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Etnologia A.

Elementi di antropologia critica (Francesco Pompeo).


Premessa à Critica culturale e nuove società.
Il discorso antropologico è stato quasi sempre mosso in controtendenza rispetto ai discorsi
“dominanti” impegnandosi nella denuncia e nel superamento di ogni elemento etnocentrico.
Oggi l’antropologia non intende più raccontare società o culture come totalità chiuse, ma si
propone di studiare la pluralità dei mondi contemporanei analizzando sia gli ambiti di
coesistenza, sia le interazioni e il modo in cui le logiche sociali organizzano le differenze
all’interno dello spazio-tempo.
Lo sguardo antropologico si sostanzia nella spinta di andare al di là delle nostre s-consolanti
abitudini intellettuali, evitando facili scorciatoie, per esercitare lo sforzo dell’analisi nel
confronto continuo con i limiti della nostra comprensione e del nostro giudizio etico-morale.

I- L’antropologia e le sue identità. Un lessico iniziale.


L’antropologia, nata come disciplina interna alla biologia, ha avuto grande importanza
soprattutto nel settore umanistico. Venne istituzionalizzata nel XIX secolo ed il suo oggetto di
studio è la valutazione di tutto ciò che va oltre l’aspetto biologico.
Le radici dell’antropologia risalgono all’umanesimo europeo, ma la disciplina iniziò ad
assumere un’importanza maggiore solo a partire dalla scoperta e la conquista dell’America,
quando gli europei iniziarono a interrogarsi sulla natura delle nuove popolazioni con cui erano
entrati in contatto, e che definivano <<selvaggi>>. La crisi della visione eurocentrica creò
quindi l’occasione per riflettere sulla ragione delle tante differenze riscontrate.
• Il termine “antropologia” deriva dal greco (antropos – logos) e può essere tradotto
come <<discorso sull’uomo>>. Da questa definizione va esclusa l’antropologia fisica, che
sebbene inizialmente legata alla stessa definizione (soprattutto durante il Positivismo
ottocentesco) differisce poichè studiava le diversità sovrapponendo aspetti biologici e fatti
culturali. L’antropologia invece è la conoscenza del fenomeno umano nella sua totalità,
come sintesi di universalità e diversità, definizione riscontrabile anche nelle affermazioni di
Michel de Montaigne : “ogni uomo porta in sé la forma intera dell’umana condizione” e di
Clifford Geertz secondo il quale gli uomini “sono soprattutto differenti.
Lo studio antropologico, originato dal confronto tra le diverse realtà umane utilizza sia un
approccio nomotetico, che va alla ricerca di leggi universali, che un approccio idiografico,
che analizza le singole diversità. Infatti, l’antropologia fa parte delle discipline demo-etno-
antroplogiche (M-DEA 01).
• La Demologia è lo studio delle culture popolari all’interno delle singole realtà nazionali
(definito come “analisi dei dislivelli interni” da A.M. Cirese). Coincide in buona parte con gli
studi del folklore ed è stato inteso in senso peculiare come studio delle culture subalterne
(ed “altro” -Gramsci) in quanto contrapposte alla cultura egemonica.
• L’Etnologia è una branca dell’antropologia che si occupa di studiare e confrontare le
popolazioni attualmente esistenti nel mondo attraverso indirizzi analitici e comparativi
(idiografici).
Vi sono vari tipi di antropologia:
• L’Antropologia sociale (trad. britannica) studia gli aspetti concreti dell’esperienza sociale;
• L’Antropologia culturale (trad. statunitense) e quella strutturalista (francese)
approfondiscono lo studio dei linguaggi, dei codici e delle rappresentazioni. Sono
influenzate dalla linguistica, dalla filosofia e dalla psicologia.
Un’altra articolazione del campo di studi dell’antropologia, che accumuna tutti gli indirizzi
sopracitati, è l’Etnografia, termine che si riferisce ad un insieme di pratiche, ovvero il modo
concreto di fare ricerca sul campo (fieldwork o terrain). L’etnografia come aspetto
metodologico dell’antropologia fu delimitata da Bronislaw Malikowski come “osservazione
partecipante” sintetizzato come “piantare la tenda al centro del villaggio”, una strategia la cui
produzione deriva da una specifica combinazione di prossimità (fino al coinvolgimento

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emotivo) e dal distacco indispensabile a razionalizzare quali sono le condizioni per cogliere
all’interno della vita quotidiana gli elementi fondamentali delle dinamiche socioculturali.
Si è poi arrivati ad un superamento del metodo malinowskiano, che presentava dei limiti.
L’osservazione partecipante è stata poi riletta come la “magia dell’etnografo” con cui uno
sguardo presumibilmente incontaminato, l’antropologo di inizio secolo si avventura alla
scoperta delle isole vergini, assumendo la prospettiva dei neo-nativi e cancellando i trascorsi
coloniali. Oggi l’etnografia ha un significato molto più ampio, infatti l’osservazione partecipante
è stata superata e ha lasciato il posto al confronto con una molteplicità di fonti (anche
quantitative, integrative e pratiche) dall’archivio alla biografia.
Inoltre, è stata abbondonata anche l’identificazione di un’unità socioculturale con un luogo,
poiché porterebbe ad una limitazione, per fare spazio alla ricerca multi-situata.

-L’identità è una categoria centrale del discorso non solo antropologico, ma


anche filosofico e psicologico. Nell’uso quotidiano il significato che prevale è quello di
autoriferimento, in cui all’identità è riconosciuto un valore fondativo. Tuttavia, manca quello
che dal punto di vista antropologico è il movente fondamentale, ossia il fatto che l’identità
oltre all’autoriferimento si riferisce anche ad una relazione tra due o più elementi. Attraverso il
carattere “relazionale” del discorso identitario si può comprendere un’ipotesi avanzata da
Amalia Signorelli secondo cui l’identità è interpretabile come un’auto-percezione di sé ed
emerge solo dalla relazione con l’altro. Differenza tra identità individuale e collettiva:
• L’identità individuale si articola nella sfera psicologia;
• Le identità collettive hanno i loro codici linguistici e culturali.
L’insieme dei livelli di identità può essere paragonato ad un insieme di cerchi concentrici il cui
nucleo centrale è quello della persona; essi sono interconnessi e non hanno senso da soli.
• Anche la nozione di Genere ha un ruolo essenziale nella per la riflessione
Antropologica; è un termine polisemico che comprende, rappresenta o specifica elementi
comuni e distintivi, di cui le scienze sociali e l’antropologia hanno selezionato un significato
specifico, ovvero la proprietà di rappresentare nelle lingue la differenza sessuale. Tuttavia,
alcune lingue europee non hanno solo due generi, ma ben tre, introducendo anche il neutro.
Nel discorso contemporaneo il genere definisce le modalità di costruzione socioculturale di
ruoli e immaginari del femminile e del maschile, oltrepassando la dimensione biologica e
ponendo l’attenzione sui diversi modi di vivere l’identità sessuale. Gli studi di genere “gender
studies” costituiscono lo studio attuale dello “studio sulle donne” e degli “studi femministi”
(women’s studies & femminist studies).
Lo studio dell’identità di genere rapresenta il punto di arrivo dei femministi, ovvero il lungo
percorso che ha portato superamento del modello androcentrico, dunque al
raggiungimento di una piena eguaglianza. In antropologia, questa consapevolezza era emersa
già negli anni ‘30 attraverso studiose inglesi, francesi e americane che denunciavano
l’assenza di donne nella descrizione etnografica della società, dove l’attenzione per i ruoli
sociali veniva dedicata all’uomo, portando ad una visione ideologicamente tanto viziata quanto
incompleta.
È stata poi sviluppata una riflessione sui ruoli sessuali per cui risulta particolarmente
importante l’affermazione di Simone de Beauvoir ne il “Secondo sesso” (1949): “donna non
si nasce si diventa”, in cui l’autrice distingue il sesso biologico dal ruolo sociale.
Se da un lato questa ri-articolazione superò completamente il modello “naturalistico” dei ruoli
sessuati, dall’altro rimise in discussione la fissità dello schema binario maschile/femminile in
modo tale da estendere lo sguardo oltre alla coppia normalità/anormalità.
L’origine del termine gender, proveniente dal linguaggio mediatico, (fu introdotto da John
Money nel Bulletin of John Hopkins hospital) servì per affermare che se il sesso dipende dalla
natura, allora l’identità di genere si forma con gli altri individui nella dinamica della
socializzazione. La più compita riflessione antropologica sul genere è quella di Gaylerubin (in
The Traffic in women: Notes on the “Political Economy” of Sex, 1975), nella quale venne
costruita una teoria sull’oppressione femminile, a partire proprio dall’obbligo eterosessuale;
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venne poi fatto un confronto con la teoria marxista, lo strutturalismo di Claude Lévi-Strauss e
la psicoanalisi di Freud.
Questo insieme di tematiche è stato definito Studi di genere, che riassume principalmente
l’antropologia femminista, insieme alle ricerche dedicate alle identità LGbtQ.
Nel lessico antropologico e nella riflessione di Ernesto de Martino il problema di crisi e di
perdita dell’identità è problematizzato e “gestito” dalla cultura, che costituisce una risorsa
ulteriore rispetto alla sfera psicologica individuale.

Questa visione appare limitata soprattutto in relazione al “traffico delle culture” che sta
disegnando scenari nuovi che fanno sì che l’individuo sia esposto ad una pluralità di stimoli.
Queste distinzioni hanno maggiore rilievo nel caso dell’adolescenza migrante e delle
cosiddette seconde generazioni che affrontano l’esperienza di chi vive tra più universi, quello
famigliare che rimanda al paese di origine e quello della socializzazione secondaria e della
scuola. Per comprendere le difficoltà della cosiddetta “nuova autoctonia” e mantenere come
finalità la crescita dell’autonomia aldilà di ogni assegnazione identitaria occorre recuperare la
pluralità dei piani interpretativi e abbandonare l’idea schematica di choc culturale.
L’antropologia contemporanea definisce questa struttura relazionale dell’identità come auto-
etero assegnazione, ovvero un’operazione di secondo livello che istituisce
contemporaneamente un posizionamento e una distanza sia da sé che dagli altri.

Attualmente, i termini “differenza antropologica” e “mutazione antropologica” sono utilizzati


per alludere a diversità radicali o trasformazioni fondamentali.
Nella “Fenomenologia di una crisi antropologica” si parla del travaglio della società italiana
interpretata come crisi dei suoi valori fondamentali. Secondo questo modello retorico
l’antropologo viene ritenuto come una sorta di certificatore d’identità, generalmente pensate
come radicali, un tempo dette “primitive”. Claude Lévi-Strauss affermava che il richiamo
dell’identità andrebbe riletto come un sintomo o un segnale per la ricerca della stabilità.
Concordava con questa ipotesi anche Bauman, che leggeva nel richiamo d’identità il
riferimento ad una crisi interna. Questi usi contemporanei dell’identità rappresentano una
messa in forma ideologica che seleziona e isola un aspetto, ovvero quello autoreferenziale,
per imporre quella logica spietata che associa il bisogno di stabilire per sé alla messa a
distanza degli altri. Il carattere spietato dello schema Noi vs altri è stato sottolineato più volte.
Quando l’identà è posta fuori dalla storia diventa principio violento, fino a trovare esito nelle
“identità assassine” (Amin Maalouf) di cui il razzismo e la xenofobia sono tragiche forme di
evidenza.

II - Il problema dell’alterità: una genealogia dello sguardo antropologico.


Le premesse dello sguardo antropologico partono dall’“Età delle scoperte”, infatti fino al XVI
secolo la terra è stata popolata in maniera discontinua e molti esseri umani ignoravano la loro
reciproca esistenza. A partire dal 1492 iniziò una rete di scambi un unico ‘sistema-mondo’,
storicamente fondato sul rapporto di dominazione, ovvero sulla supremazia europea e la
“planetarizzazione” progressiva della cultura di riferimento. L’aspetto ideologico di questo
processo storico, che ha cancellato migliaia di culture, ha costituito il “vocabolario del
mondo” come espressione diretta di un’egemonia culturale e politica.
Secondo lo storico Todorov, la conquista dell’America annuncia e fonda la nostra identità
(1982) in quanto l’uomo non può solo confrontarsi con un passato antico, ma anche con un
presente diverso e inspiegabile attraverso le categorie antiche. Con la scoperta dell’America si
è passati da un mondo in cui “il pensiero si muoveva nell’elemento della somiglianza” a un
mondo in cui “gli osservatori cominciano a descrivere e, laddove è possibile, classificare la
differenza”.
Fino all’età delle grandi scoperte geografiche, il mondo era immaginato ancora secondo le
antiche rappresentazioni di una ruota circolare interamente circondata da un mare chiuso (=il
fiume circolare dell’Oceano Indiano), diviso in tre continenti da fiumi e mari interni, con
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Gerusalemme posta al centro. Per le due civiltà anche l’orizzonte “finiva” ad Ovest, in
corrispondenza delle “colonne d’Ercole” (=stretto di Gibilterra) che rappresentavano nel
mondo antico il limite esterno della civilizzazione ellenica, proteggendo il mondo conosciuto
dai pericoli del mondo esterno.
La visione di umanità diverse pose la questione della comprensione dell’alterità.
Le popolazioni del Nuovo mondo venivano molto spesso denominate con nomi usati in
riferimento alla loro “mostruosità dei costumi”, come ad esempio gli ‘eschimesi’ (=mangiatori
di carne – Greenblatt). Anche i cannibali (così chiamati a causa di una distorsione del nome
originale della popolazione – caniba) divennero poi una delle figure dominanti nell’immagine
europea del Nuovo Mondo, percepita come radicalmente antiumana.
L’incontro con queste popolazioni sconosciute implicava un rischio determinato dallo ‘stupore
della diversità’ che portava ad un superamento dei confini della propria identità verso il
confronto con l’altro.
Nell’esperienza coloniale la meraviglia divenne una precisa strategia retorica: attraverso le
pratiche della rappresentazione estetica infatti, si realizza la riduzione dell’estraneità. La
meraviglia strumentale di Colombo divenne la prima manifestazione della mistificazione
dell’esotismo, ovvero una visione positiva dell’altro che risulta illusoria e dannosa poiché
proiettata sulla nostra immagine e quello che noi vogliamo vedere. Seguiva poi l’atto di presa
di possesso da parte dei colonizzatori attraverso l’annullamento e la progressiva
estraneazione dei domini locali.
Il fatto che i colonizzatori europei venissero considerati superiori o addirittura come delle
divinità non fu sempre d’aiuto (come nel caso di Cortés che conquistò il vasto impero azteco
con pochi uomini), infatti l’esploratore Sir James Cook, al suo arrivo nelle Hawaii venne
scambiato per il dio Lono e venne ucciso. Infine, il confronto/scontro con le altre diversità
costituisce un elemento di grande importanza storica nella creazione di nuove realtà e identità
culturali. In questo senso, il problema dell’Altro deve essere visto come un problema del “Noi”,
ovvero della nostra capacità di confrontarci con l’irriducibile pluralità delle esperienze umane.

III- Universalità e relatività degli etnocentrismi.


I meccanismi di gerarchizzazione culturale della colonizzazione portavano ad una
configurazione ideologica specifica, che presupponeva la superiorità della civilizzazione
europea che si riteneva impegnata in un compito di “riscatto e redenzione” delle umanità altre.
Questo processo, definito come eurocentrismo, rappresenta l’espressione più alta di
etnocentrismo, un’espressione che si riferisce al fatto di porre un determinato gruppo
culturale al “centro dell’universo”, dunque come riferimento unico rispetto a cui tutti gli altri
vengono giudicati e valutati “per differenza”.
A livello teorico l’etnocentrismo deve la sua formulazione a William G. Sumner, che nel 1906
lo definì come una dinamica universale nella formazione dei gruppi sociali, processo durante il
quale il gruppo esterno (out-group) viene descritto attraverso un processo “per negazione”
rispetto al gruppo interno (in- group) à”Noi diversi da/migliori di loro”.
Ciò ha legami con la vicenda storica dell’eccezione americana, una società che è stata
costruita attraverso le ondate migratorie.
Anche Alfred Kroeber diede una definizione di etnocentrismo, definendolo come un
atteggiamento di sopravvalutazione e sacralizzazione della cultura d’appartenenza da
parte dell’individuo. Secondo Edmund Leach invece, l’etnocentrismo è fondato su “finzioni
d’alto contenuto emotivo” che come autoriferimento sostituiscono all’individuo il Noi del
gruppo; si tratta di una caratteristica diffusa in tutte le società umane come carattere
universale di cultura. Non si tratta di una caratteristica “innata”, bensì di un’estensione
dell’egocentrismo alle radici della coscienza umana. Secondo Leach è nella parentela e nelle
sue estensioni simboliche che è possibile individuare lo schema strutturale su cui si basa il
senso d’appartenenza.
Anche secondo Vittorio Lanternari (1938) l’etnocentrismo, essendo il generico e istituzionale
bisogno dell’uomo di garantirsi un’identità sociale, si collocherebbe tra egocentrismo e
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antropocentrismo e si estenderebbe a contesti diversi, anche al di là del riferimento della
differenza etnica. Esso scaturisce nella dimensione psicologica e cognitiva, che fa sì che
un’eventuale liberazione dall’etnocentrismo sia da ritenere come pura utopia. Quindi, secondo
questa visione, che presenta molte analogie con i temi freudiani, l’etnocentrismo
rappresenterebbe un elemento latente rispetto a cui saremmo chiamati a esercitare un
costante autocontrollo.

• Un argomento portato a sostegno dell’universalità di queste dinamiche è


l’“etnocentrismo linguistico”, atteggiamento particolarmente diffuso nell’autodeterminazione
dei gruppi che fanno riferimento a sé stessi con espressioni che dalla lingua indigena si
possono tradurre con “noi veri uomini”. (es.: lingue bantu dell’Africa: ba = noi + ntu= uomo).
Tuttavia, non sempre il nome che una popolazione si attribuisce coincide con quello dato da
altre popolazioni, infatti la logica nel definire il proprio statuto umano attraverso il nome è
quella dell’esclusione dall’Altro, del quale si descrivono le abitudini con aggettivi dispregiativi
(es.: gli ‘inuit’ sono conosciuti come ‘eschimesi’ =mangiatori di carne cruda).
Nella denominazione si può notare innanzitutto una dimensione “linguistico-cognitiva”, cioè
una serie di distinzioni a livello classificatorio che intervengono nelle dinamiche interculturali
per organizzare e catalogare le differenze.
Tuttavia, le etichette etniche non sempre si traducono in una svalutazione reale, ma
rispecchiano certamente una differenziazione classificatoria. Rinominare è il primo atto del
colonizzatore per includere l’Altro nel proprio universo linguistico e culturale, dunque, come
conseguenza diretta dell’europeizzazione del mondo, si può parlare di un “processo di
glottofagia”, ovvero di assimilazione linguistica.

L’etnocentrismo rappresenta un elemento interno a diversi ambiti e come atteggiamento si


esprime nella resistenza che si manifesta verso tutto ciò che è dissimile o nuovo. A queste
forme di etnocentrismo si sovrappongono i condizionamenti imposti dai contesti sociali
rigidamente monoculturali che concepiscono le dinamiche dell’identità non come crescita di
autonomia critica, ma come identificazione esclusiva. Nell’Occidente l’etnocentrismo è stato
elevato al rango di dettame ideologico, fino a renderlo verità pseudoscientifica attraverso le
dottrine razziste.
Ernesto de Martino aveva parlato di etnocentrismo critico, attraverso cui: “l’etnologo
occidentale assume la storia della propria cultura come unità di misura delle storie culturali
aliene, ma allo stesso tempo, nell’atto di misurare guadagna coscienza della prigione storica e
dei limiti di impiego del proprio sistema di misura e si apre al compito di una riforma delle
stesse categorie di osservazione di cui dispone la ricerca”.
Questo posizionamento, che maturava negli anni Sessanta, risulta ancora attuale: anche dal
punto di vista del superamento della tradizione dialettica Noi/Altro, la soluzione del dilemma
dell’universalità dell’etnocentrismo non consiste in un impossibile abbandono dei propri mondi
culturali, ma nello sviluppo della disponibilità a riconoscerne il carattere limitato per poter
estendere il proprio orizzonte conoscitivo.
Facendo riferimento alle affermazioni di Lanternari si può affermare che il posizionamento
antropologico implica il rifiuto della visione dell’etnocentrismo come elemento inevitabile delle
relazioni interumane e delle dinamiche dell’identità come se fosse una dimensione originaria
propria della “natura umana”. Occorre superare gli atteggiamenti giustificatori, che attraverso
la banalizzazione dell’etnocentrismo, portane all’esclusione e al razzismo, offrendone
un’immagine tanto falsa quanto inquietante di normalità.

IV- Cultura e relativismo culturale: aperture, limiti, attualità.


Come afferma Hannerz (1996) oggi “la cultura è ovunque”. Da questa circostanza presente
deriva anche una relativa perdita di pertinenza del termine e una sua utilizzazione generica in
ambiti estremamente differenti. Il termine ed il concetto di cultura non nascono con
l’antropologia: la matrice generativa è il verbo latino ‘colere’, ovvero l’attività di lavorare per i
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campi per ricavarne piante e frutti, da qui l’idea e la metafora della cultura come “coltivazione
dello spirito”. L’aggettivo “colto” - non casualmente al maschile – ha avuto storicamente un
preciso significato di distinzione sociale, infatti nell’Europa moderna l’educazione costituiva
una prerogativa quasi esclusiva delle classi più elevate del clero.
Il concetto antropologico di cultura ha segnato una netta rottura con questo significato
elitario ed esclusivo. Nel 1871, in pieno clima imperiale vittoriano Taylor affermava che: “la
cultura, o civiltà intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell’insieme complesso che
include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra
capacità e abitudine acquisita dall’uomo quale membro di una società.” Questa affermazione
ha consentito l’elaborazione di un nuovo discorso antropologico, che ha abbandonato i
riferimenti all’innatismo, all’identità biologica e al concetto di “razza” e si è aperto alla
considerazione della cultura come complessità che appartiene a tutte le diverse e
specifiche esperienze umane. Si trattava di un completo riorientamento degli studi
antropologici, che stava maturando in un contesto che oggi definiremmo multiculturale come
quello nordamericano, in un clima intellettuale che allora era ancora influenzato dal cosiddetto
darwinismo sociale a dall’uso sistematico del riferimento alla “razza”. Il presunto discorso
scientifico legato alla “diversità razziale” rappresenta il riferimento, anche nel campo sociale,
per tutto ciò che riguarda la gestione delle differenze e in particolare dell’immigrazione (si
ricorda il caso degli immigranti italiani, che una volta arrivati a Ellis Island furono classificati
in base a test e misurazioni antropometriche, in modo tale da selezionare quelli che
risultavano più adatti). La cultura iniziò così ad essere considerata come di complessità di
“forma di vita” che appartiene a tutte le specifiche esperienze umane. Ciò permise
l’abbandono progressivo di teorizzazioni di stampo razzista negli USA, che invece oltreoceano
avevano assunto una precisa connotazione politica portando alla nascita di partiti nazifascisti.
Si può affermare che la definizione di “cultura” al plurale abbraccia anche "quel saper fare”
(riferito ad esempio all’artigianalità, screditata a lungo dall’aristocrazia). Questa nuova
definizione antropologica ha fatto sì che ci si liberasse da quel riflesso di etnocentrismo, che
portava a parlare ci cultura e civiltà in senso unilaterale, come possesso esclusivo dell’Europa
e dell’Occidente.

• Il relativismo culturale è una teoria elaborata sulla base della duplice premessa del
carattere universale e della specificità di ogni singola cultura che afferma che le molteplici
manifestazioni culturali elaborate da ciascun popolo si giustificano nel loro contesto specifico e
non possono essere quindi giudicate in base a criteri che appartengono ad altre culture. Per
quanto riguarda l’antropologia, il relativismo culturale rappresenta un elemento metodologico
fondamentale per la ricerca sul campo, a partire dall’esercizio autocritico rispetto al proprio
universo culturale fino alla messa tra parentesi dei propri valori e la sospensione temporanea
del giudizio; alla luce di ciò lo si definisce come relativismo metodologico.
Occorre tuttavia specificare che l’antropologia non si può davvero identificare in un
programma di rinuncia all’esercizio della critica e del giudizio.

• La riconfigurazione del discorso di cultura e diversità ha costituito un passaggio


fondamentale della seconda metà del ‘900 (dal 1° dopoguerra alla guerra fredda) che vide
l’affermarsi di una nuova visione planetaria dei problemi sociopolitici. In tale occasione fu
molto importante il ruolo degli antropologi nel costruire una doxa antirazzista nella prospettiva
di una ri-costituzione dell’ordine mondiale dopo l’esperienza della guerra, che portò ad una
progressiva perdita dell’egemonia culturale europea che lasciò spazio al cosiddetto “Impero
irresistibile” (= planetarizzazione del modello statunitense e dei suoi contributi intellettuali).
Tuttavia, la rielaborazione in senso democratico-pluralista della cultura ha profondi limiti come
ad esempio l’estremizzazione à la cultura infatti poteva essere facilmente strumentalizzata
per costruire generalizzazioni astratte in cui la cultura passa dall’essere uno strumento per la
conoscenza delle “ragioni dell’altro” a principio di spiegazione totalizzante.

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Ciò può essere compreso attraverso un’affermazione di Hannerz secondo il quale la
dimensione ambivalente del discorso culturalista “sembra considerare gli esseri umani in
quanto in quanto prodotti e non in quanto produttori di cultura”.
Nel presente entra in gioco una nuova dimensione dei fatti culturali, legata alle dinamiche della
globalizzazione, infatti ad “animare le identità” sono i nuovi scenari di produzione e
trasformazione che maturano grazie ai flussi transnazionali, facendo sì che ciascuno di noi
abbia accesso a una parte sempre maggiore di cultura (o viceversa) per stimolare le nostre
menti e i nostri sensi.
Nella situazione multiculturale in cui ci troviamo, la cultura viene chiamata in causa come
elemento di rivendicazione in diversi ambiti; siamo sempre di più in presenza di un razzismo
“senza razza” che strumentalizza proprio le differenze culturali e per questo è stato
ridenominato “razzismo differenzialista”. La cultura sta diventando sempre di più oggetto di
rivendicazione in positivo o in negativo piuttosto che elemento di conoscenza in un processo
di politicizzazione della cultura.
Per analizzare le dinamiche dei conflitti di identificazione viene proposto che a partire dalla
riflessione antropologica, le scienze e le politiche sociali abbandonino definitivamente il
terreno dell’essenzialismo culturale (=ricerca di princìpi essenziali) per qualificare l’esperienza
culturale attraverso le sue dimensioni relazionali, sociali e politiche. A tale proposito è stata
avanzata una proposta da parte di Boni: se ogni cultura in senso antropologico è determinata
attraverso un processo di selezione di possibilità interpretative della realtà, questa costituisce
un prodotto che vive un processo di standardizzazione e genera modelli di conformità. Così
l’esperienza della cultura si realizza in una dimensione politica che tuttavia viene analizzata
come elemento interno alla cultura stessa e come luogo di produzione di sociopotere “ (..)che
non va intesa solo come capacità di determinare con la forza la condotta altrui, piuttosto
concerne (…) rendere più o meno desiderabile una certa azione, persuadere e generare
disposizioni”.

V- Eppur (la cultura) si muove… acculturazione, transculturazione e altri


dinamismi.
Alla base del lavoro di Franz Boas ci fu un profondo impegno antirazzista e un paziente
lavoro di revisione dei dati portati a dimostrazione dell’inconsistenza scientifica delle tesi
razziste. Dato ciò, alcuni allievi della Columbia University diedero vita a nuovo settore di studi
sulle culture afro-americane e ai processi di scambio definiti “di acculturazione”. Negli stessi
anni (1941) Herskovits, punto di riferimento della prospettiva sopracitata, smentì molti luoghi
comuni sugli afroamericani (prima di tutto l’idea che l’esperienza della schiavitù avesse
rimosso qualsiasi forma di autonomia locale) in “The Myth of the Negro Past”.
Successivamente, Herskovits formò un’intera generazione di ricercatori del tema
“antropologia afroamericana”, indirizzo di studi legato alla riformulazione del concetto di
acculturazione, che proponeva una lettura dei fenomeni di scambio culturale osservato sul
modello del melting pot. Secondo tale prospettiva la convivenza nell’american way of life
avrebbe integrato positivamente le preesistenti tradizioni di origine in un unico ed indefinito
concetto di identità nazionale.

• Il termine acculturazione risale a Powell (1880), antropologo americano che lo


elaborò per definire i processi di trasformazione nei modi di vita vissuti dagli immigrati nel
contatto con la società statunitense e per ciò proponeva una visione positiva delle dinamiche
di contatto. Tale scambio però rimaneva unilaterale.
Nel 1935 venne formato un comitato per studiare il termine “acculturazione” e
successivamente venne pubblicato “Memorandum per lo studio dell’acculturazione”, testo
secondo cui si afferma che l’“acculturazione comprende quei fenomeni che si verificano
quando gruppi di persone di culture diverse entrano in contatto diretto e continuo, con
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modificazioni conseguenti nei modelli culturali originari di uno o di entrambi i gruppi”. Nello
stesso testo viene inoltre proposta una sintesi sui “risultati dell’acculturazione”:
A. Accettazione: processo che si conclude con l’assunzione della parte maggiore di un’altra
cultura e con perdita della massima parte del patrimonio culturale precedente
(acquiescenza di entrambi i gruppi);
B. Adattamento: tratti originari e stranieri si combinano e producono un complesso culturale
operante senza intralci, costituendo così un mosaico storico;
C. Reazione: a causa dell’oppressione sorgono movimenti contrari all’acculturazione che
conservano la loro potenza psicologica come compensazioni di un’inferiorità imposta
oppure per mezzo del prestigio che può procurare agli aderenti ad un tal movimento il
ritorno a condizioni antecedenti l’acculturazione.
Secondo Roger Bastide, il progetto inaugurato dal Memorandum è rimasto inattuato e resta
solo a livello di pura enunciazione, questo terreno di studi infatti, nonostante l’ampia
pubblicazione di letteratura descrittiva, non ha avuto un adeguato sviluppo teorico. Nei
decenni successivi, la ricerca antropologica, preoccupata che le diverse realtà culturali
sarebbero state messe in crisi da una modernizzazione ritenuta omologante, ha messo in
secondo piano l’analisi e lo studio dei processi di contatto e scambio, visti invece come
elementi di perdita o corruzione.
Il fenomeno dell’acculturazione sembra ispirato al modello del diffusionismo, che grazie a
Franz Boas ha costituito un elemento di fondo nella costruzione dei quadri teorici
dell’antropologia culturale nordamericana, oltre ad aver costituito il punto di riferimento per gli
studi di Ezra Park, e soprattutto quelli della scuola sociologica di Chicago.
Paul Mercier affermò che la teorizzazione statunitense dell’acculturazione è prigioniera dei
suoi limiti costitutivi e ha impedito di rappresentare adeguatamente la complessità delle
dinamiche del cambiamento socioculturale. Questa definizione di acculturazione presenta
evidenti limiti nel riferimento a un modello dominante, ovvero quello Euroamericano, e una
prospettiva di modernizzazione intesa in termini di occidentalizzazione. Il concetto, oltre ad
essere toppo generico, propone anche un’interpretazione limitata di una relazione in realtà
estremamente complessa che rinvia inevitabilmente ad una visione statica e irreale della vita
delle società, che semplifica le dinamiche sociali.

• Dalla visione di pluralismo culturale deriva il concetto di multiculturalismo che


presenta ancora oggi una retorica osservabile nelle politiche dell’immigrazione e in quegli
interventi che dovrebbero essere interculturali, ma che di per sé hanno un effetto
controproducente in quanto rafforzano le differenze culturali rendendole ancor più oggettive.
Legittimando le diversità alla stregua di “dato di natura” si ottiene l’effetto di “culturalizzare”
quelle relazioni che mettono in scena differenze interetniche.
Un contributo importante al superamento delle teorie dell’acculturazione grazie allo
spostamento del campo di investigazione è quello di Fernando Ortiz: protagonista del
riconoscimento del valore di eredità africana nelle Americhe, elaborò una profonda revisione
critica del concetto di acculturazione.
• Nello stesso periodo Malinowski (fondatore dell’antropologia britannica) cominciò ad
interessarsi alle dinamiche di cambiamento socioculturale, anche grazie ad un viaggio in
Africa (1934); le osservazioni ricavate furono pubblicate nel volume postumo “The dynamics of
culture change” in cui l’idea principale è quella dell’incontro tra le società africane tradizionali
ed il colonialismo europeo che hanno prodotto una “terza cultura”, non riconducibile alla
somma delle precedenti (funzionalismo malinowskiano - punto di vista alternativo rispetto
all’antropologia statunitense).
Nel 1929, Malinowski e Ortiz si incontrarono creando un’intesa rispetto ai comuni interessi ai
fenomeni di contatto culturale e di cambiamento. Malinowski scrisse l’introduzione all’opera
più importante di Ortiz, nel quale inserì una critica al concetto di acculturazione:
“vocabolo etnocentrico con significato morale”. L’immigrante deve acculturarsi e godere del
beneficio di essere sottomessi alla Grande Cultura Occidentale, in poche parole cambiare per
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convertirsi in <<uno di noi>>. Ortiz dal canto suo risponde proponendo una nuova lettura degli
scambi culturali: “crediamo che il vocabolo transculturazione esprima meglio le differenti fasi
del processo transitivo da una cultura all’altra. Questo implica necessariamente la perdita di
una cultura precedente e la creazione di nuovi fenomeni culturali detti neoculturazione”.
La prospettiva della transculturazione elaborata da Ortiz è stata sottovalutata per molti anni,
prima di ritornare ad essere un argomento di straordinaria attualità in diversi ambiti.
L’antropologia sociale britannica rifiutera l’acculturazione, proponendo un approccio più
“dinamista” come quello che secondo la definizione di Meyer Fortes studia i processi di
contatto “non come trasferimento di elementi da una cultura all’altra, ma come continuo
processo di interazione fra gruppi di differente cultura”.
• Secondo Bastide (studioso francese di tematiche afro-americane) i contatti fra culture
vanno riferiti alla complessità del gioco delle strutture sociali, contrariamente, nella teoria
dell’acculturazione statunitense le dinamiche interne che intervengono nei fenomeni di
cambiamento socio-culturale non sono valutate in modo adeguato.
Egli vede questi fenomeni acculturativi come “fatto sociale totale” perché investono la realtà
socioculturale a tutti i livelli, dunque non si può parlare di “acculturazioni parziali”, ma di
fenomeni complessi che modificano in maniera imprevedibile l’assetto precedente, anche
attraverso la semplice introduzione di cambiamenti negli “stili di vita” quotidiani.

Come per Ortiz e Malinowski, anche per Bastide questi fenomeni non si producono mai “a
senso unico”, ma coinvolgono sempre forme diverse di reciprocità.
Per sottolineare gli aspetti dinamici del processo di contatto e per superare il carattere statico
dell’acculturazione egli elaborò i concetti di <<interpenetrazione>> ed <<intreccio>> come
descrittori di reciprocità di condizionamenti che tengono conto dei dislivelli di potere.
Bastide distingue inoltre l’azione di due principi complementari: casualità interna ed
esterna che in una continua interazione determinano i processi di cambiamento.
Ogni spinta esterna provoca sul piano interno reazioni di aggiustamento attraverso cui i
sistemi sociali cercano di recuperare una rappresentazione coerente. Il gioco di queste
dinamiche definisce i processi di cambiamento in termini di plasticità e creatività sociale.
In conclusione, il superamento del dibattito sul concetto di cultura trova nel concetto di
acculturazione una risposta contraddittoria perché ha una visione univoca. In risposta sono
stati elaborati i concetti di transculturazione, interpenetrazione e intreccio, che hanno posto le
premesse per una diversa visione dinamista della cultura, che riconosce nel mutamento un
aspetto strutturale della dinamica sociale rispetto a cui la cultura vive nella dimensione delle
particolarità e del cambiamento (= “flusso dei significati”).

VI- L’etnia come categoria storica nella dominazione.


I concetti “etnia” ed “etnico” sono presenti nel linguaggio quotidiano dei mass media
e più in particolare nel linguaggio politico. Il vocabolario dell’etnico ha recentemente
conosciuto ampia diffusione popolare diffondendosi anche in settori di: arredamento, musica,
tatuaggi ecc.. inteso come sinonimo di primitivo, esotico o comunque “altro”.
• Ethnos, che nella Grecia classica veniva utilizzato in contrapposizione a
polis (=modello di regolazione della vita sociale per eccellenza) per indicare i greci al di fuori
della città. “Etnia” aveva quindi un significato inferiorizzante che si trasmise nel cristianesimo
in cui ci si riferiva all’etnico indicando i “non-cristiani” / “pagani”. Molto spesso nei testi il plurale
di questo termine veniva sostituito con il termine greco “upokritai” per indicare “un termine di
condanna morale per chiunque non pratichi ciò che predica”.

• Il riferimento all’etnico in senso “moderno” compare in Germania a fine ‘700.


Fu menzionato per la 1° volta da Von Schlozer 1772 come “ethnograpisch” per definire un
metodo che propone lo studio della storia dei popoli come individualità coerenti e distinte.
L’etnico sarà adottato a contesti diversi, con significazioni al primo sguardo contraddittorie:
in Europa “ethnos” e “völk” descrivevano l’identità culturale in senso essenzialista.
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Nella dimensione nazionale l’etnia siamo noi, quindi il termine esprime una forma di intimità
culturale, mentre invece nel contesto coloniale, in cui il termine viene riferito agli altri, esso
viene utilizzato per evidenziare le mancanze dei selvaggi e dei primitivi a cui veniva indirizzata
la missione civilizzatrice.
Nel contesto africano la definizione di “sapere etnologico” emerse progressivamente da
pluralità di compagnie commerciali e società scientifiche (coinvolte nello Scramble for Africa =
spartizione coloniale). In questo contesto se la razza (descrittore generico delle diversità) è
stato fondamento dei mondi coloniali, l’etnia ha consentito di studiare, nominare e registrare le
realtà sociali indigene attraverso categorie e morfologie ben definite e relativamente stabili.
Il prodotto di questa convergenza è stata la costruzione di un ambito di saperi fondato
sull’etnismo scientifico, ovvero sull’utilizzo delle pratiche della ricerca antropologica per
risolvere questioni sociali e politiche della colonia.
• Per quanto riguarda lo studio delle popolazioni, gli etnografi isolavano singoli aspetti
ed evidenziavano quelli caratterizzanti i gruppi indagati. Questa attitudine scientifica a
classificare le realtà locali al di fuori della loro storia precoloniale ha rappresentato una
“ragione etnologica” che ha costituito “uno dei fondamenti della dominazione europea sul resto
del pianeta (…)”. Tali generalizzazioni erano principalmente volte a stabilire una gerarchia di
relazioni con i diversi gruppi.

VII- La decolonizzazione e l’etnicità.


La decolonizzazione è il processo politico, raramente pacifico e spesso conflittuale,
attraverso il quale, una nazione precedentemente sottoposta a un regime coloniale, ottiene o
riottiene la propria indipendenza. Questo termine è stato usato in riferimento alla “rivoluzione
delle aspettative” che anni ’50 mise in crisi il dispositivo della colonizzazione.
L’effetto contraddittorio coloniale investì la nuova generazione di antropologi africanisti che
dall’interno di istituzioni coloniali (l’Institut Français d’Afrique Noir) svilupparono dialogo con i
leader anticoloniali. Questi antropologi dinamisti o del “Social Change”: per raccontare le
trasformazioni scelsero di studiare le conseguenze della dominazione europea per formulare
nuovi concetti analitici:
concetti che reinscrivevano le società indigene
• situazione sociale estesa (Gluckman)
nell’esperienza coloniale nel “suo insieme e
• situazione coloniale (Balandier) come sistema”.
Il concetto stesso di mutamento fino ad allora ritenuto deviante rispetto alla stabilità culturale,
veniva ora posto al centro dell’interpretazione della vita sociale.
Questo approccio superava l’impronta discontinua dell’etnologia per dedicarsi allo studio delle
interdipendenze della nuova socialità legata alla modernità africana.
Una volta abbandonata la visione del gruppo etnico come insieme autoreferente culturalmente
omogeneo, gli studi antropologici attribuivano ad esso una valenza relativa e situazionale:
uno spostamento dallo studio dell’etnia a quello dell’etnicità.
Questa prospettiva portò al completo rovesciamento del punto di vista che portò a recuperare
l’immagine di etnia come strumento di legittimazione e mobilità sociale.
Si arrivò al riconoscimento del carattere dinamico delle identità e del primato della “self-
ascription (auto-attribuzione) etnica”.
Come riconosceva la letteratura di riferimento negli anni ’80: Seppure le etnie non esistono
oggettivamente, esse possono essere progressivamente introiettate, fino ad esistere
soggettivamente nella coscienza degli attori sociali, restituendo loro identificazioni collettive.
In questo aspetto performativo, l’etnico riesce a mobilitare più livelli – da quello individuale
delle memorie fino a quello sociale dei simboli – trovando esito in una dimensione
propriamente politica.

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VIII- L’etnicizzazione del sociale: tra mobilitazioni postcoloniali e strategia per
l’integrazione.
Una conferma dell’importanza del fattore etnico nella politica è stato il sanguinoso risveglio
anni ’90 dei nazionalismi e le nuove guerre, come testimoniano la pulizia etnica dell’ex-
Jugoslavia e i genocidi dell’Africa dei Grandi laghi.
Ciò ha dimostrato la persistenza di logiche della ragione etnologica persino nel vecchio
Continente, dove il termine viene utilizzato in relazione ai fenomeni migratori e alle
problematiche delle società multiculturali dove l’etnico si sovrappone al concetto di minoranza,
uso che deriva direttamente dal linguaggio delle scienze sociali. In molte realtà il concetto di
“etnia” ha sostituito quello di “razza” (usato negli USA in molti ambiti fino agli anni ’70).
La nuova “etnicizzazione” da un lato è una rappresentazione istituzionale dell’eterogeneità,
dall’altro è espressione di singolarità collettive, detentrici di caratteri unici in attesa di
riconoscimento, trasferita sul piano dei diritti umani.
In nome delle condizioni delle vittime, tipiche delle minoranze storiche, vengono rafforzate le
dinamiche sociali nello schema del mosaico culturale, un sistema di equilibri e restituzioni che
ha ri-legittimato discorsi e categorizzazioni odiose del passato, come quelle etno-razziali che
sono divenuti principi di affermazione identitaria, che oramai rientrano nelle contraddizioni del
politicamente corretto.
L’etnicizzazione va così a coincidere con la domanda di adeguare lo spazio pubblico a
soggettività nuove che assumono logica e strategia di minoranze.
Questo orizzonte categoriale accomuna il pensiero multiculturalista e postcoloniale di sinistra
ai rivoluzionari conservazionisti di destra europea, che si riconosce il diritto di classificare chi
lasciare entrare e chi respingere in base ad una nuova gerarchia etno-nazionale.
L’Etnicizzazione del sociale è quindi modello che vede un’affermazione trasversale nella
convergenza tra tecnologia e sicurezza, ingegneria sociale dell’accoglienza e discorso su
presunta integrazione, ponendosi come riferimento “per un nuovo blocco storico, quello
formato dai neo-reazionari e i post-coloniali”.
In Italia il rapporto con l’immigrazione risulta viziato dalle retoriche pubbliche, strettamente
legata alla finta dialettica tra accoglienza e criminalizzazione, e al falso dibattito
sull’integrazione.
Si tratta di conflitti simbolico-discorsivi sull’assimilabilità degli <<altri>> e sulla superiorità del
<<noi>>, in cui fa riferimento agli stranieri come comunità o etnie.
“Lo sviluppo di un associazionismo formale e di provvedimenti istituzionali in grado di integrare
o fornire alternative al capitale sociale messo a disposizione dai network, potrebbero
migliorare sensibilmente i processi di inclusione degli immigrati”.
La scelta è quella tra lottare contro meccanismi di esclusione universalista, per tutti, o
costruire rappresentanza particolarista con forme inedite di colonialismo domestico, ovvero
trasferire cioè nell’immigrazione le logiche coloniali dell’indirect rule (=governo indiretto).
È uno schema fondato sulla subalternità del migrante, un “colonizzato interno” con
assegnazione identitaria forzata: così l’etnia, anche se rimpatriata nelle società multiculturali,
ritorna ad essere elemento di dominazione.

IX- La globalizzazione tra pubblicità al futuro e nuovo (dis)-ordine mondile.


I concetti di globalizzazione (dall’inglese <<globalization>>) e mondializzazione (dal
francese <<mondialisation>>) emersero all’inizio degli anni ’90 e hanno lo stesso significato.
• Il primo aspetto strettamente connesso alla globalizzazione è il suo rapporto con la
temporalità, ovvero l’enfasi sulla novità assoluta che ha accompagnato la sua diffusione.
Essa è stata presentata facendo pubblicità del futuro, ovvero un modo per fornire un nuovo
significato (=risemantizzare) il presente, con un’interpretazione del tempo che ha istituito una
una discontinuità, un prima e un dopo.
La globalizzazione è emersa contemporaneamente ai cambiamenti che descrivere il termine
stesso; essa si è proposta come significante ad ampio spettro, come slogan e profezia che si

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auto avvera. Il suo “successo” deriva dal fatto che è stata insieme coscienza e descrizione di
un processo di cambiamento multidimensionale.
Schematizzazione del suo successo attraverso “3i”:
• Internazionalizzazione illimitata di scambi, mercati e comunicazioni che ha preso forma di
à Interconnessione sincronica che ha determinato àInterdipendenze: inedite, tali da
mettere in discussione il principio di razionalità politica degli stati nazionali.
Il discorso della globalizzazione si è affermata andando a coprire un vuoto, infatti mancava
una definizione di questo inedito assetto di relazioni tra spazi, società stati e mondi umani.
Da quel momento si è reso disponibile una definizione “un luogo in cui si potrebbe collocare
tutto ciò che è intercontinentale, internazionale, interculturale ecc.. che attualmente
vagabonda come apolide tra i discorsi accreditati dagli storici” (Peterson).
Beck introdusse una fondamentale distinzione fondamentale fra:
• Globalità: lo stato presente del mondo, tecnologicamente interconnesso, attraversato da
flussi commerciali, turistici, finanziari ecc..;
• Globalizzazione: processo attivo di interconnessione in continuo avanzamento;
• Globalismo: aspetto di interpretazione e costruzione di una ideo-logica delle
trasformazioni in atto, ossia il vero terreno di confronto nel dibattito pubblico intorno a cui si
ridefinisce anche lo spazio politico contemporaneo.
La globalizzazione non si sta realizzando con uno sviluppo lineare, con la riduzione del mondo
ad un unico modello; 20 anni di percorso forniscono l’immagine di un mondo globalmente
interconnesso in cui però storie e società locali non cessano davvero di esercitare un ruolo.
Dinamiche legate al nesso lavoro/produzione:
• Il primo cambiamento nei modelli produttivi riguarda il superamento
dell’organizzazione fordista del lavoro, ossia una precisa gerarchia verticale sostituita con una
struttura produttiva orizzontale “a rete” con dimensioni transnazionali.
Cambiamento connesso al dimensionamento dei mercati, all’innovazione tecnologica e a
prevalenza del lavoro immateriale (c.d. economia della conoscenza)
• Un secondo cambiamento nella flessibilizzazione del sistema produttivo:
dalla circolazione dei capitali (le grandi fortune sono organizzate a livello mondiale) fino agli
aspetti legati a precarizzazione del lavoro.
Alla crescita di incertezza concorre anche l’ampliamento e la trasformazione delle identità
lavorative (legittimazione del lavoro indipendente” e del “lavoro autonomo di terza
generazione”); il lavoratore diventa erogatore di prestazioni temporalmente circoscritte e
autonomamente contrattualizzate.
Anne Wagner affermò: “mentre la mondializzazione economica diversifica e rinforza i legami
tra le differenti frazioni delle classi dominanti, i suoi effetti sui gruppi popolari sono l’inverso. La
mobilità del capitale tende a dividere i salariati e a metterli in concorrenza gli uni con gli altri”
Ciò va a creare diversi conflitti tra i lavoratori con un dislivello di retribuzione (es.: un operaio
cinese o indiano contro quello nord-europeo o est europeo).
Vi è una logica unitaria di fondo che mira all’adeguamento delle risorse umane alle fluttuazioni
di un mercato che segue logiche non sempre trasparenti ma certo autonome.
Elemento di fondo riguarda la creazione di un mercato finanziario su scala globale.
Come hanno osservato i critici, la globalizzazione è stata caratterizzata da un abnorme
sviluppo del flusso finanziario internazionale che ha saputo sfruttare le dinamiche dei mercati.
Tuttavia, la vendita attraverso veicoli finanziari privi di trasparenza, insieme alla
popolarizzazione del consumo vistoso e alla finanziarizzazione dello Stato ha scatenato una
crisi di fiducia senza precedenti che ha investito anche l’economia reale. Sono stati questi gli
elementi che hanno portato alla crisi economica attuale, che ha assunto un carattere
mondiale.

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X- Il disagio del soggetto è illimitato.
Un altro elemento ideologico presente nei discorsi sulla mondializzazione è la scelta di
descriverlo come un soggetto senza limiti, il riferimento di una nuova società in cui “tutto il
mondo è intorno a te”.
La letteratura socio-antropologica ha identificato come contenuto della globalizzazione una
vera e propria corsa all’individualizzazione, che consiste nella “trasformazione dell’identità
umana da qualcosa di ‘dato’ a un ‘compito’ (…)”.
La ridefinizione dello spazio sociale a partire dalla soggettività è da una parte legata alla
dissoluzione delle identità sociali statiche e dall’altra legata alla possibilità di sperimentare
nuove e diverse forme di esperienze che l’individuo incorpora e riproduce.
“Abbiamo raggiunto una libertà di auto-affermazione individuale e di auto-affermazione
individuale ed auto-espressione virtualmente illimitata che non ha precedenti. La vita
individualizzata però ha le proprie angosce non meno dolorose di quelle di una vita vissuta
all’ombra di una tendenza totalitaria.”
Il nuovo spazio identitario della “quotidianità del sistema globale” è anche quello
dell’insicurezza in cui (come nel saggio di Augè sui non luoghi) “(..) c’è già posto oggi per una
etnologia della solitudine”. Si tratta della solitudine del cittadino globale alla ricerca della
politica e di un nuovo spazio pubblico (una nuova agorà).
L’esperienza “del moderno soggetto individualizzato, privo di una cosmologia o
un’autodefinizione prefissata” non è una condizione né facile né felice.
Si ha la percezione di un’inautenticità di base, che si manifesta ad almeno 2 livelli:
• Dal punto di vista del soggetto si è di fronte ad un’ambivalenza tra il desiderio di trovare
un’adeguata espressione del proprio sé e la consapevolezza che ogni identità è costruita
arbitrariamente, quindi non è mai autentica;
• Viene evidenziato il tema dell’individualizzazione globale come fine della società, “questa
dimensione ‘espansa’ della società in cui tutto il mondo è intorno a te fonda l’illusoria
convinzione del superamento del sociale come condizionamento materiale e limite, rispetto
all’ideologia dei beni illimitati di un mercato che cerca la diversificazione”
La fine delle identità sociali consolidate e la liberazione da alcuni condizionamenti
socioculturali (che una società aperta avrebbe dovuto favorire) hanno determinano
conflittualità manifestate attraverso soggettività e strumenti inediti.
La generalizzazione di un soggettivismo senza limiti è un imperativo alla rinuncia per tutti i
progetti di conoscenza che aspirino a comprendere e a trasformare la concreta esistenza dei
mondi sociali.

XI- Scenari antropologici globali: flusso e mondi locali.


Il punto di partenza dell’antropologia che si confronta con i presenti multipli della
globalizzazione è il riconoscimento che la contemporaneità non è riconducibile a modelli
semplicistici.
Le logiche sociali e le dinamiche culturali della mondializzazione si manifestano attraverso
diverse articolazioni spazio-temporali con differenti modalità di interazione e mediazione, per
ridisegnare gruppi, singoli e i loro reciproci rapporti fuori e dentro i tradizionali ambiti nazionali.
Occorre reinventare un vocabolario antropologico orientato all’analisi delle interconnessioni e
delle interdipendenze. Da questa esigenza è emerso il progetto di un’antropologia multi-
situata, che abbandona il terreno come spazio limitato e stabile e si dedica allo studio delle
connessioni e delle ramificazioni. L’antropologia multi-situata si è rivelata la prospettiva di
ricerca più feconda e creativa degli ultimi anni infatti questa strategia ha contribuito a restituire
un quadro di esperienze inedite di relazione, evidenziando nuove interdipendenze e gerarchie,
in cui entrano in gioco una molteplicità di aspetti che si fondano sulla distribuzione dei capitali
culturali.
La pervasività dei media, le migrazioni di massa o la produzione globale dei linguaggi e delle
tecnologie costituiscono fattori che determinano esperienze inedite dell’identità e della cultura.
Per tentare di definire questi aspetti, un antropologo americano (Appadurai) ha individuato,
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come aspetto saliente dei flussi culturali nell’economia del sistema mondo-globale, la
configurazione di almeno 5 scenari detti “landscapes”:
1) etnorami (=ethnoscapes); 2) mediorami (=mediascapes); 3) tecnorami
(=technoscapes); 4) finanziorami (financescapes); 5) ideorami (=ideoscape).
Si di scenari che si presentano come elementi primi di combinazione in rapporto a cui si ouò
strutturare l’esperienza del mondo.
“Questi panorami sono quindi i mattoni di quelli che vorrei chiamare mondi immaginati, cioè i
mondi molteplici che sono costituiti dalle immaginazioni storicamente localizzate di persone e
gruppi diffusi sul pianeta”.
La caratterizzazione dei flussi globali in termini di paesaggi non vanno visti come un quadro
statico e lineare in cui ogni elemento si combina meccanicamente, anzi, l’agency individuale
(=protagonismo dei soggetti nel flusso) si confronta con il fatto che la relazione tra i singoli
scenari “è profondamente disgiunta e imprevedibile perché ognuno di questi panorami è
soggetto alle sue costrizioni e ai suoi stimoli”.
I fenomeni del lavoro o dei movimenti finanziari/flussi mediatici, interagiscono fra loro, ma non
secondo schema prefissato, ma come circostanze locali.
L’antropologia del contemporaneo non ricerca una spiegazione globale, ma mira
all’elaborazione di concetti che consentano di analizzare queste dimensioni.
È questo dunque l’obiettivo di Appadurai: mettere a disposizione un “vocabolario tecnico
ragionevolmente economico” come base di partenza per un’analisi del globale ancora tutta da
fare.
Il lavoro dell’antropologo Hannerz è orientato verso la costruzione di macroantropologia
della cultura attraverso l’elaborazione di un complesso di categorie multidimensionali: dal
piano individuale alle diverse scale di società (tradizionali/complesse), fino alle configurazioni
globali. Anche per lui la dimensione fondamentale è quella dei “flussi di significato”.
Per ricostruire un quadro generale del flusso culturale attuale vengono individuati 4 framework
(cornici organizzative):
1- forma di vita: descrive il processo culturale in scala ridotta, legando il cambiamento alle
attività quotidiane di produzione e riproduzione. Entra in gioco la dimensione creativa
che investe anche l’individuo come protagonista di scelte;
2- mercato: circolazione delle merci, in cui vengono trasferiti beni insieme a servizi e
anche significati e valori culturali;
3- stato: “forma organizzativa di controllo delle attività all’interno di un territorio, potere
concentrato e pubblicamente riconosciuto”;
4- movimenti: vicini alle forme di vita, perché poco centralizzati e strutturati, basati su
fattori culturali. Si basano sulla produzione di una coscienza e su cambiamenti di
significato, dunque, su fattori eminentemente culturali.
(Per Hanerz) Questa schematizzazione rappresenta i referenti di base che interagendo
determinano il processo culturale contemporaneo. “queste cornici non agiscono
separatamente una dall’altra, ma è piuttosto attraverso la loro interazione che danno forma sia
a quelle che definiamo arbitrariamente culture particolari sia alla complicata entità complessiva
che è l’ecumene globale”
Hannerz ha formulato il concetto di “ecumene globale” (oikos: familiare, domestico) per
esprimere l’idea di interconnessione culturale e della definitiva unificazione-“domesticazione”
del pianeta.Gli antropologi hanno constatato che l’appropriazione dei prodotti culturali cambia
a seconda dei contesti e può contribuire a rafforzare le singolarità e le identità.
Per descrivere questa relazione occorre fare riferimento ad una metafora proposta da due
autrici tedesche nel ‘98: prisma locale à così come il prisma scompone il flusso luminoso nei
suoi elementi primi, rivelando i colori dello spettro visivo, lasciandone passare alcuni e
abbandonandone altri, così le società e le realtà locali applicano un meccanismo di
scomposizione e filtro dei flussi globali di informazioni, merci e risorse, facendone proprie
alcune e ignorandone altre.

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Il recente riconoscimento della spinta della globalizzazione “dal basso” ha determinato lo
spostamento dell’attenzione su una pluralità di periferie molto dinamiche. È vero infatti che i
modelli economici sono ormai quasi uguali in ogni luogo, ma è altrettanto vero che vi è
un’infinità di applicazioni e reinvenzioni autonome.
Nel dibattito delle scienze sociali, il confronto con queste coordinate ha fatto emergere il
concetto di glocalizzazione à neologismo proveniente dal linguaggio del marketing
internazionale, usato per sottolineare un nuovo e specifico rapporto tra locale e globale.
Si tratta di una prospettiva che rivolta il punto di vista: il locale non viene più considerato come
polo oppositivo di resistenza alle spinte esterne e ai flussi globali, ma come sede principale di
processi di trasformazione, mentre la globalizzazione non si traduce né nella diluizione delle
diverse culture né nello scontro tra segmenti culturali sparsi che sarebbero rimasti intatti nel
corso della storia. Essa genera o accoglie una produzione differenziata di culture.
Questa dinamica è stata sviluppata anche da Amselle, con riferimento alla metafora della
connessione à vengono prense le distanze da un approccio che consiste nel vedere nel
nostro mondo globalizzato il prodotto di una mescolanza di culture viste a loro volta come
universi chiusi e si riesce a mettere al centro della riflessione l’idea di “triangolazione”, ossia
ricorso a un terzo elemento per fondare la propria identità.
Tuttavia, questa lettura è stata anche criticata (da Friedman) per quanto riguarda
l’orientamento prevalentemente culturalista e la convergenza nella proposta di un’idea astratta
di flusso globale che alla distanza omologherebbe tutto. Per Friedman, l’aspetto più evidente
di questo processo è l’intensificarsi delle localizzazioni.

XII- Leggere la migrazione tra doppia assenza e transnazionalismo.


L’esperienza del migrare appartiene da sempre alla storia della specie umana: l’aspirazione
ad un lavoro e ad una vita migliore rappresentano infatti elementi universali. Le diaspore
della modernità ovvero lo spostamento di migliaia di uomini e donne tra aree povere e ricche
del mondo, rappresentano fenomeni inediti per dimensioni e portata (transnazionalismo).
Sempre di più l’identità si scompone e ricostruisce nella mobilità, insieme alla storia degli
individui: oggi è possibile nascere in un luogo, lavorare e vivere in un altro e finire i propri
giorni in un altro ancora, elaborando insieme legami e nuovi modelli socio-culturali.
Pietro Vereni, per definire le nuove figure della mobilità globale, ha individuato una
tripartizione teorica dello spazio identitario tra migranti, diasporici e indigeni.
La migrazione è quell’esperienza al tempo intima, sociale e transnazionale che riassume in sé
molteplici e contradditorie dimensioni della globalizzazione.
Uno storico franco-algerino (Sayad) ha definito la migrazione come “fatto sociale totale”: che
interroga insieme le condizioni di partenza, i percorsi di vita dei migranti, le responsabilità e le
scelte della società d’arrivo. Solo valutando tutti questi elementi insieme è in grado di restituire
un’esperienza migratoria, il cui tratto unificante è la cosiddetta “doppia essenza” (S.) à quella
del paese in cui l’emigrato è nato e quella del paese in cui si trova a vivere (dove spesso è
escluso). Ciò descrive la realtà del migrante come esperienza di un’esistenza “fuori-luogo” in
cui il soggetto vive una vera e propria “caduta sociale”, costretto a ricominciare da zero per
conquistare un nuovo spazio sociale all’interno della società d’arrivo.
Occorre considerare altri elementi, legati a circostanze più attuali, come la possibilità di
“essere qui e lì”, infatti oggi, attraverso alle tecnologie si può mantenere legame tra contesto
di partenza e arrivo. Un ruolo essenziale in questo contesto è dunque quello dei media le
comunicazioni che restituiscono in qualche modo intimità alla distanza, infatti prima i Call
center luoghi e poi i social network rappresentano luoghi e attività centrali del cosiddetto
ethnic business work dell’immigrazione.
Per definire questi nuovi scenari, l’antropologa statunitense Nina Schiller ha coniato il termine
transnazionalismo in riferimento ad una nuova popolazione migrante che sta emergendo, in
cui i modelli di vita coinvolgono contemporaneamente la società di accoglienza ed il paese
d’origine. Questa definizione che supera l’approccio classico alla migrazione come processo

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unidirezionale oltre a superare anche l’identificazione del migrante con una figura della
povertà e dell’esclusione.
Il transnazionalismo ha conosciuto una vasta ricezione anche in ambito sociologico, in
relazione a modelli autoimprenditorialità migrante, che ha in qualche modo sostituito la figura
della mancanza della doppia assenza con quella più protagonista di una doppia presenza.
La dimensione innovativa di “campo sociale transnazionale” da un lato riequilibra un certo
miserabilismo presente nelle retoriche della migrazione, dall’altro non deve farci dimenticare
facilmente i regimi di disuguaglianza.
L’antropologia della migrazione si occupa inoltre anche delle risposte dinamiche e delle
logiche politiche delle popolazioni autoctone poiché quella dei migranti è una realtà
complessa, che investe una pluralità di attori.
Gli studi (di Sassen) hanno dimostrano che le migrazioni sono un processo strutturato e
selettivo, che combinano una moderata tendenza alla stabilizzazione e poi una spinta nel
lungo termine a tornare nel paese di origine.
Relazione tra globalizzazione e migrazione: se la migrazione è alla base di dislivelli di
condizione materiali e sociali, allora al crescere del movimento economico avrebbe dovuto
corrispondere una diminuzione dei movimenti migratori, invece oggi l’una manifesta l’altra, una
è lo strumento essenziale o il prolungamento dell’altra.
Migrazione è dunque la possibilità di essere parte di un primo mondo globale, anche a costo di
farsi triturare dal consumo del lavoro. Infine, la migrazione come fatto sociale totale cambia il
mondo e le persone, ed in questa dinamica dobbiamo imparare a fare i conti per costruire un
diverso scenario di inserimento sociale e una prospettiva di cittadinanza per tutti, tutte e
ciascuno.

XIII- Oltre schiavitù e “razza”: la creolizzazione delle identità.


Negli ultimi decenni nelle scienze umane e nel dibattito politico-culturale sono state introdotte
nuove terminologie per mettere in evidenza il carattere dinamico delle culture, si tratta di:
métissage, ibridazione culturale, sincretismo e creolizzazione.
• Definire un’identità meticcia è il punto di arrivo del criticismo antropologico nel
superamento di schemi classificatori fondati sul dogma della stabilità e della permanenza di
universi sociali e delle differenze; ciò risponde al bisogno di recuperare gli strumenti di analisi
dei cambiamenti derivanti dai contatti e dagli scambi non come eventi accidentali, ma come
dimensione di fondo di ogni realtà socioculturale ed umana. à Si tratta del concetto di
sincretismo originario (formulato da Amselle) che consiste nel riconoscimento di una
mistificazione ideologica centrale nel discorso dell’Occidente sull’Altro e sul Noi.
• Inizialmente, con il termine creolizzazione si indicavano i processi di reciproca
contaminazione e scambio, dunque, la nuova dimensione dell’identità culturale che ne deriva.
Alcuni intellettuali delle Antille francesi consideravano la “creolitè” la “coscienza non
totalitaria di una diversità preservata” o “nuova identità mosaico”.
• Premesse genealogiche:
Tra le conseguenze della colonizzazione del continente americano va considerato l’evento
della nascita di società strutturalmente nuove, caratterizzate dall’incontro e dalla fusione di
diversi gruppi umani: da una parte i coloni che subirono il violente impatto con i coloni
europei, gli europei che portarono con sé la pretesa della propria superiorità culturale e infine,
l’arrivo delle popolazioni africane costrette alla schiavitù. Ultimi in ordine di tempo gli asiatici
(con salari miserrimi) e infine gli italiani (prima nell’America Latina e poi in quella del Nord).
Mintz (antropologo statunitense) afferma che nella schiavitù del Nuovo Mondo si può
leggere il più imponente fenomeno di acculturazione di massa della storia umana.
L’elemento centrale di questa dinamica storica fu lo squilibrio tra quantità di risorse potenziali
e la scarsità di manodopera locale.
Questo schiavismo di massa rappresentò un nuovo modello dettato
dall’internazionalizzazione degli interessi, delle produzioni e degli scambi.

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La maggior parte degli schiavi veniva impiegata nello sfruttamento intensivo di risorse agricole
su larga scala, in particolare nelle produzioni tropicali pregiate (tabacco, caffè, spezie etc..).
In questa situazione, lo schiavo è considerato come pura forza animale e fattore economico di
base per formazione del capitale.
L’economia schiavistica ha rappresentato un aspetto che ha concorso maggiormente allo
sviluppo dell’economia europea (tra XVI e XVII sec.). L’esperienza storica della società dello
schiavismo ha determinato i “caratteri fondamentali” della cosiddetta Plantation America
(America della piantagione), una sfera culturale che si estende in tutta l’America.
Un’altra conseguenza fu il progressivo strutturarsi del razzismo, in qualità di ideologia che
legittimava l’organizzazione gerarchica della società della colonizzazione.

• Le società nate dal métissage dervano dall’impatto della colonizzazione e sono costruite
Sulla gerarchizzazione in base al colore, la pigmentocracy.
La “razza” diventa una linea di demarcazione sociale che entra nella quotidianità, in questo
contesto l’scesa sociale avveniva progressivo “schiarimento” della pelle (realizzato attraverso
strategie matrimoniali, che annullava la condizione di inferiorità marcata indelebilmente sul
corpo. Il lessico del razzismo coloniale latinoamericano inizialmente distingueva almeno
15 tipologie di “meticci” e a ciascuna di esse venivano associate caratteristiche morali e
psicologiche à ciò ha portato a 4 secoli di ineguaglianze ed è ancora operativo tutt’oggi.
Tuttavia, i neri non sono l’alterità etnica e non hanno quindi avuto come le culture indigene
alcun riconoscimento postumo fondato sul pluralismo culturale di principio e continuano
ancora troppo spesso ad essere percepiti come elemento di pericolosità sociale (come
dimostrano anche i recenti avvenimenti negli USA con l’uccisione degli afroamericani da parte
della polizia e i dati denunciati dal Black lives matter).
• Con il termine transculturazione si indica il processo di passaggio da un tipo di cultura ad
un altro, nell’incrocio di due o più culture diverse (es.: mondo della piantagione) che porta al
definirsi dinamico di nuove identità. Dunque, per Bastide, come per Ortiz (transculturazione)
fenomeni acculturativi non si producono “a senso unico”, ma coinvolgono sempre diverse
forme di reciprocità, interlocutori di cui bisogna considerare le specificità storiche e sociali.
Vennero infatti introdotti i concetti di “interpenetrazione” e “intreccio” per descrivere le
reciprocità di condizionamenti legati ai dislivelli.
Nei processi di cambiamento occorre distinguere l’azione di due principi complementari, una
casualità interna ed una esterna in un’interazione continua che determinano i processi di
cambiamento in termini di “plasticità”, dal momento che ogni spinta provoca una serie di
reazioni successive di aggiustamento.
• A questi si è affiancato il termine creolizzazione: attualmente impiegato per definire in
senso lato l’incontro e lo scambio tra cultura differenti. La parola deriva da riflessione critica su
terminologie come: meticcio (=composto da più parti); ibrido (=bastardo); mulatto
(=incrocio); sincretismo (= combinazione di elementi di differente origine, impiegato per
descrivere sistemi religiosi fondati sulla reinterpretazione autonoma di elementi derivanti dal
contatto fra culture differenti à es.: Vudù di Haiti, il Candomblé brasiliano etc… Questi “nuovi
culti” utilizzano simbologie e rituali provenienti in parte da tradizione cristiana e in parte da culti
indigeni). Il termine però risente di un implicito atteggiamento svalutativo, i sincretismi
vengono trattati come qualcosa di bizzarro e inquietante.
Il dibattito antropologico ha proposto un completo ribaltamento: invece di considerare come
unici i prodotti dei processi di contatti, si dovrebbe prestare più attenzione alle resistenze e alle
“rigidità culturali”, ovvero al meccanismo attraverso il quale un gruppo umano rifiuta la
dimensione spontanea dello scambio. à Si realizza così un cero e proprio rivoltamento in cui
si riconosce la centralità delle logiche meticce e si individua una sorta di “sincretismo
originario” in cui si rinvia all’infinito la questione dei primitivismi.
L’interesse si sposta sull’analisi del rifiuto e dell’invenzione delle “identità chiuse”
concentrandosi sull’artificialità dei limiti e dei confini come prodotti storici specifici.
• Da queste riflessioni deriva il termine “creolo”: dal latino “creare” nel significato di nascere.
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Lo si ritrova nel termine spagnolo “Criollo” che all’inizio definiva i nati nel Nuovo Mondo da
genitori provenienti dall’Europa e allo stesso tempo i prodotti e le abitudini della colonia.
Dall’incontro fra codici differenti nasce una nuova lingua, parlata prima che scritta da milioni di
persone vivono la realtà della colonia e rielaborano gli elementi culturali di diversa
provenienza: il creolo da lingua “bastarda” è poi diventato testo letterario.
Per Hannerz, la creolizzazione è il contenuto culturale fondamentale della società complessa.
Il global ecumene, orizzonte culturale del mondo globalizzato, è caratterizzato dalla
transnazionalità, ossia presenza di processi sociali e culturali che superano i limiti dello stato-
nazione, proponendo reinvenzioni e reinterpretazioni locali di elementi provenienti dall’esterno.
L’attenzione alle dinamiche di incontro e dello scambio tra culture impone il definitivo
superamento dei quadri teorici della letteratura antropologica tradizionale che restituiva
un’immagine statica delle diversità come universi chiusi ed autonomi.
La revisione critica di questo impianto classificatorio ha portato progressivamente ad una
nuova visione delle società e delle culture attraverso la nozione di flusso culturale.
Alla luce di ciò si può proporre una definizione della creolizzazione come un processo in cui i
mondi locali, anche a seguiti di un’assimilazione dei modelli dominanti, passando attraverso
strategie e pratiche di adattamento e resistenza, costruisce percorsi di senso propri, attraverso
i quali una diversa lettura dei quadri culturali imposti permette di recuperare una sfera
autonoma di azione sociale e di produzione dei valori, per dare origine a scenari alternativi di
modernità.

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