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emotivo) e dal distacco indispensabile a razionalizzare quali sono le condizioni per cogliere
all’interno della vita quotidiana gli elementi fondamentali delle dinamiche socioculturali.
Si è poi arrivati ad un superamento del metodo malinowskiano, che presentava dei limiti.
L’osservazione partecipante è stata poi riletta come la “magia dell’etnografo” con cui uno
sguardo presumibilmente incontaminato, l’antropologo di inizio secolo si avventura alla
scoperta delle isole vergini, assumendo la prospettiva dei neo-nativi e cancellando i trascorsi
coloniali. Oggi l’etnografia ha un significato molto più ampio, infatti l’osservazione partecipante
è stata superata e ha lasciato il posto al confronto con una molteplicità di fonti (anche
quantitative, integrative e pratiche) dall’archivio alla biografia.
Inoltre, è stata abbondonata anche l’identificazione di un’unità socioculturale con un luogo,
poiché porterebbe ad una limitazione, per fare spazio alla ricerca multi-situata.
Questa visione appare limitata soprattutto in relazione al “traffico delle culture” che sta
disegnando scenari nuovi che fanno sì che l’individuo sia esposto ad una pluralità di stimoli.
Queste distinzioni hanno maggiore rilievo nel caso dell’adolescenza migrante e delle
cosiddette seconde generazioni che affrontano l’esperienza di chi vive tra più universi, quello
famigliare che rimanda al paese di origine e quello della socializzazione secondaria e della
scuola. Per comprendere le difficoltà della cosiddetta “nuova autoctonia” e mantenere come
finalità la crescita dell’autonomia aldilà di ogni assegnazione identitaria occorre recuperare la
pluralità dei piani interpretativi e abbandonare l’idea schematica di choc culturale.
L’antropologia contemporanea definisce questa struttura relazionale dell’identità come auto-
etero assegnazione, ovvero un’operazione di secondo livello che istituisce
contemporaneamente un posizionamento e una distanza sia da sé che dagli altri.
• Il relativismo culturale è una teoria elaborata sulla base della duplice premessa del
carattere universale e della specificità di ogni singola cultura che afferma che le molteplici
manifestazioni culturali elaborate da ciascun popolo si giustificano nel loro contesto specifico e
non possono essere quindi giudicate in base a criteri che appartengono ad altre culture. Per
quanto riguarda l’antropologia, il relativismo culturale rappresenta un elemento metodologico
fondamentale per la ricerca sul campo, a partire dall’esercizio autocritico rispetto al proprio
universo culturale fino alla messa tra parentesi dei propri valori e la sospensione temporanea
del giudizio; alla luce di ciò lo si definisce come relativismo metodologico.
Occorre tuttavia specificare che l’antropologia non si può davvero identificare in un
programma di rinuncia all’esercizio della critica e del giudizio.
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Ciò può essere compreso attraverso un’affermazione di Hannerz secondo il quale la
dimensione ambivalente del discorso culturalista “sembra considerare gli esseri umani in
quanto in quanto prodotti e non in quanto produttori di cultura”.
Nel presente entra in gioco una nuova dimensione dei fatti culturali, legata alle dinamiche della
globalizzazione, infatti ad “animare le identità” sono i nuovi scenari di produzione e
trasformazione che maturano grazie ai flussi transnazionali, facendo sì che ciascuno di noi
abbia accesso a una parte sempre maggiore di cultura (o viceversa) per stimolare le nostre
menti e i nostri sensi.
Nella situazione multiculturale in cui ci troviamo, la cultura viene chiamata in causa come
elemento di rivendicazione in diversi ambiti; siamo sempre di più in presenza di un razzismo
“senza razza” che strumentalizza proprio le differenze culturali e per questo è stato
ridenominato “razzismo differenzialista”. La cultura sta diventando sempre di più oggetto di
rivendicazione in positivo o in negativo piuttosto che elemento di conoscenza in un processo
di politicizzazione della cultura.
Per analizzare le dinamiche dei conflitti di identificazione viene proposto che a partire dalla
riflessione antropologica, le scienze e le politiche sociali abbandonino definitivamente il
terreno dell’essenzialismo culturale (=ricerca di princìpi essenziali) per qualificare l’esperienza
culturale attraverso le sue dimensioni relazionali, sociali e politiche. A tale proposito è stata
avanzata una proposta da parte di Boni: se ogni cultura in senso antropologico è determinata
attraverso un processo di selezione di possibilità interpretative della realtà, questa costituisce
un prodotto che vive un processo di standardizzazione e genera modelli di conformità. Così
l’esperienza della cultura si realizza in una dimensione politica che tuttavia viene analizzata
come elemento interno alla cultura stessa e come luogo di produzione di sociopotere “ (..)che
non va intesa solo come capacità di determinare con la forza la condotta altrui, piuttosto
concerne (…) rendere più o meno desiderabile una certa azione, persuadere e generare
disposizioni”.
Come per Ortiz e Malinowski, anche per Bastide questi fenomeni non si producono mai “a
senso unico”, ma coinvolgono sempre forme diverse di reciprocità.
Per sottolineare gli aspetti dinamici del processo di contatto e per superare il carattere statico
dell’acculturazione egli elaborò i concetti di <<interpenetrazione>> ed <<intreccio>> come
descrittori di reciprocità di condizionamenti che tengono conto dei dislivelli di potere.
Bastide distingue inoltre l’azione di due principi complementari: casualità interna ed
esterna che in una continua interazione determinano i processi di cambiamento.
Ogni spinta esterna provoca sul piano interno reazioni di aggiustamento attraverso cui i
sistemi sociali cercano di recuperare una rappresentazione coerente. Il gioco di queste
dinamiche definisce i processi di cambiamento in termini di plasticità e creatività sociale.
In conclusione, il superamento del dibattito sul concetto di cultura trova nel concetto di
acculturazione una risposta contraddittoria perché ha una visione univoca. In risposta sono
stati elaborati i concetti di transculturazione, interpenetrazione e intreccio, che hanno posto le
premesse per una diversa visione dinamista della cultura, che riconosce nel mutamento un
aspetto strutturale della dinamica sociale rispetto a cui la cultura vive nella dimensione delle
particolarità e del cambiamento (= “flusso dei significati”).
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VIII- L’etnicizzazione del sociale: tra mobilitazioni postcoloniali e strategia per
l’integrazione.
Una conferma dell’importanza del fattore etnico nella politica è stato il sanguinoso risveglio
anni ’90 dei nazionalismi e le nuove guerre, come testimoniano la pulizia etnica dell’ex-
Jugoslavia e i genocidi dell’Africa dei Grandi laghi.
Ciò ha dimostrato la persistenza di logiche della ragione etnologica persino nel vecchio
Continente, dove il termine viene utilizzato in relazione ai fenomeni migratori e alle
problematiche delle società multiculturali dove l’etnico si sovrappone al concetto di minoranza,
uso che deriva direttamente dal linguaggio delle scienze sociali. In molte realtà il concetto di
“etnia” ha sostituito quello di “razza” (usato negli USA in molti ambiti fino agli anni ’70).
La nuova “etnicizzazione” da un lato è una rappresentazione istituzionale dell’eterogeneità,
dall’altro è espressione di singolarità collettive, detentrici di caratteri unici in attesa di
riconoscimento, trasferita sul piano dei diritti umani.
In nome delle condizioni delle vittime, tipiche delle minoranze storiche, vengono rafforzate le
dinamiche sociali nello schema del mosaico culturale, un sistema di equilibri e restituzioni che
ha ri-legittimato discorsi e categorizzazioni odiose del passato, come quelle etno-razziali che
sono divenuti principi di affermazione identitaria, che oramai rientrano nelle contraddizioni del
politicamente corretto.
L’etnicizzazione va così a coincidere con la domanda di adeguare lo spazio pubblico a
soggettività nuove che assumono logica e strategia di minoranze.
Questo orizzonte categoriale accomuna il pensiero multiculturalista e postcoloniale di sinistra
ai rivoluzionari conservazionisti di destra europea, che si riconosce il diritto di classificare chi
lasciare entrare e chi respingere in base ad una nuova gerarchia etno-nazionale.
L’Etnicizzazione del sociale è quindi modello che vede un’affermazione trasversale nella
convergenza tra tecnologia e sicurezza, ingegneria sociale dell’accoglienza e discorso su
presunta integrazione, ponendosi come riferimento “per un nuovo blocco storico, quello
formato dai neo-reazionari e i post-coloniali”.
In Italia il rapporto con l’immigrazione risulta viziato dalle retoriche pubbliche, strettamente
legata alla finta dialettica tra accoglienza e criminalizzazione, e al falso dibattito
sull’integrazione.
Si tratta di conflitti simbolico-discorsivi sull’assimilabilità degli <<altri>> e sulla superiorità del
<<noi>>, in cui fa riferimento agli stranieri come comunità o etnie.
“Lo sviluppo di un associazionismo formale e di provvedimenti istituzionali in grado di integrare
o fornire alternative al capitale sociale messo a disposizione dai network, potrebbero
migliorare sensibilmente i processi di inclusione degli immigrati”.
La scelta è quella tra lottare contro meccanismi di esclusione universalista, per tutti, o
costruire rappresentanza particolarista con forme inedite di colonialismo domestico, ovvero
trasferire cioè nell’immigrazione le logiche coloniali dell’indirect rule (=governo indiretto).
È uno schema fondato sulla subalternità del migrante, un “colonizzato interno” con
assegnazione identitaria forzata: così l’etnia, anche se rimpatriata nelle società multiculturali,
ritorna ad essere elemento di dominazione.
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auto avvera. Il suo “successo” deriva dal fatto che è stata insieme coscienza e descrizione di
un processo di cambiamento multidimensionale.
Schematizzazione del suo successo attraverso “3i”:
• Internazionalizzazione illimitata di scambi, mercati e comunicazioni che ha preso forma di
à Interconnessione sincronica che ha determinato àInterdipendenze: inedite, tali da
mettere in discussione il principio di razionalità politica degli stati nazionali.
Il discorso della globalizzazione si è affermata andando a coprire un vuoto, infatti mancava
una definizione di questo inedito assetto di relazioni tra spazi, società stati e mondi umani.
Da quel momento si è reso disponibile una definizione “un luogo in cui si potrebbe collocare
tutto ciò che è intercontinentale, internazionale, interculturale ecc.. che attualmente
vagabonda come apolide tra i discorsi accreditati dagli storici” (Peterson).
Beck introdusse una fondamentale distinzione fondamentale fra:
• Globalità: lo stato presente del mondo, tecnologicamente interconnesso, attraversato da
flussi commerciali, turistici, finanziari ecc..;
• Globalizzazione: processo attivo di interconnessione in continuo avanzamento;
• Globalismo: aspetto di interpretazione e costruzione di una ideo-logica delle
trasformazioni in atto, ossia il vero terreno di confronto nel dibattito pubblico intorno a cui si
ridefinisce anche lo spazio politico contemporaneo.
La globalizzazione non si sta realizzando con uno sviluppo lineare, con la riduzione del mondo
ad un unico modello; 20 anni di percorso forniscono l’immagine di un mondo globalmente
interconnesso in cui però storie e società locali non cessano davvero di esercitare un ruolo.
Dinamiche legate al nesso lavoro/produzione:
• Il primo cambiamento nei modelli produttivi riguarda il superamento
dell’organizzazione fordista del lavoro, ossia una precisa gerarchia verticale sostituita con una
struttura produttiva orizzontale “a rete” con dimensioni transnazionali.
Cambiamento connesso al dimensionamento dei mercati, all’innovazione tecnologica e a
prevalenza del lavoro immateriale (c.d. economia della conoscenza)
• Un secondo cambiamento nella flessibilizzazione del sistema produttivo:
dalla circolazione dei capitali (le grandi fortune sono organizzate a livello mondiale) fino agli
aspetti legati a precarizzazione del lavoro.
Alla crescita di incertezza concorre anche l’ampliamento e la trasformazione delle identità
lavorative (legittimazione del lavoro indipendente” e del “lavoro autonomo di terza
generazione”); il lavoratore diventa erogatore di prestazioni temporalmente circoscritte e
autonomamente contrattualizzate.
Anne Wagner affermò: “mentre la mondializzazione economica diversifica e rinforza i legami
tra le differenti frazioni delle classi dominanti, i suoi effetti sui gruppi popolari sono l’inverso. La
mobilità del capitale tende a dividere i salariati e a metterli in concorrenza gli uni con gli altri”
Ciò va a creare diversi conflitti tra i lavoratori con un dislivello di retribuzione (es.: un operaio
cinese o indiano contro quello nord-europeo o est europeo).
Vi è una logica unitaria di fondo che mira all’adeguamento delle risorse umane alle fluttuazioni
di un mercato che segue logiche non sempre trasparenti ma certo autonome.
Elemento di fondo riguarda la creazione di un mercato finanziario su scala globale.
Come hanno osservato i critici, la globalizzazione è stata caratterizzata da un abnorme
sviluppo del flusso finanziario internazionale che ha saputo sfruttare le dinamiche dei mercati.
Tuttavia, la vendita attraverso veicoli finanziari privi di trasparenza, insieme alla
popolarizzazione del consumo vistoso e alla finanziarizzazione dello Stato ha scatenato una
crisi di fiducia senza precedenti che ha investito anche l’economia reale. Sono stati questi gli
elementi che hanno portato alla crisi economica attuale, che ha assunto un carattere
mondiale.
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X- Il disagio del soggetto è illimitato.
Un altro elemento ideologico presente nei discorsi sulla mondializzazione è la scelta di
descriverlo come un soggetto senza limiti, il riferimento di una nuova società in cui “tutto il
mondo è intorno a te”.
La letteratura socio-antropologica ha identificato come contenuto della globalizzazione una
vera e propria corsa all’individualizzazione, che consiste nella “trasformazione dell’identità
umana da qualcosa di ‘dato’ a un ‘compito’ (…)”.
La ridefinizione dello spazio sociale a partire dalla soggettività è da una parte legata alla
dissoluzione delle identità sociali statiche e dall’altra legata alla possibilità di sperimentare
nuove e diverse forme di esperienze che l’individuo incorpora e riproduce.
“Abbiamo raggiunto una libertà di auto-affermazione individuale e di auto-affermazione
individuale ed auto-espressione virtualmente illimitata che non ha precedenti. La vita
individualizzata però ha le proprie angosce non meno dolorose di quelle di una vita vissuta
all’ombra di una tendenza totalitaria.”
Il nuovo spazio identitario della “quotidianità del sistema globale” è anche quello
dell’insicurezza in cui (come nel saggio di Augè sui non luoghi) “(..) c’è già posto oggi per una
etnologia della solitudine”. Si tratta della solitudine del cittadino globale alla ricerca della
politica e di un nuovo spazio pubblico (una nuova agorà).
L’esperienza “del moderno soggetto individualizzato, privo di una cosmologia o
un’autodefinizione prefissata” non è una condizione né facile né felice.
Si ha la percezione di un’inautenticità di base, che si manifesta ad almeno 2 livelli:
• Dal punto di vista del soggetto si è di fronte ad un’ambivalenza tra il desiderio di trovare
un’adeguata espressione del proprio sé e la consapevolezza che ogni identità è costruita
arbitrariamente, quindi non è mai autentica;
• Viene evidenziato il tema dell’individualizzazione globale come fine della società, “questa
dimensione ‘espansa’ della società in cui tutto il mondo è intorno a te fonda l’illusoria
convinzione del superamento del sociale come condizionamento materiale e limite, rispetto
all’ideologia dei beni illimitati di un mercato che cerca la diversificazione”
La fine delle identità sociali consolidate e la liberazione da alcuni condizionamenti
socioculturali (che una società aperta avrebbe dovuto favorire) hanno determinano
conflittualità manifestate attraverso soggettività e strumenti inediti.
La generalizzazione di un soggettivismo senza limiti è un imperativo alla rinuncia per tutti i
progetti di conoscenza che aspirino a comprendere e a trasformare la concreta esistenza dei
mondi sociali.
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Il recente riconoscimento della spinta della globalizzazione “dal basso” ha determinato lo
spostamento dell’attenzione su una pluralità di periferie molto dinamiche. È vero infatti che i
modelli economici sono ormai quasi uguali in ogni luogo, ma è altrettanto vero che vi è
un’infinità di applicazioni e reinvenzioni autonome.
Nel dibattito delle scienze sociali, il confronto con queste coordinate ha fatto emergere il
concetto di glocalizzazione à neologismo proveniente dal linguaggio del marketing
internazionale, usato per sottolineare un nuovo e specifico rapporto tra locale e globale.
Si tratta di una prospettiva che rivolta il punto di vista: il locale non viene più considerato come
polo oppositivo di resistenza alle spinte esterne e ai flussi globali, ma come sede principale di
processi di trasformazione, mentre la globalizzazione non si traduce né nella diluizione delle
diverse culture né nello scontro tra segmenti culturali sparsi che sarebbero rimasti intatti nel
corso della storia. Essa genera o accoglie una produzione differenziata di culture.
Questa dinamica è stata sviluppata anche da Amselle, con riferimento alla metafora della
connessione à vengono prense le distanze da un approccio che consiste nel vedere nel
nostro mondo globalizzato il prodotto di una mescolanza di culture viste a loro volta come
universi chiusi e si riesce a mettere al centro della riflessione l’idea di “triangolazione”, ossia
ricorso a un terzo elemento per fondare la propria identità.
Tuttavia, questa lettura è stata anche criticata (da Friedman) per quanto riguarda
l’orientamento prevalentemente culturalista e la convergenza nella proposta di un’idea astratta
di flusso globale che alla distanza omologherebbe tutto. Per Friedman, l’aspetto più evidente
di questo processo è l’intensificarsi delle localizzazioni.
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unidirezionale oltre a superare anche l’identificazione del migrante con una figura della
povertà e dell’esclusione.
Il transnazionalismo ha conosciuto una vasta ricezione anche in ambito sociologico, in
relazione a modelli autoimprenditorialità migrante, che ha in qualche modo sostituito la figura
della mancanza della doppia assenza con quella più protagonista di una doppia presenza.
La dimensione innovativa di “campo sociale transnazionale” da un lato riequilibra un certo
miserabilismo presente nelle retoriche della migrazione, dall’altro non deve farci dimenticare
facilmente i regimi di disuguaglianza.
L’antropologia della migrazione si occupa inoltre anche delle risposte dinamiche e delle
logiche politiche delle popolazioni autoctone poiché quella dei migranti è una realtà
complessa, che investe una pluralità di attori.
Gli studi (di Sassen) hanno dimostrano che le migrazioni sono un processo strutturato e
selettivo, che combinano una moderata tendenza alla stabilizzazione e poi una spinta nel
lungo termine a tornare nel paese di origine.
Relazione tra globalizzazione e migrazione: se la migrazione è alla base di dislivelli di
condizione materiali e sociali, allora al crescere del movimento economico avrebbe dovuto
corrispondere una diminuzione dei movimenti migratori, invece oggi l’una manifesta l’altra, una
è lo strumento essenziale o il prolungamento dell’altra.
Migrazione è dunque la possibilità di essere parte di un primo mondo globale, anche a costo di
farsi triturare dal consumo del lavoro. Infine, la migrazione come fatto sociale totale cambia il
mondo e le persone, ed in questa dinamica dobbiamo imparare a fare i conti per costruire un
diverso scenario di inserimento sociale e una prospettiva di cittadinanza per tutti, tutte e
ciascuno.
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La maggior parte degli schiavi veniva impiegata nello sfruttamento intensivo di risorse agricole
su larga scala, in particolare nelle produzioni tropicali pregiate (tabacco, caffè, spezie etc..).
In questa situazione, lo schiavo è considerato come pura forza animale e fattore economico di
base per formazione del capitale.
L’economia schiavistica ha rappresentato un aspetto che ha concorso maggiormente allo
sviluppo dell’economia europea (tra XVI e XVII sec.). L’esperienza storica della società dello
schiavismo ha determinato i “caratteri fondamentali” della cosiddetta Plantation America
(America della piantagione), una sfera culturale che si estende in tutta l’America.
Un’altra conseguenza fu il progressivo strutturarsi del razzismo, in qualità di ideologia che
legittimava l’organizzazione gerarchica della società della colonizzazione.
• Le società nate dal métissage dervano dall’impatto della colonizzazione e sono costruite
Sulla gerarchizzazione in base al colore, la pigmentocracy.
La “razza” diventa una linea di demarcazione sociale che entra nella quotidianità, in questo
contesto l’scesa sociale avveniva progressivo “schiarimento” della pelle (realizzato attraverso
strategie matrimoniali, che annullava la condizione di inferiorità marcata indelebilmente sul
corpo. Il lessico del razzismo coloniale latinoamericano inizialmente distingueva almeno
15 tipologie di “meticci” e a ciascuna di esse venivano associate caratteristiche morali e
psicologiche à ciò ha portato a 4 secoli di ineguaglianze ed è ancora operativo tutt’oggi.
Tuttavia, i neri non sono l’alterità etnica e non hanno quindi avuto come le culture indigene
alcun riconoscimento postumo fondato sul pluralismo culturale di principio e continuano
ancora troppo spesso ad essere percepiti come elemento di pericolosità sociale (come
dimostrano anche i recenti avvenimenti negli USA con l’uccisione degli afroamericani da parte
della polizia e i dati denunciati dal Black lives matter).
• Con il termine transculturazione si indica il processo di passaggio da un tipo di cultura ad
un altro, nell’incrocio di due o più culture diverse (es.: mondo della piantagione) che porta al
definirsi dinamico di nuove identità. Dunque, per Bastide, come per Ortiz (transculturazione)
fenomeni acculturativi non si producono “a senso unico”, ma coinvolgono sempre diverse
forme di reciprocità, interlocutori di cui bisogna considerare le specificità storiche e sociali.
Vennero infatti introdotti i concetti di “interpenetrazione” e “intreccio” per descrivere le
reciprocità di condizionamenti legati ai dislivelli.
Nei processi di cambiamento occorre distinguere l’azione di due principi complementari, una
casualità interna ed una esterna in un’interazione continua che determinano i processi di
cambiamento in termini di “plasticità”, dal momento che ogni spinta provoca una serie di
reazioni successive di aggiustamento.
• A questi si è affiancato il termine creolizzazione: attualmente impiegato per definire in
senso lato l’incontro e lo scambio tra cultura differenti. La parola deriva da riflessione critica su
terminologie come: meticcio (=composto da più parti); ibrido (=bastardo); mulatto
(=incrocio); sincretismo (= combinazione di elementi di differente origine, impiegato per
descrivere sistemi religiosi fondati sulla reinterpretazione autonoma di elementi derivanti dal
contatto fra culture differenti à es.: Vudù di Haiti, il Candomblé brasiliano etc… Questi “nuovi
culti” utilizzano simbologie e rituali provenienti in parte da tradizione cristiana e in parte da culti
indigeni). Il termine però risente di un implicito atteggiamento svalutativo, i sincretismi
vengono trattati come qualcosa di bizzarro e inquietante.
Il dibattito antropologico ha proposto un completo ribaltamento: invece di considerare come
unici i prodotti dei processi di contatti, si dovrebbe prestare più attenzione alle resistenze e alle
“rigidità culturali”, ovvero al meccanismo attraverso il quale un gruppo umano rifiuta la
dimensione spontanea dello scambio. à Si realizza così un cero e proprio rivoltamento in cui
si riconosce la centralità delle logiche meticce e si individua una sorta di “sincretismo
originario” in cui si rinvia all’infinito la questione dei primitivismi.
L’interesse si sposta sull’analisi del rifiuto e dell’invenzione delle “identità chiuse”
concentrandosi sull’artificialità dei limiti e dei confini come prodotti storici specifici.
• Da queste riflessioni deriva il termine “creolo”: dal latino “creare” nel significato di nascere.
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Lo si ritrova nel termine spagnolo “Criollo” che all’inizio definiva i nati nel Nuovo Mondo da
genitori provenienti dall’Europa e allo stesso tempo i prodotti e le abitudini della colonia.
Dall’incontro fra codici differenti nasce una nuova lingua, parlata prima che scritta da milioni di
persone vivono la realtà della colonia e rielaborano gli elementi culturali di diversa
provenienza: il creolo da lingua “bastarda” è poi diventato testo letterario.
Per Hannerz, la creolizzazione è il contenuto culturale fondamentale della società complessa.
Il global ecumene, orizzonte culturale del mondo globalizzato, è caratterizzato dalla
transnazionalità, ossia presenza di processi sociali e culturali che superano i limiti dello stato-
nazione, proponendo reinvenzioni e reinterpretazioni locali di elementi provenienti dall’esterno.
L’attenzione alle dinamiche di incontro e dello scambio tra culture impone il definitivo
superamento dei quadri teorici della letteratura antropologica tradizionale che restituiva
un’immagine statica delle diversità come universi chiusi ed autonomi.
La revisione critica di questo impianto classificatorio ha portato progressivamente ad una
nuova visione delle società e delle culture attraverso la nozione di flusso culturale.
Alla luce di ciò si può proporre una definizione della creolizzazione come un processo in cui i
mondi locali, anche a seguiti di un’assimilazione dei modelli dominanti, passando attraverso
strategie e pratiche di adattamento e resistenza, costruisce percorsi di senso propri, attraverso
i quali una diversa lettura dei quadri culturali imposti permette di recuperare una sfera
autonoma di azione sociale e di produzione dei valori, per dare origine a scenari alternativi di
modernità.
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