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CAPITOLO 1

Cosa significa M-DEA/01?

M-DEA significa discipline demo etno antropologiche. Questa denominazione combina i nomi dei tre
principali insegnamenti di questo settore, che sono:

 Antropologia culturale
 Etnologia
 Demologia

Si tratta di tre scienze umane il cui oggetto è studio dell'uomo e delle culture umane. Con etnologia ci si
riferisce a studi settoriali su specifici popoli e culture; Demologia indica lo studio della cultura popolare e
tradizionale nella stessa società occidentale; nell’ Antropologia culturale, infine, l'accento è posto su
approcci di tipo teorico e comparativo. Il concetto di cultura è fondamentale per la definizione di queste
discipline, parlando di cultura si intende il complesso degli elementi attraverso i quali gruppi umani si
adattano all'ambiente e organizzano la loro vita sociale. Fanno parte ad esempio della cultura gli attrezzi e le
tecniche del lavoro, le istituzioni sociali, le forme della parentela, il linguaggio e i modi della comunicazione,
le conoscenze, i valori e le credenze, i gesti e le più piccole pratiche quotidiane. La cultura da un lato
dipende dalle basi biologiche della vita umana, dall'altro si intreccia con esse e le modifica. Una delle sue
caratteristiche principali è infatti la capacità di incorporarsi, di diventare come una seconda natura. Tuttavia,
gli aspetti biologici e culturali sono oggetto di Scienze diverse. L'evoluzione biologica è studiata
dall'antropologia fisica che è una disciplina che si basa sui saperi delle scienze naturali, laddove
l'antropologia culturale, si muove in una dimensione più vicina a quelle della storia, della filosofia e degli
studi umani e sociali.

Le origini dell’antropologia culturale

L'antropologia culturale si costituisce negli ultimi decenni dell'Ottocento, è il periodo del positivismo, della
grande fiducia nella scienza e nel progresso e di uno sviluppo capitalistico visto come inarrestabile. Il titolo
del libro di Tylor ne definisce il campo: al concetto di cultura si aggiunge appunto l'aggettivo “primitiva”.
L'antropologia si caratterizza per lo studio dei primitivi cioè proprio di quei gruppi non toccati dalla
modernità. Parlare di cultura dei primitivi significa contrapporsi a un senso comune che li considera
semplicemente come privi di ogni cultura, Significa rivendicare la comune umanità, mostrare anzi come
siano più vicini a noi di quanto ci piace pensare.

Vocazione per la diversità

Nel contesto della globalizzazione è ovvio che non esistono più primitivi ma in questa situazione
l'antropologia culturale continua a definirsi in base alla sua vocazione per lo studio delle differenze. Da qui
l'importanza della comparazione, che non significa necessariamente metodo comparativo nell'accezione
che al termine attribuivano gli studiosi ottocenteschi. L'attrazione per la diversità sta anche alla base di una
vocazione critica dell'antropologia nei confronti della propria società e cultura. Il confronto con l'altro
costringe una continua revisione e ampliamento di ciò che nel nostro senso comune si dà per scontato.
Ernesto De Martino, chiamava “scandalo etnografico” questo incontro-scontro con una diversità che manda
in corto circuito i nostri sistemi categoriali e ci costringe a rivederli.

La ricerca sul campo

L'antropologia tenta di rispondere ai problemi teorici che si pone attraverso indagini empiriche che passano
attraverso l'esperienza del fieldwork o lavoro di campo. Il modello classico di fieldwork si definisce con le
prime scuole novecentesche ed è legato ai nomi di padri fondatori come Franz Boas e Malinowski. Gli
antropologi vittoriani invece ritenevano che la raccolta dei dati empirici e il lavoro teorico di analisi e
comparazione dovessero restare separati, affidati a persone con diversi ruoli e competenze. Svolgevano
dunque il loro lavoro non sul campo ma in biblioteca. Al contrario, Malinowski rivendica la necessaria
compresenza della preparazione teorica e dell'esperienza vissuta della cultura che si intende studiare. Senza
la prima dimensione, l'osservatore non saprebbe osservare e d'altra parte, senza l'esperienza diretta non
comprenderebbe mai veramente un'altra cultura. Malinowski conia l'espressione “osservazione
partecipante” per indicare questo stile di ricerca. L'osservazione partecipante implica una permanenza
prolungata e intensiva sul terreno non inferiore a un anno e condotta a stretto contatto con gli indigeni: ciò
significa vivere un'esperienza di radicale estraniamento dalla propria cultura di provenienza. In questo tipo
di ricerca, occorre imparare il linguaggio locale e studiare la vita sociale nel suo complesso. Il modello
malinowskiano di fieldwork però non è sopravvissuto alle trasformazioni degli ultimi decenni. Qualunque sia
il campo che sceglie l'antropologo lo trova oggi già pieno di altri saperi specialistici, di mass media globali e
di turisti.

Gli specialismi disciplinari

Vi è una suddivisione in specialismi riguardo alle fonti o ai tipi di rappresentazione culturale che gli studiosi
scelgono di privilegiare:

 fonti orali che sono il più comune strumento utilizzato nella ricerca
 fonti scritte e d'archivio
 fonti iconiche: fotografie e video riprese largamente utilizzate dagli antropologi oggi, con la vasta
disponibilità di tecnologie di buona qualità a basso costo.
 fonti materiali: l'attenzione a questo tipo di fonti ha caratterizzato l'antropologia fin dai suoi esordi,
infatti l'esposizione di oggetti in mostre e musei ha rappresentato un filone importante del lavoro
antropologico.

A questi specialismi ne vanno poi aggiunti altri fra questi l'antropologia storica, l'antropologia del
mondo antico, l'antropologia psicologica, l'antropologia medica, l'etnopsichiatria e l’antropologia
filosofica.

Le partizioni della cultura

È frequente che gli studiosi si concentrino su ambiti specifici della vita socioculturale, i principali sono:

 sistemi di parentela
 sistemi economici
 stratificazione sociale
 linguaggio e comunicazione non verbale
 religione e magia, riti miti e pratiche simboliche
 etnoscienza
 espressione estetica

In ogni caso, i più recenti sviluppi della disciplina hanno fatto emergere campi di ricerca e problematiche
nuove. Ad esempio, oggi un settore importante della disciplina è rappresentato dall'antropologia urbana:
l'insieme delle ricerche svolte nelle grandi città, vale a dire in ambienti tecnologici e in costante mutamento.
Fra le altre si sono sviluppate un'antropologia del turismo, un'antropologia dello sport, un'antropologia
della violenza, un antropologia dei processi migratori e sta anche nascendo un'antropologia di Internet.

A cosa serve l’antropologia?

L'antropologia apre la via della ricerca e dell'insegnamento. In Italia le cose però non sono così semplici su
questo piano, infatti, nel sistema universitario le discipline DEA non sono molto forti. Vi sono poche
opportunità anche nel campo dell'insegnamento: In Italia l'antropologia culturale non si insegna nelle
scuole secondarie, eccetto che nei licei delle scienze umane. Tuttavia queste discipline propongono anche
altri tipi di sbocco professionale: l'antropologo è una figura cruciale nel campo della mediazione
interculturale, in quello della cooperazione internazionale e del patrimonio culturale etnografico.

CAPITOLO 2

Razza

La nozione di razza si afferma nell'Ottocento come strumento di una riflessione sull'origine del genere
umano. La diffusione del termine razza fa tutt'uno con quello delle dottrine razziste. La più celebre di esse è
quella di Gobineau che pubblica il saggio sull’ineguaglianza delle razze umane. I punti cardine di questo
testo sono: la naturalizzazione di ogni tipo di differenza tra culture, l'affermazione di una gerarchia rigida fra
le razze che vede ai vertici la razza bianca e l'orrore per la mescolanza tra le razze. La superiorità della razza
bianca sarebbe dimostrata soprattutto da fattori estetici. Gobineau ritiene che la razza bianca sia minacciata
dagli incroci con le altre razze che nei contaminano e impoveriscono il patrimonio genetico. Non solo egli
non crede nel progresso, ma la sua visione è degenerativa: la storia implica mescolamenti fra le razze che ne
minano l'autenticità.
Nel razzismo ottocentesco c'è un altro filone che affonda invece le radici nel retaggio illuminista e nel
positivismo ottocentesco, con tutta la sua fiducia nel progresso. È un filone di pensiero che trova piena
espressione nelle teorie evoluzioniste, traendo in particolare alimento dall'opera di Charles Darwin e di
Herbert Spencer. Darwin e l'evoluzionismo mettono fine alla lunga lotta fra teorie monogenetiche e
poligenetiche delle razze. Secondo il principio monogenetico tutta l'umanità ha un'origine comune, invece,
per i sostenitori della poligenesi le differenze rimandano a origini diverse. L’evoluzionismo accredita la teoria
monogenetica: l'origine è unica e le differenze si forgiano nel percorso evolutivo, nelle modalità di
adattamento all'ambiente. Ma ciò non abbatte la classificazione gerarchica delle razze anzi,
paradossalmente, la rafforza. Se tutte hanno la stessa origine, i diversi risultati storici dipendono da un
miglior adattamento, da una supremazia sul piano della naturale legge per la sopravvivenza. Il razzismo
conserva qualcosa di entrambe le tradizioni di questo pensiero. Per un verso, l'idea di differenze tra gli
esseri umani fa parte delle reazioni ottocentesche alla modernità, per l’altro verso, poggia invece sul
prestigio acquisito dalle scienze naturali, sulla convinzione di poter giungere attraverso i loro metodi a una
conoscenza integrale degli esseri umani. I razzisti progressisti ritengono di poter influire sull'evoluzione delle
razze umane attraverso una programmazione scientifica. Le politiche biologiche appaiono ad alcuni una
delle vie possibili verso l'utopia. L'antisemitismo, che porterà alla pratica nazista e alla Shoah, si innesta su
una definizione scientifica della razza di taglio ottocentesco, reinterpretando in termini nuovi una lunga
tradizione di pregiudizio religioso. Per quest'ultimo, la differenza dell'ebreo trova un limite nella
conversione. Il razzismo progressista fonda pratiche di ingegneria biologica, come l'eugenetica, che stanno
alla base delle più disastrose manifestazioni contemporanee del razzismo. La formulazione dei principi
dell'eugenetica è legata al nome di Francis Galton e si basa nell'aiutare l'evoluzione naturale favorendo la
riproduzione degli organismi migliori e impedendo di riprodursi a quelli più deboli e difettosi. Nel
dopoguerra prevarrà un'immagine del nazismo come mostruosità unica e irripetibile della storia ma in
realtà, le politiche biologiche non sono affatto uniche nel contesto di quegli anni ma il nazismo ne
rappresenta una declinazione dal carattere estremo.

Cultura

Gli antropologi intendono per cultura non solo i prodotti dell'intelletto come arte, letteratura o scienza, ma
l'insieme di tutte quelle pratiche, usi, consuetudini e conoscenze, per quanto banali e quotidiane, che una
comunità umana possiede e attraverso le quali si adatta all'ambiente e regola le proprie relazioni sociali. Gli
antropologi ottocenteschi, sono tutti in qualche misura influenzati dalle teorie razziste: l'evoluzione
culturale è nella loro prospettiva il prolungamento di quella biologica. Si ha un mutamento radicale con gli
sviluppi novecenteschi che segnano l'affermazione di un concetto pluralista e relativista di cultura. Lo
sviluppo della ricerca sul campo e di una nuova sensibilità etnografica fa dell'antropologia un potentissimo
strumento di critica all'etnocentrismo. Per il modernismo antropologico, le valutazioni negative delle altre
culture sono per lo più conseguenza dell'incapacità di comprendere il funzionamento di codici linguistici,
estetici, morali semplicemente diversi da quelli che ci sono più familiari. Da qui il principio del relativismo
culturale: non si possono formulare giudizi etici, estetici e secondo alcuni neppure cognitivi al di fuori di un
contesto culturale, poiché è il contesto culturale a stabilire i criteri di riferimento. Ciò che è bello o brutto,
giusto o ingiusto, e in un certo senso persino vero o falso, dipende dal contesto culturale. Lo sviluppo
dell'antropologia moderna, potrebbe essere descritto come un progressivo approfondimento della critica
all'etnocentrismo che è il punto di vista secondo il quale il gruppo a cui si appartiene è il centro del mondo e
il campione di misura su cui si fa riferimento per giudicare tutti gli altri. Questo atteggiamento è naturale e
utile alla coesione di un gruppo sociale ma porta facilmente, dice Sumner, a esagerare e ad accentuare i
tratti particolari che distinguono un popolo dagli altri. Quando ciò accade si trasforma in pratiche
discriminatorie verso gli altri. Herskovits e Levi-Strauss riconoscono l'universalità dell'atteggiamento
etnocentrico ma vedono un segno distintivo del progresso culturale nella capacità di tenerlo sotto controllo
e di combatterlo nelle sue forme esasperate, promuovendo la tolleranza e il dialogo tra le diverse culture.
Dopo la seconda guerra mondiale, la parola razzismo assume una connotazione negativa ma ciò non
significa che vengono abbandonate le idee e pratiche di tipo razzista ma che vengono espresse e sostenute
con un altro tipo di linguaggio.

Etnia

Negli ultimi anni “etnia” è termine usato per esprimere differenze tra gruppi umani. Sentiamo parlare di
conflitti etnici, di identità etniche, di pulizia etnica, ma anche di abiti, cibi o feste etniche. Un uso neutrale
dei termini etnici, nel senso dell'etnologia, si afferma solo a partire dall’Ottocento. Tende a prevalere
l'accezione antropologica, che in sostanza definisce come etnia un gruppo che condivide un insieme di
elementi culturali, quali la lingua, la religione, certi usi e costumi, etc. Tuttavia, questo uso neutrale e
descrittivo si carica spesso di implicite connotazioni valutative e discriminatorie: noi usiamo sempre
l'aggettivo etnico per gli altri e in specie in riferimento a realtà minoritarie, Noi non siamo mai “etnici” e non
lo è mai la grande cultura, quella dominante. Etnici sono gli altri, i più arretrati o i più poveri, le minoranze. Il
rischio principale che corrono le nozioni di etnico e di etnia è la reificazione. Come si può appartenere a uno
e ad un solo Stato, così si appartiene a una sola etnia-cultura. Di questa tendenza alla reificazione
l'antropologia non è affatto innocente infatti a lungo ha fornito un'immagine divisionista delle culture, e di
conseguenza delle etnie. Si potrebbe dire, che l'antropologia ci ha abituato a pensarle come cose che
esistono indipendentemente dai processi storici e dagli individui che ne fanno parte, i quali sarebbero quasi
imprigionati al loro interno. L'antropologia dunque da alcuni decenni si è impegnata in un processo di critica
proprio dei concetti di cultura, etnia, identità. Nel senso comune, tuttavia, l'uso reificato persiste.

Razzismo differenzialista

Il realismo culturale è esplicitamente teorizzato in certe forme odierne di ideologia e pratica neo-razzista, in
particolare in quello che viene comunemente definito razzismo differenzialista. La vecchia accezione del
termine razzismo è sostanzialmente esaurita, oggi è impensabile per qualsiasi attore politico adottare un
linguaggio anche lontanamente imparentato a quello hitleriano. Ma da dove vengono allora le idee odierne
di pulizia etnica? Il neo-razzismo differenzialista non parla più di razze e di differenze naturali ma di culture o
etnie, per indicare le radici che tengono insieme un popolo e lo distinguono da altri. Non si rivendica più la
superiorità ma si accetta il principio del relativismo culturale. Ma proprio sulla base di questi principi di
apertura e tolleranza, si giunge a riaffermare l'antica esigenza xenofoba. Se la vita di ognuno di noi, i nostri
valori, le nostre convinzioni morali sono radicate in una ben precisa identità culturale, allora le culture e le
identità non devono essere confuse e mescolate. Occorre preservare l'integrità e l'autenticità di fronte al
rischio dell'omologazione. A questo punto affonda le radici in alcune formulazioni antropologiche come
quelle di Levi-Strauss, che ha sostenuto la necessità di un certo grado di “sordità” reciproca fra le culture.
Per il grande etnologo francese la diversità culturale è il bene massimo da preservare per l'umanità, poiché
il progresso è consentito dalla compresenza di molte culture diverse. Ciò significa che occorre certo favorire
il dialogo e lo scambio, ma anche difendere le rispettive identità.

Come riconoscere il neo-razzismo

Pierre-Andrè Taguieff individua tre atteggiamenti intellettuali e tre tipi di pratiche come denominatori
comuni dell'ideologia e del comportamento razzista:

 La categorizzazione essenzialista: l'appartenenza a una categoria produce un giudizio totalizzante


su un individuo, a cui sono associati tutti gli attributi della categoria. Così funzionava il termine
“ebreo” nella cultura tedesca o il termine “negro” in società e così tendono a funzionare oggi da noi
i termini “immigrato”, “extracomunitari” e “clandestino”. Non è ad esempio razzista constatare i
tassi di criminalità fra certe categorie di immigrati ma lo è considerare qualcuno criminale per il solo
fatto di appartenere a quelle categorie. La riduzione degli individui a “essenze” è infatti un
meccanismo diffuso nella vita sociale, in riferimento a ogni tipo di diversità: “i milanesi”, “i romani”,
“i politici” o “gli juventini” e così via. Perché tale meccanismo assuma carattere razzista occorre
un’asimmetria di potere. Questo punto è colto da Albert Memmi, che definisce il concetto come
l'enfatizzazione di differenze, reali o immaginarie, che l'accusatore compie a proprio vantaggio al
fine di giustificare i propri privilegi o la propria aggressione.
 La stigmatizzazione: una volta categorizzati secondo una presunta immutabile essenza, gli altri
possono essere stigmatizzati, cioè subire un processo di esclusione simbolica. Il “nemico” viene
disumanizzato e ciò crea una distanza psicologica e morale che spiega anche le manifestazioni di
violenza. Una conseguenza della stigmatizzazione è la mixofobia, cioè la paura della mescolanza.
 Il terzo punto viene chiamato da Taguieff barbarizzazione e consiste nella convinzione che certe
categorie di esseri umani non siano civilizzabili. In quanto barbaro, esso non è solo diverso,
inferiore, pericoloso, ma rappresenta l'antitesi stessa della società.

Taguieff distingue tre tipi di azioni legate alle precedenti condizioni:

1. Pratiche di segregazione, discriminazione, espulsione;


2. Forme dirette di persecuzione e di violenza essenzialista;
3. Genocidio.

Con questo non dobbiamo pensare che le pratiche di persecuzione violenta siano semplici conseguenze di
convinzioni teoriche e ideologiche. Le cose, infatti, sono più complesse poiché da un lato le idee e i
comportamenti razzisti possono essere ricondotti a cause strutturali e dall'altro lato, si può dire che
l'atteggiamento razzista ha tutta la complessità e la profondità di “un'esperienza vissuta”.

I paradossi dell’antirazzismo

Contrapporsi al razzismo oggi è una questione complessa. L'antirazzismo corre il rischio non solo di usare gli
stessi strumenti ideologici e culturali del proprio avversario, ma anche di riprodurre gli stessi meccanismi di
essenzializzazione, stigmatizzazione e barbararizzazione che caratterizzano il razzismo stesso. Ad esempio:
un filone di studio degli ultimi decenni dovendo scoprire un razzismo dissimulato e non esplicito va a
cercarne le manifestazioni nei luoghi apparentemente più innocenti, nelle strutture della conversazione
quotidiana, nei messaggi dei notiziari televisivi, nell'umorismo o nei giornali per bambini. I risultati sono
molto interessanti: un discorso comune che per lo più si dichiara antirazzista risulta di fatto impregnato di
pregiudizi, di valutazione essenzialista e stigmatizzanti verso gli altri. Tuttavia, in questi studi vi sono degli
aspetti discutibili, poiché gli strumenti analitici che essi adoperano sono troppo forti e finiscono per scoprire
razzismo dietro ogni tipo di discorso. Le analisi compiute Van Dijk sulla conversazione quotidiana e sulle
notizie giornalistiche riguardanti l'immigrazione illustrano bene questo punto: più un discorso si presenta
come antirazzista, più questi studi si accaniscono a dimostrare che è mosso da intenzioni razziste. Questo
porta ad un grave rischio ovvero l'incapacità di distinguere diversi livelli di pregiudizio e al fatto che a voler
per forza cercare il razzismo dappertutto, si rischia di non saperne individuare le espressioni e le pratiche
più pericolose.

Abbandonare l’identità culturale?

I più recenti studi antropologici si sono preoccupati di contrapporsi alle concezioni essenzialista e
naturalistiche dell'identità etnica e culturale. Non esistono - si dice oggi - essenze etniche. Non di etnie o di
identità etniche è corretto parlare, bensì di processi di etnicizzazione voluti o favoriti dall'esterno oppure
dagli stessi gruppi che competono per l'accesso a determinate risorse materiali e simboliche. Basta scorrere
i titoli di alcuni dei libri più fortunati degli ultimi anni per capire quanto sia stata forte questa reazione:
“Contro l'identità” e “L’ossessione identitaria” di Remotti, “Eccessi di culture” di Aime e “Contro le radici” di
Bettini. La critica all'identità talvolta sembra portare a una vera e propria dissoluzione del concetto di
cultura, che viene sostituito da quello di potere. Questo atteggiamento culmina nella nozione di
disuguaglianza che sostituisce quella di differenza. Anche il paradigma della disuguaglianza presenta una
serie di difficoltà. Al centro di queste si pone la nozione di soggettività umana che viene adottata. Questo
significa che essere nati e inculturati in una particolare epoca o luogo corrisponde a delle condizioni che
plasmano un certo tipo di persona. Ma da ciò non discende affatto che le differenze siano un effetto o un
sottoprodotto del potere. Tutto questo ci riporta a ridosso del problema della fondazione teorica
dell'antirazzismo. Sembra che oggi si possa reagire al razzismo differenzialista solo assumendo un modello
forte di comune umanità: il dialogo, la tolleranza e il rispetto tra gruppi, etnie, culture diverse possono
fondarsi solo sul comune riconoscimento di principi etici universali, come i fondamentali diritti umani.
Questa prospettiva assume che ogni “politica del riconoscimento” finisce per apparire filo-razzista. Il
problema, con questo approccio, è chi e come stabilisce i principi universali che fondano la comune
umanità. Dovremmo allora chiederci se sia possibile costruire un antirazzismo in grado di salvare al
contempo l'istanza universalistica e la politica del riconoscimento; in grado di non rinunciare all'ideale di
una comune umanità integralmente realizzata senza ignorare il fatto che non esistono “cittadini del mondo”.

CAPITOLO 3

La ragione e i costumi

Da Platone a Kant, il cammino che porta a rivelare l'essenza della ragione è concepito come una “via
interna” o un “giro breve”: una riflessione introspettiva che il pensiero svolge su se stesso. In questo tipo di
indagine sull'uomo, conoscere gli altri non è importante e può anzi essere d'ostacolo. Ma nella storia della
filosofia si fa ogni tanto presente un diverso atteggiamento, che Remoti chiama “via esterna” o “giro lungo”.
Il giro a lungo è il confronto con la diversità: l'idea che per capire la nostra stessa ragione occorra passare
attraverso quanto ci è meno familiare.
In Michael De Montaigne il tema della diversità e quello specifico dei “selvaggi” sono usati a sostegno di
argomentazioni scettiche. Particolarmente interessante è il Saggio sui cannibali, in cui Montaigne utilizza
come informatore un francese vissuto per molti anni in una comunità di indios del Brasile nella quale si
praticava una forma di cannibalismo rituale nei confronti dei nemici uccisi. Dal racconto del viaggiatore, egli
ricava l'idea del cannibalismo come pratica culturale piuttosto che espressione di un furore bestiale e
preculturale. Coglie cioè la natura rituale dell'atto di divorare parti del corpo dei nemici: un atto in qualche
modo morale o di pietà. Montaigne cerca anche di cogliere il meccanismo che oggi chiameremmo
dell’etnocentrismo: quello che ci fa apparire ovvio e naturale quanto ci è semplicemente familiare.

Relativismo epistemologico

La storia dell'antropologia è la storia della tensione culturale tra un atteggiamento scientifico radicato nel
positivismo che tuttavia si mette alla prova e si confronta con le istanze del giro lungo. Nel positivismo, la
razionalità scientifica sembra il solido punto di partenza rispetto al quale spiegare le stranezze delle altre
culture; nello scenario post-empirista del XX secolo, al contrario, la stessa razionalità scientifica poggia su
basi storico-culturali. La filosofia abbandona la ricerca di un metodo che garantirebbe una perfetta
corrispondenza con la realtà e si concentra su una visione pratica della razionalità stessa. L'antropologia può
essere allora intesa come la descrizione empirica di contesti nei quali maturano forme particolari di
razionalità. E’ questa la prospettiva che è stata chiamata del relativismo epistemologico. Non si tratta di
affermare una dottrina secondo la quale la verità o la realtà oggettiva non esistono, oppure ogni cultura e
ogni società vive in una propria realtà separata da quelle delle altre: piuttosto, di non pretendere di
possedere a priori criteri universali direzionalità prima di accostarci alla diversità delle culture e delle
epoche storiche. Negli anni ‘60 e ‘70 del 900, il problema che viene posto è che se nel tentativo di capire
altre culture possiamo davvero fare a meno di alcuni criteri minimi ma universali di razionalità. A questo
argomento, i relativisti rispondono che la comprensione avviene sempre su basi pratiche e non a partire da
un nucleo epistemologico dato. Tra i sostenitori più forti di questo approccio vi è stato il filosofo Peter
Winch Sosteneva che gli antropologi non possono legittimamente giudicare false, illogiche o irrazionali le
credenze o i modi di vita di un'altra cultura. Dunque, noi possiamo giudicare falsa o illogica un'affermazione
o una credenza all'interno di un modo di vita specifico, ma non possiamo formulare questo giudizio verso un
intero linguaggio o un intero modo di vita.

Relativismo Etico

Nel relativismo epistemologico che riguarda le forme della conoscenza, nessuno si definisce “relativista” o
rivendica il relativismo come una dottrina o una teoria. Il termine è usato in modo polemico contro chi
intende ricondurre la razionalità a condizioni storico-culturali. Relativismo è dunque un'imputazione critica:
serve a sottolineare il rischio nell'abbandono di criteri universali di corrispondenza con la realtà, che
porterebbe a immaginare l'esistenza di tante realtà. Un tipo di relativismo che è stato invece sostenuto in
modo esplicito e consapevole è quello etico, riguardante la formulazione di giudizi morali e sistemi di valori.
È stata in particolare la scuola americana di antropologia culturale a fare del relativismo uno strumento di
lotta contro il razzismo, i pregiudizi etnici e l'oppressione coloniale. Franz Boas e i suoi allievi, si sono battuti
per affermare un uso pubblico del sapere antropologico a sostegno della tolleranza, dell'uguaglianza e dei
diritti dei popoli non occidentali. Di questo progetto il relativismo è stato il fulcro.
Herskovits affermò che una dichiarazione dei diritti veramente universale e non deve tenere in
considerazione la legittimità, per gli esseri umani, di pensare e agire in conformità alle credenze, ai costumi,
ai codici morali della propria cultura. Lo Statement antropologico non fu accolto nella dichiarazione dei
diritti perché la cultura politica prevalente nelle Nazioni Unite vedeva le differenze come disuguaglianze,
ostacoli da superare verso il perseguimento di una reale eguaglianza.
Il discorso umanitario e quello antropologico, per quanto mossi da simili istanze di rispetto dei diritti e di
difesa delle minoranze e dei gruppi più deboli, entrano dunque in una peculiare tensione. La ritroviamo ad
esempio con Levi-Strauss che viene incaricato dall'UNESCO di scrivere una critica dell'ideologia razzista: ne
esce “Razza e storia” un saggio nel quale la confutazione delle teorie pseudo-scientifiche sull'ineguaglianza
come quelle di Gobineau è condotta nel nome del principio della differenza culturale. Una volta
abbandonate le teorie razziste, afferma Levi-Strauss ci troviamo ancora di fronte il problema delle
molteplicità e diversità delle culture. Limitarsi ad affermare l'uguaglianza naturale di tutti gli uomini non
basta, la soluzione consiste nell'affermare che la comune umanità si realizza attraverso e non malgrado le
differenze culturali. Il progresso è infatti sempre frutto della reciproca fecondazione di tradizioni diverse. Ma
il più grande pericolo che Levi-Strauss scorge nel mondo contemporaneo è quello dell'omologazione
culturale e della scomparsa delle culture tradizionali. Questo atteggiamento lo porterà a criticare l’UNESCO
riabilitando l'etnocentrismo come legittimo atteggiamento di difesa le identità culturali.

Antropologia e diritti umani


Herskovits e Levi-Strauss Hanno una visione essenzialista in cui le culture sono entità stabili e definite che
incombono sugli individui determinandone i valori e il comportamento. La sensibilità antropologica di oggi
può difficilmente riconoscersi in questa prospettiva. Quando cerchiamo di opporci alla violenza, alla
discriminazione di genere, allo sfruttamento dei bambini, non possiamo immaginare di diritti delle persone
come “relativi”. Idea per cui, ad esempio, un bambino avrebbe diritto di giocare e studiare in una cultura ma
non in un'altra; oppure le mutilazioni genitali femminili sarebbero accettabili in alcune culture ma non in
altre. Simili diritti devono essere pensati come universali. Tuttavia, nel definire questo piano universale,
torna a farsi presente, impedendoci di comprendere le differenze. Consideriamo brevemente il caso dei
diritti dei bambini. È un campo in cui negli ultimi decenni l’UNICEF e altre organizzazioni si sono impegnate,
specie per quanto riguarda lo sfruttamento lavorativo e l'impiego in operazioni militari. Questo impegno si è
basato sulla concezione dell'infanzia che si è sviluppata nei paesi occidentali. Si tratta di società in cui
bambini sono visti come creature indifese che devono essere protette. Questo atteggiamento verso
l'infanzia, che ci può apparire naturale e scontato, è in realtà una nostra recente peculiarità. Una critica
analoga è rivolta dall'antropologa Carla Pasquinelli contro le mutilazioni genitali femminili, Di cui sono
vittime le bambine in alcune aree dell'Africa e che molte donne immigrate compiono sulle proprie figlie
anche in Europa. Non c'è dubbio che si tratta di una pratica violenta ma le associazioni che lottano contro
questo fenomeno non sempre cercano di comprendere il punto di vista delle donne che vi sono coinvolte.
Se una donna nigeriana vuole infibulare la figlia, consapevole del dolore che le infligge, è perché teme che
in caso contrario la ragazza non si inserirà mai pienamente in una rete di relazioni sociali, che sarà
considerata impura o che nessuno vorrà sposarla. Pasquinelli è soprattutto critica verso il tassativo rifiuto di
“forme di riduzione del danno” come l'adozione di riti alternativi, indolori e privi di complicazioni mediche.
La lotta più intransigente contro le mutilazioni genitali femminili è condotta da un'élite di donne che
dell'impegno umanitario fanno il fulcro della costruzione di una propria immagine di successo. Per loro “un
principio affermato a tutti i costi” vale più della “sofferenza reale di quei corpi”: un'etica dei principi si
sostituisce a un'etica della responsabilità. Costruire la propria soggettività: qui il discorso dei diritti umani si
innesta nella storia delle imposizioni civilizzatrice dell'occidente nei confronti delle culture “barbare” e
“primitive”. Naturalmente, queste critiche non intendono affatto negare l'importanza dell'impegno per i
diritti umani.

CAPITOLO 5

La scuola evoluzionista

L'antropologia culturale nasce e a lungo resta nel clima scientifico della teoria dell'evoluzione.
L'evoluzionismo antropologico ha l’obiettivo di risalire indietro nel tempo attraverso il metodo
comparativo. La soluzione comparativa implica un principio “uniformista”: l'evoluzione si dispiega in modo
graduale, seguendo alcune grandi leggi che restano invariate nel tempo e nello spazio. Inoltre, si articola in
fasi o stadi che seguono sempre e dappertutto la medesima sequenza. Se l'evoluzione è uniforme, non
procede però dappertutto alla stessa velocità. La teoria darwiniana poggiava sull'osservazione di specie
arcaiche, che mostravano nel presente i tratti di precedenti fasi evolutive. Anche per la cultura è così: il
presente appare costellato di segni cifrati dal passato. Gli antropologi ottocenteschi parlano in proposito di
sopravvivenze. Le teorie di Tylor sulla religione esemplifica bene il modo di procedere dell'evoluzionismo
antropologico poiché secondo egli in tutte è presente la credenza nell'anima. Dunque, all'origine di ogni
religione deve esserci stata una fase animistica. Ma come nasce la credenza nell’anima, potremmo
chiederci? Qui si rileva un’altra caratteristica cruciale dell’evoluzionismo, cioè la tendenza a spiegare i tratti
culturali a partire da processi di pensiero individuale. Per Tylor l’idea di anima nasce nella mente del
“filosofo selvaggio” che riflette sul mondo e in particolare sulle esperienze della morte e del sogno, che
sembrano suggerire l'esistenza di un'essenza separabile dal corpo. Una prospettiva che i critici definiranno
“intellettualista”. Occorre però storicizzare queste idee, e valutarle nel quadro del dibattito ottocentesco, nel
quale esse si contrapponevano al dogmatismo religioso e alle diffuse visioni creazioniste e degenerative.
Verso una teoria sociale della cultura

A cavallo tra Ottocento e Novecento all’evoluzionismo si affiancano gli indirizzi di ricerca diffusionisti.
Anch’essi sono concentrati sulla ricerca delle origini dei fatti culturali: cercano di stabilirle in modo meno
ipotetico, ripercorrendo attraverso prove documentarie i processi di circolazione di particolari tratti. Gli
evoluzionisti, ritenevano possibile la poligenesi: vale a dire la nascita parallela di fatti culturali simili in aree
diverse. I diffusionisti partono invece dall'assunto della mogenesi: di fronte a un tratto culturale presente in
aree diverse anche molto lontane, occorre risalire all'unico punto di irradiazione in cui si è originato. Diversi
indirizzi di studio mirano alla raccolta di un gran numero di fatti o documenti, aggregati attorno ai ipotesi di
evoluzione o diffusione nel tempo e nello spazio. Manca tuttavia un elemento che invece caratterizzerà i
successivi sviluppi dell'antropologia vale a dire la teoria sociale. Si potrebbe dire che non era stato preso sul
serio un aspetto cruciale nella definizione tyloriana di cultura: il fatto che essa riguarda le capacità e
abitudini acquisite dall'uomo in quanto membro della società. La dimensione sociale della cultura sta invece
al centro del lavoro della scuola fondata da Durkheim che viene per l'appunto detta “sociologica”. L'assunto
centrale di Durkheim è che la società è qualcosa di più della somma degli individui che la compongono; essa
funziona secondo meccanismi “oggettivi” di cui non necessariamente gli attori sociali sono consapevoli. Non
sono i pensieri, i desideri e le motivazioni degli individui a determinare la società: al contrario, è
quest’ultima che influenza e determina la soggettività. Un punto che Durkheim dimostra in modo eclatante
nel suo studio forse più celebre, quello sul suicidio. A mediare tra società e individui è la dimensione cui
Durkheim si riferisce con i concetti di coscienza collettiva e di rappresentazioni collettive. Si tratta di modi
di sentire comuni ai membri di una società che fondano la stessa esperienza individuale. In un altro famoso
saggio Durkheim e Mauss studiano lo sviluppo della logica classificatoria nel pensiero primitivo, sostenendo
che le classificazioni delle cose riproducono le classificazioni degli uomini. Al contrario di Frazer e Taylor,
secondo i quali le relazioni logiche fra le cose costituiscono il fondamento delle relazioni sociali.
A questo tema Durkheim dedica la sua ultima grande opera: “Le forme elementari della vita religiosa”. Egli
analizza la religione a partire dalla contrapposizione tra il sacro e il profano. Il sacro, a suo parere, si
distingue per il fatto di riferirsi ad esperienze collettive o sociali. La “potenza” che si percepisce nel sacro è la
stessa che esercita la società nei confronti dell’individuo. Ma per Durkheim, diversamente dagli
evoluzionisti, non è sul piano delle credenze che va cercato il radicamento dell’esperienza religiosa. Egli si
sofferma a lungo sulle feste totemiche australiane, dominate da uno stato di effervescenza collettiva nel
quale gli individui sperimentano l’appartenenza al gruppo. Dopo la morte di Durkheim, sarà Mauss a
svilupparne l’eredità attraverso una serie di saggi che dimostrano l’origine storico-sociale di aspetti
fondamentali delle pratiche umane.

Funzionalismo

L’influenza di Durkheim e dell’approccio sociologico si combina con lo sviluppo della ricerca sul campo. È
soprattutto l’antropologia britannica a intraprendere questa strada, rompendo in modo radicale con
l’evoluzionismo e ridefinendosi in termini di antropologia sociale. La società è studiata come un sistema
complesso in cui ogni parte svolge una precisa funzione nei confronti del tutto. Per questo l’orientamento
teorico che si afferma va sotto il nome di funzionalismo. Gli studi etnografici che si sviluppano da
Malinowski in poi includono l’ipotesi funzionalista nella loro stessa forma: studiano le diverse parti di una
cultura cercando di farle incastrare perfettamente le une nelle altre, come in un puzzle. Di fronte a un tratto
culturale non ci si chiede più come abbia avuto origine ma a cosa serve in relazione ad altri tratti del sistema
che li comprende. Malinowski sviluppa queste idee in una sistematica “teoria scientifica della cultura”:
passando dal piano etnografico a quello di presunte leggi generali, mostra la natura funzionale della cultura
legandola a una teoria dei bisogni umani. Successivamente, in Gran Bretagna preverrà un diverso modo di
intendere il funzionalismo, più legato a Durkheim. È in particolare Radcliffe-Brown a sostenere che
l’antropologia non si occupa di individui astratti definiti dai propri bisogni naturali ma di persone concrete in
società particolari. Il concetto di funzione ha significato solo in rapporto alla continuità della struttura
sociale. Tra gli anni ’30 e ’60 una schiera di studiosi produce monografie di ricerca centrate sull’analisi della
struttura sociale di gruppi di piccole dimensioni e caratterizzati dall’assenza di uno Stato di tipo moderno. Il
problema che tutte mettono a fuoco è come sia possibile la coesione sociale senza lo Stato. È appunto
questa la funzione delle istituzioni culturali: il compito degli antropologi è mostrare questa funzione
“nascosta della cultura”. Evans-Pritchard nella sua prima opera analizzava la stregoneria dimostrando due
punti:

1. Si tratta di un modo di spiegare l’esperienza del male legandola alle relazioni sociali
2. La stregoneria è un modo di interpretare e fronteggiare la conflittualità sociale

Dunque, il significato della stregoneria è in ultima analisi politico: ha a che fare con la stabilità e la
funzionalità della struttura sociale.

Strutturalismo

A partire dagli anni ’50 il funzionalismo cessa di rappresentare il paradigma teorico dominante, soppiantato
dallo strutturalismo che rappresenta uno stile di pensiero. In antropologia esso è legato al nome di Levi-
Strauss che pubblicò “Le strutture elementari della parentela” e successivamente “Tristi tropici”, “Il pensiero
selvaggio” e la quadrilogia “Mythologiques”. Nell’affrontare la grande varietà delle forme di parentela e dei
racconti mitologici, Levi-Strauss non si accontenta di classificarli né di chiedersi quale funzione sociale
svolgono. Cerca invece di scoprire il principio che le genera. Il suo punto di partenza è l’analisi strutturale del
linguaggio. Noi impariamo a parlare in virtù di un meccanismo generativo che è dato a priori. È questo che
ci consente ad esempio di creare e capire espressioni nuove e di imparare lingue diverse. Levi-Strauss parla
di strutture come “categorie dello spirito umano”. Nel caso della parentela, la diversità dei sistemi esistenti
può essere considerata come una gamma di varianti rispetto a un unico principio che segue il lavoro della
cultura: separare i matrimoni consentiti da quelli proibiti. La norma universale che proibisce l’incesto è il
punto di partenza: esso si sviluppa in quelle che Levi-Strauss chiama strutture elementari. La sintassi che
esse usano è universalmente la stessa: un codice binario basato sulla contrapposizione di opposti. Per Levi-
Strauss, la basilare contrapposizione di cui parla ogni sistema culturale – a partire dalla parentela – è quella
fra natura e cultura. Negli anni ’60 Levi-Strauss ritrova questi principi in un campo culturale completamente
diverso, quello dei miti. Il pensiero mitico usa una logica che Levi-Strauss chiama “concreta”, utilizza gli
elementi più immediati dell’esperienza comune: animali e piante, aspetti del mondo naturale e sociale, e li
usa come operatori simbolici all’interno di un codice binario. Principio cruciale dell’analisi strutturale è che
un singolo elemento non simboleggia mai qualcosa in sé per sé, ma solo in opposizione a qualcos’altro. Se in
un mito compare il pappagallo, per comprenderne il significato dobbiamo porlo in relazione a un altro
elemento opposto: ad esempio le formiche. Scopriremo allora che l'opposizione fa pappagallo/formiche si
collega a quella fra cielo e terra, alto e basso, e queste coppie concrete rimandano a qualità morali o sociali -
fino ad arrivare alla dicotomia natura-cultura. Si può dire che lo strutturalismo è l'ultimo grande “ismo” del
secolo nel senso di un grande e compatto paradigma teorico. Ciò che viene dopo, infatti, è spesso definito
come post-strutturalismo.

Antropologia interpretativa

Per lo strutturalismo, il significato profondo delle produzioni culturali non è dato alla consapevolezza degli
attori sociali. Questo aspetto accomuna lo strutturalismo al marxismo, anche per quest'ultimo si tratta di
andare oltre la superficie delle produzioni culturali per cogliere le oggettive realtà sottostanti. Queste
consistono nello sviluppo storico dei modi di produzione e nelle relazioni fra classi sociali che essi implicano.
Per chiudere la rassegna sui maggiori indirizzi dell'antropologia, occorre citare l'approccio interpretativo
che si è affermato negli ultimi decenni del ‘900 a partire dal lavoro di Clifford Geertz e in particolare da un
suo testo intitolato “Interpretazione di culture”. È un approccio che si contrappone allo strutturalismo e al
marxismo. Geertz riparte dalla tradizione boasiana del particolarismo storico, che guarda con sospetto ogni
pretesa di stabilire leggi generali e universalmente valide in campo culturale; e dall'obiettivo conoscitivo su
cui insisteva Malinowski, quello di “vedere il mondo dal punto di vista dei nativi”. La questione del
significato è cruciale. In un intenso passo di “interpretazione di culture”, Geertz definisce l'uomo come un
animale sospeso fra ragnatele di significati che egli stesso ha tessuto. Come per Levis-Strauss, cultura è
anche per lui un complesso sistema di segni, un linguaggio. Le cruciali qualità etnografiche sono invece per
Geertz la leggerezza e la sensibilità. Capire il significato equivale a un lento processo di avvicinamento per
tentativi, sempre parziale e provvisorio. L'oggetto dell'antropologia per Geertz sono le forme di vita:
pratiche irriducibili a modelli cognitivi o a una razionalità discorsiva. Comprendere queste forme per
l'antropologo significa in-scriverle in un testo. Geertz si è sempre opposto all'uso dell'etichetta
“antropologia interpretativa”: la sua prospettiva si colloca piuttosto in un clima di sfiducia per le grandi
teorie totalizzanti, e per l'idea che il sapere antropologico possa procedere in modo cumulativo all'interno
di un paradigma condiviso.

CAPITOLO 6

Spiegazione e comprensione

Il filosofo tedesco Wilhelm Dilthey separa le scienze naturali da quelle che chiamava scienze dello spirito.
Le prime si esercitano su oggetti e fenomeni esterni alla coscienza umana e mirano a proporne una
spiegazione individuando regolarità e ricorrenze, e riportando gli eventi sotto le leggi generali. Le seconde
hanno invece a che fare con comportamenti umani intenzionati. Il metodo delle scienze dello spirito è
dunque quello della comprensione. Queste due forme di sapere sarebbero radicalmente separate in base
alla diversa costituzione del loro oggetto. E’ una posizione che sarà sostenuta con forza da Weber e George
Simmel.
Il naturalismo ammette l'uso dell'empatia nel momento della raccolta dei dati, ritenendo che alla fine essi
devono essere espressi nel quadro di teorie esplicative che guardano il mondo sociale dall'esterno. Questo
è il punto di vista della tradizione sociologica fondata da Durkheim: a suo parere, il vero punto di forza della
sociologia consiste nella possibilità di chiarire aspetti delle pratiche sociali di cui neppure gli stessi agenti
sono consapevoli.
I sostenitori delle scienze dello spirito hanno cercato di andare oltre la questione dell'empatia. Per loro il
punto cruciale è un altro: il significato che gli agenti attribuiscono alle loro pratiche è costitutivo di quelle
pratiche stesse in quanto fatti sociali. Lo storico, il sociologo o l'antropologo non possono limitarsi a
osservare e descrivere dall'esterno perché non descriverebbero delle pratiche sociali se non utilizzando le
interpretazioni che gli attori stessi danno di quei gesti, movimenti, suoni. Si tratta di un problema
particolarmente rilevante per l'antropologia, dove il ricercatore tenta di comprendere una società e una
cultura che non è la sua. Quindi come entrano in rapporto le categorie delle persone studiate e quelle del
ricercatore? La fenomenologia sostiene il principio della sospensione degli assunti di senso comune da
parte del ricercatore: dovrebbe cioè descrivere le pratiche senza dare nulla per scontato. Al ricercatore
viene dunque richiesto uno sforzo di estraniamento. L'etnometodologia proponeva ai suoi studenti esercizi
volti a fingere di non capire le più comuni convenzioni discorsive, fare domande inadeguate o rispondere a
domande retoriche prendendole alla lettera. L'ermeneutica ritiene invece che lo studioso non possa disfarsi
delle proprie categorie. La comprensione avviene inevitabilmente a partire da pregiudizi.

L’etnocentrismo critico

Ernesto De Martino, aveva sviluppato una critica alle l'etnologia positivistica. La principale slealtà di
quest'ultima consiste nella pretesa di studiare le altre culture assumendo come scontata quella datità del
reale che è invece un prodotto specifico delle culture stesse. Non possiamo, affermava, pretendere di uscire
dalla storia culturale nella quale siamo nati, per guardare dall’alto tutte le culture. Dobbiamo partire dalle
nostre “fedeltà” culturali: il confronto con l’alterità deve nutrire un costante sforzo di ampliamento del
nostro orizzonte storiografico. De Martino esprimeva questo punto contrapponendo a etnocentrismo e
relativismo una terza posizione che sarà chiamato etnocentrismo critico. Questa formulazione
dell’etnocentrismo critico è stata accusata di considerare l'altro solo come un pretesto per conoscere meglio
se stessi. Dobbiamo riconoscere in effetti che oggi è difficile condividere la fiducia di De Martino in un'epoca
globalizzata poiché il discorso antropologico non è più prerogativa di soggetti “occidentali” che studiano gli
“altri” come propri oggetti.

Retoriche e politiche dell'etnografia

La tradizione “comprendente” e un punto di vista che negli ultimi anni del ‘900 si diffonde largamente nella
disciplina. Ma una parte dell'antropologia resta legata al modello naturalistico: si tratta delle correnti neo-
evoluzioniste della sociobiologia. Questi studi affrontano i fenomeni umani e sono interessati alle funzioni
adattative che essi svolgono per la specie; nel caso della sociobiologia, l'oggetto di ricerca sono più i geni
che gli esseri umani e i fenomeni culturali sono valutati in relazione al concetto di “successo riproduttivo”.
Questo consente di evitare il confronto col problema del significato. Questi indirizzi pretendono talvolta di
“spiegare” fenomeni storici o pratiche socio-culturali cadendo in un determinismo naturalistico. Quando si
cercano infatti di spiegare pratiche sociali legate all'altruismo e alla violenza sulla base delle strategie
riproduttive dei geni, si trascurano i complessi livelli di mediazione che si collocano tra la costituzione
genetica e quello specifico comportamento. Si può legittimamente sostenere una spiegazione biologica
della possibilità di un comportamento altruista o di una reazione violenta ma la scelta in un determinato
contesto di adottare questi comportamenti può essere solo compresa in termini morali e interpretativi.
L'esperienza etnografica consiste nell'osservare ma anche nel partecipare a situazioni sociali e nel dialogare
con altre persone. Per Geertz, questa pratica è la scrittura. E’ questa consapevolezza che lo spinge a
dedicare un suo libro all'”antropologo come autore”. Così, le monografie etnografiche degli autori più
famosi sono decostruite. Su questo punto, oltre all'antropologia interpretativa di Geertz, è decisiva
l'influenza di Edward Said e della sua opera principale, Orientalismo. Said ha cercato di decostruire le
rappresentazioni che il mondo occidentale ha dato dell'Oriente, analizzando un'ampia produzione discorsiva
che include la letteratura, i racconti di viaggio, gli studi storico-antropologici. La sua tesi è che questo
“discorso” non possa essere compreso se non ponendolo in relazione alle forme del potere coloniale che
l'Occidente ha esercitato sull’Oriente. Ciò non significa che il potere determina le forme del sapere: esso
però esercita una funzione plasmante, traducendosi in pregiudizi ideologici.

L'approccio post-coloniale

Verso la fine degli anni ’80, vediamo convergere la tradizione comprendente delle scienze sociali con la
critica alle implicazioni ideologiche coloniali e post-coloniali dell'antropologia. È un atteggiamento a cui
viene talvolta attribuita l'etichetta di post-moderno. Da un lato lo scetticismo verso “i grandi racconti” e
verso l'oggettività del sapere storico-sociale; dall'altro l'assunto che tale costruzione è sempre connessa a
relazioni di potere, o per meglio dire a dinamiche di egemonia e subalternità. Sono i due termini pragmatici
che compongono il sottotitolo di writing culture: le poetiche e le politiche dell'etnografia. Ma l'equilibrio tra
poetiche e politiche non è facile da mantenere e ben presto i due termini si allontanano e alimentano
programmi di ricerca diversi. Si sviluppano in questa direzione correnti di pensiero di vario tipo, che si
riconoscono nella generica denominazione di “antropologia critica” e confinano con l'ambito degli studi
post-coloniali. Si tratta di indirizzi neo-marxisti, che partono dalla dimensione politico-economica ma si
allontanano dal marxismo classico su due fronti. In primo luogo, sottolineano rapporti di potere che non
sono direttamente riconducibili ai rapporti di classe, in particolare le disuguaglianze di genere ed etniche. In
secondo luogo, nello studiare i rapporti tra basi politico-economiche e dinamiche culturali poggiano su una
serie di complesse teorie post-strutturaliste. Interessa osservare come in quest'area di studi emergono in
primo piano i concetti di ideologia e falsa coscienza, che modificano il problema della comprensione
antropologica. Per quest'ultima le categorie e i significati espressi dagli attori sociali sono il dato di partenza
del processo ermeneutico. Nell'antropologia critica di impianto neo marxista questi elementi passano in
secondo piano rispetto a una descrizione della pratica dall'esterno. I discorsi e i sentimenti che occupano la
coscienza rappresentano un livello superficiale, sotto al quale occorre mostrare l'azione strutturante delle
grandi forze economico-politiche: la ricerca del profitto, la divisione in classi, l'esercizio del potere e la
resistenza ad esso. Così, dietro le pratiche di shopping c'è l'azione del mercato capitalistico che ha bisogno
di incrementare sempre più i consumi e crea soggetti orientati in tal senso. In quanto al linguaggio religioso,
l'antropologia critica non crede nella sua autonomia. Per Frantz Fanon, l'universo di miti, divinità minacciose
e zombie rappresenta un rispecchiamento dell'oppressione coloniale, che sposta su oggetti fantastici la
rabbia e il terrore. Nelle danze e nei riti di possessione, allo stesso modo, si rivolge verso il proprio stesso
corpo quell'energia che dovrebbe invece rivolgersi contro gli oppressori.
Amselle, sostiene che non esistono culture o differenze culturali già date prima dell'incontro coloniale: è la
logica della conquista che classifica gli altri in culture ed etnie. La critica di “culturalismo” è volta da Amselle
all'intera storia della disciplina: l'unica alternativa possibile sembra essere un’etnologia storica che non
faccia uso del concetto di cultura e di tutti i suoi correlati. È una posizione che si diffonde ampiamente
nell'antropologia critica e post-coloniale. L'obiettivo non è più capire le modalità con cui si “scrive la cultura”
ma diventa piuttosto quello di “scrivere contro la cultura”.

La cultura e il potere

Occorre studiare le relazioni fra cultura e potere economico e politico, senza però presupporre un rigido
determinismo di una delle due dimensioni sull'altra. Anzi, a ben guardare è sbagliato parlare di due
dimensioni distinte: giacché quello che in antropologia chiamiamo “cultura” interviene a definire la nozione
stessa di “potere economico-politico”. Geertz, ha dato espressione a questo modo di intendere il rapporto
tra cultura e politica. Egli ha criticato la concezione essenzialista delle culture e delle identità, intese come
insiemi isolati nei quali gli individui sarebbero rinchiusi. Le differenze sono per Geertz un elemento
irriducibile col quale la teoria politica deve fare i conti. Ciò che serve è una riforma del lessico politico, che lo
renda meno generalizzante e più sensibile alle sfumature culturali. In definitiva, Geertz pensa ad una teoria
politica integrata dall'interpretazione antropologica: l'interpretazione di un piano che non possiamo che
continuare a chiamare “cultura”, intesa come “una cornice fondatrice di senso all'interno della quale gli
uomini vivono”.

CAPITOLO 7

Romanticismo e positivismo

Lo studio della cultura popolare prende corpo fra Settecento e Ottocento, nelle grandi stagioni del
romanticismo e del positivismo. Il movimento romantico porta il folklore ad acquistare un posto centrale
nelle preoccupazioni degli intellettuali europei. Le raccolte di canti o di fiabe popolari segnano in profondità
la cultura romantica in cui sono esaltate la spontaneità e l'autenticità dell'estetica popolare, concepite come
frutto di una creazione collettiva. Se ne privilegia inoltre il carattere nazionale, dunque la particolarità
linguistica e culturale. Ciò non implica necessariamente un uso del folklore come sostegno ideologico. Vi è
un’universalità della poesia e della cultura popolare, al di là del suo manifestarsi in linguaggi e declinazioni
locali. Il positivismo tenta invece di documentare tutti gli aspetti della cultura del popolo, dal punto di vista
di un concetto antropologico esteso di cultura. Quindi non solo fiabe e canti, ma anche usi e costumi,
credenze magiche, pratiche del lavoro contadino e artigianale, riti e cerimonie. Per il positivismo, non c'è
una vera e propria delimitazione disciplinare tra folklore e antropologia. Entrambe le discipline sono
interessate a documentare stadi arcaici dell'evoluzione culturale dell'umanità. Il metodo del folklore
consiste nel ricondurre usi e costumi contemporanei a presunti antecedenti storici, a forme originarie che
ne costituirebbero la spiegazione.

Il folklore come scienza e come politica

Sulla base della duplice influenza romantica e positivista il folklore diventa progressivamente un'autonoma
disciplina di studio. In Italia, la denominazione ufficiale è diventata “storia delle tradizioni popolari”, mentre
“demologia” resta il termine più usato nel dibattito scientifico. Nel corso del Novecento, antropologia e
demologia si sono distinte per una impostazione metodologica e per interessi teorici diversi; e anche, per un
diverso assetto accademico e istituzionale. Mentre l'antropologia si è prevalentemente sviluppata in
pratiche di ricerca “pura” condotta all'interno del mondo universitario; il folklore si è maggiormente
frammentato in scuole nazionali non sempre adeguatamente comunicanti. Per questo, mentre oggi è
possibile ricostruire una storia unitaria degli studi antropologici ed etnologici, per quelli folklorici Questo
obiettivo è difficile da perseguire. Occorre inoltre considerare un altro aspetto che accompagna fin dalla loro
nascita gli studi sul folklore: l'interesse per un loro uso pubblico, che talvolta si trasforma in vere e proprie
forme di strumentalizzazione politica. Nel XIX secolo la valorizzazione della poesia popolare si accompagna
alla costruzione di una cultura e di sentimenti nazionalisti, divenendo un importante strumento di
plasmazione della coscienza collettiva nel moderno Stato-nazione. Anche nel corso dell'Ottocento il folklore
svolge una funzione pedagogica: non si limita a raccogliere tra il popolo canti, fiabe e proverbi ma seleziona,
modifica e qualche volta crea forme “popolaresche” di cultura. Questa tendenza a promuovere
pedagogicamente il folklore proseguirà anche nei regimi totalitari del 900. Il nazismo, in particolare, si è
appropriato del folklore come supporto alla costruzione del mito della razza.

Egemonia e subalternità

In Italia si verifica un arresto degli studi antropologici, non solo a causa della Grande Guerra. Saranno due
fattori principali a determinare la stagnazione della ricerca in campo folklorico e più in generale,
antropologico. Il primo è il fascismo, che con le sue politiche taglia i contatti tra gli studiosi italiani e le
correnti internazionali. Il secondo fattore è l’idealismo storicistico di Benedetto Croce, che non vede di
buon occhio lo sviluppo delle scienze umani e sociali considerate come pseudo-scienze. Ma le cose
cambiano radicalmente nel secondo dopoguerra. Da un lato, l’Italia si apre nuovamente alla cultura
internazionale e grazie all'autore Einaudi arrivano per la prima volta le traduzioni di grandi opere della
psicoanalisi, della storia delle religioni e dell'antropologia. Dall'altro lato, si sviluppa un indirizzo di studio
autonomo le cui radici sono da ricercare nel pensiero Di Antonio Gramsci. Gramsci nei suoi “quaderni del
carcere” dedica alcune importanti pagine al folklore, che interpreta in modo totalmente innovativo. Nella
sua prospettiva, ciò che definisce un tratto culturale come folklorico o popolare è la collocazione nelle
dinamiche dei rapporti sociali. Gramsci si disfa delle concezioni sia romantiche sia positivistiche del folklore,
e lo ripensa come fenomeno centrale dei rapporti tra le classi e come conseguenza diretta dei processi
egemonici tramite i quali i ceti dominanti esercitano il potere. In Italia molti studiosi cercano di riprendere e
sviluppare le sue indicazioni, fra questi Ernesto De Martino che si dedica a un progetto di documentazione
della cultura magico-religiosa tra i ceti subalterni del Mezzogiorno d'Italia, vedendo in essa una risposta e
una denuncia della loro oppressione materiale e politica. De Martino non manca inoltre di porre in costante
relazione le pratiche popolari e subalterne con lo sviluppo storico del discorso egemonico. I due livelli
ridefiniscono costantemente l'uno rispetto all'altro i propri confini: tanto che l'elemento magico può essere
letto come una forma di resistenza alla forza di penetrazione della cultura dominante. Ma soprattutto è
rilevante la posizione che l'autore assume nel suo rapporto con i contadini poveri del Sud. Nello sforzo di
documentare e comprendere i tratti distintivi dei ceti subalterni, il ricercatore partecipa alla battaglia
educativa e politica per la loro emancipazione. Questo “rendersi partecipe” consiste nel “dar voce ai
contadini poveri del Sud”, operando una mediazione altrimenti impossibile fra il livello subalterno e quello
egemonico.
In questa direzione si muove anche Gianni Bosio che propone la figura di intellettuale rovesciato, che non
insegna ai ceti popolari ma impara da loro, facendosi mezzo di espressione della loro coscienza di classe. Lo
strumento attraverso cui ciò può avvenire è il magnetofono: il registratore vocale portatile.
Occorre infine citare Alberto Cirese che cerca di ricompattare la demologia. I vecchi studi di impianto
romantico o positivista possono essere reintegrati in una moderna scienza della cultura popolare, a patto di
rileggerli sullo sfondo della contrapposizione egemonia-subalternità. Il lavoro più noto di Cirese si intitola
appunto “Cultura egemonica e culture subalterne”. Al centro dell'opera sta una definizione relazionale del
folklore: un tratto culturale non è mai di per sé “alto” o “basso”, egemonico o subalterno, ma la sua natura
dipenderà dal contesto storico-sociale in cui si colloca.

Folk Revival

Nel ventennio 1950-70 vengono meno quelle condizioni che, nella visione di Gramsci e di Cirese,
garantivano la separazione della cultura subalterna da quella egemonica: l'isolamento territoriale,
l'impossibilità di accedere all'istruzione e alle più alte risorse culturali. La modernizzazione non cancella
certo le differenze di classe ma non c'è più una lineare corrispondenza tra differenze di classe e differenze
culturali. Il vecchio folklore contadino viene definitivamente estromesso dal presente ma vi ritorna sotto
forma di revival. Non è più un’alterità definita da distanze spaziali o sociali, ma un tratto del passato da
ricordare, valorizzare, rappresentare. Se la generazione dell'inurbamento ha cercato di disfarsi della
memoria contadina, vista come un imbarazzante retaggio di arretratezza, le generazioni successive ne
hanno fatto oggetto di nostalgia, di revival. I mobili, gli oggetti in rame e tutto quello che era stato buttato,
viene recuperato e diventa oggetto di pregio in un fiorente mercato del rustico. Questi tratti di un folklore
ormai del tutto patrimonializzato marcano un certo livello di raffinatezza, di ricerca di autenticità e dunque
di “distinzione” culturale che si contrappone alla volgarità della cultura di massa. Del resto, il disgusto per la
cultura di massa attraversa in quegli anni il campo intellettuale a tutti i livelli. La sociologia critica della
Scuola di Francoforte considera l'industria culturale come agente di un nuovo totalitarismo; e in Italia,
scrittori come Pier Paolo Pasolini denunciano i suoi effetti omologanti e alienanti. La scomparsa delle
lucciole è la poetica immagine con cui rappresenta l'allontanamento dall'autenticità della vita e della cultura
contadina. Gli enti locali, sviluppano progetti focalizzati sulla memoria, le tradizioni, le radici identitarie
come argini all'omologazione.

Il paradigma patrimoniale

Dagli anni ’90 si afferma un nuovo paradigma incentrato attorno alla nozione di memoria e soprattutto a
quella di patrimonio. È l'UNESCO che se ne fa interprete con la costruzione di riferimenti normativi ed
estetici sovranazionali per la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio culturale dell'umanità. Una
Convenzione del 1972 ha creato la lista dei beni culturali e naturale riconosciuti come “patrimonio
dell'umanità”, che sono oggi oltre 900 in tutto il mondo e che attraggono importanti flussi turistici e
impegnano i paesi di riferimento a forme molto rigide di manutenzione e salvaguardia. A questa lista se ne
sono aggiunte altre, come quella delle memorie del mondo e quella del “patrimonio immateriale” relativa
alla cultura nel senso etnografico del termine. L’UNESCO vara un programma denominato “Tesori umani
viventi” volto a favorire la trasmissione di saperi tradizionali; la “Dichiarazione sulla diversità culturale” e la
convenzione per la “Salvaguardia del patrimonio culturale intangibile”. Quest'ultimo documento
contribuisce alla definitiva affermazione della nozione di intangibile per definire quanto un tempo si
chiamava folklore o cultura popolare. Le politiche UNESCO, comunque, sono solo l'aspetto più visibile di una
strategia patrimoniale oggi diffusa in tutto il mondo. In ogni caso, per quando apparentemente in continuità
con il folk revival, il paradigma patrimoniale pone di fronte a problemi diversi. Soprattutto, le differenze che
esso intende proteggere e valorizzare non sono più quelle sociali o di classe. I documenti UNESCO parlano di
differenze in riferimento a proprietà visibili e spettacolari. Va perduta inoltre, la forza poetica e politica del
dar voce ai protagonisti dal basso della storia.

Cultura popolare e cultura di massa

Se ci chiediamo se non c'è più uno spazio nella contemporaneità per una “cultura popolare” ci sono due
modi di rispondere a questa domanda:

1. Cercare la cultura popolare o il moderno folklore al di fuori della sfera di influenza della cultura di
massa, negli spazi che essa lascia vuoti. Non si tratta solo di indagare in aree marginali e periferiche:
anche in piccoli gruppi che comunicano oralmente. Gli studenti universitari che raccontano
aneddoti sui professori, i passeggeri di un treno che si scambiano storie di ritardi e disservizi, i vicini
di casa che si confidano gli ultimi pettegolezzi - tutte queste sarebbero forme di folklore
contemporaneo, che talvolta si cristallizzano in veri e propri generi, come le leggende
metropolitane, le barzellette, le dicerie e così via.
2. Cercare il “popolare” nelle modalità stesse del consumo della cultura di massa. Il consumo
culturale implica pratiche di resistenza, da parte di soggettività popolari che si contrappongono in
qualche modo a ciò che Hall chiama il “blocco di potere”: una subalternità di classe ma anche
etnica, di genere e di generazione. È importante sottolineare che lo studio del consumo come
pratica culturale ha bisogno di un approccio etnografico. Non basta un'analisi estetica dei mobili
Ikea o dei serial televisivi: per fare etnografia è necessario entrare nelle cucine e nei salotti di casa e
fare osservazione partecipante con le persone che ci vivono.

CAPITOLO 8

La teoria critica

Dobbiamo partire da una considerazione: caratteristica cruciale delle società industriali è la netta
separazione tra sfera della produzione e sfera del consumo. Il riconoscimento delle differenze culturali deve
passare all’interno delle pratiche di consumo di massa: non più in una sfera di produzione autonoma, ma
nelle modalità di accesso al mercato, nella scelta selettiva dei beni, nei modi di usarli ed eventualmente
condividerli e farli circolare. Per questo è così importante per l’antropologia affrontare il campo del
consumo. L’intellettuale Adorno è costretto dal nazismo a rifugiarsi negli Stati Uniti. Qui incontra la società
dei consumi e l'industria culturale, ai suoi occhi è quanto di più distante si possa immaginare dalla grande
tradizione europea. Al di là della leggerezza di superficie, la cultura di massa nasconde la stessa violenza del
dominio economico e politico che la produce. Ciò significa che una teoria critica della società deve studiare
la cultura popolare o di massa per metterne a nudo la “reale” natura di strumento del dominio, per cogliere
i meccanismi del suo funzionamento. Durante gli anni della guerra Adorno scrive “Dialettica
dell'illuminismo” in cui la razionalità volta a liberare gli esseri umani dal dominio della natura finisce -
attraverso lo sviluppo del capitalismo industriale - per volgersi in una nuova forma di dipendenza dagli
individui. Un capitolo centrale del libro è dedicato all'industria culturale che costruisce e disciplina i modelli
umani dei consumatori, in un modo non tanto diverso da quanto fanno i regimi totalitari. Il lavoro critico
consiste nel tentativo di penetrare il velo ideologico che essa tende, mostrandone i veri significati - l'orrore
dietro la leggerezza e il divertimento. Adorno fra l’altro si occuperà di musica jazz e astrologia. Per quanto
riguarda l’astrologia, osserva come nell’idea della dipendenza dalle stelle si possa cogliere il riflesso di
dipendenza da un sistema economico e politico astratto e impersonale. Affidandosi agli oroscopi, gli
individui rinunciano a una soggettività attiva. In quanto al jazz, lo vede come puro impoverimento culturale:
una musica elementare dal punto di vista compositivo, basata su semplici moduli ripetuti.
Queste posizioni di Adorno sono il paradigma di una serie di studi successivi volti a mostrare le conseguenze
alienanti e conformiste della cultura di massa. Quest'ultima, nonostante le sue potenzialità educative e
democratiche, produrrebbe di fatto impoverimento e falsa coscienza. Ad essa si applica la stessa definizione
che Marx dava della religione: oppio dei popoli. È un tipo di analisi variamente ripreso da molti autori, fino a
giungere alle odierne posizioni di Bauman e al sua teoria della “società liquida”. L'effetto delle pratiche del
consumo è quello di isolare gli individui e di spezzare le reti di relazioni che nella società “solida”
sostenevano il sistema sociale.

L’analisi semiologica

La semiotica e la semiologia vengono fatte risalire a Charles Peirce e alle innovazioni introdotte nel campo
della linguistica da Ferdinand De Sausure: che hanno gettato le basi di una teoria generale dei segni e della
comunicazione. Nella seconda metà del novecento, la semiotica si è sviluppata attraverso l’analisi di vari
aspetti della cultura in termini di sistemi di segni. Le arti, la cultura, materiale e ogni altro fenomeno
culturale possono essere trattati come linguaggi di cui devono essere decifrati i significati. La semiotica dà
grande risalto anche all’analisi della cultura popolare di massa. Il cinema, i fumetti, la televisione, la moda e
la pubblicità sono per i semiologi grandi campi in cui esercitare l’analisi strutturale dei segni, alla ricerca di
significati connotativi nascosti sotto la superfice connotativa. Ad esempio, nella pubblicità il contenuto
esplicito del messaggio invita a comprare un prodotto perché utile e di buona qualità; il contenuto ‘’latente’’
associa quel prodotto alla ricchezza e allo status sociale. Roland Barthes e Umberto Eco sono probabilmente
le due più importanti figure della semiologia post-bellica. Barthes ha aperto questo campo di indagine con
un’opera di raccolta di aspetti della cultura di massa nella Francia. Tutti questi tratti culturali hanno carattere
‘’mitologico’’ perché al semplice ‘’oggetto’’ si sovrappone un ordine si significazione ulteriore e ha l’effetto di
‘’naturalizzare’’ l’ordine sociale. Ad esempio, a proposito della corsa ciclistica del tour de france, Barthes
analizza la retorica delle cronache giornalistiche, mostrando come essa sia volta a costruire un’immagine
‘’epica’’ dell’evento. Il mito serve a destorificare, a rendere eterno uno stato di cose che invece storico.
Anche Umberto Eco usa la nozione di mito per dare conto della diffusione della cultura di massa. A questo
tema dedica ‘’Apocalittici e integrati’’. Si tratta di una raccolta di saggi critici su fumetti, cinema, canzoni,
televisione. Rispetto a Barthes, Eco esamina in modo più dettagliato tali prodotti: li tratta come farebbe con
opere della cultura ‘’alta’’. Interi capitoli sono dedicati ad esempio a fumetti come Superman. Cosa
nasconde dunque Superman? Eco ci propone un’analisi delle strutture temporali che cercano di conciliare
l’immobilità del personaggio mitico con la storicità della narrativa romanzesca. Ne risulta una serie di storie
che ricomincia per così dire sempre dallo stesso punto, in cui i personaggi non invecchiano, non si
‘’consumano’’ con il trascorrere degli eventi. Eco lega questo aspetto all’idea di deresponsabilizzazione
etico- politica che le società capitalismo avanzato perseguono. Possiamo chiederci: in che modo le strutture
profonde del significato generano le pratiche discorsive degli attori sociali, che ne sono inconsapevoli?
Evidentemente c’è bisogno di introdurre una qualche dimensione inconscia. Può trattarsi di una sorta di
inconscio linguistico oppure di un inconscio di tipo Freudiano, in contatto con verità profonde (le ansie, le
pulsioni, i conflitti). In teorie come queste la perdita del soggetto si consuma fino in fondo. Per Baudrillard lo
stesso soggetto umano nella cultura di massa diviene una pura funzione del sistema semiotico dominante.

Strategie della distinzione

Gli approcci semiologici sono basati quasi esclusivamente sull’analisi dei testi. Eco però osserva che l’analisi
semiologica non dovrebbe solo soffermarsi sulla forma del messaggio, ma prendere in considerazione le
‘’condizioni oggettive dell’emissione’’; e soprattutto ‘’stabilito che questi messaggi si rivolgono ad una
totalità di consumatori difficilmente riducibili ad un modello unitario, stabilire per via empirica le differenti
modalità di ricezione’’. In questa direzione si sono mossi altri indirizzi che hanno affrontato il consumo
culturale come un sistema di pratiche di concreti attori sociali. Gli approcci precedenti pensano all’industria
culturale come una forza omologante, secondo alcuni sviluppi di queste teorie da ciò risulterebbe persino
un azzeramento delle differenze tra classi sociali: nel senso che resterebbe soltanto una ristretta élite che ha
nelle mani mezzi di comunicazione, e una massa indifferenziata che ne è la passiva consumatrice. Eppure,
ciò contrasta con un evidente aspetto delle pratiche di consumo: per gli attori sociali, esse rappresentano
un’arena privilegiata di espressione di differenze sociali. Questo aspetto è stato sottolineato alla fine
dell’Ottocento da Veblen che analizza le forme di consumo vistoso da parte delle classi dominanti. In esso il
consumo appare come un grande campo di definizione delle relazioni sociali. Se seguiamo Veblen, le cose
appaiono in modo molto diverso. Si può dunque pensare che tutto il consumo è in qualche misura vistoso e
percorso da rapporti di emulazione. Il che non significa considerare il consumatore come un soggetto che
uniforma i propri gusti, al contrario il buon gusto e il savoir faire sono profondamente incorporati nei
soggetti fino a diventare una seconda natura: e solo a questa condizione funzionano come qualità distintive.
Proprio su questo punto si innesta la riflessione di Bourdieu. In una delle sue opere più famose ‘’la
distinzione’’ introduce un importante concetto, quello di Habitus. Quest’ultimo consiste in una serie di
competenze che il soggetto incorpora come risultato del processo di inculturazione. Fanno parti del Habitus
le tecniche del corpo, le forme del parlare e tutto ciò che attiene al buon gusto. L’Habitus è un indicatore di
status sociale, anche se gli individui lo percepiscono come ‘’naturale’’ predisposizione. Al concetto di
Habitus si accompagnano in Bourdieu le differenze sociali basate sul possesso di due forme di capitale,
quello economico e quello culturale. La combinazione delle due forme di capitale da luogo a quattro grande
tipologie:

1. Ceti ad alto capitale economico e ad alto capitale culturale;


2. Ceti ad alto capitale economico ma basso capitale culturale;
3. Ceti a basso capitale economico e basso capitale culturale;
4. Ceti a basso capitale economico ma alto capitale culturale.

L’approccio etnografico

Le pratiche e le istituzioni delle moderne società occidentali sono diventate oggetto della ricerca
antropologica. Cosa succede se guardiano la ‘’nostra’’ quotidianità come se si trattasse di curiosi usi e
costumi ‘’altrui’’? Tra i primi a considerare in quest’ottica il consumo di massa è stata Mary Douglas che non
si è accontentata di considerare riti e simboli come strumenti di coesione del sistema sociale. Ne ha invece
proposto una lettura cognitiva: riti e simboli sono l’aspetto emergente di sistemi categoriali e classificatori
socialmente condivisi che ordinano l’esperienza del mondo. Nel suo libro forse più famoso ha interpretato il
fenomeno del Taboo come un meccanismo culturale di protezione delle ‘’cosmologie’’ o classificazioni
strutturali condivise. Non si tratta di un’aspetto della ‘’mentalità primitiva’’ bensì di una funzione del
pensiero razionale che riguarda ‘’noi’’ quanto ‘’loro’’. Nei suoi successivi libri ha indagato le cosmologie
sociali delle moderne società industriali. Douglas chiama regole della purezza l’obbligo di nascondere il
corpo naturale e le sue funzioni organiche, affermando un modello di individuo come ‘’spirito disincarnato’’.
Con l’affermarsi progressivo dell’individualismo tardo- moderno si moltiplicano le possibilità espressive. La
presentazione pubblica diventa oggetto di strategie di individui che scegliendo un particolare stile,
rispecchiano e al tempo stesso costruiscono una specifica identità sociale. Portare capelli corti o lunghi,
ostentare tatuaggi o piercing, vestire in modo elegante o casual e così via non implica più condanne di
stigmatizzazione, ma è rilevante dell’affermare appartenenza e distinzione. Douglas affronta il problema del
consumo di massa. Il suo bersaglio critico sono le teorie degli economisti secondo i quali il comportamento
di consumo sarebbe guidato da una pura razionalità utilitaria oppure da sentimenti irrazionali come l’invidia
o l’emulazione. Il consumo è razionale, ma in un senso diverso: esso rappresenta un complesso sistema
culturale, vale a dire un campo in cui si costruisce l’intelligibilità del mondo. In altre parole, aldilà della loro
utilità pratica, i beni sono indicatori di categorie culturali e oggetto di pratiche di tipo rituale. Ad esempio, il
cibo serve indubbiamente per mangiare. Ma ci sono svariate modalità culturali di sceglierlo, di cucinarlo,
presentarlo e servirlo, differenziarlo a seconda del tempo e del luogo in cui ci si trova, di usarli per
discriminare tra il feriale e il festivo, i parenti, gli amici e gli estranei, il raffinato e il volgare, il necessario e il
superfluo e così via. In riferimento a queste categorie sociali, il consumo del cibo rappresenta un campo
ricco di risorse simboliche che si prestano alla pratica rituale, al fine di rendere chiaro e visibile un insieme
di giudizi nei processi di classificazione delle persone e degli eventi. L’aspetto forse più importante
nell’analisi di Douglas consiste nel considerare il consumo un campo di relazioni morali: vale a dire legato ai
sentimenti, ai valori e ai rapporti di potere che costituiscono il legame sociale. Per capirne il significato
occorre un’etnografia capace di descrivere le pratiche di consumo dal punto di vista dei consumatori stessi.
Occorre la ricerca sul campo e l’osservazione partecipante. Lo studioso Miller è andato a vedere e ad
ascoltare ciò che la gente fa e dice quando fa la spesa al supermercato oppure quando arreda la propria
casa. Ci ha messo di fronte ad una serie di significati che tutti noi conosciamo benissimo, ma di cui siamo
raramente consapevoli. Le persone coinvolte, in particolare donne, scelgono i prodotti e ne pianificano il
consumo pensando ai gusti e alle necessità dei propri familiari: spendere per acquistare merci è
essenzialmente un modo di nutrire sentimenti e legami primari, è un rituale di devozione familiare. La
stessa ricerca del ‘’risparmio’’ non è mai puramente utilitaria: si tratta piuttosto di un obbiettivo morale.
I cultural studies

L’antropologia trova forti punti di convergenza con quel filone di ricerche multidisciplinari che viene
denominato cultural studies. Si tratta di un’etichetta un po' generica che indica l’attenzione per le
produzioni culturali contemporanee attraverso un approccio che tratta in modo simmetrico l’alto e il basso,
il colto e il popolare. Si tratta di una reazione al punto di vista espresso dalla teoria critica francofortese e
dai filosofi marxisti. Questi ultimi insistevano sulla capacità della cultura egemonica, diretta espressione
delle classi dominanti di imporsi all’intero corpo sociale per mezzo di istituzioni come la scuola, la famiglia,
la stampa e i media. Stuart Hall ne prende le distanze. È vero che i messaggi mas mediali sono codificati in
termini egemonici e che, come tutti i testi, implicano un lettore ideale o preferito. Tuttavia, codifica e
decodifica non sono necessariamente simmetriche: il lettore reale non vedrà per forza nel messaggio le
stesse cose che dovrebbe vedervi il lettore preferito. I contesti socioculturali della fruizione dei beni
dell’industria culturale sono diversi dai contesti della produzione: il che fa emergere interpretazioni e
significati difformi. Si apre dunque nel momento della fruizione una differenza che si articola sull’asse
egemonia- subalternità. Vi sono spazi di autonomia e di ‘’resistenza’’ che non essendo determinati dalla
natura dei prodotti fruiti, li si può studiare solo etnograficamente cioè andando a coglierli in azione in
specifici e concreti contesti sociali. La nozione di subalternità che Hall e i cultural studies impiegano sviluppa
quella gramsciana ma se ne differenzia per alcuni aspetti. Ciò che definisce l’egemonico e il subalterno è la
posizione dei soggetti rispetto non solo al modo di produzione ma anche a differenze di genere, di
generazione, etniche. Hall tenta di ridefinire il rapporto egemonico- subalterno nei termini di una
contrapposizione tra ‘’la gente’’ e ‘’il blocco di potere’’: intendendo con ciò che si tratta di configurazioni
mobili e variabili più che di ceti definiti una volta per tutte. Sono questi gli assunti caratterizzanti i cultural
studies, che li differenziano da posizioni come quelle di Bourdieu o Douglas e ancor di più da De Certeau
che pensa al consumo come a una serie di mosse tattiche volte a rendere ‘’abitabili’’ beni prodotti sul piano
strategico.

Televisione e subculture

La televisione appare fin dall’inizio cruciale banco di prova della teoria della decodifica asimmetrica. Uno
dei primi studi riguarda Nationwide, un programma di commenti alle notizie del giorno trasmesso dalla BBC.
Morley e Brunsdone, i coordinatori della ricerca, avevano sottoposto alla visione del programma gruppi di
persone con diverse esperienze lavorative, gradi di istruzione e provenienza sociale, cercando di capire
come ciascun gruppo interpretava il ‘’messaggio’’. Essi intendevano verificare la tesi di Hall, che aveva
distinto tre possibili letture connesse alla posizione sociale del pubblico: una lettura conforme al ‘’codice
dominante’’, una ‘’oppositiva’’ e infine una lettura ‘’negoziata’’, che riconosce la legittimità delle definizioni
ma al tempo stesso opera ammettendo eccezioni alla regola. La ricerca confermò il nesso tra letture e
appartenenza sociale ma in modi più complicati. L’interpretazione appariva sempre mediata da ‘’posizioni
discorsive’’, legate alla classe ma anche ad altri fattori, ad esempio le appartenenze politiche, la generazione
e l’influsso di subculture etniche e giovanili e così via. Ciò spinge il gruppo dei cultural studies a focalizzare in
modo diverso la ricerca. Prima di tutto, occorre studiare la fruizione della tv nei ‘’contesti naturali’’ in cui
essa avviene, come la casa e la famiglia. In secondo luogo, l’attenzione si rivolge sempre più ai programmi di
intrattenimento ed evasione. I generi femminili della televisione, come le soap operas attraggono sempre
più l’attenzione etnografica. Com’è ben noto, le soap operas sono trasmesse quotidianamente ad orari fissi
e propongono intrecci di tipo sentimentale che si sviluppano in centinaia di puntate. Al successo che
incontrano tra il pubblico femminile fa riscontro l’ironia e il disprezzo del pubblico colto e degli intellettuali.
Nell’ottica di chi le disprezza, le soap operas sono un chiaro esempio dell’istupidimento che la cultura di
massa provoca nel suo pubblico. È possibile invece, cogliere etnograficamente cogliere il punto di vista delle
appassionate seguaci? Fra i lavori che hanno tentato questa linea di indagine, una particolare notorietà ha
avuto il libro ‘’watching Dallas’’. Per la verità, non si tratta di una vera e propria etnografia ma l’autrice si è
limitata a raccogliere una corrispondenza scritta con alcune delle lettrici di una rivista femminile che erano
appassionate del programma e cercavano di spiegare perché. Le loro ragioni sono sostanzialmente di due
tipi: da un lato, si riferiscono al piacere e alle emozioni che evoca; dall’altro, si difendono dalle accuse di
superficialità che vengono dai critici della cultura di massa. Ci troviamo qui di fronte ad un curioso
paradosso. La produzione e la diffusione della soap operas avvengono ad un livello egemonico: e i critici
della cultura di massa, quando la attaccano si muovono su un piano anti-egemonico. E tuttavia i soggetti
sociali più subalterni, donne delle classi popolari con un capitale culturale medio basso, difendono la
legittimità di fruire del prodotto mediale contro quella che avvertono come un’egemonia culturale maschile-
intellettuale. Il che mostra quanto sia complesso il rapporto egemonia- subalternità nelle società di massa
contemporanee. In definitiva, da questi studi emerge l’immagine di un pubblico non così passivo e alienato
ma capace di letture selettive, ironiche e anti- egemoniche. Lo stesso vale per gli studi sulle subculture:
quegli insiemi di mode, stili estetici e linguaggi che si sono diffusi nella popolazione giovanile. Per Hall e
colleghi le subculture rappresentano una risposta all’esperienza sociale dei giovani dei ceti medi e
subalterni. Tale esperienza è diversa da quella dei loro genitori, poiché implica il rapporto con diverse
istituzioni come la scuola e l’industria del divertimento, ma è non di meno plasmata dalla situazione di
classe. Le pratiche subculturali sono fortemente dipendenti dal mercato e dall’industria culturale, che esse
però usano in modi creativi, i quali si configurano come ‘’rituali di resistenza’’. Questa espressione dà il titolo
ad un celebre libro dedicato alle subculture giovanili inglesi, nel quale sono analizzati movimenti come i
mood, le comuni, i rasta e aspetti specifici a diverse subculture come il significato della moda, dell’uso di
droghe, delle passioni musicali e anche di pratiche più elusive come il ‘’non fare niente’’.

CAPITOLO 9

La prospettiva biomedica

Nella prospettiva antropologica il rapporto tra corpo, mente e relazioni sociali implica reciproche influenze e
sconfinamenti. Più precisamente, si potrebbe dire che il corpo e la mente si costituiscono attraverso le
relazioni sociali in specifici contesti storico culturali. Ciò significa che non è possibile comprendere il corpo e
la mente senza tirare in ballo aspetti sociali, politici e culturali. Questo è il nucleo concettuale
dell’antropologia medica. Un’idea non facile da accettare perché la nostra medicina si è costituita come
campo naturale, cercando di espellere proprio gli aspetti sociali e culturali. Occorre allora capire in una
prospettiva più ampia proprio la medicina moderna. Partiamo da una descrizione che ne propone
l’antropologo Byron Good in cui vediamo articolarsi tre livelli:

1. L’esperienza di dolore del paziente;


2. I suoi tentativi di comunicare e descrivere questa esperienza;
3. La condizione biologica del corpo.

I pazienti esprimono i loro sintomi in un linguaggio culturale: ma il compito del medico è decodificarli in
disturbi fisiologici. Questa prospettiva si viene consolidando nel corso del XVIII secolo, soppiantando
precedenti saperi prescientifici in cui segni e sintomi erano interpretati come indicatori di un livello più
profondo di ordine e disordine, formulabile solo attraverso ampie costruzioni simboliche. Si pensi ai modelli
di guarigione che molti antropologi hanno descritto nelle culture africane in cui la malattia è interpretata
come conseguenza dell’infrazione di una norma o un divieto imposto. La biomedicina moderna prende
nettamente le distanze da tutto questo. La medicina moderna ci cala in un mondo di costante visibilità, si
tratta di un riorientamento dello sguardo e del linguaggio, all’interno del quale le scoperte possono avvenire
e assumere significato.

Conoscenze e credenze

L'antropologia positivista poggia sulla distinzione tra conoscenza e credenze. La conoscenza esiste
semplicemente perché è vera. Le credenze non sono invece necessariamente corrispondenti alla realtà:
occorre allora “spiegare” come possono continuare a esistere malgrado la loro illusorietà. Ed è qui che le
teorie antropologiche classiche offrono le loro interpretazioni di tipo psicologico o sociologico. In assenza di
conoscenza scientifica, il pensiero primitivo si rifugerebbe in tentativi pseudo-razionali dispiegare e risolvere
il male, oppure in rituali. In quest'ottica, lo studio delle “altre” forme di medicina consiste in una sorta di
classificazione delle credenze sulla base di categorie e distinzioni assunte del sapere biomedico. Ciò che vale
per i “primitivi” vale anche per la cultura popolare nei paesi occidentali. In Italia, ad esempio, gli studi sulle
tradizioni mediche popolari hanno avuto una certa fortuna: sotto l'etichetta di “demoiatria”. Quella che oggi
chiamiamo antropologia medica nasce proprio con il superamento di tale prospettiva e con la volontà di
trattare in modo simmetrico la nostra e le altre medicine. Il linguaggio scientifico interpreta la realtà
trasformandola in esperienza e lo fa sulla base di assunti culturali, teorici e persino metafisici - assunti che
non sono tratti dall'esperienza ma rendono possibile e definiscono un ambito di esperienza. Di
conseguenza, il raffronto fra la biomedicina scientifica e i diversi sistemi medici non può basarsi sulla
dicotomia vero o falso o su categorie di non corrispondenza alla realtà. L'antropologia medica si trova allora
di fronte al compito di studiare come le culture il loro “comportamento di malattia”. Bisogna intanto chiarire
che l'antropologia non si contrappone alla biomedicina ma propone una visione alternativa di corpo, salute,
malattia e guarigione.

Atteggiamento naturale e antropologia del corpo

All'antropologia medica interessa affermare che il progresso non può essere letto in termini di passaggio
dall'ignoranza alla conoscenza, ma come transizione tra cornici di senso che articolano in modo diverso il
rapporto tra corpo, esperienza e linguaggio. Tali cornici sono la base di atteggiamenti della vita quotidiana
che appaiono naturali. Compito dell'antropologia non è falsificare ciò ma tentare di collocare il paradigma
biomedico all'interno di una visione più ampia. Tra gli antropologi che hanno sviluppato il tema sulla
costituzione dell'atteggiamento possiamo citare Ernesto De Martino. Egli afferma che lo sfondo opaco della
quotidianità ci fa vivere in un mondo addomesticato, ma ci sono due momenti in cui l'atteggiamento
naturale viene problematizzato: il primo è rappresentato dalle crisi psicopatologiche (la schizofrenia in
particolare) e la seconda situazione che, questa volta in positivo, costringe a problematizzare
l'atteggiamento naturale è quella della comprensione storica e antropologica, il tentativo cioè di capire
diverse costituzioni culturali del mondo. Qui torniamo allora al problema del rapporto tra antropologia e
biomedicina: la prima non può permettersi di dare per scontato il concetto di “natura” su cui la seconda si
basa. I due saperi stanno su piani diversi. L'antropologia non intende né confermare né confutare la
biomedicina ma cerca di porla in una prospettiva storico-culturale più ampia. D'altra parte, questa
prospettiva non è solo teorica in quanto spinge a guardare in diversa luce alcuni aspetti cruciali della
biomedicina come la malattia e l'efficacia terapeutica, e interagisce dunque con la sua stessa pratica.
Si apre qui la possibilità di un'antropologia del corpo. Il pioniere di un'analisi culturale del corpo è
considerato Mauss che lancia un vostro programma di etnografia descrittiva riguardo gli usi del corpo che si
apprendono in modo differenziato in diverse culture. Propone uno schema classificatorio per lo studio delle
tecniche corporee che si basa sul ciclo della vita (tecniche della nascita, svezzamento e infanzia,
adolescenza, età adulta, ecc.); sulla distinzione tra varie funzionalità (tecniche del sonno, del movimento,
dell’igiene, del mangiare e del bere, e così via); e suggerisce di indagare la distinzione delle tecniche per età
e per sesso, per gradi di efficacia, per modalità di trasmissione e addestramento. Il programma etnografico
di Mauss non sarà mai sviluppato nel modo che egli intendeva ma numerosi studi si sono incentrati sulla
costituzione sociale del corpo. Bourdieu afferma che i modi di camminare, di gesticolare, di mangiare, di
salutare e così via, sono quasi sempre marcatori dello status sociale che si acquisiscono per nascita ed
educazione, e che successivamente non si possono mai del tutto cancellare o cambiare. In questo senso si
può dire che il corpo è percorso dai rapporti di potere interni a una determinata società e in particolare
rende evidenti e al tempo stesso rafforza i rapporti tra la cultura e dominante e quella subalterna. Anche
Mary Douglas discute il tema degli usi simbolici del corpo, sostenendo che quest'ultimo possiede una vasta
gamma di possibilità simboliche e espressive che vengono limitate dalle regole sociali. In particolare, vige
una “regola di purezza” che riguarda la misura in cui vengono tenute nascoste le funzioni organiche. Dalla
regola di purezza derivano anche le dimensioni fisiche inerenti la distanza sociale e quindi la
vicinanza/distanza da mantenere nei confronti degli altri e le parti del corpo che possono essere esposte in
pubblico. Ciò porta Douglas a formulare la teoria dei due corpi, fisico e sociale, che stanno tra di loro in una
relazione di tensione: il primo “contrae o espande le sue esigenze” in modo proporzionale alle esigenze del
corpo sociale. Ad esempio, Douglas analizza i modi di espressione attraverso una scala di gradi di
disincarnazione: il controllo dei rumori nel mangiare, respirare e camminare, il controllo del riso, e così via.
Inoltre, esplora le modalità di presentazione estetica del corpo secondo una scala di formalità-informalità:
ad esempio, la contrapposizione liscio-peloso sta alla base di tutta una grammatica estetica che consente di
risalire a caratteristiche cruciali della stratificazione sociale.

Le sindromi culturalmente condizionate

Un tema classico studiato dall'antropologia per mostrare gli aspetti culturali della salute e della malattia è
quello delle sindromi culturalmente condizionate. Si tratta di malattie che sono riconosciute e diffuse in
una specifica area socio culturale e solo in quella: presentano sintomi e segni precisi, sono attribuite a cause
particolari e legate a forma di diagnosi e terapia previste dalla tradizione. Un esempio molto noto è il susto,
una sindrome diffusa in alcune parti dell'America Latina e caratterizzata da disturbi nervosi, ansia e
insonnia. Il susto si suppone causato da un forte spavento e viene guarito attraverso una terapia rituale di
purificazione. In Italia, il caso più noto di sindrome culturalmente condizionata è il tarantismo pugliese. Il
che ci riporta a De Martino, che a questo tema ha dedicato uno dei suoi libri più belli: “la terra del rimorso”.
Il tarantismo consiste in un disturbo psichico che si ritiene causato dal morso di una tarantola che viene
curato attraverso un rito esorcistico di carattere coreutico-musicale. La persona colpita danza per ore e
talvolta per giorni al ritmo della “pizzica” di fronte all'intera comunità. La danza fa manifestare la tarantola
che la possiede finché non abbandona il corpo. De Martino tratta il tarantismo come un vero e proprio
dispositivo medico: il rituale non è solo una superstizione ma è efficace. Questa convinzione lo porta a
individuare in questa come in altre forme della medicina popolare un meccanismo di efficacia simbolica.

Efficacia simbolica

Il concetto di efficacia simbolica fu formulato da Levi-Strauss in un saggio dedicato all'analisi di un


incantesimo usato tra i Cuna di Panama per favorire un parto difficile. Egli nota come questo metodo
assomigli a quello della psicoanalisi, la quale, attraverso il linguaggio specifico rende possibile esprimere
conflitti che non si potrebbero altrimenti manifestare e con ciò conduce al loro scioglimento. La cura
sciamanica dei Cuna si pone dunque a metà strada tra medicina organica è una terapia basata sul
linguaggio. Ma dovremmo chiederci, in che modo si trascorre dall'ordine culturale a quello organico? Per
Levi-Strauss, la risposta consiste nella fondamentale omologia tra le strutture che organizzano i diversi livelli
della vita: quello organico, quello dell'inconscio e quello del pensiero cosciente. Nella seconda metà del 900
il tema della efficacia simbolica sta al centro nella riflessione medico-antropologica, ed è qui che
l'antropologia può costruire un rapporto più forte con la biomedicina. In ogni momento della pratica
biomedica gli aspetti simbolici si intrecciano con quelli tecnici: sottoporsi a cure mediche significa vivere
un'esperienza sociale che cambia le condizioni del paziente. Basti pensare al consulto con il medico, in cui il
medico tocca il corpo del paziente e lo rassicura. Quando il paziente esce dallo studio medico spesso sta già
meglio. Si capisce dunque che in chiave antropologica l'interazione medico-paziente è molto più di un
momento tecnico di raccolta di informazioni: è invece il momento cruciale dell'intero percorso terapeutico.
Recenti linee di indagine hanno indirizzato l'attenzione sul ruolo dei trasmettitori chimici che pongono in
comunicazione il sistema nervoso centrale con gli organi periferici del corpo. Tullio Seppilli, fondatore della
moderna antropologia medica in Italia, ritiene ad esempio che discipline come la PNEI - che studia
l'influenza del sistema nervoso centrale sui processi di difesa organica legati al sistema immunitario -
potranno condurre a una medicina unitaria che integri nel linguaggio biomedico il ruolo svolto dalle
esperienze sociali e culturali.
Incorporazione e antropologia critica

I recenti indirizzi dell'antropologia critica imboccano una direzione del tutto diversa. Le prese di distanza
verso l'approccio culturalista si manifestano in modo molto netto in antropologia medica. Nel campo della
salute e della malattia, come in quello della violenza, la ricerca può difficilmente rappresentare un'impresa
neutrale e distaccata. I ricercatori si trovano di fronte la sofferenza di concreti esseri umani, in situazioni di
miseria, fame e oppressione. Questo aspetto esplode quando la ricerca si sposta da piccoli e isolati gruppi
alle periferie delle città post-coloniali. In questi casi è difficile considerare il rapporto con il corpo e con il
male in termini di semplici differenze culturali. Attorno a questo atteggiamento si coagula un linguaggio
teorico composito. Il punto di partenza è il concetto di incorporazione. È stato in particolare Thomas
Csordas a teorizzare l'incorporazione come concetto chiave di una nuova fase dell'antropologia medica: si
tratta del postulato metodologico che il corpo non è un oggetto da studiare in relazione alla cultura, ma
deve essere considerato come il soggetto della cultura stessa. La prospettiva dell'incorporazione intende
superare la dicotomia fra mente e corpo. Due antropologhe mediche americane hanno coniato
l'espressione corpo pensante o colpevole per esprimere questo concetto. Esse costituiscono una teoria
basata sulla compresenza di tre dimensioni del corpo: sociale, politico e personale. Il corpo sociale è quello
di cui parla l'antropologia simbolica - che appare un peso passivo attaccato a una mente che è invece vivace
e attenta, e che rappresenta il vero agente della cultura. Il corpo politico è invece quello plasmato dalle
relazioni di potere. Si apre il campo di quella che potremmo chiamare una economia politica della
sofferenza, dove la malattia è posta in relazione a condizioni di sfruttamento economico, a forme di
oppressione di classe o di genere, a contesti ambientali degradati o inquinati e così via. L'antropologia
critica ha avuto il merito di richiamare a un collegamento tra due dimensioni cruciali della comprensione
antropologica: l'etnografia di micro contesti e le analisi delle macro condizioni politico-economiche che
determinano le condizioni di salute e malattia di individui e collettività. L'importanza di tener conto di
questa duplice dimensione si è manifestata in particolare in campi quali lo studio dell'epidemia di aids in
Africa oppure dei problemi psicopatologici degli immigrati. Qui gli antropologi hanno smontato la naturalità
della malattia mostrando i grandi meccanismi socio-economici che la producono, la definiscono, la
gestiscono.

Pluralismo medico e medicine non convenzionali

Il pluralismo medico si riferisce alla compresenza di biomedicina e medicine tradizionali nei sistemi di
diagnosi e cura. Secondo una visione progressista, la medicina scientificamente fondata, avrebbe dovuto
soppiantare le pratiche popolari ma non è stato così e le medicine tradizionali hanno spesso mantenuto un
ruolo importante. In molti paesi non occidentali, si valuta che il 90% dei comuni problemi di salute viene
trattato per mezzo di saperi e pratiche diffusi nella cultura popolare o attraverso il ricorso a guaritori
tradizionali. Ma anche nei paesi occidentali è possibile individuare forme di pluralismo medico. Non si tratta
solo della resistenza di pratiche popolari. Negli ultimi decenni del 900 ha avuto grande impulso il fenomeno
delle cosiddette medicine non convenzionali: saperi e pratiche diagnostiche e terapeutiche che si
differenziano dalla biomedicina. Le discipline che rientrano in questo campo sono centinaia e le loro origini
sono molto diverse ma presentano alcuni tratti comuni: un carattere dolce o naturale, con l'opposizione
all'uso di farmaci chimicamente sintetizzati; una concezione energetica piuttosto che biochimica del corpo.
Le medicine non convenzionali sono interessanti per l'antropologia perché delineano un sistema di
pluralismo medico. La loro diffusione conferma che la globalizzazione e le comunicazioni di massa non
cancellano le differenze a favore di una omogenea monocultura planetaria, anzi per molti versi le
moltiplicano. Le medicine non convenzionali segnalano mutamenti importanti, il principale di questi può
essere riassunto nella rivendicazione della libertà di scelta terapeutica. È il singolo paziente a decidere se
curarsi con la biomedicina, con l'omeopatia, con i fiori di Bach, ecc. Uno dei punti fermi dell'intero universo
delle medicine non convenzionali riguarda il fatto che non ci si ammala per caso. La malattia, esattamente
come la cura, è sempre questione di responsabilità individuale: può discendere da un cattivo stile di vita, da
rapporti sociali stressanti, e così via. La malattia non è altro che un segnale cifrato, la cura a sua volta e la
riconquista di uno stato di armonia ed equilibrio.

CAPITOLO 10

Sistemi di memoria

L'antropologia è prevalentemente interessata alla memoria a lungo termine, I cui meccanismi di


funzionamento sembrano del tutto diversi da quella a breve termine. Con quest'ultima espressione gli
psicologi intendono la capacità di richiamare informazioni appena assunte nel giro di pochi secondi. La
memoria a breve termine viene a sua volta distinta da una memoria a brevissimo termine o memoria
sensoriale. Memoria sensoriale e memoria a breve termine sarebbero ricomprese nella memoria di lavoro.
Il concetto di memoria a lungo termine indica invece la capacità di ritenere informazioni per un tempo
superiore ai pochi secondi che caratterizzano la memoria di lavoro. Si è soliti suddividere la memoria a
lungo termine in tre sistemi: la memoria procedurale, quella semantica e quella episodica. La memoria
procedurale consiste in capacità incorporate che spesso non sono facilmente verbalizzabili come svolgere
determinati lavori o andare in bicicletta. La memoria semantica consiste nel nostro sapere generale sul
mondo e contiene un repertorio di conoscenze e regole che permettono l'uso e la comprensione del
linguaggio. La memoria episodica registra eventi o episodi collocabili in termini spazio-temporali di cui il
soggetto ha avuto esperienza. Memoria semantica ed episodica sono congiuntamente definite anche come
memoria dichiarativa, in quanto mirano a rappresentare il mondo o il passato.
Invece, memoria esplicita e implicita sono state introdotte per dar conto di quei casi in cui si è influenzati da
un'esperienza passata senza essere consapevoli di ricordare. Rientra in quest'ambito problematico anche il
concetto di memoria involontaria, in cui uno stimolo sensoriale apre improvvisamente un intero scenario di
ricordi che sembravano perduti.
La psicologia sperimentale rivolge invece scarsa attenzione al tema psicoanalitico del rimosso cioè di quei
ricordi che non emergono alla coscienza in virtù di un blocco dovuto al loro carattere proibito o doloroso,
ma che sono presenti nella psiche e influenzano il comportamento.
Nella psicologia novecentesca, vi è un orientamento centrato sull’osservazione di contesti pragmatici e
socio-colturali reali di uso della memoria, che ha il suo riferimento classico nell’opera di Bartlett che
sostenne una visione che oggi chiameremmo “interpretativa” della memoria, concependola come uno
“sforzo verso il significato”: vale a dire, come un processo di ricostruzione che, partendo dagli interessi e
dalle conoscenze presenti del soggetto, tenta di ricostruire a posteriori il significato del ricordo.
L’orientamento di Bartlett ha ispirato Neisser, fondatore di un approccio “ecologico” alla ricerca sulla
memoria – espressione che si riferisce alla necessità di collegare prestazioni mnemoniche al contesto
pratico di vita in cui esse sono impiegate.

Falsi ricordi e memoria collettiva

L’approccio di Bartlett, così come quello ecologico di Neisser, attribuiscono centralità a fenomeni della falsa
memoria e delle distorsioni del ricordo. Si tratta di aspetti del funzionamento della memoria che non
possono essere interpretati come pura perdita di informazioni, bensì come il prodotto di attive strategie di
ricostruzione del passato sulla base non solo delle esperienze e del sapere presente, ma di strutture di
senso. Bartlett ha introdotto il concetto di schema per indicare strutture sulle quali i ricordi si innestano; la
ricerca cognitiva più recente preferisce parlare di copioni, che tendono a configurarsi come sequenze di
eventi attorno ai quali le informazioni si organizzano. È in questo quadro che i fenomeni dei falsi ricordi,
delle distorsioni e dell’oblio vanno compresi. Questa prospettiva è diversa da quella della psicoanalitica, qui
la distorsione e il falso ricordo rappresentano una forma patologica. Nella prospettiva cognitivista non si può
parlare di un ricordo “reale” che sarebbe celato dal ricordo falso o dall’apparente oblio. Tuttavia, la
psicologia cognitiva riprende dalla psicoanalisi alcune idee-chiave sui meccanismi che guidano il lavoro degli
schemi: ad esempio lo spostamento e la condensazione. Naisser ha introdotto il concetto di memoria
“repisodica” per indicare la tendenza a ricordare più eventi analoghi come se si trattasse di un unico
episodio: una strategia di condensazione che produce un ricordo in sé falso, il quale conserva tuttavia un
fondamentale elemento di verità. Dovremmo forse chiamare questi ricordi non tanto falsità quanto finzioni,
nel senso del termine di qualcosa di costruito alle quali non si applica facilmente la dicotomia vero/falso.
Essi influenzano a fondo il problema della verità della testimonianza. In sostanza, la consapevolezza del
carattere “costruito” delle memorie ci impedisce di assumere la testimonianza in un’ottica realista,
spingendoci a cercare di capire quanto sono influenzate dalla situazione in cui emergono, dalle finalità e così
via. Ciò che interessa più sottolineare è un altro punto; la concezione bartlettiana della memoria come
“sforzo verso il significato”, come attiva interpretazione del passato sulla base di schemi psicologici connessi
alla vita concreta del presente, apre la strada alla considerazione degli aspetti sociali del ricordare. In questa
prospettiva, l’atto del ricordare non può essere inteso separandolo dal contesto del mondo vitale e delle
pratiche comunicative, che è per definizione un contesto sociale e culturale. Gli stessi concetti di schema si
riferiscono a un elemento che trae contenuti dalla dimensione della cultura. È questo il punto di profonda
saldatura fra lo studio psicologico della memoria e gli studi storici e culturali. Proprio su questo punto di
giuntura insiste il contributo di Halbwachs, autore di tre importanti libri sulla memoria. L’idea centrale del
suo lavoro è l’applicazione al campo della memoria del concetto durkheimiano di “rappresentazione
collettiva”, intesta come una categoria del pensiero che precede l’elaborazione individuale e che è radicata
nelle istituzioni e nelle pratiche sociali. L’atto individuale del ricordare è a suo parere possibile solo sulla
base di quadri sociali che sono antecedenti a qualsiasi ricordo. Tali quadri non si limitano a selezionare i
ricordi: piuttosto, li producono. Nella sua ottica “ricordare, per un individuo, corrisponde a riattualizzare la
memoria di un gruppo sociale cui egli appartiene o ha appartenuto in passato”. Il che significa che la
memoria del gruppo è in qualche modo più reale della memoria individuale. Significa, inoltre, che la
memoria interna può essere studiata separatamente dalla memoria esterna, vale a dire quei dispositivi
tramite i quali le società incorporano la memoria del passato in oggetti, in luoghi o in pratiche.

La costruzione linguistica del ricordo

L’analisi del discorso, colloca la memoria “la fuori”, all’interno delle pratiche discorsive e simboliche
quotidiane prescindendo da ogni ipotesi sull’esistenza di processi mentali e ricordi, concepiti come oggetti
da immagazzinare e ritirare fuori al momento giusto. L’analisi del discorso intende il linguaggio in modo
radicalmente anti-realista: esso è uno strumento di gestione delle relazioni sociali. Il costruzionismo sociale
richiede dunque uno sforzo di estraneamento. L’analisi del discorso trascura la possibilità che in ogni
resoconto del passato prodotto in buona fede vi sia un’autentica istanza rappresentativa, una pretesa di
affermare la verità oggettiva. Un problema che emerge è nella testimonianza. Si può testimoniare la
violenza o l’ingiustizia, denunciare il male, se il nostro racconto del passato non è altro che è una
costruzione retorica? Tuttavia, l’analisi del discorso ci mostra come l’istanza rappresentativa e quella
pragmatica siano mischiate nel discorso quotidiano e come l’appello “alla verità oggettiva” sia proprio una
delle principali strategie retoriche impiegate per far prevalere una versione su un’altra. Ciò apre programmi
di ricerca di grande interesse sulle pratiche del ricordare insieme. Ne è un esempio il lavoro di Middleton e
Edwards, dedicato all’analisi linguistica e relazionale della diffusa pratica domestica del guardare gli album
fotografici di famiglia. Siamo abituati a pensare a questa attività come una contemplazione di ricordi già
presenti nella memoria dei membri della famiglia. Questi autori mostrano come al contrario sia qui in gioco
la costruzione cooperativa dei ricordi. La metodologia impiegata in queste analisi tende a mettere in luce le
strategie retoriche. Le narrazioni autobiografiche fornite dei testimoni sono il prodotto del contesto
comunicativo in cui vengono raccolte vale a dire della relazione linguistica e politica tra narratore e
ricercatore. La pragmatica dell’incontro etnografico influenza ciò che viene detto. Oggetti, luoghi e riti
commemorativi “Per fissarsi nella memoria, una verità deve presentarsi sotto la forma concreta di un
avvenimento, di una figura personale o di un luogo” scrive Halbwachs. Levi-Strauss scorge un esempio nei
churinga, che egli definisce classificatori. La loro funzione è quella di essere una manifestazione diretta e
materiale del passato all’interno del presente. Per farli apparire meno esotici li paragona ai moderni archivi.
Sia gli archivi che i churinga incorporano la memoria di un gruppo sociale e il loro accostamento trova un
limite nella distinzione che avanza tra due modelli di società. Le società “calde”, come quella occidentale
moderna, che interiorizzano il divenire storico per farne il motore del loro sviluppo; e le società “fredde”
che cercano di annullare l’effetto che i fattori storici potrebbero avere sul loro equilibrio e la loro continuità.
La contrapposizione tra società fredde e calde è stata riletta dal alcuni autori in termini di differenza tra
oralità e scrittura. Nel primo caso la memoria è depositata in riti, che si tramandano secondo ripetizione; nel
secondo si può parlare di una coerenza testuale che apre lo spazio dell’interpretazione. L’idea chiave in
queste e simili teorie e che la modernità, in virtù della discontinuità che istituisce nei confronti del passato,
sviluppi una consapevolezza della storicità e del trascorrere del tempo, che sarebbe sconosciuta alle culture
tradizionali immerse nel mito dell’eterno ritorno. Un’idea analoga si esprime nella distinzione proposta da
Pierre Nora: il concetto su cui lavora resta quello del passaggio da una comunità che vive un tempo circolare
ed è costantemente immersa nella memoria, a una comunità che vive un tempo vettoriale ed è ossessionata
dallo sfuggire del tempo, organizzando la propria cultura attorno alla produzione di memoria. In realtà, le
scienze sociali contemporanei tendono oggi a un deciso scetticismo nei confronti di tutte quelle categorie
che assolutizzano la distanza tra modernità e tradizione: vedono anzi nel concetto stesso di tradizione una
proiezione etnocentrica della modernità. Non di meno, il concetto di *luogo di memoria * si è dimostrato
secondo, per la capacità di aprire nuovi scenari alla comprensione della struttura simbolica degli spazi
sociali e delle pratiche celebrative e commemorative - in contesti moderni come in quelli tradizionali. Gli
ultimi anni hanno così visto una grande fioritura di studi su monumenti, musei, memoriali, cortei, festival,
tradizioni, film e programmi televisivi. Jay Winter ha parlato di un “boom della memoria”. Memoria ufficiale
e vernacolare: nazionalismo e oltre Assmann distingue memoria comunicativa e memoria culturale, intese
come modalità che non si succedono ma coesistono. La prima è basata sulla comunicazione orale
quotidiana e su un ambito relazionale relativamente ristretto e risale indietro nel tempo per poche
generazioni. La memoria culturale si determina invece quando un evento del passato entra nel patrimonio
di ricordi istituzionalizzati di una comunità. Troviamo qui la contrapposizione tra una memoria istituzionale
e una che potremmo chiamare popolare o quotidiana; un punto chiarito ancora meglio da un’altra coppia di
concetti, memoria ufficiale e memoria vernacolare. Secondo una diffusa interpretazione, il modello di
memoria culturale che oggi ci è più familiare nasce con le grandi rivoluzioni moderne, americana e francese.
Prima, quelle che si registravano erano memorie puramente locali, sono le rivoluzioni con il loro culto di un
nuovo inizio e con il senso di rottura con il passato a dar luogo a rituali di memoria in grado di coinvolgere la
totalità dei cittadini. Questo presuppone al tempo stesso una condivisione di oblio, nei confronti di certi
aspetti scomodi del passato ma anche verso componenti del presente che non sono viste come fondanti del
nucleo identitario. Le minoranze etniche, le donne, le classi lavoratrici entrano raramente a far parte delle
memorie ufficiali della nazione, né sono soggetti attivi delle pratiche simboliche di commemorazione:
questo ruolo è perlopiù riservato all’Elite maschile. La fase classica delle politiche celebrative e nazionaliste
esalta dunque la memoria pubblica istituzionale, lasciando in secondo piano le memorie private e
vernacolari. Si tratta tuttavia di una fase che sembra progressivamente esaurirsi nella seconda metà del XX
secolo. Inoltre la globalizzazione apre nuove possibilità per la costruzione di memorie e identità trasversali,
etniche, transnazionali o particolaristiche. Contemporaneamente, la polverizzazione della vita pubblica,
insieme all’etica fortemente individualista conducono a una personalizzazione delle pratiche di memoria. I
diari, le celebrazioni dei compleanni e degli anniversari, le fotografie e i souvenir. Memoria e storia: gli usi
pubblici del ricordo È vero che viviamo oggi in uno scenario saturo di autobiografia e di oggetti e luoghi e
discorsi pervasivi, ma ciò sembra creare un problema di eccesso di memoria. L’eccesso di memoria riguarda
anche la produzione storiografica e antropologica. Abituate a lavorare in regime di relativa scarsità di fonti,
queste discipline non si trovano a loro agio in scenari di fonti sovrabbondanti. Ma ciò che conta di più è che
all’interno del discorso pubblico esse godono di uno statuto privilegiato - in quanto produttrici di resoconti
sul passato, sulla tradizione e sull’identità culturale. Nel loro ruolo di specialisti nella gestione pubblica della
memoria, storici e antropologi si trovano coinvolti in un ulteriore dilemma, relativo al tema dell’identità.
Quella di un gruppo sociale percepisce come propria identità si concretizza nelle produzioni della sua
memoria collettiva; d’altra parte, il modo in cui la memoria viene pubblicamente costruita e gestita dipende
da quella stessa percezione di identità. Il problema è dunque: in quale misura storici e antropologi coinvolti
nelle pratiche di costruzione e gestione della memoria e dell’identità pubblica si fanno complici dei suoi usi
politici? Lo stesso concetto di patrimonio culturale partecipa a questa complicità.

CAPITOLO 11

Il saggio sul dono e le origini dell’antropologia economica

Le scienze economiche del Novecento, tendono ad assumere due basilari principi su cosa spinge gli esseri
umani a scambiare beni. Il primo è un assunto utilitarista; secondo il secondo principio le forme dello
scambio possono essere descritte attraverso modelli di validità universale applicabili a ogni contesto. Gli
antropologi mettono in discussione l’esistenza di una dimensione “economica” autonoma e separata
rispetto ad altre sfere della vita sociale, e di un soggetto come “agente economico” puro. Mauss è stato
autore di alcuni saggi che hanno avuto grande importanza nella storia del pensiero antropologico il suo
lavoro senz’altro il più influente è stato quello sul dono. Tema del saggio sul dono sono varie forme di
scambio di beni di prestigio che Mauss chiama prestazioni sociali totali e che rintraccia nelle società
arcaiche. I tratti comuni a queste istituzioni centrali sono:

a) forme di scambio non legate a una logica di mercato o di baratto

b) la transazione è una pratica pubblica

c) non vi sono accordi di tipo contrattuale

d) molte di queste prestazioni sono di tipo agonistico e) in quanto scambi si tratta di pratiche economiche
nelle quali si intrecciano anche dimensioni giuridiche, politiche, religiose e morali. Il saggio si sofferma in
particolare su alcuni casi etnografici, a partire dal kula studiato da Malinowski in cui lo scambio di oggetti
preziosi è un’attività di suprema importanza, che implica lunghe navigazioni fra le isole. I gioielli sono noti
per la propria storia, portando su di sé il ricordo delle persone importanti che l’hanno posseduto. Lo
scambio dei gioielli implica uno spirito di dono è una tendenza al rilancio, nel senso che chi riceve un
oggetto cerca di ricambiare con uno ancora più prezioso. Un secondo caso etnografico è quello del potlach.
Si tratta di cerimonie rituali nel corso delle quali le famiglie più ricche distribuiscono e talvolta distruggono
grandi quantità di beni di prestigio: acquisisce un rango più alto non chi trattiene di più ma chi sperpera. A
Mauss interessava il fatto che in entrambi i casi considerati e in molte altre pratiche, lo scambio di beni era
posto al servizio della costruzione di relazioni sociali; al contrario di quanto avviene nella moderna logica del
mercato. Egli inoltre era affascinato dalla simmetria di questi scambi. Visto che il dono è libero, che cosa,
crea l’obbligo di ricambiare? Il saggio sul dono propone una risposta attraverso il riferimento a un ulteriore
caso etnografico relativo ai Maori della Nuova Zelanda: tra di essi si attribuisce agli oggetti cerimoniali
un’essenza spirituale che obbliga colui che ha ricevuto il dono a ricambiare, pena la sua distruzione. Si tratta
dello hau, o spirito della cosa donata, che vuole tornare da dove è partito incarnandosi nel contro-dono. Ma
a Mauss interessa particolarmente il legame tra le persone e le cose. La cosa ricevuta anche se abbandonata
dal donatore, è ancora qualcosa di lui. Ciò significa che il vincolo che si stabilisce attraverso le cose è un
legame di anime. L’obbligo del ricambiare è dunque una sorta di fondazione del legame sociale.

Reciprocità

Nella prospettiva di Malinowski e Firth al concetto di dono si sostituisce quello di reciprocità. Lo scambio
poggia su un principio di intrinseca simmetria di tutte le transazioni sociali. La reciprocità è centrale anche
nel lavoro di Polanyi ed è una delle tre principali forme di integrazione dell’economico nel sociale, insieme
alla redistribuzione e al mercato: egli la caratterizza come uno scambio in cui la costruzione di legami sociali
è più importante dei beni che circolano. Ma la teoria forse più celebre della reciprocità è quella formulata
da Levi-Strauss, che dall’ambito dell’economia la eleva a principio strutturale generativo di ogni campo della
cultura. Dunque per lui, la struttura dello scambio o della reciprocità preesiste ai singoli atti separati di dare,
ricevere e ricambiare. Levi-Strauss pone in ombra a una dimensione che per Mauss era decisiva: vale a dire
gli aspetti etici dello scambio, la partecipazione fra persone e cose e la condivisione di un principio spirituale
che lo scambio implica.

Il movimento antiutilitarista: il dono fra Stato e mercato

A partire dagli anni ‘80 del Novecento, il dono diventa categoria centrale di una riflessione etico-politica. Il
principale protagonista di questo percorso è un gruppo di intellettuali che fonda un movimento e una rivista
che evocano appunto l’autore del saggio sul dono: MAUSS (movimento anti-utilitarista nelle scienze sociali).
Tra i principali esponenti del gruppo vi sono Serge Latouche e Alain Caillè. All’interno del MAUSS lo studioso
più vicino un approccio di ricerca sociale empirica è Godbout che parte esattamente da Mauss conclude il
saggio sul dono. Egli utilizza un modello weberiano della modernità, di cui la razionalità dello Stato è un
ingrediente fondamentale, insieme al mercato. Questa è il punto di innesto ma al contempo la maggiore
distanza rispetto a Mauss. Lo Stato è per lui e per il MAUSS un meccanismo anti-dono. Nello Stato e nel
mercato i beni devono circolare a prescindere dalle concrete relazioni personali ed evitando per quanto
possibile di crearne. È in quanto astratto possessore di denaro che posso comprare un bene in un negozio
ed è in quando astratto cittadino che posso accedere all’assistenza pubblica. Inversamente, l’economia di
mercato e lo Stato di diritto sono i principali veicoli di costruzione delle relazioni umane. Tale logica - che
Godbout identifica con “lo spirito del dono” - si infiltra nelle maglie larghe della rete Stato-mercato. Nella
sua analisi questi ultimi mirano alla distruzione dei legami sociali. Ma perché il binomio mercato Stato
dovrebbe distruggere i legami sociali? Stato e mercato sono modelli che presuppongono soggetti e relazioni
astratte. Ma l’astrazione non è la distruzione. Si potrebbe anzi dire che i soggetti giocano costantemente su
molteplici piani sociali “astraendo” in ciascuno di essi alcune proprie caratteristiche, producendo continue
rotture, senza per questo perdere la capacità di costruire reti di relazioni e legami. Del resto, proprio
l’insistenza degli anti utilitaristi sul fatto che “il dono è ovunque” dimostra che la “distruzione” non si è
affatto consumata.

Il dono è ovunque

La fase più recente degli studi sul dono si caratterizza per un approccio “continuatista”: vale a dire per la
critica a una troppo netta dicotomia dono/merce e per i tentativi di studiare etnograficamente i molteplici
intrecci tra queste due grandi sfere dello scambio. Ciò significa da un lato documentare e analizzare le forme
del dono e della reciprocità che pervadono le società dominate dal mercato; nonchè studiare i modi in cui il
mercato penetra nelle tradizionali economie del dono, integrandosi con esse piuttosto che cancellandole.
Dall’altro lato, apre un filone di studi etnografici del mercato stesso. Dai lavori di Godbout e del MAUSS
emerge una grande quantità di pratiche di dono presenti in quella modernità che dovrebbe averle
eliminate. Possiamo distinguere:

a) I doni cerimoniali, che sono finalizzati a costruire e sostenere legami sociali, seguendo circuiti di
reciprocità

b) I doni in famiglia, che non sono di solito sottoposti a calcolo e equivalenza

c) Il volontariato e i settori no profit, che per funzionare hanno bisogno non solo della generosità dei loro
associati ma anche di intrecci con il mercato e con i servizi pubblici

d) Forme di economia consapevolmente etica, come il commercio equo e solidale e il consumo critico,
nonchè condivisione di beni al di fuori dei circuiti mercantili (ad esempio la comunicazione e la trasmissione
di saperi in Internet)

e) Donazione del sangue, degli organi, dei tessuti, delle cellule staminali e di altre parti del corpo a fini
medici. In molti paesi del mondo di questi peculiari beni si ammette solo una donazione volontaria, gratuita
e anonima. Il motivo di questa scelta risiede nella convinzione che fuori dal mercato è possibile garantire
una migliore e più sicura circolazione. Per quanto riguarda il sangue, Titmuss richiama esplicitamente il
modello maussiano di dono, pur consapevole del fatto che la natura anonima di questi scambi modifica la
catena del dare-ricevere-ricambiare: il ricevente non deve conoscere il donatore e dunque non può esservi
reciprocità. Tuttavia, la solidarietà verso estranei si configura a suo parere come la forma caratteristica del
dono nelle moderne società di massa: i vincoli che si costruiscono non sono privati ma comunitari, con lo
Stato che svolge la funzione di intermediario. È proprio la decisione dello Stato di sottrarre dal mercato il
sangue ad aprire uno “stato di tensione morale” che motiva i cittadini alla solidarietà. Il mercato (insieme
allo Stato) e il dono non sono dunque polarità opposte che si respingono ma sistemi che si compenetrano
costantemente.

CAPITOLI 13

In altre terre

L’antropologia ha quasi sempre fondato il suo lavoro sullo spostamento verso un altrove più o meno
lontano. La descrizione dell’ambiente negli studi antropologici può avvenire in forma soggettiva, ad
esempio, le prime impressioni dell’etnografo che arriva sul campo. Oppure in forma più oggettiva, citando
dati sul clima, la flora, la fauna e presentando le mappe. Ma in che modo si intrecciano la differenza
dell’ambiente fisico e quella delle società umane che lo abitano? In geografia, spesso si utilizza la distinzione
fra elementi naturali e antropici di un paesaggio. I primi sono quelli che esistono indipendentemente
dall’uomo mentre dei secondi fanno parte i centri abitati, le vie di comunicazione. Ne fanno parte anche le
trasformazioni effettuate dall’uomo a scopi produttivi. Dal punto di vista dell’antropologia, le caratteristiche
fisiche di una certa porzione di crosta terrestre - tendono a non costituire l’argomento centrale, ma
piuttosto la premessa o lo sfondo della ricerca. Allo stesso tempo, però, l’approccio etnografico non può
prescindere dalla particolarità di uno spazio concreto, dall’ambiente naturale al villaggio e alle case.
L’antropologia classica è stata accusata di dare altro po’ per scontata l’equivalenza tra un gruppo umano e
una certa porzione di spazio. Una visione di questo genere appare troppo povera e statica rispetto alla
variabilità storica dell’identità locali. Va detto che accuse del genere sono abbastanza ingenerose perché
bisogna riconoscere che i metodi di ricerca dell’antropologia prevedono necessariamente “una qualche
strategia localizzante”. Perché si prendono come oggetto gruppi di persone in relazione diretta fra loro.
Ossia che condividono lo stesso spazio.

Spazio e cultura

Nell’approccio antropologico al tema dello spazio una caratteristica importante sta nella sua lettura. Le
descrizioni introduttive dipendono da ciò che colpisce il ricercatore al suo arrivo sul campo oppure da ciò
che è abituato a ritenere importante nella descrizione di un territorio; ma di solito non è il modo di
descriverlo che hanno gli interlocutori del posto. L’ambiente circostante viene reso significativo da chi lo
abita grazie ai modi nei quali esso viene raccontato, organizzato e utilizzato. Cioè compreso attraverso
distinzioni. Per menzionare solo alcune delle parole chiave con cui si può cercare di descrivere questo
trattamento culturale dello spazio, possiamo guardare come vengono tracciati dei confini, disegnati dei
percorsi, conferito un orientamento al territorio, stabilito un suo centro e come lo si inserisce in un contesto
più ampio. Queste dimensioni generali ci trasmettono conoscenze sul mondo che derivano da una
tradizione culturale che funziona per noi come un sistema di riferimento entro il quale collochiamo e
comprendiamo i luoghi che visitiamo. Allo stesso tempo influenza la nostra conoscenza di luoghi più
familiari, ai quali viene attribuita una posizione in un ambito più vasto. Ci rendiamo perfettamente conto, ad
esempio, che grazie all’influenza delle nostre convenzioni per noi in un certo senso il Nord si trova sempre “
sopra” “in alto”. Una persona che torna nel luogo d’origine spesso dice “vado giù” se è diretto a sud e “vado
su” se viaggia verso nord. Un’altra cosa di cui ci rendiamo facilmente conto è il fatto che all’interno degli
spazi della nostra vita passano diversi generi di confini, formali e informali, molti dei quali hanno a che fare
con lo status. Un certo tipo di gruppo detiene o pretende di detenere diritti su determinati spazi,
escludendo negli altri in modo totale, oppure ammettendoli solo a determinate condizioni. In una delle sue
accezioni principali , il termine “confine” riguarda l’individuazione di uno spazio propriamente “nostro”: un
territorio. Il caso illustrato da Clifford mostra quanto possa essere difficile maneggiare i diversi criteri che
regolano il rapporto fra un territorio e i gruppi umani. Secondo il diritto vigente, era possibile ammettere la
proprietà tribale dei terreni, ma non era possibile riconoscerla a un gruppo che non avesse mostrato
continuità nel tempo. Inoltre, non è sempre appropriata una lettura degli spazi che fa riferimento a porzioni
di territorio ben delimitate e separate da confini. Alcune tradizioni attribuiscono meno importanza una
geometria di superfici continue, rispetto a una ragnatela di direzioni di marcia, percorsi e snodi. Il
trattamento culturale dello spazio si lega alla capacità di istituire all’interno dell’ambiente una serie di
differenze qualitative attraverso procedure che vanno da sistemi religiosi elaborati e istituzionalizzati, al
riconoscimento di sottili connotazioni metaforiche. La contrapposizione fra spazi “selvaggi” e “umani”,
quella fra un principio maschile e uno femminile, l’uso del corpo umano o animale e i vari modelli in cui
questi si combinano e si ibridano.

Spazi e luoghi

In un’antropologia più recente sembra consolidarsi la tendenza a non trattare più il tema dello spazio come
lo sfondo della descrizione culturale, ma come un problema da porre al centro dell'attenzione. Questo, in
parte, può avere a che fare con la questione del localismo, ossia del modo in cui apparenze e identità locali
mostrano una sorprendente capacità di riapparire anche nel contesto della società occidentale e della
cosiddetta globalizzazione. Inoltre, oggi sembra esserci maggiore consapevolezza del fatto che il modo nel
quale si pensa e si concettualizza lo spazio è parte essenziale dei criteri in base ai quali si comprendono le
culture e le società. E’ come se si considerasse lo spazio una delle dimensioni fondamentali della cultura.
All'attenzione per la nozione di luogo ha contribuito anche l'invenzione da parte di Augè di non-luogo. Per
quest'ultimo, i “luoghi antropologici” sono riconoscibili per i fenomeni di appartenenza, per le relazioni
sociali e per la memoria locale. Al contrario, la nostra modernità crea non-luoghi ai quali nessuno può
appartenere. Prototipi di non-luoghi cui Augè fa riferimento sono l'autostrada, la stazione della metro,
l'aeroporto, il centro commerciale, i grandi uffici e le banche. Qui non è possibile essere altro che un utente
o un “uomo medio”. Quello che si potrebbe chiedere è se i non-luoghi siano non-luoghi per tutti. La nozione
di non-luogo presenta il rischio di spingere a un'interpretazione che distingue in non-luoghi dai luoghi
semplicemente in base alla loro progettazione e al loro uso normale. Invece, l'utilità antropologica della
nozione di luogo sta proprio nel contrastare approcci astratti e lontani dall'esperienza. Insistere sulla
dimensione del luogo vuol dire sottolineare la necessità di uno sguardo dall'interno. De Certeau, per riferirsi
a queste dinamiche culturali mobili e quotidiane parla di un “instancabile mormorio”. De Certeau parte da
un'idea forte della società contemporanea e tendenzialmente oppressiva. Qui i soggetti potenti si
appropriano dei “luoghi” e li organizzano in ordine alle proprie finalità. Questo è ciò che per De Certeau
rientra nell'ambito delle strategie e dà forma alle nostre città. Agli altri non resta che giocare entro le regole
stabilite dall'alto, usando tattiche per sfruttarle a proprio vantaggio.
In un’antropologia contemporanea ci sono tre ispirazioni principali:

 La prima è un’etnografia del luogo che mostra come il rapporto fra gli uomini e lo spazio non sia
riducibile a qualcosa di naturale;
 La seconda è un’etnografia che tende a contrapporre dinamiche poco visibili a modelli di lettura
dall'esterno;
 La terza si concentra sul modo in cui nozioni come territorio spazio il luogo sono utilizzate
all'interno degli studi.
La grande città e il villaggio

Al contrario dei villaggi e dei piccoli centri rurali, le metropoli occidentali sono studiate maggiormente da
sociologi e urbanisti. Non si tratta solo dell’immagine tradizionale dell’antropologo come coraggioso
esplorare in territori esotici, ma anche del significato che il contesto urbano ha assunto nella nostra cultura.
Mentre la campagna rimarrebbe agganciata a una dimensione tradizionale, la città tenderebbe al futuro.
Uno dei classici della sociologia “Comunità e società” di Tonnies, è probabilmente il testo che pone in
maniera più chiara una serie di distinzioni. Mentre la società è “ideale e meccanica”, fondata sulla
razionalità economica, il calcolo, i rapporti formali e il contratto, la comunità è “reale e organica”, fondata su
sentimenti, valori e modelli di comportamento tradizionali. Inoltre, è sostanzialmente naturale, avendo
come nucleo essenziale i più stretti rapporti parentali. Ma il punto non è la città, è la modernità. Essa
produce un ambiente umano specifico: la grande città. Si tratta per Tonnies di una distinzione
fondamentale: borghi e città antiche potevano essere ed erano comunità, mentre è nella metropoli
moderna che il modello societario domina.
Simmel descrivere l’esperienza urbana come la forma più pura della vita moderna, il cui “carattere
intellettualistico” si contrappone alla “quieta ripetizione di abitudini” della città di provincia. La cruciale
importanza del “problema urbano” contribuisce al fatto che sulla contrapposizione fra grande città e
villaggio si giochi anche la distinzione fra sociologia e antropologia. Proprio in rapporto a questo problema si
può menzionare la cosiddetta Scuola di Chicago. Oltre a rappresentare il principale centro della nascente
sociologia statunitense, si proponeva di far propria quella capacità di rendere conto della diversità dei
gruppi umani dimostrata appunto dall’antropologia culturale.
Gli aspetti del lavoro della Scuola che è utile sottolineare sono soprattutto tre:

 Il legame fra i fenomeni sociali e gli spazi concreti delle città


 L’approccio etnografico
 La ricerca di migliori politiche urbane. Dal ghetto, ai vagabondi, agli immigrati, alle bande giovanili,
appare evidente lo sforzo della Scuola di mostrare mondi sociali marginali e irregolari, che rispetto a
una presunta vita urbana “normale”, risultavano inquietanti e sostanzialmente sconosciuti. Robert
Redfield teorizzò il cosiddetto “folkurban continuum”. Ogni società reale era cioè collocabile
all’interno di una tipologia che aveva a uno dei suoi estremi una società puramente rurale e all’altro
una pienamente urbanizzata. Redfield indagò soprattutto la vita “cominunitaria”, “integrata” e
“organica” all’interno dei villaggi e piccoli centri. E’ stato notato che la sua idea è simmetria a quella
di Louis Wirth, in uno degli scritti più letti e citati della storia delle scienze sociali “Urbanesimo come
modo di vita”. Qui vengono riprese le riflessioni di Tonnies e Simmel e la vita in città diventa una
sorta di grande modello culturale di fondo, i cui caratteri essenziali sono gli stessi in ogni contesto
urbano concreto. Ad opporsi all’approccio Simmel-Wirth-Redfield è Oscar Lewis che studia il modo
in cui gruppi di estrazione contadina vivono nella metropoli di Città del Messico e sottolinea come
qui non sia affatto riscontrabile la sostituzione di rapporti sociali di parentela con il più freddo e
impersonale sistema di ruoli che sarebbe proprio della vita moderna.

Flussi, reti e mappe

La possibilità di parlare di antropologia urbana dipende dal fatto che i fenomeni culturali vengono analizzati
in stretta connessione con forme di organizzazione dello spazio caratteristiche di ciò che siamo abituati a
chiamare città. Da questo punto di vista è possibile distinguere tra linee di ricerca che seguono una strategia
“dall’alto verso il basso”, ossia prendendo le mosse da analisi della società contemporanea, e altre che
invece ne cercano una “dal basso verso l’alto”, di taglio più etnografico che parte dall’analisi del senso del
luogo e dagli usi quotidiani dello spazio. Quando alla prima opzione, in passato, la definizione dell’oggetto-
città è avvenuta attraverso l’individuazione di caratteristiche oggettive. Un’alternativa più attuale
corrisponde all’identificarla per posizione all’interno di un sistema politico-economico in cui ha la funzione
di snodo di flussi, persone, immagini, tecnologie. L’etnografia diventa così il mezzo per approfondire
fenomeni messi a fuoco prima di tutto su un piano più generale, in gran parte politico-economico. Le
strategie di ricerca che invece tendono a procedere dal basso verso l’alto inseguono una collaborazione
interdisciplinare nella quale diversi specialisti mi portino a ciascuno il proprio contributo alla conoscenza dei
fenomeni urbani. Un altro approccio, apparentemente più semplice, può invece fare riferimento alla mappa
della città, alle sue differenti aree e alla loro specificità. Questa strada porta facilmente a confrontarsi con
l’urbanistica. In questo senso, il libro “l’immagine della città” di Lynch è centrato sul modo in cui la città
viene percepita. Da architetto, Lynch si concentra sulle caratteristiche degli edifici, ma apre la strada
all’analisi della loro ricezione da parte degli abitanti, anche attraverso le famose mappe mentali. Questo può
lasciare immaginare un ruolo per uno sguardo “dal basso” che non prenda in considerazione solo le
caratteristiche fisiche, ma anche le immagini e le abitudini quotidiane che vi si legano. Gli antropologi hanno
spesso rimproverato all’urbanistica proprio il suo “dall’alto”, la tendenza a progettare la città senza
preoccuparsi del significato dei luoghi per i cittadini. In altre parole, c’è un complesso intreccio di
rappresentazioni, elaborate da varie prospettive a dare una forma significativa alle aree delle città. Lo studio
antropologico degli spazi urbani, sia nelle forme delle reti e dei percorsi, che in quella delle mappe e del
senso del luogo mette in evidenza abitudini quotidiane, memorie e modi di raccontare la città che sfuggono
ad altre strategie di ricerca.

CAPITOLO 14

Violenza e cultura

Il problema della violenza di massa nelle sue varie manifestazioni ripropone l’interrogativo radicale
formulato da Primo Levi: “se questo è un uomo”. Vale a dire un cruciale - forse, il cruciale - problema
antropologico. Gli antropologi ottocenteschi sembravano preoccupati più per la perdita dei loro “dati” che
non per quella degli esseri umani - rispetto ai quali i toni andavano da un rassegnato umanitarismo religioso
a uno spietato razzismo. E questo continuerà a valere anche per le prime generazioni dei ricercatori sul
campo del Novecento. Questi ultimi svolgono il loro fieldwork in aree toccate dal colonialismo e non
pongono al centro dell’osservazione partecipante né i conflitti con i dominatori né quelli “intertribali”.
È come se la guerra, in quanto evento storico, fosse un elemento estraneo alla struttura sociale che si vuole
descrivere nella sua integrità. In questa fase classica della disciplina, la violenza è evocata su un piano più
teorico e speculativo. Si manifestano due punti di vista contrapposti. Secondo il primo, la natura umana è
tendenzialmente aggressiva e violenta; la società, per funzionare, ha bisogno di istituzioni che tengano sotto
controllo le pulsioni aggressive. Questa è una visione che è stata adottata dal filone funzionalista, che ha
interpretato una quantità di istituzioni rituali come forme di controllo del conflitto o valvole di sfogo
dell’aggressività. Ma anche molti altri usi culturali che implicano un’aggressività controllata hanno suggerito
simili interpretazioni: ad esempio, i riti di iniziazione è per quello che riguarda le società moderne lo sport.
In tutti questi casi è come se la cultura, consapevole degli istinti violenti degli individui creasse degli spazi
appositi in cui la violenza può manifestarsi senza compromettere la questione delle relazioni sociali.
In direzione analoga si muovono anche le tesi del sociologo Elias riguardo allo sviluppo delle regole di
cortesia e delle relazioni interpersonali nell’Europa moderna e contemporanea. A suo parere ha agito in
questo campo un processo di civilizzazione, volto ad eliminare sempre di più dalla sfera pubblica le forme
dirette di aggressività e violenza. Ciò sarebbe legato all’affermazione di poteri di tipo statale che assumono il
monopolio della violenza e impediscono ai singoli individui di esercitarla. Un secondo punto di vista insiste
invece sulla società e sul potere come fondi della violenza, sull’idea che la civiltà sia fondata su un atto
originario di violenza che rappresenta il significato nascosto del potere. È un’idea radicata in Frazer e Freud,
che fondano le istituzioni cruciali della civiltà in forme di sacrificio o uccisione cruenta.

Le nuove guerre e la rappresentazione etnografica della violenza

Il silenzio della fase classica sulla violenza coloniale comincia a incrinarsi con gli anni ‘60. I movimenti
anticoloniale sollevano il problema in modo esplicito. Ma perché la violenza sia pienamente assunta come
oggetto delle pratiche di ricerca bisognerà attendere fino all’ultimo decennio del Novecento. Solo allora si
svilupperà il campo etnografico come campo di battaglia. Questa nuova attenzione ha a che fare da un lato,
a una generazione di antropologi formati in un clima accademico che coniugavano il rigore della ricerca con
la passione dell’impegno etico-politico. Dall’altro lato, è il “campo” stesso a cambiare. Ci si trova sempre più
spesso immersi in contesti di guerra o in contatto con gruppi che sono stati esposti a guerre e violenze di
massa. Si tratta di quelle che sono state chiamate “nuove guerre”. Se l’obiettivo della scrittura antropologica
è farci cogliere il punto di vista dei nativi, di fronte alla violenza radicale si tratta piuttosto di restituire il
senso della dissoluzione di un mondo culturale. Nordstrom nota come il tentativo di capire le ragioni della
guerra e della violenza “si avvicini pericolosamente all’obiettivo di rendere la guerra ragionevole” e rischi di
fatto di “mettere a tacere la realtà della guerra”. La ricerca di significati e ragioni della violenza
contrasterebbe con l’obiettivo etnografico di comprendere il ruolo della violenza. D’altra parte, una
etnografia che cerca di mostrare la violenza negli effetti sugli attori sociali, non è esente da ambiguità.
Mostrare i dettagli delle atrocità di chi è sopravvissuto, l’orrore della tortura, l’umiliazione e la disperazione
delle vittime, colpisce con forza il lettore. Lo shock emotivo che tutto ciò provoca può diventare strumento
di testimonianza e di denuncia, ma lo spettacolo della violenza può suscitare effetti pornografici e
voyeuristici. Ci si chiede allora se la trasparenza etnografica sia un atteggiamento moralmente legittimo di
fronte alla sofferenza, e se l’indignazione militante non possa troppo facilmente trapassare in morbosità.

Le testimonianze e la memoria traumatica

L’equilibrio tra uno sguardo troppo distanziante e uno troppo ravvicinato è difficile da conseguire. Una
possibile soluzione può consistere in una etnografia centrata attorno alle voci dirette dei testimoni. Qui la
posizione morale del ricercatore si fa ancora più complessa. La tensione il senso di giustizia da un lato, e
dall’altro la sua propensione professionale. Il problema della voce dei testimoni riguarda anche il rapporto
con le vittime stesse. La voce delle vittime non rappresenta in sé la verità: proprio per la sua posizione di
protagonista degli eventi, il testimone non può parlarne in modo oggettivo, come invece farebbe la storia
che è rivolta alla ricerca della verità. Il problema dell’antropologia della violenza finisce così per coincidere
con il problema della memoria traumatica. Lo studio della memoria traumatica si configura da un lato come
tentativo di comunicare con le soggettività ferite e dall’altro lato, ci porta a una etnografia delle forme
pubbliche di elaborazione del lutto. L’elaborazione del lutto si indirizza spesso con il perseguimento della
giustizia: vale a dire con attività istituzionali volte ad accertare giuridicamente le responsabilità e punire i
colpevoli. La società che esce dalla violenza è sempre profondamente divisa e conflittuale. La memoria
stessa è così destinata a restare divisa. Il che significa complesso rapporto tra giustizia, verità e politica. La
memoria divisa sta anche al centro di un filone di studi italiano che riguarda le comunità colpite da eccidi di
civili da parte delle truppe tedesche in luoghi come Monte Sole e Sant’Anna di Stazzema, che dopo mezzo
secolo non hanno ancora superato il trauma. Le comunità locali raramente hanno avuto giustizia e non
hanno potuto integrarsi nelle più ampie narrazioni storiche della Resistenza e della Liberazione.

Mito e realtà del conflitto etnico

Nel linguaggio giornalistico e nell’opinione pubblica occidentale, si è parlato di conflitti etnici, intendendo
che i gruppi in conflitto sono definiti sulla base di un’appartenenza e di vincoli pre-politici, cioè della
condivisione di certi tratti razziali e culturali concepiti come patrimonio e che le cause dei conflitti sono da
individuare nell’odio tra gruppi etnici. Molti antropologi sono intervenuti a smontare “il mito del conflitto
etnico globale” che è stato usato dalle parti in lotta come strumento ideologico volto a conquistare
consenso. Come ha scritto Ugo Fabietti “quando gli uomini entrano in conflitto non è perché hanno costumi
o culture diverse, ma per conquistare il potere e quando lo fanno seguendo schieramenti etnici è perché è
quello dell’etnicità diventa il mezzo più efficace per farlo”. Dunque, l’identità non è la causa dei conflitti: ne
è semmai la conseguenza. Tuttavia, in casi come la ex Jugoslavia siamo di fronte a violenze di massa che si
indirizzano verso nemici percepiti come etnici e assumono forme atroci con il ricorso a mutilazioni e stragi.
Tutto questo non è spiegabile in termini di pura razionalità economico-politica. Appadurai lega la furia della
violenza etnica alle incertezze che il mondo contemporaneo porta ad esperire a proposito delle identità
nostre e altrui. Si costituiscono universi morali dominati dall’orrore per la confusione categoriale e dunque
la violenza può essere considerata come un modo per estrarre certezza da una situazione di incertezza.

Un “continuum” genocida

L’etnografia delle nuove guerre si salda al più generale problema della comprensione della violenza storica:
in particolare della Shoah, delle due guerre mondiali e dei crimini dei regimi totalitari che hanno
caratterizzato il XX secolo. Ci si chiede, da un lato, come sia stato possibile per gli esecutori compiere atti di
violenza così forti e atroci; e come è stato possibile per grandi masse di persone assistere a tutto ciò senza
reagire attivamente. Quale tipo di soggettività può compiere questo tipo di violenza? E in quale situazione
potremmo noi stessi essere indotti a compierla? Su quest’ultimo punto, un lavoro specifico è stato condotto
dagli studi di psicologia sociale: sono state messi appunto esperimenti cercando di mostrare come,
un’ampia maggioranza di individui “normali” possa essere indotta a compiere violenze e torture. Milgram
crea un contesto in cui un comportamento appare “normale” e viene praticato dalla quasi totalità dei
soggetti coinvolti. Il contesto è la simulazione di un esperimento psicologico, in cui un’autorità scientifica
legittima l’elettroshock come mezzo per rafforzare l’apprendimento. La vittima delle scosse è in realtà un
attore, che simula dolore e sofferenza. Secondo Milgram in simili le situazioni gli individui vengono a trovarsi
in uno stato di eteronomia: obbedendo a un’autorità, delegando ad altri le responsabilità dei loro
comportamenti. È un esito inquietante, che suggerisce che chiunque di noi, nel contesto della Shoah o dei
lager, avrebbe potuto benissimo agire da carnefice. Queste conclusioni concordano con un’altra nota
interpretazione dei genocid, quella che ne afferma non solo la modernità ma anche la “banalità”. La formula
banalità del male è stata coniata da Arendt come commento alla figura di Adolf Eichmann, criminale di
guerra nazista e responsabile della deportazione verso i campi di sterminio degli ebrei. Eichmann fu
catturato dei servizi segreti israeliani e sottoposto a Gerusalemme a un processo che ebbe grande rilievo
internazionale. Durante il processo si difese dicendo che si limitava a un lavoro organizzato. Arendt prese
per buona questa immagine come emblema della natura del male nella modernità. Un male che si esercita
attraverso un’amministrazione e delle procedure di ufficio. L’antropologa Scheper-Hunghes ha sviluppato
questa idea attraverso la nozione di un continuum genocida: vale a dire della continuità dello sterminio di
massa con quelle violenze quotidiane, nascoste e spesso autorizzate che si praticano nelle scuole pubbliche,
nelle cliniche, nei pronto soccorso, nelle case di cura, nei tribunali, nelle prigioni, nei riformatori e negli
obitori pubblici. Questo continuum rinvia alla capacità umana di ridurre gli altri allo status di non persone o
di cose, per mezzo di esclusione sociale e disumanizzazione che normalizzano la violenza verso gli altri. Tra i
crimini di pace e i crimini di guerra c’è solo un passo e occorre esercitare una costante sorveglianza perché
questo non si compia. In termini storici la tesi sembra provocatoria, dal momento che sorvola sul problema
forse più importante: perché e in quali condizioni quel passo si compie? Il concetto di genealogia della
violenza nazista è stato ad esempio usato negli studi dello storico Enzo Traverso, che ha cercato di
mostrarne le radici in una serie di fenomeni centrali dell’esperienza storica contemporanea. Il nesso tra
questi elementi della violenza che caratterizza Auschwitz a che fare con i rapporti tra potere, corpo e
tecnologia.

CAPITOLO 15

La parentela: relazioni biologiche, sociali e culturali

Parentela, matrimonio e famiglia sono i temi più studiati nell’intera storia dell’antropologia. Non è possibile
avvicinarsi a una cultura senza chiedersi come essa strutturi la vita familiare e i rapporti di parentela. Da un
lato, riguardano ogni aspetto della vita quotidiana e coinvolgono ogni individuo fin dalla sua nascita.
Rappresentano dunque il livello più profondo della sua identità. Dall’altro lato, famiglia e parentela sono
vicine più di ogni altra istituzione a quelli che potremmo chiamare i “fatti generalissimi” della natura umana:
danno dunque una forma culturale alle basi biologiche dell’esistenza umana, in particolare alla sessualità e
alla procreazione, alla nascita, alla discendenza e alla morte. È importante però chiarire un punto: la loro
vicinanza al piano dell’esistenza “biologica” non rende e parentela e famiglia istituzioni “naturali”. Possiamo
piuttosto considerarle come istituzioni che interpretano e plasmano gli aspetti naturali. L’analisi
antropologica ci costringe a uno sforzo di estraniamento. Tutti noi viviamo dentro sistemi familiari e di
parentela che ci sembrano del tutto scontati: cosa c’è ad esempio di “naturale” che riconoscere madre e
padre, zii, cugini e nipoti e così via? Ma poi scopiamo che in altre culture si chiamano “padre” anche tutti gli
zii paterni, o che cugini sono classificati come “fratelli”. Oppure, ad esempio, gli italiani non distinguono
linguisticamente i nipoti di un nonno dai nipoti di uno zio, oppure i cugini e gli zii da parte materna e
paterna. Non si tratta di confusione, imprecisione o incompletezza: piuttosto, di diversi modi di costruzione
dei rapporti e dei sentimenti di parentela che si sviluppano a partire dalle condizioni ambientali,
demografiche, economiche e culturali. Non possiamo dunque pensare la diversità di queste forme culturali
in termini di gerarchia evolutiva o di deviazioni rispetto a una norma ideale. Lo studio della parentela si è
sviluppato in antropologia nella tensione tra due opposte esigenze. Da un lato, comprendere un aspetto
della vita che sentiamo come intimo, profondo e umano; dall’altro, il timore di usare modelli che proiettano
sugli altri quelle che sono le nostre prospettive, conferendo loro una presunta universalità. In altre parole,
l’ombra dell’etnocentrismo si proietta sull’intero campo degli studi di parentela. Nel tentativo di dar conto
della varietà delle sue forme in una cornice unitaria, la disciplina sviluppato terminologie che si allontanano
dal linguaggio comune. Cominciamo col dire che la parentela è stata trattata come un sistema di legami fra
persone che poggia su tre tipi di relazioni: discendenza, collateralità e affinità. La discendenza indica le
relazioni di filiazione: ad esempio, in un sistema “patrilinare”, che prevede la discendenza e per via maschile
e quindi un soggetto discende dal padre, dal nonno, dal bisnonno e così via. La collateralità si riferisce ai
rapporti fra due o più individui che non discendono l’uno dall’altro ma discendono da un antenato comune,
ad esempio fratelli e sorelle o zii e zie. L’affinità indica invece legami acquisiti tramite il matrimonio: dunque
rapporti tra marito e moglie e tra i discendenti o con laterali di entrambi, ad esempio suocero, genero,
nuora, cognato e così via. I sistemi di parentela possono essere unilineari o bilaterali. Nel secondo caso, che
rappresenta la norma nelle moderne società occidentali, un soggetto riconosce come proprio gruppo di
parentela sia gli ascendenti di parte paterna che quelli di parte materna. La discendenza unilineare privilegia
invece rapporti con una sola discendenza: esclusivamente quella paterna o esclusivamente quella materna.
La discendenza si definisce patrilineare nel primo caso, matrilineare nel secondo.
Un insieme di persone che convivono, si trasmettono di generazione in generazione beni, diritti, status e
obblighi rituali viene definito lignaggio, mentre un insieme di lignaggi che si riconoscono in un unico
antenato mitico è denominato clan. Inoltre, nel classificare le forme della parentela, gli antropologi classici
hanno attribuito grande importanza ai sistemi terminologici: vale a dire i modi in cui una determinata
cultura definisce linguisticamente i diversi legami di parentela.
Morgan aveva distinto due tipi di terminologia: quella descrittiva, in cui ogni rapporto di parentela viene
indicato da una parola specifica, e quella classificatoria ad esempio chiamare padre anche gli zii.
Gli studi novecenteschi hanno combinato otto diversi criteri distintivi:

 La generazione
 Il sesso e il genere
 La distinzione tra consanguinei e affini
 La distinzione tra consanguinei in linea diretta o collaterale
 La biforcazione (cioè la distinzione tra parenti del lato materno e paterno)
 L’età relativa
 La distinzione parallelo/incrociato (si parla di cugini paralleli per indicare i figli del fratello del padre
o della sorella della madre, incrociati sono invece i figli del fratello della madre o della sorella del
padre)
 La condizione (vivo o defunto)
Diversamente combinati, questi criteri darebbero vita a sei tipi fondamentali di terminologie che sono state
identificate con il nome di gruppi etnici. Si tratta dei sistemi:

 Eschimese
 Hawaiano

Questi due primi sistemi sono detti anche bilaterali: entrambi non distinguono terminologicamente tra
parentela di lato materno e paterno. Questa distinzione è invece fondamentale per i successivi tre sistemi,
detti unilineari che applicano il principio della biforcazione e sono:

 Irochese
 Crow
 Omaha
 Sudanese

Le teorie della parentela

L’essenza della parentela consiste nella discendenza oppure nell’alleanza? È attorno a queste alternative che
si strutturano le due maggiori teorie della parentela nell’età classica dell’antropologia. La teoria della
discendenza in cui l’idea chiave è che nelle società primitive i gruppi di discendenza unilineare
rappresentano la base dell’organizzazione economica e politica. La discendenza forma gruppi che
detengono il controllo del territorio e delle risorse ed esercitano l’autorità su base genealogica. La teoria
dell’alleanza che è introdotta da Levi-Strauss. E nell’efficace sintesi proposta da Adam Kuper “l’elemento
essenziale della vita sociale è la reciprocità, è la forma più elementare della reciprocità è lo scambio
matrimoniale. Il tabù dell’incesto costituisce la condizione negativa necessaria per istituire la reciprocità.”
Levi-Strauss chiama “elementari” le forme della parentela e le regole matrimoniali che prescrivono in modo
stringente le persone con cui ego si deve sposare; mentre le forme “complesse” si limitano ad alcune
generali interdizioni, e la scelta matrimoniale avviene sulla base di criteri esterni alla struttura di parentela
ad esempio economici o sentimentali. Per quanto sotto alcuni aspetti alternative, la teoria della discendenza
e quella dell’alleanza condividono un presupposto: per entrambe la parentela è una forma culturale
autonoma e primaria. Molti casi etnografici si rilevano irriducibili sia al modello della discendenza che a
quello dell’alleanza. Ad esempio, Edward Leach mostra come le scelte matrimoniali seguono regole non solo
formali ma legate a questioni di potere, proprietà e ricchezza. Sia pure in modo diverso, questa direzione di
analisi è interpretata dall’antropologia marxista. In particolare, uno di essi propone di analizzare l’economia
delle società primitive nei termini di un modo di produzione domestico, in cui sfruttamento e il dominio
sono da ricercare nella struttura della parentela e nelle relazioni di dipendenza che essa crea, soprattutto
nei confronti delle donne, per mezzo della divisione sessuale del lavoro. Un altro presupposto che
accomuna le teorie della discendenza e quelle dell’alleanza è il ruolo passivo attribuito alle donne, che
appaiono semplici oggetti di scambio. Le loro funzioni riproduttive le confinano nella sfera domestica e
impediscono loro l’accesso al campo della politica e dell’istituzioni pubbliche. Il pensiero femminista dagli
anni 70 in poi da un lato rivendica una maggiore capacità di decisione e azione sociale da parte delle donne;
dall’altro vede nei sistemi di parentela uno strumento del dominio maschile. Queste critiche conducono alla
decostruzione del concetto di parentela espressa nella sua forma più radicale da David Schneider che dedica
uno dei suoi libri più importanti al sistema di parentela americano moderno, trattandolo come un sistema
folk e mostrandone i presupposti culturali e ideologici. Con la fortuna degli indirizzi post moderni, post
coloniali e femministi, la decostruzione della parentela e dei rapporti di potere che essa nasconde diviene
un nuovo luogo comune. Un rinnovato interesse si sviluppa per le ontologie locali: vale a dire i modi in cui
nelle diverse culture viene inteso il concepimento. Un tema cui già Malinowski aveva dato ampio spazio ma
che era passato in secondo piano per i teorici funzionalista e strutturalisti della parentela. Questo è
l’approccio “multinaturalismo”.
Sahlins condivide le critiche di Schneider ma afferma che esiste un carattere della parentela che fonda le sue
diverse forme nelle culture umane e consiste nella reciprocità dell’essere. Nelle società unilineari prevale la
centralità della procreazione; nelle società basate su un sistema cognatico la parentela viene costituita a
partire dalla vita piuttosto che dall’utero, vale a dire sulla base non della nascita biologica ma della
partecipazione attiva delle persone nelle reciproche esistenze. Ma perché Sahlins è così critico verso
Schneider pur condividendo alcune premesse della sua critica al concetto classico di parentela? La ragione
sta nella sua avversione per gli approcci che cercano di disfarsi del concetto di cultura a favore di
un’antropologia interamente centrata sulle relazioni di potere. Sahlins si pone piuttosto nella tradizione
della riflessione maussiana sul dono, rifiutando una nozione utilitarista della creazione di legami sociali.

Relazione di genere

Si possono distinguere almeno tre direzioni del dibattito antropologico sul genere: il “problema delle
donne”; il problema della costituzione socio-culturale delle differenze di genere, l’analisi delle forme del
dominio maschile e della connessa “violenza simbolica”.
“Problema delle donne” è l’espressione usata per indicare l’assenza della voce e del punto di vista
femminile nella produzione etnografica. Ma è proprio in questo periodo che una nuova generazione di
antropologhe comincia a produrre contributi sul tema. L’dea-chiave in questi lavori è la rivendicazione della
agency – cioè della capacità di azione sociale e di gestione del potere che le donne possiedono. E’ questa
direzione di indagine che porta alla diffusione del concetto di genere come contrapposto a “sesso”: mentre
quest’ultimo rimanda alle differenze biologiche, il genere si riferisce ai modi in cui le differenze sono
plasmate all’interno di specifici sistemi di relazioni sociali e simboliche. I gender studies si concentrano
proprio sugli aspetti simbolici della costruzione dell’identità di genere, rifiutando di assolutizzare la
dimensione sessuale o biologica. In questo campo di studi, grande attenzione viene posta a identità di
genere “non convenzionali” o che sfuggono a una netta dicotomia maschio/femmina. Di simili identità vi
sono numerosi esempi come le identità queer o LGBT. Nel discorso dei militanti LGBT si suggerisce talvolta
che gli orientamenti sessuali e le identità di genere convenzionali siano imposizioni della “società”. È un
modo confuso di porre la questione. “Culturalmente costruito” non significa semplicemente arbitrario: il
problema è comprendere la complessità con cui la “cultura” viene incorporata fino a diventare “seconda
natura”. La questione della “seconda natura” ci porta al terzo aspetto del dibattito antropologico sul genere,
quello relativo all’analisi delle forme del dominio maschile. La riflessione di Bourdieu propone due aspetti:

 Il primo è l’analisi del modo in cui la differenza maschile-femminile è sostenuta da un intero sistema
di classificazioni “cosmologiche”
 Il secondo elemento è il porre al centro dell’analisi proprio il processo di naturalizzazione. Infatti, il
sistema di rappresentazioni simboliche nel quale siamo immersi mostra le ovvie differenze
biologiche tra uomo e donna come base della divisione dei ruoli e del dominio maschile.
Ne consegue che il lavoro è quello di “snaturalizzare, storicizzandola, la divisione fra i sessi”.

Per Bourdieu una “cultura delle donne” non è possibile, come non è possibile alcuna cultura subalterna
autonoma rispetto a quella dominante – in virtù del fatto che “il dominio tende ad assumere su sé stesso il
punto di vista dominante”. Alla conclusione del suo libro, Bourdieu accenna a una possibile uscita dal
labirinto: è quella dell’”amore puro”, un sentimento basato sul disinteresse e sul dono di sé.

L’amore

L’amore romantico – per usare il linguaggio di Bourdieu – ci appare in una forma naturalizzata. Amiamo così
e in quanto esseri umani, come gli esseri umani hanno sempre amato e sempre ameranno. Ma la storia e
l’antropologia, sono scettiche in proposito. Possiamo soffermarci su un caso etnografico molto distante dai
modelli che ci sono più familiari. Gli Umeda, un gruppo Malesiano di piccolissime dimensioni, prevedono un
matrimonio tra cugini incrociati. Fin dalla nascita, una bambina sa che dovrà sposare il figlio della zia
paterna. È possibile l’amore in questa situazione? Non certo nel senso che intendiamo noi. Questo degli
Umeda è certo un caso limite ma alcuni elementi sono tutt’altro che unici, e li ritroviamo anche nei
matrimoni combinati fin dall’infanzia. E solo con la cultura di massa, in età contemporanea, che il modello
romantico si afferma in modo capillare e pervasivo. La principale condizione di questa affermazione consiste
nel processo di individualizzazione. Cerchiamo di comprendere meglio questo punto ponendo a confronto
le tesi di due studiosi: Foucalt e Giddens, che in modi diversi pongono in relazione la storia dell’amore con la
costituzione della soggettività moderna. Per Foucault, pratiche, desideri e sentimenti che in precedenza
erano lasciati alla sfera privata sono presi in carico dalle istituzioni sociali, che li rivestono di una serie di
discorsi specialistici, scientifici ed etici. Discipline come la sessuologia o la psicoanalisi sono consentite
proprio da questo mutamento. Giddens, da parte sua, non nega del tutto questa ricostruzione: critica però
la concezione di un potere anonimo che emerge dalle forme del discorso, negando un’idea di “storia come
prodotto dell’attività concreta dei soggetti umani”. Ponendo in rapporto le esperienze della sessualità e
dell’amore con i mutamenti delle forme di legame sociale, Giddens mette a fuoco ulteriori e più recenti
passaggi all’interno del paradigma romantico: in particolare, l’affermazione di libera decisione di costruire
un rapporto ovvero “relazione pura”. Essa si colloca nell’amore romantico, ma ne supera alcune
caratteristiche. Il romanticismo classico implica ad esempio una dimensione di devozione eterna e l’idea che
la passione debba sfociare nel matrimonio; fa riferimento dunque in modo esclusivo a relazioni
eterosessuali, e mantiene divisi il ruolo maschile e quello femminile; per le donne il coronamento della
ricerca romantica dell’amore restano a definizione in termini di ruoli come madre e moglie. Nell’ambito
della relazione pura questi ruoli e questa asimmetria di genere vengono tendenzialmente superati. Ciò apre
a una forma di amore che Giddens definisce “convergente”. “L’amore convergente è amore attivo, e quindi
non fa rima con i per sempre e gli unico e solo. La società “separante” e “divorziante” di oggi diventa la
conseguenza piuttosto che la causa della nascita dell’amore convergente.”

La famiglia

Sul piano delle regole matrimoniali si sono distinte la famiglia monogamica (una persona può avere solo un
coniuge per volta) e quella poligamica (con la possibilità di avere più coniugi); quest’ultima si distingue a sua
volta in poliginica (un uomo con più mogli) e poliandrica (una donna con più mariti). La Polly genio è una
forma largamente diffusa nelle società tradizionalmente studiate dagli antropologi; la poliandria è invece
un’istituzione rara. Sul piano delle dimensioni la principale distinzione è quella tra famiglia nucleare, estesa
e multipla. La prima è quella composta dai coniugi e dei loro figli. Estesa è una famiglia nucleare con la
quale convivono alcuni parenti non sposati. Nella famiglia multipla convivono invece più nuclei, in senso
verticale rispetto alle generazioni (ad esempio, nella convivenza di più fratelli con i rispettivi nuclei familiari).
E l’antropologia e la demologia storica hanno cercato di mettere in relazione la variabilità di questi modelli
familiari con altre caratteristiche, ad esempio la struttura della proprietà terrena e le norme della sua
trasmissione ereditaria, oppure le caratteristiche ecologiche e le esigenze legate all’organizzazione del
lavoro. Fino a un passato abbastanza recente, la famiglia multipla era largamente diffusa in alcune regioni
d’Italia, in particolare le regioni dominate dall’organizzazione mezzadrile del lavoro agricolo. La famiglia
mezzadrile coincideva in questo caso con l’unità produttiva, e doveva essere abbastanza estesa da coprire le
esigenze di forza lavoro. Si trattava dunque di famiglia di grandi dimensioni, nelle quali viveva tipicamente
una coppia più anziana insieme ai nuclei dei figli già adulti e sposati. In questo sistema, sono le donne che
con il matrimonio si spostano, andando a vivere con i suoceri e abbandonando la famiglia di origine.
L’equilibrio tra la potenzialità produttiva e le esigenze di consumo della famiglia viene mantenuto attraverso
dispositivi di controllo dei matrimoni in entrata e in uscita e dalla natalità. Nel caso l’equilibrio si rompa, è
possibile che avvenga una scissione della famiglia. Storicamente, in Italia questa forma di gruppo familiare si
esaurisce nel secondo dopo guerra con l’affermazione della famiglia nucleare. Principali ingredienti di
questo cambiamento sono la costituzione di nuclei familiari sempre meno numerosi; la tendenza a sposarsi
e ad avere figli in età più avanzata, e la diminuzione del tasso di fecondità; un’accentuata instabilità
matrimoniale e di conseguenza la sempre più diffusa pratica di seconde o terze nozze o convivenze, e la
sempre minore disponibilità sia di donne che gli uomini ad anteporre le esigenze della famiglia a quelle della
propria realizzazione professionale. Nel contesto del dopo guerra, il “familismo” era divenuto una delle
principali categorie del sottosviluppo economico e sociale. In Italia, ad esempio, si parlava di un “familismo
amorale” come profonda caratteristica del Mezzogiorno a causa delle difficoltà di modernizzazione: tutti
presi a massimizzare i vantaggi per il proprio gruppo familiare sarebbero stati incapaci di costituire una
società civile e di collaborare per il bene comune. Paul Ginsborg parla sul ruolo delle istituzioni familiari:
esse hanno costituito un nucleo di relazioni, legami, valori e fedeltà di lunga durata. Gli Stati hanno tentato
di invadere lo spazio della famiglia o persino di distruggerlo, senza però riuscirvi mai del tutto. Le tesi sul
familismo amorale sono state superate: da un lato, evidenziando casi in cui la famiglia è stata tutt’altro che
amorale, giocando un ruolo virtuoso nella promozione di valori civici ed esperienze cooperative; dall’altro
lato, mostrando come anche nel Mezzogiorno non sia stato tanto il familismo il fattore regressivo, quanto
piuttosto il colonialismo interno e i rapporti tra Stato centrale e gruppi dirigenti locali. Ciò che qui è
importante osservale è che malgrado i fattori di trasformazione radicale, la famiglia è oggi viva e vegeta.
Rappresenta ancora la più importante fonte dei legami interpersonali e il luogo dei valori più “sacri”.
Mantiene una funzione economica: in parte sul piano produttivo, come nel caso delle imprese a conduzione
familiare, ma soprattutto nel campo del consumo. La famiglia inoltre è fortissima nella costruzione di reti di
sostegno, dono, solidarietà e aiuto. Questa dimensione, per quanto presente nell’intero contesto europeo è
particolarmente evidente in Italia, da un lato per l’influenza del cattolicesimo e dall’altro per la debolezza
del Welfare State che impedisce ai figli di uscire dal nucleo familiare e rende necessario ricorrere a forme di
assistenza “fatte in casa”. È importante osservare come tali reti di relazione e solidarietà restino stabili di
fronte alla crisi delle forme tradizionali della famiglia. Ciò significa che di fronte alle frequenti separazioni e
divorzi, alla sostituzione del matrimonio con convivenze, alla complicazione dei rapporti, ad esempio, tra i
figli, i nuovi compagni del padre o della madre, non si rinuncia alla “condivisione dell’essere” e alle relative
“culture familiari”: lei si ricostituisce, piuttosto, in modalità nuove e originali. Zanotelli osserva: “un tratto
significativo che accomuna queste culture della parentela sta nel fatto che esse si rivelano inclusive, ossia
sono in grado di accogliere” ad esempio i figli e nipoti acquisiti in seconde unioni, i parenti anziani dei nuovi
partner, i fratellastri e le sorellastre. Per quanto riguarda le pratiche di memoria culturale, da un lato
assumono la forma di “riti” domestici come il Natale, i festeggiamenti di compleanni, le prime comunioni e
così via. Si tratta di occasioni di ricomposizione domestica che privilegiano le relazioni con vaste reti
parentali. Sono organizzate attorno a forme di “consumo vistoso” del cibo e si aggregano maggiormente
attorno alle figure dei bambini. Dall’altro lato, la memoria culturale assume anche in famiglia la sua classica
forma del conservare, archiviare e collezionare. Vi sono memorie “trasparenti”, allestite negli spazi visibili
della casa come quadri, fotografie e oggetti esposti sugli scaffali o memorie “nascoste” conservate nel fondo
di cassetti, soffitte o scantinati. Ma tutte rimandano a una comunità del gruppo familiare, da ricostruire
pazientemente proprio perché non è più scontata sul piano istituzionale, normativo ed economico.
Risponde a un’analoga esigenza anche la nuova fortuna delle indagini genealogiche: il crescente bisogno di
ricostruire ascendenza spesso per mezzo dell’analisi del DNA. Si è sviluppato un vero e proprio mercato in
questo senso. In sintesi, dunque, lo scenario del nostro presente sembra essere quello di una parentela è
una famiglia che si sono indebolite come strutture normative ma che resistono e anzi si rafforzano come
“strutture di sentimento” - luoghi e momenti nei quali si addensano i legami sociali più importanti della
nostra vita. Legami che è proprio perché non vivo obbligatori come un tempo sono al centro di un
incessante opera di tessitura etica e culturale. In questo senso, le aspre discussioni che dividono oggi
conservatori difensori della famiglia tradizionale e i progressisti che aprono alle nuove forme di unione è in
qualche modo mal posta. Non tiene conto del fatto che la famiglia si rafforza culturalmente e moralmente
quando più si distacca dal piano dell’obbligo normativo. Le cosiddette “unioni arcobaleno” possono essere
“eversive” di una morale sessuale tradizionale, ma certo non lo sono nei confronti dei modelli classici di
famiglia: chiedendo di uniformarsi ad essi, ne confermano la forza e il profondo radicamento storico.

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