Indice :
CAPITOLO 1 ANTROPOLOGIA E MIGRAZIONI: UN'INTRODUZIONE
CAPITOLO 2 CULTURE DELLE MIGRAZIONI
CAPITOLO 3 MIGRAZIONI DI TRANSITO
CAPITOLO 4 FRONTIERE E CONFINI
CAPITOLO 5 RIFUGIATI
CAPITOLO 6 CAMPI DI ACCOGLIANZA PER RICHIEDENTI ASILO
CAPITOLO 7 DIASPORA
CAPITOLO 8 GENERE
CAPITOLO 9 LAVORO
CAPITOLO 10 RELIGIONI
CAPITOLO 11 POLITICHE DEL MULTICULTURALISMO
CAPITOLO 12 SCUOLA
CAPITOLO 13 PROSTITUZIONI
CAPITOLO 14 POLITICHE DI ASILO
CAPITOLO 15 SALUTE
CAPITOLO 16 ETNOPSICHIATRIA
CAPITOLO 17 RAZZISMI
CAPITOLO 18 INTEGRALISMO CULTURALE E XENOFOBIA
CAPITOLO 19 MIGRAZIONI DI RITORNO
CAPITOLO 2O MIGRAZIONI E SVILUPPO
CAPITOLO 5 RIFUGIATI
Autore : Erika Lazzarino
DEFINIZIONI
I Refugees Studies pongono al centro la figura del rifugiato sia dopo l'esodo che durante la
permanenza nei paesi di accoglienza.. Tre sono le chiavi di lettura utilizzate dagli antropologi
nei RS:
- interazione tra masse in fuga e processi di costruzione di identità nazionali
- esaminare la figura del profugo e la natura del potere che cattura tale figura per renderla
funzional
-indagare le procedure assistenziali
Definiamo nazionale la prima chiave di lettura perché approccia i Refugee studies
dall'angolatura degli studi sull'identità nazionale. Poiché parlare di rifugiati significa parlare di
comunità in fuga, l'obbiettivo è documentare come lo spostamento territoriale involontario
implichi una complessa serie di procedure disciplinari di esclusione sospensione, e
reinserimento all'interno dei codici di appartenenza nazionale.
Rifugismi di massa e campi profughi segnalano l'esaurirsi del modello nazionale, portando alla
luce la crisi inderogabile del confine della cittadinanza, cui diritti umani e diritti dei rifugiati non
riescono più a porre rimedio
All'interno di ciò che Lisa Malkki denomina "ordine nazionale delle cose" la figura del rifugiato
occupa una posizione invisibile, un non-ancora classificabile, tra non-più-cittadino e non-
ancora- cittadino... una zona liminare o un limbo "definitivamente temporaneo”.
La liminarità del rifugiato può dissiparsi attraverso forme rituali e commemorative che "fanno
luogo" (Allovio) e costruiscono una comunità in esilio oltre "l'ordinew nazionale delle cose".
La seconda chiave di lettura è di tipo umanitario.
L'aiuto si prospetta come una relazione identitaria, in cui centrale sembra essere l'esperienza
del dono. Barbara Harrel-Bond, rifacendosi al saggio sul dono di Marcell Mauss(1925) -secono
cui il dono svilisce colui che lo riceve, nel caso in cui costui non sia a sua volta in grado di
contraccambiare, e definisce relazioni di potere tra beneficiario e benefattore- analizza come
l'esperienza del dono sia una causa della mancanza di agency.
Il dono umanitario stereotipizza i rifugiati come vittime impotenti.
Per avere accesso all'aiuto o ottenere il riconoscimento dell'asilo politico, il paradigma
umanitario prescrive la condizione di vittima assoluta, anche attraverso un pervasivo approccio
medicopsicologico. Le indagini antropologiche mostrano che l'assistenza umanitaria è sì una
risorsa per la sopravvivenza locale dei profughi e genera un rapporto di reciproca diffidenza tra
rifugiati e agenzie umanitarie.
Biopolitica è la terza chiave di lettura attraverso la biopolitica l'antropologia studia i fenomeni
di rifugismo.
A partire da Foucault e Agamben la nozione di biopolitica offre all'antropologia varie
suggestioni. Dinanzi al biopotere non resta più nulla di un individuo privato del suo status di
cittadino, quindi nella sua esistenza giuridica, se non la sua mera sopravvivenza biologica..
Questa umanità spogliata di diritti, irriconoscibile, un'umanità nuda o "nuda vita" (Malkki,
Agamben, Hanafi) costituisce una minacciaper l'ordine di riconoscimento e classificazione dello
stato-nazione.. Questa umanità viene letteralmente reclusa entro spazi di "eccezione" (campi
profughi) in cui è mantenuta in vita (funzioni esclusivamente biologiche). Quindi, gli operatori
dell'umanitario si prendono cura della nuda vita di vittime assolute segregandole in spazi di
esclusione che, nonostante l'aspetto provvisorio, sono caratterizzati da un certo grado di
perennità.
A questa "politica della nuda vita" (Agier) , la quale riduce la vita ai minimi termini e interna
l'umanità in eccesso rispetto alla griglia delle apparenze nazionali, corrisponde la forma del
campo per rifugiati, intesa come "luogo definitivo percepito come temporaneo e la cui assoluta
precarietà viene abitata definitivamente".
Il rischiuoi etnografico sulla biopolitica e il rifugismo è la raffigurazioone dei profughi come una
massa di nuda vita.
UNO SGUARDO AI PROFUGHI PALESTINESI IN LIBANO
7 anni, 2003 primo lungo soggiorno in Libano nel campo profughi di Mar Elias..poi 2008 vari
soggiorno più brevi.
Il caso etnografico -incontro tra profughi palestinesi in Libano e l'assistenza umanitaria che li
affianca da 60 anni- intende mostrare come le politiche dell'aiuto siano a più livelli utilizzate a
proprio vantaggio da alcune forme di resistenza non dichiarata attuate dai rifugiati stessi. . Si
desidera circoscrivere il campo d'analisi ad alcune strategie di resistenza politica-dissimulata,
silenziosa, la quale, parli lo stesso linguaggio del dominio cui si oppone- messe in atto da
rifugiati palestinesi in Libano.
Questa comunità di mezzo milione di profughi in 12 campi ufficiali, è marcata da un senso di
"non essere più là" e un "non essere ancora qui", motivato da un trattamento giuridico e
legislativo che impedisce un radicamento al libano. La loro sopravvivenza è rimessa all'efficacia
di UNRWA e altri. Sono subordinati agli aiuti. Fra comunità profuga e apparato umanitario
intercorre un marcato rapporto di potere.
La soggettività ricerca un posizionamento, questo sfugge.. tra il qui-presente (campo profughi)
e un altrove passato (madrepatria). Indagare questo aspetto è rilevante, il continuum culturale
che i programmi assistenziali sottendono o impongono.
In un o studio svolto a Plementine ,Kosovo, campo sfollati non albanesi ma serbi e rom, il
sociologo Federico Rahola argomenta i tentativi di "produrre località"
"il campo agisce come sospensione di ogni facoltà autobiografica, di ogni capacità di leggere la
propria vita sulla base di una linearità evenemenziale: il filo che salda il passato al presente e
che, in base al presente, preconizza il futuro finisce per spezzarsi; le esperienze passate non
arrivano a Plementine e i progetti di vita non lo superano" (Rahola 2003).
La definitiva provvisorietà del campo piega il tempo all'unica dimensione del presente, dando
luogo ad una distopia che individualizza la memoria e congela qualunque agency dell'abitare..
Nel corso dei suoi numerosi studi sui campi umanitari che offrono protezione a milioni di
profughi in Africa e America Latina Michel Agier esplora a fondo i meccanismi di de-
politicizzazione e desoggettivazione attivati sistematicamente dalla prassi assistenziale. A. Si
pone il problema della soggettivazione politica all'interno dei campi.
L'antropologa americana Barbara Harrell-Bond fa un indagine negli anni 80 fra i profughi
sahrawi in algeria passando fra quelli ugandesi nel sud sudan.
Figura chiave per lo sviluppo e l'articolazione dei Refugees studies.
HB propone una tesi secondo cui la dinamica del dare e ricevere fra profugo eoperatore offra
un setting culturale in cui entrambi giocano il rispettivo ruolo di beneficiario e benefattore e
così soddisfano i propri interessi specifici "per gli operatori umanitari il bene ultimo è
continuare a mantenere la propria autorità, per i rifugiati è l'acquisizione di beni materiali"
—episodio significativo. Presentazione di un prodotto tecnologico che rivoluziona le pratiche di
cooperazione e assistenza, durante un campo estivo di formazione di una ong per campi prof in
Lib. Un'opportunità di confronto fra cooperanti europei e rifugiati palestinesi che lavorano come
operatori nei campi messi sullo stesso piano.
Il prodotto tecnologico in questione era un enorme camion multimediale con schermi . I due
promotori proiettarono un filmato come presentazione di potenzialità.. nel filmato si
susseguivano immagini di degrado di retorica tipica della povertà, uno scenario di
sovraffollamento e scarse condizioni igieniche. Il camion compariva come quella soluzione
tecnologica capace di promuovere la sensibilizzazione allo sviluppo.. Il filmato mostrava
marginalizzazione e povertà. Il valore per i due promotori pareva essere un effetto di
empowerment sulla popolazione locale.
C'era un gran brusio e agitazione tra i cooperanti palestinesi: i potenziali beneficiari d'aiuto
reagiscono non solo nel vedere reificate le proprie vite all'interno della rappresentazione
umanitaria, ma anche nel comparire come casi esemplari sfruttati dalla pubblicità morale per
accrescere il business umanitario.
Intervista a Hisham attivista
(Grande!) (p.66-67)CAP 6
CAPITOLO 7 DIASPORA
Autore : Erika Lazzarino e Selenia Marabello
Paragrafo : 7.1 Sui concetto di diaspora La nozione di diaspora entra nel linguaggio delle
scienze sociali e in particolare nell'antropologia culturale in tempi alquanto recenti. L'idea che
cultura e identità riguardino anzitutto il radicamento entro un determinato territorio è stata
messa in discussione dagli studiosi a partire dalla metà degli anni Ottanta. Senza cadere
nell'assolutismo teorico opposto, la nozione di diaspora si presta a suggerire formulazioni
dell'identità molto più mobili ed elastiche, trasversali e plurali. Gli studi antropologici che fra i
primi utilizzano il concetto di diaspora congiungono spunti del Cultural Studies e dei Post
Colonia! Studies, facendo interagire i problemi connessi alla negoziazione delle identità
culturali con posizioni storicamente e culturalmente marginalizzate, come nei paesi delie ex
colonie, impegnate in una lotta per il riconoscimento nei contesti di approdo. La nozione dì
diaspora si colloca sin da subito in un'ottica transnazionalistica e si apre a cogliere in modo
particolare l'emersione di possibili scenari posti nazionali. Oggi per Diaspora Studies si
intendono sia gli studi sui fenomeni diasporici reali sia quelli che utilizzano la metafora
diasporica per argomentare il particolare posizionamento dell'identità politica e culturale di
alcuni gruppi umani. Sin dalla fine degli anni Settanta, gli studi storico-sociali e culturali in
ambito africanista hanno costituito un fertile terreno d'incubazione delia nozione di diaspora.
Nel corso dei primi anni Novanta, i dibattiti sugli aspetti teorici, cultural e storici delia diaspora
hanno cominciato a proliferare anche all'interno di ambienti accademici a proposito di fenomeni
quali la globalizzazione e i localismi, le ibridazioni culturali, le migrazioni, le politiche della
differenza, i transnazionalisrm. Pur riconoscendo che la tradizione ebraica, ove la diaspora si
connota negativamente poiché causata da un evento catastrofico, sia la radice di ogni
definizione e interpretazione dei concetto, è Robin Cohen (1997) fra i primi sociologi a
suggerire come la condizione diasporica appartenga a numerose altre comunità culturali, che
vivono al di fuori della terra nativa e si riconoscono nella lingua, nella religione o nella cultura
d'origine. Nella sua ricognizione sulle diaspore, Cohen cerca di "sdoganare" la portata euristica
del termine anche in contesti successivi e diversi da quello ebraico; senza fare di quest'ultimo
un modello definitivo. La diaspora ebraica può essere assunta come il punto di partenza non
normativo per un discorso che sta passando attraverso le nuove condizioni globali.
Collocandosi nel più ampio panorama di studi sui transnazionalismi, Van Hear definisce la
diaspora come una possibile risultante di una crisi migratoria e assume come condizione
indispensabile al consolidamento di una comunità diasporica la durata nel tempo della
dispersione. In questa visione, una diaspora è identificabile ex-post, solamente cioè se,
trascorso un certo tempo, vengono mantenute tre condizioni: la dispersione della popolazione
della homeland in almeno due o più territori; la presenza duratura delle comunità all'estero;
infine, una qualche forma di scambio fra le comunità spazialmente distanti ma che
appartengono alla medesima diaspora. Le prospettive di altri studiosi invece sono più orientate
a esplorare le autorappresentazioni e proiezioni interne alle comunità diasporiche stesse, in
chiave emica ed ermeneutica. L'approccio ermeneutico alla diaspora, se da un lato privilegia la
valenza ibrida e contaminante dei fenomeni diasporici, dall'altro consente anche di delimitarne
un fuoco interpretativo per l'antropologia: anzitutto, non tutto ciò che attraversa i confini degli
stati nazionali è diasporico; in secondo luogo, la diaspora si presta a riconoscere nuove forme
di soggettivizzazione e nuovi panorami culturali senza ridursi a sinonimo di dislocazione, infine,
comprando le formazioni diasporiche con ì contesti nazionali, |a lente della diaspora ci mette in
grado di valorizzare fedeltà, filiazioni e formazioni non nazionali e indica un'urgenza politica e
teorica non più dilazionabile, ossia la ridefinizione dell'appartenenza e della sfera dei politico su
scala globale.
Paragrafo : 7.2 Qualche nota sulla diaspora palestinese La diaspora palestinese affonda
le sue radici storiche in una espulsione involontaria e mostra come la geografia della
dispersione ripercorra la formazione di molteplici culture afferenti alla medesima diaspora. Essa
si compone di un'architettura geopolitica complessa. Gli effetti della sua deriva nella storia del
secondo Novecento sono riscontrabili in un gran numero di Paesi, ossia Libano, Siria,
Giordania, Iraq, Egitto, Libia. Il fatto che, ad esempio, in Giordania la quasi totalità dei
profughi abbia ricevuto la cittadinanza giordana con l'implicito riconoscimento giuridico
accordato a un qualunque cittadino; o che in Siria ai palestinesi siano stati concessi passaporti
siriani ma contrassegnati come documenti di viaggio palestinesi fa pensare alle diverse opzioni
di integrazione sociale dei profughi nei rispettivi paesi. La più o meno accentuata vulnerabilità
socio-economica, sommandosi a quella politica che un diasporizzato porta comunque sempre
con sé, agisce sui dispositivi di sopravvivenza culturale delie singole comunità diasporiche e
orienta i modi con cui le memorie conservano e tramandano l'esperienza dell'esodo e
dell'esilio.
Non si parla più di una sola diaspora, ma più culture della diaspora: i! popolo palestinese
appartiene a una stessa comunità all'interno delia quale esistono flussi culturali molto diversi.
Con ciò, non si afferma che le diverse comunità della diaspora palestinese non abbiano più
nulla in comune. L'esperienza delia deterritorializzazione costituirebbe proprio quell'elemento
catalizzatore che consente ad un rifugiato palestinese di immaginare se stesso, la comunità
profuga in cui è inserito e tutte le restanti comunità palestinesi in esilio come parte di un'unica
esperienza immaginaria.
Paragrafo : 7.3 Qualche nota sulla diaspora africana
La storia della diaspora africana descrive una pluralità di direzioni e di attori sociali implicati e
include processi sociali, storici, e politici eterogenei. Il termine diaspora, infatti, identifica al
contempo la deportazione e commercio degli schiavi, la migrazione volontaria di persone in
cerca di lavoro, i gruppi di rifugiati, gli imprenditori e i mercanti che hanno dato vita alla
diaspora commerciale all'Interno come all'esterno del continente africano. Da ultimo la
diaspora africana ha ulteriormente allargato il suo spettro semantico includendo i gruppi
emigrati che investono economicamente e partecipano allo sviluppo del paese d'origine.
Sebbene si attesti la presenza di gruppi africani in Europa e in particolare nelle città di Londra
sin dal Medioevo, la dislocazione di gruppi e comunità eterogenee di africani si concretizza in
modo eclatante con il commercio degli schiavi, il commercio degli schiavi perdurò illegalmente
sino alla fine dei 19 secolo. Gli studi storico-antropologici hanno maggiormente documentato la
presenza di gruppi africani, deportati nell' America centrale, settentrionale e meridionale.
Alcuni studi hanno poi evidenziato come le comunità africane della diaspora hanno lasciato
traccia in india, Pakistan, Oman, Iran, Iraq e Yemen. Il traffico di schiavi nell'Oceano indiano
raggiunse il suo picco massimo tra il 18 e 19 secolo con l'occupazione dell'isola di Zanzibar.
L'abolizione della schiavitù nel 19 secolo comportò nuovi spostamenti, migrazioni interne e
soprattutto il rimpatrio di ex schiavi. E così vi furono nuove connessioni tra i gruppi africani
dislocati nei diversi territori e il continente di partenza. Questo tipo di connessione e di
prossimità è stato un tema di analisi sino all'epoca contemporanea, dove singoli e comunità di
discendenti degli schiavi hanno cercato di costruire la loro genealogia e la loro appartenenza ai
luoghi presumibilmente originari, hanno deciso talvolta di insediarsi e, altre volte, hanno
inviato denaro e sollecitato investimenti. Delpino nel suo studio su Prìnce's Town racconta il
processo di definizione dell'area come interessata al fenomeno del ritorno dei discendenti.
L'antropologa evidenzia come il ritorno dei discendenti divenne terreno di strategia per diversi
attori sociali e politici, tra cui le autorità tradizionali e nazionali. La dislocazione forzata diviene
un potente dispositivo identitario che necessita una ri- articolazione della memoria, della
homeland e dell'appartenenza. La storia della diaspora, com'è evidente in questo caso
etnografico, diviene narrazione in cerca dì forme di attestazione ma anche luogo di ricognizione
di cosa definisca l'identità, innescando processi politici e strategie di posizionamento degli
attori sociali implicati. Tutto ciò ci permette di vedere come l'idea di diaspora si consolida come
tipologia di formazione sociale, evidenziando come la percezione del legame al paese d'origine
sta declinato e ricostruito dai gruppi diasporid, ma anche come la storia e la memoria della
diaspora si modellino nelle contingenze delle società locali. I gruppi diasporid, muovendosi tra i
confini, tessono relazioni privilegiate con il luogo di appartenenza, sia questo un luogo
geografico di partenza o uno immaginato di discendenza. Nello stesso tempo però le diaspore
costruiscono relazioni tra le diverse collettività, si destreggiano tra misure legislative, che
incidono sulla mobilità, e opportunità economiche, negoziando la propria identità in qualità di
gruppo dislocato nelle diverse società di partenza, di eventuale transito e di destinazione.
Paragrafo : 7.4 Conclusioni Considerando le diaspore palestinesi e africane, che si
contraddistinguono per essere dei casi studio significativi, il concetto di diaspora è presentato
nella sua valenza analitica, empirico-descrittiva e infine storico-politica.
Le diaspore palestinesi e africane permettono di leggere con più facilità il processo di
costruzione delia diaspora nella relazione tra identità e memoria. Le diaspore fin qui delineate
includono esodi forzati, rifugiati, riformulazioni dell'identità come nel caso dei discendenti afro-
americani e reti commerciali che rimodulano la propria appartenenza, iscrivendosi in una
genealogia storica di mercanti in diaspora.
CAPITOLO 8 GENERE
Autore : Martina Giuffrè
Paragrafo : 8.1 Introduzione Il genere come concetto analitico-critico nasce negli anni
Settanta del Novecento a opera di alcune scienziati sociali statunitensi e inglesi che,
riconcettualizzando la differenza tra uomo e donna, mettendo in luce tutto ciò che c'è di
arbitrario e socialmente costruito nelle differenze fra i sessi, Si può definire pertanto "il genere
come un insieme di attributi, caratteristiche psico-attitudinali e comportamenti che si ritengono
adeguati a un uomo e una donna, esseri sociali". In base a quest’ approccio, la differenziazione
tra i sessi è prodotta da processi di naturalizzazione di meccanismi sociali molto simili a quelli
che stanno dietro ai concetti di razza a di etnia. La categoria di genere, dunque, non è
immutabile e non esprime un sistema di relazioni fisse, ma viene costruita storicamente in
modo processuale ed è sempre situazionale e relazionale. Come fa notare Ruba Salih, la
mobilità è fortemente condizionata dal genere: le donne sono spesso incorporate nelle proprie
comunità politiche nazionali e non sempre hanno la possibilità di muoversi, a causa di ruoli
culturali normativi e forme patriarcali dei ruolo dei sessi. Inoltre un approccio di genere ci
permette di ricomprendere i processi migratori al di fuori delle semplificazioni che hanno visto
a lungo l'uomo come unico protagonista. In un primo momento l'approccio di genere alle
migrazioni non si è espresso in tutte le sue potenzialità in quanto l'attenzione si è focalizzata
maggiormente sulla reintegrazione delle donne, come protagoniste attive, in processi, quelli
migratori, che fino a quel momento erano stati considerati solo maschili. Per questo, quando si
parla della relazione tra genere e migrazioni, è inevitabile che ¡I discorso si intrecci fortemente
con l'attenzione che, a partire dalla fine degli anni ottanta del secolo scorso, gli studiosi hanno
dedicato al tema, precedentemente trascurato, delie migrazioni femminili. L’invisibilità delle
donne negli studi sulle migrazioni internazionali non riflette la realtà, poiché uomini e donne
migrano all'incirca nella stessa misura. Tuttavia, anche se alcuni studiosi hanno parlato della
presenza di donne migranti, fino agli anni Settanta l'emigrazione femminile è stata considerata
di scarsa consistenza e le donne sono state guardate come agenti passivi. Si riteneva che gli
uomini partissero volontariamente e che le donne, come i bambini, partissero invece
involontariamente, costrette dai ricongiungimenti familiari. Le donne, in realtà, non solo sono
sempre emigrate, ma, come messo in evidenza da alcuni studiosi, anche nel passato sono
state protagoniste attive dei processi migratori, spesso le prime a prendere l'iniziativa,
mostrando una forte dose di agency nella loro scelta di mobilità. Tuttavia per gli studiosi
l'elemento di novità nel fenomeno dell'emigrazione femminile in generale, negli ultimi decenni,
non è tanto l'aumento numerico delle donne migranti, quanto piuttosto il nuovo ruolo
autonomo giocato dalie donne nei processi migratori, ed è proprio questo che ci permette di
parlare di "emigrazione femminile indipendente". L'approccio di genere nello studio
antropologico delle migrazioni inoltre, ha permesso dì restituire la complessità, la profondità di
analisi e l'attenzione all'individuo che è propria dell'antropologia e che un'analisi che non tenga
conto del genere non può fornire. Questo approccio non solo ha aperto la strada a nuove
tematiche, come quella della domesticità, delle famiglie transnazionali, della cura, della sfera
dell'intimità diasporica, dei ruoli parentali, ma ha permesso di rileggere in una nuova chiave
dinamiche sociali, economiche e politiche.
Paragrafo : 8.2 Bringing gender in. Migrazioni e genere nel dibattito teorico L'analisi
della relazione tra migrazioni e genere emerge con un grande ritardo. Persino i più recenti
studi antropologici sulla mobilità transnazionale hanno spesso sottovalutato il ruolo dei genere
nei processi migratori. L'integrazione di una prospettiva di genere nello studio di questi
processi si deve al pieno riconoscimento deli' agency delle donne e si intreccia, da una parte,
con la storia del passaggio dagli studi sulle donne agli studi di genere; dall'altra con la
valorizzazione dell'uso delle fonti orali, dell'antropologia come "ascolto delle voci" anche delle
minoranze. Come quadro generale possiamo utilizzare la schematizzazione di Lutz, la quale
afferma che nel corso degli anni si è passati dai compensatory approach degli anni '80, il cui
obiettivo era quello di rendere visibili le donne nei processi migratori, per arrivare, alla fine
degli anni ottanta e novanta, a un approccio che evidenziava le differenze nelle relazioni di
potere tra donne, mettendo in discussione l'idea di una donna universale, donne, ma anche
all'interno della stessa categoria di genere, dove il genere viene inteso contemporaneamente
come ; prodotto e come produttore dell'ordine sociale.
Nello studio delle migrazioni femminili un ruolo decisivo è stato giocato dal contributo delle
antropologhe femministe non occidentali che hanno contribuito a porre l'attenzione sulle
minoranze e quindi sulle donne migranti. Queste studiose muovevano profonde critiche
epistemologiche alle femministe occidentali accusandole di vedere la donna come unico
soggetto universale. Al contrario, queste studiose non occidentali, proponevano di declinare la
categoria di donna incrociandola con molte altre categorie come quella di razza, classe sociale,
orientamento sessuale, religione, etnia, proprio per mettere in evidenza che donne di
popolazioni diverse non condividono le stesse priorità sociali, politiche e culturali. In ogni
società agiscono plurime ideologie di genere, di definizioni di maschile e di femminile, che si
intersecano e che cambiano a seconda dei contesti e dei processi locali in quanto "esistono
centri molteplici, esperienze locali, gruppi circoscritti e sapere situati". Si parla di un nuovo
femminismo che viaggia attraverso il mondo. È grazie a queste critiche che tra gli anni ottanta
e novanta l'attenzione, prima concentrata sulla differenza fra culture e tra uomini e donne,
venne indirizzata sulle differenze all'interno di una stessa cultura e di uno stesso genere.
funzione importante nei processi migratori, che scaturiscono proprio dalia combinazione fra
motivazione individuale e progetto familiare. Particolare rilievo è attribuito alla famiglia
transnazionale e all'analisi dei rapporti economici e affettivi che si giocano tra individui dislocati
territorialmente e le cui configurazioni si modificano rapidamente apportando cambiamenti
significativi sta nelle relazioni di genere sia in quelle intergenerazionali. Alcuni studiosi hanno
ridimensionato il ruolo positivo delle famiglie transnazionali sottolineando il fatto che la
migrazione può contribuire invece a disarticolare la famiglia e a disintegrare i rapporti familiari
esistenti, pur non spezzandoli del tutto. Le famiglie transnazionali vivrebbero così in un confine
tra disgregazione e sopravvivenza familiare. Anche se in forme piuttosto diverse a seconda dei
differenti contesti, la migrazione sembra aver contribuito a cambiare non solo la condizione
femminile ma anche quella maschile sebbene, nel caso delle famiglie rurali, la società
patriarcale e la forte divisione dei ruoli sessuali che identifica la donna con la casa e la cura
della famiglia rimangano forti anche nelle famiglie transnazionali. Ovviamente le situazioni
variano a seconda che a partire siano le donne oppure gli uomini: le spose dei migranti rimaste
in Marocco, ad esempio, sono affidate alla tutela e al controllo di madri o di uomini della
famiglia rimasta in loco. L'acquisizione di potere economico e di mobilità da parte delle donne
migranti può però favorire il consolidamento di nuovi modi di essere donna. In alcuni casi,
quindi, la migrazione femminile incide in modo rilevante sulle relazioni di genere e
l'emancipazione delle donne migranti spesso mette in discussione la tradizionale visione della
donna come garante delia continuità sociale e della memoria locale. Le donne, inoltre,
sembrano più riluttanti a tornare ai luogo di origine, come diversi studiosi hanno messo in
rilievo per le donne marocchine in Spagna, le donne tunisine in Italia, le donne filippine e le
donne rumene, questo dipende dal maggior grado di indipendenza e libertà che sentono di ave
raggiunto nei luogo di immigrazione rispetto alla loro condizione ne! luogo di origine.
L'attenzione alle donne nella migrazione petto anche una luce su duella che Ralrìassar e
Gebaccia (2011 ) rapporto nazione/migranti e ne è regolato: una dimensione che è sempre
stata sottovalutata ma che in realtà è fondamentale per comprendere i processi migratori tanto
quanto la dimensione pubblica. L'attenzione al genere, quindi, significa anche attenzione
all'Intimità, al rapporto privato/soggettività e nazione diasportica. L'antropologia femminista,
dunque, restituisce all'azione sociale la dimensione emotiva e del desiderio nella costruzione
della soggettività.
Paragrafo : 8.4 Mobilità e genere sul campo: finestre etnografiche In questo paragrafo
di declinano delle considerazioni emerse a livello teorico riguardo due ricerche etnografiche:
l'emigrazione delle donne capoverdiane e quella degli uomini del Kerala. Due ricerche
significative perché affrontano le dinamiche che intercorrono tra genere e mobilità da un punto
di vista, rispettivamente, femminile e maschile. Lo studio riguardo gli uomini del Kerala, Stato
del sud dell'India ci invita a leggere la migrazione in relazione alle forme identitarie di
soggettività locale e ai modi diversi di essere uomo, in Kerala, mobilità e costruzione delle
identità maschili risultano fortemente intrecciate. La migrazione sembra svolgere un ruolo
primario nella percezione della mascolinità, nel senso che esalta il rapporto con il denaro,
inteso come forma di esternalizzabile di potenza maschile. L'identità maschile viene
costantemente rinegoziata a seconda delle diverse posizioni che l'uomo può raggiungere. Gli
autori infatti delineano quattro categoria locali di mascolinità, connotate da diversi tempi
migratori: il gulfan che fa riferimento al migrante durante le sue visite periodiche a casa e
subito dopo il suo ritorno e viene rappresentato come una persona individualista, immatura,
che pensa solo ai soldi e a spendere e non ancora reintegrata nella comunità di partenza. Al
suo ritorno, per reinserirsi netta comunità come uomo adulto, il gulfan dovrà trovare un
equilibrio tra due modi estremi di comportarsi: quello di pavan e quello del kallan. Il pavan è
l'uomo senza successo; il kallan, all'opposto, è l'individuo anti- sociale, sradicato che non
rispetta gli obblighi sociali. La quarta figura è infine rappresentata dall'uomo maturo,
capofamiglia, benestante, che si fa carico di molti dei suoi familiari. In Kerala, dunque, per gli
uomini la migrazione è un vero e proprio rito di passaggio che coincide con il rito di iniziazione
all'età adulta. Il ciclo di trasformazione che porta all'età adulta è inestricabilmente legato
all'evento migratorio. L'altro studio fa riferimento al periodo storico degli anni Settanta del
Novecento a Capo Verde. È proprio in questo periodo che in questo territorio ha cominciato ad
assumere consistenza l'emigrazione femminile, in particola modo dalle isole di Santo Antao.
L'emigrazione femminile rappresenta una novità per la società capoverdiana, in quanto le
donne tipicamente restavano a occuparsi della casa e del sostentamento dei figli avendo
qualche scarsa possibilità di lavoro nel settore pubblico, nell'agricoltura di sussistenza e nel
piccolo commercio. La società capoverdiana è modellata su un sistema parentale matrifocale in
cui la diade madre-figlio è l'elemento primario e in cui è la stessa madre a essere responsabile
dell'unità domestica e del sostentamento delia famiglia anche in presenza del padre, figura da
rispettare ma che non ha il "dovere" di
CAPITOLO 9 LAVORO
Autore : Sebastiano Ceschi
INTRO
Migrazioni e lavoro sono due fenomeni indissolubilmente connessi. Nella opinione media si
emigra a causa di mancanza di opportunità lavorative. I movimenti migratori degli ultimi
decenni sono dominati da ragioni economiche. I contratti sono la condizione a monte per la
partenza.
Nelle autorappresentazioni di chi espatria il lavoro è il terreno su cui generalmente si giocano
le proprie fortune e progetti di vita, la propria "posizione nel mondo" e spesso anche la propria
identità. Per la società di destinazione, quella del "migrante lavoratore" rappresenta la
principale forma giuridica per i diritti di soggiorno, l'immagine sociale legittima dello straniero,
la condizione per la sua accettabilità. Il lavoro, inteso come spazio esistenziale e sociologico, è
dunque, al tempo stesso, causa e promessa (della emigrazione) e aspettativa e risultato
(dell'immigrazione), è necessità quotidiana e risorsa relazionale, condizione materiale e
simbolica per il restare e prospettiva per il ripartire.
ANTROPOLOGIA, LAVORO, MIGRAZIONI: UNA TRIANGOLAZIONE ANCORA INCERTA
L'antropologia del lavoro è nebulosa e incerta. Lavoro=oggetto sociale compatto. Fortemente
connesso con il potere, la soc e il pensiero.
Per lungo tempo il lavoro non è stato tematizzato dall'antropologia come campo di analisi
specifico e dimensione fondante di pratiche socio-culturali, ma visto piuttosto come il riflesso
del sistema. Il lavoro in antropologia diventa elemento centrale nello studio delle società
complesse. Il suo stretto legame con l'organizzazione della società e i suoi valori, l'integrazione
soc, diritti e identità.. ne fanno una sorta di fatto sociale totale (Mauss)
Mayo negli anni 20 30 fece un lavoro di ricerca di antropologia applicata di antropologia
industriale focalizzandosi sulle dinamiche lavorative, relazionali e culturali di singole imprese.
L'attenzione si sposta su contesti di relazioni sociali con la fabbrica e i suoi lavoratori, sulle
interazioni tra il sistema capitalistico mondiale e le dinamiche economiche e socio-culturali
locali. Nell'ambito dello studio delle migrazioni si segnalano alcune recenti indagini etnografiche
focalizzate sulla sfera del lavoro e sulla relazione con processi e pratiche transnazionali. Si
segnalano ricerche di analisi del lavoro delle nuove migrazioni interne in Italia connesse al
lavoro informale e alle forme di neorazzismo tra lavoratori migranti italiani e stranieri.
STRUMENTI TEORICI E ANALITICI PER UN'ANTROPOLOGIA DEL LAVORO MIGRANTE
Oggi le forme di mobilità sono molto diversificate: stagionale, forzata, irregolare, per
ricongiungimento familiare e le figure di immigranti anche lo sono: manodopera non
qualificata, qualificata, minori non accompagnati, asilo, rifugiati.
La componente immigrata presente nelle nostre società è complessa ed eterogenea e le
"diversità di genere, età, competenze ecc configurano le categorie di migranti in base a
progetti e potenzialità". Alla pluralizzazione delle forme del lavoro contemporaneo corrisponde
la diversificazione della figura del migrante oggi. I migranti hanno giocato un ruolo nella
globalizzazione dei processi produttivi "figure cruciali di una serie di dinamiche economiche"
per una richiesta di lavoratori flessibili, nel basso terziario, nella cura e assistenza. La
manodopera immigrata si inserisce in questo mercato del lavoro segnato da precarizzazione.
MIGRANTI E LAVORO SUBORDINATO
Il progressivo formarsi di un immagine sociale e mediatica stereotipata e stigmatizzante del
migrante – dagli anni '90 e poi sempre più legittimata dal discorso pubblico durante il 2000 e
oltre! - ha favorito meccanismi di discriminazione e legittimato comportamenti penalizzanti
anche in ambito lavorativo. Si sottolineano effetti della precarizzazione dei migranti da parte
delle politiche migratorie, configurazione che produce politiche securitarie.
Il funzionamento del mercato del lavoro e la condizione di deportabilità dei migranti assicurata
in Europa dal processo intorno a una nuova declinazione di confine in cui la dimensione del
lavoro costituisce un tema sensibile.
L'antropologia identifica nella manodopera migrante una crescente categoria di persone
socioeconomicamente, politicamente marginalizzate.
ETNOGRAFIA DEL LAVORO MIGRANTE E DIMENSIONE TRANSNAZIONALE
Integrazione lavorativa nella condizione di straniero subisce processi di razializzazione. I
percorsi sono plasmati da scelte del singolo migrante frutto di una dialettica tra diversi luoghi
reali e immaginati e di una visione transnazionale.
Fare etnografia dei e nei luoghi di lavoro.
Una presenza prolungata permette di osservare i comportamenti, le conversazioni spontanee,
le collaborazioni e la raccolta della voce dei protagonisti a caldo, dal e nel luogo del lavoro..
documentare il fluire di azioni e parole quotidiane, cogliere il non detto, "ciò che accade senza
dirlo, oltre le parole".
2 analisi lavoro migrante svolto in Italia:
-lavoro operaio senegalesi in fabbrica provincia di Bergamo , tesi dottorato Ceschi
-cantiere edile provincia di Bologna , Domenico Perrotta
fabbrica luogo simbolo di un assetto sociale basato sulla divisione di classe ha perso
progressivamente la sua centralità.
Le relazioni operaie e i conflitti di classe non producono più appartenenze sociali inclusive ma
sono sostituite da processi di identificazione di tipo culturale, religioso, etnico.
Sia io che Perrotta descriviamo la parziale autonomia del luogo di lavoro fatta di identità,
modalità, relazioni, codici di comp, senza mai perdere di vista i processi e le vicende esterne
ed i loro effetti sul campo etnografico. Io e Perrotta diversi posizionamenti sul campo. Nel mio
caso era un caso etnografico dichiarato e pubblico, Perrotta svolge un'osservazione cooperata
mimetizzandosi tra i lavoratori e condividendo con loro tutte le fasi e le incombenze del lavoro.
Perrotta sociologo, io antropologo.
CONCLUSIONI
I lavoratori migranti sono attori storicamente situati che organizzano la loro soggettività e la
loro agency, alternando scenari di costruzione e ingabbiamento a invenzione di una
soggettività lavorativa. Il lavoro risulta permeabile alla cultura, al genere, alle interazioni
simboliche e di potere, all'incontro tra codici ed attitudini dei lavoratori, in breve alla dinamica
del mondo sociale circostante. Mi auguro che l'antropologia possa offrire agli studi sociali sul
lavoro quella sensibilità propria della disciplina, una visione pluridimensionale e multi-situata.
CAPITOLO 10 RELIGIONI
Autore : Sara Bonfanti
INTRO
Istituire connessioni tra le religioni nel mondo significa fare i conti con un opera di traduzione
imperfetta e discutibile (Bowie). Prima che la globalizzazione diventasse una dimensione
quotidiana per il pianeta missionari e istitutori, pellegrini e commercianti hanno dato vita per
secoli a connessioni trans-locali dell'esperienza religiosa
cosa rende rilevante il rapporto tra religioni e migrazioni oggi? La religione è rimasta ai margini
dei migration studies fino ad anni recenti.
Sgretolata l'icona del pianeta come mosaico di culture, è venuta meno anche l'immagine
statica delle religioni: le fedi si spostano e si trasformano.
Gli studi etnografici evidenziano come ogni religione plasma e viene plasmata dall'esperienza
migratoria: il viaggio, l'insediamento in un nuovo contesto e l'instaurarsi di legami sociali
transnazionali.
L'affiliazione religiosa unisce tutti i suoi membri in comunità immaginate globali, permettendo
loro di sentirsi parte.
FENOMENI RELIGIOSI E APPROCCI INTERPRETATIVI: STORIE IN CORSO D'OPERA
L'approccio simbolico avanzato da Geerz 1966 vede nella religione un sistema culturale " un
sistema di simboli che agisce per stati d'animo,, motivazioni, formulazione di concetti
sull'ordine dell'esistenza rivestita da un'aura. Ma questa definizione è dinamica in quanto tutti i
sistemi religiosi funzionano per simboli e per relazione col cosmo che da ordine e senso al
mondo.. La realtà è un continuo processo di significazione culturale di cui la religione è parte
integrante.. L'idea geerziana di religione è strumento adeguato per fronteggiare le assenze del
migrante tra due sponde. I gruppi immigrati, riuniti in confraternite o sedi, sembrano
sperimentare una dimensione di communitas (Turner 1969), di condivisione fraterna
contrapposta alle regole e a gerarchie della società esterna.. La religione è una categoria
etnomonocentrica e elemento di rivendicazione identitaria Gli studi attuali sul nesso
migrazione-religione nel mondo globalizzato evidenziano la duttilità dei sistemi religiosi al
cambiamento, che risponde al movimento di persone, oggetti, capitali, simboli ecc.
La polifunzionalità del discorso religioso permette agli attori sociali di riscrivere la loro storia.
I credenti usano simboli e idee per immaginarsi e collocarsi in un panorama di fede che si
affianca ad altro i universi simbolici: stati, etnie, comunità di vario tipo. Il lavoro etnografico
permette di osservare come le credenze religiose plasmano diritti e doveri. Praticare un
etnografia religiosa del movimento diventa un'impresa non solo multi-locale, ma spesso
nemmeno ubicata in un contesto preciso. Le pratiche , mobili della religiosità richiedono anche
l'addestramento del nostro sguardo a nuovi oggetti di indagine come ad esempio l'uso
massiccio dei mezzi di comunicazione. L'adeguamento tecnologico è rappresentativo dei
sistemi religiosi e della loro capacità di agire e reagire a processi trasformativi.
L'organizzazione mediatica delle confraternite musulmane, l'ascolto dei sermoni registrati, le
comunità on-line, è un esempio della forma transnazionale dei culti.
FARE ETNOGRAFIA TRA RELIGIONI GLOBALI, DIASPORE E PRATICHE RELIGIOSE
TRANSNAZIONALI nel cattolicesimo si trova in molti paesi al sud e del mondo. il filo diretto
tra sud America e Europa si è formalizzato attraverso i gemellaggi diocesani da una sponda
all'altra dell'atlantico, divenuti canali privilegiati di movimenti migratori . SONO FAILITATORI
DI MOVIEMNTI MIGRATORI come ad esempio le badanti in Italia sono indirizzate da sodalizi
internazionali tra diocesani.
CAPITOLO 12 SCUOLA
(capitolo riassunto da Lucia non completo di seguito il cap 12 riassunto da altri)
Autore : Mara Benadusi
Il rapporto tra scuola e migrazioni è stato oggetto di dibattito. Gli alunni cosiddetti "immigrati",
quando valicano la porta della classe non trovano solo compiti didattici al pari degli altri ma un
ambiente che ha una idea sul loro apprendimento e si tende a trasformarli in problemi in
misura maggiore rispetto agli altri studenti. Quello che gli antropologi sanno fare meglio è
adoperare i problemi che gli altri si e ci pongono per riordinare le nostre posture teoriche e
pratiche. Nella prima parte teorica esporrò lo stato dell'arte degli studi antropologici delle
migrazioni nel contesto scolastico. Teorie e approcci. Seconda parte esempi etnografici.
LE LENTI DELL'ANTROPOLOGIA EDUCATIVA
Dalla rassegna degli studi di etnografia educativa nel mondo curata da Anderson-Levitt
emergono due dati interessanti. Il primo è che anche in Europa stiamo assistendo a una
crescita della ricerca antropologica su processi di scolarizzazione. Il secondo riguarda
l'emergenza degli studi su scuola e migrazioni in contesti marginali.
Es Argentina anni 90 migrazioni, cosa succede con alunni diversi.. es. Israele.. quali modalità
le scuole utilizzano per trasformare gli immigrati in israeliani, modalità, strategie di
adattamento, processi di stigmatizzazione e assimilazione forzata salto p 145
PER SCELTA O PER FORZA?
La novità del modello culturale di Ogbu è la distinzione tra minoranze volontarie, involontarie e
autonome. Ciò che secondo Ogbu distingue maggiormente gli immigrati dagli altri
raggruppamenti sono i fattori di intenzionalità che hanno originato il loro status di minoranza.
Afroamericani, portoricani sociale dei genitori immigrati sviluppano nei figli una positività verso
l'istruzione, assente invece nelle minoranze involontarie. Queste propongono il loro gruppo in
una condizione di subordinazione, senza possibilità di ascesa. Se per uno studente afro-
americano andare bene a scuola espone al rischio di essere considerato traditore (acting white,
acting like uncle Tom), molti genitori immigrati insegnano ai figli quel che Margaret Gibson
definisce una strategia di "adattamento senza assimilizzazione"
SCOVARE IL SUCCESSO NELL'INSUCCESSO
Gibson segnala che la ricerca comparativa smentisce l'ipotesi di Ogbu: per quanto i giovani
Punjabi da lei studiati ottengano buoni risultati con una strategia adattiva devono cimentarsi
con una discontinuità tra cultura familiare e scolastica.
Minoranze volontarie, facendo resistenza all'istruzione, creano scompiglio in classe. Può
accadere alle sec e terze generazioni. Ad esempio, secondo Suarez-Orozco. Messicani cubani e
portoricani adottano risposte all'istruzione diversificate. Gli immigrati ispanici arrivati di recente
mostrano impegno scolastico e valori familiari... il senso del dovere è per ripagare i familiari
per i sacrifici che l'emigrazione comporta; un'attitudine che viene meno con il passaggio alla
generazione successiva.
MODULAZIONI E RESISTENZE
Gli antropologi americani hanno fatto ricorso al concetto di rsistenza. Erikson usa questo
concetto per sviluppare una visione della struttura sociale in cui accanto a fattori etnici
emergono altri elementi come il genere, l'appartenenza politica e la classe sociale.
Il successo è qualcosa che le scuole e gli studenti "agiscono", producono, mettono in opera.
Peter McLaren , uno dei fondatori della pedagogia critica americana fa un etnografia su una
scuola media e spiega come nelle comunità immigrate ci siano comportamenti oppositivi delle
minoranze involontarie. I genitori portoghesi arrivati dalle Azzorre in un quartiere di Toronto
mandano ai loro figli messaggi contrastanti: aspirazioni di lotta e rivendicazione, "strategia per
uscire dalla povertà" quindi una convinzione per ottenere un lavoro da "colletto blu", stessa
vita dura e subordinata dei genitori.
LE PICCOLE TRADIZIONI
Fino agli anni 70 in Francia ignoravano di essere un paese di approdo e i figli degli immigrati
erano inclusi nella classe operaia. in gran Bretagna il modello assimilativo di politica educativa
degli studenti di minoranza etnica è arrivato solo negli anni 70, in Germania negli anni 90
QUALI MIGRAZIONI, IN QUALI SCUOLE?
Francesca Gobbo lavora sul rendimento scolastico delle minoranze ed ha mostrato che gli
alunni immigrati, più che trattare il problema di apprendimento, può essere l'occasione per
"problematizzare il contesto scolastico" dell'accoglienza a scuola (.......)
LE SCUOLE INCONTRANO I MIGRANTI
Ho svolto la mia ricerca in una scuola materna ed elementare -in sintonia con la normativa
nazionale sull'educazione interculturale-. Era il 2000 e la percentuale di alunni di origine
immigrata erano il 10 per cento. Avevo deciso di confrontarmi con il tema della governance a
scuola per capire come questa dimensione, promossa nelle strategie dirigenziali, venisse
tradotta e incorporata in pratiche educative. Decisi così che la mia sarebbe stata un'analisi
culturale della scuola alle prese con l'integrazione educativa, con il discorso e le prassi
dell’intercultura. I bambini immigrati e non, sembravano impegnati soprattutto sugli ingranaggi
delle relazioni e ad essere riconosciuti bravi dai loro insegnanti si ma soprattutto dai loro pari.
Analizzare la relazione scuola/migrazioni mi portava così a scoprire l'urgenza di un
cambiamento di prospettiva e spostare l'attenzione dai problemi dovuti alla presenza di culture
diverse nell'ambiente scolastico, alla cultura che produce una situazione in cui questi problemi
vengono considerati tali. L’intercultura segnalava la crisi di un modello di "multiculturalismo
all'italiana" ancora tutto da immaginare.
I MIGRANTI INCONTRANO LE SCUOLE
Ricerche Francesca Galloni tra giovani di origine punjabi nel cremonese. Ricerca etnografica
sulla scuola. Ci mostra come la strategia adattiva venga usata dai giovani indiani a cremona
per rispondere non tanto alle aspettative che l'istruzione scolastica ripone su di loro, quanto al
gruppo dei pari.. La ricerca riguardava il comprendere come un certo gruppo di giovani di
origine immigrata si stesse confrontando con il mondo della scuola o, più in generale, con le
sfide legate al processo di socializzazione.
CONCLUSIONI
Nei due casi etnografici vediamo come sia i migranti che le scuole sono sollecitati a un
processo di ristrutturazione identitaria. Quindi, anche le scuole sono richiamate a ristrutturarsi
nella loro identità istituzionale, politica, educativa, nei confronti quotidiani con il mondo della
migrazione. La scuola deve essere al tempo stesso "specchio della società" e "luogo di
produzione della società". Per quanti studiano la relazione scuola/ migrazioni diventa quindi
impellente porsi nell'ottica di "comprendere per educare". Riflettere sulle forme di
collaborazione che contemplano un coinvolgimento diretto degli altri nella pratica etnografica,
Gli insegnanti possono essere etnografi e i migranti nel ruolo di studenti ne avrebbero forza e
voglia?
Capitolo 12 SCUOLA
Il rapporto tra scuola e migrazioni è stato oggetto di ampio dibattito in seno alle discipline
antropologiche, in particolare nell'ambito degli studi di antropologia dell'educazione.
Paragrafo : 12.1 Le lenti dell’antropologia educativa
Il rapporto scuola/migrazioni è entrato tra gli interessi dell’antropologia educativa fin dagli
esordi circa a metà degli anni 50 nel Novecento negli Stati Uniti. È stato nel corso degli anni
’80 tuttavia, che l’analisi delle migrazioni nel contesto scolastico ha cominciato ad assumere
forma più compiuta. L’antropologia ha cominciato così a interrogarsi in maniera sistemica sulle
ragioni determinanti l’insuccesso scolastico degli alunni definiti in minoranza.
Paragrafo : 12.2 La grande tradizione
La peculiarità maggiore delle ricerche condotte in Nord America sulla scolarizzazione dei
giovani di origine immigrata risiede nell’enfasi posta sulle differenze etnico razziali.
L’importanza attribuita alle differenze etnico razziali deriva dal ruolo dei movimenti di
rivendicazione identitaria negli anni ’70, quando i gruppi di minoranza cominciarono a
reclamare il diritto all’autodeterminazione, fondando tale richiesta proprio sul riconoscimento
della propria identità etnica. È stato in quel preciso frangente storico che concetti come quello
di “multiculturalismo”, “società multiculturale” hanno cominciato a circolare nel linguaggio e
nelle politiche scolastiche. Il rendimento declinato in termini di successo/insuccesso, e lo
scontro culturale tra alunni di minoranza e cultura della maggioranza a scuola sono le
problematiche più indagate nella tradizione americana.
Sottoparagrafo : 12.2.1 Il mondo della scuola e i mondi culturali delle minoranze
Per spiegare le situazioni di clash tra minoranze e maggioranza nel contesto scolastico bisogna
esplorare in profondità la distanza che esiste tra questi due mondi: gli impliciti culturali che
strutturano l’ambiente istituzionale della scuola, ossia l’insieme dei valori, delle normi di
comportamento che informano il mondo scolastico; e gli assetti culturali che governano i
mondi spesso incommensurabilmente diversi da cui gli studenti di minoranza provengono,
ovvero la loro cultura familiare, le aspettative che questa ripone sull’istruzione e gli stili
educativi (compiti, saperi) prevalenti nella comunità di appartenenza. La distanza tra questi
mondi viene considerata causa dei problemi che essi riscontrano a scuola. La ricerca
antropologica nelle scuole è animata da un forte impegno sociale: riconfigurare le pratiche
didattiche e gli stili comunicativi che governano le istituzioni scolastiche è l’unico modo per
renderli più sintonici alle culture e alle aspettative dei gruppi di minoranza, riducendo così la
discontinuità culturale all’origine del loro insuccesso.
Sottoparagrafo : 12.2.2. Per scelta o per forza? La novità maggiore che il modello
ecologico culturale di John Ogbu ha introdotto nello studio del rendimento scolastico degli
alunni immigrati è la distinzione tra minoranze volontarie, involontarie e autonome. Ciò che,
secondo Ogbu, distingue maggiormente gli immigranti dagli altri raggruppamenti sono i fattori
di intenzionalità che hanno originato il loro status di minoranza. Mentre afroamericani, nativi
americani o portoricani negli Stati Uniti si trovano a subire una condizione di disuguaglianza
sociale e discriminazione economica per via di una storia di inclusione forzata nella società
(schiavitù), i gruppi immigrati in genere hanno optato per la migrazione considerandola una
via di accesso a condizione di vita migliori da quelle vissute nel paese di origine. Detto in altri
termini, mentre i primi sono minoranze “per forza”, involontarie, le seconde lo sono “per
scelta”, volontarie. Queste ultime per tanto, sono disposte a pagare un prezzo per integrarsi a
pieno nella società di approdo. Ciò che avviene a scuola è quindi influenzato da come il gruppo
di minoranza percepisce l’istruzione e vi risponde, non tanto dalle differenze etnico-razziali.
Molti genitori immigrati insegnano ai figli la strategia che Margaret Gibson definisce di
“adattamento senza assimilazione”: i giovani sono volenterosi e cercano di seguire il gioco di
classe stando alle regole, si sforzano di comprendere il modo in cui funzionale la scuola e di
raggiungere le abilità necessarie ad una buona riuscita, senza entrare in contraddizione e
rinunciare alla cultura di appartenenza.
Sottoparagrafo : 12.2.3 Scovare il successo nell’insuccesso Le critiche al modello di
Ogbu, per il suo determinismo non sono mancate. La stessa Gibson afferma che per quanto i
giovani Punjabi da lei studiati ottengano in genere buoni risultati, ricorrendo a strategie
adattive, altri alunni di origine immigrata, specialmente quelli arrivati più di recente, devono
cimentarsi con una forte discontinuità tra cultura familiare e cultura scolastica, con un curricolo
nuovo e con la necessità di sopravvivere finanziariamente, tra l’altro in un contesto non
sempre accogliente nei loro confronti. Ciò può spingerli a vedere la scuola come una minaccia
per la propria identità e di conseguenza, a sviluppare risposte simili a quelle delle minoranze
involontarie, facendo resistenza all’istruzione e cercando deliberatamente di creare scompiglio
in classe. D’altro canto anche l’identità, gli atteggiamenti e le aspettative di uno studenti di
minoranza involontaria possono essere costantemente rinegoziati in risposta alle politiche e
alle relazioni sociali che caratterizzano il contesto locale e l’ambiente specifico della scuola,
contribuendo a produrre esiti di successo, nonostante le condizioni socio-economiche siano
sfavorevoli.
Sottoparagrafo : 12.2.4 Modulazioni e resistenze
Per superare tali limiti alcuni antropologi americani hanno fatto ricorso al concetto di
“resistenza”.
Il fallimento delle minoranza secondo Erickson è prodotto sia da ciò che le scuole fanno perché
certi studenti vadano male, sia da quello che gli studenti stessi fanno per resistere alla riuscita
scolastica. Parlare di successo ha lo stesso significato riflessivo: il successo è qualcosa che le
scuole così come gli studenti “agiscono”, mettono in opera, producono. Anche Peter McLaren
spiega come nelle comunità immigrare si riscontrino spesso gli stessi comportamenti oppositivi
che Ogbu considera tipici delle minoranze involontarie. McLaren ritiene che le forme di
resistenza a cui gli studenti ricorrono in classe siano risposte endogene alla “cultura di potere”
della propria scuola, che impone uno stato di dolore e sofferenza, tra l’altro creando un nesso
perverso tra l’identità di “buon cattolico” e quella di lavoratore affidabile in un sistema a
capitalismo avanzato.
Paragrafo : 12.3 Le piccole tradizioni
Esista una tendenza in Europa a catalogare la ricerca sul rapporto scuola/migrazioni in
funzione della durata dei flussi, affidandosi alla suddivisione tra paesi storicamente meta di
migrazione, e quindi con una lunga esperienza nel gestire l’istruzione dei figli immigrati, e
paesi di nuovo afflusso migratorio, che prima esportavano manodopera all’estero e oggi si
trovano, ad accogliere un numero crescente di lavoratori immigrati. Fino agli anni ’70 del 900
stati come la Francia, ignoravano si essere un paese di approdo. Lo dimostra il fatto che per
tutti gli anni ’60 il tema dell’immigrazione è stato assente dalle ricerche sul sistema scolastico:
“i figli degli immigrati erano inclusi nella più ampia classe operaia”. E’ stato con il diffondersi
della crisi economica e con la svolta legislativa del decennio successivo che si è consapevolezza
circa i problemi degli studenti di origine immigrata. È dal quel momento che in Francia è nata
una nuova terminologia identificativo discriminatoria, che utilizza espressioni come “figli di
immigrati” o “immigrati di seconda generazione”. Lo stesso succede in Gran Bretagna dove il
modello assimilativo di politica educativa degli “studenti di minoranza etnica” ha cominciato a
declinare solo nel corso degli anni ’70 ed è solo negli anni 80 che viene sancito un
orientamento di tipo interculturale. Anche nel caso della Germania è solamente negli anni ’90
che la “semantica migratoria emerge in maniera prorompente nella giustificazione e nella
rappresentazione del fallimento scolastico”, influendo sulla diffusione di un programma
pedagogico interculturale. In Spagna e in Italia gli ostacoli legati al processo di
naturalizzazione e all’ottenimento della cittadinanza da parte dei migranti rendono il dibattito
più acceso, se si analizzano la qualità delle relazioni scolastiche oppure se ci si interroga sulle
reali occasioni di mobilità sociale e di equità educativa offerta dalla scuola a questi giovani. In
Portogallo invece l’immigrazione è stata un fenomeno storicamente rilevante già dagli anni ’70,
per via degli arrivi delle ex colonie.
La discontinuità esistente tra le diverse tradizioni in Europa è senz’altro determinata dai
contesti istituzionali, che si differenziano dal punto di vista delle politiche scolastiche e della
normativa regolante i flussi. Ci sono contesti come quello tedesco che prediligono il sistema
dell’omogeneità nella formazione delle classi e altri, come il nostro, in cui prevale invece quello
dell’eterogeneità; contesti dove si è fatta lunga esperienza di percorsi di educazione separata
per le minoranze (Francia), e contesti al contrario il cui l’integrazione avviene per tutti negli
stessi binari scolastici, come l’Italia.
Sottoparagrafo : 12.4.2 I migranti incontrano le scuole
Francesca Galloni usa l’approccio sulla discontinuità culturale e l’etno-ecologia dell’educazione
di Ogbu per spiegare i comportamenti degli alunni punjiabi a scuola. La tesi proposta da
Gibson, di una strategia di adattamento senza assimilazione, non trova riscontro nel caso
italiano. I ragazzi studiati da Gibson riuscivano a fare coesistere la condizione di figli rispettosi
con un identità di bravi alunni. Galloni mostra, invece, come la strategia adattiva venga usata
dai giovani indiani a Cremona per rispondere non tanto alle aspettative che l’istituzione
scolastica ripone su di loro, quanto alle attese del gruppo die pari. Gli studenti punjabi ne
cremonese “cercano veramente un buon inserimento a scuola, ma nel mondo dei coetanei”,
per socializzarsi meglio quindi più che per raggiungere un’istruzione adeguata. Conquistare le
abilità necessarie per l’accettazione da parte dei pari, però non significa mettere in dubbio la
propria identità familiare o rifiutarla.
Abbiamo visto come i migranti siano sollecitati a mettere in atto un processo di ristrutturazione
identitaria quando si relazionano allo spazio scolastico. Lo stesso vale per le scuole anch’esse
sono chiamate a ristrutturarsi nella loro identità istituzionale, politica, educativa, nel confronto
quotidiano con i modo di della migrazione.
CAPITOLO 13 PROSTITUZIONI
Autore : Federico Salsi
UN TIPO DI MIGRAZIONE COME LE ALTRE?
La prostituzione si confronta con il fenomeno della migrazione. Le migrazioni per lavoro
sessuale non sono comprensibili all'interno di un'unica teoria che ne spieghi dinamiche e
funzionamenti ma risulta fondamentale l'analisi dei fattori economici e socioculturali, le reti
transnazionali e i desideri individuali. Il fenomeno della prostituzione di persone migranti non è
ascrivibile esclusivamente al genere femminile.
La relazione tra i flussi migratori globali e i fattori di attrazione e di spinta legate al genere
femminile accomuna la migrazione per lavoro sessuale a quelle attività professionali,
generalmente svolte da donne, collaboratrici domestiche, badanti, tate. Il fenomeno colpisce
famiglie con anziani e bambini perché spesso sono le donne a farsene carico
—donne brasiliane Spagna e Italia -Piscitelli- 2009. Analizzando le strategie migratorie sostiene
come la migrazione rappresenti una scelta razionale volta al miglioramento della condizione di
vita personale. La migrazione per prostituzione può assumere caratteristiche d'imprenditorialità
transnazionale che consegue risultati come l'acquisto di terreni o l'avvio di attività commerciali.
—sex worker in club svizzeri -Chimenti- 2010. la prostituzione come pratica che favorisce
empowerment tramite l'ottenimento di obbiettivi (aiutare la famiglia). E' una scelta razionale in
cui il senso di costrizione e inganno è assente.
— Madrid. Laura Maria Augustin. Questa attività è considerata una scelta preferenziale rispetto
a colf o babysitter
n.75 del 1958 legge Merlin = regolamentazione di stampo abolizionista che non
riconosce la prostituzione nè comme professione nè come crimine, considerata
un'attività di cui solo chi la esercita può goderne i proventi economici, vietandone
favoreggiamento e sfruttamento.
GIOVANI MIGRANTI ERRANTI NELLE PIAZZE EUROPEE
Nicola Mai 2009-11 indaga i minori e i giovani provenienti dal nord Africa e dall'est Europa
(Romania-Albania) che si spostano in Grecia, Spagna, Olanda, Italia, Francia e Regno Unito
vendendo servizi sessuali a una clientela maschile per realizzare il loro progetto migratorio.
Fanno riferimento a un futuro e fantasioso ritorno alla madrepatria come emigranti di
successo.
DON KULICK E LE MEMORIE DELLE TRANSESSUALI DI BAHIA DI RITORNO IN ITALIA
Don Kulick 2008 nella sua etnografia tra le trans a Salvador de Bahia evidenzia come
l'immigrazione temporanea in Italia comporta un ritorno in Brasile e l'acquisizione di uno status
sociale più elevato. Il viaggio è reso possibile da una transessuale che mette a disposizione sia
il capitale che le conoscenze. Il sistema non esclude che la nuova arrivata sia esposta a forme
di sfruttamento per la restituzione del debito con interessi del 400percento. Fino a che il debito
non sarà saldato sono vincolate alla cofetina(sfruttatrice) per affitto di casa, posto dove
prostituirsi.. Il fallimento del progetto migratorio consiste nel riuscire o meno nell'intento di
tornare arricchite in Brasile e dal coinvolgimento o meno in situazioni di dipendenza da droghe
o legame con uomini italiani. Il fidanzato rappresenta un pericolo perché può approfittare della
transessuale facendola innamorare per soldi o per derubare per poi sparire.
LE TRANS-MIGRANTI BRASILIANE A REGGIO EMILIA E A SALVADOR DE BAHIA
Ricerca etnografica che ho svolto tra le transessuali brasiliane in strada a Reggio Emilia in cui
emergono vissuti di discriminazione ed espulsione da parte della famiglia. La prostituzione
diventa spesso una delle più concrete possibilità.
Nei loro racconti anche le istituzioni brasiliane hanno un atteggiamento discriminatorio. Questa
discriminazione rende difficile trovare un occupazione alternativa alla prostituzione.
Marylin, una transessuale brasiliana fra le principali protagoniste della ricerca, spiega come la
trans che si prostituisce in Italia sia un modello di riuscita sociale. Le condizioni della cofetina
sono di solito accettate anche con gli interessi. Una volta pagato il debito mirano a continuare
il loro progetto migratorio con maggiore autonomia. Emerge volontarietà e progettualità.
L'esperienza migratoria ha come obbiettivo il miglioramento delle condizioni di vita anche della
famiglia. E' proprio il riconoscimento di un legame affettivo "normale" che viene ricercato dalle
trans che aiutano le loro famiglie, anche quando queste le hanno espulse e sono state motivo
di sofferenza.
L'esperienza della prostituzione in Italia riplasma l'auto-rappresentazione della sessualità.
Solitamente le trans accentuano la loro femminilità invece, in base alla richiesta del cliente,
assumono un ruolo attivo e dominante nel rapporto (es. Marylin riscopre il piacere di
penetrare). La domanda di servizi sessuali influenza l'identità di genere..il corpo e l'identità si
ridefiniscono. E' un esperienza capace di riplasmare non solo l'identità pubblica e familiare ma
le più intime rappresentazioni della sessualità entrando a contatto con modelli di genere,
desideri, vincoli e possibilità.
MIGRANTI RUMENE PER LAVORO SESSUALE IN EMILIA-ROMAGNA
L'indagine etnografica è stata svolta tra migranti rumene che si presa in strada a Reggio
Emilia. Generalmente lo spazio di agency viene annullato nella retorica della narrazione della
tratta. La tratta è un approccio vittimista che rischia di innescare un processo che distoglie
dalla complessità del fenomeno. La migrante è a conoscenza dell'attività che andrà a svolgere
ma spesso non è a conoscenza delle condizioni. La prostituzione è spesso assunta come
espressione di marginalità sociale per la pericolosità (aggressioni, sfruttamento, controlli
polizia) Nel 2007 i margini dell'Unione Europea si sono allargati verso est e i rumeni hanno
avuto la libera circolazione Emigravano perché, essendo il salario medio di 400 euro, emigrare
in Italia era allettante.
Il mercato della prostituzione in I è una possibilità efficace per guadagnare grosse quantità di
denaro in tempo limitato , soprattutto se si emigra senza qualificazione professionale. Le
migrazioni possono avere aspetti criminali o svilupparsi attraverso conoscenze, non essendo
necessario l'attraversamento clandestino di frontiere. La volontarietà delle donne che accettano
di intraprendere un progetto migratorio per lavorare nel mercato sessuale è centrale.
CONCLUSIONI
L'attività di prostituzione in un paese straniero è svolta nell'ottica di massimizzare il guadagno
e evitare la stigmatizzazione.. Il ruolo dell'antropologia in questo dibattito è di decostruire
termini e linguaggi caricati di potenziale emotivo e potenzialità mistificatorio.. attraverso una
restituzione della parola ai protagonisti.. Nel considerare la sessualità come forma di potere
(Foucault) l'approccio etnografico guarda la comprensione dei rapporti di potere e la relazione
tra i soggetti che sono in posizione rispetto alle frontiere. Queste sono spazi di controllo e
dominazione, di inclusione subordinata, in un gioco di possibilità individuali.
CAPITOLO 15 SALUTE
Autore : Martino Ardigò, Angelo Stefanini e Brunella Tortoreto
IL DIBATTITO TEORICO: UN APPROCCIO TRANS-DISCIPLINARE
Salute e migrazione costituiscono due sfere del sapere che non possono essere analizzate
attraverso un approccio mono disciplinare. La salute rappresenta un Diritto Umano
Fondamentale, sancito dall'articolo 25 della Dichiarazione Universale dei diritti Umani; alla sua
tutela è dedicata L'OMS. Il contributo qui presentato utilizza l'approccio trans-disciplinare
privilegiando l'indagine dei fattori strutturali coinvolti nella salute dei migranti. Questa scelta
tenta di rendere complementare la ricchezza della letteratura esistente in italiano sul livello
micro e sulla relazione col paziente straniero con un'analisi della cornice macro in cui i processi
locali sono inseriti.
ANTROPOLOGIA MEDICA: QUALI PROSPETTIVE E STRUMENTI PER L'ANALISI DELLA
SALUTE DELLA POPOLAZIONE IMMIGRATA?
La prospettiva dell'antropologia medica è utile per lo studio della salute dei migranti. Uno dei
primi contributi rilevanti per la medicina delle migrazioni proviene dagli antropologi della
cosiddetta scuola di Harvard.. Arthur Kleinman ha intrapreso un percorso di revisione critica
della medicina "occidentale" per ampliare la visione sulla malattia. La malattia è una specifica
categoria prodotta. Medico e paziente possiedono diversi modelli esplicativi (disease e illness)
attraverso cui danno senso alla malattia. Disease e illness devono essere entrambe sp rivelate
per poter giungere alla diagnosi e terapia.
La scuola di Harvard da corpo al lavoro che George Canguilhem che aveva intrapreso nel 40.
"innanzitutto perché gli uomini si sentono malati che vi è una medicina. Secondariamente - per
il fatto che vi è una medicina - gli uomini sanno in cosa sono malati" (C). Il progetto
terapeutico si realizza attraverso un'alleanza tra i vari attori che non può fare a meno del
paziente come soggetto e non solo come mero portatore di un corpo malato sul quale la
biomedicina ha autorità.
Il contributo dell'antropologia è interpretazione dei modelli esplicativi di medico e paziente per
una efficacia terapeutica. Il modello esplicativo di disease (malattia come alterazione del
funzionamento) non è messa in discussione e soltanto la illness è indagata per rileggere la
malattia. La grande attenzione per lo spazio relazionale tra paziente e medico e le
rappresentazioni della malattia esita nel riconoscimento della cultura come dimensione
analitica. Ma la cultura così concepita emerge come un insieme di tratti distintivi, "bagaglio
ereditario" attraverso il quale egli legge la realtà. Rischio.... mancato riconoscimento
dell'agency. Tale idea di cultura è insita nei servizi che si confrontano con i pazienti stranieri, il
cui "ingresso" nella dimensione sanitaria italiana ha sollevato interrogativi in medicina riguardo
la necessità di professionisti nella gestione della complessità. Tale concezione di cultura ha
prodotto identificazione con uno specifico gruppo culturale... ne consegue che la comprensione
di questi tratti c da parte dell'operatore sanitario diventano necessari (i tratti culturali) ai fini
dell'efficacia terapeutica..
Questo approccio rintraccia nella dimensione culturale la chiave di lettura della sofferenza e
disagio psichico dei migranti correndo il rischio di trasformare il riconoscimento
dell'appartenenza culturale dello straniero in una sorta di confine invalicabile che ci separa
dall'Altro.
Per questi motivi, la prospettiva proposta dalla scuola di Harvard è stata affiancata
dall'antropologia medica critica che analizza il ruolo dei processi sociali, politici ed economici
dando enfasi alla sfera della violenza strutturale, sofferenza sociale e violenza simbolica. Il
corpo, oggetto di analisi, è una forma di produzione culturale.. Il corpo è strumento di rapporto
del soggetto col mondo, si costituisce in quanto corpo socialmente informato(Bourdieu). Il
peculiare contributo dell'antr med critica è quello di ampliare la riflessione all'analisi delle
relazioni tra potere e corpi e tra potere, corpo e salute /malattia. Il corpo e la coppia
salute/malattia sono osservati attraverso prospettive multiple nel tentativo di cartografare le
interazioni fra corpo e contesto. Il paradigma dell'incorporazione introduce l'idea di un corpo
dotato di agency, non passivo, materia culturalmente informata e forgiata dalla società, ma
soggetto co-autore delle relazioni con il contesto. L'utilizzo congiunto dell'antropologia medica
critica e della prospettiva bio-politica ci consente di interrogarci rispetto a "qual è la società che
il corpo desidera e di cui ha bisogno?" e "qual è il corpo che la società desidera e di cui ha
bisogano?"D(Sheper-Hughes). Diventa imprescindibile per una comprensione dell'evento
sofferenza la dimensione della sickness (Young) con la quale si intende la trama di processi
sociali che concorrono alla definizione di categorie mediche e produzione di malattia.
La malattia viene osservata considerando:
a) il livello organico disease
b) il significato che produce nell'esistenza della persona malata e a contatto col contesto
sociale illness
c) processi sociali, materiali e simbolici di produzione della malattia sickness
Questo tipo di approccio applicato all'analisi di un tema tanto ampio e complesso come la
salute dei migranti ha il vantaggio di prendere in esame sia i significati culturali che i rapporti
di potere, le condizioni sociali e i processi politici ed economici nella produzione della malattia o
nella riduzione delle possibilità di benessere.. Fassin : nella figura del migrante la violenza
strutturale delle politiche che disciplinano gli ingressi e la possibilità di risiedere nei paesi di
accoglienza rendono corpo e malattia oggetti di controllo da parte dello stato e strumenti di
rivendicazione politica dei diritti per gli immigrati stessi.
CAPITOLO 16 ETNOPSICHIATRIA
Autore : Andrea Pendezzini
INTRO
Psychè, soffio vitale, spirito. Iatreia, arte del prendersi cura. Disciplina che studia il prendersi
cura della psiche in territori e gruppi ben definiti. Psichiatria singolo caso, etnopsichiatria studia
i disturbi e le modalità di cura collegandoli alle caratteristiche del territorio e del gruppo..
Dialoga con diverse discipline, scienze sociali in primis. La dimensione riflessiva e interpretativa
dell'antropologia è un utile chiave di lettura dell'etnopos.. "La sofferenza psichica è critica
implicita dell'ordine sociale, dei rapporti di forza e delle forme di violenza presenti in ogni
contesto, in ogni cultura (Beneduce). L'etnops considera anche le nostre discipline come
etniche.
Non è una branca della psichiatria che si occupa di cura dell' Altro ma riflessioni eretiche che
sottopongono a un esame critico i saperi e le istituzioni di cura per svelare etnocentrismo
inconsapevole e colonizzazione culturale.. Il migrante può sperimentare una fragilità che è ben
lontana dall'essere spiegata dal così detto "shock culturale" che svela l'incorporazione di
dinamiche sociali, geopolitiche ben più ampie, che possono incarnarsi nei corpi sofferenti di chi
migra. Questo ci aiuta a evitare il riferimento alle differenze culturali come strumento lineare
per interpretare la malattia mentale nei pazienti stranieri. L'antropologo e medico Paul Farmer
ci avverte che "la cultura non spiega la sofferenza, al peggio ne offre un alibi"
IL DIBATTITO
l'etnopsichiatria è una questione coloniale. Medici e psichiatri esprimevano giudizi sommari
sulle popolazioni chiamate "primitive". Fino agli anni 60 la psichiatria praticata nei paesi
colonizzati era ancorata al paradigma evoluzionistico e utilizzava una nozione datata di cultura
in termini statici. Sarà Franz Fenon a segnare come la non collaborazione con il potere
straniero occupante, frequentemente agita dai colonizzati, rappresentasse già un atto di
ribellione e la supposta pigrizia mentale un atto di sabotaggio della macchina coloniale. Fanon,
psichiatra, esercita la professione prima in Tunisia, poi in Algeria, si rivolge alla sofferenza dei
colonizzati in nord Africa e agli immigrati in Francia. Critica le pretese di utilizzare test
psicologici senza un esame del contesto culturale e analizza la violenza della cura nella colonia.
Il concetto di incorporazione è centrale (cordas). In particolare l'antropologia medica ha
evidenziato come il corpo non sia solo una semplice entità biologica, ma il risultato di una
rinegoziazione con le forze sociali, politiche, economiche che lo plasmano. Condizionano il
corpo: come si muove le sue posture, la forma. A sua volta il corpo diviene anche strumento
che plasma la dimensione culturale e sociale, diventando così attore di resistenza all'ordine
sociale (Lock, Sheper Hughess).
Un ruolo fondamentale nel gettare le basi della riflessione etnopsichiatrica è di George
Devereux che cercò di sviluppare i rapporti tra psicoanalisi ed etnopsicanalisi sostenendo con
forza il concetto di complementarietà in contrapposizione ad una visione dicotomica.
Letnopsichiatria complementarista ha come obiettivo la formulazione di ipotesi su un dato
fenomeno secondo prospettive esterne (la cultura e la società di appartenenza) e interne (il
soggetto) in cui la società e l'individuo sono due approcci di studio della realtà che offrono due
prospettive con cui costruire dei quadri di riferimento esplicativi autonomi e validi. Insomma
partendo dai principio di indeterminazione di Heisenberg per cui il comportamento che un
essere umano manifesta in presenza di un osservatore non è quello che avrebbe manifestato in
assenza di un osservatore (contratrasnsfert culturale). Devereux costruisce la cornice di lettura
per cui un fatto di per sé non appartiene ad alcuna scienza ma lo stesso fatto può essere
descritto da diversi punti di vista non esprimibili simultaneamente, entrambi validi ma
complementari. Il periodo post coloniale porta nel contesto africano al verificarsi di alcune
esperienze nel campo:
Thomas Adeove Lambo. direttore dell'Aro Hospital, riuscì nell'impresa di coniugare le più
moderne tecniche e le conoscenze moderne con le pratiche e le credenze della religione
tradizionale e le medicine native, l'obiettivo era quello di creare un sistema di accoglienza e
cura psichiatrica fondato sul sincretismo metodologico, ovvero chiamando alcuni guaritori locali
a lavorare insieme allo staff dell'ospedale.
Henri Collomb, medico militare francese (900) Il suo lavoro viene ricordato perché ruppe i
ponti con la tradizione della psichiatria coloniale, quella che sottovalutando l'importanza e la
profondità della cultura indigena, distorceva le valutazioni sugli elementi psichiatrici dei malati,
inficiandole con pregiudizi, banalizzazioni e luoghi comuni. Collomb, per prima cosa osservò e
studio la cultura africana e si mise in ascolto dei pazienti, dei loro parenti, dei guaritori locali,
condividendone le esperienze, i riti, traducendo i loro messaggi culturali in elementi di
psicologia, riconoscendo il valore e l'alterità dei pazienti senza negarli e annullarli, li
manicomio, inizialmente era costituito
da un enorme capannone, dove venivano rinchiusi anche vagabondi, sbandati e delinquenti.
Collomb lo trasformò in una struttura aperta, nel pieno rispetto della cultura senegalese. Il
nuovo regolamento prevedeva che. almeno un membro per ogni famiglia del malato,
affiancasse il paziente durante il tempo del ricovero. Questa "normalizzazione" consenti di
tamponare la piaga delle fughe oltre ad entrare maggiormente in sintonia con il sofferente. Il
simbolo della nuova gestione della psichiatria fu T'albero delle parole infatti, con qualche anno
in anticipo rispetto all'esperienza italiana di Franco Basaglia, nel giardino alberato del
manicomio, Collomb ideò degli incontri bisettimanali fra medici, infermieri, pazienti, parenti,
sciamani, ospiti che, tra un bicchiere e un pasto, discutevano apertamente delle problematiche
inerenti alla struttura, alle materie mediche e agli individui. Inoltre Collomb creò una serie di
piccoli centri periferici, atti a conservare i contatti con il territorio e l'ambiente.
L'obiettivo era quello non di isolare il paziente dal suo ambiente sociale ma affinché partecipi
alla sua vita ordinaria. Si prova a curare la sofferenza tramite la socializzazione,
Ernesto de Martino (1908-1965) è stato un etnologo e filosofo ma è più conosciuto come
storico delle religioni. Estremamente famoso è il suo studio sul tarantismo pugliese nel quale
analizza un fenomeno presente al tempo nel Salento. Il fenomeno vedeva protagoniste le
giovani contadine salentine che, nella stagione della mietitura, divenivano "tarantate"
ovvero cominciavano una specie di ritiro dalla vita operosa: non svolgevano più il loro lavoro
nei campi e nella casa, non onoravano più il letto coniugale, si sottraevano dalla vita di paese:
in parole povere si potrebbe dire che erano annoiate, oggi diremmo depresse.
Se la crisi durava, veniva chiamato l’esperto, il suonatore di tamburello che esponeva la
donna ai diversi ritmi che corrispondono alle varietà di taranta. il ragno che poteva averla
morsa secondo la credenza. Se la donna veniva “scazzicata"- scossa, stimolata - allora la
diagnosi era fatta e la via della cura era chiara, in una serie di riti, in presenza dell'intera
orchestra, dei famigliari e della gente di paese, la donna avrebbe incontrato la sua taranta,
l’avrebbe ballata fino a sfinirsi per fare poi con lei il patto di onorarla, negli anni a venire, in
occasione delle sue celebrazioni annuali, in cambio avrebbe avuto la pace.
Attento a comprendere il fenomeno religioso nei suoi complessi profili.de Martino finisce con
l'incrociare naturalmente territori che sono al cuore della riflessione etnopsichiatrica: la
funzione reintegratrice dei miti, il rapporto tra sofferenza e strategie magico-rituali, i
modelli di efficacia terapeutica nelle tradizioni mediche popolari, il significato dei culti di
possessione e dello sciamanesimo ecc. Il tarantismo da evento religioso diventa una
ritualità terapeutica.
Nei campi di studio dell'etnopsichiatria centrale è il concetto di nostalgia: inizialmente utilizzato
per definire il sentimento dei soldati che vivevano lontano da casa, fu ripreso dalla psichiatria
coloniale per identificare disturbi o malattie su base clinica delia migrazione. La sua definizione
oscilla tra malattia su base organica e sentimento umano universale. Gli immigrati che vivono
da un lato la sofferenza per la perdita del paese di origine, e dall'altro il desiderio di autonomia
e di svolta rispetto al contesto di partenza, utilizzano la nostalgia come arma di difesa,
reperendo risorse emozionali dal proprio passato per far fronte a! presente. In base a tale
interpretazione, l'insorgenza della sofferenza o della malattia dipendono molto dal contesto di
arrivo, dalla violenza strutturale. L'etnopsichiatria oggi si dedica all'esperienza migratoria con
riferimento ai vissuti di sofferenza e al rischio di malattia. E centrale è il concetto di nostalgia
perché nella terminologia clinica era usato nel 17 sec per definire il vissuto dei soldati che
stavano fuori casa, concetto ripreso poi dalla psichiatria coloniale che lo rappresentò come una
via di mezzo tra malattia su base organica e sentimento umano universale. Nel migrante di
oggi assume un profilo subdolo in quanto egli vive il processo migratorio come un'ingiustizia da
un lato, ma dall’altro ne è anche l'artefice in quanto ha scelto di partire. Quindi emerge da un
lato la sofferenza per la perdita dei paese di origine e dei legami sociali ma dall'altro un
sentimento di autonomia e di separazione dallo stesso. La nostalgia rappresenta anche
un'arma di difesa, strategia messa in atto da chi, dentro una rete di dilemmi, per far fronte al
presente, reperisce risorse emozionali dal passato. È importante Leggere la sofferenza non solo
in relazione al contesto di provenienza, ma anche in connessione alla violenza strutturale del
contesto di arrivo. La nostalgia quindi può rappresentare una critica rivolta verso il contesto di
accoglienza: prima era il paese di origine ad essere male sopportato ora invece diviene
idealizzato ed il paese ospite, che prima era fonte di fantasie, ora diviene luogo di incertezze.
L'etnopsichiatria della migrazione si confronta oggi con la complessità, con una cultura intesa
In modo diverso rispetto a un tempo, non più omogenea, ma caratterizzata da diversità
interne. Eppure in questo quadro, Tobie Nathan utilizza una ida statica di cultura, sottolineando
come la dimensione di appartenenza ad un certo contesto di origine sia imprescindibile per
qualsiasi discorso sulla sofferenza psichica dei migranti, pensieri che ha aperto un acceso
dibattito in Francia poiché rischierebbe di reificare la sofferenza psichica dentro chiavi di letture
culturaiste che occultano le dimensioni sociali e politiche della malattia. La ricaduta nella
pratica clinica è su due fronti: da un lato essa non può prescindere dalla cultura di provenienza
come fonte di significati, dall'altro non può pensare di risolvere dentro di essa le sofferenze che
nascono entro rapporti di forza sociali e politici. Quindi il compito dell'etnopsichiatria clinica è
astenersi dal formulare una diagnosi, operazione spesso finalizzata a contenere l'ansia del
terapeuta piuttosto che rappresentare uno strumento utile nel lavoro con l'utente. Rifugiati e
RA sono il cuore della riflessione etnopsichiatria nello studio delle sofferenze psichiche. Una
categoria psichiatrica, il disturbo post traumatico da stress è un esempio calzante di sofferenza
legata a un'esperienza traumatica connessa a situazioni di violenza attraversate da molti
rifugiati nella loro storia passata. Ma allontanando ¡I focus dal presente, si rischia di cancellare
i profili di violenza strutturale, discriminazione razzismo, esperiti nei contesti di arrivo,
potenziali minacce per l'integrità psichica. La psichiatria ha prodotto categorie diagnostiche e
tecniche terapeutiche (EMDR) che riconducono ogni tipo di trauma ad una base
neurofisiologica, processo che rischia si occultare gli aspetti politici della violenza e la
responsabilità dei perpetratori della violenza.
TRA CLINICA ED ETNOGRAFIA: il dibattito etnopsichiatrico si articola tra due grandi periodi:
ii colonialismo e le società industriali post belliche investite dai flussi migratori. Michele Risso,
psichiatra, analizza che nella svizzera degli anni 50 e 60 l'incontro con la donna straniera,
libera, distante dal modello culturale di riferimento accendeva sentimenti contraddittori che
andavano dal desiderio alla percezione di minaccia. Il corpo e i disturbi somatici
rappresentavano un linguaggio attraverso cui comunicare la propria sofferenza. Egli rifletterà
sullo status sociale del sintomo e sul ruolo della comunità di origine nella cura di una
sofferenza verso la quale la psichiatria ufficiale farmacologica risulta impotente. I suoi pazienza
trovavano nella spiegazione magico rituale un dispositivo dentro il quale ridare significato alla
malattia, cosa che influenzava positivamente l'evoluzione di essa. Questi autori si rifanno a una
concezione di cultura datata simile a quella di Devereux, il quale non ammette altro che la
psicoanalisi come via di soluzione dei conflitti dentro ai quali una persona si trova immersa.
Egli sostiene che psicoanalisi e altri modelli di cura condividono un elemento centrale: la
pregnanza della comunicazione non verbale. La violenza strutturale e istituzionale che si
manifesta del sintomo la si nota anche dai trattamenti sanitari previsti dalla legge basaglia e
dalla legge del SSN. che consente l'effettuazione coatta di certi accertamenti e interventi alla
persona che si trova in condizioni di alterazione che richiedono tali interventi.
DALL' ANGOSCIA AL METODO: molti studi mettono in evidenza i limiti dello sguardo clinico
nella comprensione della sofferenza e della malattia. Nel dibattito etnopsichiatrico è
fondamentale la collaborazione tra sguardo clinico e antropologico anche se alcuni credono sia
impensabile una collaborazione operativa e metodologica tra il sapere psicanalitico e
antropologico in quanto incompatibili perché l'etnologo cerca informazioni, per lo psicoanalista
è la domanda che proviene dal soggetto ciò che costituisce la condizione indispensabile perché
si costituisca una, situazione analitica. ,Devereux definisce .etno-psicoanalisi complementarista
affermando l'impossibilità di adottare le due visioni contemporaneamente in quanto
rappresentano due angolature diverse, ma che possono essere utilizzare in modo
complementare nella stessa analisi, cioè in momenti diversi nell'interpretazione dei
comportamenti. All'interno dell'etnopsichiatria la mediazione culturale si rivela cruciale nella
misura in cui quest'ultima venga praticata nella consapevolezza che nei servizi socio sanitari
oltre ad un problema di accessibilità linguistico-culturale esistono anche variabili di natura
economica, giuridica, istituzionale (cittadini senza permesso di soggiorno rigidità nel processo
di accoglienza, burocratizzazione). La presenza dell'altro rappresenta uno straordinario
strumento rivelatore delle contraddizioni della società di accoglienza, che una scarsa
collaborazione della famiglia può essere letto come una inefficace organizzazione dei servizi
stessi o pratiche di razzismo istituzionale. Di fronte all'incomprensibilità dell'altro o a lingue
sconosciute, le strategie adottate sono due: o il diniego della differenza linguistico-culturale,
riconducendo la sofferenza psichica a categorie senza traduzione alcuna o al sintomo
psicopatologico. E questo indica un cattivo uso della mediazione culturale che rappresenta
invece uno degli strumenti validi dell'intervento clinico.
CONCLUSIONI: 1) il termine etnopsichiatria non deve essere applicato unicamente ai sistemi
di cura ma a tutte le psichiatrie e le psicologie compresa quella occidentale sono influenzate
dal contesto dentro cui nascono e si sviluppano e di tale contesto tendono a occultarne le
contraddizioni.
2. la complementarità dello sguardo antropologico e clinico-psicopatologico nel farsi carico
della sofferenza psichica, anche se non possono essere usate contemporaneamente per la
comprensione delle complesse vie della sofferenza Siria
3. la necessità di un approccio socio politico per un'etnopsichiatria che non rischi
l'incorporazione delie disuguaglianze sociali e della violenza strutturale ma che consideri
l'individuo attore di processi incarnati di resistenza.
CAPITOLO 17 RAZZISMI
Autore : Viola Castellano
INTRODUZIONE: UNA FINZIONE PROBLEMATICA
"la valorizzazione generalizzata e definitiva di differenze reali o immaginarie a favore
dell'accusatore e a danno della vittima, al fine di giustificare i propri privilegi o la propria
aggressione"" è la definizione di memmi 1972, accolta nelle dichiarazioni dell'Unesco.
Guillaumin sostiene che il razzismo sia un'ideologia che possiede un'opacità tale da essere
inconsapevole di se stessa. Il termine "razza" compare all'inizio dell'età moderna,
nell'antropologia fisica e biologia del diciannovesimo secolo , nei rapporti di sfruttamento che le
potenze europee intrattenevano con le colonie. La raziologia era bastata sulla convinzione dei
ricercatori che ad aspetto fisico corrispondessero qualità morali e comportamentali,
convinzione per cui conseguì una gerarchizzazione delle razze che andava dai più cicini ai più
lontani a dio.. La tradizione positivista declinerà questo rimandando alla scala di evoluzione,
per sfociare nel darwinismo sociale.
L'Unesco, con la dichiarazione sulla razza" del 1950, sancisce la differenziazione per genetica,
comportamento e fenotipo... ciò per contrastare la dottrina della razza promossa durante
l'epoca nazista e fascista e gli orrori della seconda guerra mondiale. Il "cordone di igiene
morale" per censurare e condannare il razzismo rese difficile riconoscere i fenomeni razzisti
(Fassin 2010). L'orrore per ciò che il nazismo aveva fatto con il concetto di razza, il processo di
decolonizzazione, ha nuovamente posto la questione dell'altro e ha riportato la questione
razziale in Europa.
Data l'impossibilità di richiamarsi a un concetto biologico di razza, il razzismo contemporaneo
si concentra sulla differenza culturale. Le differenze culturali diventano una minaccia poiché
vengono inquadrate come devianza dalla norma morale legittima. L'islamofobia ha costruito il
discorso sul terrorismo come l'antiziganismo che si esprime in un sentimento di disprezzo e
odio etnico co- costruito da una serie di pratiche messe in atto a livello politico, sociale,
urbanistico (sgombero campi, pensare al campo come unica soluzione abitativa...). I
I ricercatori hanno coniato una serie di definizione di post-razzismo: "fondamentalismo
culturale", "razzismo differenzialista, "razzismo quotidiano" (banalizzazione quotidiana di
razzismo come esperienza ordinaria della discriminazione). Quest'ultima definizione è stata
accolta da Balbo e Manconi, integrata col razzismo istituzionale, hanno concettualizzato il
razzismo italiano come forma di "ordinazio razzismo".
Lucia: penso a me nella Jungle. Manovra mediática di incidere sull’opinione pubblica: nel
campo un giorno ho visto appostarsi sul cavalcavia in alto delle videocamere della tv una di
seguito all’altra su cavalletti come ad osservarci.
Era il posto della polizia che a volte riceveva insulti e pietre dai migranti (quando cercavano di
distrarli con l’obbiettivo di far fuoriuscire altri in strada nel tentativo di infilarsi nei tir,
rallentando così anche il traffico). Questa volta i migranti non avevano attaccato ma con la
polizia e i media si stava mettendo in scena per essere mostrata in tv la pericolosità di questi
individui. Quindi, la polizia ha "attaccato " il campo con lacrimogeni per ricevere la reazione dei
migranti, pietre e aggressività. Le telecamere erano rivolte alla sola reazione dell’attacco.
Il giorno dopo ho ricevuto una telefonata da mio padre che mi pregava di tornare in Italia
perché preoccupato di questi esseri aggressivi. Stigmatizzati dal potere mediatico e politico
avevano risvegliato in mio padre un "razzismo quotidiano e ordinario" ma dettato da quel che
loro volevano lui pensasse.
Arma di consenso
CARATTERIZZAZIONE DEI RAZZISMI CONTEMPORANEI: CONTINUITÀ STORICHE E
FORME INEDITE
Stereotipizzazioni e retoriche razziste: è fondamentale vedere attraverso quali dispositivi di
potere diventino operative. Attraverso quali forme di stigmatizzazione, discriminazione,
inferiorizzazione, segregazione ed esclusione fino alla volontà di persecuzione e sterminio del
gruppo "razzizato"... bisogna capire come avviene questo passaggio e concentrarsi, quindi, sui
rapporti di potere, quindi, l'accesso o meno al dibattito pubblico o ai mezzi di comunicazione di
massa.
RAZZISMI E CONTESTI NAZIONALI
Il concetto di razzismo è analizzato nelle sue specificità e contesti nazionali. Ad esempio il tipo
di populismo sul quale il razzismo si appoggia in Italia e Francia è assente in Gran Bretagna.
Anna Maria Rivera "non esistono razze ma gruppi umani razzizzati", la razza appartiene al
mondo dei fenomeni semantici. In Italia la quasi totale rimozione nella memoria collettiva
dell'esperienza coloniale e la mancanza di una riflessione post-coloniale ha reso più facile lo
svilupparsi di linguaggi e pratiche razziste e razzializzanti esplicite ed accettate come parte del
dibattito su immigrazione e multiculturalismo.
Importante è rilevare come i sentimenti razzisti trovano espressione in un contesto storico e
culturale in cui sono in cui sono legittimati. Non si tratta solo di forme di razzismo esplicito
come nelle politiche anti-immigrati della Lega Nord e la xenofobia usata come arma di
consenso da parte di alcune formazioni politiche, quelli che Rivera chiama "imprenditori politici
del razzismo". I razzismi contemporanei si radicano a dimensione politica e istituzionale,
accordi europei riguardo la circolazione di persone, politiche rivolte a rifugiati politici, dispositivi
di contenimento e gestione dell'immigrazione. Se la cultura è un'istituzionalizzazione delle
differenze (Varenne 2007), la razializzazione è una radicalizzazione delle culture (Fassin).
Il razzismo moderno diventa il motore di una divisione il motore di una nuova divisione di forza
lavoro tra centro e periferia il che si riflette in una segregazione razzializzata del mercato del
lavoro, cii alcune persone provenienti da una determinata area geografica vengono relegate
(colombo). Questi rapporti di subordinazione sono prodotti storici di un assetto geopolitico che
stabilisce una gerarchizzazione nell'eccesso e nella produzione di risorse, materiali e
intellettuali, cui è immanente una gerarchia del valore (')
RAZZISMO DIFFERENZIALISTA E IL GIOCO DEGLI ESSENZIALISMI
Paragrafo : 17.4 Il razzismo differenzialista e il gioco degli essenzialismi Secondo
Wievorka, il discorso antirazzista rimane spesso impigliato nelle contraddizioni generate sia da
un’importazione universalista, che rischia di appiattire il discorso esclusivamente sul lato delle
disuguaglianze socioeconomiche e giuridiche, sia quelle del multiculturalismo, che veicola
contemporaneamente un’immagine della cultura come qualcosa di predefinito e già dato.
Tramite il dispositivo del diritto alla differenza, si rischia di razzializzare contemporaneamente i
gruppi in questione. Nel manipolare e marcare appartenenze e differenze, i razzismi
costituiscono essenzialismi che mescolano categorie sociali e politiche eterogenee. Fassin
elabora il concetto di confine esterno ed interno nel configurare le dinamiche razzializzanti in
opera in Europa: se al primo (bonders) corrisponde il confine fisico delle frontiere nazionali ed
europee, che definiscono l’appartenenza in termini giuridici, il secondo (boundaries) è di
carattere simbolico e si riferisce ai confini socialmente strutturati di possibilità di accesso alle
risorse e di inclusione nella società maggioritaria.
Nonostante questi due concetti di confine siano entrambi pienamente operativi nella realtà
sociale europea, è necessario sottolineare, come questi collaborino e trovino la possibilità della
loro espressione l’uno nell’altro.
RAZZISMO O RAZZIALIZZAZIONE?
Paragrafo : 17.5 Razzismo o razzializzazione? Alcuni scienziati sociali avvertono sui rischi
di usare in modo acritico la categoria descrittiva che va sotto il nome di razzializzazione.
Pensare in termini di razzializzazione invece che di razzismo permette di rinunciare, almeno
provvisoriamente, alla postura di denuncia per tentare di comprendere e interpretare un fatto
sociale nella sua totalità. In concetto di razzializzazione si colloca in prossimità di ciò che Omi e
Winant chiamano formazione razziale, ovvero “il processo socio-storico attraverso cui le razze
sono create, abitate, trasformate e distrutte” categorie che significano e simbolizzano dei
conflitti e degli interessi sociali in riferimento a differenti tipi di corpi umani, a cui le dimensioni
socio-economiche e culturali sono legati. Dobbiamo stare attenti non solo a cosa ma
soprattutto a come concetti di razza, cultura ed etnicità ci permettono di pensare. Secondo
Fassin inoltre, con un uso attento e consapevole del concetto di razzializzazione se ne possono
cogliere le specifiche espressioni senza moralizzarle e rigettare l’analisi del razzismo .
CONTESTUALIZZAZIONE ETNOGRAFICA
—2008 ricerca dell'autore sul caso della costruzione di un nuovo villaggio per una comunità di
160 Rom Sinti residenti da alcuni decenni nella località di Mestre-Carpenedo. Sinti italiani il cui
primo nucleo risale al 19689 in un terreno prima proprietà della Curia, poi del comune. Nel
1999 ci fu la proposta di costruire una nuova area abitativa è per le 160 persone nello stesso
campo per non interrompere il processo di "sviluppo di comunità". Il progetto dovette
aspettare 10 anni, nel 2008 divenne operativo e parte della cittadinanza insorse in uno scontro
incoraggiato dalle forze politiche dell'opposizione della giunta comunale, amplificato dai media,
ricettivi nei confronti della questione di sicurezza collegata alla presenza delle comunità
percepite come "diverse". Un comitato dal nome "no campi nomadi nei centri abitati" si costituì
per impedire la costruzione e i cittadini erano preoccupati soprattutto della svalutazione
immobiliare. Quando il comune ha respinto le loro obiezioni ha incentrato la protesta
sull'argomentazione che vedeva il villaggio come una forma di ghettizzazione. Il comitato era
appoggiato dalla Lega Nord che ha tentato di ribaltare l'accusa di razzismo e indirizzata al
Comune. Nello stesso tempo in cui si consumava il dibattito fra amministrazione, comitati ed
esponenti politici dell'opposizione, le 38 famiglie sono rimaste al margine della vicenda. Se la
condizione di semi-invisibilità in cui versavano prima era dovuta a una limitata interazione con
la cittadinanza, nel momento in cui in cui risorse pubbliche sono state investite nella comunità,
è stato riattivato tutto il repertorio stereopitizzante e inferiorizzante sullo "zingaro", rinnovato
dal modo in cui i mezzi di comunicazione alimentano l'"emergenza Rom". Questo ha creato
razzializzazione. A questo è seguita una criminalizzazione della comunità denunciando
comportamenti giudicati "illegittimi" come il possesso di macchine lussuose e la frequentazione
del casinò. Una comunità che sembrava omogenea era divisa al suo interno nel posizionamento
rispetto alla natura del nuovo villaggio, visto da alcuni come la possibilità di migliorare le
proprie condizioni da altri rifiutato come forma di controllo e ghettizzazione… un ricatto da
parte dell'amministrazione che prometteva più risorse in cambio di maggior obbedienza
(obbligo scolastico, pagamento utenze, controllo ingressi.
—Nicola Mai.. gestione e rimpatrio minori rumeni sul territorio italiano. I migranti rumeni,
prima dell'ammissione della Romania all' UE rappresentavano una presenza scomoda.
Razializzati, stereotipizati, criminalizzati... opinione data dai media e dalle politiche del governo
italiano sui rimpatri. La Romania è percepita arretrata economicamente e culturalmente.
Questo esempio etnografico è utile per capire come i razzismi si esprimono tramite vari fattori
e un rapporto tra immaginario, identità nazionale. Quando si costruiscono gli Altri si costruisce
parallelamente un Noi che diviene un'essenza tanto impermeabile quanto quella che
attribuiamo agli altri.
CONCLUSIONI
Il pregiudizio è pervasivo oltre che difficile da sradicare. Non bisogna limitarsi a rilevare
l'ennesima manifestazione di questo sentimento ma sottolineare come questi stereotipi siano
stati giocati da diversi "gruppi di interesse" nella fondamentale questione dell'accesso alle
risorse. Per ritornare alle nuove forme di razzismo contemporaneo è necessario chiedersi a
quali domande e ansie identitarie i neorazzismi rispondano e analizzare i dispositivi che
trasformati in pratiche di esclusione.