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IL GIOCO DELLA CULTURA, attori, processi, prospettive

S.P. Stella, L. Salmieri


Parte prima – (1) le prospettive
1. Il crocevia della cultura
Il viaggio della parola “cultura” e dei suoi significati attraverso il tempo è lungo e tortuoso.
La cultura si presenta inizialmente come la conquista o l’attributo di una persona, di un singolo, di un
individuo. Nasce al singolare e Il primo cambiamento cui va incontro è il passaggio dall’uno si passa
ai molti, dall’individuale al collettivo.
Tale passaggio dal singolare al plurale si realizza mediante la rottura con una concezione statica del
mondo. Infatti, con le scoperte scientifiche e l’Illuminismo, nel Settecento si apre una visione
maggiormente dinamica dell’umanità, capace di cambiare, di perfezionarsi, di progredire. La
riflessione storica dà origine al termine “civiltà” – civilization, civilizzazione. Se la civiltà può
contraddistinguere un’intera nazione, un popolo, la cultura non si configura più come la conquista di
uno solo, ma la conquista di molti.
La polemica degli studiosi tedeschi contro il carattere astratto del termine francese civilization,
considerato troppo unilineare e imperialista, apre la strada all’idea che non esista una civiltà sola, ma
numerose culture, numerose individualità culturali, ed è perciò necessario parlare delle culture al
plurale.
Con l’antropologia, inoltre, si apre un nuovo capitolo: la cultura non riguarda più solo il sapere ma un
intero modo di vita (a whole way of life) – dalla cultura sinonimo di conoscenza si passa quindi alla
cultura sinonimo di vita ordinaria.

1.1 I contenuti
Secondo la definizione di Tylor, la cultura risulta essere composta: “[dal]le conoscenze, le credenze,
l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità o abitudine acquisita dall’uomo in quanto
membro della società”. Da questo punto di vista la cultura sembra coincidere con l’intera società.
L’intenzione degli antropologi di separare la cultura dalla natura spiega la loro propensione a
includere nella cultura tutti i prodotti umani, ossia l’intera sfera sociale.
Il processo di depurazione e chiarificazione è frutto del lavoro teorico di Talcott Parsons. Il processo di
depurazione ha fatto sì che i contenuti della cultura risultassero più ‘nitidi’, e che venissero riassunti in
alcuni elementi indicati convenzionalmente come: norme, valori, credenze, simboli. Nelle norme
sono incluse le convenzioni condivise, le linee guida, i criteri di giudizio, nei valori il nostro
attaccamento ai diversi ideali, nelle credenze le convinzioni profonde, le superstizioni e i giudizi,
mentre i simboli appaiono come i veri animatori di tutti gli altri elementi, perché attribuiscono a
ciascuno di essi un significato.
Le accezioni del termine “simbolo” sono numerose; il simbolo si configura principalmente come un
segno che indica la relazione di un oggetto materiale con un’idea astratta, ma il termine “simbolico” ha
assunto un’accezione molto più profonda attraverso il lavoro dell’antropologo Clifford Geertz, secondo
il quale il simbolo è una chiave d’accesso all’interpretazione di tutti i fenomeni del mondo sociale, ciò
che indica un senso.
La cultura materiale certifica il messaggio principale dell’antropologia, secondo cui non vi è società
senza cultura. Per cultura materiale si intende un ventaglio di prodotti diversificati che include gli
artefatti delle attività manuali e intellettuali: le opere di artigianato, l’abbigliamento, la cura del corpo,
l’architettura, altro.

1.2 Il testo e la pratica


L’opera di semplificazione di Geertz – Interpretazione di Culture – ha determinato il riconoscimento
della centralità dei simboli e dei significati nel nostro modo di intendere la cultura.
Geertz si è posto come obiettivo quello di semplificare il campo semantico della cultura, invaso da

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numerose definizioni e da un accumulo di opzioni teoriche. Nelle sue intenzioni, la semplificazione
avrebbe assegnato alla cultura un “settore preciso”, e avrebbe rafforzato l’efficacia concettuale ed
euristica. L’approccio dell’antropologo americano ha stabilito un forte impulso al lavoro teorico
intorno alla cultura tramite l’adozione di un concetto, da lui definito “semiotico”, perché calibrato sul
significato.
La proposta concettuale di Geertz produce un effetto di astrazione quando il termine semiotico
combacia con uno strumento formale, il linguaggio, nella sua versione più usuale, il testo.
Per Geertz un testo va al di là del materiale scritto e verbale; la cultura di un popolo è un insieme di
testi che gli antropologi devono poter essere in grado di leggere.
I primi sintomi a favore della pratica provengono da Bourdieu il quale mette in evidenza la debolezza
dell’approccio testuale alla cultura. Egli non crede che la padronanza di un codice linguistico sia
sufficiente a conferire anche la padronanza degli usi appropriati.
L’impegno dei sociologi si è mosso per superare l’antinomia fra sistema e azione, equilibrio e
cambiamento. La formulazione più convincente è stata sviluppata da Giddens, il quale ha proposto il
concetto di ‘strutturazione’. Giddens chiama in campo la pratica sociale e l’agency, l’azione umana.
Le strutture della società possiedono una dualità, una doppia proprietà che le mette in grado di
condizionare l’azione dei soggetti ma permette loro di reagire a quelle stesse azioni/pratiche. Il
termine ‘strutturazione’ sottintende un doppio movimento: le strutture coartano l’azione umana ma
anche la abilitano.
L’habitus, per Bourdieu, è un insieme di disposizioni acquisite dall’attore attraverso il tempo, è la
matrice di ogni routine e di tutto il sapere implicito, tacito, che Bourdieu condensa nel termine doxa.
Inoltre, l’habitus non è immobile, la sua struttura diacronica muta nel tempo.
La visione di Geertz ha segnato un punto di non ritorno: anche la “pratica” infatti è portatrice di
significati. Sewell, però, cerca di riconciliare i due punti di vista, sostenendo che il sistema dei
significati e la pratica sociale sono concetti complementari.
Per evitare che il concetto di pratica venga banalizzato, Sewell avverte l’esigenza di spiegare gli eventi,
di indicare un rapporto di causa-effetto.
Il profilo della cultura che Swidler traccia per i periodi storici che definisce “instabili” contrasta con la
cultura dei periodi detti “stabili”. Nei primi si verificano i rinnovamenti più eclatanti, nei secondi
invece si attinge a esperienze culturali collaudate. Anche nella proposta di Swidler la pratica culturale
può alterare il codice simbolico preesistente, utilizzandolo per favorire il cambiamento.

1.3 Cultura e potere


Secondo l’antropologa Ortner la cultura è ripartita in modo ineguale tra gli individui e i gruppi della
società, in rapporto al loro reddito, al loro status e al loro genere. La cultura, secondo Williams, è un
intero modo di vita non privo di scissioni interne anche molto marcate; non solo perché il patrimonio
simbolico è distribuito in maniera differente fra i soggetti e i gruppi, ma anche perché la cultura
costituisce una ‘risorsa’ di cui il potere è avido di servirsi per stabilire e amministrare il proprio
dominio.
Ortner distingue due ‘facce’: la distribuzione del potere e il suo esercizio, il potere come essere e il
potere come fare. Nel primo caso appare una proprietà distribuita in maniera disuguale fra individui e
gruppi, nel secondo caso ci troviamo di fronte a un accumulo, una concentrazione nei luoghi dove il
potere/autorità viene gestito su larga scala. Ortner presta attenzione ad entrambe le facce, citando sia
‘l’asimmetria’ verticale del potere dentro la società, che ‘l’egemonia’ sulla società.
Sulla simmetria e sulla disuguaglianza si soffermano soprattutto i sociologi puri come Giddens, il quale
imputa allo strutturalismo di Lévi-Strauss e al post-strutturalismo di Derrida il torto di non aver preso
in considerazione la categoria del potere nel loro lavoro sulla cultura, o Bourdieu, il quale indica le
manifestazioni del potere attraverso la declinazione del concetto di capitale, in cui spicca il cosiddetto
“capitale culturale”: il patrimonio di titolo di studio e competenze, accumulato attraverso la
socializzazione familiare e l’istruzione. Inoltre, per Bourdieu, i simboli non svolgono solo una funzione
comunicativa, ma sono strumenti del potere perché carichi di significati e messaggi contrassegnati

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dalle intenzioni del potere.
Entrambe le facce del potere sono prese in considerazione dagli studiosi dei Cultural Studies inglesi.
Secondo Hall, la cultura è un campo di battaglia in cui si lavora per smascherare l’interpretazione tra
cultura e potere. Per quando riguarda il tema della disuguaglianza fra le classi nasce un interesse per i
nuovi gruppi, le “nuove etnicità”. Inoltre, la scuola di Birmingham ha investito parte della sua energia
nella ridefinizione del concetto di “egemonia” di Gramsci per rispondere all’esigenza di riflettere sulle
forme di dominio politico culturale.

1.4 Cultura-culture
Siamo soliti parlare di “cultura dei giovani”, “cultura etnica”, “cultura italiana”, “cultura francese”
quando vogliamo alludere a gruppi sociali e categorie di persone con le loro abitudini, collocazioni,
modi di esprimersi e stili di vita riconoscibili. “Culture” al plurale è un’espressione che accompagna lo
sviluppo creativo della società e che si moltiplica man mano che l’esperienza sociale si diversifica e si
espande. Vi sono sempre più culture e ciascuna di esse è contraddistinta da pratiche e simboli.
Il richiamo a questa distinzione è indispensabile poiché permette di tracciare il confine fra una forza
sociale pervasiva e impalpabile, la Cultura, e le sue manifestazioni singole, che corrispondono a “corpi
concreti di pratiche e di credenze”.
La Popular Culture, o cultura popolare, secondo un’espressione coniata dai Cultural Studies britannici,
rappresentano altrettante versioni della cultura al plurale, “le culture”, che costituiscono oggetti
d’indagine specifici delle scienze sociali.

(2) Lo sguardo antropologico, lo sguardo sociologico


2.1 Il relativismo culturale
L’itinerario seguito dall’antropologia e dalla sociologia nella messa a punto del concetto di cultura è
contraddistinto da significative occasioni d’incontro e da alcune divergenze. L’arco di tempo che copre
la seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento è attraversato da fasi diverse nella
enunciazione dei confini tra le due discipline.
Gli oggetti di indagine dell’antropologia erano chiari: le società primitive, la loro cultura. Nata essa
pure nella seconda metà dell’Ottocento, la sociologia aveva a sua volta fissato il proprio oggetto, molto
diverso: la moderna società industriale, con le sue strutture, la sua organizzazione capitalistica, la sua
classe borghese. I membri di un gruppo primitivo riescono a sopravvivere con mezzi che inventano e si
procurano essi stessi, producendo cibo e riparo, comunicando tra loro mediante segnali e simboli.
Come afferma Geertz, la cultura corrisponde a una serie di meccanismi di controllo per orientare il
comportamento dell’uomo. E’ la cultura a distinguere l’animale uomo dagli altri animali perché il suo
corredo genetico da solo è troppo debole e imperfetto per guidarlo alla sopravvivenza. Sono il
linguaggio e il pensiero che gli permettono di formulare simboli, gesti, disegni, suoni, parole, con i quali
elabora e assegna un significato alla sua esperienza del vivere. I meriti principali del lavoro
antropologico corrispondono a due conquiste: la scoperta dell’esistenza di una cultura di carattere
primitivo e la messa al bando dell’etnocentrismo.
Malgrado gli oggetti di indagine dell’antropologia e della sociologia fossero diversi, sia il concetto di
cultura che i metodi utilizzati dagli antropologi avevano fatto breccia nella sensibilità sociologica.
L’impostazione del lavoro empirico della Scuola di Chicago è una riprova del fatto che le due discipline
erano contigue, procedevano in modo parallelo.
Una volta conclusosi il primo periodo della produzione sociologica della Scuola di Chicago l’impegno
teorico e di ricerca della sociologia sul concetto di cultura sembra diventare sotterraneo. Viceversa, nel
campo antropologico, quel periodo appare fervido di proposte, opere, elaborazioni diverse. Cultura e
società vengono considerati sistemi correlati ma irriducibili: società e cultura fanno capo a due ordini
analiticamente distinti, ma nessuno dei due può essere ridotto ai termini dell’altro.
Gli anni Cinquanta vedono anche avviarsi a conclusione il dibattito sul concetto scientifico di cultura
all’interno dell’antropologia. Come spiega Rossi, il concetto antropologico di cultura nel momento del

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suo maggiore successo entra in crisi. Crisi che ha origine da un fenomeno storico: l’orientamento di
fondo della scienza antropologica si era identificato con l’interesse per le tribù primitive ma, nel
secondo dopoguerra e negli anni successivi, il suo oggetto originario era andato scomparendo.

2.2 La revisione critica della cultura


Nella raccolta di saggi Pensare la cultura l’antropologo Vincenzo Matera ripercorre l’evoluzione della
scienza antropologica dal: “sapere umano che emerge dall’incontro fra gli antropologi e i nativi” fino alla
nuova vocazione degli antropologi per l’indagine sulle società complesse contemporanee.
La perdita di fiducia nel concetto di cultura da parte degli antropologi comincia a diffondersi negli
ultimi anni e induce gli antropologi all’idea di voler abbandonare il termine o di sostituirlo con altri,
affermando che “il concetto di cultura è una invenzione, una finzione, un ostacolo […] e che bisogna
liberarsene”.
Nell’analisi di Matera, e nelle considerazioni dei suoi colleghi, vengono puntualizzate le numerose
modifiche che la nozione di cultura coniata da Tylor ha subito nel tempo, come la messa in discussione
dell’approccio configurazionalista di Benedict, che riteneva la cultura un tutto integrato, chiuso,
localizzato.
Rimane, però, un aspetto sul quale gli antropologi non hanno espresso un chiaro punto di vista, ed è la
distinzione analitica tra società e cultura. Il mancato riconoscimento di questa distinzione è alla base di
numerosi fraintendimenti, indicati dall’analisi di Giglioli e Ravaioli. Due riserve in particolare meritano
di essere richiamate: la prima ha a che fare con il concetto di innovazione e di creatività, mentre la
seconda riguarda le condizioni attuali del potere politico centrale e dello Stato-nazione.

(3) I capostipiti
3.1 Premessa
Gli autori classici della sociologia hanno affrontato problemi vasti e complessi.
La barriera creata dalle ideologie che impedisce agli attori di veder chiaro nelle proprie motivazioni e
nei propri interessi, che mette in scena l’apparente libertà del lavoratore che vende la sua forza lavoro,
la bellezza dell’arte greca sono fra i temi che hanno abitato la mente di Marx.
Durkheim si è interrogato sul rapporto fra le nostre volizioni individuali e le pressioni che ci avvolgono
dall’esterno, al punto che il suicidio risulta condizionato da forze collettive.
La divisione del lavoro tende ad aumentare insieme alla specializzazione tecnica dei compiti, ma ogni
segmento dell’attività produttiva ha bisogno del segmento ad esso adiacente per completarsi, e questa
combinazione viene definita “solidarietà organica”.
La scienza ha dissipato la nuvola delle credenze soprannaturali, ha consegnato il primato alla ragione,
ha facilitato l’affermazione di un approccio strumentale ma non può sostituirsi al valore degli ideali
morali che guidano l’agire umano.
Gli autori classici parlano di numerosi argomenti, ma non esplicitamente di cultura, non si curano
neppure di definirla. L’eccesso di progresso tecnico-scientifico, dell’accumulo oggettivo nella società
contemporanea compromette la libertà di espressione soggettiva. Viene indagato il fenomeno
dell’eccedenza culturale, del surplus di cultura oggettiva rispetto a quella individuale e soggettiva.
La forza della cultura viene rivendicata da Weber nella sua polemica contro il carattere monocausale
del cambiamento. La maniera con la quale Marx distingue fra “classe in sé” e “classe per sé” nella sua
analisi dei rapporti fra capitalisti e lavoratori chiama in causa come elemento principale la presa di
coscienza di questi ultimi, ovvero la loro capacità autoriflessiva di valutare la propria posizione nella
scala sociale.

3.2 Karl Marx, la cultura tra classe e il capitale


Può sembrare strano che uno degli autori che più hanno influenzato il pensiero sociologico non sia
stato un vero sociologo e abbia raramente utilizzato il termine “cultura.”

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Il motivo per il quale Karl Marx (1818-1883) ha esercitato un ruolo fondamentale nelle scienze sociali
è dovuto alla sua vasta opera, capace di produrre un impatto sulla vita sociale moderna, attraverso
movimenti politici e una visione economica, comprendendo la forza creatrice e, allo stesso tempo,
distruttrice del capitale.
Marx rappresenta una figura centrale per lo studio della prassi politica e rivoluzionaria; alla sociologia
della cultura interessa l’analisi del rapporto tra la base economica della società – i rapporti di
produzione – e le altre sfere della vita sociale. L’opera di Marx può essere ridotta ad uno schema
lineare di lettura dei rapporti storico-sociali dell’uomo secondo il quale tutte le forme di articolazione
della società dipendono dalle modalità di produzione e riproduzione delle condizioni materiali di vita.
Lo schema trae origine dalla dicotomia epistemologica tra idealismo e materialismo che si è sviluppata
attorno al problema della conoscenza: concepito come “ragione pratica” o “pura ragione”.
La conoscenza come prodotto della ragione pratica poggia sull’idea che la specie umana generi la
propria esperienza all’interno di un mondo precostituito, mentre la teoria della pura ragione, invece,
fonda le proprie premesse sulla centralità della specie umana: gli individui sono capaci di imporsi sul
mondo naturale e culturale attraverso la loro conoscenza astratta.
Di fronte alla visione hegeliana dell’idealismo razionale e al materialismo di Feuerbach, formula quella
che diverrà la base del suo pensiero: il “materialismo storico”. Secondo questo corpus teorico, la
cultura, le idee e le forme di conoscenza, derivano dall’esperienza umana e non posseggono alcuna
autonomia esterna o naturale.
L’azione cognitiva va inquadrata come parte dell’intero processo di sviluppo ed evoluzione della
realtà: la pratica di familiarizzazione con il disordine delle cose che ci circondano implica la necessità
di formulare, manipolare e trasformare la realtà stessa: si tratta della nozione di praxis.
Le classi subalterne possono cadere vittime di mistificazioni e false verità, spesso collegati a nuovi
strumenti di diffusione delle ideologie. Attraverso il concetto di ideologia Marx intende riferirsi alle
idee delle classi dominanti che legittimano o dissimulano il dominio. L’ideologia assomiglia a un
sistema culturale di (falsa) conoscenza. Marx, infine, introduce il concetto di “feticismo delle merci”
tipico della cultura capitalista, alludendo alla “personificazione delle cose” e alla “reificazione delle
persone”: gli individui entrano in rapporto attraverso le funzioni economiche che rivestono nella
divisione del lavoro.

3.3. Emile Durkheim, il sociale della cultura


Durkheim non ha mai fatto uso del vocabolario “cultura” se non di rado e quasi incidentalmente.
Al centro della sua teoria è la società, il sociale.
Durkheim ha tracciato una demarcazione netta della sociologia rispetto alla disciplina psicologica e al
suo oggetto primario, l’individuo. La collettività, la società hanno infatti una sostanza sui generis che ne
fanno una realtà a sé, diversa, da quella individuale.
I fatti sociali vengono definiti sia come “rappresentazioni” che come “cose”, ma non tutti i fatti sociali
si cristallizzano in istituzioni: esistono correnti che possono travolgere gli individui di un gruppo
nell’entusiasmo, nell’indignazione, nella pietà, e correnti che sorgono dalla collettività. Le correnti che
Durkheim evoca accanto alle “cose” prendono il nome di “effervescenze collettive”.
Analogamente nel suo terzo libro, il Suicidio, Durkheim imputa grande importanza alla rete di relazioni
nella quale le persone sono immesse: come la solitudine del religioso protestante davanti a Dio e la
solitudine dell’uomo divorziato. Del resto, il concetto di “solidarietà” intorno al quale ruota gran parte
del lavoro di Durkheim trova la sua esposizione più felice nella lunga perorazione che l’autore elabora
a favore dei gruppi corporativi nella seconda Introduzione all’opera. Le corporazioni – le associazioni
professionali e di mestiere – potrebbero fungere da argine rispetto al pericolo più grave che mina le
società industriali avanzate, quello di cadere nell’anomia (termine corrispondente a “privo di leggi”).
Una società anomica è dunque una società priva di leggi, o almeno di leggi sicure, e costituisce un grave
pericolo per la società dato che non può fare a meno, per vivere, di coesione e regolarità.

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Nelle Forme elementari della vita religiosa Durkheim sostiene che la religione sia eminentemente
sociale, una proiezione della coscienza collettiva verso il trascendente e il sacro e non un fatto intimo e
personale. Attraverso l’analisi delle differenti componenti della religione Durkheim avvicina
gradualmente il rispetto umano per i fenomeni religiosi al rispetto umano per la società e li mette in
rapporto, osservando che in entrambi i casi il rispetto e la venerazione nascono dal sentimento di
dipendenza verso un essere superiore. Il rispetto è una forte emozione e la sua efficacia deriva dalla
vivacità con la quale si propaga da un membro all’altro della comunità. Esiste un nesso tra la pressione
emotiva e la sensazione del divino. L’esperienza emotiva del rispetto fornisce agli uomini l’idea che
esistono delle potenze fuori di loro, dalle quali dipendono. Sentono di essere guidati ma non sanno “da
chi” e proiettano nelle credenze religiose questo sentimento.
Durkheim si sofferma sui simboli. Egli non si limita a segnalare la capacità di comunicazione dei
simboli, come nel linguaggio, ma ne sottolinea la forza creativa: il simbolo non è solo un procedimento
di comodo per rendere chiaro un sentimento ma anche un elemento costitutivo del sentimento stesso.

3.4 Georg Simmel, l’eccesso culturale


Per Georg Simmel la cultura è un’entità frammentata e divisa.
A differenza di Durkheim, Simmel ritiene che la società non possa darsi come un “organo” scollato
dalle interazioni sociali. L’intreccio delle relazioni sociali è la condizione fondamentale del tessuto
sociale e della cultura. Quest’ultima, deriva dalla fiducia oggettivata che gli individui hanno nei
confronti dei comportamenti e delle idee degli altri individui. Le interdipendenze e l’interazione sono
garantite dalle istituzioni che assolvono il compito di far circolare la fiducia: il diritto moderno, il
denaro, l’economia di mercato, la moda.
Le analisi di Simmel impiegano il principio della retroazione: una correlazione tra due processi
sociali può significare che non solo il primo è causa del secondo, ma anche che il secondo produce
effetti sul primo.
L’idea di cultura si lega al concetto di “sociazione”. Simmel impiega il termine per indicare il processo
attraverso cui un insieme di azioni sociali reciproche si consolida nel tempo, dando vita a ciò che la
sociologia definisce “istituzione”. La cultura dipende quindi dai processi di sociazione.
Nel complesso il giudizio di Simmel è che la società moderna offre un certo grado di realizzazione
personale e ritiene che vada sviluppata una predisposizione umana verso le relazioni sociali che
privilegiano l’autonomia dell’individuo.
Simmel assegna alla natura umana una componente universale relativa alle relazioni sociali:
“l’insocievole socievolezza”; se ciascun individuo dipende dalla ragnatela di relazioni sociali, tende a
mantenere nei confronti degli altri individui una certa distanza al fine di controllare la durata, i limiti e
le finalità della relazione.
La cultura viene inquadrata in due dimensioni processuali: da un lato, le energie e gli interessi della
vita, definiti dalle forme della “cultura oggettiva”, dall’altro la “cultura soggettiva” dell’individuo che
incorpora tali forme. Le considerazioni di Simmel riguardanti la cultura moderna derivano dalla
distinzione filosofica del “contenuto della forma”. Viene chiamato “contenuto” ciò che negli individui
corrisponde a impulsi, interessi, scopi, tendenze psicologiche ed energie emotive. La “forma” deriva
invece dalle interazioni sociali.
Simmel riassume gli aspetti dell’epoca moderna nello studio del denaro, della moda e della
metropoli. La diffusione del denaro, mezzo universale di scambio, riflette l’atteggiamento
dell’individuo moderno che confronta e calcola beni e servizi. La moda innova il mondo delle idee e
delle cose e le diffonde.
Per quanto concerne il tema del denaro, aggiunge tre considerazioni: la prima è che l’espansione
monetaria procede di pari passo con l’affermazione di un tipo di fiducia astratta, la seconda è che vi è
un nesso tra l’economia monetaria e la forma della democratizzazione, non tanto “politica” quando
“culturale”, mentre la terza concerne il principio di indifferenza verso le tradizionali gerarchie dei
valori culturali.
La moda non viene osservata soltanto nell’abbigliamento, ma nello stile, nel linguaggio, nell’arte e in

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tutte le aree della cultura, e dipende da due movimenti simultanei: da un lato l’imitazione, attraverso
la quale l’individuo cerca di partecipare a un modello universale, a un gruppo sociale, dall’altro
l’esigenza di trovare i segni distintivi attraverso i quali differenziarsi da ciò che è troppo comune.
Nella vita metropolitana, economia monetaria e dominio dell’intelletto si corrispondono
profondamente: a entrambi è comune l’atteggiamento della neutralità oggettiva con cui si trattano
uomini e cose. Nelle metropoli le persone manifestano tendenze ambivalenti: il loro bisogno di
autodifesa si traduce nella diffidenza nei confronti dell’esterno e degli altri e, dall’altra parte, l’ansia di
cogliere tutte le opportunità e l’obbligo di stare al passo con i tempi alimentano un atteggiamento
“nevrastenico” (inteso come un consumatore sfrenato).
Simmel respinge il determinismo economico di Marx, ma impiega alcuni concetti in modo analogo.
Mentre l’alienazione marxiana è inscritta nei rapporti di produzione, Simmel la trasferisce sul piano
delle contraddizioni tra cultura oggettiva e cultura soggettiva.

3.5 Max Weber, come opera la cultura


Per Weber la cultura è una parte finita del numero infinito dei fenomeni della società.
Vi è uno scarto tra il noi e il tutto. Il tutto è inconoscibile, infinito; possiamo conoscere soltanto una
parte e il nostro modo di conoscerla è di attribuirle un senso. Per Weber gli uomini sono “esseri
culturali”, dotati della capacità e della volontà di assumere una posizione nei confronti del mondo e di
assegnargli un significato.
La sociologia deve guardare all’individuo singolo e al suo agire come “al proprio atomo”. L’individuo
è l’atomo della teoria sociale, da lui si diramano i fenomeni, la storia, il divenire. L’oggetto proprio della
sociologia non è la realtà, bensì l’agire sociale: il termine “sociale” indica una dinamica
interindividuale, ossia il mio agire non opera in un vuoto, ma in rapporto all’agire degli altri, mentre
l’agire è un fare intenzionato e orientato nel tempo.
La sua definizione di classe si distanzia da quella di Marx, soprattutto per l’enfasi che pone sulle forze
del mercato rispetto a Marx che pone l’enfasi sul fattore produzione. Intorno alle forze del mercato si
dispongono diversi strati sociali, non solo i capitalisti e i lavoratori, ma anche le classi intermedie e i
non proprietari di mezzi di produzione.
Le componenti dell’agire sociale emergono in particolar modo nella ricerca empirica più importante di
Weber “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”. Weber sostiene che un oggetto storico può
essere indagato da tanti punti di vista e che, a seconda del punto di vista, l’indagine può condurre a
risultati differenti, ma il suo intento è quello di indagare la realtà come un fatto individuale. Lo spirito
del capitalismo contiene la dedizione al lavoro come a un dovere e l’idea del guadagno come scopo
della vita e non come mezzo per soddisfare i propri bisogni. La dedizione e l’atteggiamento di chi si
sente obbligato di fronte al proprio lavoro hanno origine in un ordine religioso, nel concetto di
vocazione, introdotta dalla Riforma protestante. E’ da questo indirizzo di pensiero che un’attività
pratica è stata classificata come una “vocazione” alla quale l’individuo si sentiva obbligato e nello
stesso tempo lo indirizzava al guadagno.
Secondo la dottrina calvinista, Dio decide quali uomini saranno eletti e quali, invece, saranno dannati,
soprattutto quali meritano la grazia, che non si può acquisire con nessuna azione umana, neppure con
le buone opere. Questa concezione, secondo Weber, condanna l’individuo a una penosa solitudine
interiore. L’etica puritana condannava il piacere, la sensualità, il corpo perché tutto ciò che è
puramente umano manca di valore. Inoltre, i compiti più pesanti dell’ascesi erano la distribuzione del
godimento della vita e l’utilizzo della ricchezza per cose necessarie e di pratica utilità, quindi non per il
consumo fine a sé stesso. La costrizione ascetica favoriva il risparmio, il risparmio permetteva la
formazione del capitale.

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(4) La cultura nel sistema di Parsons
La cooperazione fra sociologia e antropologia nella messa a punto del concetto di cultura è
testimoniata dalla collaborazione di Talcott Parsons con gli antropologi Alfred Kroeber e Clyde
Kluckhon; è proprio in quegli anni che viene precisata la linea di demarcazione fra il concetto di
società e il concetto di cultura.
Parsons e Kroeber sanciscono l’indipendenza dei due concetti, sostenendo che nella cultura devono
essere ravvisati i modelli creati e trasmessi di valori, idee e altri sistemi simbolico significativi, mentre
nella società dev’essere ravvisato il sistema razionale dell’interazione fra individui e collettività.
Società e cultura fanno capo a due ordini analiticamente distinti e nessuno dei due può essere ridotto
ai termini dell’altro. L’obiettivo di Parsons è di costruire un quadro concettuale articolato,
sistematico, in grado di legittimare la sociologia come scienza sociale autonoma. Il suo impianto segue
la divisione fra i tre sistemi: società, cultura e personalità, evidenziando il legame con la ‘teoria
generale dell’azione’. Parsons attribuisce molta importanza anche alla cultura. Uno degli elementi
principali della cultura è la ‘trasferibilità’, ossia la sua capacità di essere trasmessa da un sistema
d’azione ad un altro. La cultura, quindi, si trasmette e diffonde attraverso la socializzazione.
Il secondo obiettivo di Parsons è quello di assicurare che l’orientamento ai valori sia motore trainante
della cultura; di tutti gli elementi, quello che plasma maggiormente il comportamento umano è
l’insieme dei valori. Il valore non indica l’oggetto d’interesse bensì il criterio della valutazione del
desiderato e del desiderabile.
Nel rapporto con i valori il comportamento umano incontra alcuni problemi di fondo. In ogni
situazione l’attore deve misurarsi con una serie di dilemmi fondamentali, una serie di scelte. Deve
compiere cinque scelte dicotomiche alternative che vengono definite da Parsons come “variabili
strutturali”. La prima coppia è quella della “gratificazione/autodisciplina”. Quando si trova
immesso in una situazione in cui può assecondare i propri impulsi o disciplinarli, l’attore deve
scegliere se indulgere nella gratificazione o ragionarli e dominarli. Il secondo dilemma riguarda
“l’orientamento verso il sé o verso la collettività”, mentre gli altri dilemmi riguardano i valori di
“universalismo/particolarismo”, “ascrizione/prestazione”, “specificità/diffusione”.
Parsons è stato accusato di avere il torto di proiettare una sfera culturale integrata e armoniosa nello
stesso modo in cui proietta un sistema sociale, e viene accusato inoltre di non aver riconosciuto un
ruolo attivo alla cultura. La controprova compare nei quattro sottosistemi dell’azione sociale, ciascuno
dei quali offre un apporto al funzionamento dell’insieme, mentre quello della cultura è la latenza,
corrispondente alla lettera L nell’acronimo AGIL; la cultura tende a conservare i modelli, a orientare e
suggerire ma non agisce.
Nello stesso tempo resta un’ambiguità, ovvero l’interazione tra Ego e Alter nel sistema sociale. Il
messaggio che Ego invita ad Alter può ricevere una risposta di consenso o di dissenso. Quando gli invii
e le risposte si ripetono utilizzando gli stessi segnali (simboli), sia Ego che Alter comprendono che
entrambi stanno condividendo lo stesso sistema simbolico.

(5) La svolta culturale


La cultura è entrata nel discorso sociologico grazie a Parsons.
La proposta teorica di Parsons e la sua opera hanno goduto di un grande prestigio, e per tutta la sua
durata l’approccio strutturale-funzionale è stato considerato un suo prodotto originale. Tuttavia, però,
sono state mosse numerose critiche. Franco Crespi, ad esempio, ammette di non ravvisare nel sistema
di Parsons una spiegazione di come la cultura prenda forma, abbia origine.
Geertz, che aveva espresso il suo favore per la “valida alternativa” proposta dal suo maestro, sposta il
fuoco dell’indagine. Il suo ragionamento spoglia i valori della loro importanza causale, sposta il perno
della cultura principalmente sui simboli e sui significati.
Gli anni Sessanta, caratterizzati da nuovi fenomeni politico-culturali, sembrano turbare il quadro
proposto da Parsons attraverso manifestazioni di dissenso e nuovi movimenti sociali. L’originalità dei
‘nuovi movimenti’ consiste nel mettere in atto forme di azione collettiva non istituzionali, spontanee.
I movimenti si situano fuori dal quadro istituzionale, non si richiamano ai partiti politici, e il loro scopo

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è quello di attirare l’attenzione pubblica su nodi irrisolti della giustizia sociale e di aprire un fronte di
rivendicazioni autonomo e indipendente. La formazione di un soggetto collettivo costituisce una
novità negli anni del boom economico nelle società occidentali.
In questa novità culturale è possibile distinguere due aspetti. Il primo – macrostrutturale – è
l’accadimento in sé: si presentano nuovi attori, vengono sollevati nuovi temi, cambia la cultura
politica e le istituzioni si modificano. Ne consegue una dislocazione, vengono coniati nuovi soggetti, si
studiano riforme. Il secondo riguarda la ricaduta sulla cultura come comunità scientifica, sulle
pratiche e sul suo linguaggio, oltre che sulla cultura come senso comune. Le scienze sociali prendono
atto che il sorgere di nuovi movimenti sociali ha determinato nuovi modi di interpretare il mondo e la
rottura del codice culturale dominante; i codici vengono riformulati, corretti. Una delle strategie dei
movimenti è di emanare pubblicamente immagini e simboli che scompigliano i modelli culturali
esistenti e questo genera spesso un’ondata di “panico morale”.
Per la sociologia divengono oggetto di studio le risorse culturali con cui i gruppi mettono in
circolazione i loro nuovi contenuti. E’ attraverso la mobilitazione e l’interazione condivisa che le azioni
collettive formulano il sentimento del “noi” che aiuta a comprendere l’importanza del tema
dell’identità: gli attori sociali entrano in contrapposizione con l’ambiente sociale per affermare
un’identità che i loro oppositori tendono a negare.
Anche il corredo dei valori ha subito delle modifiche, in quanto si sono preservati alcuni valori e
introdotti altri, quali l’antiautoritarismo, il valore della differenza e quello della cura. Questi valori
divengono “pubblicamente disponibili” secondo Geertz, perché si concentrano sui soggetti concreti,
agli attori come persone, cadono i tabù, si impongono la fisicità e le questioni del sesso.
La pluralità dei valori e delle scelte che si dispiegano davanti agli attori nella società moderna genera
un effetto di disorientamento. Lo smarrimento sembra derivare dalla sovrabbondanza delle opzioni
culturali disponibili, dall’eccesso degli stimoli cognitivi e delle prospettive vitali.

(6) I Cultural Studies britannici, i Cultural Studies americani


6.1 In Gran Bretagna
Il Center for Contemporary Cultural Studies (CCCS) è stato fondato presso l’Università di Birmingham
su iniziativa di Richard Hoggart e di un piccolo gruppo di collaboratori.
Hoggart aveva espresso l’intenzione di dare un seguito all’analisi della classe operaia inglese; lo stile
con il quale aveva raffigurato il contesto di vita e gli stereotipi della classe operaia inglese aveva creato
un modello: la cultura è qualcosa di interno al vissuto, di interno all’esperienza, che si sedimenta ogni
giorno per giorno nella produzione o riproduzione del ciclo vitale. Di conseguenza la lived experience,
l’esperienza vissuta, ha costituito la sorgente di alimentazione per le analisi e le ricerche del Centro,
così come la “struttura dei sentimenti”.
Il processo di americanizzazione degli anni Cinquanta e Sessanta aveva turbato i ceti proletari inglesi
trasformando persino il loro habitat, e comportando una perdita di valori, di radici, di equilibrio – a
giudizio di Hoggart – a favore dell’invito del mercato verso divertimenti, spettacoli.
La cultura popolare, la Popular Culture diventa uno dei principali campi di riflessione per gli autori
inglesi. Stuart Hall sostiene che non esiste una cultura popolare pura e autentica che bisogna
proteggere, ma uno scambio tra le proposte dell’industria culturale, e le risposte che il pubblico,
popolare e non, elabora come feedback. La cultura tutta intera merita studio e interesse, ma quanto più
la cultura popolare – scrive Hall – si allarga, si espande e diventa globale, tanto più entra
pericolosamente nei circuiti “della tecnologia dominante, del capitale e del potere”.
La “resistenza” è una delle nozioni che ricorrono maggiormente nei Cultural Studies. Sul piano
astratto viene intesa come un rifiuto, una non accettazione pacifica delle pressioni culturali e sociali,
mentre secondo l’ottica dei Cultural Studies, la matrice della resistenza ha la sua sede nelle classi
sociali subordinate e nei suoi soggetti più vivaci, ossia i giovani proletari.
La coppia encoding-decoding, codificare-decodificare, è la linea di un diverso fronte di resistenza, più
personale. Hall descrive il behaviorismo come l’illusione di uno stimolo/risposta, ma l’approccio
proposto oggi dai mezzi di comunicazione prevede una serie di risposte diversificate: la decodifica del

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discorso o della scena cui si assiste può dare luogo ad un allineamento completo al codice trasmesso e
corrisponde a un “posizionamento egemonico dominante” oppure, nel secondo caso, a una
“negoziazione”, quando chi riceve si riserva il diritto di contrattare con i propri valori e le proprie
regole il significato trasmesso. Infine, a una decodifica “oppositiva o aberrante” quando il contenuto
del messaggio viene immesso in una cornice alternativa di riferimento.
Successivamente i Cultural Studies cominciano ad interessarsi a nuovi temi, quali le “nuove etnicità”, le
minoranze etniche e il genere femminile.

(7) Pierre Bourdieu, la pratica della cultura


7.1 La pratica
Pierre Bourdieu non rinnega i suoi primi studi empirici sulla società algerina. Nel contesto algerino il
problema del razzismo era così grave da porsi come una “questione di vita o di morte”. La Sociologia
dell’Algeria si configurava come tentativo di sconfiggere l’etnocentrismo degli studi etnologici che si
erano occupati di rituali cabili. Le ricerche sulla Cabilia condotte dagli etnologi avevano descritto quei
rituali e quelle pratiche come forme di una cultura primitiva. Lavorando in Algeria fra i cabili, Bourdieu
si era reso conto che il modo di procedere nella vita e nelle relazioni tra famiglie delle tribù indigene
non corrispondeva alla logica puntuale e ipotizzata dagli antropologi strutturalisti. E’ attraverso la
messa in dubbio delle regole dell’antropologia strutturalista che Bourdieu entra in campo a favore
della pratica: ovvero della spontaneità e dell’approssimazione con la quale gli attori sociali danno
forma e orientamento alla propria esistenza. Il suo obiettivo è riscattare le modalità concrete del “fare”
contro l’intellettualismo astratto di chi tende a contemplarle dall’alto. Per lui la pratica è l’umano in
azione; attraverso la pratica apprendiamo, riproduciamo e modifichiamo il mondo sociale.
L’intenzione di Bourdieu è di non lasciare i primitivi da soli, separati dagli abitanti delle società
avanzate, i quali a loro volta apprendono il mondo attraverso la pratica: dunque bisogna trovare un
modo per chiarire come opera questo apprendimento. Nella pratica mettiamo in moto un habitus, un
insieme di strategie approssimative con le quali affrontiamo le situazioni più diverse. Ci distingue
soltanto la presenza, nella nostra società moderna, dell’istituzione scolastica che aggiunge un habitus
secondario a quello primario appreso nella socializzazione dell’infanzia. L’habitus svolge un duplice
compito perché guida le persone a ripetere, a riprodurre l’esistente ma è pronto anche a ispirare
pratiche diverse o opposte.
Il “capitale culturale” rappresenta una delle tre specie di capitale che Bourdieu ha individuato,
insieme al capitale economico e a quello sociale, ai quali poi ha aggiunto il capitale simbolico. Nel
capitale cultuale, confluiscono sia l’educazione scolastica e professionale, sia l’educazione familiare alla
cultura. Bourdieu ritiene che il capitale scolastico sia imprescindibile malgrado riconosca che la
trasmissione familiare sia in grado di garantire risorse che la scuola non è in grado di trasmettere.

7.2 Il gusto
La Distinzione. Critica sociale del gusto si basa su un’inchiesta condotta in Francia negli ultimi anni
Sessanta, che ha per oggetto i gusti culturali dei francesi in vari campi, nelle arti, nella letteratura, nelle
abitudini culturali, nell’arredamento, nel cibo e nella casa. Bourdieu intendeva così esaminare il
rapporto fra gli atteggiamenti strettamente estetici e gli orientamenti di fondo del nostro modo di vita,
gli habitus. Nel testo, le risposte degli intervistati vengono riportate per argomento e collegate alle loro
appartenenze sociali e professionali, tenendo presenti sia le classi di età che il sesso. Le classi sociali
compaiono con sottogruppi e frazioni mentre le categorie professionali vengono distinte a seconda del
reddito e delle competenze.
Il gusto, aspetto soggettivo dell’habitus, è una facoltà acquisita che distingue e che apprezza,
orientando le persone verso le posizioni sociali che spettano loro e verso le pratiche e i beni culturali
che loro si addicono. L’idea guida di Bourdieu è che il gusto costituisca una facoltà umana
“indivisibile”, un tutto unico che abbraccia tutti i gusti nel loro insieme.
L’estetica kantiana è quella che domina il nostro mondo, che guida il giudizio estetico: è in base
all’estetica che si decreta qual è il gusto “legittimo” e qual è il gusto “popolare”; al gusto legittimo e

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al gusto popolare corrispondono livelli scolastici e classi sociali differenti e distanti tra di loro.
La Distinzione è una dimostrazione della fondamentale unità e indivisibilità del gusto umano e, nello
stesso tempo, della sua suddivisione artefatta in legittimo, medio e popolare, per via di un’operazione
storia sociale e mentale.
Nella Estetica Kantiana Bourdieu non crede all’esistenza di una “cultura popolare” in sé in quanto nella
sua visione della realtà la cultura popolare corrisponde alla cultura di una maggioranza oppressa (e
deprivata del capitale culturale), e l’oppressione non può essere cancellata semplicemente
esaltandone la cultura.
Per la sociologia della cultura La Distinzione rappresenta la rottura di un tabù: il mondo scientifico,
sociologico, comporta – secondo Bourdieu – di ragionare in modo “relazionale” non sostanziale, di
sfatare il mito dell’individuo unico e libero da condizionamenti, e nel rompere tale tabù La Distinzione
milita contro il senso comune.
Bourdieu sembra avere una visione netta del dominio in cui è visibile l’influenza marxiana: esistono i
dominanti e i dominati – in mezzo a loro è collocata la frazione “dominata dei dominanti” – gli
intellettuali; i dominanti possono, i dominati non possono, ma a quest’ultimi è concessa la possibilità di
ribellarsi.
Bourdieu ha recepito, inoltre, una lezione di Durkheim e Mauss intorno alle forme primitive della
classificazione, che aveva messo in relazione il pensiero dei primitivi con i loro sistemi sociali.
Bourdieu problematizza la visione di Durkheim e Mauss fino a includervi la nozione di lotta. Un potere
che classifica è anche un potere che separa, che fa emergere la differenza “da ciò che è differenziato”.

7.3 Il corpo
In questo campo la parola chiave è “incorporato”, termine che ricorre quasi quanto “pratica”.
La materialità dell’esistenza si sviluppa a partire dall’unica manifestazione fisica della persona, ossia il
corpo. Dal corpo preleviamo i segni fisici come lo spessore delle labbra e la forma del viso, per risalire
alla sua natura profonda, dove leggiamo gli indici di una fisionomia morale: nel modo di tenere la
bocca, una certa maniera di camminare.
Il mondo sociale viene interpretato a partire dalla corporeità e le posture del corpo evocano i
sentimenti e i pensieri. Nelle Meditazioni Pascaliane Bourdieu ricorda il modo con il quale lo scrittore
James Baldwin si è soffermato sull’apprendimento da parte del bambino nero della differenza fra
bianchi e neri e dei limiti assegnati a quest’ultimi, mentre nel Dominio Maschile cita l’esistenza di una
proprietà corporea arbitraria, ossia il colore della pelle.
Il corpo è uno strumento di conoscenza pratica, si muove guidato da un’intenzionalità pratica e nello
stesso tempo custodisce un sapere “cinetico” che anticipa le traiettorie dell’agire pratico.

(8) Produzione di cultura, consumo di cultura


8.1 La scuola di Francoforte : industria culturale, cultura di massa
La produzione e la ricezione di cultura hanno occupato il centro della critica sociale della Scuola di
Francoforte. Max Horkheimer, Theodor Adorno ed altri studiosi hanno prodotto un’aggressiva critica
dei mass-media e della cultura tecnico-scientifica del tardocapitalismo. Sono tre gli assi principali del
loro progetto: 1.un amalgama tra marxismo e psicoanalisi; 2.una diagnosi del totalitarismo;
3.una critica dell’industria culturale e della cultura di massa.
Horkheimer e Adorno avevano maturato la convinzione che il depauperamento economico delle classi
lavoratrici profetizzato da Marx non si era verificato. L’impoverimento delle masse riguardava la
cultura e non le basi materiali della vita. All’industria culturale corrispondeva la cultura di massa, una
versione più impoverita della cultura. Sostenuta da mezzi di comunicazione, la cultura si fondeva con
forme popolari e standardizzate di svago, distrazione e divertimento. La cultura di massa
corrispondeva ad una “semicultura”, adatta ad un pubblico di semicolti.
La critica all’industria culturale e alla cultura di massa si ripresenta anche negli scritti di Herbert
Marcuse. L’industria culturale è il sistema di produzione del materiale d’intrattenimento della società
massificata che sostiene l’ideologia del consumismo, genera falsi bisogni e nel soddisfarli produce una

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forma tecnico-scientifica e consensuale di controllo: l’amministrazione del consenso.
Jurgen Habermas si concentra sulla trasformazione dell’opinione pubblica. Attraverso un confronto
storico, economico e politico, ricostruisce il percorso della comunità borghese che si è distinta per una
sfera pubblica capace di mediare tra interessi privati del singolo, della famiglia, dell’imprenditore e
quelli collettivi, della comunità e delle masse.
La critica della società di massa della Scuola di Francoforte è stata elaborata a fronte del tumultuoso
sviluppo dei mass-media americani. Gli Stati Uniti avevano visto la crescita delle grandi corporations e
i ceti popolari erano stati integrati all’interno di uno stile di vita conformista.
I Cultural Studies britannici hanno contribuito a consolidare la tematica “produzione e consumo di
cultura”. Gli esponenti di Birmingham non hanno quasi mai citato le opere dei francofortesi né hanno
dato prova di averne subito l’influsso. La scuola di Francoforte e i Cultural Studies hanno definito la
cultura come un corpo dell’agire umano ancorato ai rapporti e ai sistemi sociali che la producono.

8.2 La Popular Culture


La teoria critica ha subito diversi attacchi anche negli anni Sessanta: il bersaglio principale è lo
schematismo elitario e la rigida demarcazione tra codici “alti” e “bassi” della cultura. E’ ciò che hanno
inteso sottolineare gli studi sulla popular culture, fissando almeno tre punti: 1.non tutta la cultura nelle
società del capitalismo avanzato può considerarsi frutto dell’omologazione commerciale; 2.la
distinzione francofortese tra cultura alta e bassa non regge di fronte alle influenze; 3.i consumi
popolari possono essere compresi come qualcosa di diverso dal folklore tradizionale e dalla cultura di
massa. L’interesse sociologico è stato catturato quindi dal concetto di popular.
La cultura varia in base al tipo di industria, al settore, alla specificità del pubblico e al contesto
culturale. All’alba degli anni Settanta la musica aveva assunto un nuovo valore culturale; il panorama
dei consumi musicali era divenuto gradualmente una delle principali industrie culturali, dominata da
grosse concentrazioni di capitali, capaci di trasformare in prodotti di massa generi e tendenze che
avevano origini underground. Al tempo stesso era attraversata da ondate di “autoproduzione” e
originalità, come il rock and roll, il soul, il reggae, fino al punk e al rap.
Il rock and roll è un caso paradigmatico: rimanda a un rapporto articolato e pluridimensionale tra
sottoculture razziali, consumi giovanili, popular culture, e industria culturale. Aveva sfidato lo status
quo attraverso attacchi alle barriere e alle divisioni razziali, etniche, sessuali, abbracciando temi e
rivendicazioni del conflitto politico e generazionale. La sua popolarità rifletteva i cambiamenti razziali
ma anche quelli dell’industria.
Secondo gli studiosi della popular culture, la guerra del Vietnam aveva segnato uno spartiacque; negli
anni che l’avevano seguita il mondo del cinema, la televisione, la musica e lo sport avevano subito un
cambiamento che aveva inaugurato una maggiore apertura democratica alle istanze e ai consumi delle
culture giovanili, quindi della popular culture.

8.3 La prospettiva della produzione di cultura


Negli Stati Uniti la prospettiva della production of culture school si è affermata attraverso una raccolta
di saggi curata da Richard Peterson, intitolata appunto The Production of Culture. Da quel momento si
era sviluppata un’ondata di ricerche orientate in una duplice direzione: restituire complessità allo
studio dell’industria culturale e depoliticizzare l’immagine della Scuola di Francoforte.
Gli oggetti culturali entravano nella ricerca sociologia sotto due aspetti: 1.i “prodotti” in senso
concreto, ovvero, la recorded culture; 2.le pratiche di segno culturale messe in azione da produttori e
consumatori. L’idea della “produzione di cultura” venne a Richard Peterson quando propose
all’American Sociological Association di creare una sezione dedicata ai sociologi della cultura. Peterson
seppe far convergere i diversi contributi e approcci alle produzioni culturali in uno sforzo unitario,
riconosciuto come una prospettiva omogenea, un vero e proprio programma di ricerca.
L’approccio alla “produzione di cultura” prevedeva di analizzare il peso di quei fattori “sociali”
(strutturali, organizzativi, istituzionali ed economici) considerati esterni alla cultura stessa.

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La nuova prospettiva era quindi capace di spiegare come i fattori sociali plasmassero contenuto e
forma dei prodotti culturali; è grazie a questo approccio che nasce ufficialmente la sociologia della
cultura.
La prospettiva della produzione di cultura è potuta nascere da una sociologia della cultura
metodologicamente fondata, con molti pregi e qualche (inevitabile) difetto. Adottare una metodologia
basata su dati quantitativi ha dato vita a ricerche il cui focus verte sugli aspetti espressivi della cultura.

8.4 La ricezione e il modello culturalista


Nel corso degli anni alcuni degli autori della production of culture school hanno sviluppato una seconda
prospettiva di ricerca che completa la produzione di cultura: il consumo di cultura.
Ogni atto di consumo è allo stesso tempo anche un atto di creazione di significato e, dunque, di
produzione simbolica e culturale. Richard Peterson riconosce che esiste “l’auto-produzione della
cultura. “Auto” nel senso che i gruppi si appropriano degli elementi della cultura commerciale
disponibili nel loro ambiente e li ricombinano per dare vita a espressioni culturali che formano la loro
identità […]”.
Gottdiener pone al centro del dibattito una triade semiotica: oggetti culturali, organizzazioni che li
producono e gruppi sociali che li recepiscono. I “pubblici” reagiscono in maniera diversa e sono
diversificati secondo variabili sociali, istituzionali e culturali. Gli oggetti culturali significano cose
diverse per gruppi sociali diversi. La sociologia della ricezione si serve dei contributi provenienti dalla
semiotica e dal cognitivismo, inoltre, colloca i significati di un oggetto culturale in un flusso variabile e
plurale di possibilità. Si fa strada una lettura “culturalista” che mette a fuoco le strategie mediante le
quali le persone riescono a trasformare e fare proprie le risorse simboliche degli oggetti culturali.
La ricezione e il consumo rappresentano una forma possibile di produzione di valori. Secondo Miller,
la cultura materiale dev’essere concepita come un processo, un movimento duale tra soggetto e
oggetto, un movimento di esternalizzazione prima e di internalizzazione poi.
Il versante “culturalista” propone un’apertura allo studio delle pratiche in senso più simbolico, e i
sociologi cominciano così ad interrogare la natura dei processi cognitivi.

(9) Jeffrey Alexander e la sociologia culturale


9.1 Oltre la sociologia della cultura
Agli inizi degli anni Ottanta la sociologia della cultura aveva raggiunto un soddisfacente sviluppo e si
era collocata tra le principali aree di analisi delle scienze sociali, ma le fratture metodologiche e le
divergenze teoriche erano fonte di numerose critiche.
Con la svolta verso l’interpretazione si è affermato lo stile di Geertz: la cultura va letta come un
insieme di “testi”, per coglierne la densa ragnatela di significati, praticando l’interpretazione di codici,
narrative e simboli. Il rischio è però quello di generare una serie infinita di interpretazioni, ciascuna in
competizione con le altre.
Jeffrey Alexander, fondatore del Center for Cultural Sociology a Yale, si è impegnato in un “programma
forte”, capace di studiare la cultura al riparo dalle due tendenze dominanti: la riduzione della cultura
alle strutture sociali da un lato, e la riduzione della cultura alla sola dimensione simbolica dall’altro.
Prima di articolare la pars construens, Alexander si dedica a una pars destruens, rilevando le carenze
scientifiche nelle proposte della sociologia della cultura a lui note. Ritiene che la prospettiva della
“produzione della cultura” e l’approccio “istituzionalista” propongano nessi causali troppo espliciti tra
cultura e struttura sociale. Pur apprezzando alcune loro ricerche, Alexander sostiene che gli autori di
Birmingham sono troppo concentrati nella dialettica (marxista) tra potere e stratificazione sociale.
Per quanto riguarda Bourdieu, apprezza l’analisi culturale ma accorda troppa importanza al ruolo
delle disuguaglianze sociali nel funzionamento della cultura. Sul fronte opposto, invece, apprezza lo
stile adottato da Geertz, ma insiste sulla necessità che l’interpretazione dei significati si sviluppi in un
sistema scientifico di comparazione.

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9.2 Il programma forte di sociologia culturale
Alexander è convinto che le sfere della vita sociale – la politica, l’economia, la religione, la famiglia –
siano state accuratamente descritte e comprese, mentre ciò non è avvenuto per la cultura, subordinata
alle dimensioni “dure” della società.
Alexander sostiene un programma forte di sociologia culturale, e il metodo cui ispirarsi è ancora
l’approccio interpretativo di Geertz. L’interpretazione deve cogliere il funzionamento universale della
cultura, ma anche diventare una vera ermeneutica di tipo “strutturale”: la cultura è un insieme di
strutture narrative e discorsive ed è sorretta da segni e simboli organizzati in modelli definiti, utili a
comunicare il senso delle azioni sociali.
Alexander non si stanca di rimarcare che l’autonomia della dimensione simbolica è relativa; le
pratiche, i rituali, le azioni attraverso cui gli attori cercano di trasmettere, produrre e comunicare
senso al mondo sono parte integrante della cultura. Punta ad un approccio multidimensionale.
In questi approcci gli individui non sono mossi soltanto da interessi di tipo strumentale o normativo,
ma anche da motivazioni emotive ed affettive. L’agire pratico assume così il carattere di una
performance.

9.3 Performance, cultura, azione sociale


E’ Victor Turner che ha introdotto il concetto di performance nel vocabolario delle scienze sociali,
mentre Alexander ne chiarisce l’utilità per la sociologia culturale: la performance culturale è quel
processo sociale grazie al quale gli attori dispiegano agli occhi degli altri il significato della loro
situazione o del loro agire sociale.
La performance è caratterizzata da sceneggiature che costituiscono una traduzione di alcuni elementi
del retroterra simbolico della cultura (cultural background). Gli attori della performance possono farlo
con comportamenti che hanno un relativo margine di adattamento, in modo che il corpo dell’azione
risulti accettabile agli occhi degli altri, ovvero all’audience. Gli attori cercano così di scegliere i
comportamenti più adatti rispetto al testo e alla sceneggiatura, ma il pubblico può interpretare i
significati in maniera diversa da come sono stati “agiti” nella performance, e giudicarne l’efficacia
simbolica. Per la riuscita della performance contano anche le condizioni esterne della messa in scena.
E’ necessario che vi sia accesso a strumenti di trasmissione mediatica, la televisione, il cinema, i
giornali, la radio. La performance ha successo quando i diversi elementi che la costituiscono sono fusi
(fused) in un unico insieme.

9.4 Fusione, de-fusione, ri-fusione; la forza euristica del rituale


Alexander cerca di rendere la performance una chiave di lettura. Ai rituali del passato corrispondono le
performances dei nostri giorni, ma queste, più complesse, difficilmente hanno successo.
La differenza risiede nel diverso grado di fusione degli elementi della pragmatica culturale: più
l’organizzazione sociale è semplice e più sono fuse (fused) in un unico blocco le componenti dei rituali.
Quando il sistema sociale e la collettività sono complessi, gli elementi della performance sono de-fusi
(de-fused). In un contesto di crescente complessità sociale, quale quello contemporaneo, le
performances riuscite si sviluppano solo attraverso un processo di ri-fusione (re-fused). Il passaggio dal
rituale “fuso” delle società semplici a quello “de-fuso” delle società più complesse comporta una serie
di trasformazioni socioculturali. La messa in scena non segue sceneggiature prestabilite, ma si
modifica a seconda delle variabili culturali e sociali. L’autenticità e il processo di ri-fusione diventano
le condizioni indispensabili affinché la performance appaia dotata di senso.
Alexander afferma, inoltre, che nelle società complesse la “fusione” tipica della performance si realizza
nella vita di tutti i giorni: tra i credenti e guide spirituali, tra bambini e genitori e così via.

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Parte seconda – i processi
10. La religione, le religioni
La religione è un aspetto “essenziale e permanente” dell’umanità, secondo la definizione offerta da
Durkheim; si tratta di un fenomeno influente nella cui essenza gli studiosi hanno rinvenuto due
esigenze umane fondamentali: lo slancio verso una dimensione trascendente, una sfera superiore, e il
bisogno degli umani di rappresentarsi la realtà del mondo terreno in cui vivono con l’aiuto di un
discorso privo di contraddizioni. Generalmente queste due esigenze danno vita a una cosmologia che
include il mondo terreno e il mondo ultraterreno. Il nostro slancio verso realtà più ampie ci porta,
dunque, ad accettarle come superiori a noi e ad aver fede in esse.

10.1 Le vie di salvezza


La funzione principale della religione è la teodicea, ovvero la capacità di spiegare il male e la
sofferenza, di dare una giustificazione alla malattia e al lutto, ma la sfida empirica più difficile per la
visione religiosa del mondo sono le complesse domande sul perché si soffre, perché si muore, perché
l’ingiustizia sociale sussiste.
I credenti si rivolgono alla fede per riversarvi i propri travagli, per comunicare paure e angosce, e per
scorgervi conforto e ricompensa. La teodicea fa sì che al dolore venga conferita una connotazione
positiva, come segno del diritto al riscatto nella redenzione.
Bryan Wilson utilizza come parametro, in un esame incrociato fra le religioni, l’orientamento delle loro
dottrine in senso monoteistico e politeistico. L’impianto monoteistico – caratteristico del
cristianesimo, dell’islamismo, del giudaismo – è propiziatore di una vocazione sistematica e
razionalistica del pensiero. Si tratta di dottrine esclusiviste che si sono poste come “vere e uniche
religioni”. Viceversa, le religioni orientali, politeistiche, hanno accettato che la visione del mondo
adattata dalle masse rimanesse priva di un asse dottrinale monolitico, e si piegasse in direzione della
devozione verso una pluralità di figure divine.
La profonda divergenza messa in luce da Weber fra le due grandi famiglie religiose viene compendiata
nelle posizioni che egli definisce dell’ascetismo e del misticismo. Il mistico “è nel mondo e si adatta”
ai suoi ordinamenti in un atteggiamento di accettazione passiva, mentre l’asceta intramondano si
salva, al contrario, attraverso l’azione trasformatrice e dinamica.
L’asceta si considera uno strumento di Dio e assolve un’attività voluta da lui, il mistico si pone come
“recipiente” del divino: per lui il possesso della salvezza implica un “avere” e non un “agire”.
Un tratto fondamentale delle religioni mondiali è che la loro esistenza e la loro pratica si svolgono in
pubblico, e che il loro fine è quello di durare, di tramandarsi da una generazione all’altra. Da ciò la
necessità di un’organizzazione, di un’istituzionalizzazione. Alcune religioni, al contrario,
dispongono di un personale preparato a predicarne i principi e a diffonderne il verbo.

10.2 La secolarizzazione e la controsecolarizzazione


Il fenomeno più discusso, la “secolarizzazione” si fonda su un termine per così dire tecnico: il
repentino o graduale trasferimento delle proprietà ecclesiastiche in mani secolari, come proprietà
dello Stato.
Sul piano strutturale il cambiamento ha comportato che il controllo ecclesiastico non eserciti più il suo
potere su molte istituzioni sociali. Infatti, il pensiero religioso, la pratica e le istituzioni del culto –
scrive Wilson – hanno perso il loro significato sociale.
Il ventaglio causale di questo processo indica soprattutto due fattori: l’aumento del prestigio della
ricerca scientifica e la crescita di una filosofia e di uno stile di vita individualistici. D’altra parte la
crescita dell’individualismo o il “culto dell’individuo” ha percorso un itinerario parallelo, catalizzando
sentimenti e pensieri che giacevano nelle società tradizionali, guidandoli verso un polo d’interesse che
li ha unificati: la fiducia crescente dell’individuo in sé stesso, il suo bisogno di liberarsi dal sequestro e
dal controllo del gruppo, la conquista di un sé, la scoperta dei diritti individuali e dell’autonomia
personale. Questi fattori hanno sottratto spazio all’amministrazione religiosa della società. Si aggiunga
la trasformazione del rapporto storico fra potere politico e religione, con il compromesso raggiunto a

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favore della separazione tra Stato e Chiesa e l’affermazione della libertà religiosa.
Due caratteristiche sembrano degradare il fenomeno della “privatizzazione”: la sua vicinanza alla
ritualità del consumo da un lato e lo iato che si apre fra credo e appartenenza dall’altro.
Nel pronunciamento a favore della diagnosi pro-secolarizzazione hanno fatto breccia soprattutto i
successi delle scoperte scientifiche. Le risposte razionali che la ricerca scientifica è in grado di
provvedere attraverso la fisica, l’astronomia, la biologia hanno messo a nudo e in un certo senso
umiliato l’ingenuità delle risposte religiose. L’impeto dei movimenti religiosi, una vera
“controsecolarizzazione” secondo Berger, si percepisce sia nel fiorire di sette cristiane sia nel fiorire
di quelle orientali. Il loro appello ottiene ascolto tra le generazioni più giovani e propongono nuove
elaborazioni.

(11) Senso comune e vita quotidiana


11.1 Come funziona il senso comune
Uno degli obiettivi iniziali della sociologia era quello di proporsi come sapere scientifico che
contrastasse le conoscenze fondate sul senso comune, considerate false e scorrette. La sociologia,
attraverso i metodi scientifici, avrebbe potuto riformare le opinioni grossolane del senso comune.
Tuttavia, non si è sostituita al senso comune, al contrario, ha riconosciuto che la stessa produzione
scientifica procede seguendo criteri simili a quelli che sorreggono il senso comune.
Nel corso dei decenni l’interesse sociologico per il senso comune ha trovato un nuovo fondamento
nell’intento di comprendere come si generano, vengono elaborate o sostituite le credenze che lo
sostanziano. Il primo passo è stato effettuato da Alfred Schutz, secondo il quale la conoscenza
ordinaria nella vita quotidiana si basa su alcuni principi cardine: sulla “reciprocità delle
prospettive”, ossia un fenomeno comune per ciascuno di noi, nel pronunciare i propri assunti sul
mondo, si appoggia a ciò che qualsiasi altra persona, a suo avviso, direbbe al posto suo. Contra, inoltre,
il principio della “non illusorietà delle apparenze”: è raro che gli attori sociali pensino che le
spiegazioni della realtà siano state costruite oggettivamente. Infine, il processo di “tipizzazione”: si
tratta di operazioni cognitive che affermano il potere del tutto sulla parte. Le scienze sociali si situano
a un livello superiore di astrazione, si fondano cioè su tipizzazioni che sono “tipi di tipi”.
Un secondo passo è stato compiuto da Raymond Boudon il quale ha tentato di dimostrare che i
condizionamenti non si verificano mai fuori dalla mediazione attiva dei singoli individui. Il senso
comune appare diverso da una cultura all’altra; Clifford Geertz ne sottolinea il carattere eterogeneo: il
senso comune è un sistema culturale che può variare da un popolo a un altro, e ciò che è ovvio in una
cultura può risultare privo di senso in un’altra.
L’intera cultura ha alle spalle un groviglio di processi semantici socialmente costruiti. E’ ciò che
rimarcano Peter Berger e Thomas Luckmann. Nel loro assunto di base è evidente l’influsso della
fenomenologia husserliana: la realtà di per sé non esiste, è il portato di una serie infinita di processi di
oggettivazione che nascono dalle relazioni sociali. Le rappresentazioni fenomenologiche del mondo,
una volta elaborate all’interno di una cultura, tendono a sedimentarsi. Berger e Luckmann sostengono,
quindi, che le istituzioni sono il prodotto dell’interazione di molti attori, il frutto di uno scambio
comunicativo. Nelle società contemporanee si sviluppa un intreccio di costruzioni di senso; la realtà ci
appare complessa anche perché non è possibile affidarsi a un “unico senso comune”.

11.2 L’interazionismo simbolico


La fondazione dell’interazionismo simbolico risale agli anni Trenta, quando l’espressione
“interazionismo simbolico” fu coniata da Herbert Blumer della Scuola di Chicago. Blumer riteneva che
gli individui normalmente agissero in base ai significati che assegnano alle cose e rivolgono verso di sé
lo stesso sguardo interpretativo.
Successivamente è stato poi George Herbert Mead a dare uno slancio alle teorie riguardati il carattere
simbolicamente mediato dell’interazione sociale. Secondo Mead non potremmo concepire gli oggetti
fisici se non avessero la capacità di usare i simboli universalizzanti prodotti dalla comunicazione
sociale. In altre parole, la realtà è frutto dell’interazione sociale. Ogni persona adulta si basa su un “Io”,

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l’agente della personalità, al quale si accompagna un “Me”, ossia l’immagine di se stessi come viene
forgiata dagli altri, mentre “L’altro generalizzato” corrisponde al punto di vista della società che la
persona introietta al suo interno. Senza l’interazione sociale l’individuo non saprebbe cogliere ciò che
il senso comune gli richiede e finirebbe per indebolirsi.

11.3 “L’etnometodologia”
Rispetto all’interazionismo simbolico l’etnometodologia considera il senso comune come un’entità
complessa. Concepita come studio dei microfenomeni sociali, l’etnometodologia, ideata da Harold
Garfinkel, corrisponde soprattutto alla procedura di analisi.
Garfinkel adotta il concetto di account, che letteralmente significa “dar conto di”. Gli accounts sono
pratiche cognitive che formano i significati e giustificano il funzionamento della realtà; attraverso gli
accounts gli individui riproducono e spiegano la realtà così come è stata condivisa e resa familiare.
Ogni account possiede una natura indicale e per essere compreso deve essere considerato in un
contesto più ampio che richiede poi nuove spiegazioni e nuovi quadri di riferimento.
Attraverso una serie di esperimenti condotti dai suoi studenti, Garfinkel è riuscito a dimostrare che
nelle relazioni sociali il dubbio, l’incertezza e l’ignoto sono costantemente in agguato. Inoltre, ha
dimostrato che procediamo in base a continui aggiustamenti, la cui necessità ci è segnalata da ciò che
Garfinkel definisce “infratesto”: un metalinguaggio fatto di gesti, espressioni facciali, toni vocali, pause
e accelerazioni, modi di dire ed esclamazioni che riceviamo e inviamo nel corso dell’interazione.
Garfinkel parla della necessità di procedure ad hoc, legate al contesto specifico e non dell’applicazione
di norme generali, valide una volta per sempre.

11.4 Erving Goffman, l’interazione quotidiana


A differenza degli interazionisti simbolici e degli etnometodologi, Erving Goffman ha difeso una
concezione realistica del senso comune e dell’interazione. Il mondo fisico esiste e ha una sua realtà
indiscussa. Goffman adotta la metafora dei frames (cornici): le persone incorniciano i livelli della
realtà in diversi quadri di significato. Ciascuno contiene altri quadri di livello inferiore ed è a sua volta
contenuto in quadri superiori. In seguito, specifica che esistono cornici primarie (frameworks) di
riferimento: il mondo naturale degli oggetti fisici in cui le persone vivono con il loro corpo. L’attività di
re-frame (re-incorniciamento) segnala la capacità di ricodificare ciò che si para davanti ai nostri occhi
secondo il flusso dell’interpretazione.
Goffman sostiene che i ceti superiori sono più sofisticati nel trasformare i frameworks primari, mentre
i membri delle classi inferiori si mostrano più ingenui e anche più diffidenti verso le interpretazioni
sofisticate.
Goffman è riuscito a elaborare una sociologia della vita quotidiana focalizzata sull’interazione diretta,
faccia a faccia, sul comportamento di tutti i giorni e sulle sue regole. Il rituale si svolge in un territorio
simile al teatro, in spazi riconducibili a una “ribalta”, a un “retroscena” e a una “totalità esterna”. La
vita è una serie infinita di rappresentazioni teatrali in cui agiamo come attori su un palcoscenico, al
cospetto di un pubblico. Lo stato d’animo e la personalità che cerchiamo di mostrare agli altri, fanno
parte della ribalta, ossia al palcoscenico sul quale mettiamo in scena la faccia pubblica di noi stessi,
tramite specifiche “tecniche” di controllo. Il retroscena è il luogo in cui si svolgono le attività
preliminari di preparazione e quelle di recupero delle energie e degli strumenti di scena: è uno spazio
tenuto a riparo dalla vista del pubblico.
Per Goffman il sé non esiste: è un elemento contingente, tutt’altro che stabile, che dipende dal
palcoscenico su cui recita, dal pubblico che assiste allo spettacolo mentre il self sembra avere una
realtà durevole e oggettiva.

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11.5 Michel de Certeau, l’invenzione del quotidiano
Per un lungo periodo de Certeau si è dedicato al progetto di identificare e studiare la gente comune
non in base ai “prodotti giornalistici o commerciali che assimila”, ma in relazione all’uso, pratico e
simbolico, che ne fa. Con un nuovo sguardo sociologico ed etnografico, de Certeau insegue ciò che si
nasconde negli usi effettivi delle azioni quotidiane. Egli è convinto che, attraverso le pratiche a prima
vista banali della vita quotidiana, le persone “creano” cultura. Una cultura semplice, che sfugge
all’occhio severo delle analisi “scientifiche”, una cultura non ufficiale. La difficoltà di catturare questo
tipo di cultura riguarda la sua natura non catalogabile.
L’Invenzione del quotidiano è il resoconto di una ricerca interdisciplinare pluriennale, che egli stesso ha
diretto collaborando con una vasta rete di interlocutori, colleghi, ricercatori. De Certeau vi rivaluta
tutto ciò che, nel fare della quotidianità, contribuisce silenziosamente a creare cultura dal basso. Egli è
attirato dalla indicibilità di quelle pratiche quotidiane apparentemente insignificanti, come leggere,
arredare, cucinare, conversare, che non possono essere catturate dalle tradizionali analisi
socioeconomiche. L’intera ricerca sul quotidiano è costruita per contrastare l’idea di una massa di
gente comune ridotta al ruolo di consumatori ipnotizzati dalla pubblicità. Tuttavia, de Certeau
introduce una novità rispetto a quel tipo di analisi: scende a un livello più profondo delle pratiche
quotidiane, dove le azioni anticonformiste mostrano una matrice inconscia che le persone adottano
inconsapevolmente. Per coglierle, de Certeau distingue fra “strategia” e “tattica”. Le strategie sono
piani di azione tipici delle istituzioni, dei gruppi e delle persone dotate di potere, mentre le tattiche
sono utilizzate dagli individui privi di potere per creare spazi propri negli ambienti definiti dalle
strategie. De Certeau riconosce a Bourdieu il merito di aver individuato un nodo importante
dell’analisi culturale – l’arte del fare – ma gli rimprovera di aver allineato le pratiche in uno schema
che riproduce i rapporti e i campi di forza della stratificazione sociale, dove le pratiche rinviano agli
habitus di classe. Accanto a Bourdieu, l’altro interlocutore del lavoro sul quotidiano è Foucault, il quale
aveva introdotto l’interesse per la pratica. L’oggetto dell’Invenzione del quotidiano sono le tattiche
attraverso le quali ci si sottrae a tali procedure o si riesce, addirittura, a ribaltarle a proprio favore.

(12) Trasmettere la cultura: socializzare, educare, crescere


12.1 La famiglia e la scuola
La famiglia è un’unità sociale variabile, priva di radici univoche o naturali. E’ a partire delle relazioni e
dalla divisione dei compiti familiari che si prolungano i legami del singolo con le sfere della vita
economica, culturale e politica. La famiglia continua ad esercitare un ruolo fondamentale a livello
sociale. Come gruppo primario delle relazioni intime influenza il comportamento dei suoi componenti
e ne indirizza il rapporto con le altre istituzioni. La famiglia agisce parallelamente alla scuola, sia per
quanto riguarda i tempi della socializzazione, sia per quanto concerne l’acquisizione dei saperi e degli
orientamenti. Famiglia e scuola sono dunque complementari.
La famiglia nucleare contemporanea è articolata in una separazione di genere negli spazi, nelle
competenze, quindi anche nei rapporti sociali di bambine e bambini. La vitalità della famiglia si riflette
nel potere di segnare l’entrata nella vita adulta e le dinamiche di trasmissione e riproduzione delle
disuguaglianze da una generazione all’altra. I genitori offrono ai figli risorse e opportunità a seconda
della collocazione sociale, trasmettono riferimenti cognitivi, sistemi simbolici e stili di vita per la
scalata sociale. La scuola, al contrario, non è in grado di annullare le disuguaglianze, se non in casi
molto rari.
Le teorie della modernizzazione avevano lasciato intendere a lungo che le istituzioni deputate
all’istruzione potessero presiedere alla formazione dei giovani senza particolari intromissioni da parte
delle famiglie. Si riteneva che l’istruzione potesse essere garantita a tutti, secondo principi
meritocratici e non per caratteristiche legate all’origine familiare e sociale. Si era verificata una netta
separazione del sistema occupazionale delle influenze della famiglia e un aumento progressivo
dell’accordo tra percorsi di qualificazione e inserimento nel mercato del lavoro. Si era ipotizzato che la
società moderna avrebbe utilizzato tutto il talento e la qualità che il suo sistema di istruzione è capace
di produrre: non soltanto uguaglianza di accesso ma competenze scientifiche e tecnologiche.

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I giovani di estrazione operaia tendono ad occupare posizioni lavorative gerarchicamente inferiori a
quelle occupate dai loro coetanei di origine sociale più elevata. La ragione di queste disuguaglianze
risiede nell’imprinting delle famiglie di origine. L’ipotesi sociologica che ha catturato i meccanismi di
riproduzione delle disuguaglianze scolastiche è quella di Pierre Bourdieu, il quale considera la
socializzazione un processo biografico di incorporazione delle disposizioni sociali – l’habitus –
prodotte dalla famiglia di origine e rinsaldate dall’insieme dei campi attraversati dall’individuo nel
corso della sua vita. La famiglia mantiene il controllo della mobilità e la vincola tramite la trasmissione
di risorse economiche, cognitive e conoscitive, provenienti dal proprio capitale culturale, il quale
accrescerà a contatto con la scuola ed è acquisito assieme all’interno habitus.
La scuola accoglie il desiderio di tutte le famiglie di accrescere il capitale culturale dei figli, ma
favorisce soltanto coloro che possiedono gli schemi di percezione, di pensiero e di azioni conformi agli
stili di vita dominanti. Il rapporto tra socializzazione familiare e apprendimento scolastico è stato
scandagliato da Basil Bernstein. Secondo Bernstein gruppi sociali in condizioni diverse adottano forme
di comunicazione differenti, da cui derivano le differenze che i figli ereditano nell’agire sociale. Il
codice del linguaggio “ristretto”, basato sull’uso di un lessico contestualizzato, è impiegato dalle
famiglie operarie, mentre il codice “elaborato” è connesso a significati decontestualizzati ed è appreso
dalle classi medie e medio-elevate.

12.2 Il gruppo dei pari e il mondo del lavoro


Nel gruppo dei pari, ambito parallelo ma indipendente dalla famiglia, il peso dell’azione familiare
diminuisce sensibilmente. I bambini, gli adolescenti e i giovani sviluppano gradualmente forme
autonome di crescita e di scoperta del mondo nel gruppo dei pari, attraverso un apprendimento di tipo
orizzontale caratterizzato dall’assenza dell’autorità verticale tipica delle relazioni gerarchiche tra
adulti e non adulti. I gruppi di coetanei hanno fatto parte da sempre della storia della gioventù,
soprattutto di quella maschile, facendosi notare per il carattere, spesso aggressivo, dei giovani sospesi
nella transizione tra infanzia e vita adulta. Nei gruppi i rapporti consentono di elaborare una
concezione sociale di sé in termini di “noi”, come principio di un comune “pensare”, “sentire”, e
“agire”.
Si distinguono i gruppi “formali” da quelli “informali” per importanti differenze. I primi sono
promossi da istituzioni e associazioni in rapporto allo svolgimento di una specifica attività e
mantengono al loro interno la presenza di almeno una figura adulta con funzioni di guida. I gruppi
informali nascono e si riproducono in maniera spontanea a fianco delle attività scolastiche, sportive, di
consumo. Il rafforzamento delle relazioni è assicurato dalla condivisione del tempo libero, del
divertimento e della scoperta della realtà sociale, senza rapporti formali con gli adulti. Le aggregazioni
coinvolgono soprattutto i ragazzi, meno frequentemente le ragazze. I ragazzi, più spesso delle ragazze,
adottano un modello pervasivo di relazione amicale, tendono a frequentare una moltitudine di amici
piuttosto che un ristretto numero di amiche. In tutti i paesi occidentali, soprattutto in Italia, si è
delineato il fenomeno della “famiglia lunga del giovane adulto”, e lo status del “giovane adulto”. Le
scelte dettate dalla necessità si intrecciano con ragioni di mutua convenienza tra genitori e figli: ai
primi fa piacere avere ancora attorno i propri figli, i secondo trovano comodo e rassicurante vivere in
una casa in cui godono di ampie libertà e con poche responsabilità.
L’espressione lifelong learning (imparare per tutta la vita) evidenzia il peso che ha assunto
l’ambiente professionale nello sviluppo dell’identità. Se ne sono occupati figure di spicco come Everett
Hughes, Howard Becker e Anselm Strauss. Hughes aveva descritto la socializzazione professionale
come un insieme di processi di “iniziazione” e di “conversione”. L’iniziazione a una cultura
professionale o a una specifica cultura d’impresa rappresenta l’entrata di un vero e proprio “mondo
sociale”; la conversione è il processo successivo che porta a una nuova concezione del sé e del mondo,
in sintesi a una nuova identità. Hughes ha individuato alcuni meccanismi specifici della socializzazione
professionale: l’immersione nelle pratiche di un’occupazione, una contrapposizione dualistica tra il
mondo del lavoro e gli altri mondi e l’appropriazione della figura professionale.

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(13) Linguaggio, comunicazione, semiotica e memoria
13.1 Il linguaggio
Il linguaggio è il principale tramite di circolazione e trasmissione della cultura. Il linguaggio verbale è
quello di base, della comunicazione vocale e dell’oralità, il linguaggio scritto è invece una forma
secondaria e dipendente. Nelle società contemporanee la scrittura ha assunto enorme rilievo,
limitando in parte le funzioni dell’oralità che era la principale modalità di trasmissione della cultura.
Il linguaggio è universale. Parole, gesti, simboli sono disponibili a ogni individuo dalla nascita, offrendo
riferimenti simbolici. E’ oggettivo perché condiviso da una popolazione e può essere impiegato anche
da chi, escluso come straniero, può successivamente apprenderlo. Per Chomsky esiste una grammatica
universale, formata da meccanismi e l’utilizzo del linguaggio è creativo. Franz Boas considera le lingue
come strumento di accesso privilegiato alla comprensione delle culture, mentre Sapir ha delineato un
interesse per il legame tra i fenomeni linguistici e culturali.
Tra pensiero e linguaggio corre un complesso e articolato processo di interazione: il linguaggio serve
da strumento per lo sviluppo del secondo, il pensiero, e il secondo porta a perfezionare continuamente
il primo.
De Sassure distingue tra “parole”, ossia il modo in cui la lingua viene parlata nella vita quotidiana e le
“langue”, ossia le regole strutturali della lingua stessa. Strauss ha cercato di determinare le costanti
presenti in ciascuna cultura, che definisce rispettivamente “strutture dello spirito umano”. La ricerca,
infatti, deve individuare le strutture soggiacenti a ogni cultura fino a giungere all’inconscio strutturale
delle diverse culture. E’ attraverso il linguaggio che l’individuo acquisisce la cultura del suo gruppo.
La prospettiva strutturalista ha contribuito alla nascita della semiotica.

13.2 La comunicazione
I processi e le dinamiche della comunicazione alimentano la cultura alla sua radice. Gli individui
captano dall’ambiente degli stimoli e dei messaggi che contribuiscono a formare le loro opinioni e a
modificare la loro condotta. La nostra comunicazione è guidata dalla “definizione della situazione”:
siamo in grado di condividere il senso della situazione in cui ci troviamo a vivere. La comunicazione
interpersonale (faccia a faccia) è un processo di reciprocità, a spirale, tra due o più persone, capace
di attivare una serie di operazioni a livello cognitivo, emotivo, affettivo, interpersonale. Nella
comunicazione faccia a faccia il flusso è bidirezionale, dialogico, basato sulla compresenza. La
comunicazione di massa, invece, implica un processo di trasmissione in cui un elemento culturale,
diffuso da un gruppo ristretto, investe una molteplicità di individui. Tale tipo di comunicazione è
veicolato da strumenti tecnologici così avanzati che il contenuto non scompare dopo il momento
comunicativo, anzi, è “depositato” in anticipo su un formato che permette una facile conservazione e
riproduzione.
Con lo sviluppo della comunicazione a distanza, il telegrafo, la radio, era sorta la necessità di
inquadrare i processi comunicativi in uno schema teorico. Lo schema di base, elaborato dal sociologo
Harold Lasswell, includeva un emittente, che avvia la comunicazione attraverso il messaggio; un
ricevente, che accoglie il messaggio, lo codifica e lo interpreta; un codice, ovvero la parola parlata o
scritta; un canale, cioè un mezzo di propagazione fisica del codice; un contesto, l’ambiente all’interno
del quale si sviluppa la comunicazione; infine, un referente, che rappresenta il tema della
comunicazione cui è riferito il messaggio.
Lo sviluppo delle comunicazioni di massa si è verificato in concomitanza con il consumo della carta
stampata cui è seguita la nascita e la diffusione della fotografia, del cinema e della radio, fino
all’avvento della televisione. L’analisi dei mass-media ha posto in secondo piano la comunicazione,
precludendo lo sviluppo di una disciplina autonoma che ponesse al suo centro la comunicazione tout-
court e non soltanto quella di massa.
L’approccio struttural-funzionalista ha cercato di determinare il funzionamento dei mass-media e la
loro reale consistenza. Merton, Katz e Lazarsfeld hanno prestato attenzione alle funzioni esercitate dai
mass-media come parte integrante del sistema sociale, ma si tratta tuttavia di un approccio troppo
concentrato su gli aspetti procedurali della comunicazione. Per comprendere gli effetti prodotti sugli

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individui è stato utilizzato invece un approccio comportamentale, basato su ricerche empiriche svolte
in laboratorio che includevano le variabili principali del contesto di ricezione. Infine, per comprendere
in che modo influenzano la cultura, il filone delle ricerche culturali ha privilegiato il contesto
economico, politico ed etnico riportando la comunicazione di massa nell’ambito dei fenomeni che
contribuiscono a una differenziazione dei modelli culturali.
Lo studio della comunicazione abbraccia un vasto campo di discipline, il cui oggetto è costituito da un
ventaglio molto ampio di fenomeni. Marshall McLuhan ha chiamato col termine “media” tutti gli
strumenti che consentono la comunicazione, mentre altri autori hanno definito “comunicazione”
qualsiasi azione che mettiamo in scena in presenza di altri.

13.3 La semiotica
Per lungo tempo la semiologia – la disciplina che prima della semiotica ha studiato i “segni” – si è
occupata di produrre una riflessione sistematica delle leggi che li regolano, sui loro usi nella
comunicazione linguistica, accostandosi per molti versi alla filosofia del linguaggio. A partire dagli anni
Sessanta la semiotica, a differenza della semiologia, ha incluso nei suoi interessi tutti i fenomeni di
comunicazione e significazione. Oltre alle lingue naturali e ai linguaggi formalizzati, ha guardato alle
forme espressive non verbali, e soprattutto ai linguaggi espressivi dei media. In particolare, la
semiotica considera “testo” qualunque porzione di realtà che sia dotata di significato, di cui si possano
definire i limiti e individuare livelli gerarchici di analisi. All’interno della semiotica è emersa la
tendenza ad abbandonare la necessità di individuare l’architettura interna dei fenomeni segnici volti a
rintracciare le regole costitutive. Ciò ha favorito lo sviluppo di approcci non totalizzanti che si
occupano di particolari e specifici sistemi di segni.
Umberto Eco è stato uno dei primi critici a sottolineare che un testo non è la superficie di strutture
ontologiche significative, piuttosto sposta l’enfasi sul problema dell’interpretazione, elaborando il
modello teorico della “cooperazione testuale”, incentrato sul cosiddetto “testo virtuale”: la sua
interpretazione dipende dal frame – il contesto che lo caratterizza – e dall’insieme delle esperienze.
L’approccio di Umberto Eco produce degli effetti notevoli, in primo luogo un certo eclissamento della
figura dell’autore, a favore del cosiddetto “autore implicito” o del cosiddetto “autore modello”.
Parimenti, vi è un “lettore empirico”, il quale fa vivere il testo attraverso la propria personale
interpretazione, e un “lettore modello”; l’esito è una “cooperazione testuale”. Secondo Eco, il lettore
è libero di trarre dal testo le interpretazioni che egli reputa più plausibili.

13.4 La memoria
Nelle società senza scrittura la memoria veniva trasmessa oralmente. Con la scrittura la memoria ha
potuto contare su strumenti e “spazi di archiviazione” supplementari, ampliando la qualità e la
quantità delle informazioni trasferibili da un’epoca all’altra. Tuttavia, l’invenzione della stampa, unita
alla lenta diffusione delle capacità di lettura, è stato un passaggio culturale fondamentale.
La cultura moderna ha alimentato un vero e proprio culto della memoria, al cui centro vi è il carattere
soggettivo dell’esperienza, la paura di dimenticare. Il nostro Io sente la necessità di rielaborare i
ricordi, per non perdere di vista l’immagine di sé. La memoria si sposa con le nostre intenzioni, con il
nostro sguardo rivolto al futuro ed è un sistema flessibile che opera classificando, archiviando e
riattivando le informazioni più svariate. Le discipline neurobiologiche distinguono una “memoria
episodica” che conserva parte degli eventi, una “memoria semantica” che racchiude il sapere e le
conoscenze, una “memoria di tipo emotivo”, rivolta a ricordi piacevoli o spiacevoli e, infine, una
“memoria procedurale” che raccoglie le capacità apprese meccanicamente o in parallelo alla
socializzazione. La memoria è un fenomeno sociale, lo sosteneva Maurice Halbwachs, il quale
distingue tra “memoria sociale” e “memoria collettiva”. La prima corrisponde all’insieme dei saperi
e dei tratti culturali che la società riproduce e aggiorna nel tempo, la seconda è specifica di un gruppo.
Nella memoria sociale Halbwachs intravede il legame che tiene insieme una generazione con la
successiva, nella memoria collettiva riconosce il segno delle divisioni sociali. Halbwachs analizza anche
gli spazi socialmente ristretti in cui si riproducono le memorie collettive: la famiglia, i ceti

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professionali, le piccole comunità territoriali, ma anche le classi e i partiti. E’ all’interno di tali sistemi
che la società tramanda differenti versioni del passato.

(14) Come cambia la cultura?


14.1 La creatività
Capita spesso che l’agire sociale venga inquadrato più frequentemente nella prospettiva della
“riproduzione” piuttosto che in quella della creatività e dell’innovazione. Lo hanno fatto notare sia
Crespi che Melucci, indicando la mancanza di attenzione per la faccia creativa dell’azione. Creare e
innovare, considerati sinonimi, celano una differenza. Creatività e creazione sono d’abitudine associati
all’attività artistica, all’immagine popolare dell’artista, mentre l’innovazione presuppone invece un
calcolo già esistente, un modello che viene sostituito da un altro modello. Lo sguardo sociologico
percepisce la creatività come una dimensione universale e diffusa dell’agire e dell’individuo. La
creatività può essere considerata individuale solo in un senso artefatto, ma in realtà è relazionale,
nasce dal contesto dei rapporti nel quale l’individuo è immerso. Entrambe le creatività, quella che fa
capo al gruppo e quella che fa capo all’individuo, sono state identificate a suo tempo da Durkheim con
il fenomeno della “effervescenza”; l’effervescenza collettiva, coinvolge i membri di una comunità
durante un rito, attraverso un’onda di entusiasmo che li induce a rapportarsi tra loro in maniere
inconsuete: l’effervescenza cambia i connotati del gruppo, mette in circolo le capacità creative.
Per comprendere la creatività sottoponiamo a indagine sia le pratiche di vita che i processi mentali.
Vengono studiate le capacità operative della mente, il suo funzionamento, i suoi flussi. Una qualità
molto apprezzata è la flessibilità delle connessioni fra un’area e l’altra delle nostre funzioni mentali
dalle quali può scaturire l’invenzione, in America chiamata anche start-up.

14.2 Le buone maniere


Possiamo indagare il cambiamento della cultura richiamando i fattori esterni che premono sui
significati culturali, li comprimono, ma anche li stimolano a reagire con nuove risposte. Tra le indagini
storiche su un cambiamento culturale di grande portata si colloca quella condotta da Norbert Elias nel
Processo di civilizzazione. Elias descrive la vita delle grandi corti monarchiche europee ma anche della
gente comune: uno scorrere di usanze e di costumi tipico della vita quotidiana delle grandi masse e
dell’aristocrazia. Pone in primo piano gli oggetti, gli arredamenti, i gesti, i corpi, i cibi come li
adoperavano gli uomini e le donne nel passato. La sua tesi di fondo è che al mutare dell’organizzazione
politica si adeguano alla nuova prospettiva anche i modelli di comportamento dei sudditi e delle classi
sociali.

14.3 La molteplicità dei valori


Il cambiamento della cultura ha coinvolto più livelli. Durkheim aveva osservato che l’economia, la
politica, l’estetica e l’arte, ambiti influenzati un tempo dalla religione, si erano emancipati dalla sua
egemonia, acquistando uno statuto autonomo. E’ questo il cambiamento culturale che Weber ha
definito processo di “disincantamento del mondo”; il disincantamento ha fatto sì che gli individui
emergessero gradualmente dalla nuvola delle credenze soprannaturali che li aveva avvolti e potessero
vedere finalmente il mondo per come si presenta. In questo mondo disincantato, però, gli individui
sono tormentati dall’incertezza sull’agire, sul senso da attribuire alla propria esistenza.
Il discorso tenuto da Weber sulla Scienza come professione prendeva spunto da una polemica nei
confronti dei “profeti della cattedra” . Weber difende l’insegnamento mettendo l’accento sulla
estraneità del sapere e della conoscenza al conflitto delle idee: sapere e conoscenza forniscono
strumenti ma non possono indirizzare verso questa o quella concezione del mondo.

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14.4 La nascita di un orizzonte globale
Il termine “globalizzazione” indica l’allargamento dei rapporti umani in un orizzonte planetario. La
globalizzazione favorisce la formazione e l’esistenza delle particolarità, e dà origine a un’eterogeneità
culturale interna tipica della postmodernità. Se scaviamo nel significato delle parole riusciamo a
raccogliere qualche indizio utile: “mondo” infatti vuol dire differenza, molteplicità, non unità. Globale
vuol dire “in più luoghi contemporaneamente”, non omogeneità. La novità politica del nostro tempo è
che non esiste un potere egemone, un regime che garantisca l’unità del molteplice. Manca quindi
un’istituzione centrale a raccordare le differenze e a governare le disuguaglianze. Se guardiamo al
versante della cultura nel processo di globalizzazione ci rendiamo conto che il suo procedere non è né
unidimensionale né statico. In altre parole, esiste certamente una cultura della globalità, ma non una
“unità” della cultura, una cultura che possa definirsi “globale”.

Parte terza – gli attori


(15) Le generazioni, le subculture, i giovani
15.1 I giovani
I giovani sono comparsi per la prima volta come soggetto sociale sulla scena nazionale italiana sotto gli
occhi del pubblico a Genova, nel corso di una protesta violenta contro il congresso del partito
neofascista (MSI), e poi successivamente a Torino. Questi due episodi costituiscono il momento di
maturazione di una ribellione giovanile che si era annunciata a partire dalla metà degli anni Cinquanta
in diverse città italiane e in particolare agli inizi del boom economico con il fenomeno spontaneo del
teppismo di strada. E’ in questi anni che la gioventù viene catalogata fra le classi d’età delle quali la
comunità scientifica comincia a occuparsi come di un soggetto ben delineato nella sua cornice storica e
sociologica. I due temi – movimenti giovanili da un lato e corso della vita con le sue tappe dall’altro –
vanno tenuti distinti; l’una fa capo alla trasgressione e all’innovazione, l’altra al tema della cosiddetta
entrata dei giovani nella vita adulta.
Erik Erikson nel suo testo Gioventù e crisi di identità, ha ravvisato la natura episodica di quelle
manifestazioni e il carattere sussultorio delle iniziative di trasgressione, che facevano capo a piccoli
gruppi di estrazione sociale mista. La condizione giovanile del 1968 secondo Erikson era divenuta un
fenomeno trasversale e di massa per diverse ragioni: sia perché il loro tasso si scolarizzazione si era
innalzato, sia perché la loro mobilità era cresciuta con gli spostamenti territoriali e con la novità della
motorizzazione. La libertà di scelta dei giovani riguardo al proprio futuro si era ampliata; la gioventù
poteva godere di una sorta di “sospensione” temporale dall’obbligo immediato delle scelte. Per
definire questo spazio-tempo di sospensione Erikson ha coniato il termine “moratoria psicosociale”,
una specie di intervallo del ciclo di vita.
Il saggio di Mannheim costituisce il testo guida per la direttrice di ricerca che tematizza “l’entrata nella
vita adulta”. Egli si impegna a chiarire che la generazione alla quale diamo l’appellativo di “nuova” può
palesare sia un carattere progressista sia un carattere conservatore. Ciò che la distingue è la capacità
di apportare nuovi contenuti. Mannheim, inoltre, distingue tra la nuova generazione “biologica”, che
equivale ai nuovi nati, e la generazione che invece ha cognizione di sé, la generazione “effettiva”. La
prima vive un’esperienza biologica senza un rapporto significavo con il contesto storico-sociale, la
seconda è quella che sa legare i suoi contemporanei in un sentimento del “noi”.

15.2 Le subculture
Le “culture giovanili” vengono definite in tal modo perché “produttrici di innovazione”. Fin dal suo
primo apparire – secondo Gillis – il comportamento insubordinato dei giovani era stato etichettato
come “delinquente”. In un paese di immigrazione tumultuosa e di sviluppo esuberante, negli anni
Quaranta e Cinquanta del Novecento, i giovani iniziano a rompere gli schemi ma anche le leggi,
creando disordine e provocando repressioni severe. E’ proprio intorno a questi anni che viene coniata
la parola “subcultura”, la quale indica microcosmi semiautonomi, dotati di abitudini, stili,
atteggiamenti e linguaggi propri. La scuola sociologica dell’Università di Chicago si era occupata dei

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fenomeni di emarginazione urbana, studiando i ghetti, le gang, i senzatetto, i vagabondi. In un secondo
tempo però l’obiettivo si era spostato sulla devianza giovanile – furti, vandalismi, aggressioni. Fra i
ricercatori si distingue Albert Kirci del Cohen, che riesce a cogliere i tre elementi dominanti delle
subculture delinquenziali nelle bande: la gratuità, intesa come reati commessi per divertimento, la
malignità che mira a schernire l’ordine degli adulti, e la distruttività, ossia il disprezzo per la
proprietà. Cohen formula la diagnosi del “disadattamento giovanile”: i ragazzi delle classi meno
abbienti ambiscono ad appropriarsi della ricchezza ma non posseggono i mezzi necessari per
raggiungere i loro scopi, così ricorrono ad una strada alternativa.
E’ la crescita economica del dopoguerra ad operare alla radice di quelle manifestazioni di dissenso
conosciute come le subculture dei giovani proletari britannici. I primi giovani che fanno gruppo, i teddy
boys, compaiono a Camden Town nei quartieri operai della capitale inglese. Alcuni tratti salienti
contraddistinguono le formazioni delle subculture – l’inclinazione alla rissa, l’atteggiamento arrogante,
lambrette e vespe, il consumo di alcol e droga. Nel comportamento apolitico delle subculture
britanniche affiorano, inoltre, un’esplicita mancanza di rispetto verso i valori che le autorità esaltano,
una serpeggiante ironia e un’ostinata indifferenza.

15.3 L’entrata nella vita adulta


Oggi l’entrata nel mondo adulto si compie sempre più tardi e il superamento delle tappe canoniche –
conclusione degli studi, ingresso nel mercato del lavoro, formazione della coppia, matrimonio,
procreazione – si dispiega molto più lentamente. La visione che i giovani nutrono del loro futuro è a
breve termine, poco articolata o del tutto inesistente. Il termine con il quale si definisce il paesaggio
mentale e pratico dei giovani di oggi è “presentificazione”: un’attenzione sul presente e sulla vita
quotidiana. E’ del tutto comprensibile, secondo Oliver Galland, che i giovani di oggi, dopo aver
percorso con una certa lentezza le prime due tappe, rimandino poi di alcuni anni la decisione di
sposarsi e di formare una coppia stabile, e infine la scelta di procreare. La sistemazione matrimoniale
non costituisce più, come nel passato, la conseguenza immediata della conquista di un’occupazione e
anche la sessualità si è sganciata dalla procreazione, seguendo oramai un percorso autonomo.
E’ sempre comprensibile, secondo Galland, il lungo periodo di esplorazione che segue il
completamento degli studi e la conquista di un lavoro. Nella attività libere, di intrattenimento, di
divertimento, le occupazioni dei giovani sono tra loro molto simili. Le disuguaglianze sociali appaiono
mitigate dalle abitudini del tempo libero, si confondono, in questi spazi, i confini di classe.
Un attardamento che viene segnalato è la protratta permanenza dei figli nella casa dei genitori, prima e
dopo l’ingresso nel mondo del lavoro.

(16) Uomini, donne e oltre: il genere


16.1 Il dibattito teorico
Il genere viene introdotto in alternativa alle comuni convinzioni sulle differenze di matrice biologica.
Possiamo distinguere rispettivamente quattro approcci che si sono sviluppati in concomitanza con il
movimento femminista: 1. L’essenzialismo; 2. Il decostruzionismo; 3. Il pensiero della differenza
sessuale; 4. La visione delle differenze multiple.
1. L’essenzialismo ipostatizza le caratteristiche del maschile e del femminile e considera alcuni
elementi storici, sociali e culturali come qualità astoriche e presenti costantemente in tutti i soggetti
appartenenti a quel genere. L’essenzialismo è una tendenza tipica delle concezioni astoriche della
natura femminile che riaffiorano nelle posizioni “culturaliste”.
2. La seconda prospettiva trae spunto dal decostruzionismo francese, ossia una teoria filosofica
orientata a smontare gli apparati linguistici e simbolici che costruiscono la realtà.
3. Il pensiero della differenza sessuale si è sviluppato in Francia e in Italia e coniuga l’analisi filosofica
con la dimensione politica. Alle donne è negata la facoltà di autodefinirsi: sarebbero, quindi, sempre un
“non soggetto”, un oggetto delle rappresentazioni altrui.
4. Negli sviluppi più recenti si delineano nuovi scenari teorici, aperti da filosofe, studiose di mass-
media, ma anche sociologhe e antropologhe. Si tratta di un insieme variegato di posizioni, influenzate

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dal pensiero postmoderno.

16.2 Tra uguaglianza e differenza


Classificare tutte le donne in nome del loro status di subordinazione ha reso possibile una produzione
storica focalizzata sul principio dell’uguaglianza e su una politica antidiscriminatoria. Il percorso della
dialettica tra differenza e disuguaglianza può essere seguito osservando l’evoluzione del primo
termine, lungo quattro fasi: 1. La comparsa della differenza; 2. La sua scomparsa; 3. Il ritorno della
differenza; 4. La sua moltiplicazione.
1. La declinazione politica della differenza ha avuto corso a partire dalla seconda metà dell’Ottocento,
quando la femminilità è stata valorizzata come diversità da proteggere, da tutelare.
2.Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, sono stati rafforzati i programmi che puntavano al
riequilibrio sostanziale delle disuguaglianze di genere nel mercato del lavoro e nel mondo
dell’istruzione. Il principio dell’uguaglianza delle opportunità diventa il criterio ispirato delle
affirmative actions (azioni positive) negli Stati Uniti.
3. Il ritorno della differenza si verifica per una reazione critica nei confronti delle affirmative actions;
4.Segue una fase di moltiplicazione delle differenze. L’avvio degli anni Novanta vede in molti paesi
un’esplosione di rivendicazioni di gruppo che esaltano le rispettive differenze.

16.3 Il genere maschile


L’esplorazione del genere maschile porta alla formazione dei cosiddetti Men’s Studies. Non si tratta di
un movimento vero e proprio, né di una svolta incisiva. L’obiettivo di tali studi era quello di scoprire le
caratteristiche e i comportamenti del genere maschile.
Non tutto quello che gli uomini producono e realizzano è diretto a sottomettere e limitare il campo
d’azione delle donne. Alcune analisi sociologiche della mascolinità hanno tentato di affrontare una
delle questioni centrali della sociologia, il delicato rapporto tra azione e strutture sociali.
Il concetto di habitus di Bourdieu o la teoria della non intenzionalità degli esiti di alcuni tipi di azione
sociale di Bourdon si rivelano utili. Secondo questi concetti il fondamento del dominio consiste in una
serie di forze impersonali, situate fuori dalla volontà dei singoli soggetti, ma non per questo estranee al
loro agire.
Le altre aree di interesse riguardano la centralità del genere nei processi di formazione di norme e
istituzioni, e le fondamenta concrete del potere.

16.4 Oltre la dicotomia: la pluralità dei generi


Un movimento che è riuscito a trasformare la resistenza culturale in un’appropriazione della cultura di
massa e ha messo in crisi la mascolinità egemonica è il movimento degli omosessuali, i quali hanno
proposto alternativi modelli di mascolinità. E’ alla fine del XIX secolo che si impone una vera
opposizione fra l’eterosessuale, modello riconosciuto come “normale” di mascolinità, e l’omosessuale
sinonimo di “anormale”, “patologico”, “contro natura”.
E’ una storia fatta di resistenze che ha portato alla nascita di una vera e propria cultura, sostenuta dal
movimento per i diritti dei gay che sono usciti allo scoperto e hanno rivendicato spazio e visibilità
all’interno dell’arena politica, dell’industria culturale e delle istituzioni sociali. A differenza
dell’omosessualità maschile, il fenomeno della visibilità lesbica è caratterizzato dall’appartenenza di
classe da forti affinità elettiva tra l’orientamento lesbico e il mondo letterario e artistico delle donne.
La femminilità costituisce un ostacolo per la comparsa pubblica del lesbismo: è l’indipendenza
economica, sociale e culturale che conta per giustificare un’immagine pubblica della “diversità
sessuale”. Negli Stati Uniti il movimento lesbico ha stretto alleanze con il movimento gay dando vita a
un composito campo d’analisi dei generi – i LGBT’s Studies, Lesbian, Gay, Bisexual e Transexual’s Studies.
Il mondo delle appartenenze di genere si complica con l’irruzione delle identità transessuali,
transgender, queer. Le teorie queer fanno la loro comparsa negli anni Novanta. Confermano le
posizioni dell’approccio femminista secondo il quale il genere è una costruzione sociale.

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(17) Le minoranze, il fenomeno migratorio, il multiculturalismo
17.1 Le minoranze
Le minoranze si generano e si ricreano in un processo continuo. Possono costituirsi sempre nuove
minoranze, ma vi sono anche minoranze note, “classiche”, formatesi in due modi, o per conquista o
per migrazione.
Nel XIX secolo in Europa, all’epoca della loro fondazione e unificazione, gli Stati-nazione hanno
proceduto autoritariamente incorporando altri gruppi etnici, altre identità locali, regionali a sé stanti,
che hanno dovuto uniformarsi ai dettati del centro egemone dimenticando le loro origini. Si è parlato
anche di fenomeno di amnesia: le popolazioni nazionali si sono tenuti unite – si dice – in virtù
dell’amnesia che hanno elaborato rispetto alle loro precedenti identità regionali, al loro retroterra
storico. L’unificazione e la modernizzazione non sono riuscite a travolgere le minoranze nazionali,
tanto meno a cancellarle, anzi le antiche identità territoriali hanno ritrovato voce e vitalità.
Per migrazione si intendono gli spostamenti massicci di popolazione incoraggiati dal ritmo accelerato
della globalizzazione. Le minoranze che si formano nei luoghi di arrivo vengono chiamate “minoranze
etniche”. Il razzismo si riscontra in tutti i paesi d’immigrazione. E’ il modo con il quale una popolazione
locale cataloga gli estranei sulla base di distintivi fenotipici (fisici) o naturali. Il razzismo sottintende
un binomio superiorità/inferiorità.

17.2 Il multiculturalismo
Le minoranze portano con sé nel paese nel quale vanno le loro differenze di pratiche, abitudini, di
lingua, di religione. Il “gruppo” etnico, religioso, razziale o di genere, è ricomparso sulla scena dei paesi
moderni, complicandone il quadro. All’inizio le minoranze immigrate sembravano subire i programmi
di integrazione che venivano loro sottoposti, ma in seguito hanno preso coscienza, trovato una voce,
esercitato pressioni per esibire apertamente la loro diversità culturale. Le pressioni più forti tra
minoranze e cittadinanza nascono dalla parola “assimilazione”; l’assimilazione è imporre a una
minoranza un modello di vita a lei estraneo che la etichetta comunque come inferiore. Il
multiculturalismo fa propria l’esigenza di riconoscere la pari dignità e il rispetto delle espressioni
culturali dei gruppi e delle comunità che convivono, e nessun gruppo può reclamare una superiorità a
priori, di diritto, sugli altri. L’autorizzazione alle differenze di gruppo trascura il fatto che i contenuti
dell’identità vengono definiti da una frazione del gruppo, non dalla sua totalità. In culture diverse, in
quelle orientali o in quella islamica si ha una subordinazione e un’obbedienza da parte delle donne. Se
i gruppi etnici vengono autorizzati a governarsi da soli opprimeranno le donne e i membri deboli del
gruppo in nome della propria cultura.

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