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IL GIOCO DELLA CULTURA

1. Il crocevia della cultura


Il viaggio della parola cultura e dei suoi significati attraverso il tempo è lungo e tortuoso. La cultura si
presenta all’inizio come la conquista o l’attributo di una persona, di un singolo, di un individuo. Nella sua
origine la parola allude all’azione di chi coltiva la terra (deriva dal latino colere, ovvero coltivare) o,
attraverso una metafora, di chi coltiva la mente. Per molto tempo il termine ha descritto una persona che sa,
che apprende, ma, con il tempo, si passa dal singolare al plurale, dall’individuale al collettivo: con l’avvento
del Rinascimento, le scoperte scientifiche e l’Illuminismo nel Settecento, la cultura non è più la conquista di
uno solo, ma diviene la conquista di molti, di una collettività di persone che coincide con il concetto di civiltà.
Inoltre, da una cultura o dalla civiltà di un popolo, si passa alle molte culture dei diversi popoli: questo
passaggio ha alle spalle avvenimenti come le traversate transoceaniche, le esplorazioni, l’ingresso di paesi
nuovi nella geografia mondiale e l’uscita dell’Europa dai propri confini.
Con l’antropologia, successivamente, si apre un nuovo capitolo: la cultura non riguarda più solo il sapere ma
un intero modo di vita; dalla cultura sinonimo di conoscenza si passa alla cultura sinonimo di vita ordinaria (a
whole way of life, ovvero un intero modo di vivere). Gli elementi che adesso entrano a far parte della nozione
appartengono a repertori che ne erano estranei:
• gli usi;
• le abitudini;
• gli oggetti della vita di tutti i giorni;
• i prodotti materiali;
• tutto ciò di cui la società ha bisogno per essere una cultura e per mantenersi insieme.
Negli anni Cinquanta del Novecento, Raymond Williams pensa alla cultura come la somma di ciò che di
meglio è stato pensato e detto nei secoli (riprendendo quanto aveva scritto Arnold) e come la vetta più alta di
una civiltà compiuta.
Max Weber, invece, aveva affermato, qualche tempo prima, che la cultura è una sezione finita dell’infinità
priva di senso del divenire del mondo, alla quale è attribuito senso e significato dal punto di vista dell’uomo.
Dunque, il concetto di cultura è transitato da fenomeno individuale a fenomeno collettivo; dall’egemonia della
cultura europea alle numerose culture altre; da sinonimo di sapere umanistico a sinonimo di vita ordinaria;
da indice di privilegio delle élite a patrimonio che riguarda la società tutta. il concetto di cultura può essere,
inoltre, analizzato secondo due criteri diversi:
1. significato umanistico à ciò che di meglio è stato pensato e conosciuto;
2. secondo le scienze sociali à quell’insieme complesso di significati e di pratiche trasmesse
storicamente nelle diverse società umane.
Il concetto di cultura può essere, allora, definito come: patrimonio intellettuale e materiale, quasi sempre
eterogeneo, relativamente integrato, talvolta antagonistico, durevole, ma soggetto a continue
trasformazioni, con ritmi variabili a seconda delle epoche.
Esistono, poi, die diverse tipologie di riconoscimento culturale: un riconoscimento verticale, o
etnocentrismo, ed un riconoscimento orizzontale, che stabilisce una condizione paritaria tra gli individui.

I contenuti
Secondo la definizione di Taylor la cultura risulta composta dalle conoscenze, le credenze, l’arte, la morale,
il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità o abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro della società.
Da questo punto di vista non si vede che cosa la cultura non sia: coincide, quindi, con l’intera società.
Questo agglomerato eterogeneo in cui la società e la cultura sembrano un tutt’uno è stato depurato nel
corso del Novecento: la sociologi, infatti, traccia una distinzione tra cultura e sistema sociale, rifiutando l’idea
di unire i due significati.
Il processo di depurazione ha fatto sì che i contenuti della cultura risultassero sfrondati, più nitidi, e che
venissero riassunti in elementi convenzionali:
• norme, nelle quali vengono incluse le convenzioni condivise, le linee guida della vita collettiva, i criteri
di giudizio riguardanti i comportamenti pubblici e privati;
• valori, nei quali si vede rispecchiato il nostro attaccamento ai diversi ideali, alle mete collettive o alle
qualità positive;
• credenze, nelle quali sono incluse le convinzioni profonde, le superstizioni, i pregiudizi;
• simboli, che appaiono come i veri animatori di tutti gli elementi sopraindicati perché forniscono a tutti
un dato preciso, il significato. Il simbolo può essere, dunque, definito come un segno che evoca la
relazione di un oggetto materiale con un’idea astratta.
La definizione di quest’ultimo concetto ha subito, nel coro degli anni, alcuni mutamenti: Geertz l’ha definito,
infatti, come una chiave d’accesso all’interpretazione di tutti i fenomeni del mondo sociale, perché ne indica il

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senso. Il simbolo è il veicolo del significato ed entrambi hanno un carattere pubblico e, dunque non stanno
chiusi nella testa della gente.
Si parla, quindi, di sfera simbolica per intendere il mondo dei significati, l’intera sfera culturale. In quanto
veicolo del significato, il simbolo è ubiquo ed imbeve di sé i nostri atti e i nostri pensieri ed è in grado di
influenzarli combinandosi con altri fattori.
La definizione fornita da Taylor prevede una confluenza apparente tra i due piani, il sistema e la cultura.
L’unico quesito da proci è: dove collocare la cultura materiale? Questa è imprescindibile, un elemento che
va aggiunto ai primi quattro che va a certificare il messaggio principale dell’antropologia secondo cui non vi è
società senza cultura. Williams osserva infatti che mentre in antropologia ed in archeologia la cultura e
materiale mentre nella storia e nei cultural studies il riferimento principale è ai sistemi di significato e
simbolici. Per cultura materiale i sociologi intendono un ventaglio di prodotti più diversificato e che include
tutti gli artefatti delle attività manuali e intellettuali.

Il testo e la pratica
L’opera di semplificazione di Geertz ci aveva guidati a uno dei suoi contributi più felici, il riconoscimento della
centralità dei simboli e dei significati nel nostro modo di intendere la cultura, ed a una preferenza per questa
scelta rispetto a quella che insisteva sui valori e sulle norme cara a Parsons, meno sintetica. Geertz aveva
agito ponendosi come obiettivo quello di semplificare il campo semantico della cultura, invaso da troppe
definizioni dei suoi colleghi antropologi e da un accumulo di opzioni teoriche. Nelle sue intenzioni
strategiche, la semplificazione avrebbe portato ad assegnare alla cultura un settore preciso e a rinforzarne
l’efficacia concettuale ed euristica. Dopo la proposta di Geertz, l’approccio interpretativo, ermeneutico, si è
imposto nella ricerca per molto tempo come la modalità più appropriata per l’esplorazione della sfera
culturale.
La definizione della cultura ha subito, inoltre, un mutamento: da cultura come sistema di simboli e di
significati si è passati, infatti, ad una versione più pragmatica che vede la cultural come pratica.
L’espressione sistema di simboli e di significati era stata sottoposta ad un’accusa: questa suggeriva una
visione integrata, ed evocava l’idea di un sistema ordinato e chiuso. In aggiunta la proposta concettuale di
Geertz produce un effetto di astrazione quando il termine semiotico combacia con uno strumento formale, il
linguaggio, nella sua versione più usuale, il testo. Secondo il parere di Geertz, un testo va al di là del
materiale scritto e di quello verbale; secondo il suo intendimento le forme culturali possono essere trattate
come testi e la cultura di un popolo è un insieme di testi che l’antropologo si sforza di leggere sopra le spalle
di quelli cui appartengono di diritto. L’adozione del testo come unico strumento per decifrare la sfera
culturale si libra al di sopra del dato concreto, dematerializzando il concreto e facendo dell’interpretazione
una modalità meno ospitale verso la vita e l’esperienza di quanto il suo stesso autore aveva inteso.
L’obiezione più seria alla proposta di Geertz è quella che colpisce la descrizione densa: al termine della
propria opera egli conclude affermando che tutto sia già stato detto e che l’interpretazione sia stata già fatta,
basta riuscire a trovarla. La cultura si riduce, dunque, ad un dato implicito e chiuso. Questo metodo è
apparso limitato allo storico culturale Sewell, il quale ha indicato una debolezza nell’impostazione di Geertz:
la mancanza di una dimensione pragmatica e narrativa della cultura; egli osserva che gli storici si trovano
sempre a disagio con un taglio sincronico che schiaccia la dimensione temporale.
Uno dei meriti all’approccio cultura come pratica, che si è affermato successivamente, sta proprio nel suo
carattere diacronico e dinamico, e va attribuito al lavoro congiunto di sociologi, antropologi e storici. Tuttavia
il lungo processo del significato e il suo primato temporale rispetto a pratica vanno giustificati, come spiega
Alexander, con il fatto che per mostrare l’importanza del significato era necessario che questo diventasse
una struttura altrettanto potente dei pilastri tradizionali della sociologia.
Le prime avvisaglie a favore della pratica provengono da Bourdieu il quale mette in luce la debolezza
dell’approccio testuale alla cultura in “Le sens pratique”. Egli non crede che la padronanza di un codice sia
sufficiente a conferire anche la padronanza degli usi appropriati; introduce, dunque, due termini nuovi:
• uso;
• pratica.
L’impegno dei sociologi nel periodo successivo al funzionalismo di Parsons si è mosso per superare
l’antinomia fra sistema e azione, equilibrio e cambiamento. La formulazione più convincente è stata
sviluppata da Giddens, il quale chiama in campo la pratica sociale e l’azione umana (agency). Le strutture
della società, secondo le sue parole, possiedono una dualità, una doppia proprietà che le mette in grado di
condizionare da un lato l’azione dei soggetti (le pratiche) e dall’altro permette ai soggetti di reagire a quelle
stesse azioni/pratiche. Il termine strutturazione sottintende un doppio movimento: le strutture costringono
l’azione umana ma anche la abilitano, le danno la possibilità di manifestarsi, di fuoriuscire; l’individuo,
dunque, non è bloccato ma ha la capacità di reagire. L’obiettivo di Giddens è rendere possibile il concetto di
cambiamento sociale sul piano teorico, indicando i passaggi che permettono di cogliere sia la durezza della
struttura che la sua elasticità e la vitalità dell’azione al cospetto della struttura. La tensione esistente fra la
continuità ed il cambiamento è sempre presente ma viene superata.

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Giddens chiama in causa Bourdieu e le sue parole ritenendole vicine al proprio punto di vista: a proposito del
concetto di habitus scrive che le strutture oggettive (habitus) sono esse stesse il prodotto di pratiche
storiche e sono costantemente riprodotte e trasformate da pratiche storiche. L’habitus è un insieme di
disposizioni acquisite dall’attore attraverso il tempo e nel confronto con i condizionamenti e le pratiche
storiche già sedimentati; questo è durevole ed è radicato al punto da apparire all’attore sociale del tutto
naturale: è la matrice di ogni routine e di tutto il sapere implicito, tacito ed indiscusso, che Bourdieu riassume
con il termine doxa. Anche Sahlins concorre all’impostazione dei concetti di pratica e di habitus con
riflessioni molto simili a quelle del sociologo francese.
L’insistenza di Bourdieu sulla potenza dell’habitus sembra chiudere ogni porta al cambiamento e bloccare
tutto sulla riproduzione di ciò che già esiste; l’accusa non è però esatta poiché l’habitus non è immobile: la
sua struttura concettuale è diacronica, muta nel tempo. È la presenza attiva di tutto il passato prodotto e
conferisce alle pratiche la loro indipendenza relativa (è storia incorporata).
La diffusione e la fortuna del concetto di pratica, formulato dai sociologi europei e dall’antropologo
americano Sahlins, sono documentate dagli attestati di adesione in suo favore, oltre che dai sociologi, dagli
storici e dagli antropologi.
Nello stesso tempo la visione di Geertz ha segnato un punto di non ritorno, un principio acquisito: anche la
pratica infatti è portatrice di significati. Chi ha cercato di riconciliare i due concetti in un'unica definizione
sintetica è lo storico Sewell. Egli definisce la cultura come dimensione semiotica dell’azione sociale
umana: il sistema dei significati e la pratica sociale sono concetti complementari e costituiscono una dualità
indissolubile.
Il profilo della cultura che la sociologa Swidler traccia per i periodi storici che definisce instabili contrasta con
la cultura dei periodi detti stabili. Nei primi si verificano i rinnovamenti più eclatanti, l’assunzione di nuovi stili
e nuove strategie d’azione da parte degli attori, a differenza dei secondo, nei quali si attinge più
passivamente ad esperienze culturali collaudate. Nel saggio di Swidler la pratica culturale può alterare un
codice simbolico preesistente, cucendolo su nuove circostanze e utilizzandolo per favorire il cambiamento.
La nozione di pratica-azione è propizia alla ricerca empirica: ella scarta l’ipotesi che gli attori scelgano le loro
pratiche una per una come appare nel sistema teorico di Parsons.
Swidler conia, inoltre, alcune espressioni:
• catene di azione;
• strategie di azione.
Secondo queste nozioni, la cultura corrisponde a una collezione di strumenti (cassetta degli attrezzi) che, a
seconda delle congiunture, si trasformano in mezzi per la realizzazione dell’azione, per una performance
precisa e non vaga come affermato da Parsons.
Per ultimi, la scuola britannica del CCCS di Birmingham ha custodito una riflessione vivace e prolifica sulla
cultura durante anni nei quali le scienze sociali ufficiali se ne occupavano col contagocce. Hanno ingaggiato
il concetto di cultura ed hanno intrecciato il concetto di pratiche con quello dei testi, parlando di una cultura
interrelata con tutte le pratiche sociali, e le pratiche sociali come una forma comune di attività umana. I
Cultural studies definiscono, dunque, la cultura come i significati e i valori che emergono tra diversi
gruppi e classi sociali sulla base delle loro relazioni storiche date e come tradizioni pratiche e
vissute.

Cultura e potere
Nella sua rivisitazione del concetto di cultura l’antropologa Ortner esordisce con un appunto polemico circa
uno dei primi assunti della teoria antropologica e contesta quanto l’indagine sul campo e la riflessione
autocritica abbiano fatto erba secca di questo assunto naif: la cultura è ripartita in modo ineguale tra gli
individui e i gruppi della società. La cultura costituisce una risorsa di cui il potere è avido di servirsi per
stabilire e amministrare il suo dominio. Occorre distinguere, però, fra due facce:
1. la distribuzione del potere, nel quale appare una proprietà distribuita in maniera diseguale fra individui
e gruppi nella sua qualità di patrimonio simbolico e capitale culturale (è a disposizione di alcuni e
non di altri);
2. l’esercizio del potere, nel quale ci troviamo di fronte a un accumulo, a una concentrazione nei luoghi
dove il potere viene gestito su larga scala, nelle strutture istituzionali, particolarmente nelle istituzioni
economiche e nello Stato.
Nella sua ricognizione Ortner presta attenzione a tutte e due le facce, citando sia l’asimmetria verticale del
potere dentro la società, che l’egemonia sulla società. Sul primo tema si soffermano soprattutto i sociologi
puri:
• Giddens se ne occupa in termini generali, imputando allo strutturalismo di Lévi Strauss e al post-
strutturalismo di Derrida il torto di non aver mai preso in considerazione la categoria del potere nel
loro lavoro sulla cultura;
• Bourdieu vaglia le manifestazioni del potere attraverso la declinazione del concetto di capitale, in cui
spicca il capitale culturale ovvero il patrimonio di titoli di studio e competenze in senso lato,
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accumulato attraverso la socializzazione familiare e l’istruzione. È un bene sia ereditato che
acquisito anche se questi si distribuiscono in modo molto disuguale tra i gruppi e gli individui.
Sul rapporto tra potere e cultura l’intuizione più originale e perspicace di Bourdieu è rintracciabile nell’analisi
del Dominio maschile, nel quale mette a fuoco sia la disuguaglianza fra le condizioni di vita degli uomini e
delle donne, che la potenza occulta della doxa nella veste di un potere maschile incontrastato ed indiscusso.
Le differenze di status fra i due generi sono state rese permanenti dalle conseguenze di una violenza
astratta e impalpabile; il potere della doxa ha trasformato in senso comune una volontà maschile
socialmente costruita e impostata, che esercita la violenza del dato per scontato. (la violenza è, dunque, sia
simbolica che permanente).
Entrambe le facce del potere sono prese in esame dagli studiosi dei Cultural Studies inglesi. La cultura è un
campo di battaglia permanete, scrive Hall, mentre, per ciò che riguarda le disuguaglianze fra le classi,
entrano in gioco anche i nuovi soggetti o gruppi nuovi di esclusi: le nuove etnicità approdate nei paesi
occidentali ed in Gran Bretagna negli anni del dopoguerra, alterano la gamma tradizionale delle divisioni di
classe britanniche, introducendoci il flusso della diaspora culturale e razziale.
Accanto alle nuove etnicità, un altro soggetto della differenza culturale, il genere femminile, mette alla
prova i ricercatori del CCCS.
Il campo di battaglia della cultura è, dunque, percorso da forme di sopraffazione e di resistenza, di
accettazione e d rifiuto: vi sono sempre posizioni strategiche da conquistare e da perdere ma non si dà mai
una vittoria definitiva. Il concetto di resistenza e di egemonia sono molto frequentati dai Cultural Studies: in
modo particolare il secondo, ripreso dai Quaderni del carcere di Antonio Gramsci, affonda le radici nella
gestione politica della cultura e del senso comune. L’egemonia è il frutto di una pratica politica lungimirante e
avvolgente, nella quale la costruzione del consenso dal basso ottiene altrettanta attenzione cura quanto il
controllo degli interessi economico-capitalistici.
Come affermato da Hall è un potere capace di inquadrare la società ed egli intende la cultura come
l’effettivo e sedimentato terreno delle pratiche, delle rappresentazioni, dei linguaggi e dei costumi di
ogni specifica società storica e del senso comune, il cui carattere può essere contradditorio e
occasionale ma è espressione della coscienza pratica delle masse.

Cultura-culture
Siamo soliti parlare di cultura dei giovani, di cultura urbana, di cultura etnica, di cultura proletaria, di cultura
italiana… quando vogliamo alludere a gruppi sociali e categorie di persone con le loro abitudini, collocazioni,
modi di esprimersi e stili di vita riconoscibili. Culture, al plurale, è un’espressione che accompagna lo
sviluppo creativo della società e che si moltiplica via via che l’esperienza sociale si diversifica e si espande.
La cultura, al singolare, è, invece, sempre definita in contrasto con qualcosa che non è politica, economia e
finanza (come fa notare Giglioli). Anche le culture al plurale si definiscono per differenza, ma in questo caso
la differenza corre tra una cultura circoscritta ed un’altra cultura circoscritta, generalmente identificata in
base a un collegamento con un gruppo sociale o politico.
Un’ulteriore versione della cultura al plurale viene introdotta dai Cultural studies e viene definita come
popular culture, ovvero cultura popolare, che adesso può essere rappresentata attraverso altrettante
versioni, come:
• cultura di massa;
• cultura dei mass-media;
• cultura del consumo;
• cultura del nuovo capitalismo à come definita da Sennet.

2. Lo sguardo antropologico, lo sguardo psicologico


Il relativismo culturale
L’itinerario seguito dall’antropologia e dalla sociologia nella messa a punto del concetto di cultura è
contraddistinto da significative occasioni d’incontro e da alcune divergenze. La definizione della cultura che
Taylor aveva formulato nel 1871 era stata fatta propria dalla scienza antropologica e si era conservata
identica per i cinquant’anni successivi. Gli oggetti di indagine dell’antropologia erano chiari: le società
primitive e la loro cultura.
Nata pure essa nella seconda metà dell’Ottocento, la sociologia aveva a sua volta fissato il proprio oggetto,
molto diverso: la moderna società industriale, con le sue strutture, la sua organizzazione capitalistica, la sua
classe borghese, lo sviluppo dei suoi insediamenti urbani.
La sociologia prendeva di petto il mondo così come era giunto alla modernità, con una cultura già matura,
prescindendo da tutti gli interrogativi che gli antropologi non avevano putto evadere:
• il rapporto fra natura e cultura;
• il rapporto tra cultura e biologia.

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I membri di un gruppo primitivo riescono a sopravvivere con mezzi che inventano e si procurano essi stessi,
con tecniche di protezione, producendo cibo e riparo, unendo gli sforzi e comunicando tra loro con segnali e
simboli. Una cultura nasce, dunque, lottando con la natura.
Come afferma Geertz, la cultura corrisponde ad una serie di meccanismi di controllo, progetti, prescrizioni,
regole e istruzioni, per orientare il comportamento dell’uomo; la cultura non è un ornamento dell’esistenza
umana, ma la pura e semplice garanzia che la vita umana sia possibile.
È la cultura a distinguere l’animale uomo dagli altri animali perché il suo corredo genetico da solo è troppo
debole e imperfetto per guidarlo alla sopravvivenza; sono, dunque, il linguaggio ed il pensiero che gli
permettono di formulare simboli (che permettono agli esseri umani di agire, di accumulare informazioni e di
orientarsi), gesti, disegni, suoni, parole, con i quali elabora e assegna un significato alla sua esperienza del
vivere. Senza cultura, afferma Geertz, non ci sarebbero gli uomini.
I meriti principali del lavoro antropologico corrispondono a due conquiste: la scoperta dell’esistenza di una
cultura di carattere primitivo e la messa al bando dell’etnocentrismo, ossia la tendenza a giudicare le
altre culture ed interpretarle in base ai criteri della propria, proiettando su di esse il proprio concetto
di evoluzione, di progresso, di sviluppo e di benessere, basandosi su una visione critica unilaterale.
Malgrado gli oggetti d’indagine dell’antropologia e della sociologia fossero molto diversi, sia il concetto di
cultura che i metodi utilizzati dagli antropologi avevano fatto breccia nella sensibilità sociologica.
L’impostazione del lavoro empirico della scuola di Chicago intorno agli anni Venti-Trenta è una riprova del
fatto che le due discipline erano contigue, procedevano spesso in modo parallelo: il metodo etnografico, la
raccolta di testimonianze dirette, l’osservazione partecipante, lo sguardo ravvicinato tipico degli antropologi
sono stati ammirati e adottati dal gruppo dei sociologi vicinia Robert Park in molte loro ricerche. L’altro
significativo scambio tra le due scienze è testimoniato dalla ricerca sulla religione di Durkheim del 1912: egli
ha sociologizzato lo sguardo antropologico piuttosto che applicato l’antropologia allo studio della religione. Si
è avvalso delle ricerche di Smith intorno alle popolazioni australiane ed ha puntato a rintracciare il carattere
generale e unitario del sentimento religioso attraverso la selezione dei suo tratti caratterizzanti.
Una volta conclusi gli studi della scuola di Chicago attorno agli anni Trenta, l’impegno teorico e di ricerca
della sociologia sul concetto di cultura sembra diventare sotterraneo fino alla pubblicazione dell’opera di
Parsons e Shils nel 1951. Viceversa, il campo antropologico è apparso ricco di proposte, di opere e di
elaborazioni diverse, in modo particolare in America ed in Inghilterra.
Il testo di Parsons e Shils del 1951 permette all’antropologia e alla sociologia di riconvergere nell’intento di
definire e precisare gli ambiti rispettivi. Infatti, anche questo può essere definito un momento di scambio fra
le due discipline: cultura e società vengono considerati due sistemi correlati ma irriducibili; queste fanno
capo a due ordini analiticamente distinti di componenti degli stessi fenomeni concreti.
Gli anni Cinquanta vedono anche avviarsi a conclusione il dibattito sul concetto scientifico di cultura
protrattosi per anni all’interno dell’antropologia. Come spiega Rossi, il concetto antropologico di cultura nel
momento del suo maggiore successo (anni Trenta-Cinquanta) entra in crisi; una crisi che ha origine da un
fenomeno storico che ha posto in secondo piano lo studio delle società primitive, le quali erano state dissolte
da alcuni fattori:
• società industriale;
• decolonizzazione;
• nuove tecniche produttive.
L’antropologia si rivolge quindi a nuovi campi di analisi, si dedica al cambiamento culturale nelle società
complesse sviluppando le sue branche specialistiche ed intrecciando le sue ricerche sulla modernità con
l’attenzione ai ritardi culturali, alla conservazione della tradizione e al generale processo di acculturazione.
Occorre, infine, specificare quali siano state le principali divergenze che hanno contraddistinto le
impostazioni teoriche dell’antropologia e della sociologia:
1. comportamento appreso che allude a tutto ciò che non è ereditato e rimarca la cultura nei confronti
della natura;
2. anomia, coniata da Durkheim per definire il disorientamento che un cambiamento sociale non
metabolizzato dai soggetti induce nella convivenza civile, per segnalare un cedimento dell’ordine e
della coesione in particolari periodi storici;
3. ideologizzazione della religione a causa della modernizzazione che ha scosso i pilastri delle società
tradizionali;
4. relativismo culturale che si contrappone alle parole di Montaigne il quale ha affermato che ciascuno
è barbaro agli occhi del suo vicino, a metà del Cinquecento.
Il relativismo culturale si oppone a questo e rifiuta i giudizi basati sui concetti di superiorità e di
inferiorità: tutte le culture hanno pari dignità e ciascuna va indagata nei suoi tratti caratteristici, che
costituiscono la sua individualità. Gli antropologi si sono prodigati per accreditare la pluralità (ovvero
la diversità) delle culture alla pluralità (l’autonomia) dei loro stili di vita.

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Occorre distinguere, infine, tra relativismo metodologico ed etico: il primo è un principio guida che
rende possibile l’osservazione e la descrizione oggettiva, senza pregiudizi delle diverse culture; il
secondo applica criteri etici alla ricerca.

La revisione critica della cultura


Nella raccolta dei saggi Pensare la cultura, l’antropologo Vincenzo Matera ripercorre brevemente
l’evoluzione della scienza antropologica, dal sapere umano che emerge dall’incontro fra gli antropologi e i
nativi fino alla nuova vocazione degli antropologi per l’indagine sulle società complesse contemporanee.
In un lungo saggio a commento di quest’opera, Giglioli e Ravaioli, hanno messo in luce alcuni
fraintendimenti e le loro riserve che si sono create tra l’antropologia e la sociologia:
1. la prima ha a che fare con il concetto di innovazione e di creatività;
2. la seconda riguarda le condizioni attuali del potere politico centrale e dello Stato-nazione, che
vengono considerate dagli antropologi sotto la luce dell’indebolimento, del depotenziamento e della
deprivazione delle loro antiche prerogative, per effetto del processo di globalizzazione.

3. I capostipiti
Karl Marx, la cultura tra la classe e il capitale
Karl Marx non è considerato un vero e proprio sociologo in quanto è vissuto prima che la sociologia
divenisse una disciplina autonoma e perché i suoi scritti sono fondamentalmente di carattere politico.
L'interesse della sociologia nei confronti di Marx si concentra in particolare sull'analisi tra i rapporti di
produzione e le altre sfere della vita sociale, sulle riflessioni relative alle ideologie, comprese quelle di natura
religiosa e infine sullo studio delle dinamiche culturali riguardanti i l conflitto, la resistenza e il cambiamento.
L'opera di Marx può essere in sostanza ridotta a uno schema di lettura dei rapporti storico-sociale dell'uomo
in base al quale tutte le forme di articolazione della società dipendono dalle modalità di produzione e
riproduzione delle condizioni materiali di vita. Questo schema ha origine dalla dicotomia epistemologica tra
idealismo e materialismo sviluppatasi attorno al problema della conoscenza, che a sua volta può essere
concepito come problema della ragione pratica o come problema della ragione pura. La conoscenza
generata dalla ragione pratica è retta sull'idea che la specie umana crei la propria esperienza all'interno di un
mondo precostituito. Il mondo influenza dunque l'azione degli individui, mentre la conoscenza si basa sulla
ricezione di informazioni provenienti dall'esterno. La teoria della pura ragione, invece, si basa sulla centralità
della specie umana come forma di consapevolezza aprioristica: gli individui sono cioè in grado di imporsi sul
mondo naturale e culturale attraverso la loro conoscenza astratta. ln tutti i casi il mondo esterno è costituito
dalla cultura, dal momento che sul piano sociale non può esistere un ambiente caratterizzato soltanto da
elementi naturali. Marx in tal senso critica e supera l'idealismo razionale di Hegel e il materialismo di
Feuerbach, elaborando il nocciolo del suo pensiero, il materialismo storico, secondo cui la cultura, cioè le
idee e le forme di conoscenza, si ricavano dall'esperienza umana e non hanno alcuna autonomia
esterna o naturale. Egli utilizza di rado questo termine:
• questione ebraica à rimarca il carattere dinamico delle acquisizioni politiche della cultura a proposito
della conquista dei diritti umani che vengono visti sia come un premio per la lotta contro la casualità
della nascita e contro i privilegi che come il risultato della cultura;
• critica della filosofia del diritto di Hegel à considera parte della cultura l’insieme di condizioni
sociali e politiche che attestano il livello di sviluppo delle forme di governo;
• ideologia tedesca à utilizza il termine cultura in un’accezione antropologica matura analizzando il
rapporto tra dominio di alcuni popoli su altri e lo sviluppo delle forze produttive;
• 18 brumaio di Luigi Bonaparte à in questo passaggio utilizza il termine cultura in stretta
connessione con l’identità di classe. Egli mette, inoltre, in risalto la coscienza come criterio di
distinzione tra la classe in sé, ovvero un raggruppamento sociale oggettivamente dato dalle
condizioni dei rapporti di produzione, e la classe per sé, vista come comunità consapevole

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dell’operare di tali rapporti e cosciente delle pratiche e delle conoscenze utili per ribaltare i rapporti di
forza.
Il contributo di Marx al dibattito sulla cultura viene normalmente estrapolato proprio in relazione al forte
legame con il materialismo storico. Secondo Marx, la sede cognitiva rappresenta una parte dell'intero
processo di sviluppo ed evoluzione della realtà. Per comprendere il suo approccio alla cultura è inoltre
fondamentale la nozione di praxis, ossia la pratica di familiarizzazione con il disordine delle cose che ci
circondano e che implica il bisogno di manipolare e trasformare la realtà stessa. Marx cerca di prevedere
quali siano le condizioni che permettono all'azione sociale degli uomini di sviluppare spontaneamente una
praxis utile per sé stessi, teorizzando l'esistenza della ideologia come sistema di conoscenza imperfetto e
mistificatorio. Il concetto di ideologia diventa così determinante nello studio della cultura nelle società
capitaliste e nell'interpretare le dinamiche culturali. I sistemi di pensiero emergono dalle relazioni sociali
legate al tipo di divisione del lavoro raggiunto. I modi di vita, la cultura di una società sembrano dunque
determinati dalle forze economiche. Secondo Marx i processi di produzione della vita materiale
presentano un carattere fondamentale rispetto ad ogni altra dimensione sociale e culturale. Questo non
significa però che gli aspetti appartenenti alla cultura non siano a loro volta meno importanti. Al contrario,
proprio per via della loro importanza, questi aspetti non possono essere considerati, per Marx, in base al
modo in cui nelle società vengono strutturate la produzione e la distribuzione delle risorse materiali. La
cultura esercita inoltre una funzione importante nell'analisi del cambiamento, come peraltro dimostra uno
dei fattori che Marx riteneva fondamentali per la maturazione della classe operaia: la consapevolezza del
proprio ruolo. Per compiere questo passaggio chiave, infatti, la classe operaia avrebbe dovuto acquisire
una visione precisa dei limiti della forza della propria cultura. Dunque, dal momento che la mobilitazione
rivoluzionaria dipende da alcune specifiche condizioni, tra le quali la maturazione, allora le pratiche, le
norme, i valori e la solidarietà costituiscono un insieme di tratti che oggi verrebbero definiti culturali.
Una cultura pertanto è organizzata attorno agli insiemi di interessi interni alla società, mentre gli interessi
dominanti sono al vertice dell'articolazione del potere. Quest'ultimo, a sua volta, viene normalmente mediato
dal sistema di stratificazione presente nella società, incentrato sulle classi, le religioni e le razze. Marx
sottolinea dunque l'esistenza di una connessione importante tra le idee e il sistema di stratificazione sociale.
Un esempio è costituito dalla religione. Secondo Marx l'influenza che la religione riesce ad esercitare sugli
individui deriva dalla sua capacità di arginare il senso d'insoddisfazione e di disagio nei confronti di
un'esistenza che non
corrisponde mai a quelle che sono le vere aspettative e i veri desideri di un credente. Se però la religione, da
un lato, rafforza positivamente i valori di giustizia, solidarietà e coerenza, dall'altro trasferisce la messa in
pratica di questi valori in un aldilà immaginario, producendo quindi nella realtà sociale immobilismo e
rassegnazione. Nella moderna cultura capitalistica, la scienza e la razionalità, a detta di Marx,
contribuiscono a liberare, almeno in parte, la coscienza collettiva dalle credenze illusionistiche tipiche della
religione. La crescente forza culturale delle nuove forme di sapere, che si sono avute grazie ai processi di
urbanizzazione, alla diffusione della stampa e alla progressiva alfabetizzazione, ha infatti permesso alla
popolazione di svincolarsi dalle visioni religiose e superstiziose e di focalizzarsi sulla realtà e i
comportamenti sociali. I ceti sociali inferiori possono tuttavia essere influenzati da nuove mistificazioni e false
verità, per mezzo questa volta delle ideologie, cioè le idee delle classi dominanti che legittimano o
dissimulano il dominio, facendo leva su una rappresentazione ingannevole della realtà. Dal momento che
il valore delle credenze che hanno natura ideologica producono una visione distorta del mondo, essi devono
essere analizzate rapportate alla realtà materiale dei rapporti sociali. L'obiettivo di Marx in tal senso quello di
svelare la falsità delle rappresentazioni ideologiche della borghesia e del capitalismo che determinano una
falsa coscienza dell'ordine delle cose. L'ideologia non costituisce però soltanto un sistema di
rappresentazione della realtà governato dagli interessi della classe borghese, si tratta piuttosto di un sistema
culturale compatto, un insieme di idee in grado di integrare anche elementi coerenti con il pensiero di altri
gruppi sociali. Le ideologie tendono così a rendere generali interessi particolari e tutte le classi, anche quelle
che non dispongono dei mezzi di produzione, sono egualmente capaci di formulare idee e rappresentazioni
del mondo e di renderle coerenti a quelle degli altri.
L’enfasi di Marx sull’organizzazione dei rapporti di produzione ha fatto sì che per molto tempo abbia
trascurato il fenomeno del consumo come oggetto di analisi. Per Marx il consumo rappresentava un
fenomeno culturale e non soltanto un'appendice della produzione. Aveva inoltre introdotto il concetto di
feticismo delle merci, caratteristico della cultura capitalistica, in riferimento alla personificazione le cose e
alla reificazione delle persone. Nel modo di produzione feudale, o schiavistico, i rapporti sociali tra i soggetti
erano trasparenti e apparivano immediatamente come rapporti personali. Nel modo di produzione
capitalistico i rapporti personali si trasformano dunque in rapporti fra le cose: in questo modo viene nascosta
l'intima essenza della relazione dal momento che gli agenti sociali hanno conoscenza immediata solo delle
apparenze (per esempio il prezzo delle merci o il salario come equivalente dell'attività lavorativa) non
percependo la realtà che si cela dietro di esse.

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Emile Durkheim, il sociale della cultura
Emile Durkheim è stato il primo sociologo a introdurre la sociologia all'interno della comunità accademica,
impegnandosi al tempo stesso a definirla come una disciplina autonoma, distinta dalle altre, in particolare
dalla filosofia e dalla psicologia, poiché è incentrata sui fatti sociali e fondata su basi empiriche.
Durkheim non ha mai fatto uso del vocabolo cultura, se non di rado e quasi incidentalmente. Al centro della
sua teoria è la società, il sociale; egli ha compiuto una vera e propria separazione netta tra sociologia e
psicologia, il cui oggetto di studio primario è l'individuo. La società si tratta infatti di una realtà a sé, una
sostanza sui generis, diversa da quella individuale. Essa, però, in Durkheim appare comunque investita di
cultura: le maniere di agire e di pensare si concretizzano infatti in istituzioni. I fatti sociali si trasformano però
in istituzioni: esistono infatti correnti sociali che non sorgono all'interno delle coscienze individuali ma
all'interno della collettività. Queste correnti sono definite effervescenze collettive, ossia fenomeni di
mobilitazione delle coscienze, di esaltazione degli spiriti che trascinano e trasformano gli individui. Durkheim
rifiuta il metodo tipico degli utilitaristi che fanno risalire l'ordine e la convivenza tra gli individui a un contratto,
a un insieme di scambi tra interessi diversi. L'accordo tra gli interessi è invece possibile soltanto se gli
individui si impegnano nella negoziazione con un certo grado di fiducia. Questa premessa è da lui definita la
qualità precontrattuale del contratto, ossia l'incontro tra volontà diverse che cercano di trovare un punto di
accordo comune.
Anche nel libro Il suicidio (1897), che analizza l'atto di chi si toglie la vita sul piano delle condizioni
esistenziali di circostanze ambientali che lo provocano, Durkheim sottolinea l'importanza della rete di
relazioni all'interno della quale si collocano le persone. Il concetto di unione, cooperazione e solidarietà,
attorno al quale ruota gran parte del lavoro di Durkheim si evidenzia anche quando l'autore espone le sue
considerazioni a favore dei gruppi corporativi. Le corporazioni quali le associazioni professionali e di
mestiere, possono, infatti, fungere da argine rispetto al pericolo più grave che mina le società industriali
avanzate, quello di cadere nell’anomia, ovvero nell’assenza di leggi. La condizione di anomia minaccia
soprattutto l'ambito economico dove la divisione del lavoro diventa sempre più specializzata: quando i
membri della società percepiscono la mancanza di regole chiare, essi entrano in uno stato di confusione e
indeterminatezza molto pericoloso per gli uomini che non sono più in grado di assegnare a sé stessi dei limiti
e dei fini precisi. Questo pericolo potrebbe essere scongiurato se la società politica e lo Stato funzionassero
come istituzioni di aggregazione e di controllo. La distanza tra il mondo del lavoro e queste istituzioni
regolatrici è però troppo grande, occorre pertanto un organo intermedio, più vicino alle persone, che
potrebbe essere costituito per l'appunto dalle associazioni professionali.
Nella sua ultima opera Le forme elementari della vita religiosa, Durkheim afferma che la religione si tratta
di un fatto sociale, una proiezione della coscienza collettiva verso il sacro e il trascendente, e non un fatto
intimo e personale, uno stato interiore e soggettivo racchiuso nella coscienza di un individuo. Attraverso
l’analisi dei diversi elementi che compongono la religione (la distinzione tra sacro e profano, i riti, le
credenze, il culto), Durkheim finisce col mettere in rapporto il rispetto umano per i fenomeni religiosi e il
rispetto umano per la società, osservando come in entrambi i casi il rispetto nasce da un sentimento di
dipendenza verso un essere superiore. Il credente si sente in relazione con un principio sacro mantenendo
comunque vivo in sé il senso di una perpetua dipendenza.
Infatti, come il credente si sente obbligato a partecipare a cerimonie a mostrare devozione, allo stesso modo
i membri della società sono spinti a sottomettersi alle regole e ai sacrifici, senza i quali la vita sociale non
sarebbe possibile. Questa trasformazione delle due entità (o apoteosi), quella sociale quella religiosa, si è
verificata grazie ad una pressione interna, spirituale, la cui efficacia deriva non da una coercizione ma dalla
sua energia psichica, dalla velocità con la quale si propaga tra i diversi membri della comunità. Esiste inoltre
un collegamento tra la pressione emotiva, che il rispetto genera verso le regole della vita sociale, e la
sensazione del divino. L'esperienza emotiva del rispetto fornisce infatti gli uomini l'idea che vi sono potenze
al di fuori di loro dalle quali essi dipendono. Sentono cioè di essere guidati, ma non sanno da chi e
proiettano questo sentimento nelle credenze religiose. ln questo modo viene completata la costruzione
sociale e culturale della religione. Durkheim passa poi a descrivere l'azione energetica sviluppata dalla
religione e dalla società. ln particolare, l'afflusso di energia tipico delle epoche storiche rivoluzionarie e
creative corrisponde ad una attività vitale più intensa e i sentimenti che i cittadini sperimentano in contesti
simili sono così vicini ai sentimenti religiosi al punto da essere confusi con essi: nell'epoca rivoluzionaria la
società è dunque diventata direttamente oggetto di un autentico culto. Allo stesso modo, anche nelle
cerimonie religiose la comunità dei credenti agisce come un eccitante di eccezionale potenza; dalla loro
semplice unione scaturisce, dunque, una specie di elettricità che li trasporta a un grado di straordinaria
esaltazione.
Il collegamento tra la religione e la società è inoltre testimoniato dal fatto che è stata la società a far nascere
nell'animo umano il bisogno di elevarsi al di sopra del mondo dell'esperienza, grazie alla sua capacità di
trascinarlo nella sua sfera d'azione. A proposito di questo nesso, Durkheim si sofferma inoltre su un altro
elemento culturale, i simboli. L'uomo per esprimere a sé stesso le sue idee ha bisogno di fissare le sue
cose materiali che le simboleggiano. Un sentimento collettivo può, infatti, assumere coscienza di sé soltanto

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fissandosi su un oggetto materiale, affinché le coscienze individuali possano comunicare tramite i segni che
comunicano i loro stati interiori. Il simbolo dunque non serve soltanto a chiarire un sentimento, ma è anche
un elemento costitutivo del sentimento stesso. Durkheim non si limita a segnalare la capacità di
comunicazione dei simboli, come nel linguaggio, ma ne sottolinea la forza attiva e creativa: il simbolo,
dunque, non è solo un procedimento di comodo per rendere chiaro un sentimento ma anche un elemento
costitutivo del sentimento stesso. Non è, infine, un’etichetta sovrapposta, ma una parte fondante delle
rappresentazioni e dei sentimenti umani.
Egli si interessa ai simboli anche per il fatto che essi si esprimono solo su un livello esterno, oggettivo;
rappresentano cioè la trascendenza dei fatti sociale rispetto ai fatti individuali. Il simbolo delineato da
Durkheim manca però di una sua componente vitale, il significato.
Infine, come è solito fare Durkheim, il processo di trasmissione culturale agisce per contagio.

Georg Simmel, l’eccesso culturale


Georg Simmel ha prodotto diversi scritti, non tutti collocabili sul piano sociologico, ma che hanno comunque
rilevanza per la sociologia della cultura. La sua produzione copre molti settori della filosofia e delle
cosiddette scienze dello spirito, collegando in una visione unitaria diversi aspetti della cultura, analizzata e
interpretata soprattutto attraverso gli aspetti salienti della vita quotidiana. Simmel, a differenza di altri
precursori della sociologia della cultura, non ha avuto un'influenza immediata e riconosciuta universalmente,
almeno fino agli anni Sessanta. A differenza di Durkheim, Simmel ritiene che la società non possa essere
staccata dalle interazioni sociali. L'intreccio delle merci sociali rappresenta infatti la condizione
fondamentale del tessuto sociale della cultura. Quest'ultima a sua volta non nasce da una identificazione con
un insieme unitario di idee e di norme, di costumi e pratiche; bensì deriva dalla fiducia dei singoli individui nei
confronti dei comportamenti e delle idee delle altre persone. Le relazioni tra gli attori nella società moderna
sono poi garantite dalle istituzioni che hanno il compito di far circolare la fiducia. Queste istituzioni sono il
diritto moderno, il denaro, l'economia di mercato e la moda. Simmel, in linea con Weber, afferma che la
conoscenza scientifica presuppone l'elaborazione la ricomposizione della realtà empirica e sostiene che
alcune categorie conoscitive possono facilitare il confronto con la realtà. La comprensione non può però
avvenire senza la mediazione di forme simboliche e di costrutti mentali. La cultura viene dunque compresa
tra le forme della conoscenza individuale e le forme della conoscenza oggettiva istituzionalizzate nelle
relazioni sociali.
L'idea di cultura si lega al concetto di sociazione, ovvero quel processo attraverso cui un insieme di azioni
sociali reciproche si consolida nel tempo, formando quelle che la sociologia definisce istituzioni. Nella
Germania del suo tempo, a cavallo tra Ottocento e Novecento, le scienze sociali erano considerate alla
stregua di scienze minori, in grado di descrivere ma non di spiegare i fenomeni costitutivi della società
culturale. Costretti a muoversi in questo ambiente culturale poco propenso alla nuova scienza della società,
Simmel e lo stesso Weber affrontarono in maniera analoga la dialettica tra scienze naturali e scienze dello
spirito. Il paradigma dominante a quel tempo si basava sulla distinzione elaborata da Dilthey tra il metodo
d'indagine nomotetico, coerente con le scienze uomini, ovvero la possibilità di puntare a leggi universali e
verificabili, e quello ritenuto più adatto alle scienze storico-sociali, idiografico, orientato a descrivere i
fenomeni che, frutto dell’imprevedibile azione umana, non possono condurre a formulazioni empiriche.
Simmel e Weber accolgono la distinzione tra scienze naturali e scienze dello spirito, proponendo però
una nuova visione: secondo Simmel è possibile procedere attraverso ipotesi che, senza pretendere di
essere assolutamente veritiere, risultano comunque valide fino a prova contraria. A suo parere infatti è
possibile non soltanto descrivere, ma anche comprendere ciò che è specifico, unico e contestuale.
Le forze della modernizzazione non producono, a suo giudizio, un risultato scontato e univoco. Si focalizza
in tal senso sull'ambivalenza dei fenomeni che conducono alla cultura moderna.
Egli ritiene in sostanza che si debba sviluppare la predisposizione umana verso le relazioni sociali che
privilegiano l'autonomia dell'individuo ed è per questo motivo interessato alla capacità della cultura moderna
di favorire questo elemento. Simmel attribuisce inoltre alla natura umana una componente universale relativa
alle relazioni sociali che egli denomina l’insocievole socievolezza: se ciascun individuo dipende dal
complesso insieme di relazioni sociali, dall'altro lato, proprio per via di questa dipendenza, tende a
mantenere una certa distanza nei confronti degli altri individui, in modo da preservare la propria autonomia e
la propria indipendenza utili a controllare il contenuto, la durata, i limiti e gli obiettivi della relazione. Il fatto
che sia possibile sottrarsi ai vincoli, alle norme e alle restrizioni di spazio concesse alla critica delle
conoscenze e delle rappresentazioni dominanti mostra il carattere innovativo delle società industrializzate. ln
questo senso, Simmel è un diagnostico della cultura moderna, concepita non in un’accezione positivista,
razionalista e ingenuamente fiduciosa nel progresso, ma nel senso relativista.
La modernità è dunque legata alla libertà individuale. La libertà non è però intesa come la capacità massima
di azione e di espressione del singolo individuo, in quanto nella economia di mercato questa capacità è
vincolata alle disuguaglianze e alle norme che regolano i diritti e doveri dei cittadini. Simmel si riferisce

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invece alla libertà che ciascun individuo può percepire nei confronti degli obblighi sociali inscritti
precedentemente nelle proprie origini familiari, nei mestieri e nelle relazioni sociali.
La cultura viene rappresentata in due modi:
1. come cultura oggettiva che definisce il mondo delle formazioni culturale e dei loro artefatti
indipendenti dall'esperienza del singolo individuo;
2. come cultura soggettiva artefatti culturali, come stadio finale del processo di acculturazione.
Le considerazioni di Simmel sulla cultura moderna derivano dalla distinzione filosofica tra contenuto e forma.
Il contenuto è tutto ciò che negli individui corrisponde ad impulsi, interessi, scopi, tendenze psicologiche di
energie emotive. Rappresenta dunque il nucleo della vita effettiva del singolo. La forma invece è dovuta alle
interazioni sociali e corrisponde, per Simmel, alla cultura in senso collettivo. La caratteristica principale della
cultura moderna è il crescente divario tra forme e contenuti di vita. Nella società moderna la socievolezza
determina nuove articolazioni, molto diverse dal passato. Infatti, mentre nelle società premoderne gli uomini
vivevano riuniti in un numero limitato di gruppi sociali, poco estesi e le loro interazioni erano organizzate in
cerchie concentriche strettamente collegate tra di loro, nella società moderna al contrario l'individuo fa parte
di più cerchie sociali; la natura delle relazioni, i ruoli ed il potere, anziché essere fissati una volta per tutte,
variano a seconda della cerchia. L’individuo ha dunque la possibilità di entrare e uscire dalle cerchie a
seconda dei suoi interessi, ma è costretto ad affrontare una anonimità caotica, priva di riferimenti suoi ruoli e
i comportamenti da seguire.
Simmel sintetizza gli aspetti dell'epoca moderna nello studio di tre elementi principali:
• denaro, la cui diffusione riflette l’atteggiamento dell’individuo moderno che confronta e calcola beni e
servizi. Il denaro è definito, inoltre, come mezzo universale di scambio;
• moda, che rappresenta l'individualismo che spinge a cercare continue forme di distinzione,
consentendo di imitare gli stili dei gruppi sociali più elevati in una maniera che non consentita in
passato. Questa tende a innovare il mondo delle idee e delle cose;
• metropoli, ovvero la città cui sia riconosciuta una particolare importanza nell’ambito sia geografico che
culturale.
Simmel aggiunge poi tre considerazioni:
1. l'espansione dell'economia capitalistica procede di pari passo con lo sviluppo di un tipo di fiducia
astratta, funzionale alle relazioni sociali;
2. esiste un nesso tra l'economia monetaria e la forma della democratizzazione, non tanto politica
quanto culturale. Simmel, a tal proposito, parla di libertà negativa consentita dal denaro, piuttosto
che di libertà di fare qualcosa;
3. principio di indifferenza verso le tradizionali gerarchie dei valori culturali. I valori non si fondono più sul
riconoscimento etico, collettivo e gerarchico dei rapporti sociali e diventano invece superflui; la
cultura individualistica incoraggia infatti a personalizzare i valori di valori, per cui il denaro trasforma
i valori in una questione di proprietà privata.
Poiché è collegata all’economia monetaria, la moda guadagna in termini di velocità: ha radici profonde
nell’esperienza umana, ma soltanto nell’era moderna acquisisce i caratteri del cambiamento continuo,
secondo una dinamica che le è propria.
Nel suo saggio La moda (1895) Simmel descrive la velocità dei consumi, il ricambio degli oggetti in voga, le
infinite possibilità di combinazione, innovazione e imitazione, le capacità di interpretazione e di scelta da
parte dell’individuo moderno. La moda non viene analizzata però soltanto nell'abbigliamento, ma anche nello
stile, nel linguaggio, nell'arte e in tutti gli ambiti della cultura. La moda dipende da due movimenti simultanei:
da un lato l’imitazione, attraverso la quale l’individuo cerca dio partecipare a un modello universale, a una
comunità immaginaria, a un gruppo sociale; dall’altro, l’esigenza di trovare segni distintivi attraverso i quali
differenziarsi da ciò che è troppo comune e di rango inferiore.
Nelle società semplici la moda era caratterizzata da cicli di variazione molto lenti e veniva dettata da una
innovazione esterna alla società stessa, per cui il rituale e la ripetizione avevano la meglio sul cambiamento
e sulle mode passeggere. ln seguito allo sviluppo industriale e all'affermazione di principi democratici, le
classi superiori cercano di trovare i segni che le distinguano da quelle inferiori con un ritmo molto più serrato.
Il ciclo di maturazione di un prodotto, di un particolare stile di abbigliamento, segue l'andamento di classe
della moda. L'innovazione viene prodotta inizialmente in una cerchia ristretta, tra le classi sociali più elevate;
si estende poi progressivamente a quelle intermedie e infine, grazie alle capacità produttive dell'industria di
massa, giunge alla portata dei ceti inferiori. A questo punto gli strati superiori tendono ad abbandonarla in
quanto essa è diventata ormai accessibile a tutti.
Secondo Simmel la moda svolge una funzione indipendente dal concetto di utilità: nelle mode infatti non vi è
alcuna convenienza pratica, poiché le sue innovazioni ed il ritmo avvengono a un ritmo superiore al ricambio
delle tecniche e delle tecnologie sviluppate delle esigenze pratiche.
Le classi inferiori rincorrono le nuove mode al fine di trovare una prova valida della loro appartenenza
sociale. Essere alla moda rappresenta un processo della modernità che consente di annullare le differenze e

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di raggiungere una condizione paritaria. Si tratta però di un processo illusorio dal momento che si annullano
soltanto le differenze estetiche, di stile, e non quelle reali, materiali e di potere.
Nella sua opera La metropoli e la vita dello spirito (1903), Simmel riflette sulle condizioni di vita e sulla
cultura dell'uomo moderno, sullo sfondo di due grandi metropoli, Berlino, che aveva registrato una grande
crescita nel giro di pochi decenni, e Parigi, capitale mondiale, cosmopolita e moderna. Il punto di partenza è
l’intelletto, una facoltà essenzialmente logico-combinatoria, orientata alla calcolabilità. Proprio per questo
motivo l'intelletto dell'uomo moderno tende a ignorare le differenze qualitative tra fenomeni e a evitare ogni
giudizio di valore.
Nella vita metropolitana, economia monetaria e dominio dell'intelletto risultano corrispondenti tra di loro. Il
cittadino della metropoli infatti non si fa scrupoli nelle sue relazioni con gli altri, dal momento che buona parte
di queste relazioni sono mediate dal denaro.
Per Simmel l'esperienza della modernità rappresenta l'habitat dell'individualismo, il contesto culturale dove vi
è la massima libertà di movimento e di espressione. Nelle metropoli le persone manifestano tendenze
ambivalenti: da un lato, la loro necessità di autodifesa si traduce nella differenza nei confronti dell’esterno e
degli altri, nell’abitudine a mostrarsi indifferenti alle sollecitazioni, tipica del comportamento blasé; dall’altra
parte l’ansia di cogliere tutte le opportunità e l’obbligo di essere al passo con i tempo alimentano un
atteggiamento nevrastenico.
Nel mondo moderno la cultura oggettiva avanza a un ritmo e a una diffusione insostenibile per quella
soggettiva. Simmel esprime questa preoccupazione nel saggio Concetto e tragedia della cultura (1918)
dove riprende il concetto di eccedenza culturale. I moderni mezzi di comunicazione che hanno reso la
società tedesca un grande palcoscenico culturale contribuiscono a trasmettere uno sguardo sempre più
razionale e oggettivo che però non riesce a riassumere la complessità del mondo; essi inoltre annullano gli
spazi per l'affermazione soggettiva. Simmel avverte una sproporzione tra la pienezza oggettiva del
progresso tecnico-scientifico, delle occasioni di comodità proprie della cultura moderna e le esigenze
soggettive di riconoscimento, intensità emotiva e spirito personale che rendono unica l’esperienza dei
singoli.
I contenuti in base ai quali l'individuo si definisce unità autonoma derivano da fonti esterne alla sua
soggettività. Queste fonti fanno parte di un ordine sociale, etico, normativo e tecnologico troppo complesso e
astratto per costituire una valida guida l'esperienza soggettiva. Quest'eccedenza culturale può essere evitata
solo in rari casi, quando cioè l'individuo si è arricchito tramite i prodotti della cultura oggettiva ma allo stesso
tempo li ha resi parte integrante della propria soggettività. Simmel sostiene che nella società moderna i
valori d'uso sono stati progressivamente sostituiti dai valori di scambio. A questo proposito è impossibile
rinvenire dei tratti in comune tra Simmel e l'alienazione e mercificazione dei rapporti sociali di Marx, anche
se vi sono comunque delle differenze.
Simmel infatti è interessato non tanto al processo di produzione e al sistema industriale, quanto soprattutto
alle conseguenze indirette determinate da tale processo. Inoltre, mentre l'alienazione marxiana riguarda i
rapporti di classe, quella di Simmel riguarda i concetti e le idee e si riferisce all'uomo moderno nella sua
totalità. Per Simmel trasferisce l'alienazione sul piano più generale delle contraddizioni tra cultura oggettiva e
cultura soggettiva. A rendere le forme culturali separate dell'esperienza del soggetto è il feticismo del
metodo, in analogia con il vocabolario marxiano, ossia la tendenza della modernità a scambiare gli
strumenti della conoscenza con gli scopi della conoscenza.
Secondo Simmel, infine, la produzione di forme di conoscenza e i l loro accumularsi tormenta l'individuo
moderno che non riesce a districarsi in questa eccedenza culturale, sentendosi inadeguato di fronte alla
vastità di scelte che gli si presentano.

Max Weber, come opera la cultura


Le prime formulazioni di Max Weber sul concetto di cultura riguardano la sua estensione, il suo spazio: la
cultura viene cioè rappresentata come una parte finita del numero infinito dei fenomeni della società. Vi è in
questo senso uno scarto tra noi e il tutto: il tutto è inconoscibile, infinito e fluisce ininterrottamente, e noi
possiamo conoscerne solamente una parte, attribuendole un senso. Weber considera allo stesso tempo gli
uomini esseri culturali, cioè dotati della capacità e della volontà di assumere una posizione nei confronti del
mondo e di attribuirle un significato. L'uomo attribuisce un senso soltanto a una sezione finita di realtà in
quanto essa è connessa con idee di valore. Un valore che non necessariamente deve essere moralmente
positivo: è infatti il senso che chi porta a valutare fenomeni della coesistenza umana e ad assumere nei loro
confronti una posizione positiva o negativa.
Il fatto che il termine valore non implichi di per sé un giudizio positivo era stato peraltro già sottolineato da
Weber nel definire le tipologie dell'azione sociale, una delle quali era l'azione orientata, appunto, al valore e
non allo scopo. La cultura inoltre si tratta di un concetto di valore dal punto di vista soggettivo, umano,
all'interno della quale è collocato a selezionare e ad attribuire un valore culturale. L'oggetto di studio proprio
della sociologia non è la realtà in senso astratto ma l'agire sociale: questo secondo termine è importante

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per Weber in quanto indica una dinamica interindividuale. L’agire del singolo, dunque, non opera nel vuoto
ma in rapporto all’agire degli altri.
Weber rifiuta inoltre di circoscrivere l'intero universo dei valori umani all'interno di un quadro unico e
definitivo e di organizzare la scienza della cultura una volta per sempre, perché la cultura è al contrario
mutevole, protesa verso il futuro, così come sono mutevoli e sempre nuovi i problemi culturali che si
presentano all'uomo.
L'attenzione di Weber per le componenti culturali dell'ordinamento sociale si riflette anche nella distinzione
tra classi e ceti da lui introdotta. La sua definizione di classe si differenzia però da quella di Marx in quanto
egli pone in evidenza le forze del mercato rispetto al fattore produzione, messo invece in risalto da Marx.
Attorno alle forze di mercato si dispongono poi diversi strati sociali, non solo i capitalisti e i lavoratori, ma
anche le classi intermedie. Gli interessi di classe inoltre, per Weber, non sono statici ma possono mutare,
disperdersi o ricostituirsi.
Dopo aver definito le classi sociali, Weber introduce i ceti. Inizialmente si occupa dei ceti vicini alle
corporazioni, al feudalesimo, ai privilegi delle città e alle comunità politiche cittadine di prima formazione;
successivamente invece passa a interpretarli in un'ottica contemporanea. A caratterizzare i ceti
contemporanei sono lo stile di vita, l'onore, il prestigio, l'educazione e la reputazione. Essi inoltre hanno
come denominatore caratterizzante il consumo e non la produzione. Le componenti dinamiche dell'agire
sociale emergono anche nel lavoro più importante di Weber del 1922, che si apre con una serie di statistiche
che dimostrano come la produttività lavorativa degli operai protestanti sia di gran lunga superiore a quella
dei cattolici e come i genitori protestanti tendano a istruire i propri figli in istituti tecnici che gli preparano a
lavori industriali, mentre i genitori cattolici tendono a iscrivere i loro figli presso scuole umanistiche. A parte
questi dati statistici, Weber cerca di spiegare il nesso tra il senso degli affari, che risulta altamente sviluppato
nei protestanti, e la loro religiosità molto intensa, esplorando le caratteristiche e differenze del modo di
pensiero cattolico e protestante. Prima di tutto però chiarisce cosa si intenda per spirito del capitalismo.
Weber premette che un oggetto storico può essere analizzato da diversi punti di vista e che a seconda del
punto di vista adottato la ricerca può avere risultati diversi. Il suo intento però non è quello di incasellare la
realtà all'interno di un concetto astratto; intende piuttosto inserirla in un nesso concreto e analizzarla come
un fatto individuale. A questo proposito riprende le massime per la vita pratica elaborate da Benjamin
Franklin, tra le quali è presente quella che afferma che l’uomo non sarà mai ricco abbastanza: l'uomo
d'affari deve dunque rifiutare il consiglio di smettere di lavorare al termine della sua vita perché ha già
guadagnato abbastanza, ma deve continuare a guadagnare fino a quanto possibile. Altre massime
analizzate da Weber sono, per esempio, la prima, che afferma che il tempo è denaro, oppure l’ultima che
riguarda l’ammutinamento a chi ha perduto cinque scellini senza accorgersene.
Le massime di Franklin contengono in nuce lo spirito del capitalismo, ossia la dedizione al lavoro vista come
dovere e l'idea di guadagno vista come scopo della vita e non come mero mezzo per soddisfare i propri
bisogni.
Questo atteggiamento non è però il risultato del capitalismo; ha infatti un'origine più antica, risalente al
concetto di vocazione messo a punto dalla riforma protestante, nel XVI secolo, prima ad opera di Lutero, poi
di Calvino, che ha assegnato al lavoro quotidiano un significato religioso; la concezione del lavoro come
scopo a sé stesso non è qualcosa che esiste già in natura, innato, ma è culturalmente appreso. Questa tesi
è in ampio contrasto con la tesi di Marx: non è stato un afflusso di denaro a generare a rivoluzione
capitalistica, ma il risveglio di uno spirito che ha trasformato in una vocazione e in un obbligo l’attività di
lavoro quotidiana.
La spinta verso il lavoro ha poi trovato la sua forma più congeniale nell'impresa capitalistica e quest'ultima, a
sua volta, ha ricevuto da quella un più adeguato impulso spirituale. Religione e spirito capitalista sono
dunque in rapporto non di causa ed effetto ma in un rapporto di "affinità elettiva". Questo tipo di rapporto
allude a un duplice aspetto delle idee: esse infatti da un lato sono scelte dall'individuo (elettive) e dall'altro
sono convenienti ai suoi obiettivi (affini). Nel descrivere i diversi modi di vita dell'imprenditore protestante del
XVI e XVII secolo e dell'imprenditore tessile precapitalistico, caratterizzato da ritmi tranquilli e dalla tolleranza
verso i concorrenti, Weber individua anche due modalità d'azione, due differenti tipologie dell'agire sociale:
quella orientata alla tradizione e agli affetti e quella orientata allo scopo.
Perché lavorare instancabilmente è un dettato imposto dalla vocazione? Interrogando il pensiero
religioso protestante, Weber, trova la risposta nei fondamenti dogmatici della dottrina calvinista, in
particolare nella teoria della predestinazione, secondo cui la grazia è determinata soltanto dalla scelta di
Dio e non può essere acquisita con nessuna azione umana; questo perché Dio, fin dalla creazione del
mondo, ha scelto come eletti un determinato numero di persone, condannando tutte le altre alla dannazione.
È attraverso la coniugazione di uno stato d’animo con un fare pratico che la certezza della grazia può essere
raggiunta dal credente: è nel controllo sistematico di sé stesso e la dedizione incessante al lavoro, che il
credente può acquisirne la certezza.
L’espressione ascesi laica racchiude tutta la polemica che la riforma protestante rivolge alla chiesa cattolica
e la sua moralità.

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La concezione calvinista ha inoltre trasformato tutta la sfera relazionale. I rapporti di amicizia dovevano
infatti essere scoraggiati e comunque non superare determinati limiti, questo perché Calvino predicava un
amore esclusivo verso Dio e in tal senso non era tollerato l'attaccamento verso le creature terrene. Anche la
concezione del tempo era cambiata: esso infatti veniva scandito in sequenze a seconda delle diverse
occupazioni. A contare inoltre non era il passato ma il presente volto al futuro, un presente che doveva
essere attivo e laborioso; non era quindi ammesso perdere e sprecare il proprio tempo in conversazioni
oziose o addirittura nel riposo. Veniva poi condannato il piacere, la sensualità e il corpo in quanto tutto ciò
che era umano non aveva valore. Il denaro guadagnato attraverso il lavoro doveva inoltre essere utilizzato
per cose necessarie e non per il consumo fine a sé stesso.
ln questo modo veniva di fatto incoraggiato il risparmio, che a sua volta permetteva la formazione del
capitale.

4. La cultura nel sistema dl Parsons


La cooperazione tra sociologia e antropologia nel delineare il concetto di cultura trova testimonianza durante
gli anni Quaranta e Cinquanta nella collaborazione di Parsons con gli antropologi Alfred Kroeber e Clyde
Kluckhohn. Proprio in questi anni, attraverso una riflessione comune, si stabilisce inoltre una linea di
demarcazione tra il concetto di società e il concetto di cultura.
Parsons e Kroeber nel 1958 giungono entrambi alla conclusione che nella cultura si possano individuare i
modelli creati e trasmessi di valori, idee e altri sistemi simbolico significativi, mentre nella società si possa
individuare il sistema relazionale di interazione tra individui e collettività. Società e cultura appartengono
dunque a due ordini analiticamente distinti di componenti degli stessi fenomeni concreti, per cui nessuno dei
due può essere ridotto ai termini dell'altro.
A partire da questi anni, l'obiettivo di Parsons è quello di costruire un quadro concettuale della sociologia
articolato e sistematico, tale da legittimarla come una scienza sociale autonoma ed a collocarla all'interno di
un insieme di discipline scientifiche riconosciute. Strutturalmente la sociologia segue la suddivisione in tre
sistemi (società, cultura e personalità), a cui corrispondono le discipline sociali fondamentali (sociologia,
antropologia e psicologia), e il cui legame è posto in evidenza attraverso la sua teoria generale dell'azione.
Parsons cerca dunque di dimostrare in che modo la teoria generale dell'azione si articola nel funzionamento
dei tre sistemi della società e in che modo può avvenire il suo equilibrio strutturale attraverso l'integrazione
tra le parti.
Parsons, in particolare, dà molta importanza alla sfera della cultura. Una delle sue caratteristiche più rilevanti
è la sua trasferibilità: la cultura, infatti, è intrinsecamente trasmissibile da un sistema d'azione ad un altro
poiché è costituita da modalità di orientamento e di azione. Viene dunque sottolineata la grande capacità di
diffusione della cultura, cioè la sua capacità di transitare da una personalità all'altra, attraverso la
socializzazione, ed espandersi da un sistema all'altro mediante il passaggio dei flussi di informazione, dei
contatti, dei processi di imitazione e competizione. Oltre alla trasmissibilità, Parsons sottolinea un altro
punto: assicurare cioè che l'orientamento dei valori sia designato come motore trainante della
cultura. Tra tutti gli elementi che formano la cultura (idee, convinzioni, norme, simboli espressivi), quello che
riesce a plasmare il comportamento umano con maggior vigore e con conseguenze più significative è infatti
proprio l'insieme dei valori.
Come peraltro afferma Kluckhohn in un passaggio dello stesso testo del 1951, il valore viene visto come la
concezione del desiderabile, implicita o esplicita, di un individuo o di un gruppo, in grado di condizionare la
selezione tra i modi, i mezzi e fini disponibili dell'azione. Il valore non indica dunque l'oggetto dell'interesse,
bensì il criterio della valutazione del desiderato e del desiderabile. Per Parsons il primato dei valori
rappresenta in questo senso un presupposto vincolante della teoria dell'azione dal momento che essi
costituiscono il punto cruciale di articolazione tra la cultura e la struttura della personalità e dei sistemi
sociali.
Il comportamento umano, interagendo con i valori, incontra però alcuni problemi di fondo. ln ogni
determinata situazione, infatti, l'attore deve fare i conti con una serie di dilemmi fondamentali, una serie di
scelte che deve fare prima che la situazione acquisti per lui un significato preciso. L'attore deve in particolare
compiere cinque specifiche scelte dicotomiche che Parsons definisce variabili strutturali. Le coppie di
variabili strutturali formano insieme un cerchio a 3600, all'interno del quale si posizionano tutte le altre scelte
alternative davanti alle quali gli essere umani sono tenuti a prendere posizione.
La prima coppia presenta una biforcazione tra la gratificazione degli impulsi e autodisciplina. Nei casi in
cui un attore si trovi in una situazione in cui può sia assecondare i propri impulsi che disciplinarli, egli deve
scegliere una delle due alternative: permettere la gratificazione immediata oppure ragionare e dominare gli
impulsi. La seconda coppia o dilemma riguarda invece orientamento verso il sé o verso la collettività. La
situazione è molto simile alla precedente, a parte
il fatto che in questo caso ad essere in gioco non è il rapporto dell'attore con sé stesso, bensì con i propri
interessi personali o con quelli della collettività. Gli altri tre dilemmi riguardano invece rispettivamente i valori
di universalismo o particolarismo, di ascrizione o prestazione, di specificità o diffusione.

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Se si tratta di società moderne, queste si sviluppano nella direzione di opzioni precise (ovvero
l'universalismo, la prestazione, la specificità) rispetto a quei dilemmi, questo perché i valori opposti, quali il
particolarismo, approvazione da configurazioni sociali meno avanzate e differenziate. Per questo motivo è
importante per Parsons affermare il ruolo cruciale che le variabili strutturali svolgono nel sistema sociale: in
quanto portatrici di valori essenziali, esse stabiliscono tipi alternativi di relazioni sociali, tipi diversi di
organizzazione, così come ethos sociali diversi.
Nella lettura e interpretazione del concetto di cultura di Parsons rimangono però irrisolti due nodi. Il primo
consiste nell'accusa riguarda l'eccesso di coerenza: Parsons proietterebbe cioè a torto una sfera culturale
integrata e armoniosa nello stesso modo in cui proietta un sistema sociale nel suo complesso integrato.
A questo proposito in più occasioni nel saggio fondativo Values, Motives, ad Systems of Action (Parsons,
Shils, 1951) la cultura viene definita come una costellazione di elementi molto complessa e
frammentaria. Secondo Parsons, infatti, non esiste una cultura perfettamente integrata; inoltre aggiunge
come la natura e le origini della non integrazione dei modelli culturali possano rivestire altrettanta importanza
per la teoria dell'azione quanto la stessa integrazione. Egli è consapevole che il dilemma dei sistemi sociali
consiste nel fatto che i sistemi possono esistere soltanto con dei valori istituzionalizzati, ma che d'altro canto
sono tenuti anche ad accettare compromessi e a tollerare molte azioni scorrette dal punto di vista dei valori
dominanti: proprio in questo paradosso si trova la fonte principale di tensione e instabilità dei sistemi sociali.
Tensione e instabilità sono pertanto previste nel processo sociale ed è proprio questa situazione, dal punto
di vista teorico, a costituire la ragione principale che spinge a non considerare uguali i problemi
dell'integrazione dei sistemi di valore e quelli dei sistemi sociali.
Il secondo nodo da sciogliere riguarda invece il rapporto tra cultura e azione. Parsons nella sua teoria
dell'azione non riconosce alla cultura un ruolo attivo, bensì un ruolo di complemento: infatti afferma come,
nonostante esista come corpo di artefatti e come sistema di simboli, la cultura non sia organizzata come un
sistema di azione e pertanto si trovi su un piano diverso da quello della personalità e dei sistemi sociali. La
riprova di questa affermazione si ha nello statuto previsto per la cultura dei quattro sottosistemi dell'azione

sociale, ciascuno dei quali offre al funzionamento dell'insieme l'adattamento, il conseguimento degli scopi o
l'integrazione, mentre il funzionamento della cultura è costituito dalla latenza.

Il termine latenza, di per sé, indica proprio una collocazione di sottofondo, di secondo piano, dove la cultura
tende a conservare i modelli, a orientare ma non ad agire. ln base a quanto affermato da Parsons, dunque, i
modelli culturali operano nel retroterra dell'azione rimanendo esterni ad essa.
L'impressione, però, è che rimangano piuttosto sottintesi, considerando l'equiparazione che Parsons opera
tra culture sui prodotti, gli oggetti, gli artefatti, i simboli i quali presuppongono la pratica, il fare, ma vengono
tenuti separati dal sistema dell'azione.
Vi è infine un'altra ambiguità che compare proprio a partire dalla comunicazione introduttiva del testo del
1951, dove viene presentato in nuce il legame più elementare del sistema sociale, quello tra ego e alter. Il
messaggio che è quindi ad altra può ricevere una risposta di consenso di dissenso. Quando gli invii e le
risposte si ripetono utilizzando gli stessi simboli, sia ego che alter sono consapevoli del fatto che stanno
entrambi assentendo o dissentendo da un sistema simbolico condiviso. Poiché un sistema simbolico è del
tutto ingranato nel cuore dell'azione stessa, sia di ego che di alter, i simboli della comunicazione indirizzano
lo stesso modello d'orientamento per tutti e due.
Ego e alter, dunque, si sono messi d'accordo su uno specifico modo di comunicare, hanno così gettato un
ponte di tipo culturale. Un altro indizio si ha nel termine astratto col quale gli autori del testo indicano una
prestazione allargata dell'interpersonalizzazione; in realtà però il processo sottostante che viene descritto
attraverso questo termine si tratta di un processo molto concreto.
Uno stesso orientamento all'azione può infatti presentarsi non solo nella stessa personalità in differenti
momenti ma anche in sistemi di personalità differenti.

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5. La svolta culturale
La proposta teorica di Parsons e la sua opera hanno goduto per molto tempo di ampio prestigio sulla scena
accademica americana e in generale in tutto il panorama delle scienze sociali. Negli anni Quaranta e
Cinquanta l’egemonia di Parsons sulla sociologia americana si è poi rafforzata ulteriormente, grazie a una
produzione teorica che si è mantenuta costante anche negli anni successivi. Nel frattempo, però, lo scenario
sociale era mutato profondamente. Infatti, dopo la Seconda guerra mondiale e l'immediato dopoguerra,
caratterizzato dall'atmosfera della guerra fredda, dall'espansione dei sobborghi urbani e dal boom
economico, negli anni Sessanta si hanno fenomeni politico-culturali che, attraverso manifestazioni aperte di
dissenso e attraverso i nuovi movimenti sociali, finiscono col turbare lo schema strutturale-funzionalista. La
nascita dei nuovi movimenti traccia in particolare uno spartiacque nel modo di fare e di concepire la politica
non solo nella società americana di questi anni, ma in tutte quelle occidentali. Questi movimenti si sono
caratterizzati per il fatto di mettere in moto forme di azione collettiva non istituzionali. Essi infatti non si
richiamano a partiti politici e reclutano i loro simpatizzanti al di fuori dei canali convenzionali della
rappresentanza. Il loro scopo è quello di attirare l'attenzione pubblica sulle questioni irrisolte della giustizia
sociale e promuovere un fronte di rivendicazioni autonomo e indipendente.
ln questo nuovo contesto sociale e culturale si distinguono due importanti aspetti: il primo è relativo alla
comparsa sulla scena di nuovi attori e nuovi temi e alla circolazione di iniziative collettive e
orientamenti politici inediti. Come diretta conseguenza la cultura politica cambia e le istituzioni si
modificano.
Un secondo aspetto riguarda invece la ricaduta sulla cultura come comunità scientifica, sulle sue
pratiche, sul suo linguaggio e sulla cultura come senso comune. A partire da questo momento si forma
infatti un nuovo universo concettuale. Movimenti e gruppi di protesta si caratterizzano per mezzo della
rottura con il codice culturale dominante, mentre i codici culturali tradizionali vengono riformulati e capovolti
nei loro significati.
Oggetto di studio della sociologia diventano ora le risorse culturali con cui o gruppi mettono in circolazione i
loro nuovi contenuti, ovvero: l'interazione faccia a faccia, la presa di coscienza, la trasgressione, la
comunicazione persuasiva, l'ironia, l'invenzione di nuovi simboli e di nuovi slogan. E invece attraverso la
mobilitazione e all'interazione condivisa che le azioni collettive giungono alla formazione di un sentimento
collettivo, il sentimento della noi. Questo sentimento, come criterio di identificazione, permette di
comprendere anche l'importanza che il tema dell'identità riveste nell'evoluzione temporale dei movimenti: gli
attori entrano infatti in contrasto con l'ambiente sociale per affermare una identità che rivendicano come
propria e che viene negata dai loro oppositori. I nuovi movimenti hanno inoltre contribuito a rimescolare il
senso comune. Hanno infatti messo in discussione fatti e nozioni precedentemente considerati naturali,
come la subordinazione dei giovani agli adulti, la superiorità della razza bianca, l'inferiorità delle donne,
polemizzando su tutto ciò che veniva considerato ovvio. Essi inoltre hanno anche favorito l'articolazione di
nuovi pensieri, frasi e parole. Ad esempio il movimento femminista ha oggi messo in uso nuove frasi e nuovi
vocaboli che hanno iniziato a far parte del senso comune accanto ai termini già esistenti. A cambiare sono
inoltre stati i valori. Da una parte, si sono presentati i valori cardine della sociologia, quali la solidarietà e
l'individualismo; si sono inoltre conservati i valori religiosi, anche se si sono trasformati, ma allo stesso tempo
sono emersi anche valori nuovi come frutto dei movimenti femministi e dei diritti civili, e la libertà degli
orientamenti sessuali. Si afferma inoltre ora un'attenzione maggiore ai soggetti concreti, gli attori come
persone, in quanto sono proprio essi ad aver manifestato la loro volontà e i loro desideri. Si assiste così alla
caduta dei tabù, delle inibizioni, mentre si assiste alla circolazione di pensieri prima mai espressi che
determinano una vera e propria svolta culturale in campo sociologico, introducendo nuove domande, nuove
formule e nuove ipotesi. Una volta cessate le tensioni politiche e stabilizzato ormai il cambiamento delle
istituzioni nella vita quotidiana, si avvertono nuovi stimoli che producono inevitabili mutamenti nei modelli
culturali.
Nelle società occidentali inoltre l'allargamento degli orizzonti politici geografici si intreccia con un
allargamento dell'orizzonte esistenziale. Si registra così un pluralismo dei valori che genera però anche un
effetto di disorientamento, derivato proprio dalla sovrabbondanza delle opzioni culturali disponibili, delle
chances e delle prospettive vitali.

6. I Cultural Studies britannici, i Cultural Studies americani


ln Gran Bretagna
Il Centro per gli studi culturali contemporanei è stato fondato nel 1964 presso l'università di Birmingham da
Richard Hoggart e da un piccolo gruppo di collaboratori. Negli anni successivi si sono poi aggregati altri
studiosi e ricercatori che condividevano tutti la finalità principale del centro: quella cioè di trasmettere una
visione della cultura come un insieme delle pratiche attraverso le quali gli essere umani rispondono alle
condizioni della loro esistenza. Hoggart fondò inizialmente questo centro per dare un seguito al suo lavoro
intrapreso con il libro The Uses of Literacy nel 1957, dove analizzava in maniera molto originale la classe
operaia inglese tra le due guerre mondiali, e per promuovere nuove ricerche orientate verso tematiche

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analoghe. Attraverso il Centro è emerso come la cultura fosse qualcosa di interno al vissuto, all'esperienza,
che si sedimentava giorno dopo giorno nella produzione e nella riproduzione del ciclo vitale. L'esperienza
vissuta ha costituito pertanto la fonte di alimentazione per le analisi e le ricerche del Centro, mentre la
struttura dei sentimenti concentrava il polo della soggettività individuale collettiva all'interno di
quell'esperienza.
All'inizio i Cultural Studies britannici hanno ricavato concetti metodi di ricerca soprattutto dagli studi letterari e
dalle scienze sociali, mentre successivamente hanno tratto spunto anche da alcune correnti francesi quali lo
strutturalismo di Lévi-Strauss, il post strutturalismo di Foucault e il decostruzionismo di Derrida. Negli anni
Settanta la maggior parte degli studi effettuati dalla scuola di Birmingham verteva sulle inchieste e le analisi
delle subculture giovanili. Il processo di americanizzazione aveva nel frattempo turbato il mondo inizialmente
coeso dei ceti proletari inglesi fino al punto da trasformare perfino il loro habitat, i loro quartieri e luoghi di
ritrovo.
A partire da questo momento la popular culture diventa uno dei principali campi di analisi dei ricercatori
inglesi. Stuart Hall afferma in particolare che non esiste una cultura popolare pura e autentica da proteggere
a tutti i costi, bensì esiste uno scambio tra le proposte dell'industria culturale e le risposte che il pubblico
elabora come feedback. Il pubblico non è dunque uno schermo bianco sul quale è possibile esprimere
qualsiasi messaggio. Secondo Hall, inoltre, quando il pubblico, la massa, accetta la trivialità del giornalismo
tipico dei tabloid è perché evidentemente la comunicazione da essi mediata evoca una sensibilità popolare
verso le
tragedie della vita, i suoi misteri, le sue congiunture comiche o drammatiche.
Scrive ancora Hall che la cultura popolare si allarga, si espande e si impone come la dominante nel mondo
che la circonda; la contrapposizione, però, non è mai netta e si costituisce come lo scenario della
mercificazione ed entra pericolosamente nei circuiti della tecnologia dominante, del potere e del capitale.
Infine si estrinseca determinando un movimento di contenimento e di resistenza. La resistenza, in
particolare, è una delle nozioni maggiormente ricorrenti nei Cultural Studies. Sul piano astratto per
resistenza si intende una non accettazione pacifica delle pressioni culturali e sociali, un rifiuto delle forme
consuete. Sul piano empirico, invece, la resistenza comprende diverse pratiche come la disobbedienza
faccia a faccia con le forze dell'ordine, la difesa fisica di un territorio di residenza, la segnalazione di protesta
attraverso gesti rituali simbolici e l'ostentazione della propria diversità per mezzo degli oggetti usati, del
gergo o del comportamento adoperati.
Una ricerca condotta da Paul Willis ha rappresentato ad esempio la vicenda di una scuola secondaria nel
centro dell'Inghilterra, dove un gruppo di giovani studenti proletari ha opposto una dura e accanita resistenza
nei confronti dello studio. Questa loro ostilità verso l'ambiente della scuola e gli insegnanti conduce di fatto il
gruppo di oppositori lontano dal successo educativo e al proseguimento degli studi; Willis elogia però la
volontà di resistenza di questi ragazzi, leggendo nella loro ribellione una profonda critica dell'ideologia
individualistica predominante nella società. Non tutti gli studiosi dei Cultural Studies sono però favorevoli al
fenomeno della resistenza, dal momento che priva nei fatti il ragazzo trasgressivo appartenente alla classe
lavoratrice della possibilità di ottenere una carriera subculturale di successo.
Una diversa fonte di resistenza è poi quella ha come linea guida il modello encoding-decoding, ovvero
codificare o decodificare, elaborato da Hall, illustra il fitto dialogo che si dipana fra i comunicatori dei mezzi
di informazione di massa e la loro audience. L’approccio proposto oggi dai mezzi di comunicazione prevede
modalità di risposta notevolmente diversificate. La decodifica del discorso infatti può dar luogo a un
allineamento completo al codice trasmesso e corrispondere a un posizionamento egemonico dominante,
oppure può dar luogo ad una negoziazione, quando chi riceve sceglie di contrattare con i propri valori e le
proprie regole il significato trasmesso. La decodifica può poi essere oppositiva o aberrante quando il
contenuto del messaggio viene rifiutato o frainteso. Dopo il 1980 emergono nuove tipologie sociali quali le
minoranze etniche e il genere femminile che però cominciano a interessare i Cultural Studies soltanto in un
secondo momento, nonostante essi avessero come obiettivo primario quello di far emergere le categorie
marginali e i ceti subalterni. Il centro di Birmingham annoverava peraltro tra i collaboratori, sin dall'inizio,
esponenti del genere femminile e della minoranza nera, i quali però avevano sottaciuto per anni le questioni
riguardanti la propria identità e il proprio statuto sociale.

ln America
Agli inizi degli anni Ottanta, i Cultural Studies sono approdati in America, spostando il loro centro di
interesse sul genere e sulla sessualità, sulle esperienze dei singoli piuttosto che sulle dinamiche dei gruppi
sociali, sulle divisioni razziali piuttosto che su quelle di classe. La continuità con la Scuola di Birmingham è
invece mantenuta grazie all'adozione dei concetti di egemonia, resistenza culturale e codifica e decodifica.
I Cultural Studies americani si differenziano comunque da quelli inglesi sotto molteplici aspetti: essi infatti
privilegiano l'analisi testuale, hanno un approccio di tipo decostruzionista e assegnano un ruolo centrale,
nelle diagnosi del rapporto tra potere e cultura, alle tensioni tra soggetto, mezzi di comunicazione di massa e
identità. La differenza sostanziale tra queste due versioni dei Cultural Studies deriva essenzialmente dal

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diverso legame tra la produzione teorica le caratteristiche politiche degli ambiti di riferimento. ln Gran
Bretagna, gli studi culturali erano nati al di fuori del contesto accademico e a stretto contatto con la classe
operaia, determinando in tal senso un graduale spostamento dallo studio della letteratura all'analisi di tutte le
forme della cultura contemporanea. ln America invece non si è sviluppato alcun percorso di studi in contatto
diretto con le esperienze provenienti dal basso, dalle classi subalterne. Le classi proletarie infatti risultano
del tutto assenti dai discorsi e dalle riflessioni degli autori statunitensi che si concentrano piuttosto sulle
politiche dell'identità, sulle analisi del potere nella quotidianità e sulla critica culturale del post-colonialismo.
Inoltre i Cultural Studies americani, più che cercare di rintracciare le forme e i meccanismi attraverso cui
nasce e si sviluppa una specifica ideologia, hanno come obiettivo destrutturare i significati presenti nei testi
prodotti dai diversi media.

7. Pierre Bourdieu, la pratica della cultura


La pratica
La formazione di Bourdieu è stata influenzata, oltre che dagli studi di filosofia, anche dallo strutturalismo di
Lévi Strauss e dalla scuola antropologica. Non a caso Bourdieu, prima di definirsi completamente sociologo
ed esercitare la sua professione di ricercatore e docente a Parigi, nasce come antropologo. Il suo lavoro
teorico nell'ambito della sociologia dei processi culturali risente sul
piano concettuale dei sui primi studi sull'Algeria e sui rituali cabili che suggeriscono al contempo a Bourdieu
spunti per un'elaborazione successiva, come per esempio i caratteri del maschile e del femminile che
fungeranno da prototipo per l'esplorazione ne Il dominio maschile (1998) e dai quali deriva anche la sua
proposta sociologica più importante: la teoria della pratica. Lavorando in Algeria in mezzo ai Cabili, prima
come soldato poi come assistente all'università di Algeri, Bourdieu aveva osservato come il modo di
procedere nella vita delle relazioni tra famiglie delle tribù indigene non corrispondeva alla logica sistematica
ipotizzata dagli antropologi strutturalisti, ma si presentava piuttosto simile ad una pratica occasionale e
spontanea, una strategia d'azione attenta agli interessi
prevalenti di volta in volta nelle diverse situazioni. Bourdieu scopre in questo modo la pratica, ovvero la
spontaneità e l'approssimazione con la quale gli attori sociali formano e orientano la propria esistenza,
attraverso strategie non prefissate. Gli individui apprendono il mondo in maniera pratica e riversano questa
conoscenza pratica nelle loro attività abituali: si adattano dunque pragmaticamente alle urgenze e alle
richieste delle diverse situazioni concrete. È proprio l'urgenza rappresenta una delle proprietà fondamentali
della pratica; inoltre, questa, è il dato che caratterizza il mondo umano e attraverso di essa gli esseri umani
apprendono, riproducono e modificano il mondo sociale. Qualsiasi atto e discorso che affrontiamo nella vita
quotidiana contiene dunque già in sé stesso i propri fini e trova la sua ragione semplicemente nel suo
realizzarsi.
Nella pratica l'essere umano innesca un habitus, ovvero un insieme di strategie approssimative,
sedimentate in profondità, attraverso le quali affronta le situazioni più disparate; questo habitus è qualcosa
che abbiamo incorporato dentro di noi vivendo e facendo esperienza nel mondo e che è presente
anche nelle tribù indigene dei Cabili. La sola differenza è che rispetto a queste ultime, la
società moderna dispone dell'istituzione scolastiche che aggiunge un altro habitus a quello primario, appreso
durante la socializzazione dell'infanzia. L'habitus è, dunque, un modo collaudato che ci aiuta a farci strada
nello spazio sociale all'interno del quale siamo inseriti. Esso svolge, inoltre, un duplice compito in quanto
spinge le persone a fare assegnamento su una pratica già sperimentata,
quindi a riprodurre l'esistente, lo status quo; allo stesso tempo però può anche ispirare pratiche diverse o
opposte. Secondo Bourdieu l'uomo apprende il mondo ingenuamente e si affida in maniera tacita alla sua
superficie naturale, ovvia, accettando determinati assiomi e postulati in maniera preriflessiva, comportandosi
dunque come un dotto ignorante. Per superare questa dotta ignoranza è necessario rifiutare queste nozioni
prestabilite in quanto esse appartengono alla doxa, cioè quella forma di conoscenza che, basandosi
sull'opinione soggettiva, non possiede la certezza obiettiva della verità e che dunque rappresenta il mondo in
maniera relativistica. Il mondo, al contrario, è duplice in quanto dietro alla sua apparenza dossica, agiscono
al suo interno condizionamenti pesanti, causati dalla gestione autoritaria del potere economico e politico e
dalla distribuzione diseguale delle risorse. Ad essere attraversati dal potere e dal dominio sono anche l'agire
pratico e l'intero modo di vivere. La conoscenza e la cultura sono dunque strumenti di dominio, pertanto la
sociologia delle forme culturali va interpretata anche come una sociologia di tipo politico. Bourdieu individua
in tal senso, oltre al capitale economico e a quello sociale, il capitale culturale, ai quali aggiungerà poi il
capitale simbolico. Nel capitale culturale, in particolare, rientrano sia l'educazione scolastica e professionale
sia l'educazione familiare alla cultura. Tra le componenti che costituiscono il capitale culturale, quella che
Bourdieu ritiene assolutamente imprescindibile è l'educazione scolastica, poiché è la scuola che converte il
capitale ereditato in capitale scolastico. Il gusto Bourdieu considera il capitale scolastico piuttosto come una
forma mentis, una impostazione dello spirito che presenta anche il valore di una identità culturale, plasmata
attraverso l'istituzione scolastica.

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Il gusto
La sua opera più importante La distinzione. Critica sociale del gusto (1979) è basata su un'inchiesta
condotta in Francia alla fine degli anni 60 e ha come oggetto i gusti culturali dei francesi in vari ambiti, dalle
arti e dalla letteratura, al cibo, fino all'arredamento e alle abitudini culturali. Attraverso questa indagine sui
consumi materiali e culturali, Bourdieu cerca di analizzare il rapporto
tra gli atteggiamenti prettamente estetici e gli orientamenti di fondo dei nostri habitus, facendo rientrare la
"cultura" intesa in senso estetico all'interno della cultura intesa in senso etnologico. Le risposte degli
intervistati sono riportate per argomento e collegate con le loro appartenenze sociali e professionali, oltre
che con l'età e il sesso. Le classi sociali a loro volta si suddividono in sottogruppi mentre le categorie
professionali vengono distinte a seconda del reddito e delle competenze.
Bourdieu è interessato soprattutto alle relazioni che vi sono tra gruppi sociali e categorie professionali
da un lato e habitus e gusti dall'altro. Il gusto, in particolare, è un aspetto soggettivo dell'habitus e si tratta di
una facoltà acquisita che orienta le persone verso le posizioni sociali che spettano loro e verso le pratiche
culturali che si addicono loro. Secondo Bourdieu il gusto è una facoltà umana indivisibile, cioè un tutt'uno
che comprende tutti i gusti nel loro insieme, da quelli più puri ed elevati a quelli più rozzi e grossolani. Egli si
differenzia in questo senso dall'estetica kantiana, quindi dall'estetica colta, dove il gusto semplice e
primordiale veniva rifiutato mentre il
gusto puro derivava dal disgusto verso tutto ciò che era considerato facile e ordinario. L'estetica di Kant
tuttavia domina il nostro mondo dal momento che è quella che guida tuttora il giudizio estetico: è essa infatti
a decidere qual è il gusto legittimo e quello popolare. A questi due tipologie di gusto corrispondono poi classi
sociali e livelli scolastici diversi tra loro.
A sottomettere il campo culturale alla visione estetica di un élite che impone i criteri di giudizio di una stretta
cerchia alla massa della popolazione è il potere di un habitus di classe. Mentre nei secoli passati a
determinare il campo del potere erano la nascita e la fortuna, oggi lo sono il capitale economico e il
capitale scolastico. Il loro possesso e la loro distribuzione determinano infatti la
posizione che gli attori occupano nei rapporti di forza: chi dispone di capitale economico, non a caso, è in
grado di appropriarsi più facilmente del capitale culturale. Secondo Bourdieu non esiste una cultura popolare
in sé, questo perché nella sua visione della realtà la cultura popolare corrisponde alla cultura della
maggioranza oppressa, privata del suo capitale culturale, e perché non si può
cancellare tale oppressione semplicemente esaltandone la cultura.
Per la sociologia della cultura, La distinzione ha rappresentato la rottura di un tabù: il modo scientifico,
sociologico, comporta infatti ragionare in maniera relazionale, non sostanziale, sfatando così il mito
dell'individuo unico e libero da condizionamenti. Questo metodo sociologico entra di conseguenza in conflitto
con il senso comune: non ci si deve illudere, secondo Bourdieu, che il gusto sia causale e istintivo, poiché
esso è in realtà è sociale di classe; allo stesso modo non dobbiamo illuderci che le nostre scelte culturali
siano libere e indipendenti, dal momento che sono influenzate dal mercato e dalla nostra condizione sociale.
Bourdieu non si propone dunque di svelare il contenuto della cultura ma di mostrare il suo ruolo nella
stratificazione sociale e nei rapporti di potere. Bourdieu invita inoltre gli stessi studiosi che si occupano di
scienze sociali all'autocritica: essi devono cioè mettersi in discussione e includersi tra i destinatari delle loro
interpretazioni.
A proposito del dominio e del suo peso specifico, Bourdieu individua in linea con Marx dominanti e
dominati, tra i quali si colloca la frazione dominata dei dominanti, ossia gli intellettuali; i dominati possono
ribellarsi ai dominati, il rovesciamento dovrebbe però essere, a giudizio di Bourdieu, completo e assoluto,
un'impresa di per sé molto difficile da realizzare. Anche per questo motivo
Bourdieu mostra scarso entusiasmo per la nozione di resistenza, elaborata dai sociologi inglesi di
Birmingham. Bourdieu in tal senso non si dichiara affatto favorevole, come Paul Willis, alla resistenza attiva
dei giovani proletari contro la formazione scolastica dal momento che il rifiuto della scuola ha come solo
risultato l'esclusione sociale e il confinamento nella condizione di dominati. Nonostante tuttavia Bourdieu sia
stato stesso accusato di essere il sociologo non tanto dell'innovazione quanto soprattutto della riproduzione
sociale, egli non manca di sottolineare l'importanza della presa di coscienza che può consentire agli attori
sociali di sospendere l'adesione immediata ai propri limiti e riconoscerne il significato. Per far sì che ciò
accada occorre però un processo di riconoscimento, occorre rinnegare la doxa. ln Bourdieu il mondo viene
visto come un'opera di costruzione.
Ad essere costruite però non sono soltanto le differenze dei gruppi nel rapporto con la cultura ma anche le
forme mentali attraverso le quali vengono classificati i rapporti e le divisioni sociali. La conoscenza pratica
del mondo spinge gli agenti sociali a formulare degli schemi che sono il risultato della divisione in classi e
questi criteri di divisione sono a loro volta condivisi da tutti i soggetti, permettendo la produzione di un mondo
comune dotato di senso. A tal proposito, la vera sfida, la vera posta in gioco, è quella di riuscire ad ottenere
il potere sugli schemi di classificazione, poiché è
soltanto attraverso i l loro controllo che può essere fissata la gerarchia dei valori proprietà, sociali e culturali.

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Il corpo
La materialità dell'esistenza si ha a partire dal corpo, cioè dall'unica manifestazione fisica della persona. È
dal corpo infatti che ricaviamo i segni fisici che ci permettono di risalire alla natura profonda di una persona,
di percepire e pronosticare la sua appartenenza sociale, il suo sesso e la sua età. L'interesse di Bourdieu
per il corpo e per il suo ruolo rientra all'interno di un universo concettuale nel quale dominano la pratica e
l'economia delle pratiche. Il senso pratico viaggia infatti attraverso un corpo che produce gesti e movimenti e
il mondo sociale è a sua volta interpretato a partire dal corpo: le posture del corpo evocano sentimenti e
pensieri, ai quali vengono associate istintivamente. Bourdieu si interessa anche alle forme di sottomissione
corporea più rilevanti sul piano sociale, ovvero quelle che riguardano le minoranze razziali e le donne. A
proposito delle rappresentazioni del corpo maschile e del corpo femminile, ne Il dominio maschile Bourdieu
afferma come il corpo maschile e quello femminile siano sì portatori di stereotipi sessuali, ma rappresentino
anche gli interpreti ideali della sua personale battaglia condotta contro l'ordine del mondo così come si
presenta. L'impostazione teorica che guida Bourdieu si pone in maniera opposta all'ontologia cartesiana:
viene infatti respinto il dualismo fra corpo e spirito, tra comprensione e sensibilità, dal momento che, a
giudizio di Bourdieu, la corporeità è presente nel contatto tra soggetto e oggetto
fin dal primo depositarsi dell'esperienza.
Bourdieu è invece in linea con Pascal, il quale considera il corpo come una sorta di promemoria, un memo,
ovvero come un deposito dove sono conservati i valori più preziosi dello spirito. Bourdieu ritiene infatti che gli
schemi di pensiero siano incorporati nelle
posture del corpo, mentre le strutture corporee vadano a loro volta considerate strutture cognitive.
Il concetto di onnivorismo culturale è stato analizzato da Peterson, il quale afferma che questo concetto si
rifà ad uno stile di consumo onnivoro. Questa nozione è applicabile, in modo particolare, alla parte alta della
popolazione, venendosi, in questa maniera, a creare una distribuzione non uguale, creando una distinzione
tra cultura alta e cultura bassa. Le persone che possiedono uno status elevato hanno la possibilità di
consumare tutto, di scegliere ciò che gli piace e che gli interessa.

8. Produzione di cultura, consumo di cultura


Nelle società contemporanee molti beni culturali vengono prodotti e consumati in spazi, tempi e modi che
rispondono a logiche di mercato. Questi possiedono, però, anche una valenza culturale. La produzione di
beni culturali e il loro consumo, regolati da forze sociali molteplici, costituiscono un campo di osservazione
che diversi approcci di analisi hanno cercato di scandagliare:
1. nel primo approccio ci si è preoccupati della cultura di massa, dei suoi pregi e dei suoi difetti, in un
dibattito che ha visto impegnata la teoria critica della Scuola di Francoforte;
2. nella seconda prospettiva, che prende il nome di produzione di cultura, viene messa a fuoco
l’organizzazione stessa delle industrie produttrici, ovvero degli oggetti e degli artefatti culturali; in
seguito si è poi spostata l'attenzione sulla ricezione, cioè sul modo attraverso il quale prodotti
culturali vengono ricevuti e assorbiti dal pubblico. Questo campo di ricerca comprende diverse
applicazioni sia teoriche che empiriche, come ad esempio la teoria critica francofortese, i Media
Studies, i Cultural Studies, la semiotica, il cognitivismo, a partire da due differenti approcci alla
cultura: l'approccio sociologico in senso stretto e quello di derivazione umanista, incentrati
rispettivamente sugli aspetti simbolici e sugli oggetti culturali della produzione umana e tecnologica
legati al consumo, alla comunicazione e allo svago.
La Scuola di Francoforte: industria culturale, cultura di massa
La produzione e la ricezione di cultura sono due temi che hanno interessato anche la Scuola di
Francoforte, una scuola filosofico sociologica di stampo neomarxista, fondata nel 1923 da Horkheimer e
Adorno sulle ceneri dell'Istituto per la ricerca sociale dell'Università di Francoforte. Gli assi portanti del
loro progetto sono tre:
• connubio tra marxismo e psicanalisi;
• diagnosi del totalitarismo;
• critica dell’industria culturale e della cultura di massa.
Nucleo centrale della ricerca della Scuola Francofortese è la Teoria critica della società: essi infatti
portavano avanti un'analisi volta a
far emergere le contraddizioni della società industriale avanzata e comprenderne i meccanismi interni.
Questi autori operano negli anni Trenta del Novecento, quindi in piena affermazione dei regimi totalitaristi
(nazismo in primis, stalinismo e fascismo).
L’intento di promuovere un rinnovamento nella riflessione marxista si scontrò immediatamente con il
nazismo, costringendoli, dopo solo pochi anni, ad emigrare dapprima a Ginevra e in seguito in America,
dove aprono una nuova sede dell'Istituto presso la Columbia University. I due principali esponenti
ritorneranno in patria solo nel secondo dopo guerra, rifondando la Scuola di Francoforte. Durante l'esilio
Horkheimer e Adorno giungono alla conclusione che il depauperamento economico delle classi lavoratrici
profetizzato da
19

Marx non si è verificato. L'impoverimento delle masse infatti non riguarda le basi materiali della vita bensì la
cultura. Il capitalismo del benessere ha dunque prodotto un depauperamento culturale. Nel 1947
pubblicano i l libro Dialettica sull'illuminismo che si presenta come un'analisi della società tecnologica.
Alla fine della Seconda guerra mondiale Horkheimer e Adorno scrissero assieme la Dialettica
dell’illuminismo nel quale facevano riferimento all’intero pensiero occidentale. Questi affermarono che
all’industria culturale corrispondeva la cultura di massa, una versione commerciale e impoverita della cultura.
Essa si riduceva a una rimozione degli elementi della critica sociale, e si fondeva con forme popolari e
standardizzate di svago, distrazione e divertimento. Horkheimer e Adorno ritenevano, inoltre, che i codici più
elevati fossero stati soppiantati dai codici bassi, come la musica commerciale, i serial radiofonici o i romanzi
rosa. La cultura di massa corrispondeva, dunque, ad una semi cultura. La produzione cinematografica e
letteraria era accusata, inoltre, di confezionare opere che, sotto un’apparenza di verità, nascondevano
procedimenti e obiettivi uguali, appiattendo la qualità e la profondità artistica.
Lowenthal dette avvio a una sociologia critica della letteratura, osservando che gli scrittori erano ormai
costretti ad assecondare la domanda di un pubblico sempre più passivo e commerciale.
La critica all’industria culturale e alla cultura di massa si ripresentò, poi, negli scritti di Marcuse il quale,
nell’articolo Alcune implicazioni sociali della tecnologia moderna del 1941, aveva sostenuto che la tecnologia
costituiva un intero sistema di organizzazione e perpetuazione dei rapporti sociali, la manifestazione del
pensiero e dei modelli di comportamento dominanti. Nell’Uomo ad una dimensione, inoltre, questo tema
viene ripreso ed ampliato. L’industria culturale è il sistema di produzione del materiale di intrattenimento
della società massificata che sostiene l’ideologia del consumo, genera falsi bisogni e nel soddisfarli
produce una forma tecnico-scientifica e consensuale di controllo, l’amministrazione del consenso.
Cultura e media si impongono come agenti di socializzazione, mediatori della realtà politica, costruttori
dell’opinione pubblica. Marcuse coglie, inoltre, il declino della famiglia e delle sue funzioni di socializzazioni a
favore della crescente importanza giocata sia dalla radio che dalla televisione.
Nella sua opera La trasformazione strutturale della sfera pubblica, Habermas, pone al centro la
trasformazione dell’opinione pubblica: attraverso un confronto storico, economico e politico tra le
condizioni di avvento dei ceti borghesi nelle democrazie britannica, francese e statunitense dell’Ottocento e
lo sviluppo della società della comunicazione nel capitalismo avanzato, egli ricostruisce il percorso della
comunità borghese che si è distinta per la genesi di una sfera pubblica capace di mediare tra interessi privati
del singolo, della famiglia, dell’imprenditore e quelli collettivi, della comunità e delle masse. Nel tardo
capitalismo si è arrivati, inoltre, ad affermare che la trasformazione dell’opinione pubblica sia caduta nel
dominio dell’industria culturale: i media hanno, infatti, assunto il controllo dei processi di formazione
dell’opinione, trasformandola in un0area di manipolazione e fruizione passiva. Questa è diventata, dunque,
artificiale e viene dettata dall’alto.
La critica della società di massa della Scuola di Francoforte è stata elaborata a fronte del tumultuoso
sviluppo dei mass-media americani: gli Stati Uniti degli anni Quaranta e Cinquanta, secondo Adorno e
Horkheimer, avevano visto la crescita delle grandi corporazioni nel settore della comunicazione; il sistema di
promozione dei beni aveva assunto una dimensione inedita, inglobando anche i contenuti dell’arte (musica,
letteratura…) in una logica commerciale. Secondo Horkheimer, inoltre, questo sistema generava valori, stili
di vita e contenuti simbolici all’interno dell’American way of life. Marcuse affronta la fase successiva dello
sviluppo, nella quale il regime del conformismo si era, ormai, instaurato: tra gli anni Cinquanta e Sessanta, la
crescita del potere di acquisto delle classi medie americane aveva corrisposto alle concentrazioni delle
grandi imprese nel settore radiofonico, cinematografico e televisivo, alla commercializzazione dei generi
musicali, allo sviluppo delle produzione hollywoodiane, alla diffusione della stampa popolare e delle
tecnologie di svago. Secondo Marcuse il popolo era catturato da distrazioni sempre più banali e, come
avevano anticipato Adorno e Horkheimer, divertirsi equivaleva a essere d’accordo.
A partire dall’ondata rivoluzionaria del 1968, i testi di riferimento della Scuola di Francoforte iniziano ad
essere contestati: subiscono critiche dai Cultural studies che sottolineano come il limite principale della
teoria critica sia il fatto che questa, raramente, si è mossa su basi empiriche con verifiche sul campo. Una
prima divergenza fu riscontrata riguardo i mezzi di comunicazione e successivamente, la tesi di un assoluto
potere dell’industria culturale, fu smentita dai risultati di diverse ricerche.

La popular culture
La teoria critica ha poi subito diversi attacchi anche negli anni Settanta: il bersaglio, questa volta, era lo
schematismo e la rigidità della distinzione tra codici alti e codici bassi della cultura. Gli studi sulla popular
culture hanno sottolineato tre elementi fondamentali:
• non tutta la cultura nelle società de capitalismo avanzato può considerarsi frutto dell’omologazione
commerciale;
• la distinzione francofortese tra cultura alta e bassa non regge difronte alle influenze reciproche e alla
mescolanza che vi si rintraccia;

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• i consumi popolari possono essere compresi come qualcosa di diverso dal folklore tradizionale, ma
anche come qualcosa di diverso dalla cultura di massa.
Ad interessare la sociologia è stato soprattutto il concetto di popular. Questa nozione era stata interpretata
diversamente in precedenza: da un lato, secondo la Scuola di Francoforte, la classe dominante capitalistica
organizzava la popular culture per indirizzarla ad un pubblico che l'avrebbe poi consumata; dall'altro lato,
invece, secondo alcuni storici americani, il concetto di popular culture rappresentava una condizione di libera
concorrenza che educava i gusti dei consumatori, i quali a loro volta erano lì si liberi di scegliere tra un'ampia
gamma di prodotti. Secondo Paul Di Maggio, però, nessuna di queste interpretazioni aveva colto che in
realtà la produzione culturale variava in base al tipo di industria, al settore, ai prodotti e al tipo storico e alle
tecnologie disponibili. Agli inizi degli anni '70 si cominciarono poi a far rientrare nel concetto di popular
culture i processi di differenziazione che provenivano dallo sviluppo delle culture giovani. Il settore dei
consumi musicali ad esempio era diventato progressivamente una delle principali industrie culturali,
dominata da grandi concentrazioni di capitali in grado di trasformare generi e tendenze originariamente
underground in prodotti di massa. Al tempo stesso era anche attraversata da alcune ondate di
autoproduzione come il primo rock'n'roll, il reggae, il soul, fino al punk e al rap. Il rock'n'roll in particolare si
tratta di un caso paradigmatico in quanto al suo interno confluiscono sottoculture razziali, consumi
giovanili, cultura popolare e industria culturale.
Secondo gli studiosi della popular culture a segnare uno spartiacque nel cambiamento avvenuto nei rapporti
razziali e nel mondo dell'industria è stata la guerra del Vietnam; infatti, negli anni immediatamente successivi
al conflitto il cinema, la televisione, la musica e lo sport erano entrati in una fase di cambiamento,
caratterizzata da una maggiore apertura alle istanze e ai consumi delle culture giovanili, quindi della cultura
popolare. Herbert Gans, con la sua antologia Popular culture and High culture (1974), ha posto poi fine
alla distinzione tra cultura bassa e cultura alta mentre diversi anni dopo la popular culture è stata definita da
Mukerj e Schudson come un complesso di valori, pratiche e oggetti condivisi dalla fetta più ampia
della popolazione, includendovi sia gli elementi popolarizzati di origine elitaria che i tratti popolari elevati al
rango di cultura alta.

La prospettiva della produzione di cultura


Con la pubblicazione della raccolta di saggi a cura di Peterson The Production of culture, iniziano ad
emergere negli Stati Uniti una serie di ricerche volte a restituire complessità allo studio dell'industria culturale
e a riarticolare le diverse istituzioni alla base della produzione.
La cultura viene in tal senso definita come il risultato di complesse dinamiche di produzione, governate
da organizzazioni capitalistiche. Nella sociologia vengono poi fatti rientrare gli oggetti culturali sotto due
aspetti:
1. i prodotti in senso concreto, che includono la musica, il cinema, i programmi televisivi e la letteratura;
2. le pratiche culturali innescate da produttori e consumatori, vale a dire le variabili organizzative, le
caratteristiche dei mercati di sbocco, gli effetti normativi, le tecnologie disponibili.
Al centro della ricerca sociologica si hanno ora i fattori strutturali, organizzativi, economici e istituzionali
che comprendono gli atti creativi da un lato e le pratiche di fruizione e ricezione dall'altro. Viene così studiata
l'industria culturale in modo da comprendere come si comporta il pubblico prima, durante e dopo
l'elaborazione dei prodotti.

La ricezione e il modello culturalista


ln una società differenziata, complessa e pluralista la cultura è di per sé polisemica. Si possono in tal senso
individuare tre elementi semiotici che concorrono a definirla:
• gli oggetti culturali;
• le organizzazioni che li producono;
• i gruppi sociali che li recepiscono.
Gli oggetti culturali sono diversi a seconda dei gruppi sociali. Si sviluppa così un'interpretazione culturalista
che si focalizza sulle strategie fluide attraverso le quali le persone trasformano e fanno proprie le risorse
simboliche degli oggetti culturali. ln questo paradigma rientra anche l'assunto secondo cui produzione e
consumo possono scambiarsi ruoli. La ricezione e il consumo rappresentano a loro volta una forma possibile
di produzione di valori. I testi e gli oggetti sono offerti dal sistema produttivo ma allo stesso tempo sono
anche sperimentati dagli attori secondo pratiche rituali diverse, a seconda dei contesti e delle circostanze.
L'approccio culturalista propone dunque uno studio delle pratiche in senso simbolico. I Sociologi0
cominciano dunque ora a interrogare la natura dei processi cognitivi.
La cultura viene immagazzinata all'interno della memoria sotto forma di un insieme disorganizzato e viene
poi assemblata attraverso scopi e immagini dall'attore, il quale è costantemente impegnato nella
costruzione di senso.

9. Jeffrey Alexander e la sociologia culturale


21

Oltre la sociologia della cultura
Jeffrey Alexander si è impiegato ad elaborare un programma forte: questo si presenta selettivamente.
Prima di articolare la pars costruens, egli si dedica a una pars destruens, rilevando le carenze scientifiche
nelle proposte della sociologia della cultura a lui note. Ritiene che la prospettiva della produzione della
cultura e l’approccio istituzionalista propongano nessi casuali troppo espliciti tra cultura e struttura sociale: la
cultura viene spiegata in base alle istituzioni che la sponsorizzano o alle ideologie che la controllano; oppure,
quando è consumata, viene spiegata in base alle differenze di classe, genere ed etnia. Anche la curvatura
teorica impressa dai Cultural Studies è giudicata insoddisfacente. Egli considera gli autori di Birmingham
troppo invischiati nella dialettica tra potere e stratificazione sociale anche se riconosce loro il merito di aver
demistificato l’idea che gli oggetti culturali fluttuino liberamente all’interno della società, e di aver sostenuto
che tutto può diventare strumento di dominio (dalla moda alla musica ai giornali).
A parere di Alexander, anche Bourdieu accorda troppa importanza al ruolo delle diseguaglianze sociali nel
funzionamento della cultura. Bourdieu non analizza il contenuto semantico degli stili, delle pratiche, dei
giusti, delle competenze, se non come campi classificatori per la riproduzione della stratificazione sociale.
Intesa come un insieme di habitus, la cultura finisce col diventare una variabile dipendete dalle strutture
sociali.
Inoltre Alexander apprezza lo stile adottato da Geertz, ma insiste sulla necessità che l’interpretazione dei
significati si sviluppi in un sistema scientifico di comparazione. Lo sforzo di Geertz è, però, incompleto: la sua
descrizione densa permette di cogliere il corredo simbolico specifico che si cela dietro i rituali sociali, ma
resta al servizio di analisi specifiche ed irripetibili che fanno caso a sé. Infine egli giudica gli approcci di
Barthes e di Foucault troppo astratti poiché mancano di specificare l’agency e le dinamiche causali.

Il programma forte di sociologia culturale


La sociologia non ha mai permesso alla cultura di parlare a suo nome. Alexander è convinto che le
sfere della vita sociale siano state accuratamente descritte e comprese, mentre ciò non è avvenuto per la
cultura, quasi sempre posta in subordine alle dimensioni dure della società. Propone conseguentemente una
rifondazione dell’analisi culturale sostenendo un forte programma di sociologia culturale: il termine
sociologia e l’aggettivo culturale denotano l’esigenza di uno sguardo culturale in sociologia, piuttosto che di
uno sguardo sociologico sulla cultura.
La cultura, secondo Alexander, non è solo testo e non corrisponde unicamente all’universo simbolico. Egli
rimarca che l’autonomia della dimensione simbolica è relativa poiché le pratiche, i rituali e le azioni
attraverso cui gli attori cercano di trasmettere, riprodurre e comunicare senso al mondo sono parte
integrante della cultura. È sua intenzione conciliare la concezione simbolica della cultura con quella che
assegna valore alle pratiche dell’agire. Dunque, gli individui sono orientati gli uni verso gli altri come attori sul
palcoscenico: l’agire pratico assume, per questo motivo, il carattere di una performance.

Performance, cultura, azione sociale


Riprendendo il concetto introdotto da Turner nel 1969, Alexander definisce la performance culturale come
quel processo sociale grazie al quale gli attori, individualmente o in maniera concertata, dispiegano agli
occhi degli altri il significato della loro situazione o del loro agire sociale. La portata della performance è
condensata in sceneggiature che hanno un significato indipendente dalla loro messa in scena: esse sono
una traduzione di alcuni elementi dell’ambientazione simbolica della cultura. Gli attori della performance
devono agire in modo da risultare accettabili agli occhi dell’audience. Per la riuscita della performance
contano anche le condizioni della messa in scena: è necessaria, dunque, la fusione dei diversi elementi che
la costituiscono. Un esempio tratto dal mondo di oggi di performance è rappresentato dal giornalismo, il
quale costruisce significato delimitando i fatti attraverso due azioni:
• inclusione, quando un argomento viene ritenuto rilevante;
• esclusione, quando un argomento non è ritenuto rilevante e quindi viene escluso dalla trattazione.
Uno dei principali studiosi del giornalismo è stato Bourdieu, il quale ha individuato quattro elementi che
costituiscono il campo giornalistico, raffigurabili in un diagramma cartesiano:
1. autonomia ovvero indipendenza dalla politica e dall’economia dello stato;
2. eteronomia ovvero la dipendenza dalla politica o dall’economia di uno stato. In questo caso possiamo
parlare di parallelismo politico oppure di market driven journalism;
3. eresia, la moltiplicazione degli ambienti comunicativi e dei soggetti che hanno esigenze comunicative;
4. ortodossia, ovvero il modo in cui il giornalismo si è assicurato una propria autonomia. Questo atto è
avvenuto seguendo i principi di legittimazione:
• obiettività;
• completezza;
• verifica;
• selezione;
• gerarchizzazione.
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Fusione, de-fusione, ri-fusione: la forza euristica del rituale
Quando il sistema sociale e la collettività sono complessi e pluralistici, gli elementi della performance sono
defusi; in un contesto di crescente complessità sociale, come quello contemporaneo, le performances
riuscite si sviluppano solo attraverso un processo di rifusione. Il passaggio dal rituale fuso delle società
semplici a quello defuso delle società complesse presuppone una serie di trasformazioni socioculturali.

10. La religione, le religioni


La religione è un aspetto essenziale e permanente dell’umanità, secondo la definizione offerta da
Durkheim: sul piano empirico la sua asserzione può essere confermata prendendo atto che non esistono
società umane nelle quali siano mancati o manchino del tutto quei modelli culturali che correntemente
vengono definiti religiosi o sacri. CI troviamo, dunque, davanti a un fenomeno influente e diffuso, nella cui
essenza gli studiosi hanno rinvenuto due esigenze umane fondamentali:
• lo slancio verso una dimensione trascendente, una sfera superiore, un aldilà;
• il bisogno degli umani di rappresentarsi la realtà del mondo terreno in cui vivono con l’aiuto di un
discorso privo di contraddizioni.
Queste due esigenze danno, poi, vita a una cosmologia, ovvero a una visione simbolica complessiva, che
include il mondo terreno e il mondo ultraterreno con i loro valori ed ordini. Quasi sempre il fenomeno
religioso si è trovato affiancato a una cosmologia: esistono, di conseguenza, diverse cosmologie, da quella
cristiana a quella islamica.
L’intero edificio implica alla base un sentimento chiave che prende il nome di credenza religiosa; essa
viene affrontata da Geertz, il quale afferma che noi umani diamo origine a una credenza quando siamo
toccati dal divino. Questa credenza religiosa implica, dunque, una precedente accettazione dell’autorità che
trasforma quell’esperienza. Attraverso la regione l’uomo, inoltre, riconosce ad un cero complesso di simboli
una determinata autorità persuasiva.
Se la credenza religiosa viene destata in prima istanza dalla vibrazione della sensibilità, dal tocco del divino,
essa stimola però immediatamente dopo l’intelligenza cognitiva. L’essere umano si pone alla ricerca di un
nesso tra le cose della natura e la propria materiale esistenza nel mondo: il grande servizio che le religioni
hanno reso al pensiero è di avere costruito una prima rappresentazione di ciò che potevano essere questi
rapporti di parentela tra le cose, come ha fatto notare Durkheim.
Infine, come spiega sempre Durkheim, la religione ha aperto la strada anche alla scienza e alla filosofa.

Le vie di salvezza
Il fenomeno religioso fruisce allora di due radici, nella sfera del sentimento e nella sfera del pensiero.
Come ha intuito Weber, è la teodicea la funzione chiave della religione, ovvero la capacità di spiegare il
male e la sofferenza, di dare una giustificazione alla malattia e al lutto, di offrire un’interpretazione al conflitto
o all’incongruenza fra destino e merito. La sfida empirica più difficile per la visione religiosa del mondo è il
caos di nomi senza cose e di cose senza nomi.
Gli antropologi hanno incoronato questa sfida per primi nell’esplorazione delle società primitive, osservando
il modo col quale i loro abitanti affrontano l’insicurezza nelle loro imprese più rischiose. Malinowski afferma
che la religione aiuta a sopportare situazioni di stress emotivo attraverso i rituali e la credenza nel dominio
del soprannaturale.
In modi diversi tutte le religioni hanno provveduto un significato anche alle più dolorose delle vicende umane.
I credenti si rivolgono alla fede per riservarvi i propri travagli, per comunicare paure e angosce e per
scorgervi conforto e ricompensa. La teodicea della sofferenza risponde alle urgenze dei diseredati e degli
oppressi, soprattutto facendo sì che al dolore venga conferita una connotazione positiva, come segno de
diritto di riscatto nella redenzione. Gli sbocchi ultimi della religione sono rappresentati dalla speranza nella
redenzione e nell’aldilà (nel cristianesimo) e nella rinascita (in quella indiana).
Nel mondo contemporaneo le regioni sono molteplici, le quali si sono insediate e trasformate in successive
epoche storiche. Le religioni universali, secondo il termine di Weber, corrispondono a quei sistemi di
regolamentazione dell’esistenza, a carattere religioso, che hanno saputo radunare intorno a sé una schiera
particolarmente folta nei fedeli. Egli si riferisce, dunque, all’etica religiosa confuciana, induistica, buddistica,
cristiana, islamica e aggiunge il giudaismo.
Wilson utilizza come parametro l’orientamento delle loro dottrine in senso monoteistico o politeistico. Il
primo è caratteristico del cristianesimo, dell’islamismo e del giudaismo; è propiziatore di una vocazione
sistematica e razionalistica del pensiero e si è sviluppato maggiormente in Occidente. Il Oriente, invece, si
sono sviluppate maggiormente le religioni politeistiche che hanno posto il credente in una posizione di
devozione verso una pluralità di divinità.
La divergenza messa in luce da Weber fra le due grandi famiglie religiose, l’occidentale e l’orientale, viene
compendiata nelle posizioni che egli definisce dell’ascetismo e del misticismo:

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• il mistico si pone come recipiente del divino. Il misticismo porta, dunque, alle estreme conseguenze la
fuga radicale dal mondo;
• l’asceta si considera uno strumento di Dio e assolve un’attività voluta da lui. L’ascetismo si propone di
plasmare razionalmente il mondo creaturalmente corrotto e di dominarlo attraverso il lavoro in una
vocazione moderna.
Un tratto fondamentale delle religioni mondiali è che la loro esistenza e la loro pratica si svolgono in pubblico
e che il loro fine è quello di durare, di tramandarsi da cuna generazione all’altra. Da ciò nasce la necessità di
un’istituzionalizzazione e la creazione di un’organizzazione. Un esempio è rappresentato dall’istituzione del
clero che ha corrisposto allo sviluppo di un monopolio da parte della Chiesa.

La secolarizzazione e la contro secolarizzazione


La secolarizzazione è il repentino o graduale trasferimento, dalla fine del Settecento in poi, delle proprietà
ecclesiastiche in mani secolari come quelle dello Stato. Questa definizione viene, inoltre, alternata a quella
di crisi del sacro. Come scrive Wilson, il pensiero religioso, la pratica e le istituzioni del culto, hanno perso il
loro significato sociale: il dato più evidente è quello della partecipazione delle masse ai luoghi di culto, il
quale si è molto ridotto.
Il ventaglio causale di questo processo indica soprattutto due fattori:
1. aumento del prestigio della ricerca scientifica; le scoperte scientifiche hanno sostituito con risposte
razionali le spiegazioni dei fenomeni naturali e umani che la religione porgeva precedentemente con
formulazioni tratte dalle Scritture o dalla tradizione, o ricorrendo a procedimenti magici come i
miracoli e le guarigioni.
2. crescita di una filosofia e di uno stile di vita individualistici o del culto dell’individuo. In questo caso p
come se il rapporto con la religione fosse aggiudicato alla sfera privata, in prossimità dell’istituzione
famiglia. Ci sono due caratteristiche che tendono a declassare il fenomeno della privatizzazione:
• la sua vicinanza alla ritualità del consumo, ovvero il fatto che si possa scegliere fra le offerte
religiose come in un mercato;
• il vuoto che si apre fra credo e appartenenza all’altro.
Il profilo della secolarizzazione è stato rettificato da molti osservatori e studiosi con considerazioni che
solevano dubbi sulle profondità della sua penetrazione e raccomandano di tracciare una distinzione lucida
fra le sorti della religione istituzionale e la tenuta della cultura religiosa nel suo insieme.
Le risposte ottenute attraverso la ricerca scientifica sono state in grado di umiliare l’ingenuità delle risposte
religiose.
Ma come ha osservato Crouch questo non implica, però, una caduta totale del credito riservato alle
credenze religiose: noi non viviamo in accordo con i pronunciamenti dell’attività scientifica, la vita
quotidiana non consiste in una serie di esperimenti. Dunque, il comportamento umano non rispetta
obbligatoriamente i canoni della scienza.
L’aspetto più visibile del declino religioso, la scarsa affluenza della popolazione alle funzioni e ai riti, mostra
facce diverse a seconda delle aree geografiche in cui viene indagato: il continente più secolarizzato è quello
europeo mentre in America l’affluenza risulta tutt’ora molto elevata, come lo è anche la religiosità americana
in confronto a quella europea.
Bellah ha richiamato quanto aveva notato Tocqueville, il quale sosteneva che la religione aveva il compito
di purificare, controllare e contenere quel gusto eccessivo ed esclusivo per il benessere. Egli fornisce,
dunque, una nuova teoria della privatizzazione, assegnando la colpa ai movimenti sociali deli anni Sessanta
e Settanta, dando risalto, in modo particolare, ai diritti civili ed alla figura di Martin Luther King.
La curvatura religiosa, inoltre, attraversa spesso alcune ribellioni giovanili come gli hippy negli Stati Uniti o il
gruppo Comunione e Liberazione in Italia.
Sulla stessa lunghezza d’onda ragiona Cipriani quando illustra il suo concetto di religione diffusa. Questa
si comunica attraverso molteplici canali come attività ricreative, associazioni di lavoratori, organi di
informazione, istituti formativi sponsorizzati da personale religioso.
L’impeto dei nuovi movimenti religiosi, i quali, come afferma Berger hanno causato una contro
secolarizzazione, si percepisce sia nel fiorire di sette cristiane sia nel fiorire di quelle orientali, e ancora nei
fondamentalismi di varia origine che hanno riacceso in luoghi diversi il motore dell’estuassimo religioso e in
alcuni casi del fanatismo. I movimenti propongono elaborazioni nuove o rivitalizzazioni di dottrine e di
insegnamenti originari dei fondatori religiosi (come nel caso mussulmano).
La tesi più documentata contro la secolarizzazione è quella di Bayly, storico dell’India e dell’impero
britannico, il quale dimostra che ‘Ottocento ha conosciuto una trionfale rinascita e una trionfale espansione
della religione in molte parti del mondo, inclusa quella occidentale.
Il ritorno religioso ha, inoltre, anche motivazioni non religiose: alcuni studiosi segnalano come la religione
possa finire per essere associata ad altre forme di appartenenza o utilizzata in modi strumentali, quindi come
vettore di esclusione o di inclusione. Inoltre, sempre più spesso, negli ultimi tempi, si è assistito al

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fenomeno del belonging without believing ovvero appartenere senza credere, opposto a quello del
credere senza appartenere che ha caratterizzato il modo cristiano, in modo particolare nel secolo scorso.

11. Senso comune e vita quotidiana


Il senso comune è ciò che siamo per scontato: ciò che consideriamo indubbio e naturale, assodato e
acquisito. Nel mondo dato per scontato rientrano i giudizi e valutazioni morali, proverbi, pregiudizi e
stereotipi. Ossia l'insieme delle conoscenze ordinarie a cui si fa ricorso nella vita quotidiana: convinzioni,
conoscenze, spiegazioni che non meritano di essere interrogate. Il senso comune definisce lo sfondo
socialmente condiviso di naturalezza, il substrato indiscutibile delle interazioni sociali: quello che Bourdieu
definisce doxa.
Il senso comune, nonostante sia definito come qualcosa di naturale, è qualcosa di costruito
culturalmente. Il senso comune resta un sapere privo di critica che poggia su assunzioni radicate a un
livello così profondo che noi non ce ne rendiamo conto. Gli individui che condividono la stessa opinione su
un fenomeno hanno buoni ragioni per aderire a una visione condivisa del mondo, facilitando la solidità delle
relazioni sociali. La conoscenza prodotta del senso comune è fondata socialmente.

Come funziona il senso comune


Uno degli obiettivi iniziali della sociologia era quello di proporsi come sapere scientifico che contrastasse le
conoscenze fondate sul senso comune, considerate credenze false, convinzioni errate e semplificazioni
scorrette. Durante dei decenni l'interesse sociologico per il senso comune ha trovato un nuovo fondamento
nell'intento di comprendere come si generano, vengono abbandonate o sostituire le credenze che lo
compongono. Il primo passo è stato compiuto da Schutz: il senso comune è ciò che sospende il dubbio
riguardo alle definizioni e alla procedura corrette di relazionamento con la realtà. Secondo Schutz la
conoscenza ordinaria della vita quotidiana si basa su alcuni principi: principio della reciprocità delle
prospettive (ognuno di noi pronuncia le proprie idee sul mondo) e il principio della non illusorietà delle
apparenze (gli attori sociali preferiscono credere che le spiegazioni della realtà abbiano una base oggettiva,
piuttosto che credere che siano costruite soggettivamente). Per Schutz è importante il processo di
tipizzazione: ossia operazioni cognitive che affermano il potere del tutto sulla parte e generalizzazioni che
facilitano il nostro rapporto con gli aspetti particolari dell'ambiente che ci circonda. Egli inoltre, sottolinea la
forte analogia tra il procedere dello scienziato sociale e la formazione del senso comune, l'elaborazione degli
idealtipi weberiani è simile a ciò che le persone fanno nella vita quotidiana: le categorie, i concetti e le
classificazioni che usiamo per schematizzare le varie parti del mondo esterno funzionano come i "tipi ideali"
che permettono a Weber di comprendere e illustrare i nessi sociologici tra fenomeni complessi. Le scienze
sociali si situano ad un livello superiore di astrazione: si fondano su tipizzazioni; mentre il senso comune è
ciò che ciascuno crede che tutti gli altri credano. Inoltre, il senso comune non viene mai interrogato, invece il
metodo delle scienze sociali deve lasciare sempre traccia di ciò che compie.
Boudon prova a dimostrare che i condizionamenti non si verificano mai fuori dagli interventi dei sigilli
individui, le cui intenzioni sono sempre presenti all'origine di ogni azione sociale. Per Boudon il senso
comune non si basa su meccanismi di influenza interpersonale, bensì è solo a rispondere alla domanda
che gli viene posta. Le credenze comuni sono razionali nel senso della razionalità cognitiva (i soggetti le
adottano basandosi su ragionamenti comprensibili e plausibili). Boudon afferma la logica attraverso cui le
persone devono ritenere giusta una credenza è uguale alla logica attraverso cui la sociologia ritiene
accettabile una teoria. Il senso comune è irrazionale, mentre la conoscenza razionale è fondata. Il metodo
della razionalità cognitiva su cui Boudon si poggia consiste nella possibilità di risalire alle ragioni per le quali
gli individui aderiscono a determinare credenze e nel dimostrare che, dal loro punto di vista, quelle ragioni
possono essere considerate buone. Boudon si ricollega alla prospettiva di Kuhn: il fatto che i valori appaiono
molteplici e ambivalenti non è una prova della loro relatività. Per Boudon il pluralismo culturale è il risultato di
una società razionale dove il primato dell'uguaglianza e delle culture, la convivenza tra gruppi diversi e
l'aumento dei processi di comunicazione fanno del rispetto dei valori un principio doveroso. Eppure il senso
comune appare diverso da una cultura all'altra. Geertz sostiene che il senso comune è un sistema culturale
tacito che può variare da un popolo ad un altro. Ciò che è ovvio in una cultura può risultare privo di senso
nell'altra. Berger e Luckmann affermano che la realtà di per sé non esiste, è il prodotto di una serie di
processi di oggettivazione che nascono dalle relazioni sociali. Inoltre, sostengono che le istituzioni sono il
prodotto dell'interazione di molti attori, il frutto di uno scambio comunicativo che ha sancito la validità nel
corso del tempo. Nella realtà sociale ci sono le oggettivazioni: il senso comune in particolare riunisce quelle
che ci sembrano più ovvie. Nel corso della socializzazione primaria abbiamo imparato ad utilizzare le ricette
necessarie per vivere. Successivamente, abbiamo imparato ad utilizzare altre, più specifiche e utili nelle
sfere sociali della vita quotidiana. La forza dell'approccio costruttivista risiede nella capacità di dar conto al
mutamento. Se la realtà è una costruzione sociale, ciò che è stato istituzionalizzato può essere sempre de-
istituzionalizzato. Il cambiamento può essere graduale e sotterraneo oppure repentino e radicale. Nelle

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società contemporanee su sviluppa un intreccio di costruzioni di senso; la realtà ci sembra complessa anche
perché non è possibile affidarsi a un unico senso comune.
Il senso comune può essere Interrogato. È ciò che facciamo quando sospendiamo l'atteggiamento
meccanico e riflettiamo su cose che fino a un momento prima consideravamo accettabili o che non
appartenevano alla nostra riflessione. Durante i cambiamenti sociali repentini e le contraddizioni che si
accumulano in alcuni momenti storici, i movimenti sociali tendono a mettere in discussione ciò che gli altri
gruppi definiscono indiscutibile. La premessa per il raggiungimento degli obiettivi di rivoluzione dell'ordine
costituito è lo smantellamento del senso comune: una lotta culturale per convincere gli altri a interrogarmi sul
funzionamento delle cose fuori dalle logiche scontate che hanno dominato sino a quel momento.

L'interazionismo simbolico
Blumer negli anni Trenta coniò l'espressione interazionismo simbolico. Egli riteneva che gli individui
agiscono in base ai significati che assegnano alle cose e rivolgono verso di sé lo stesso sguardo
interpretativo.
Secondo Mead non potremmo concepire gli oggetti fisici se non avessimo la capacità di usare simboli
universalistici prodotti della comunicazione sociale, e di assumere la posizione degli altri intorno a noi. La
realtà è il frutto dell'interazione sociale, che a sua volta è possibile grazie al fatto che ciascuno di noi è in
grado di mettersi nei panni degli altri. Ogni persona adulta si basa su un io: l'agente attivo della personalità.
A esso di accompagna un me che rappresenta l'immagine di sé come viene rappresentata dagli altri.
L'altro generalizzato corrisponde al punto di vista della società che la persona proietta al suo interno.
Senza l'interazione sociale l'individuo smetterebbe di indebolirsi e non saprebbe cogliere ciò che il senso
comune gli richiede. L'altro generalizzato trasforma gli oggetti dell'esperienza comune in segni universali e in
significati particolari che sono esempi di universali. Le rotture gravi ed evidenti nella comunità pongono in
crisi l'interazione: solo in questi casi le persone si bloccano e riflettono sull'accaduto, chiedendo chiarimenti e
mettendo alla prova i significati. Le persone fanno ricorso a frasi convenzionali e a formule ritualistiche che il
senso comune ha attestato come valide per evitare le fratture possibili dell'interazione.

L'etnometodologia
Rispetto all'interazionismo simbolico, l'etnometodologia comporta una direzione più radicale e relativistica,
e considera il senso comune come un'entità complessa. L'etnometodologia, ideata da Garfinkel, è lo
studio dei microfenomeni sociali e corrisponde a una procedura di analisi.
Garfinkel adotta il concetto di Account, che significa dar conto di. Gli accounts sono pratiche cognitive che
formano i significati e giustificano il funzionamento della realtà; sono azioni-argomenti con cui si dà senso al
mondo. Attraverso gli accounts gli individui riproducono e spiegano la realtà così come è. Il significato di
questa parola rimanda sempre a qualcos'altro, così come in un vocabolario una parola è collegata ad altre
parole, all'infinito. Nella visione di Garfinkel la realtà non viene riprodotta dal senso comune, perché ha un
carattere fragile. Garfinkel ha dimostrato che nelle relazioni sociali il dubbio, l'incertezza e l'ignoto sono
sempre in agguato. È la parte implicita a fondare l'accordo, la reciproca comprensione tra noi e gli altri. Noi
procediamo in base a continui aggiustamenti, la cui urgenza ci è data da ciò che Garfinkel definisce
infratesto: un metalinguaggio fatto di gesti, espressioni facciali, toni vocali, pause accelerazioni, modi di dire
ed esclamazioni che riceviamo e inviamo durante un'interazione.

Erving Goffman, l'interazione quotidiana


Il senso comune è connesso intimamente nella vita quotidiana. Verso la fine degli anni Sessanta si sviluppa
l'osservazione della vita quotidiana.
Goffman ha difeso una concezione realistica del senso comune è dell'interazione. Il mondo fisico esiste e
ha una sua realtà indiscussa. Goffman adotta una metafora di frames (letteralmente, cornici): le persone
incorniciano i livelli della realtà in diversi quadri di significato. Ciascuno contiene altri quadro di livello
inferiore e di livello superiore.
A giustificazione dell'importanza della realtà oggettiva delle cose, Goffman specifica che esistono cornici
primarie di riferimento (frameworks): il mondo naturale degli oggetti fisici in cui le persone vivono con il
proprio corpo. Il mondo delle rappresentazioni, di giochi, della fantasia, e tutte le situazioni ricche di
significati simbolici costituiscono le tipiche trasformazioni dei framework primari. Quando qualcosa infrange
una rappresentazione e non si addice al frame in cui stiamo incorniciando la rappresentazione, cerchiamo
un rimedio o, nel caso peggiore, di terminare la rappresentazione. Quella dei frame è una caratteristica
dimensione culturale.
L'attività dei re-frame (re-incorniciamento) segnala la capacità di cogliere ciò che si presenta davanti ai
nostri occhi secondo il flusso dell'interpretazione. Vi sono molti modi con i quali i soggetti incorniciano e
reincorniciano le loro esperienze reali, creando una varietà di modi individuali di vedere trasversali alle
culture di classe. Goffman indica che i ceti superiori sono i più coinvolti in complesse re-incorniciature dei
rituali e risultano più sofisticati nel trasformare i frameworks primari. Mentre i membri delle classi inferiori

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adottano a un livello più basso la trasformazione delle cornici e si mostrano più ingenui e diffidenti verso le
interpretazioni sofisticate. La realtà sociale è costruita, riprodotta e mantenuta da partire dalle catene
interattive rituali. Nel comunicare a parole o a gesti e anche con un vestiario e con gli oggetti che usiamo,
esprimiamo un senso di devozione verso gli altri dai quali ricaviamo un obbligo di rispetto verso di noi.
Grazie a una serie di strumenti di dramatic realisation (espedienti drammaturgici), cerchiamo di essere
convincenti anche quando le condizioni di contesto sono difficili. Il rituale si svolge in un luogo simile ad un
teatro, in cui vi è la ribalta, il retroscena e una totalità esterna.
Lo stato d'animo e la personalità che cerchiamo di mostrare agli altri, lo stile del parlare, le posture e i
movimenti del corpo e del viso fanno parte della ribalta, ossia il nostro palcoscenico. Mentre il retroscena è il
luogo in cui si svolgono le attività che precedono una rappresentazione, è uno spazio nascosto dalla vista
del pubblico. Per Goffman il sé non esiste: è un elemento insolito, per niente stabile, che dipende dal
palcoscenico su cui recita e dal pubblico. Il self sembra avere una realtà duratura e oggettiva solo perché
nelle nostre pratiche ci riferiamo alle intenzioni degli altri individui e perché noi stessi riflettiamo intorno a
molti self.
Secondo Goffman il sé dell'individuo è interpretabile attraverso il posto che occupa in un'attività sociale
organizzata ed è conformato dal uso comportamento espressivo. Nelle società occidentali, il benessere
materiale fornisce un insieme di risorse utili alla messa in scena di una rappresentazione.

Michel de Certeau, l'invenzione del quotidiano


De Certeau insegue ciò che si nasconde negli usi effettivi delle azioni quotidiane, al di sotto della superficie
apparentemente passiva e condizionata dal mondo popolare. Egli è convinto che attraverso le pratiche a
prima vista banali della vita quotidiana le persone creano cultura. Una cultura semplice, che sfugge
all'occhio severo delle analisi scientifiche, una cultura non ufficiale. L'invenzione del quotidiano è il resoconto
di una ricerca interdisciplinare pluriennale, che egli stesso ha diretto collaborando con molti colleghi,
ricercatori.
De Certeau rivaluta tutto ciò che, nella dimensione dove vive l'uomo qualunque, contribuisce a creare una
cultura dal basso. De Certeau è attirato dalle pratiche quotidiane apparentemente insignificanti (leggere,
conversare, cucinare) ma con molta inventiva.
Le tradizionali analisi socioeconomiche non sono in grado di catturare il senso di queste pratiche. L'intera
ricerca del quotidiano è costruita per contrastare l'idea di una massa di gente comune ridotta al ruolo di
consumatori ipnotizzati dalla pubblicità, condizionati dalle discipline organizzatrici e a produzione di massa.
L'attività degli estranei e i marginali è una resistenza non organizzata, spesso non consapevole, quasi mai
strategica. De Certeau scende a livello più profondo delle politiche quotidiane, dove le azioni anticonformiste
mostrano una matrice inconscia che le persone adottano inconsciamente. Per coglierle, De Certeau fa una
distinzione tra:
• strategie: piani di azione tipici delle istituzioni, dei gruppi e delle persone dotate di un potere per
creare spazi propri negli ambienti definiti dalle strategie;
• tattiche: escamotage pensati e attuati sul momento, nell'eventualità dei casi della vita; sono scatti e
rapide combinazioni che nascono sull'istante.
De Certeau riconosce a Bourdieu il merito di avere individuato l'arte del fare, ma gli rimprovera di aver
allineato le pratiche in uno schema che riproduce i rapporti e i campi di forza della stratificazione sociale,
dove le pratiche rinviano agli habitus di classe. Per De Certeau non sono le disuguaglianze strutturali che
determinano le dinamiche culturali, è la cultura stessa che compine e ricompone i conflitti e che legittima e
controlla la regione del più forte.
L'altro interlocutore del lavoro sul quotidiano è Foucault: prima ancora di Bourdieu, Foucault aveva
introdotto nel dibattito teorico francese l'interesse per la pratica. Se Foucault guarda ai modi in cui la violenza
dell'ordine diventa tecnica disciplinare, a partire dalla posizione in cui vengono collocati i perdenti, De
Certeau segue questi ultimi per scoprire come riescono a creare una loro cultura del fare, malgrado la loro
posizione. L'oggetto dell'Invenzione del quotidiano sono le tattiche attraverso le quali ci si sottrae a tali
procedure o di riesce a ribaltarle a proprio favore.
Si tratta di una anti-disciplina, costituita dalla trama di attività, tecniche frammentarie è quasi invisibili che
costituiscono il tessuto principale delle pratiche ordinarie di consumo. De Certeau ha sottolineato che le
persone comuni utilizzano qualsiasi cosa nel conteso in cui operano per dare vita ad un lavoro di
fabbricazione di significati personali.
È opportuno collocare la ricerca di in un percorso che stabilisce l'eterogeneità delle culture della vita
quotidiana.
Il valore innovativo della sua posizione risiede nell'enfasi sull'occasionalità di ogni situazione. Il suo
contributo alla direzione da intraprendere nello studio della creatività culturale risiede nel rifiuto di un punto di
osservazione totalizzante e ne favore per ciò che riesce a sfuggi re al l'analisi corrente: le maniere non
scontate e non ritualistiche con le quali gli individui inventano e reinventano la vita quotidiana.

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12. Trasmettere la cultura: socializzare, educare, crescere
La cultura ha bisogno di circolare, di diffondersi, di trasmetterei da una generazione all'altra. Ogni
individuo interagisce con gli altri in modo indiretto o diretto sin dalla nascita. Grazie a pratiche e istituzioni
che mettono in relazione gli adulti e i più piccoli, ogni individuo entra a far parte della società, ne acquisisce i
principali tratti culturali e ne innova in parte il significato. La formazione della personalità in un attore sociale
con una propria identità assume il nome di socializzazione.
La trasmissione è intergenerazionale (dalla generazione adulta alla più giovane), e istituzionale (interessa
specifiche agenzie e istituzioni). Si è discusso molto sul grado di autonomia e di libertà dell'individuo rispetto
alle norme, alle pratiche e ai comportamenti che la cultura trasmette. Dalla parte del modello del
condizionamento si sono schierati i sostenitori della riproduzione sociale (la cultura plasma l'individuo a sua
immagine, lasciando all'agire individuale un campo di azione limitato).
A favore dell'interazione vi sono i sostenitori della creatività individuale, che sono convinti che la
socializzazione proceda attraverso un percorso di interpretazione soggettiva del repertorio culturale
disponibile. Durkheim e Parsons hanno concepito la socializzazione in termini di integrazione degli attori nel
sistema sociale, attraverso l'influenza degli adulti sui bambini e l'incorporazione da parte di questi dei valori
in cui si sviluppa il loro percorso di vita. Piaget e Mead sostengono che il bambino e l'adolescente siano
capaci di ampliare in modo autonomo l'interazione con gli altri e di impiegare il proprio bagaglio cognitivo per
affrontare situazioni nuove.
Il primo studioso a parlare di socializzazione è stato Durkheim, sostenendo che è un processo normativo
che scaturisce dalle regole stabilite dagli adulti. È la costituzione di uno stato interiore e profondo che orienta
l'individuo in un senso definito per tutta la vita. Per distinguere la sociologia dalla psicologia Durkheim ha
sostenuto che già nella prima infanzia gli elementi importanti della coscienza collettiva si traducono in azioni
che scolpiscono i tratti della personalità. Secondo Durkheim, le differenze individuali nelle società complesse
dipendono dalla specializzazione dei ruoli, s dello spazio minimo di autonomia che l'individuo occupa al
termine del suo inserimento sociale. La società funziona come un complesso organismo. Inoltre egli
distingue nello sviluppo due componenti:
• l'identificazione: ego si riconosce simile ad altre figure;
• l'individuazione: ego sviluppa sé e la propria originalità. Benedict sostiene che la personalità degli
individui è il prodotto della cultura in cui nascono.
Kardiner afferma che ogni cultura sviluppa una personalità di base, una configurazione di tratti psicologici
primari, funzionali alla riproduzione dei valori e delle pratiche socioculturali. Valori, norme e pratiche vengono
assimilati attraverso configurazioni psicologiche diverse da cultura a cultura. Egli sostiene anche che le
prime fasi dell'infanzia fossero sottoposte a meccanismi di frustrazioni e di adattamento forzato alle norme
dominanti. Le istituzioni primarie plasmano la personalità degli individui nella fase infantile (punizione,
soddisfazione). Le istituzioni secondarie agiscono successivamente: armonizzano e trasferiscono le
tensioni derivanti dagli effetti negativi delle istituzioni primarie sulla psiche dell'individuo. Linton ritiene che la
cultura è esterna all'individuo al momento della nascita, ma nel corso del suo sviluppo diviene parte
integrante della sua personalità.
Cono l'aiuto di Linton, Kardiner ha individuato nelle differenze tra i singoli, lo spazio adeguato a spiegare il
cambiamento nei valori e ha proposto di studiare l'incorporazione della cultura nelle società complesse come
una continua alternanza tra un ceppo culturale dominante e diverse subculture. Il
culturalismo della scuola di cultura e personalità ha lasciato irrisolto il nesso tra il nucleo centrale della
cultura e lo sviluppo di valori, idee e pratiche alternative. Parsons idea il sottosistema della personalità e
Merton ha introdotto il concetto di socializzazione anticipata. Secondo Parsons le istituzioni sociali, in
particolare la famiglia, influenzano lo sviluppo del bambino inducendo o ad assimilare i valori e le norme
prevalenti nel sottosistema sociale. Egli sostiene che le fasi decisive sono quelle iniziali. Anche Parsons,
come Durkheim assegna poco spazio al coinvolgimento attivo dell'individuo nello sviluppo della personalità,
ma ha approfondito le dinamiche psicologiche, prendendo spunto dalla psicoanalisi di Freud. I passaggi da
una fase della socializzazione all'altra sono spiegati dalle crisi di transizione individuate da Freud: crisi
orale, crisi anale, crisi edipica, crisi adolescenziale. Fase orale, fase anale, fase edipica e adolescenza
corrispondo alla interiorizzazione dei valori e delle norme, all'integrazione, al conseguimento dello scopo e
all'adattamento. L'individuo acquisisce un minimo di autonomia solo dopo averlo subito passivamente
l'imprinting sociale.
Merton è contrario alla prospettiva di una teoria onnicomprensiva del funzionamento sociale. Preferisce
un funzionalismo di medio raggio, rinforzato da analisi empiriche (a tale proposito parla di teoria di
medio raggio). Sostiene che la riproduzione e il mutamento culturale, la socializzazione conformista e
l'autonomia individuale possono coesistere. Merton conia il concetto di socializzazione anticipata che è
utile a preparare gli individui a status futuri. La trasmissione culturale è un campo aperto, l'individui
contribuiscono allo sviluppo di valori alternativi rispetto al nucleo centrale della cultura. La socializzazione
anticipata, le dinamiche dei gruppi di appartenenza (ingroup), di riferimento (outgroup), le pratiche
subculturali, le condotte marginali, oscillano in una dinamica da cui possono emergere sia la riproduzione

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che il mutamento sociale. La socializzazione anticipata facilita l'accettazione del gruppo all'arrivo e
all'adattamento del nuovo membro.
Piaget sostiene che il bambino sviluppa strutture mentali sempre più complesse e organizzare grazie alla
tendenza all'equilibrio tra:
• assimilazione: incorporazione di un evento don uno schema cognitivo già acquisito;
• accomodamento: modifica della struttura cognitiva.
Mead situa la socializzazione nell'incrocio tra dinamiche attive e interattive: i bambini sviluppano la loro
identità in rapporto ai contesti di interazione sociale in cui si trovano inseriti. La conversazione per gesti è
all'origine di ogni linguaggio, alla base di una comunicazione. Essa attiva i due elementi necessari in ogni
relazione socializzazione: la reazione adattiva all'altro e l'anticipazione del risultato dell'atto. ln questo
scambio si situa il protagonismo del bambino.
La principale fonte d'interazione dei bambini è il gioco. Grazie al gioco e alla gestualità il bambino assume
ruoli interpretati dalle persone che lo circondo. Il bambino imita le azioni, i movimenti e i gesti di queste
figure, ma aggiunge sempre qualcosa di personale. Ricrea il ruolo di madre e di padre e la conforma al
piacere del gioco che sta creando. Ci suono due tipi di giochi:
• gioco libero: giocare liberamente, senza regole sviluppa le capacità cognitive e simboliche necessarie
per separare soggetto e oggetto e riconoscere il proprio sé
• gioco di gruppo: gioco basato sulle regole condivise da tutti i partecipanti. È il risultato della capacità
di astrarre dai ruoli e dagli atteggiamenti degli altri in generale e non in modo diretto, come avveniva
con i genitori. Si sviluppa una dialettica tra l'Io e il Me.
Berger e Luckmann distinguono, infine, tra socializzazione primaria e secondaria: quest'ultima
corrisponde all'apprendimento di saperi specializzati e di ruoli specifici, tra le due fasi può esservi una
frattura. La socializzazione secondaria è un'acquisizione di sottomondi istituzionali, fondati su istituzioni
con sapere legati a ruoli professionali, sociali, civili, politici. La socializzazione secondaria presume
l'acquisizione di linguaggi che strutturano le interpretazioni della realtà e la riproduzione di routine all'interno
di aree tipiche della vita giovanile, poi adulta (scuola, lavoro, tempo libero). La differenza tra una fase
primaria e una secondaria trova la sua ragione d'essere nel fatto che l'infanzia, nella cultura moderna, ha
assunto un carattere distintivo è separato rispetto alla vita adulta.
Secondo Aries l'invenzione dell'infanzia è stata la conseguenza di un cambiamento storico avviatosi nella
società europea dalla fine del Seicento. Nella rappresentazione sociale e nel trattamento ricevuto, il bambino
diventa un essere a parte rispetto agli adulti. Aries ha ricostruito i passaggi culturali che hanno portato alla
considerazione dell'infanzia come periodo che esige un'attenzione particolare da parte degli adulti.
L'attaccamento dei genitori dai figli si è rinforzato dalla fine del Settecento, con il controllo delle nascite e la
riduzione della mortalità infantile.

La famiglia e la scuola
Le teorie del condizionamento sociale e il paradigma dell'interazione assegnano alla famiglia il primato nello
sviluppo sociale degli individui. La famiglia è un'unità sociale variabile, priva di radici univoche o naturali. La
famiglia continua a esercitare un peso a livello sociale e un ruolo decisivo per il destino delle persone che ne
fanno parte. Come gruppo primario delle relazioni intime influenza il comportamento dei suoi componenti, ne
indirizza il rapporto con le altre istituzioni. Fenomeni come la ricerca della qualità e dell'affettività nelle
relazioni familiari, nel rapporto tra i coniugi e tra questi e i figli, persino l'innalzamento dell'età media del
matrimonio e l'aumento dei divorzi indicano una riconfigurazione della famiglia in chiave poi coerente con il
sistema sociale postmoderno. La famiglia è un'agenzia sociale che ha contribuito a segnarne l'evoluzione, a
strutturare i modi e i significati dei cambiamenti di lungo periodo, con risultati diversi a seconda dei contesti.
Si è ritenuto che tra la famiglia e la scuola fosse in atto una dinamica competitiva nei processi educativi da
cui la scuola sarebbe uscite vincente.
La famiglia continua ad agire parallelamente alla scuola e il ruolo dei genitori ha comunque un valore
decisivo. I genitori offrono ai figli risorse e opportunità a seconda della collocazione sociale, trasmettono
riferimenti cognitivi, sistemi simbolici e stili di vita per la scalata sociale. La scuola, al contrario, non è in
grado di eliminare le socializzazione un processo biografico di incorporazione delle disposizioni sociali
habitus, prodotte dalla famiglia di origine e risanate dall'insieme di campi attraversati dall'individuo durante la
sua vita. L'eredità culturale è responsabile della disuguaglianza iniziale dei bambini di fronte alla
competizione scolastica e per conseguenza delle percentuali disuguali di promozioni. L'influenza del capitale
culturale si lascia cogliere nelle forme della relazione, contrastata tra il livello culturale globale della famiglia
è il rendimento scolastico dei bambini.
Il capitale culturale è acquisito insieme all'habitus di classe. L'habitus è anche una disposizione verso
l'avvenire, assolve funzioni di riproduzione e esse sono orientate al miglioramento della posizione del
gruppo. Secondo Bernstein i gruppi sociali in condizioni diverse adottano forme di comunicazione differenti,
da cui derivano le differenze che i figli ereditano nell'agire sociale.

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Il codice del linguaggio ristretto, basato sull'uso di un lessico contestualizzato, presuppone un'omogeneità è
una condivisione di significati particolari attribuiti ai termini: è il linguaggio impiegato dalle famiglie operaie.
Mentre il codice elaborato è connesso a significati decontestualizzati, validi universalmente. Questo codice
viene appreso nei contesti delle classi medie e medio-alte.

Il gruppo dei pari e il mondo del lavoro


Nel gruppo dei pari il peso dell'azione famigliare diminuisce. I bambini, gli adolescenti, i giovani sviluppano
forme autonome di crescita e di scoperta della mondo nei gruppi dei pari, attraverso l'apprendimento di tipo
orizzonta (tra coetanei) caratterizzato dall'assenza dell'autorità verticale. La novità storica dei nostri giorni è
segnalata dall'esistenza di spazi ad hoc e nell'elevato grado di riconoscimento sociale di cui oggi i gruppi dei
pari godono. Parsons li ha definiti un 'ponte' tra il gruppo primario è la dimensione pubblica del sistema
sociale.
La socializzazione con i coetanei assume una funzione complementare rispetto alla socializzazione
familiare e scolastica, dato che il territorio della famiglia e la scuola costituiscono i luoghi di elezione
principale. I gruppi di coetanei sono centrati su un uso del tempo libero dedicato allo scambio di confidenze,
di parole in libertà. Si distinguono:
• gruppi formali: promossi da istituzioni e associazioni in rapporto allo svolgimento di un'attività e
mantengono al loro interno la presenza di almeno una figura adulta con funzione di guida;
• gruppi informali: nascono e si riproducono spontaneamente a fianco della attività scolastiche,
sportive.
ln luoghi pubblici gli adolescenti e i giovani vivono tempi, rituali e scambi di libertà e di confidenza. Si tratta di
un passaggio obbligato nel processo della crescita, ampiamente tollerato, entro i limiti di ciò che gli adulti
definiscono non deviante. L'appartenenza a uno o più gruppi di coetanei contribuisce alla riproduzione delle
differenze sociali. Si tratta di una conferma di meccanismi di stratificazione sociale tipi di del sistema
scolastico, il contesto da cui nascono le relazioni e le opportunità di aggregazione.
L'appartenenza a più gruppi e più diffusa tra i giovani provenienti da classi superiori e cresce con l'aumento
e cresce con l'aumentare del capitale culturale della famiglia. I figli degli operaie e delle famiglie meno
istruite tendono a stare in un solo gruppo, oppure a coltivare legami con uno o più amici singoli. Le
aggregazioni coinvolgono soprattutto i ragazzi e meno le ragazze, perché i ragazzi spesso adottano un
modello pervasivo di relazione amicale.
Nel corso degli ultimi decenni, in tutti i paesi occidentali, si è accentuato il fenomeno della famiglia lunga del
giovane adulto, che si prolunga nel tempo, anche oltre i trenta anni di età. L'attività lavorativa non
rappresenta solamente ciò che procura un reddito, ma ciò che assicura un ruolo nella divisione del lavoro
sociale. Hughes ha è scritto la socializzazione professionale come un insieme di processi di iniziazione e
di conversione. L'iniziazione a una cultura professionale o una cultura specifica d'impresa rappresenta
l'entrata in un mondo sociale; la conversione è il processo successivo che porta a una nuova concezione del
sé e del mondo, quindi a una nuova identità.
L'identità professionale, mobile, variabile, dipende dalla natura dei compiti e delle competenze, delle
prospettive di carriera, della concezione del ruolo, dell'immagine di sé.
Hughes ha individuato dei meccanismi specifici della socializzazione professionale: immersione nelle
pratiche di occupazione, contrapposizione tra il mondo del lavoro e altri mondi, appropriazione della figura
professionale. Hughes collega lo sviluppo dell'identità professionale alle filiere e agli iter promozionali che
permettono di pianificare l'accesso alle posizioni superiori.
Il rapporto tra socializzazione professionale e carriera individuale non è lineare: l’identità professionale si
trova in una dimensione dinamica, con continuità e rotture; il senso soggettivo che gli individui ricavano dal
proprio lavoro è variabile.
La socializzazione può essere, infine, vista come quel processo attraverso il quale costruiamo la rete delle
relazioni con gli altri, il quale ci accompagna nel corso di tutta la nostra vita; è una costruzione che avviene
gradualmente, a partire dall’infanzia, ed è volta a creare, oltre alle relazioni, anche un’identità di
appartenenza. Un ulteriore definizione è quella che la definisce come il processo biografico di incorporazione
delle disposizioni sociali prodotte dall’insieme dei sistemi d’azione attraversati dall’individuo.

13. Linguaggio, comunicazione, semiotica e memoria


Il linguaggio
Il linguaggio è il principale tramite di circolazione e trasmissione della cultura: gli esseri umani utilizzano
linguaggi verbali e non verbali, forme scritte e forme paralinguistiche, rappresentazioni simboliche e semplici
segnali. Nelle società contemporanee, tuttavia, la scrittura ha assunto un rilievo importante, limitando, in
parte, la funzione dell’oralità.
Il linguaggio è pubblico, oggettivo ed universale: parole, gesti e simboli sono immediatamente disponibili a
goni individuo dalla nascita. Sull’università e l’oggettività del linguaggio si sono concentrati studi specialistici

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che privilegiano i meccanismi formali, le regole, i rapporti interni, indipendentemente dai condizionamenti
sociali e storici.
Chomsky ha identificato tre ragionamenti differenti sul linguaggio:
1. è molto probabile che esista una grammatica universale, presente in tutte le lingue, costituta da
meccanismi che collegano tra loro un numero sottile di unità di suono (fonemi), dai quali i vari ceppi
hanno sviluppato le diverse lingue;
2. questi fili di collegamento hanno a che fare con una visione di lunghissimo periodo, relativo
all’evoluzione delle lingue dei vari gruppi umani nel corso dei millenni. Egli ha voluto far
comprendere che, benché il linguaggio possieda alcune strutture profonde, la sua superficie più
evidente è arbitraria e casuale: le strutture indicano un ordine ricorsivo che produce e limita le
combinazioni disponibili per comporre le frasi;
3. la cultura scorre nel mondo sociale sotto forma di discorsi, espressioni, racconti, parole dette o scritte,
ascoltate o proferite, attraverso forme molto eterogenee: se i simboli del linguaggio sono finiti, il loro
significato invece è mutevole.
Molto tempo prima del linguista americano, Boas si era reso conto che le categorie grammaticali delle
lingue variavano in funzione dei diversi sistemi di classificazione. Secondo Boas la cultura non esiste ma
esistono le culture: così come per le culture, anche per il linguaggio la varietà è la caratteristica principale.
Non soltanto si riconoscono differente profonde tra le varie lingue parlate nel mondo, ma persino all’interno
di uno stesso idioma, la variabilità e la creatività del parlato costituiscono una costante.
Boas ha introdotto una distinzione tra i fenomeni linguistici e gli altri fenomeni culturali: i primi non emergono
mai dalla coscienza chiara, mentre i secondi, pur avendo la stessa origine inconscia, si elevano spesso fino
al livello del pensiero cosciente, dando così origine a ragionamenti secondati e reinterpretazioni.
Sapir ha sviluppato, dal punto di vista teorico, l’interesse etnografico del maestro Boas per il legame tra
fenomeni linguistici e culturali: entrambi sono prodotti della vita sociale e hanno senso solamente per gli
individui che ne sono imbevuti. Questi rimandano a configurazioni convenzionali di significati, le quali
predefiniscono gli schemi di osservazione e di interpretazione della realtà e dei rapporti sociali, ma limitano
gli spazi e le possibilità di espressione della cultura e della lingua stessa.
Il pensiero di Sapir è stato ripreso da Whorf, il quale ha prodotto la cosiddetta ipotesi di Sapir-Whorf: essa
considera le classificazioni linguistiche come un portato del nostro modo di organizzare l’esperienza, e come
una discriminante; chi conosce linguisticamente il mondo in un certo modo ne sarà influenzato nella sua
rappresentazione. Secondo questa ipotesi vi è, dunque, una stretta corrispondenza tra cultura e lingua e tra
pensiero e linguaggio: il secondo serve da strumento per lo sviluppo del primo, il quale porta a perfezionare
e modulare continuamente il secondo. Sapir ha, inoltre, anticipato la distinzione di e Saussure tra
significante e significato: il significante è un recipiente intellettuale con un numero infinto di esperienze; il
significato è l’immagine e il concetto che ciascuno di noi codifica, interpreta ed elabora a partire da un
significante.
De Saussure afferma, invece, che la lingua è un insieme di convenzioni utilizzare nelle relazioni sociali per
la comunicazione tra individui: si sviluppa a partire da un sistema di segni connessi gli uni agli altri, sia in
opposizione ad altri segni del sistema, sia in associazione con gli altri segni, cui si affiancano attraverso
associazioni e usi comuni. AI segni corrispondono i concetti e, in maniera non diretta, gli oggetti fisici del
mondo. Per de Saussure esiste una dinamica creativa della lingua che nasce dall’uso quotidiano e
dall’estrema flessibilità delle parole; egli distingue, infatti, tra parole (il modo in cui la lingua viene parlata e
modificata nelle occasioni di vita quotidiana) e langue (le regole strutturali della lingua). Esse sono legate da
un intreccio circolare: la seconda offre il campo delle possibilità di espressione e di innovazione mentre la
prima è all’origine di ciò che di volta in volta vinee ricodificato all’interno della langue.
Secondo Durkheim, linguaggio e cultura si connettono quando sono in gioco le identità collettive. Idiomi,
gerghi e dialetti funzionano come indici di appartenenza a specifici complessi culturali, come nel caso delle
cerchie sociali, delle culture giovanili, delle classi o delle comunità professionali. Nell’uso quotidiano il
linguaggio varia a seconda dei contesti: utilizzare la lingua standard è considerato segno di distinzione,
che accresce la reputazione sociale; esprimersi in dialetto viene, invece, attribuito agli strati sociali inferiori.
La tesi di Levi-Strauss è che i diversi aspetti della vita sociale potrebbero consistere in fenomeni la cui
natura si ricollega alla stessa natura del linguaggio: la cultura, dunque, è un’architettura simile a quella del
linguaggio; l’una e l’altro si edificano attraverso opposizioni e correlazioni, ovvero attraverso relazioni
logiche.
Egli riscontra, inoltre, analogie tra le strutture linguistiche e i sistemi di parentela che diventa così oggetto
privilegiato delle sue analisi. In una prima fase, Levi-Strauss ha tentato di verificare se i sistemi culturali di
una società potessero nascondere quel profondo di una società potessero nasconder nel profondo una
qualche struttura, dedicandosi, negli anni Cinquanta, alla ricerca di conferme per questa ipotesi. Negli anni
Sessanta, ha intrapreso uno sforzo teorico e di ricerca ancora più ambizioso: identificare un codice
universale collegato alla mente umana, attraverso la comparazione di sistemi di regole che agirebbero nel
profondo di ciascuna cultura.

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Levi-Strauss ha finito col delegare agli stessi linguisti il suo compito fondamentale: quello di invidiare le leggi
universali in cui consiste l’attività inconscia dello spirito.
Barthes ha distinto tra gli oggetti materiali e il livello simbolico, il discorso, su tali oggetti. Egli ritiene che il
mondo culturale parla degli oggetti e scrive sugli oggetti facendo sì che questi acquisiscono un significato
sociale. Barthes sostiene, inoltre che l’ideologia (o l’insieme dei miti d’oggi, come ha ridefinito lui stesso)
operi principalmente a livello di connotazioni che producono significati secondari, spesso inconsci,
deducibili: la semiotica di Barthes si sviluppa a partire dallo schema significato-significante di de Saussure
alla quale aggiunge un secondo livello di significazione. Egli distinguer, infatti, tra una significazione
primaria (o denotazione) ed una secondaria (connotazione).
infine, Barthes include nel concetto di testo semiotico anche le performances di intrattenimento, ludiche,
triviali o apparentemente banali e le tratta come dimensioni in cui, oltre al testo superficiale, vi è un testo
sottotraccia, metaforico, contraddittorio e mistificante. Il mito è, dunque, un sistema semiologico secondo
capace di prendere un segno qualsiasi e di elevarlo al rango di presenza numinosa, di significato
dall’apparenza eterna, a spiegare la sorprende capacità di trasformarsi in idioma, di assumere un’aura
sacrale, dimostrata da qualsiasi immagine e oggetto. In questo senso, egli conierà il mito come un sistema di
comunicazione, un modo i significare e on come un oggetto e un concetto. Il principio guida della semiotica
di Barthes è interrogare il falso ovvio, di rendere esplicito ciò che tropo spesso rimane implicito nei testi.
Sulla scia di Barthes, Baudrillard ha esaminato il mondo delle pubblicità e dei media sostenendo che questi
abbiano ridotto tutti gli oggetti materiali al loro valore segno e abbiano spinto la loro utilità nell’oblio.
Nelle analisi e nello studio dei linguaggi lo strutturalismo ha ricevuto numerose critiche ed è stato
radicalmente superato da diverse teorie e prospettive. Partiamo da Wittgenstein il quale, in una prima fase
delle proprie riflessioni, era convinto che potesse stabilire una corrispondenza univoca tra ogni espressione
linguistica e il suo referente nella realtà: il linguaggio poteva emergere come lo specchio delle effettive
strutture del mondo. Egli definisce, inoltre, la filosofia non come una teoria, ma come un’attività destinata
alla chiarificazione linguistico-concettuale. Egli, dunque, connette linguaggio e realtà in una visione
atomistica che collega le proposizioni elementari con simboli semplici e indefinibili.
Dopo diversi anni di silenzio, Wittgenstein arriva a rompere con la dottrina del linguaggio primario, formale e
ufficiale, sottolineando l’esistenza di un solo linguaggio, quello comune: tramite esso le parole si collegano
ai contesti e alle situazioni in cui vengono utilizzare. Dunque, l’analisi del linguaggio si sposta sul confronto
fra le espressioni linguistiche e le funzioni che esse assolvono nella vita quotidiana.
Egli sostiene, inoltre, che quando parliamo cerchiamo di attenerci non solo a regole linguistiche, ma a codici
espressivi e di significato: quando le comprendiamo le regole di u gioco linguistico relativo a un dato
contesto vuol dire che ci stiamo adattando a quel particolare gioco di significati (le regole, allora,
rappresentano le istruzioni per il gioco).
Per le scienze sociali e l’analisi culturale, le conseguenze di queste osservazioni sono degne di nota. La tesi
di Wittgenstein è che gli uomini usano il linguaggio per cominciare qualcosa, ma anche per interpretare ciò
che recepiscono in modi flessibili, in relazione ai contesti in cui agiscono praticamente. La filosofia, allora, ha
una funzione solo descrittiva nei confronti degli usi linguistici. A simili conclusioni era giunto anche il russo
Bachtin: in diversi saggi egli aveva segnalato che il metodo sociologico poteva applicarsi all’analisi del
linguaggio, di quello ordinario e di quello poetico-artistico. Bachtin aveva però intravisto un rapporto tra
teoria dei segni e teoria dell’ideologia.
La sua principale intuizione è che la comunicazione si compone di una parte linguisticamente realizzata e di
una sottointesa che comprende solo la porzione di mondo presente nell’orizzonte degli interlocutori.
Le principali critiche allo strutturalismo sono giunte da Derrida il quale afferma che il significato non è più
legato al contesto ed al testo e che esso è qualcosa di continuamente differito, mai del tutto concluso e
chiarito. La natura divisa e divisiva del segno trova un’elaborazione molto acuta nel concetto di differenza e
di differimento: questa determina il fatto che il riferimento a altro segua percorsi infinti.

La comunicazione
La comunicazioni interpersonale è un processo di reciprocità, a spirale, tra due o più persone, capace di
attivare una serie di operazioni a livello cognitivo, emotivo, affettivo, interpersonale. Goffman parla, a tal
proposito, di frame o cornice interpretativa.
In quanto rete di significati la cultura è tenuta in vita grazie agli scambi comunicativi. La nostra
comunicazione è innanzitutto influenzata dalla definizione della situazione, come interlocutori siamo già in
grado di condividere il senso della situazione in cui ci troviamo a vivere. La forma di comunicazione più
comune, quella interpersonale o faccia a faccia, si tratta di un processo a spirale, tra due o più persone, in
grado di attivare una serie di operazioni a livello cognitivo, emotivo e affettivo. In questo tipo di interazione
l’influsso è bidirezionale, dialogico, e si basa sulla compresenza. Inizialmente, quando ancora non esisteva
la stampa, i gruppi sociali trasmettevano e facevano circolare l'eredità culturale attraverso la narrazione
orale. Lo sviluppo della stampa su carta, a metà Quattrocento, e l’avvento della stampa a caratteri mobili
determinano poi una rivoluzione nelle forme di circolazione e di produzione culturale. Tuttavia, è soltanto nel

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corso dell’Ottocento che si assiste in Europa e negli Stati Uniti alla piena diffusione dei libri e dei giornali,
grazie anche all’aumento dell’alfabetizzazione. La comunicazione di massa è costituita da un processo di
trasmissione dove un elemento culturale, diffuso da un gruppo ristretto, investe una molteplicità di individui
anche molto lontani; il raggio d'azione della trasmissione dunque si allarga mentre si restringe notevolmente
quello della interazione. La comunicazione di massa inoltre è veicolata da mezzi tecnologici molto avanzati
che permettono di conservare e riprodurre un determinato contenuto anche dopo che questo è stato
comunicato. Lo schema di base della comunicazione prevede un'emittente, cioè colui che dà inizio
alla comunicazione attraverso il messaggio; un ricevente, cioè colui che riceve il messaggio,
decodificandolo e interpretandolo; un codice, vale a dire la parola scritta o parlata; un canale, cioè il veicolo
fisico attraverso il quale viene trasmesso il messaggio; un contesto, ovvero l'ambiente all'interno del
quale avviene la comunicazione e infine un referente che rappresenta il tema, l'oggetto del messaggio
trasmesso. Gli studi e le ricerche sui mass media possono distinguersi in tre filoni principali: 1. un filone
che si interroga sulla funzione dei mass media e sulla loro modalità di funzionamento; 2. un filone che
indaga sugli effetti da essi prodotti sugli individui; 3. un filone che cerca di capire come i mass media
influenzano la cultura. Al primo interrogativo ha cercato di rispondere l'approccio struttural-funzionalista
attraverso gli studi di Merton, Katz e Lazarsfeld. Il secondo filone di ricerca invece ha adottato un approccio
di tipo comportamentale, attraverso studi psicologici sulle risposte degli individui ai programmi delle
comunicazioni di massa. Infine, il terzo filone, attraverso la sociolinguistica, i Cultural Studies e la teoria
critica francofortese, ha privilegiato un’analisi della comunicazione di massa sulla base del contesto
economico, politico, etnico.

La semiotica
La semiotica include tutti i fenomeni di comunicazione e significazione: oltre alle lingue naturale e ai
linguaggi formalizzati, essa ha incluso le forme espressive non verbali, le comunicazioni non del tutto
codificate, le comunicazioni umane non intenzionali e i linguaggi espressivi dei media. Essa va, dunque,
distinta dalla semiologia, ovvero la disciplina che ha studiato per prima i segni.
La semiotica considera testo qualunque proporzione di realtà che sia dotata di significato, di cui si possono
definire i limiti e di cui si possano individuare unità discrete e livelli gerarchici di analisi (come dal più
concreto al più astratto). In questa ottica, oltre al lavoro di Barthes, occorre citare quello di Umberto Eco, il
quale ha ulteriormente rafforzato il principio per il quale tutti gli oggetti culturali possono essere considerati
come un testo:
• testi tramandati oralmente;
• romanzi e articoli di giornale;
• scritti scientifici e religiosi;
• oggetti ed opere d’arte come dipinti e fotografie;
• testi visivi e testi musicali;
• cortometraggi e lungometraggi;
• documentari, spot televisivi, videoclip;
• rituali e interazioni fra individui.
Eco, infine, sposta l’enfasi sul problema dell’interpretazione: egli elabora, dunque, il modello teorico della
cooperazione testuale dal quale trae origine., in seguito, la teoria del lettore implicito e la teoria del
significato di Sanders Peirce.
Il testo p un testo virtuale e la sua interpretazione dipende dal frame (o Enciclopedie di riferimento) che il
lettore utilizza per comprendere il senso. L’approccio di Eco difronte al rapporto tra testo e contesti di
creazione e di ricezione del testo produce effetti notevoli come:
1. eclissamento della figura dell’autore nella sua valenza biografica, a favore dell’autore implicito o
dell’autore modello;
2. lettore empirico, il quale fa vivere il testo attraverso la propria personale interpretazione, e lettore
modello il quale deriva da una strategia testuale di fabbricazione ideal-tipica del lettore.
L’esito è, dunque, una cooperazione testuale in cui l’analisi non riguarda più le intenzioni dell’autore, ma la
contestualizzazione delle possibilità virtuali di senso.

La memoria
Nella società senza scrittura la memoria veniva trasmessa oralmente, per mezzo di racconti, rituali,
genealogie, parentele, secondo sistemi di allocazione sociale degli eventi e delle categorie molto articolati.
Con la scrittura la memoria ha potuto contare su strumenti e spazi di archiviazione supplementari rispetto a
quelli offerti dalla mente umana, ampliando la quantità e la qualità delle informazioni trasferibili da un’epoca
all’altra.
La cultura moderna ha alimentato un vero e proprio culto della memoria: al centro vi è il carattere
soggettivo dell’esperienza, la paura di dimenticare, l’ansia di smarrire eventi ed esperienze del proprio
vissuto… ed il nostro Io percepisce la necessità di rielaborare ricordi, di estrapolare i sentimenti del passato.
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La memoria funziona come intreccio di immagini che ridisegnano il passato alla luce del presente; essa si
sposa con le nostre intenzioni e con il nostro sguardo proteso al futuro. È definibile, dunque, come un
sistema flessibile che opera classificando, archiviando e riattivando le informazioni più svariate.
Essa ci rende diversi dalle altre specie viventi, ci rende unici e speciali perché capaci di selezionare e
ricordare eventi ed esperienze personali.
La memoria sensoriale scarta oltre il 75% dei dati che raggiungono i nostri cinque sensi; gli studiosi hanno,
infatti, classificato la memoria in più componenti:
• memoria episodica, che conserva parte degli eventi;
• memoria semantica, che racchiude il sapere e le conoscenze;
• memoria emotiva, rivolta ai ricordi piacevoli o spiacevoli;
• memoria procedurale, che raccoglie le capacità apprese meccanicamente o in parallelo alla
socializzazione.
Dunque, ricordare significa ripercorrere, rivisitare, mettere in scena, aiutandoci con l’immaginazione, ciò che
non vogliamo dimenticare. La memoria può essere definita anche attraverso due processi: rielaborazione e
riadattamento.
Ciascuno di noi possiede, inoltre, una memoria di gruppo poiché essa è anche un fenomeno sociale.
Halbwachs afferma che i ricordi dipendono da schemi, criteri e modelli di selezione che hanno una chiara
origine sociale; la memorizzazione avviene in funzione del presente e delle prospettive che si aprono al
futuro. Infine, quando è collettiva, la memoria assume un peso cruciale per la definizione e il mantenimento
dell’identità di gruppo. Nella sua opera principale egli distingue tra:
1. memoria sociale à corrisponde all’insieme dei saperi e dei tratti culturali che la società riproduce e
aggiorna nel tempo, ciò che seleziona dal passato per trasmetterlo nel futuro, l’eredità che passa da
una generazione all’altra; in questo tipo di memoria Halbwachs intravede il legame che tiene insieme
una generazione con la successiva, il patrimonio acquisito di saperi che passa da una generazione
all’altra;
2. memoria collettiva à è specifica di un gruppo, ne trasporta i ricordi individuali, mediati e trasmessi
dalle relazioni di una precisa cerchia di persone. In essa egli riconosce, invece, il segno delle
divisioni sociali, la dimensione plurale della cultura, il modello specifico che delimita ciascuno degli
infiniti sistemi di relazioni sociali.
La memoria collettiva è frutto di riletture e rielaborazioni e non è mai univoca. Il potere dei gruppi favorisce,
infatti, riletture diverse del passato e può decidere che cosa ricordare e cosa dimenticare nella storia
ufficiale. Un ulteriore esempio di memoria collettiva è la tradizione, la quale tende a inculcare convinzioni su
un passato ricostruito, reinterpretato, in modo a volte immaginario, e si impone su altre visioni, minoritarie o
marginalizzate. Essa può essere definita come una forma di memoria volontaria attivata dall’intervento di
custodi, interpreti e mediatori.
Il problema principale che affligge le memorie collettive del presente è l’erraticità con cui il ricordo si
distingue dall’oblio: il flusso di informazioni e rappresentazioni mediatiche pone sullo stesso piano ciò che è
destinato a essere ricordato e ciò che invece è rapidamente dimenticato.
Infine, i media tendono a concentrare sul presente la dimensione temporale. La durata della loro attenzione
per un evento non dipende dal suo obiettivo spessore; l’attualità, dunque, segue dinamiche temporali
estranee ai criteri della rilevanza sociale. Esso può essere definito, allora, come uno strumento influente e
tenace di memoria.

14. Come cambia la cultura


La creatività
Nel corso dei secoli precedenti, i termini creatività e innovazione sono stati considerati come sinonimi
anche se, in realtà, essi celano una differenza: creatività e creazione sono associati all’attività artistica,
all’immagine popolare dell’artista che fa sgorgare forme, colori, note, versi dalle risorse della sua fantasia
individuale. La seconda, invece, presuppone un calco già esistente, un prima dal quale si distacca un dopo,
un modello che viene sostituito da un modello diverso. Lo sguardo sociologico percepisce la creatività in
modo diverso, discostandola dall’artista e dal suo talento: essa è, dunque, una dimensione universale e
diffusa dell’agire dell’individuo; è una facoltà che fa parte dell’esperienza umana; è relazionale e nasce
dai rapporti dagli individui. Durkheim identificava le due tipologie principali di creatività (quella che fa capo al
gruppo e quella che fa capo all’individuo), con il termine effervescenza.

Le buone maniere
La cultura cambia con lo scorrere della storia. Tra tutte le indagini storiche su cambiamenti culturali di
grande portata si rivela molto originale quella condotta da Norbert Elias ne Il processo di civilizzazione
(1969), che abbraccia i secoli medioevali e rinascimentali. In questo testo Elias descrive la vita delle grandi
corti monarchiche europee e della gente comune, soffermandosi sulle usanze sui costumi tipici della vita
quotidiana delle grandi masse e della nobiltà. Descrive gli oggetti, gli arredamenti, i gesti, i cibi così come
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gli adoperavano gli uomini le donne nel passato, servendosi però di fonti insolite: i manuali delle buone
maniere. La sua tesi è che col mutare dell'organizzazione politica, mutano anche i modelli di comportamento
dei sudditi e delle classi sociali: nel corso dell’età moderna si affermano così molte regole di comportamento
in società per noi oggi scontate e si assiste a un generale cambiamento culturale con l’innalzamento della
soglia del pudore. Nell'epoca attuale tuttavia l’esercizio di autocontrollo degli individui sembra andare in
direzione opposta e promuovere maniere più audaci, l'ostentazione nei corpi, ecc.

La molteplicità dei valori


Il processo di razionalizzazione messo in atto dalla scienza ha decretato la perdita delle illusioni e del
fascino delle profezie religiose a favore di una disposizione realistica verso la conoscenza e l’investigazione
intellettuale. Gli individui vivono pertanto ora in un mondo disincantato, privato di idee e di profeti, e sono
tuttavia tormentati da un sentimento di incertezza sul significato da conferire alla propria esistenza, questo
perché la scienza non è in grado di dettare il corso dell'azione né di fornire il mezzo appropriato per giungere
alla felicità. Il discorso tenuto da Weber nel 1919 su La scienza come professione traeva spunto da una
polemica rivolta nei confronti dei docenti che sceglievano di rendere partecipi gli studenti dei loro punti di
vista politici, prendendo posizione su questioni pubbliche contingenti. A questo proposito Weber difende
l'obiettività dell'insegnamento, sottolineando come il sapere e la conoscenza servano a fornire strumenti e
non a indirizzare verso una determinata concezione del mondo. Spetta infatti al libero arbitrio dell'individuo
decidere quale visione etica adottare, in che direzione orientarsi. Ciascun individuo ha dunque una grande
responsabilità nello scegliere tra la vasta sfera di valori che gli si presentano. In questo senso, la molteplicità
dei valori che si dispiegano davanti agli attori nella società contemporanea rappresenta sicuramente un
ampliamento delle possibilità, ma anche una richiesta pressante di consapevolezza e responsabilità.

La nascita di un orizzonte globale


Le alleanze e i rapporti di forza che accumulavano tra loro alcuni Stati-nazione ed evidenziavano altri nella
comunità internazionale fino a poco tempo fa sono stati sconvolti radicalmente con il crollo dell’unione
sovietica all'inizio degli anni Novanta. A partire da questo momento le barriere tra Occidente e oriente e i
confini dei singoli Stati si sono notevolmente indeboliti e si è avuta una circolazione sempre più libera delle
persone e dei beni.
Si è così cominciato a parlare di globalizzazione. Un aspetto di questo processo è costituito in particolare
dalle migrazioni internazionali; a riguardo però non vi sono interpretazioni univoche. Da un lato infatti si
riconosce il fatto che le migrazioni internazionali concorrano a formare società multietniche e multiculturali
nei paesi di arrivo; dall'altro lato, invece, gli immigrati che tornano nei propri paesi di origine contribuiscono a
diffondere modelli di vita assorbiti dai paesi avanzati, incoraggiando in questo modo l’omologazione su scala
mondiale. Un’altra caratteristica della globalizzazione è che con l’applicazione della tecnologia ai mezzi di
comunicazione, si è favorita la rapidità degli spostamenti e dei viaggi, la velocità dell'informazione e la
simultaneità dei rapporti interpersonali attraverso la rete che hanno modificato le nostre abitudini quotidiane.
Il processo di globalizzazione non è stato però uniforme ma anzi ha contribuito ad aumentare le differenze
tra i popoli dominanti e quelli dominati. La globalizzazione ha inoltre conferito più potere ai mercati e al libero
commercio, infatti grazie alla caduta delle barriere fra gli stati, alla libera circolazione dei capitali e alla facilità
dei movimenti finanziari, le grandi imprese hanno cominciato ad investire anche al di fuori dei confini
nazionali, aprendo filiali all’estero e trasformandosi in complessi industriali multinazionali.
Di fronte a un mondo e a una economia diventati ormai globali manca però un potere accentratore che
garantisca l'unità mondiale. Manca infatti a livello internazionale un organismo centrale che riesca a
governare le disuguaglianze e ad affrontare i problemi creati dalla globalizzazione. Per quanto riguarda
invece il versante sociologico, con la globalizzazione la cultura certamente cambia e si estende, non diventa
però uniforme: esiste infatti una cultura della globalità, un cambiamento che accompagna le trasformazioni
che si sono avute nelle relazioni mondiali, ma non esiste una unità della cultura, una cultura che possa
definirsi globale.

15. Le generazioni, le subculture, i giovani


I giovani
Negli anni Sessanta si assiste alla nascita dei movimenti giovanili e contestualmente la categoria della
gioventù comincia a interessare la comunità scientifica sul piano storico e sociologico. È possibile
individuare due principali direttrici d’indagine che a partire dal secolo scorso hanno prodotto
ininterrottamente ricerche sulla condizione giovanile sia in Italia che nei paesi limitrofi: una prima direttrice fa
capo alla trasgressione e all'innovazione, mentre la seconda alla cosiddetta entrata dei giovani nella vita
adulta.
Gli studiosi individuano in tal senso uno spartiacque significativo proprio negli anni Sessanta. Lo psicologo
sociale americano Erikson ne ha spiegato le ragioni nel suo testo, Gioventù e crisi d'identità, facendo
notare come le manifestazioni giovanili dei secoli premoderni e moderni avessero una natura

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essenzialmente episodica e un carattere limitato alle iniziative di trasgressione, che a loro volta facevano
capo a piccoli gruppi di classe sociale mista. Al contrario, la condizione giovanile nel 68 ha rappresentato un
fenomeno trasversale e di massa per una serie di motivi: perché i giovani avevano conosciuto la prosperità
diffusasi in tutte le classi sociali dopo il periodo di boom economico postbellico e perché era aumentato il
loro tasso di scolarizzazione così come era cresciuta la possibilità di spostarsi territorialmente. Ad essersi
ampliata era anche la stessa libertà di scelta dei giovani riguardo il proprio futuro. Sulle nuove generazioni e
sul problema sociologico ad esse connesso era intervenuto già diversi decenni prima Mannheim nel suo
saggio del 1928, dove sottolinea che la cosiddetta nuova generazione si differenzia dalle altre per il fatto
che essa è in grado di apportare contenuti nuovi, diversi da quelli già esistenti, anche per il solo fatto di
garantire un nuovo accesso, di immettere nuovi cittadini. Per Mannheim è infatti impensabile una
generazione di esseri umani che si protrae nel tempo senza farsi sostituire; al contrario ribadisce quanto sia
fondamentale il ricambio generazionale, l’unico che permette di rinnovare e potenziare il patrimonio culturale
già sedimentato.

Le subculture
Intorno agli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento viene coniata la parola "subcultura", ossia un gruppo
di persone o un determinato segmento sociale che si differenzia da una più larga cultura di cui fa parte per
stili di vita, credenze o visione del mondo. La scuola di Chicago, dopo essersi inizialmente occupata dei
fenomeni di emarginazione urbana, successivamente ha spostato la sua attenzione sulla devianza giovanile,
quindi sui furti, sui vandalismi e sulle aggressioni. Fra i ricercatori di questa scuola si è distinto Albert Cohen,
il quale coglie tre elementi dominanti delle subcultura delinquenziali, ossia la gratuità, la malignità e la
distruttività.
Gli atti commessi sono infatti gratuiti, in quanto commessi solo per divertimento; ad essere ludica è anche la
malignità che ha come obiettivo beffeggiare l’ordine degli adulti mentre la distruttività tende a rimarcare
l’incuranza per l'accumulazione e la proprietà. Cohen formula inoltre la diagnosi del "disadattamento
giovanile", un termine di cui fa ampio uso Merton in un suo scritto sul rapporto tra struttura sociale e
anomia. Secondo Merton la devianza costituisce un sintomo della dissociazione tra le aspirazioni prescritte
dalla cultura e i percorsi strutturati socialmente al fine di realizzare queste aspirazioni. Il comportamento
deviante in questo senso risulta incoraggiato dall'ambizione: i ragazzi delle classi meno abbienti ambiscono
cioè ad appropriarsi del successo e della ricchezza, non sono però in grado di procurarsi i mezzi necessari
per raggiungere i loro scopi. Per questo motivo ricorrono alla trasgressione delle regole, alle aggressioni, al
furto e alla violenza. Merton definisce questo tipo di devianza "innovativa", in quanto i giovani trasgressori
non mettono in discussione l'accettazione dei modelli culturali dominanti, ma ricercano semplicemente una
modalità diversa per raggiungere i loro obiettivi.
Nel suo lavoro Giovani all’opposizione (1968), Kinston analizza i protagonisti dell’estate dell'impegno
politico giovanile contro la guerra nel Vietnam, tratteggiando il profilo della società del benessere e quello dei
suoi figli, i quali decidono di attaccarla e contestarla; la matrice da cui erano emersi i grandi cambiamenti
negli ideali della nuova generazione era dunque considerata la prosperità materiale. Mentre la militanza
nella Vietnam Summer aveva coinvolto giovani studenti delle classi colte, appartenevano invece
prevalentemente alla classe media o medio-bassa i protagonisti dell'ondata di scontento dei cosiddetti
"giovani arrabbiati" della fine degli anni Cinquanta in Inghilterra. I primi giovani che si riunirono in gruppo, i
teddy boys, fecero la loro comparsa nel 1958 a Camden Town e nei quartieri operai di Londra. Le formazioni
delle subculture erano caratterizzate da alcuni tratti particolari quali l'inclinazione alla rissa, l'atteggiamento
arrogante, l'attaccamento al territorio, l'uso di mezzi di piccola cilindrata come lambrette e vespe, la passione
per la musica, l'attenzione al vestiario, il consumo di alcol e talvolta di droga. Queste subculture giovanili
inglesi si caratterizzavano inoltre per il fatto di non aver mai assunto posizione politica.

L’entrata nella vita adulta


Dalle inchieste sull'universo giovanile è emerso un dato ormai assodato: l’entrata sempre più in ritardo nel
mondo adulto. A questa constatazione se ne aggiunge poi un’altra, complementare: i giovani hanno una
visione del loro futuro confusa e generalmente a breve termine A questo proposito nei giovani di oggi si parla
di "presentificazione", cioè un’attenzione concentrata sostanzialmente sul presente e sulla vita quotidiana.
Un altro fenomeno che si è registrato riguarda la sconnessione temporale tra le prime due tappe classiche
della transizione (l’uscita dal periodo formativo e l'ingresso nell'occupazione) e le due tappe successive (la
formazione di una famiglia e la scelta di procreare). In tal senso, la sistemazione matrimoniale non
costituisce più, come in passato, la conseguenza immediata della conquista di un posto di lavoro. Allo stesso
modo, la sessualità si è sganciata dal processo riproduttivo e dal matrimonio e segue ormai un suo percorso
autonomo. In Italia, però, ancora più che in altri Paesi, questi nuovi ritmi e rinvii della gioventù risultano molto
evidenti, primo fra tutti la prolungata permanenza dei figli nella casa dei genitori, sia prima che dopo
l'ingresso nel mondo del lavoro. Le indagini a riguardo hanno rilevato differenze a seconda delle classi
sociali e delle aree territoriali e, in misura minore, a seconda dei generi. Sono soprattutto i giovani delle

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classi medie e benestanti, residenti al centro-Nord, a dilazionare le proprie scelte di vita. Sono state inoltre
avanzate diverse ipotesi volte a spiegare la permanenza dei figli nella casa dei genitori oltre i trent'anni. Una
prima spiegazione fa riferimento al ruolo centrale che la famiglia riveste tradizionalmente nei valori italiani
mentre altre fanno leva sulle sue funzioni di sostegno e supporto anche economico.
A queste considerazioni si deve poi aggiungere come oggi, nella famiglia italiana, un maggior clima di
concordia e di dialogo abbia reso possibile e anche gradita la convivenza dei giovani con i loro genitori.
Quest’ultimi, da parte loro, sono generalmente favorevoli e accondiscendenti alla prolungata permanenza
dei figli nella loro casa, mentre questi, a loro volta, trovano comodo continuare a vivere in una casa dove
hanno molta libertà e poche responsabilità.

16. Uomini, donne e oltre: il genere


Un campo nel quale la cultura esercita la sua massima influenza è quello relativo alle differenze di genere,
cioè tra uomini e donne. Il concetto di genere nasce per sottolineare il ruolo e la forza dei condizionamenti
sociali e culturali nello sviluppare differenze e disuguaglianze a partire dall’unica differenza tra maschile e
femminile ascritta biologicamente, quella basata sul dismorfismo sessuale, cioè sul fatto che la procreazione
dipende da due apparati differenti, specifici dell’uomo e della donna. Le disuguaglianze tra uomini e donne
riguardano soprattutto la questione del potere. La divisione del lavoro si fonda infatti sulla separazione tra
compiti maschili e femminili. Le donne non costituiscono mai il sesso dominante in nessuna società, al
contrario il dominio maschile rappresenta una costante di tutte le culture: sono sempre gli uomini infatti ad
occupare una posizione di potere rispetto alle donne e mai il contrario. Il concetto di genere inteso in questa
accezione viene coniato a partire dagli anni Settanta dalla critica femminista e introdotto nelle scienze
sociali. La prima ad aver introdotto il concetto di genere è stata in particolare l'antropologa Gayle Rubin col
saggio The Traffic in Women (1975), dove il genere rimanda alla costruzione storica delle rappresentazioni
sociali e delle identità di genere, maschile e femminile, correlate a modelli di relazione, ruoli, aspettative,
vincoli ed opportunità diverse.

Il dibattito teorico
È possibile distinguere quattro approcci che si sono sviluppati in concomitanza con il movimento femminista:
l'essenzialismo, il decostruzionismo, il pensiero della differenza sessuale e la visione delle differenze
multiple:
1. l’essenzialismo tende a astrarre le caratteristiche del maschile e del femminile e a considerare alcuni
elementi storici, sociali e culturali come qualità astoriche e presenti costantemente in tutti i soggetti
appartenenti a un determinato genere. Ad esempio le qualità del femminile come la cura degli altri,
la mitezza e lo spirito di sacrificio, vengono segnalate presso tutte le culture, per sostenere
un'essenza culturale delle donne;
2. la seconda prospettiva trae origine dal decostruzionismo francese, in particolare da Derrida e
Foucault. Il femminismo decostruzionista, al contrario dell’essenzialismo, propone un vero e proprio
costruttivismo culturale e ritiene che il responsabile della dicotomia tra maschi e femmine e della
subordinazione femminile non sia un dato biologico transculturale, bensì il complesso dei discorsi e
dei dispositivi sociali che vengono sostenuti dal linguaggio e dalla rappresentazione simbolica. La
prima ad aver traghettato l’approccio decostruzionista nell'ambito del femminismo è stata Julia
Kristeva, secondo cui l'opera di decostruzione deve indirizzarsi contro i processi di classificazione e
razionalizzazione occidentali e in particolare contro l'illuminismo;
3. il pensiero della differenza sessuale cerca di coniugare l'analisi filosofica con la dimensione politica e
afferma che la specificità femminile è legata al sesso; difende in tal senso questa specificità rispetto
alle teorizzazioni che invece la riducono a semplice costruzione operata dalla socializzazione;
4. infine, l’approccio delle differenze multiple consiste in un insieme variegato di posizioni, influenzate dal
pensiero post-moderno, secondo cui il genere non è qualcosa di già dato una volta per tutte, ma
plasmato, adattato e modificato nei rapporti specifici tra soggetto e ambiente esterno.

Tra uguaglianza e differenza


La declinazione della differenza sul piano politico si è avuta a partire dalla seconda metà dell'Ottocento,
quando la femminilità è stata valorizzata come qualità da proteggere, tutelare, e come tratto complementare,
anche se diverso, del mondo maschile:
1. tra la fine dell'Ottocento e l'inizio della Novecento i movimenti per il suffragio avevano sottolineato le
differenze di genere, esaltando la superiorità morale delle donne e la separazione della sfera
maschile e femminile nell'attivismo civile e sociale. In questo periodo inoltre le politiche ispirate alla
differenza avevano il merito di favorire le leggi di protezione, relative alla riduzione dell'orario di
lavoro e al divieto di impiegare le donne in lavori faticosi e pericolosi;
2. dopo la fine della Seconda guerra mondiale le politiche di tutela sono state progressivamente
soppiantate dagli interventi volti a garantire l'uguaglianza formale tra donne e uomini. Sono in tal

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senso stati rafforzati programmi che puntavano a riequilibrare le disuguaglianze di genere
nell'ambito del lavoro e dell'istruzione;
3. il ritorno della differenza si verifica con l'avvento politico delle ideologie neoconservatrici, che
combattono i principi dell'uguaglianza dei generi;
4. all'inizio degli anni Novanta si ha infine una fase di moltiplicazione delle differenze, attraverso
l’esplosione in molti paesi di rivendicazioni di gruppo che esaltano le loro specifiche differenze.

Il genere maschile
Gli studi sul genere maschile hanno origine da una serie di suggestioni quali: la mobilitazione contro la
guerra in Vietnam, il movimento dei diritti civili, l'irruzione delle culture giovanili, l'ambientalismo, la
rivoluzione sessuale e lo stesso movimento femminista americano degli anni Sessanta e Settanta. Gli studi
condotti sulla mascolinità si sono affermati per scoprire, specularmente a quelli femminili, le caratteristiche
e i comportamenti del genere maschile. La maggior parte degli autori appartenenti a questo filone di studi
riflettono su diverse aree di ricerca quali: le differenze del genere maschile e la continuità storica del suo
dominio, le fondamenta sociologiche e culturali del potere e la scoperta della "crisi della mascolinità".
Secondo questi studiosi il genere maschile non può essere ridotto all’essenza monolitica in quanto vi sono
numerose maniere di essere uomini, in relazione all'ambiente familiare, alla classe sociale, alla cultura e
all’orientamento sessuale di appartenenza.
Riguardo la centralità del genere nei processi di formazione di norme e istituzioni, queste ultime tendono a
preservare nel tempo una visione androcentrica del mondo peraltro dimostrata dal costante predominio
maschile nelle organizzazioni religiose, negli apparati militari, così come nei campi di prestigio artistico,
culturale e professionale.
A proposito delle fondamenta sociologiche culturali del potere, si sostiene che il dominio maschile si
riproduce attraverso una manipolazione costante delle relazioni di genere. Riguardo invece l'ultimo punto, la
"crisi del maschile", si è assistito al passaggio dalla crisi della mascolinità come "obiettivo" della rivolta
contro il potere dei padri, alla crisi della mascolinità come "prezzo" che gli uomini devono pagare per
preservare sé stessi e il loro potere.

Oltre la dicotomia: la pluralità dei generi


Un movimento che è riuscito a mettere in crisi la mascolinità egemonica è il movimento degli omosessuali
che ha proposto modelli alternativi di mascolinità. La formazione di questo movimento ha coinciso con lo
sviluppo di una presa di coscienza della propria condizione, stimolato anche dalla lunga persecuzione nei
confronti dell’omosessualità. La subcultura omosessuale comincia dunque a manifestare apertamente la
propria esistenza, dando origine a una vera e propria cultura, sostenuta dal movimento per i diritti dei gay
che, dalla fine degli anni Settanta, hanno cominciato a rivendicare spazio e visibilità all'interno della politica,
dell'industria culturale e delle istituzioni sociali. La subcultura lesbica ha invece tardato ad autoaffermarsi.
L'attenzione nei confronti delle relazioni lesbiche è cominciata infatti solo con l'avvento del femminismo negli
anni Settanta. Un nodo difficile da sciogliere, su cui le donne omosessuali si trovano impegnate, consiste
nella difficoltà di trovare una distinzione tra omosessualità e lesbismo. Il mondo dell’appartenenza di genere
si complica poi ulteriormente con l’irruzione delle identità transessuali, transgender e queer. Le teorie queer
in particolare fanno la loro comparsa negli anni Novanta, e analizzano il genere come performance e
costruzione sociale, in linea con le tesi femministe.

17. Le minoranze, il fenomeno migratorio, il multiculturalismo


Le minoranze
Accanto alle nuove minoranze che si generano e ricreano continuamente vi sono le minoranze cosiddette
classiche che si sono formate attraverso la conquista o la migrazione. Per quanto riguarda la conquista è
stato soprattutto nel XIX secolo in Europa che gli Stati-nazione hanno cominciato ad incorporare le
minoranze nazionali, ossia piccoli gruppi etnici e identità locali che hanno dovuto assoggettarsi e uniformarsi
al centro egemone. Recentemente invece a determinare minoranze è stata soprattutto la migrazione, ossia
lo spostamento di grandi masse della popolazione da un’area geografica a un’altra, causato da mutamenti
delle condizioni ambientali, demografiche, fisiologiche. In questo caso le minoranze formatesi nei luoghi di
arrivo sono definite minoranze etniche. Per lungo tempo l’Italia è stata essenzialmente un paese di
emigrazione, a partire dai primi anni Settanta del Novecento però è diventata anche un paese di
immigrazione, quindi un paese multietnico. Dopo la fine della Seconda guerra mondiale ad attraversare
l'Europa sono stati flussi migratori provenienti dal terzo mondo e poi dall'Europa dell'est in seguito al crollo
del sistema sovietico e alla fine della guerra fredda, che hanno cambiato la fisionomia di tutto il vecchio
continente. A differenza di quelle nazioni come l'America, il Canada e l'Australia, che sono cresciute
incoraggiando l'immigrazione, in Europa però gli Stati nazionali avevano sì richiesto un afflusso di migranti,
ma solamente sotto forma di forza lavoro e non di persone. Questo ha contribuito anche a creare un clima di
ostilità verso i lavoratori ospiti temporanei ancora oggi molto vivo. Nel processo migratorio si hanno

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dinamiche interne che determinano sviluppi non previsti: ad esempio, è del tutto naturale che una persona
impegnata nel lavoro in un paese straniero, senza famiglia né contatti, sia spinta a farsi raggiungere da
moglie e figli o a formare una propria famiglia. In questo modo si avvia di fatto la seconda fase del processo,
quella della ricomposizione delle famiglie, i cosiddetti ricongiungimenti, mentre la stabilizzazione permanente
si ha quando nascono o arrivano i figli e quando questi cominciano ad andare a scuola. I flussi migratori
inoltre non incidono soltanto sul piano economico ma anche su quello politico. In seguito al fenomeno
migratorio infatti il panorama politico europeo, da un lato, ha cominciato a confrontarsi con numerosi
immigrati musulmani di cui si teme l’adesione ai movimenti fondamentalisti religiosi, mentre dall’altro, si è
misurato con una rivitalizzazione dei partiti di estrema destra, xenofobi e contrari all'immigrazione, come il
Fronte nazionale in Francia o la Lega Nord in Italia.

Il multiculturalismo
La prospettiva multiculturalista, formulata per la prima volta in Canada, nel 1971, e subito dopo in Australia
ha messo in dubbio la modalità tradizionale di integrazione fino a quel tempo, che imponeva agli immigrati di
rinunciare alle loro caratteristiche specifiche, linguistiche e culturali per adattarsi al modello di vita
dominante. Il multiculturalismo al contrario riconosce la pari dignità e il rispetto delle differenze dei gruppi
delle comunità che convivono all'interno di una società democratica. Nessun gruppo ha quindi il diritto di
imporre il proprio modello sugli altri, forzandoli a sottomettersi alla sua concezione del mondo o alla sua
visione culturale.
La valorizzazione della differenza è stata perseguita in due modi: attraverso la messa alla prova degli ideali
di uguaglianza tanto predicati dai paesi democratici e la richiesta di riesaminare i valori della convivenza e il
concetto di cittadinanza avvalendosi anche della collaborazione dei soggetti deboli. Negli ultimi anni tuttavia
il modello multiculturalista ha perso molto credito, per via di alcuni suoi difetti e contraddizioni interne. Il
multiculturalismo infatti, prestando fede al principio della preservazione delle culture sembra incoraggiare le
componenti della società a isolarsi dal mainstream, a riprodursi in piccole nicchie. Le comunità straniere
finiscono così con il fare parte a sé e ad aggirare l’integrazione. Inoltre la concessione di conservare la
propria identità culturale non tiene conto del fatto che i contenuti dell'identità sono definiti soltanto da una
parte del gruppo e non dalla sua totalità. Nelle culture orientali o in quella islamica, ad esempio, le donne
sono costrette a vivere in una condizione subalterna rispetto agli uomini, pertanto, avallando il diritto alla
differenza di gruppo si incoraggia nei fatti anche la differenza tra uomini e donne, la prevaricazione. Uno dei
nodi salienti del multiculturalismo è poi costituito dalla cittadinanza.
In Australia e in Canada lo status di cittadino viene elargito con relativa facilità, dopo soli due anni di
residenza; in altre nazioni quali la Gran Bretagna, la Francia e gli Stati Uniti la cittadinanza viene invece
accordata sulla base della presenza delle persone sul territorio. In Italia invece la legislazione in materia si
basa ancora sui legami di sangue e di parentela, per cui risulta ormai datata. Un'altra questione è poi quella
relativa alle giovani generazioni, cioè ai figli dei migranti già insediati nel nostro territorio che a differenza dei
loro genitori risultano molto attivi nel sociale, formano associazioni e puntando a modificare le regole che
definiscono la loro posizione nel paese. Chiedono cioè una cittadinanza partecipativa, basata sulla residenza
e sui diritti, piuttosto che sulla nazionalità. In questo senso l'ottenimento della cittadinanza serve prima di
tutto a sentirsi alla pari e non a identificarsi come membri di un paese.

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