: congiuntu-
re non armoniche tra palazzi, interni abitativi, infrastrutture di
vario tipo, elementi temporanei (affissioni, street art, cantieri in
costruzione..), spazi dedicati alla natura (parchi, laghi urbani)
spazi non ancora definiti (terreni incolti etc..).
“L’accordo singolo, che nella tradizione classica e
romantica rappresenta - come veicolo di espressione
- il polo opposto all’oggettività polifonica, viene ri-
conosciuto nella sua polifonia interna. Il mezzo per
arrivarci non è altro che quello estremo dellla sogget-
tivizzazione romantica: la dissonanza. Quanto più un
accordo è dissonante, quanti più suoni contiene dif-
ferenti tra loro ed operanti nella loro diversità, tanto
più è polifonico, tanto più ogni singolo suono [...] ac-
quista già nella simultaneità dell’accordo il carattere
di parte polifonica.” (Adorno, 1949, p. 61)

61
La polifonia dissonante della metropoli si rivela nel fatto che es-
sa non integra mai appieno le differenze tra le identità culturali
ed estetiche che la compongono, producendo dei panorami ibri-
di; nella filosofia di Adorno la dissonanza infatti si definisce tale
non perché “stona”, ma perché non conclude le relazioni tra i
suoi elementi, lasciandole aperte. Diversamente dall’assonanza,
che all’orecchio suona dolce e conclusa in se stessa, la dissonanza
smuove l’ascolto e tende verso un oltre, una risoluzione, senza mai
contenerla del tutto. In quest’ordine il rapporto con le dissonan-
ze urbane può definirsi inquieto perché la sua comprensione non
passa solo per l’ascolto ma per l’intero corpo - una comprensione
incorporata; un corpo-pieno-di-menti (mindfullbody; cfr Scheper-
Hugues, 1994). Nei primi due capitoli abbiamo trattato indiret-
tamente questo argomento parlando, da differenti punti di vista,
dell’aprirsi del proprio sentire alla metropoli nel tentativo di in-
terpretarla. Qui tento di fare un percorso diverso: in una prima
parte, attraverso una descrizione delle urbanistiche e delle archi-
tetture, affronto una narrazione, pur parziale, dalle dissonanze
che popolano il corpo metropolitano berlinese; in seguito, analiz-
zo due pellicole che mettono in gioco una relazione significativa
con il paesaggio di Berlino attraverso una precisa estetica musi-
cale: Berlin – Die Sinfonie der Großstadt (Berlino- Sinfonia della
grande città) del 1927 di Walter Ruttmann con le musiche di Ed-
mund Meisel, e Berlin Babylon del 2001 di Hubertus Siegert con
la colonna sonora ad opera degli Einstürzende Neubauten; infi-
ne affronto un discorso sul movimento underground della Berlino
ovest degli anni 80 prendendo come oggetto di analisi il corpus
di cortometraggi e di musiche prodotti in questa scena, segnata
fortemente da un’estetica di autoproduzione e di rappresentazio-
ne della propria condizione metropolitana; nel modo in cui questi
elaborati artistici coinvolgono il corpo nella riflessione sulla città,

62
si rintraccia l’ascolto delle sue dissonanze. Con il titolo Soniche
berlinesi ho cercato di individuare, attraverso la sostantivazio-
ne dell’ aggettivo “sonico”, delle possibili poetiche nelle musiche
e nei soundscapes prodotti nel contesto della metropoli di Ber-
lino. Per questo ho deciso di dedicare la mia attenzione tanto
alla produzione artistica quanto alle estetiche dell’ambiente ur-
bano; se il taglio dato alla selezione è estremamente personale,
è dipeso anche dall’aver introiettato nella ricerca quel rapporto
allegorico e delicato con la città che è stato precedentemente de-
scritto attraverso Benjamin; dalla convinzione di poter trovare
nelle comunicazioni urbane tracce di quello che avrei ascoltato o
conosciuto più tardi.

Nella lettura di Benjamin il confine tra corpo e metropoli si


incarna nel concetto di paesaggio. La genesi del termine in ar-
te da lui viene fatta risalire ai quadri paesaggistici che nel 1700
iniziano a comparire negli appartamenti dei borghesi. Secondo la
sua analisi in essi è possibile leggere il tentativo di addomesticare
l’elemento naturale da parte del borghese, che acquistandone una
rappresentazione visuale e incorniciandola, lo trasforma in decor,
oggetto da poter appendere e ammirare nell’abitazione. Il pae-
saggio è ciò che sviluppa la relazione tra l’esterno e la soggettività
di chi ne fruisce attraverso l’immagine; l’appartamento privato,
lo studio o l”interieur, rappresentano infatti luoghi dove regna
l’interiorità del borghese.
Il nesso tra la vastità della natura, il limite della cornice e

63
la ristrettezza dello scenario dell’intérieur si riconfigura nel pae-
saggio in un meccanismo di appropriazione e distacco, alla base
del quale si intravede il ruolo della città: “il cittadino, la cui su-
periorità politica sulla campagna si manifesta ripetutamente nel
corso del secolo, compie il tentativo di importare il paesaggio nel-
la città”(Benjamin, 1955, p.148). Ma subito dopo prosegue: “La
città si amplia a paesaggio nei panorami, come farà più tardi, in
forma più sottile, per il flâneur” (ib). Benjamin narra così uno
scambio: alla natura che è assoggettata ai limiti del dipinto per
essere riposta negli interni delle abitazioni, corrisponde il destino
della città che si amplia a paesaggio a partire dai panorami, tra-
sbordando agli occhi del flâneur verso tutto il tessuto urbano. Se
i panorami, antecedenti tecnologici del cinema, avevano fondato
il loro successo sull’espediente ottico e sonoro dell’illusione, il flâ-
neur, disorientandosi, è pronto a fraintendere la realtà della città
come immagine estetica, superficie carica di significante degna di
contemplazione.
Visualmente dall’inizio del ’900 il corpo della metropoli si af-
folla di segni e di cambiamenti. Non a caso tra i mezzi di rappre-
sentazione il dipinto lascia il posto all’immediatezza dello scatto
fotografico, strumento più idoneo per tentare la cattura dell’a-
spetto sfuggevole della grande città. Quando Baudelaire scrive
nei Tableaux parisiens che l’aspetto della città muta “più velo-
cemente del cuore di un mortale”, attesta anche una inversione
poetica: se prima la poesia era solita plasmare attraverso le de-
scrizioni della natura i suoi “paesaggi-stati d’animo”, il cuore del
poeta urbano è pronto a mutare assieme ai cambiamenti della cit-
tà che ama, di cui vede tramutarsi il paesaggio in una superficie
viva. Manca qui la cornice, che nel quadro naturalista aveva sug-
gerito la stabilità e la docilità dell’appropriazione; il meccanismo
trasloca dall’ interieur e dal dipinto per portarsi verso i confini

64
di geografie più sottili. La città offre infine un’immagine non ad-
domesticabile di se stessa: il nesso tra l’esteriorità rappresentata
e l’interiorità di chi ne fruisce non si inscrive più in un rapporto
di appropriazione, ma in un’occasione di un incontro.
Ogni città vissuta ci lascia qualcosa dentro che non può essere
esplicitato in una spiegazione senza che iniziamo a raccontare
la nostra storia. In modo simile una città narra attraverso la
sua urbanizzazione moltissimo senza che nulla di questo possa
tramutarsi da solo in parole. Questo perché il suo aspetto non è
deciso dall’intento espressivo di un unico progetto, ma è segnato
dal sovrapporsi di progetti e vissuti diversi; è questa incidentalità
inconsapevole, come anche sostiene Kracauer in un saggio del
1931 (cfr. 1964), a tramutare l’immagine urbana in paesaggio.
Una delle città invisibili che popolano il libro di Italo Calvino,
dal nome Zaira, incarna questa riflessione:
Inutilmente, magnanimo Kublai, tenterò di descri-
verti la città di Zaira dagli alti bastioni. Potrei dirti
di quanti gradini sono le vie fatte a scale, di che sesto
gli archi dei porticati, di quali lamine di zinco sono
ricoperti i tetti; ma so già che sarebbe come non dirti
nulla. Non di questo è fatta la città, ma di relazio-
ni tra le misure del suo spazio e gli avvenimenti del
suo passato: la distanza dal suolo d’un lampione e i
piedi penzolanti d’un usurpatore impiccato; il filo te-
so dal lampione alla ringhiera di fronte e festoni che
impavesavano il percorso del corteo nuziale della regi-
na; l’altezza di quella ringhiera e il salto dell’adultero
che la scavalca all’alba; l’inclinazione d’una grondaia e
l’incedervi d’un gatto che s’infila nella stessa finestra;
la linea di tiro della nave cannoniera apparsa all’im-
provviso dietro il capo e la bomba che distrugge la

65
grondaia; gli strappi delle reti da pesca e i tre vecchi
che seduti sul molo a rammendare le reti si raccontano
per la centesima volta la storia della cannoniera del-
l’usurpatore, che si dice fosse un figlio adulterino della
regina, abbandonato in fasce lì sul molo. Di quest’on-
da che rifluisce dai ricordi la città s’imbeve come una
spugna e si dilata. Una descrizione di Zaira quale è
oggi dovrebbe contenere tutto il passato di Zaira. Ma
la città non dice il suo passato, lo contiene come le
linee d’una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle
griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale, nel-
le antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere,
ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettatu-
re, intagli, svirgole. (1972, p. 10)

Per Berlino, città, come alcuni dicono, con moltissima storia e


quasi nessuna tradizione, questo è vero in modo particolare. Tut-
te le forze maggiori del ventesimo secolo si sono manifestate qui
con violenza lasciando il loro segno a discapito del territorio pree-
sistente. L’industrializzazione vertiginosa degli anni dieci e venti
ha cancellato ogni traccia dei confini antichi per la realizzazione-
delle infrastrutture necessarie per la comunicazione. Il nazional-
socialismo prima e il regime comunista poi nella parte est, hanno
imposto le loro nuove geografie degli assi viari interni e dei monu-
menti su un piano di distruzione di larga scala. Dopo che durante
la seconda guerra mondiale il settanta percento del centro è stato
distrutto o gravemente danneggiato nei bombardamenti, e dopo
la stasi del periodo del Muro, nel 1997 è stato deciso un piano di
urbanizzazione che, nel segno ideologico di una Germania unita,
moderna, capitalista, sta tuttora ridisegnando il volto di Berlino

66
attraverso il processo edilizio più grande mai attuato in una città
europea.
L’aspetto odierno della città, lontano dal rispecchiare l’ordine
indicato dal logo stabilmente circolare dalla piantina della metro,
risulta un conglomerato urbano innervato di rotture e differenze.
Nella storia, ogni visione totalizzante dopo la sua forza ha mo-
strato infatti il suo fallimento al sopraggiungere degli eventi; pure
il boom edilizio esploso all’inizio del millennio sta conoscendo da
qualche anno un periodo di rallentamento e di crisi. Subito dopo
la riunificazione di due città che si sono sviluppate indipenden-
temente l’una accanto all’altra per trent’anni, è stata adottata
una politica che avrebbe dovuto valorizzare l’unità ritrovata, la
centralità. Da qualcuno è stato tentato di tramutare la torre te-
levisiva di Alexanderplatz in qualcosa come un equivalente della
Tour Eiffel per Parigi, un simbolo che potesse accentrare il senti-
mento di identità dei berlinesi, ma con esiti piuttosto goffi. È una
architettura marcatamente sovietica, dai tratti sottilmente alie-
ni, vista da ovest per molto tempo come estranea. Se con i suoi
368 metri di altezza è un punto di orientamento facile in quasi
ogni parte della città, la sua figura si trova in pratica a svettare
su paesaggi e scorci di città diversissimi. Non c’è nessuno “stile
berlinese” né un solo quartiere totalmente uniforme ad un unico
piano urbanistico. Poiché spesso sono stati adottati in massa po-
chi modelli abitativi, sulle facciate dei palazzi comuni le differenze
si fanno su variazioni di variazioni, contrasti di grigi, asimmetrie
prospettiche, continuità spezzate da un graffiti o da un segna-
le, una crepa. È un paesaggio in divenire; mentre la segnaletica
baustelle, lavori in corso, appare con regolarità sui tragitti più
comuni, le gru metalliche ad impiego edilizio sono diventate un
tratto diffuso dello skyline berlinese, come a volerne denunciare
la perpetua instabilità del profilo. Non si può dire neanche di

67
essere in una fase finale della ricostruzione dopo l’abbattimento
del Muro, giacché accanto ai cantieri attualmente aperti per la
restaurazione o il recupero di musei o palazzi storici, compaiono
molti altri cantieri fermi, o in attività per un nuovo allargamento
delle vie di comunicazione già ricostruite, il nuovo riadattamento
funzionale di alcuni edifici, la riqualificazione di quartieri perife-
rici o industriali. Il tessuto urbano è un misto non omogeneo di
passato, presente e futuri possibili. All’architettura tradizionale
si aggiunge poi quel tipo di architettura fluida costituito dagli usi
temporanei (i rave, le manifestazioni culturali, i locali notturni..)
che, liberando le possibilità degli spazi residuali, continuano a mu-
tare instancabilmente la geografia interna di Berlino ridefinendo
periferie e centri. Se perciò una descrizione di Berlino dovrebbe
contenere tutto il suo passato, narrare parti del suo paesaggio
svincola delle storie che vanno oltre di esso.
“A Berlino si è sempre trasportati da sensazioni urbane diver-
sissime. A Berlino bisogna leggere da sé i nessi della storia, tra
rotture e paesaggi discontinui” scrive il regista Wim Wenders15 ,
che ha descritto in Der Himmel über Berlin la ricerca senza pace
dell’altro nello scenario della città, l’interrogare i luoghi muti in
cerca di risposta. Una pubblicazione del 2000 a cura di Philipp
Oswalt attesta il lavoro di ricerca in questo ambito partito da una
collaborazione tra studenti e professori in un laboratorio presso la
Technische Universität di Berlino16 . Attraverso gli studi compa-
rati di storia, letteratura, architettura, geografia, si è cercato di
rintracciare quelle linee che percorrono il territorio urbano. Ne de-
rivano undici piccole sezioni che compongono la pubblicazione, in-
tervallate da un numero consistente di mappe e scorci panoramici:
Urbanistica automatica, Generatori, Conglomerato, Distruzione,
15
1992, p 147.
16
cfr Oswalt, 2000

68
Vuoto, Temporaneo, Collisione, Raddoppiamento, Simulazione,
Massa, Metabolismo.
Ciascuna parola chiave libera un percorso instabile che, se-
guendo una logica propria, racconta una costellazione di luoghi
di Berlino. Ad esempio, mentre la sezione Generatori elenca at-
traverso i commenti ad una serie di carte il susseguirsi di pia-
nificazioni (canalizzazioni, ferrovie, impianti industriali - ordini
barocchi, nazionalsocialisti, sovietici, capitalisti) e di avvenimen-
ti (bombardamenti, fusioni tra municipi, acquisizioni di parchi)
alla base del variare dei vettori urbanistici più importanti, Vuoto
raccoglie le storie dei corrispettivi luoghi residuali, delle cancella-
zioni, le incongruenze, i cantieri fermi, i lembi di campagna di cui
Berlino è tutta intessuta nelle interruzioni di queste stesse linee.
Leggiamo così del rimpiazzamento coatto del castello fredericia-
no con il Palast der Republik sovietico, attualmente smantellato
per ricostruirvi nuovamente il castello, dello stato di disabita-
zione in cui giace una grande fetta degli uffici creati nel boom
edilizio degli anni ’90, dell’area, dove sorgeva il Prinz Albrecht
Palais - un tempo quartier generale della Gestapo - ora dedica-
ta alla mostra permanente “topografia del terrore” disposta tra i
resti delle fondamenta del palazzo distrutto, le cui macerie sono
state spostate altrove ma lasciate intatte in segno di commemo-
razione. La memoria gioca un ruolo ambiguo e importante nella
capitale di una nazione dove il Vergangenheitsbewältigung- il con-
fronto/superamento del passato è una questione tuttora delicata;
in alcuni casi, come quello del Prinz Albrecht Palais o del me-
moriale dell’Olocausto che si trova nelle sue vicinanze, il vuoto
lasciato dalla distruzione è stato scelto come soluzione più efficace
per fare da monito alle nuove generazioni. Lo sforzo di comuni-
care un passato doloroso è anche alla base di altre architetture
come lo Jüdisches Museum di Daniel Lebeskind, dalla pianta a

69
forma di stella di David spezzata e dalle facciate segnate da tagli
e cicatrici; o la Chiesa della Rimembranza lasciata in rovina tra
il campanile e l’edificio della chiesa nuova di Egon Eiermann; o
della decisione nel quartiere di Kreuzberg di inserire nel manto
stradale un tassello metallico di fronte alle case da dove erano
state deportate famiglie di Ebrei. Ma la seconda guerra mondiale
e il periodo di divisione del Muro non sono gli unici riferimenti
della città, che testimonia attraverso una moltitudine di suture
una varietà di quotidianità passate e presenti. In Conglomerato
compare la citazione di Joseph Roth del 1930: “Berlino è una città
giovane, sfortunata e ancora da venire. La sua tradizione ha un
carattere frammentario. Il suo sviluppo, spesso interrotto e an-
cor più spesso distolto e deviato, viene ostacolato ma allo stesso
tempo avvantaggiato da errori inconsci, da intenzionali tendenze
malvagie; in un certo qual modo viene avvantaggiato da quegli
stessi impedimenti. I risultati - questa città ha infatti così tan-
te fisionomie che non si può parlare di un unico risultato- sono
un conglomerato meticoloso; [...] una confusione ordinata; un
arbitrio esatto e sistematico” (p. 49). Un’immagine del China
Pfanne, il mix di verdure pollo e spaghetti di soia che costituisce
uno dei junkfood più in voga tra i berlinesi, apre questa sezio-
ne, seguita delle planimetrie spezzate dei blocchi di Yorckstraße,
Prenzlauer Berg, Kreuzberg.

Sotto il titolo di Temporaneo figurano le “urbanistiche sponta-


nee”: gli usi fuori dalla norma e dai controlli centrali che lo stato
di abbandono di grandi e piccoli spazi ha suggerito. Si può dire
che si tratta di tipi di urbanizzazione in aperta competizione con i
grandi progetti edilizi che, dato il carattere già instabile e caduco
delle soluzioni urbanistiche ufficiali, possono anche rientrare a

70
17

pieno titolo nell’ordine delle trasfigurazioni continue del paesaggio


berlinese. Ad esempio, prima ancora che gli ingenti investimenti
delle multinazionali estere che volevano ottenere degli uffici am-
ministrativi in centro permettessero di mettere in atto il progetto
di Renzo Piano per costruire una agorà da capitale del nuovo
millennio, Potsdamer Platz, una distesa di fango tristemente no-
ta come “terra di nessuno”, veniva periodicamente già occupata
dai gettonatissimi mercati polacchi, migliaia di file di bancarelle
dove si incontravano tedeschi polacchi turchi di ogni estrazione.
Negli stessi anni il Tresor, per citare un altro esempio celebre, il
club che è stato la culla della techno berlinese, ha occupato fino al
2005 la sede abbandonata di una banca Leipziger Straße trasfor-
mandone il caveau in un dancefloor, ma solo dopo aver passato
mesi cambiando di location in location con il nome di UFO e
ricorrendo alle catene telefoniche per avvisare il pubblico ed elu-

17
invalid-beach, installazione street-art in un cantiere temporaneamente
allagato in Invalidenstr., zona Mitte.

71
dere i controlli. Mentre il Tiergarten assieme a molti terrazzi di
palazzi distrutti è stato tramutato in un orto nel periodo imme-
diatamente successivo alla guerra, e la risposta di rivolta rispetto
agli annunci di gentrificazione previsti dopo la chiusura dell’ae-
roporto di Tempelhof dell’anno scorso, è stata quella di lanciare
centinaia di semi di fiori oltre le recinzioni. A Berlino nel tempo le
occupazioni hanno assunto la forma di un modo largamente uti-
lizzato non solo per fini politici ma sopratutto abitativi: se nella
zona di Mitte un terzo delle case occupate è stato normalizzato
attraverso una legge negli anni 90, da molto tempo nel territorio
esistono decine di Haus Project, progetti di abitazione collettiva
che occupano a volte interi condominii. Per tutta questa zona
temporanea di locali, occupazioni, atelier, dimostrazioni, eventi
passa la culturale berlinese, ormai non solo a livello underground:
i negozi di alta moda si trasferiscono nei quartieri dell’Est lascian-
do spesso inviolati gli interni e condividendoli con atelier di arte,
le stesse multinazionali patrocinano eventi temporanei del gene-
re per penetrare più efficacemente nelle fascie di popolazione più
giovani. È possibile che i processi di globalizazione e capitalisti
riassorbano gli spazi residuali sotto il controllo e il freno delle
istituzioni, ma già da alcuni anni si sta notando un deceleramen-
to nella attività di urbanizzazione, e stanno cadendo in disuso
nuovi spazi verso i quali si sta volgendo una nuova migrazione
delle attività artistiche. Dal 2008 uno streetartist, sp38, sta già
reclamando la sua rivincita a colpi di manifesti dissacranti con su
scritto vive la cris! per i muri di Mitte e Prenzlauer Berg.
Nemmeno la parte “naturale” del paesaggio di Berlino è estra-
nea alla temporaneità e al mutamento. Necessitando un flusso
massiccio di materie prime e di conseguenti materiali di scarto per
diverse cause la città ha svolto le attività di approvigionamento e
smaltimento dei rifiuti in un territorio relativamente stretto, con

72
l’effetto di aver rapidamente modificato la topografia sua e del suo
Hinterland. Gli scavi per il carbone e i materiali edilizi, le mar-
citi, le discariche, i cumuli di macerie sono disseminati attorno
tutto il territorio urbano e spesso anche al suo interno, riassorbiti
in decine di rilievi artificiali, laghi urbani, parchi, zone di cam-
pagna. Osserva Oswalt: “nel paesaggio pianeggiante di Berlino
i terrapieni e gli scavi spiccano in modo particolare. Le defor-
mazioni artificiali superano spesso quelle naturali in grandezza
ed estensione. I flussi di materiale modificano lo spazio naturale.
Il metabolismo della metropoli diviene visibile. Il paesaggio non
è un terreno stabile, piuttosto un campo continuamente trasfor-
mato e in costante mutazione. I confini tra ciò che è naturale e
ciò che, invece è artificiale vengono cancellati. La natura è, da
tempo non più soltanto qualche cosa di dato, bensì qualcosa di
costruito e a cui viene data forma. [. . . ] I differimenti di massa
ubbidiscono a fattori geologici o infrastrutturali e senza alcuna
volontà di forma generano delle nuove configurazioni. Il paesag-
gio stesso racchiude il programma delle proprie metamorfosi” (p.
135) Il rilievo più alto di Berlino, Teufelsberg, dichiarato negli
anni 70 parco nazionale, è stato formato dagli alleati nel dopo-
guerra sommergendo la struttura della Wehrtechnischen Fakultat
sotto milioni di metri cubi di macerie. In modo simile sono sorti i
parchi urbani di Victoriapark a Schoneberg, il Volkspark a Frie-
derichshain e l’Humboldthain mentre altri, come il Volkspark a
Prenzlauer Berg, lo Schillerpark a Wedding, il Kornerpark sono
nati assorbendo depositi di detriti industriali, discariche o cave
cadute in disuso. Ogni quartiere conta il suo numero di defor-
mazioni artificiali, considerate come indesiderati effetti collaterali
dello sviluppo urbano, mentre i progetti edilizi attuali attestano
la continuità di questi processi.
Il corpo metropolitano di Berlino, segnato da un metaboli-

73
smo tumultuoso, produce una evidente rottura con le divisioni
natura/cultura, organico/inorganico, a scapito dell’antico timore
borghese di lasciare che i contrari si mescolino tra loro. Le dis-
sonanze sembrano essere l’unico modello dello sviluppo urbano,
che muovendosi di volta in volta con forza in una direzione lascia
irrisolte le differenze con l’ altro, non avendo tempo né curan-
dosi di attutirle in nessun modo. Le discrepanze, le collisioni e
i mascheramenti rimasti non parlano solo per se stessi, interagi-
scono tra di loro, comunicano sui segni precedenti, stravolgono
le prospettive, producendo a volte anche masse amorfe prive di
senso. In questo modo convulsivo sono connessi in una trama
fitta di relazioni architetture, eventi, affissioni pubblicitarie o ille-
gali, gesti, persone che contribuiscono a riconfigurare i panorami
della città. La dissonanza, se non viene ignorata, apre all’Altro
senza richiamare il bisogno della coesione né dell’unità, perché
risuona alle altre fratture che percorrono il nostro intimo e il no-
stro passato, ridestandole, mescolandone i confini sensibili senza
compiacenza. La bruttezza - o la bellezza - di Berlino è legata
alla sua mostruosità, ovvero al suo mostrarsi estesamente come
unione disorganica di corpi diversi. Da qui forse la sensazione di
essere abitati dalla città in cui si vive, di essere ascoltati nel mo-
mento in cui si ascolta. Gli enormi vuoti e i silenzi danno spazio
con delicatezza a questa vertigine. Ritorna alla mente l’analisi
dell’opera di Francis Bacon portata avanti da Michel Leiris in al-
cuni saggi, nei quali, per spiegare perché rimanga così scosso dai
suoi quadri, ricorre al concetto di “presenza”. Secondo Leiris, un
antropologo il cui lavoro è per molti versi centrale nell’ambito di
questa tesi, la “presenza” è un concetto che ha poco a che fare con
“l’aura” dell’arte, e riguarda invece la comunicazione di ciò che si
vede, la narrazione. Essa è determinata dal fatto che sulla tela
si offra allo sguardo non solo un immagine, ma bensì i segni del

74
passaggio di un vissuto: “le tracce di una lotta” (1980, p 16).

“l’opera porta le impronte del suo agire, un po’


come la carne di una persona conserva le cicatrici di
un incidente o di un’aggressione. Aggressione, par-
rebbe, contro il modello sottoposto a questo tratta-
mento spietato e aggressione contro lo spettatore, che
facilmente giudicherà mostruose queste figure che si
potrebbero credere sorprese nella convulsione di un
attimo estremo o ridotte da qualche catastrofe allo
stato di groviglio di muscoli” (ib.)

La deformazione è lontana dal costituire un puro gusto estetico


o la ricerca di un effetto visivo, ma è la conseguenza di un rea-
lismo portato alle estreme conseguenze, come se la crudezza e la
sovrapposizione dei tratti fosse l’unico modo per tradurre anche
parzialmente la brutalità del fatto, “non potendo la realtà della
vita essere afferrata che in forma urlante”(p. 17, corsivo mio).
Comunque se ne parli la presenza si riferisce alla figura centrale
rappresentata nelle tele di Bacon, che ha prediletto in larga mi-
sura la forma del ritratto o del nudo tralasciando quasi del tutto
il paesaggio, colta nella sua quotidianità sconcertante su ampi
sfondi vuoti, pronto a guardarci da oltre il riflesso vetro - che
per decisione di Bacon è presente davanti a tutte le sue tele - ad
attestare il suo essere lì. La connessione con il corpo metropo-
litano di Berlino non è immediata. Dato che nella commistione
dei piani e delle prospettive non è quasi mai rintracciabile uno
sfondo e un primo piano, urbanisticamente, per Berlino bisogne-
rebbe parlare forse, più che di presenza, di assenza, dei grandi
spazi vuoti che si aprono tra le costruzioni a partire dal centro e
che si diramano in ogni periferia - le ricostruzioni non effettuate,
lo spazio residuale delle collisione delle urbanistiche, le attività

75
deserte, gli slarghi improvvisi nelle arterie di comunicazione, le
strade notturne- e dei silenzi, unici a imporre l’attenzione su se
stessi nel caos metropolitano. Si tratta di una sorta di narrazione
in negativo, come per i calchi e le fotografie, che non contiene
il senso ma un muto interrogativo, esplicitato dai contorni fra-
stagliati di ciò che lo circonda. Ma può succedere anche che le
proporzioni di questi spazi vanno anche oltre la possibilità del-
lo sguardo di spaziare liberamente. La vicenda dell’aeroporto di
Tempelhof, dopo le rispettive minacce di gentrificazione e occupa-
zione dell’anno scorso18 , si è risolta temporaneamente l’8 maggio
scorso aprendo l’immensa zona delle piste - un area di più di 400
ettari - come parco pubblico.

Der Sänger sieht was der Sänger singt /


Der Sänger singt was der Sänger sieht /
Architektur ist Geiselnahme.
(Einstürzende Neubauten)19

I film Berlin – Die Sinfonie der Großstadt (1927) e Berlin Baby-


lon (2001) si cimentano un un terreno molto simile, quello della
rappresentazione della metropoli, ma, a prescindere dal diverso
contesto storico, sviluppano due sguardi quasi opposti tra loro.
Molto può essere detto a partire dal modo in cui il montaggio
sonoro dialoga con quello delle immagini. Essendo la metropoli
18
per un approfondimento è possibile confrontare rispettivamente i siti
http://www.be-4-tempelhof.de/ e www.myspace.com/squat_tempelhof
19
Il cantante vede ciò che il cantante canta/ Il cantante canta ciò che il
cantante vede/ L’architettura è prendere in ostaggio.

76
l’unica vera protagonista in entrambi i film - mancano quasi del
tutto dialoghi e personaggi “in carne ed ossa” - il respirare sincro-
no del tessuto urbano con le colonne sonore costituisce il ritmo
fondamentale sul quale si costruisce lo svolgimento.
Assieme a Metropolis di Fritz Lang (1927), Berlin – Die Sin-
fonie der Großstadt è uno dei film del cinema espressionista che
più ha forgiato l’immaginario della Metropoli nel XX secolo. È
il debutto nel lungometraggio per Walter Ruttmann, un artista
che in passato si era dedicato alla professione di musicista e di
grafico girando animazioni sperimentali. Nel ’26 decide di cimen-
tarsi nella scommessa di un intero documentario su Berlino senza
ricorrere ad attori né a una trama: il montaggio è diviso in 5
atti e mostra “un giorno della città di Berlino”, nella soluzione di
una orchestrazione caleidoscopica di luoghi, luci persone, attivi-
tà. Seguendo l’idea estetica della “metropoli dai mille volti”, le
opposizioni che popolano la capitale della Repubblica di Weimar
vengono armonizzate nel ritmo incalzante della sinfonia, compo-
sta per l’occasione da Edmund Meisel, autore delle musiche di
molti film di Eisenstein. L’organizzazione ritmica del tempo as-
simila ogni movimento della scena ad un tema o una variazione
musicale. Berlino è trasformata, data anche l’assenza di sonoro
registrato, in un effetto visivo spettacolare. Il montaggio inizia
con l’immagine di una superficie d’acqua scossa da mille fremiti
tagliata dopo poco da un susseguirsi di figure geometriche che si
tramutano nelle linee di un treno in corsa verso la città. Meisel
cerca di aderire ad ogni scena del film con motivi e temi musicali
"Accordi in quarto di tono della città addormentata", "Fuga del
traffico", "Segnali musicali delle insegne luminose", "Crescendo di
tutti i rumori della città in uno sviluppo contrappuntistico dei te-
mi principali verso la fermata finale". In questo caso la metropoli
è il pretesto per un esperimento estetico che si presta facilmen-

77
te alla celebrazione della potenza industriale, del benessere, della
vorticosa crescita economica che si vivevano a Berlino prima della
crisi mondiale del 29. Ogni aspetto contrastante, l’alienazione ai
ritmi frenetici, il turbamento - che è pure descritto nelle scene di
povertà e di sconforto - vengono naturalizzati come qualcosa di
necessario nel contrappunto della composizione musicale e vengo-
no montati indiscriminatamente al resto. La suggestione di poter
trovare una “sinfonia della città” si fa criterio esplicativo di tutto,
sacrificando il significato, che per Ruttmann non ha bisogno di
didascalie ed è indipendente dal montaggio, all’effetto estetico.
Su questa stessa base accetterà negli anni successivi di girare per
il governo fascista il film a soggetto “Acciaio”, su una storia scritta
da Luigi Pirandello, al patto di lunghe sequenze sulle acciaierie
di Terni.
Sebbene questo film rimanga un riferimento cruciale per le ri-
prese, Berlin Babylon (2001) è un film totalmente diverso20 . Non
è una nuova sinfonia di Berlino, come cercherà di fare un anno più
tardi Thomas Schadt con un remake in bianco e nero dal titolo più
generico Sinfonie einer Großstadt. Con più di tre anni di riprese il
film di Humbertus Siegert cerca di documentare il momento par-
ticolare di Berlino della kritische Rekonstruktion - Ricostruzione
critica - iniziata col piano urbanistico del 1997, chiamato Plan In-

20
Non è di questo avviso Evelyn Preuss, che scrive un capitolo dedicato a
questo film nel libro Berlin: the Sympohny continues. Secondo la sua opi-
nione l’assenza di attori in una trama è di per sé un sintomo di rinuncia
alla denuncia sociale sviluppata dai film indipendenti di Berlino negli anni
precedenti, inoltre : “il montaggio adottato impedisce l’agency dello spetta-
tore: essi sono ridotti nella posizione di consumatori di immagini invece di
essere spronati a diventare coproduttori di significato. In termini politici il
montaggio e le sue visualizzazioni materiali nelle vetrate funzionano come
versioni trasformate e moltiplicate del muro di Berlino” (Costabile-Heming/
Halverson/ Foell 2004, p 131)

78
nerstadt. Dopo la caduta del Muro infatti due periferie degradate
si sono ritrovate ad essere da un giorno all’altro il centro di una
grande capitale europea; il piano ha rappresentato la strategia per
cambiarne il volto e comunicare così il cambiamento alla nazione,
attraverso un periodo intensissimo di lavori. Questa ossessione
e insensibilità architettonica era simbolizzata dall’ Infobox eretto
in Leipziger Platz dal 1995 al 2000, che provvedeva spiegazioni
aggiornate per la popolazione su ogni lavoro, abbattimento o co-
struzione iniziato sul territorio di Berlino. Il film, si può dire,
ha un’intenzione opposta rispetto a quella del piano urbanistico,
quella di mostrare dall’ interno il corpo martoriato della città.
Compaiono in prima persona gli “addetti ai lavori”: architetti
come Renzo Piano e Rem Koolhaas, progettisti, capi cantiere, as-
sessori coinvolti nel lavoro di orchestrazione; tutti parlano piano,
come fossero gli astanti di un operazione chirurgica. Mentre nella
scena del treno in corsa Sinfonie der Großstadt descriveva uno
sguardo esterno che viene mantenuto per tutto il film, nell’aper-
tura di Berlin Babylon la prospettiva è ribaltata: un gocciolare
d’acqua confuso introduce l’inquadratura sul dettaglio di un pi-
lastro sporco di vernice rossa come se fosse sangue, poi la camera
ruota lentamente fino ad aprirsi sul paesaggio-in-costruzione di
Berlino.
Nel film si alternano lunghe riprese per le strade in silen-
zio, carrellate martellanti sui lavori in costruzione, i discorsi delle
inaugurazioni, i dialoghi pacati degli architetti e dei politici che
osservano i progetti. Il montaggio non cede però a nessuna cele-
brazione dei grandi cambiamenti della metropoli: viene mostrato
come ad ogni costruzione corrisponda in qualche modo una distru-
zione, l’insensatezza di un progetto di riedificazione così totale che
costruisce per la ragione di costruire ignorando le complessità del
territorio. Proprio le riprese del paesaggio, le inquadrature aeree

79
che costituiscono una parte consistente del film, riflettono questo
punto di vista. Non una volta lo sguardo riesce ad abbracciare
la totalità di Berlino, è significativamente interrotto di volta in
volta dalle rotture del paesaggio stesso, o risucchiato dall’area
enorme di un cantiere che si apre come una voragine. Il mito di
Babele, lontano dal suggerire un interpretazione universale della
storia raccontata, funge da metafora: l’illusione della torre è la
stessa del piano urbanistico di poter creare una unità ignorando
le differenze dei linguaggi e dei passati, così come il senso di unio-
ne nazionale e la logica anonima del profitto richiesta dai grandi
investitori stranieri risultano essere incompatibili con le polifonie
della città. In questa situazione plurale le promesse originarie di
tutti i grossi progetti sono destinate a perdersi. Non a caso
l’altro riferimento esplicito nel film è all’Angelus Novus, l’angelo

80
dipinto da Paul Klee che nella lettura di Benjamin si allontana
sospinto dal vento del progresso volgendo lo sguardo alle rovine
lasciate dal suo passaggio.
Le musiche degli Einstürzende Neubauten assieme al montag-
gio del film realizzano un’ operazione semiotica complessa21 . Il
loro operare come band, che ora ha raggiunto i 30 anni, è legato a
doppio filo con questa storia di Berlino. A partire dal loro nome,
Einstürzende Neubauten, nuovi edifici che crollano, deciso in se-
guito al crollo accidentale nel 1980 del Kongresshalle, la struttura
a “ala di farfalla” costruita negli anni ’50 dagli Alleati al centro
del Tiergarten. La loro musica è realizzata per una buona me-
tà con strumenti improvvisati, object trouvè dai cantieri dismessi
21
cfr le analisi delle opere degli EN visionabili sul sito
www.neubautenkunst.co.uk

81
come armi catturate usate contro l’architettura stessa. Anarchi-
tektur 22 , Kollaps, Gegen die Architektur (contro l’architettura)
sono i titoli di alcuni brani che esemplificano questa attitudine.
Più che musica industrial sembra essere una deriva punk o neo-
dada dei lavori di costruzione: le ritmiche si sovrappongono su
più livelli di suoni come piani strutturati, abitati e straziati dalla
voce di Blixa Bargeld. Così in alcune sequenze del film i suoni
dei lavori in corso si mescolano con le percussioni degli EN, come
se partecipassero insieme alla costruzione/distruzione della città,
mentre nei campi lunghi il montaggio è attento a far coincide-
re gli stacchi visuali tra un palazzo e l’altro con le interruzioni
asimmetriche della colonna sonora, creando un forte impatto. In
alcuni momenti diventa addirittura impossibile distinguere chi sia
il costruttore e chi il musicista. Altre volte invece predominano i
silenzi, i ronzii, il monologo intimo sussurrato sul riverbero di un
suono. Architektur ist Geiselnahme. L’architettura è una presa
in ostaggio. Qui l’esistenza di un discorso, di un canto della città,
viene solo suggerita; più un invito all’ascolto che un’ affermazione.

Nel 2005 viene pubblicato in dvd il cofanetto “Berlin Super 80”,


una raccolta dei cortometraggi girati a Berlino Ovest tra il ’78 e
l’84. La generazione di artisti che si è affermata in quegli anni in
Germania è detta dei nachgeboren, “nati dopo” la fine del conflitto
mondiale, che non ne ha vissuto la tragedia ma è cresciuta circon-
22
La parola “anarchitettura” è un riferimento esplicito al lavoro di Gor-
don Matta-Clark iniziato dall’esperienza dell’esibizione collaborativa al-
la quale ha partecipato a New York nel 1974; per un approfondimento
www.tate.org.uk/research/tateresearch/tatepapers/07spring 2007

82
data dai suoi effetti devastanti, da una distruzione di cui non è
stato artefice, dalla chiusura e la rigidità del periodo postbellico.
La situazione urbana di Berlino ovest era molto instabile: il terri-
torio interno era diviso in settori, il capitalismo introduceva i suoi
prodotti e il suo benessere mentre intorno rimaneva lo scenario
surreale della città in buona parte ancora non ricostruita dopo i
bombardamenti. Prima nel quartiere di Schöneberg poi in quello
di Kreuzberg si forma un’attiva cultura underground, supportata
politicamente dal movimento degli Hausbesetzters di chi occupa
le case abbandonate per abitarci. Nel 1981 il Festival genialer
Dilettanten - geniali dilettanti - che si svolge nel Tempodrom, se-
gna un punto di svolta nell’affermazione della scena musicale. Vi
partecipano gruppi come i Malaria, Sentimental Jugend, Einstür-
zende Neubauten, Tödlische Doris, Deutsch-Polnische Aggression
tra i quali alcuni diventeranno molto famosi. Le sonorità predo-
minanti sono noise e post punk, con una predilezione per l’uso
di sintetizzatori accanto a percussioni e interventi rumoristici e
performativi. Wolfgang Müller, frontman dei Tödlische Doris, ne
scrive anche un manifesto in cui spiega che “geniali dilettanti” è
un riferimento alla loro età (ad esempio Alexander Hacke degli
EN allora aveva quindici anni ) e all’attitudine di sperimenta-
zione radicale, che esprime la ricerca di uno stile di vita più che
un’arte, l’utilizzo di una estetica del fai-da-te dadaista con un
intento sovversivo: “kann mann etwas manchen was nicht Musik
ist” 23 Negli anni successivi sarà lo stesso principio atonale della
musica colta del primo Schönberg a venire sovvertito a simbolo
di questa rivolta dal basso: dal 1983 al 1990 si svolgono i festival
Belin Atonal, ospitati dal leggendario SO 36 a Kreuzberg. Moltis-
simi giovani di questa generazione diventano artisti e musicisti;
l’espressione artistica diventa un modo di essere e di abitare a
23
“si può fare qualcosa che non sia musica”; cfr Müller, 1982

83
Berlino, è guardata come un modo di prendersi una rivincita sul-
la metropoli in disfacimento, che si tramuta così in una miniera di
possibilità. I cortometraggi raccolti nel dvd vedono quasi sempre
la partecipazione attiva di questi gruppi musicali.
Il titolo del cofanetto “Berlin Super 80” gioca con le parole
80, in riferimento agli anni, e Super 8, il formato di registrazione
utilizzato per le riprese. Le videocamere Super 8 sono state intro-
dotte nel mercato dalla Kodak come primi strumenti realmente
portatili pensati per l’utilizzo famigliare e non professionale. Nes-
suno di questi cortometraggi sperimentali infatti è commissionato,
né è presente un’organizzazione; partono tutti da una iniziativa
personale (Mein Papi inizia dichiarando che la camera usata è un
regalo dei genitori). Nel contesto giovanile dei Nachgeboren della
Berlino ovest il video riesce a rispondere all’esigenza di raccon-
tare ed esprimersi, interagire attivamente con lo spazio attorno;
passando attraverso la narrazione del sé, la Super 8 diviene uno
strumento per narrare la metropoli. Non è un caso che i soggetti
più ricorrenti siano il proprio corpo e la città - con le rovine dei pa-
lazzi e l’immagine del muro che torna ossessivamente- e tra questi
tanti spazi privati, locali, scantinati, o più usualmente il proprio
appartamento, che diviene un mondo a sé ricorrendo a sempli-
ci espedienti di luci e filtri colorati. Ciò che rende interessante
la quotidianità scelta è l’estetica del collage, la sovrapposizione
di elementi inaspettati, fino ad essere trasformati in situazioni
liminali e artistiche. Così vediamo Formel Super VIII, che pro-
pone una corsa di motociclette fake, attorno all’isolato passando
attraverso gli interni delle abitazioni; Sax, il rito surreale di tre
sassofonisti che risalgono solennemente le scale interne del cortile
fino ad arrivare sul tetto e lanciarsi tra i palazzi; 3302- Taxi Film,
un montaggio nevrotico della vita underground delle notti berli-
nesi attraverso le immagini di una telecamera fissa sui clienti di

84
un taxi - freaks, prostitute, tossicodipendenti, teppisti - accanto
a scorci delle strade e del traffico.
In questo alternarsi di spazi e luoghi della città la rappresen-
tazione del proprio corpo ne esce del tutto compromessa, si fram-
menta, incorpora le dissonanze e le contrapposizioni della città a
loro contemporanea. Ecco che il volto della bellissima cantante
dei Malaria appare graffiato da centinaia di linee di luce, come
una citazione post punk del visus di Edith Piaf; il divano ros-
so della stanza di un appartamento diviene il palco elegante di
una modella ripresa in pose inquiete; la falce e il martello simbo-
lo della RDT (Repubblica democratica tedesca) vengono passati
nervosamente sul corpo senza trovare tregua.
Uno dei miei corti preferiti è E dopo? girato da Annette Ma-
schmann e Axel Brand. I frammenti dei corpi di lui e di lei sono
ripresi alternativamente al ritmo ossessivo di una canzone dei La
Loora, Have and hold for. Il cut è convulsivo, più simile ad uno
stop motion fatto di frammenti di video. Nella sequenza delle
inquadrature i due corpi appaiono come puzzle illuminati dalla
luce lunare che penetra nella stanza: si riscoprono nello sguardo
desiderante dell’altro che filma con la cinepresa e ne ritaglia le
estremità e gli incavi, i passi danzanti; i pezzi di corpo si confon-
dono in nuove geometrie con le ombre e le superfici dell’ambiente
circostante. Mentre una foto (l’ombra di una finestra?) passa
dalla mano di lui a quella di lei. D’improvviso sul corpo di lui
compaiono dei segni in rosso, come tracce di un sentiero segnato
da qualcuno. Nell’avvicendarsi dei frammenti si narra la storia
dell’incontro tra due corpi.
Dall’altra parte l’immagine della città spesso incontra l’inter-
vento violento del film maker, che manipola artigianalmente la
pellicola anche fino ad ottenere risultati ileggibili. L’accelerazio-
ne o decelerazione dei fotogrammi in modo deformante, l’utilizzo

85
di acidi e filtri colorati direttamente sul nastro, la registrazione
dell’immagine disturbata dallo schermo della moviola, l’impiego
di luci in modo da far apparire solo segmenti irregolari dell’im-
magine, attestano una velleità di bricoleur sul corpo della me-
tropoli, attraverso una risposta estetica altrettanto violenta alle
distruzioni materiali di Berlino Ovest. Anche la traccia musicale
è spesso deformata, pur rimanendo il riferimento narrativo essen-
ziale a causa del carattere altamente non-lineare del montaggio di
cui stabilisce un corrispettivo serrato e ne giustifica le aritmie del
montaggio. Data l’assenza di suono in presa diretta, le musiche si
fanno da commento sonoro decontestualizzato, dando vita anche
a perturbanti effetti di ventriloquismo.
In questo modo, pur non essendo mai esplicitato a parole, il
dialogo con le polifonie di Berlino rimane incessante, espresso nel
doppio linguaggio silenzioso dei corpi (vedi, infra, cap. 1), e del
montaggio; un video non incluso nella raccolta, dal titolo Ok ok -
der moderne Tanz (“ok ok - il ballo moderno”, 1980), materializza
questa bizzarra follia di poter danzare con la città, visualizzando
l’immagine di un uomo legato a testa in giù che oscilla dolcemente
in volo, sulle facciate dei palazzi di Kreuzberg.

86
87
88
Parte empirica

89
Premessa metodologica

Non appena cominciamo a orientarci, ecco che il


paesaggio è di colpo sparito, come la facciata di una
casa quando vi entriamo (Strada a senso unico - Uf-
ficio oggetti smarriti - I passages di Parigi, p 41, W.
Benjamin )

In questa parte empirica si tenta di entrare e uscire attraverso


alcune soglie più volte. Ogni sezione potrebbe essere infatti letta
da sola, o essere collegata alle altre secondo un ordine differente,
scelto dal lettore. Nell’alternare parti narrative a parti di analisi,
e reintegrando anche alcuni pezzi dei diari di campo, io ho voluto
disordinare la geografia della narrazione; è un tentativo di non
costringerla nell’interpretazione delle linee tracciate dalla parte
teorica. Le sezioni non devono essere lette come dimostrazioni
delle teorie esposte precedentemente, perché parlano di luoghi,
artisti, situazioni le cui complessità non devono poter essere ri-
dotte all’esposizione di un concetto. Sia per rispetto verso le loro
soggettività, sia perché la riduzione derivata dall’analisi ancora
non definirebbe a pieno il senso del discorso. Anzi, nella stes-
sa parte in cui questo è fatto di un pulviscolo più sottile della
stessa possibilità di chiarirlo, lo distrugge. Sono dell’idea che la
spiegazione causale produca saperi utili fin quando è disposta a
lasciare spazio alle differenze, e a non includere se stessa nella
propria riflessione. L’etnografia è la traduzione di un esperien-
za di ricerca sul campo che è invasa dalla presenza dell’altro, e
questa deve essere la chiave di partenza per ripensare la scrittura

90
stessa. Non significa però abdicare all’interpretazione. Abbiamo
affrontato nel secondo capitolo un discorso sulle dialogiche, par-
lando degli studi di Bachtin. Dobbiamo tener conto che, se é vero
che il presupposto all’opera dialogica e polifonica da lui studiata
è rinunciare ad esporre i principi esplicativi e le ragioni ultime,
lasciando i dialoghi e le differenze tra i personaggi intessere la nar-
razione, d’altra parte la spiegazione stessa può essere intesa come
“mettere insieme gli elementi”. Questa è ad esempio la via seguita
nel metodo del montaggio letterario di Benjamin e nelle sequen-
ze fotografiche e descrittive di Bateson (cfr. Canevacci, 1992).
E, ricordando le caratteristiche dell’esperienza urbana indagate
nel primo capitolo, risulta anche essere la via più adeguata ad
un’etnografia della metropoli. Parallelamente, anche nella parte
teorica, il cui filo conduttore rimane l’etnografia di Berlino, mi
sono sforzato di portare avanti alcuni discorsi mantenendoli se-
parati, al fine di fornire in queste discrepanze delle possibilità di
confronto. In questa parte empirica compaiono inoltre molti rife-
rimenti visuali che mancano invece nei capitoli precenti, al fine di
intessere una serie di collegamenti alle teorie esposte, e permet-
tere di ripensarle nel contesto dell’esperienza sul campo, secondo
altri punti di riferimento.
La scelta degli scenari etnografici esposti è legata a doppio
filo con la mia esperienza di ricerca a Berlino, e con il processo
di profonda rielaborazione dell’oggetto di ricerca dovuto dall’im-
possibilità di spiegare i suoi paesaggi sonori. Le architetture, le
musiche, i panorami, le storie personali di questa parte empiri-
ca compaiono nel tentativo mimetico di ricomporre - anche se
molto parzialmente - un ascolto della città. A partire da que-
sta impostazione, nella quale entrano in tensione i territori delle
soggettività coinvolte e quelli urbani di Berlino, ho spostato il
focus dell’etnografia principalemente su un certo tipo di poetiche

91
sonore di artisti o spazi della metropoli contemporanea dove, sui
presupposti di dissonanze architettoniche o sonore, si sviluppano
a mio avviso discorsi profondi di sconfinamenti. La parzialità at-
testa che l’etnografia non è che una mappa - una rappresentazione
incompleta - della ricerca svolta.
Un discorso a parte va fatto per i paesaggi sonori. Mancano
infatti le analisi puntuali dei soundscapes dei luoghi della cit-
tà, nonostante questo facesse parte dei miei primi propositi; non
trovano spazio neanche tabelle o elenchi dei suoni presenti con
inisistenza nel paesaggio che sono uno strumento fondamentale
nei soundscape studies. Questa scelta deriva dall’approccio etno-
grafico adottato: nel movimento dei flussi comunicazionali della
metropoli, estrarre il paesaggo sonoro dal contesto esatto in cui
viene ascoltato equivarrebbe a reificarlo in un fenomeno naturale
e stabile, del quale si potrebbe dire ben poco. Come abbiamo
visto, l’esperienza urbana non si attiene a regole che possono es-
sere rintracciate nella fisionomia generale di un paesaggio, ma si
scandisce di momenti e impulsi che possono avere la forza di ri-
configurare per un momento la percezione. È celebre il tipo di
sensibilità urbana adottato da Walter Benjamin nei suoi studi
a Parigi. Ad esempio, la coincidenza di un’affissione di negozio
di tappeti sul pilastro di un ponte, per un attimo offre la possi-
bilità di osservare l’affissione come un tappeto dove distendersi
con lo sguardo, o, attraverso il legame metonimico del pilastro,
permette di tramutare il ponte in un tappeto su cui camminare
come flâneur (cfr. Benjamin, 1983). Le sovrapposizioni di stimoli
favoriscono catene significanti che possono anche portare a frain-
tendere la mappa per il territorio; lungi dall’essere una patologia,
è una percezione schizofrenica che si rivela mimetica ai flussi co-
municazionali urbani, e può permettere in parte di comprenderli
(cfr Bateson, 1976).

92
Nel campo uditivo incorriamo nel concetto di schizofonia, ela-
borato in ambito tecnico da Murray Schafer per descrivere il feno-
meno di separazione dei suoni dalla loro fonte originaria, iniziato
con l’invenzione dei mezzi di registrazione e riproduzione sonora
alla fine dell’800. La separazione di un suono dalla sua fonte può
portare al fraintendimento, per il semplice fatto che una volta
registrato il suono può essere facilmente riprodotto da qualsia-
si altra fonte: la voce registrata per un macchinario elettronico,
come ad esempio un navigatore, diviene a tutti gli effetti la vo-
ce di quel macchinario24 . Allo stesso modo durante l’esperienza
urbana è possibile per un attimo ascoltare la città come se fosse
un disco registrato, o un canto polifonico. Fraintendere le prove-
nienze dei suoni per permettere dei ventriloquismi metropolitani,
suggeriti dal pulsare sincrono di musiche e luoghi, o dall’intensità
di un rumore. Ad esempio, nel modo in cui vengono utilizzati
i reverberi e i delay in alcune serate di techno minimale in un
club, immaginare i battimenti dei suoni rincorrersi sulle superfici
estese delle strade berlinesi. O, passando vicino un cantiere in
costruzione, intendere il refrain di un pezzo degli Einstürzende
Neubauten (questo tipo di schizofonia è ampiamente utilizzato
nel film Berlin Babylon precedentemente analizzato). Si tratta
di catene logiche esplicitamente errate che però possono produr-
re degli spostamenti, la sensibilità di un “oltre” che diversamente
non riusciremmo a descrivere.

24
Un altro riferimento culturale in ambito occidentale per questa scissione
può essere il genere della musique concrète fondato dallo sperimentatore Pier-
re Schafer, che utilizza suoni registrati da qualsiasi fonte come materiale per
le composizioni. Sono ad esempio bellissime le parti che compongono Sym-
phonie pour un homme seul, realizzato in granparte con registrazioni tratte
da film dell’epoca, e Etude aux chemin de fer. Per un approfondimento sulla
musique concrète cfr. Chion, 2004.

93
Il cinema di Lynch ad esempio, deve molto a questo scar-
to finto-vero registrato-vita reale. Tra i tanti depistamenti delle
tracce vocali video di Lost Highways, l’uso perturbante del play-
back in Velluto Blu, o il suono del giradischi che si insinua in
ogni inquadratura di Inland Empire, rintracciamo un momento
cruciale per questa poetica in Mulholland Drive nella scena del
club-teatro Silencio. “Nohaybanda, non c’è banda, tutto è regi-
strato”, recita il presentatore di uno spettacolo di varietà dai toni
decisamente onirici, e introduce una cantante dai tratti chicani,
truccata vistosamente, che canta la versione in spagnolo di una
vecchia hit di Roy Orbison, Llorando. È un canto struggente,
senza accompagnamento musicale. La voce risuona potente nello
spazio del teatro, ma nel momento esatto dell’acuto più intenso,
la cantante cade di tonfo per terra forse svenuta, mentre la voce
continua imperturbabile, registrata; le protagoniste lì presenti nel
pubblico sono in preda ad un pianto convulso. Nella schizofonia
di questa scena vi è l’attestamento di un oltre, che si profila come
una vertigine sulle storie e ricordi delle protagoniste, ma anche
sulla nostra esperienza di spettatori. In questo modo Lynch ri-
flette sulla natura stessa del film, e forse dell’arte, a partire dal
fraintendimento di una discrepanza.
Durante la mia ricerca spesso ho fatto uso di un registratore
digitale per registrare ciò che ascoltavo in giro per Berlino. È
una pratica attualmente piuttosto diffusa che, a partire dall’uti-
lizzo nel cinema, viene chiamata fieldrecording, registrazione del
campo, o registrazione di esterni. . Questo a volte è stato il mio
tramite per un ascolto non convenzionale della città, del quale ri-
mangono tracce nelle registrazioni incluse nella cassetta allegata
alla tesi.
Uno spazio maggiore in questa parte empirica è dato ad al-
cuni artisti ed eventi della scena contemporanea d’avanguardia

94
musicale a Berlino. Si tratta invero di una molteplicità di scene
musicali fittamente connesse tra loro, dalle dimensioni estese ed
in continuo mutamento: mensilmente due o tre locali aprono o
cambiano sede, mentre altri chiudono senza lasciare traccia. Sono
entrato per la prima volta in contatto con questa scena nell’ot-
tobre 2008, attraverso un concerto presso l’Ausland. Ausland,
territory for Expremental music performance and Art. Il loca-
le, il cui nome si traduce come “estero” o “territorio straniero”,
si riconosce per la palizzata di tavole di legno che delimita un
vuoto tra le facciate dei palazzi di Lychener Straße, a nordest di
Prenzlauer Berg, e per le due file di scarponi marciti dal tempo e
dalla piogga, ridotte ad improbabili aiuole ai lati dell’ingresso al
cortile. È nato nel 2002 e rappresenta una piccola istituzione nel
giro della musica d’avanguardia, la cui posizione è rimasta chiara
negli anni: un luogo totalmente votato alla sperimentazione, una
terra dove si è stranieri e allo stesso tempo si incontrano “sonori-
tà straniere”, nel tempo di un un set dal vivo. In realtà il posto
è molto raccolto, un seminterrato, anche se è spesso affollato di
visitatori. In seguito i flyer trovati per strada o le conoscenze
mi hanno permesso di scoprire decine di altri posti sparsi per la
città. Dopo alcune settimane ho trovato persino quella che po-
trebbe essere definita una sorta di mailinglist ufficiale di questa
scena bizzarra, echtzeitmusik (“musica in tempo reale”, un gioco
di parole per “musica contemporanea”); ma gli eventi e i concerti
di questo genere, per così dire weird, che sono disseminati di gior-
no in giorno per Berlino, vanno ben oltre quelli nella lista. Sulla
scia dei Woche Kneipe, la tipologia di locale aperto un solo giorno
a settimana in passato in voga a Berlino, ci sono alcuni appunta-
menti settimanali, come ad esempio l’Experimontag al Madame
Claude, il Dienst-bar al Ballast der Republik (ora passato a sedi
temporanee), il FDI, free of duty improvisation al Wendel. Le

95
soluzioni dei luoghi e le formazioni che si esibiscono sono sempre
varie; spesso c’è qualche artista di fama internazionale di pas-
saggio da Berlino che ricorre per più date consecutive in luoghi
differenti, in formazione con artisti del posto sempre differenti.
Al contrario di quanto verrebbe da pensare, al carattere spe-
rimentale della musica non corrisponde quella che si potrebe dire
una scena d’élite. Il pubblico si differenzia molto in base ai locali
ed è piuttosto vario in quanto ad età, zone frequentate, prove-
nienza; le serate possono raccogliere senza una regola centinaia di
persone o rimanere semideserte, senza per questo essere annullate;
le release in numero di copie limitato spesso non sono destinate
alla solita stretta cerchia di eletti, ma agli amici più intimi o agli
avventori casuali del concerto. In più, i concerti costano relati-
vamente poco (2-10 euro) e suonare nei locali del genere in linea
di massima è piuttosto semplice: chi porta avanti il posto ascolta
quasi sempre il materiale che lasci e dà una risposta dopo qual-
che giorno. L’estrema facilità e l’improvvisazione convivono con
una certa tendenza alla dispersione e al non consolidamento delle
formazioni musicali, e gli artisti spesso preferiscono la forma del
progetto o della collaborazione temporanea. Quasi ogni musicista
infatti ha un progetto solista, e molte persone del pubblico hanno
in qualche modo a che fare con la musica o l’arte (ma questa è una
tendenza che vale per tutta la popolazione giovanile di Berlino).
In questo senso un buon modo per conoscersi è andare al concerto
dell’altro, oppure fissare una data per suonare assieme. Mentre
fare un concerto da solo può divenire un occasione di esporsi e
aprirsi. È interessante inoltre notare come sul piano musicale ri-
corrono a volte forti rimandi alla musica colta o elettroacustica
accademica, di sperimentatori come Xenakis o Stockhausen; la
maggior parte delle volte questi stilemi non ricorrono però come
simboli ma come segni, risemantizzati secondo le proprie esigenze

96
espressive e performative.
Con queste premesse, i confini tra arte ed espressione persona-
le, l’occasione del concerto e quella dell’incontro, il rumore della
città e la musica nei locali a volte si fanno molto labili. Inoltre
l’esperienza di vivere a Berlino mi ha insegnato che è necessario
lasciare alcune parti non completamente definite. Per questo in
questa parte empirica ho privilegiato un’estetica del cut-up, dei
rimandi e delle citazioni, in un testo che vada a dialogare con le
parti precedenti riesponendole in modo inedito.

97
MoHa!

I MoHa! sono un duo molto attivo nella scena berlinese. Nel


periodo di dieci mesi del mia prima permanenza ho assistito a
quattro loro esibizioni. Descrivere la loro musica, o anche il for-
te effetto che lascia su di me, non è facile. Ho avuto per caso
la possibilità di ascoltarli dal vivo per la prima volta nel novem-
bre 2008; costituivano l’opening act del concerto di Squarepusher,
una delle leggende della musica IDM- drum’n’bass di casa Warp.
Il loro era un set per più versi singolare. Il concerto si svolge al
Volksbuhne, l’ex-teatro nazionale della Germania est nei pressi di
Alexander Platz; dopo la caduta del Muro è diventato noto anche
come “teatro delle barricate”, sotto la direzione artistica di Frank
Castorf, a causa delle lunghissime sessioni di teatro sperimentale

98
che si protraggono a volte anche oltre le ventiquattro ore. Al mo-
mento del mio arrivo, con mia madre che in quei giorni era venuta
a trovarmi, la sala principale del teatro è completamente immersa
nell’oscurità, nonostante fosse quasi già piena. La maggior parte
delle persone è in piedi tra il palco ed i corridoi, mentre solo alcuni
occupano le poltrone della platea. Quella che inizialmente sembra
essere una colonna sonora di sottofondo in attesa del concerto, dai
tratti cinematografici e inquietanti, si rivela essere la musica dei
MoHa!. Il duo infatti è nel mezzo della folla sul proscenio, al
buio. Mi avvicino per cercare di vedere. Anders Hana e Morten
J. Olsen stanno alla batteria amplificata e alla tastiera-chitarra
elettrica, in una rete intricata di cavi; nella semioscurità si vedono
i loro movimenti minimi provocare, attraverso gli strumenti elet-
tronici, degli impulsi assordanti e straziati. Ci sono molte pause
di silenzio, in cui cerco di abituarmi all’assenza di luce per capire
cosa sta succedendo, si sente crescere la tensione. Dopo alcuni
minuti la situazione viene bruscamente invertita senza che però
venga data la possibilità di capire: si accendono con uno scatto
una serie di luci molto intense, dirette però sul pubblico, abba-
gliandolo. Il silenzio, in questi momenti di estrema luminosità,
si tramuta in una presenza ingombrante. Infatti, quella che si
poteva prospettare come un’epifania si scontra con l’impossibili-
tà di reggerne l’intensità. In alcuni secondi ricade il buio, ma la
quiete è rotta, la presenza dei due si manifesta attraverso rumori
percussivi e sempre più distorti.
La dialettica negata luce-visione/buio-quiete si fa presto prin-
cipio ritmico, o aritmico, dello sviluppo dei pezzi, che alternano
in modo sempre più violento luci abbacinanti e rumori assordanti.
Se di climax si può parlare, in una esibizione la cui cifra è stata
da subito il parossismo. Il contrappunto, che in questo caso si
manifesta come contrapposizione anche visuale, non è parte com-

99
plementare della melodia - assente - ma è la trama compositiva
e improvvisativa dell’intera esibizione. Negli altri concerti a cui
sono stato presente questo aspetto mi è sembrato intensificarsi; il
duo ha cambiato di volta in volta l’assetto della strumentazione
esplorando ulteriormente il rapporto con le luci e consolidando
alcune strutture musicali. Il pezzo Fire & Ignorance, pensato in
progetto con i light designers Idan Hayosh e Anu Vahtra e presen-
tato a Berlino presso l’Ausland nel Marzo 2009, propone un’espe-
rienza estetica di rottura nervosa di ogni simmetria visuale e so-
nora: un metodo di sviluppo compositivo che si avvicina a quello
che è stato definito in campo comunicazionale come schismogene-
si (dal greco, “genesi delle differenze/scismi”, cfr Bateson, 1972),
processo di ripensamento delle strutture appena create attraverso
una differenziazione delle parti esposte.
Ho ascoltato ultimamente i MoHa! dal vivo in un set presso il
Raum 18 ( “spazio 18”), un lotto di un magazzino alla periferia est
di Neuköln che da qualche mese è stato trasformato in un locale,
ovviando alle problematiche connesse agli alti volumi e al vicinato
che si riscontrano da qualche anno nell’aria più urbanizzata. Qui
i live set di musica techno e i concerti di avanguardia sperimentale
si commistionano frequentemente. In quest’occasione la sincronia
degli impulsi luminosi e rumoristici era stata da loro ulteriormente
accelerata fino a trasformarla in un ibrido indefinito, una sorta
di space-breakcore / funky-heavymetal aritmico, dagli impulsi così
insistenti da risultare, quasi, ballabile.

100
25

26

25
Garnisonkirschplatz, Mitte.
26
Charlottenstraße, Kreuzberg.

101
27

27
Haseneide 56, Kreuzberg, 2008

102
-

28 settembre, 2008 28

Otto giorni a Berlino trasmettono un grande senso di spazia-


lità; la sensazione di città “slargata” che accompagna l’impatto
con la metropoli col tempo cede il passo all’ acclimatazione alle
facciate spaziose degli edifici, i marciapiedi larghi, le chiese rosse
di mattoni enormi, le proporzioni aumentate nelle quali i suoni
si rincorrono netti acquistando un riverbero particolare. Otto
giorni fa sono arrivato a Berlino e lo stare qui si sta trasformando
in un lento apprendimento a intuire una città, di cui l’essenza
è un gioco danzante di segni, di incomprensioni, di apparizio-
ni. Ho trovato casa a Südstern, nella parte bassa di Kreuzberg,
o xberg come viene spesso abbreviata, quartiere storicamente al
confine tra est e ovest. Sudstern é un’imponente chiesa gotica
al centro di un frequentato incrocio stradale, quasi un atollo ap-
pollaiato nel mezzo dell’eleganza dell’Haseneide straße. Questa
collega Neuköln, che inizia nei movimenti confusi del mercato di
Hermann Platz, con Schöneberg, costeggiando il Volkspark Hase-
neide e incrociando le grandi vene che attraversano il centro da
sud verso nord: Prinzenstraße, Merhringdamm, Potsdamerstraße.
Sono vie enormi perse nella loro malinconia, affascinate dall’ele-
ganza dei loro stessi palazzi addormentati, e tuttavia frequentate.
28
Questa sezione, come anche l’altra, più avanti, sull’installazio-
ne di Derek Holzer, sono state pubblicate per la prima volta sul
blog www.scomposizionisoniche.wordpress.com; ho deciso qui di riproporli
integralmente.

103
Prinzenstraße procede con ritmo dritta ad Alexander Platz incu-
rante, nel suo incedere da principessa bella ma ottusa, agli affondi
precisi e affilati dei cavalieri-Ritterstraße e alle numerose offerte
dei discount che a tratti ne affollano i lati. Potsdamerstraße de-
borda dall’implosione della nuova Potsdamer Platz, monumento
all’energia e al movimento dell’equipe di Renzo Piano, ma poi si
riscopre mansueta allorché teatri, hotels e Döner Kebap ne ral-
lentano il flusso pomeridiano. Quanto sono diverse queste strade
da quelle che costeggiano i canali della Sprea e si snodano tra
i palazzi dietro la metropolitana rialzata della Skarlitzerstraße è
un mistero che non ho ancora risolto. Qui i passi sono più lenti,
i respiri più ampi, i ritmi assimilati a quelli delle castagne che
cadono sulle rive del canale e alle lente preparazioni dei cibi nei
ristoranti bio.
Walter Benjamin nella sua Infanzia berlinese racconta di co-
me amava passare il tempo nella loggia, la stanza affacciata sul
cortile della sua casa, ascoltando i passi veloci di chi scendeva le
scale, il vociare ovattato dietro le fineste, il ritmo lontano della
ferrovia, lo sbattacchiare improvviso delle serrande a sera, il fru-
sciare continuo delle foglie contro i muri d’autunno. Ogni suono,
un segno. I cortili a Berlino sembrano essere questi luoghi magici
dove tutto è sospeso e i suoni hanno il tempo di rimanere fissati
alle pareti. Nel poco tempo che ho avuto finora ne ho visti di
bellissimi, incantati tra le intimità che le finestre tutt’attorno cu-
stodiscono. Ho visto un artista, Marco Canevacci, che durante un
esposizione ha tentato di catturarne lo spirito con la sua plastica
fantastica. Nella kunsthouse Tacheles il cortile nel retro si apre,
nella sabbia, ad un paesaggio postmetropolitano incorniciato da
sculture metalliche e atelier di artisti. Nel confine tra la magia
dei suoni del cortile e il riverbero dei suoni delle strade si colloca
il mio stupore. La mia domanda, ora, é la stessa di uno stencil

104
sul marciapiede del ponte di Warschauer Straße: “Was hort die
stadt? ” “Cosa ascolta la città? La gente che abita questi paesag-
gi e con naturalezza ne entra a far parte respira queste differenze
con cognizione. Sembra aver assimilato nel modo di camminare
l’eleganza della luce/ombra e le tinte neutre delle pietre che in-
tessono in modo così vario i marciapiedi della città. Questi sono
sempre incredibilmente spaziosi e segnano le differenze tra pas-
saggi pedonali, automobilistici e piste ciclabili spesso con il solo
accostamento di patterns di pietre diversi. Sulle strade i confi-
ni si fanno texures. In confronto a Mosca Benjamin trovava che
la larghezza spropositata di questi marciappiedi li trasformava
in lunghissimi palchi dove anche gli straccioni acquistavano un
che di principesco. In effetti mai come in questi giorni ho colto
tante particolarità in uno sguardo, perché questo sembra essere
il massimo che i luoghi pubblici possono offrire, nei passanti che
incrociavo. Eppure, al contrario di quanto potevo aspettarmi, qui
non è diffuso un gusto trasgressivo nell’apparire. Il grigio delle
pietre non richiama continuamente il contrappeso di tinte forti,
ma c’è tutto fuorchè uniformità. Persone si differenziano per un
taglio, un cappello, uno sguardo, dei guanti, dei passi e lasciano
il resto a delle tinte, neutre o naturali, che hanno un’inclinazione,
per così dire, “mimetica”. Stando a Berlino si incomincia ad ave-
re un che di non rifinito, come se si volesse emergere di poco ma
con decisione con la propria persona e lasciare alle strade e i muri
attorno il lavoro rimanente. Come nel tedesco parlato qui in giro
emergono spesso, di poco, idiomi e provenienze lontane. E nelle
pause delle Volkschule, le scuole popolari che sono lo stadio pre-
cedente di molta della lingua tedesca parlata a Berlino, questo
stesso tedesco diviene un’esplosione di lingue diversissime.

105
29

29
Plastique fantastique, installazione di Marco Canevacci in un cortile di
Mitte, Settembre 2008.

106
30

30
corile in Müllerstraße 162, Wedding, Maggio 2009.

107
108
Feel like lovers
Il Berghain è attualmente il club techno più affermato al mon-
do, ospita con frequennza i nomi più grandi della scena techno
minimale e dubstep: Carl Craig, Luciano, Ricardo Villalobos,
Jeff Mills. Fino al 2003 si chiamava Ostgut, era un locale princi-
palmente gay-fetish, e si trovava in un edificio delle ferrovie poi
demolito; ora il nome è rimasto per la sola etichetta discografica,
e la sede si è trasferita nella struttura di una ex centrale elettrica
costruita negli anni cinquanta, in un area dietro la stazione di
Ostbahnhof, occupata principalmente da fabbriche in disuso ed
enormi magazzini all’ingrosso. Il nome è stato scelto per la posi-
zione al confine tra i due quartieri di Kreuzberg e Friedrichshain,
componendo le terminazioni dei due nomi.
L’ambiente è lasciato prevalentemente grezzo e disadorno, in
linea con le sonorità pure della techno minimale, non è presen-
te neanche uno specchio e sono vietate le fotografie, non esisto-
no zone VIP e le liste di nomi per i pass all’ingresso sono ri-
dotte all’essenziale; mentre la trasgressione e la stravaganza dei
comportamenti sono di casa.
Ogni settimana, solo dal Sabato fino alla Domenica sera, il
Berghain vede il passaggio di più di duemila persone. Sarebbe
possibile fare un etnografia dei pubblici diversi che affollano le
code per entrare durante tutto il week end, a seconda degli orari.
Infatti, nostante l’estensione del tempo richiami quella dei rave,
sono in pochi coloro che partecipano a tutta la serata. Per mol-
ti è un appuntamento settimanale e ognuno ha i suoi orari, e il
maggior numero di entrate si ha intorno alle quattro della not-
te del Sabato. Tra una buona fetta di berlinesi si è diffusa la
moda di andare al Berghain direttamente la domenica mattina o
perfino nel primo pomeriggio, così da evitare le congestioni della
sera e arrivare freschi per il momento in cui subentrano i set più

109
cool : il rimescolamento orario iniziato col “finire tardi la notte”
nella metropoli berlinese va oltre fino a diventare anche “iniziare
presto la mattina”, si scombussola assieme alle convenzioni e le
quotidianità dei giovani.
Così il Berghain, attraverso il suo ambiente più intimo della
Kantine, si permette di rivolgersi al suo frequentatore come se
si trattasse di un vecchio amante, a cui lasciare lettere d’amore
fotocopiate sparse in giro per la città. Darsi appuntmento, am-
miccare, fare sentire il desiderio, aspettare il fine settimana per
reincontrarsi sono gesti di un pantomima cui i veri amanti dei
ritmi metroplitani di Berlino si prestano docilmente, cogliendo
l’ammicamento dell’affissione. Per loro il club batte allo stesso
pulsare di Berlino, 140 bpm che possono essere portati con sé
dovunque nel formato tascabile di un ipod, osservando la città
muoversi alle pulsioni minimal della musica; per questo lasciano
volentieri alterare i propri ritmi settimanali. Attraverso la tech-
no, gli avventori del club intrattengono un rapporto con la città
stessa, ed è un rapporto tutto personale. Come tra veri amanti.

110
31

31
mappa di Berlino. Fonte: Google Maps

111
Sudden Infant

In una intervista che si trova sul suo sito Joke Lanz, in arte
Sudden Infant, racconta la sua storia. Prima dell’89 era il bassista
di una band punk, poi ha dovuto lasciare tutto perché è arrivato
un bambino, un bambino improvviso, con la sua compagna, che
poco dopo li ha abbandonati. Dovendo passare tutto il giorno
in casa, Joke ha ricominciato a fare musica riutilizzando le stru-
mentazioni che aveva in un modo totalmente diverso, giocando
col figlio, campionando i suoni dell’appartamento, creando delle
ritmiche pre-registrate. Ecco come descrive il risultato:

Sudden Infant creates an unique blend of physical


sound-poetry and dadaistic vocals, using contact mi-
crophones, prerecorded soundloops and noises. The
result is abrupt Musique Concrète juxtapositions of

112
spasmodic gibbering and a battery of disorienting elec-
tronics. It’s a fragmented field of sound that comes to
its own autonomy! 32

Da circa dieci anni Sudden Infant si è stabilito a Berlino, conti-


nuando a collaborare con suo figlio. Nel 1999 ha pubblicato una
release intitolata Sounds from the sidewalk, prodotta registrando
assieme a lui i suoni che incontravano durante le passeggiate per
le strade di Berlino; l’artwork è costituito da una busta traspa-
rente, che, oltre la cassetta, contiene alcuni pezzi della spazzatura
rimasta per strada: tappi di bottiglie, biglietti da visita, brandelli
di manifesti, scarti. Ho visto per la prima volta una sua esibi-
zione al Wallywoods, un progetto di arte libera diretto da Paul
Paradox che fino al dicembre 2009 ha occupato la Weißensee Kul-
turhaus sulla Berliner Straße. Nel periodo dell’esibizione l’intero
perimetro del posto era occupato da una ventina di pianoforti a
parete rotti, trasformati in pezzi d’arte dall’intervento di svariate
persone, mentre il soffito e le pareti erano state ricoperte a penna
da un grafic designer durante alcune serate; in giro per il locale
era possibile trovare dei fogli, nei quali Sudden infant invitava a
scrivere poesie completando alcuni versi scritti da lui.
Visto nel pubblico sembra piuttosto timido - sullo stage la sua
performance sonora dura circa mezzora e toglie il respiro per la
sua brutalità. Ha una mimica accentuata, psicotica, utilizza un
microfono a contatto per cantare, tenendolo premuto sulla gola
come se si soffocasse, producendo urla distorte senza aprire la
bocca. Le ritmiche industrial si alternano a momenti di quiete,
32
“Sudden infant crea un mix unico di poesia sonora fisica e voci dadaisti-
che, usando microfoni a contatto, loop e rumori pre-registrati. Il risultato
sono giustapposizioni brusche di Musique Concréte di insensatezze spasmo-
diche e una batteria di elettroniche disorientanti. È un campo di suono
frammentato che giunge alla sua autonomia!” (traduzione mia)

113
dove lui racconta i suoi sogni, alcune storie intime e d’infanzia,
prima di ritornare bruscamente alla distorsione e alle registrazioni
campionate.
Ispirata dal punk, i movimenti fluxus, e l’azionismo viennese,
la sua musica è una ricerca del rumore intima e carnale. In ogni
suo album è infatti percepibile, nonostante la distorsione, una
sensibilità sbalorditiva per la grana dei singoli impulsi, il partico-
lare del suono registrato che forma una trama insieme alle altre
regisrazioni in loop. Un pezzo, ripper zip, è fatto esclusivamente
del suono di una cerniera zip che si apre.
Il legame che connette il rumore all’ intimità del suo approccio
è piuttosto perturbante. Nel festeggiamento dei suoi venti anni
come Sudden Infant, dopo alcuni set di ospiti internazionali tra il
drone l ’elettronica e il brutal-metal, la sua performance era costi-
tuita dalla custodia di un violino, che, aperta a mo’ della valigia
misteriosa di Belle de jour di Buñuel, produceva un ticchettio
inquetante che si amplificava per tutto lo spazio dell’Ausland.

114
33
33
contenuto dell’artwork di Sounds from the sidewalk (1999).

115
34

34
parti degli artwork di due album degli Einsturzende Neubauten.

116
35

36

35
Ok, ok - der modern Tanz (Berlin, 1980)
36
Sax (Berlino, 1983)

117
118
Das klein fieldrecording festival37
Coloro che sono ancora poco familiari con il field recording non
saranno aiutati molto dalla sua definizione. Questa dice che i
field recordings sono quelle registrazioni fatte fuori da uno stu-
dio per usarle in una composizione. Dopo però possono succedere
molte cose: registrazioni di un flautista in un fienile, di una vac-
ca che si lamenta rumorosamente sulla sua via per Yu Huan, di
bolle d’acqua che tamburellano su una barca che galleggia, ma an-
che suoni meno epici dalle campane di una chiesa, un bollitore, o
una folla in una stazione ferroviaria sono tutte considerate “field
recordings”.
Ora tutti coloro che sono in possesso di un registratore possono
andare fuori e catturare i suoni del loro ambiente più immediato.
Il risultato sarà una specie di documento come lo sono le vecchie
foto in bianco e nero, perché queste dicono qualcosa riguardo la
nostra vita sulla terra. Immagina soltatanto quanto sarebbe ecci-
tante ascoltare una registrazione di una situazione di ogni giorno
fatta alcuni secoli fa. È questo fascino che conta.
L’artista del field recording ha questa qualità di trovare lo
straordinario presente nei suoni che sembrano ovvi ad un primo
ascolto. Lui trova le connessioni con altre parole udibili e at-
traverso queste ci aiuta ad ascoltare il nostro ambiente in modi
diversi. 38

Il das kleine field recording festival è un appuntamento, for-


se mensile, “dove i concerti sono fatti per l’80 percento di field
recording, come l’acqua nell’uomo”, sostiene il suo organizzatore
37
“il piccolo festival del fieldrecording”
38
tratto dalla mailing list del dkff, gennaio 2010, traduzione mia.

119
Rinus van Alebeek. È basato a Berlino ma a volte è organizzato
anche in altre città. In questo festival gli artisti si esprimono,
cercano di raccontarsi, fanno musica, mixando i paesaggi sonori
che normalmente ascoltano.
Le serate si svolgono solitamente in un locale sempre diverso
nel quartiere di Neuköln, che negli ultimi due anni sta vivendo
qualcosa di simile a quanto era accaduto a Kreuzberg o Prenz-
lauerberg nei loro anni d’oro, prima di incorrere in un aumento
dei prezzi degli affitti e della vita. Ciò che contraddistingue Neu-
köln, oltre l’altissima presenza di turchi, è la vecchia tradizione
altoborghese del quartiere, che ancora si esplicita nell’eleganza dei
blu e dei verdi nelle piastrelle utilizzate nelle U-bahn, nei vari ne-
gozi di delikatessen che sopravvivono tra un döner kebap e l’altro,
nel fascino antico del Municipio e di Richardplatz, un tempo cuore
del quartiere, ormai dimenticata. I locali sono luoghi piuttosto
piccoli come il Sowieso, il Loophole, o lo Staalplaat. Il Sowieso
in particolare è uno dei miei posti preferiti. Ha tutte le pareti
rivestite in broccato, con resti delle piastrelle verdi del preceden-
te locale lasciate intatte, il mobilio è tutto differente, recuperato
dalla strada; c’è anche un piccolo teatro per bambini dietro una
tenda e il soffitto è dipinto dorato. La volta del Sowieso a cui ero
presente il dkff si svolgeva all’interno della piccola sala-teatro, e
i tre brevi set di cui era composta la serata vedevano composizio-
ni fatte con registrazioni rispettivamente di un viaggio a Beijing,
del proprio appartamento a Berlino, e delle strade del quartiere
di Wedding.
Al dkff, i laptop e i circuiti elettronici complessi che popolano
gli stage degli altri concerti sperimentali lasciano spesso il posto
a strumenti più semplici, come registratori a cassette, dictafoni,
walkman. Rinus, l’organizzatore, è olandese, vive tra Parigi e
Berlino, e ha vissuto alcuni anni in Italia. Dice di preferire di

120
gran lunga le audiocassette, ai più moderni cd o agli mp3, perché
si possono registrare facilmente in casa, ma allo stesso si salvano
dalla frammentazione alla quale incorrono facilmente i formati
digitali. Richiedono per questo più tempo e impegno persona-
le, ma sono personalizzabili in modo intimo. Per questo motivo
da qualche mese Rinus ha rifondato la Staaltape, la costola della
celebre etichetta di musica sperimentale Staalplaat che pubblica
su cassette. Durante le serate del festival lui è molto bravo ad
introdurre i concerti con delicatezza, cercando di non influenza-
re l’immaginazione del pubblico con parole troppo significative,
e invitando allo stesso tempo ad un ascolto concentrato. Dai set
molto spesso si riesce solo a percepire la sensazione di un luogo
che bisogna immaginare, altre volte le registrazioni sono modi-
ficate o sovrapposte in modo tale da sconfinare in qualcosa di
molto più musicale, e meno comprensibile. Ma c’è chi, partendo
dalle sole registrazioni, riesce a creare perfino un filo narrativo,
raccontandosi magari a voce. Una volta Baruch Gottlieb, in una
serata al Loophole, è riuscito ad incantare per mezzora il pubblico
con le sue registrazioni di venditori ambulanti catturate attorno
al globo.
I paesaggi si mischiano in modo creativo e danno a volte dei
risultati bizzarri, poiché ognuno ha i suoi motivi per utilizzare i
field recordings. E alla fine è un piacere scambiare una chiacchiera
con gli artisti, dopo aver condiviso l’ascolto dei concerti.

121
39

39
skyline di Berlino fotografato dal rilievo di Teufelsberg.

122
40

40
profilo della costa di Istambul tra le colonne della porta di Brandeburgo,
Kreuzberg.

123
Bloodythings e Mornings

Io e Mornings ci siamo conosciuti a gennaio 2009 durante un


workshop organizzato durante il Transmediale, un festival di mu-
sica e arti digitali organizzato ogni anno a Berlino. Lo scopo del
workshop era costruire dei piccoli sintetizzatori-sequencer a par-
tire da alcuni componenti elettronici semplici, secondo l’ottica del
DIY (doityourself ), e con delle piccole modifiche ognuno poteva
ottenere uno strumento lo-fi completamente diverso. Abbiamo
iniziato a provare insieme la settimana successiva, e dopo tre pro-
ve abbiamo fatto la nostra prima esibizione durante il vernissage
di una mostra di arte astratta a Potsdam. Il set up iniziale com-
prendeva soltanto la sua batteria free jazz e le registrazioni in
tempo reale della stessa batteria, fatte da me con l’aiuto di un
linguaggio di programmazione ad hoc. Poi col tempo e i concer-
ti si sono aggiunti la mia tromba, le sue registrazioni audio di b

124
movies, e una serie di altri oggetti che hanno formato un vero
e proprio playground per le nostre improvvisazioni. Solitamente
cambiamo il nostro set-up ogni volta che suoniamo, anche per le
richieste particolari (di usare volumi bassi ad esempio, e questo
mette fuorigioco la batteria) dei locali. È nata anche una forte
amicizia.
Bloodythings e Mornings a Berlino hanno suonato al Mada-
me Claude a Kreuzberg, allo Scherer 8 - un haus project a Wed-
ding, al Dave Lombardo Bar a Prenzlauer Berg, al Sowieso e allo
Staalplaat a Neuköln.

125
-

12 meter Powerchord - installazione presso lo STYX-Berlin, 22no-


vembre 2008

mezzo chilo di corde per piano.


diapason.
ampli valvolare.
play.

Il powercord è il nome della stuttura accordale tipica del hea-


vy, intervallo di prima quinta ottava: una teorica assonanza per-
fetta sovvertita a simbolo della dissonanza dalla storia rock. (The
Kinks, the Black Sabbath etc..) Derek Holzer suona questo tri-
corde che si dilunga per tutto il colonnato della stanza al buio.
Siamo a Frederichshain, in un atelier in una vecchia industria
occupata. Alla luce le tre corde sembravano solo un elemen-
to architettonico. Al buio i suoni sono insopportabili. i rumori

126
percorrono d’impatto le ossa. Uno spazio intero diventa uno stru-
mento musicale, e il pubblico è letteralmente incorporato nei flussi
sonici. Se le corde volevano essere metonimicamente una parte
per il tutto (una chitarra distorta) il suono attualizza questo tutto
in ogni parte. Instabile, sull’orlo della pelle, fischiante. Il luogo
e il suono vengono a coincidere in una unione panica. In modo
interessante il diapason, classico strumento per l’accordatura as-
soluta degli strumenti, a contatto con il tricorde e l’amplificazione
si fa mezzo di frequenze distorte fino ai limiti udibili. Conoscere
lo spazio attorno diviene immediatemente compromesso, perché
il corpo vibrante è lo spazio attorno e perché anche il corpo che
ascolta muovendosi crea ulteriori distorsioni.

127
.

128
Tracklist

(5:47) Deep Cuts- Sudden infant


(5:56) Silence is Sexy- Einstürzende Neubauten
(4:29) Hoflandschaft- panorami dal cortile (Ottobre 2008)*41
(8:13) Continuum-Ligeti/Citylife-Reich (mixed)
(2:39) Bobangi-Aka Pigmei
(3:57) Pulmoes-Sao Paolo Underground Orchestra
(5:15) Berlin: Die Sinfonie der Großtadt, excerpt- Edmund Meisel
(3:14) Have and hold for- La Loora
(3:42) Tanz im Quadrat- Die tödlische Doris
(2:49) Ritmi tandour (pane turco) sulla Kottbusser Damm*
(3:43) Kottbussertor, Kreuzberg (edit, Dicembre 2008)
(8:15) Berlin Babylon excerpt- Einstürzende Neubauten
(3:48) Bloodythings and Mornings @ Staalplaat 13 Febbraio 2010,
excerpt*
(4:10) Moha- live @ Volksbuhne 26 Novembre 2008, excerpt*
(5:37) In un edificio sulla Warschauer Straße, con Ulrike (febbraio
2009)*

41
gli asterischi corrispondono alle registrazioni effettuate da me.

129
42

42
stencil ad un angolo della Skalitzer Straße, Kreuzberg, 2009.

130
Webgrafia

www.sp38.com/
www.1cm.de/
www.neubautenkunst.co.uk/
www.ausland-berlin.de/
www.echtzeitmusik.de/
www.myspace.com/themoha/
www.volksbuehne-berlin.de/
www.berghain.de/
www.g4t.info/ (Baruch Gottlieb)
www.suddeninfant.com/
www.raum18-berlin.com/

131
Bibliografia
Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici secondo il sistema autore-data
è sempre quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagi-
na si riferiscono sempre alla traduzione italiana, qualora negli estremi bibliografici
qui sotto riportati vi si faccia esplicito riferimento.

Adorno, T.W., 1949, Philosophie der neuen Musik , Tübingen, J.C. B


Mohr; trad. it. 1959, Filosofia della musica moderna, Torino, Einaudi.
Adorno, T.W., 1956, Prismen, Kulturkritik und Gesellschaft, Frankfurt
am Main, Suhrkamp Verlag; trad. it. 1972, Prismi, Torino, Einaudi.
Adorno, T.W., Horkeimer, M., 1947, Dialektik der Aufklärung, Amster-
dam, Querido Verlag; trad. it. 1966, Dialettica dell’Illuminismo, Torino,
Einaudi.
Arom, S., 1991, Polyphonies et polyrhythmies instrumentales d’Afrique
centrale, New York, Cambridge University Press.
Bachtin, M., 1979, Estetika slovesnogo tvorčestva, Mosca, Iskusstvo;
trad. it. 1988, L’autore e l’eroe, Torino, Einaudi.
Bateson, G., 1972, Steps to an ecology of mind , San Francisco, Chandler
Publishing Company; trad. it. 1976, Verso un ecologia della mente, Milano,
Adelphi.
Bateson, G., 1980, Mind and Nature: A Necessary Unity (Advances in
Systems Theory, Complexity, and the Human Sciences), Broadway, Hampton
Press; trad. it. 1984, Mente e natura, un’unità necessaria, Milano, Adelphi.
Benjamin, W., 1936, Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen
Reproduzierbarkeit, in Zeitschrift für Sozialforschung, Frankfurt am Main,
Suhrkamp Verlag, ; trad. it. 1955, L’opera d’arte nell’epoca della sua
riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi.
Benjamin, W., 1983, Das Passagen-Werk , Suhrkamp Verlag, Frankfurt
am Main; trad. it. 2007, I "passages" di Parigi, Torino, Einaudi.
Benjamin, W., 1987, Berliner Kinderheit um neunzhnhundert, Frankfurt
am Main, Suhrkamp Verlag, ; trad. it. 2007, Infanzia berlinese intorno al
Millenovecento, Torino, Einaudi.
Benjamin, W., 1955, Schriften, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main;
trad it 1962, Angelus Novus. Saggi e frammenti, Torino, Einaudi.
Benjamin, W., 1993, Ombre corte. Scritti 1928-1929 , Torino, Einaudi.

132
Brady, E., 1999, A Spiral Way, how the phonograph changed ethnography,
Mississippi, University Press.
Cage, J., 1961, Silence: Lectures and Writings, Middletown, Wesleyan
Paperback.
Calvino, I., 1972, Le città invisibili,Torino, Einaudi.
Canevacci, M., 1993, La città polifonica, Roma, Edizioni Seam.
Canevacci, M., 2004, Sincretismi, Milano, Costlan editori.
Canevacci, M., 2007, La linea di polvere, Roma, Meltemi.
Chion, M., 2004, L’arte dei suoni fissati o la musica concretamente,
Roma, Edizioni Interculturali Uno.
Clifford, J., 1988, The Predicament of Culture Twentieth-Century Eth-
nography, Litterature and Art, Harvard University Press, Cambridge; trad.
it. 1993, I frutti puri impazziscono, Torino, Bollati Boringhieri.
Constabile-Heming, C. A., Halverson, R. J., Foell, K. A., 2004, Berlin:
the symphony continues : orchestrating architectural, Social, and Artistic
Change in Germany’s New Capital , Berlin, Walter de Gruyter.
Feld, S., 1982, Sound and Sentiment: Birds, Weeping, Poetics, and Song
in Kaluli expression, University of Pennsylvania Press.
Fiorentino, G. 2003, Il valore del silenzio, Roma, Meltemi.
Kracauer, S., 1964, Strassen in Berlin und Anderswo, Frankfurt am
Main, Suhrkamp Verlag. tra. it. 2004, Strade a Berlino e altrove, Bologna,
Pendragon.
Leiris, M., 1980, Francis Bacon ou la vérité criante, Montpellier, Fata
Morgana; trad.it. 2001, Francis Bacon, Milano, Abscondita.
Müller, W., 1982, Geniale Dilletanten, Berlino, Merve.
Murray Schafer, R. 1977, The Tuning of the World , Toronto, McClelland
and Stewart Limited; trad.it. 1985, Il paesaggio sonoro, Lucca, LIM.
Nietzsche, F., 1887, Zur Genealogie der Moral, Leipzig, Verlag von C.G.
Neumann; trad. it. 1984, Genealogia della Morale, Milano, Adelphi.
Oswalt, P., 2000, Berlin_Stadt ohne form, Strategien einer anderen Ar-
chitektur , Monaco-Londra-New York, Prestel Verlag; trad. it, 2006, Ber-
lin_città senza forma, Roma, Meltemi.
Price, S., Jamin, J., 1988, A Conversation with Michel Leiris, in Current
Anthropology, volume 29, Number I, Chicago, University of Chicago Press.
Rimbaud, A., 1886, Illuminations, Paris, Les publications de La Vogue;
trad. it. 1986, Illuminazioni, Milano, SE, 1986.
Russolo, L., 1913, L’arte dei Rumori, Milano Edizioni Futuriste.

133
Simmel, G., 1957, Die Grosstädte und das Geistleben in Brücke und Tür,
a cura di M. Landmann e M. Susman, Stuttgart, K. F. Korhler Verlag; trad.
it. 1995, La metropoli e la vita dello spirito, Roma, Armando.
Scheper-Hughes, N., 1994. Embodied knowledge: thinking with the body
in critical medical anthropology. In: Borofsky, R. (ed.), Assessing Cultural
Anthropology, New York, McGraw-Hill Inc.
Valeriani, L., 2009, Performers. Figure del mutamento nell’estetica dif-
fusa, Roma, Meltemi.
Wenders, W., 1992, The Act of Seeing, Essays, Reden und Gesprache,
Frankfurt am Main, Suhrkamp.

134

Potrebbero piacerti anche