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Dispensa per non frequentanti

Professoressa Anna Iuso

Cds: Storia, Antropologia, Religioni (L-42)


Insegnamento: Storia e istituzioni dell’antropologia
a. a. 2023-2024
1) Aliberti F., “Quasi adulti. Sé come narrazione sui social media”, Rivista di
antropologia contemporanea, 1, gennaio-giugno 2022, pp. 61-78.
2) Antonelli Q., Cento anni di Grande Guerra. Cerimonie, monumenti, memorie e
contromemorie, Roma, Donzelli editore, 2018, pp. XI-61.
3) Buonvino M., “Clifford Geertz a Sefrou: dalle «osservazioni strutturanti»
all’apologia del frammento”, Lares, anno LXXXVII, 1, gennaio-aprile 2021, pp.
111-130.
4) Draicchio C., “«C’est l’argent qui parle!». Economie della salute mentale tra
assistenza psichiatrica e prayer camp in area nzema (Ghana)”, Lares, 86, 2, 2020,
pp. 321-338.
5) Quarta L., “Io, gli altri, il mondo. Incontri, empatia e relazioni in un
manicomio criminale”, L’Uomo, 10 (2), 2021, pp. 71-100.
Il Mulino - Rivisteweb

Francesco Aliberti
Quasi adulti. Sé come narrazione sui social media
(doi: 10.48272/105184)

Rivista di antropologia contemporanea (ISSN 2724-3168)


Fascicolo 1, gennaio-giugno 2022

Ente di afferenza:
Società editrice il Mulino (mulino campus)

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FRANCESCO ALIBERTI

Quasi adulti
Sé come narrazione sui social media

Almost Adults. Self as Narration on Social Media


The paper presents an ethnographic exploration of the daily life of twenty-something Romans,
exploring the role of social media in their struggle to settle down and ‘re-invent’ themselves as
adults. The paper argues that social media, while expanding individuals’ horizons of possibility
to the point that it becomes difficult to define their subjectivities, are used to construct «inci-
dental narratives» of the self. These allow them to engage in social practices of imagination,
but at the same time bind them to build such imagination within the sometimes-rigid frames
proposed by social media platforms.
Keywords: Social Media, Everyday Life, Narratives of the Self, Urban Anthropology, Digital
Ethnography.

Introduzione
In questo intervento presenterò alcuni casi etnografici con cui mi sono confron-
tato tra il 2016 e il 2020, nel contesto della città di Roma. Lo scopo è quello di
esplorare cosa un’antropologia della vita quotidiana abbia da offrire all’analisi del
ruolo dei social media nei processi con cui gli individui costruiscono le proprie
soggettività.
Partendo dal presupposto che, nel contesto di ricerca preso in analisi, l’u-
so dei media digitali sia ormai entrato pienamente a far parte delle vite delle
persone come un’abitudine, modificando i termini dell’interazione con gli altri
e con sé stessi (cfr. Biscaldi e Matera 2019), ragionerò sui modi in cui queste
pratiche, aprendo a opportunità precedentemente inedite, portino a rimodulare
la costruzione del proprio contesto quotidiano e della propria soggettività. Dal
racconto etnografico emergeranno infatti le difficoltà vissute da alcuni individui

Francesco Aliberti, francesco.aliberti91@gmail.com, https://orcid.org/0000-0002-3021-8372

Rivista di antropologia contemporanea 1/2022, pp. 61-78


ISSN 2724-3168 © Società editrice il Mulino
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nel districarsi tra le diverse possibilità offerte dai social media nel tentativo di
usarli «in modi creativi per darsi identità concrete in contesti concreti» (Matera
2017, 191), portandoci a ragionare su tutte quelle operazioni da bricoleur (cfr.
Matera 2013) che le persone mettono in campo per inventare la propria quoti-
dianità (de Certeau 2001).
La pluralizzazione dei mondi di vita (Berger et al. 1975) che i social media
contribuiscono a potenziare infatti non si limita a manifestarsi nell’incontro tra una
varietà di gruppi culturali, ma «si insinua nella costituzione psichica del singolo»
(Bausinger 2008, 149) che si scopre sperduto tra le svariate possibilità senza che
ci sia una tradizione univoca e indiscussa ad aiutarlo a orientarsi. D’altronde,
come ci ricorda Bausinger (2020), per essere considerata semplice e naturale la
vita quotidiana necessita del «felice oblio» di tutte quelle condizioni e acquisizioni
culturali che la rendono possibile (cfr. Dei 2007). I social media però costrin-
gono un po’ tutti allo stupore – e alla fatica – che una volta venivano legati solo
all’immaginario dell’esploratore o dell’antropologo, svelando la natura costruita
e contestuale delle nostre quotidianità. Mi riferisco, ovviamente, al facilitarsi del
confronto tra culture, classi sociali e, in generale, individui caratterizzati da modi
di fare e tradizioni diverse fra loro.
Se pensiamo la costruzione del sé e del proprio contesto quotidiano come
progetti sociali in continuo divenire, capiamo infatti il problema posto dai
social media, che forniscono molteplici e disomogenee risorse per queste pra-
tiche (Appadurai 2012), senza però proporre anche gli strumenti necessari per
comprendere l’alterità. I social media, insomma, ampliano le nostre possibilità
d’azione ben oltre quell’«orizzonte di possibilità» (De Martino 2007) che ci
appare ovvio, ponendo le basi anche per eventuali crisi della costruzione del
sé. Le tecnologie digitali però non si pongono al di fuori della vita quotidiana,
ma si propongono anzi come un nuovo (o ulteriore) contesto «naturale» per
l’azione degli individui, capace di proporre nuovi tipi di relazioni. È quindi
proprio nelle nuove routine, nelle pratiche banali, nel costruirsi di nuovi modi di
fare e tradizioni, che è possibile osservare i tentativi degli individui di risolvere
questa crisi, attraverso la faticosa declinazione della modernità all’interno di
tradizioni specifiche (cfr. Bausinger 2008, 154). Si tratta in sostanza di osservare
quelle pratiche attraverso cui gli individui riescono a «rimediare» gli scarti tra
i diversi asset culturali.
Riprendendo in senso lato il concetto coniato da Bolter e Grusin (2003)
per indicare le modalità con cui vari media interagiscono fra loro e per cui ogni
medium di diversa generazione può integrarne un altro o negoziare con esso, è
possibile osservare come diversi tratti culturali non si avvicendino necessaria-
mente attraverso forti rotture, ma anzi spesso si contattino tramite le pratiche
quotidiane che contribuiscono a costruire una certa continuità e adattamento
nell’uso, rimediando appunto nella dimensione della sfera di vita individuale «le
rotture strutturali, i salti antropologici, le discontinuità storiche prodotte dalle
Quasi adulti 63

dinamiche di sviluppo (economico, tecnologico, sociale e politico) che fanno la


Storia» (Martella 2014, 9).
In questo intervento cercherò quindi di esplorare tali pratiche, concentran-
domi in particolare su quelle che definirò narrazioni incidentali, racconti del sé
tatticamente performati all’interno dei social media e caratterizzati dall’essere
calati all’interno delle routine culturali al punto da diventare quasi invisibili.
Attraverso l’osservazione, dunque, non di momenti eccezionali, ma di quelli più
routinari e banali della vita quotidiana, mostrerò come queste narrazioni inciden-
tali permettano di mettere in atto processi di costruzione della soggettività utili
a orientarsi, concretizzarsi e contestualizzarsi nella vastità dei mondi possibili.

Classe media e capitali mediatici


Prima di arrivare a sondare etnograficamente quanto mi propongo di fare nell’in-
troduzione, devo necessariamente spendere qualche parola sul contesto della
ricerca e sulle persone con cui mi sono confrontato.
Per quanto riguarda il primo punto, la ricerca si è svolta nella zona di Monte-
sacro, impreciso toponimo con cui i suoi abitanti definiscono un’ampia porzione
del vastissimo III Municipio romano e che interseca diverse zone urbanistiche. Per
quanto riguarda ciò che interessa in questo intervento, è importante soprattutto
specificare che questa zona si contraddistingue per caratteristiche sia geografiche
che sociali per cui può essere definita come una zona «di mezzo» o «media» (Ali-
berti 2021). Oltre a una collocazione che la rende ponte tra le aree rurali della
provincia romana e le parti centrali della città, la sua popolazione infatti può in
termini generali essere pensata come appartenente a una classe media borghese.
Utilizzo questo concetto per riferirmi a individui «mediocri» secondo la de-
finizione proposta da Le Wita (1988), persone che collocano la propria nicchia
ecologica in un delicato equilibrio tra due estremi (ivi, 2), cioè quelli di gruppi
percepiti come più subalterni o dominanti. Il gruppo che emerge da questa doppia
negazione (ibidem) è quindi sicuramente eterogeneo, ma accumunato dal faticoso
eppur necessario lavoro di riconoscersi come qualcosa. Questa – pur vaga – forma
di «appartenenza» a una certa collocazione sociale rintracciabile nelle persone
con cui mi sono confrontato a Montesacro non serve solo a descrivere le condi-
zioni in cui si è svolta la ricerca, ma è invece il punto di partenza per costruire
l’analisi delle pratiche d’uso dei social media di cui intendo parlare e dei modi
in cui queste si legano alla costruzione della soggettività.
Infatti, definire queste persone come appartenenti a una classe media o
borghese serve a individuare il contesto in cui le pratiche del quotidiano, tra cui
ricomprendere l’utilizzo dei social media, prendono luogo. In questo senso, tale
definizione permette di dipingere il quadro di un gruppo in cui si incontrano
individui portati dal proprio capitale culturale a distinguersi da strati sociali più
subalterni con cui però condividono diverse caratteristiche (precarietà economica,
64 Francesco Aliberti

immaginario mediatico, idee di futuro, ecc.), ma anche persone dotate di un alto


capitale economico che però non condividono le pratiche del quotidiano dei
gruppi cosiddetti dominanti (cfr. Meloni 2011). In buona sostanza, sottolineare
la collocazione «di mezzo» nel campo sociale ci permette di cogliere la rilevanza
che per queste persone assume l’ampliamento delle risorse culturali legate alla
pratica sociale dell’immaginazione (Appadurai 2012). La classe media mi sembra
insomma essere particolarmente esposta alla pluralizzazione dei mondi di vita, e
fortemente invischiata nel tentativo faticoso di riconciliare nel proprio contesto
locale moderno e tradizione (cfr. Bausinger 2008).
Si tratta quindi di un raggruppamento dai confini molto labili che facilmente
può confondersi con strati più agiati o più sofferenti della società, sia nella sua
personale percezione che nella rappresentazione che offre allo sguardo esterno;
si troverà dunque all’interno di questo raggruppamento chi cerca, scivolando
inevitabilmente nel trash, di maneggiare culture new age, sfociando magari in un
rabbioso rifiuto della scienza ufficiale; chi, pur avendo tutti gli strumenti per rico-
noscerle, non riesce a distinguere le ormai famigerate fake news; chi al contrario
attraverso il consumo di beni di lusso – la macchina, l’IPhone e altro ancora –
cerca di posizionarsi su un gradino più alto della società, ecc. Se insomma, come
abbiamo già detto, i media digitali contribuiscono ad aumentare le possibilità
fra cui scegliere per progettare la propria personalità e la propria esistenza (cfr.
Matera 2017, 127), possiamo individuare come essi contribuiscano anche a un
«mutamento strutturale delle condizioni di produzione dell’habitus» attraverso
l’ingresso in gioco di un nuovo fattore, capace di «modificare i rapporti specifici
tra capitale scolastico ed economico […] questo terzo fattore può essere definito
come capitale mediatico» (Vereni 2008, 60).
Se quindi la produzione dell’habitus si è modificata con l’arrivo dei media
digitali, lo stesso può dirsi dei meccanismi della distinzione e della costruzione
di nicchie diverse per i vari gruppi sociali presenti nel campo. La distinzione in
base al gusto si basa anche, come Bourdieu stesso sottolinea (2001, 378), sulla
separazione fisica e sociale tra le classi, per cui ciò che un individuo riesce a vedere
dipende in buona misura dalla condizione di vita toccatagli nella divisione del
lavoro. Nella società che osservava Bourdieu infatti l’aristocratico, il borghese e il
piccolo borghese raramente si sarebbero incontrati, frequentando luoghi diversi
per il tempo libero, stanze diverse nel lavoro, eventi culturali e sociali diversi. Al
contrario, oggi, come sottolinea Vereni muovendosi sulla scia delle osservazioni già
fatte da Abu-Lughod (2005), la capillarizzazione della comunicazione mediatica
ha permesso a un individuo posto in una determinata posizione sociale di avere
«occhi e orecchi ben più aguzzi di quanto non avessero i suoi predecessori intervi-
stati da Bourdieu e può quindi percepire come sostanzialmente ridotta la separa-
zione fisica che dava credito e che si nutriva della distinzione» (Vereni 2008, 58).
Già Meyrowitz (1985) d’altronde ragionava sui termini in cui la televisione e
altri media contribuiscono ad abbattere le barriere fisiche che separano la nostra
Quasi adulti 65

società in spazi di interazione fra loro difficilmente collegabili, portando a una


riorganizzazione degli ambienti sociali e creando un’arena collettiva dove persone
appartenenti a diversi circoli si ritrovano a condividere un contesto pubblico (cfr.
Biscaldi e Matera 2016, 2019). Oggi la diffusione capillare dei social media non
solo sembra accentuare questo processo, ma permette a persone differenziate per
estrazione sociale, culturale, identità di genere, generazione e altro ancora non
solo di incontrare immaginari appartenenti a gruppi posizionati diversamente sul
campo, ma anche di partecipare attivamente alla loro costruzione (o distruzio-
ne) e di condividerne i momenti di fruizione. Per farla breve, le persone che ho
incontrato a Montesacro non solo sono cresciute condividendo l’immaginario
dei telefilm americani e degli anime giapponesi, ma possono quotidianamente
caricare su Instagram video in cui spiegano i luoghi più «autentici» di Roma da
visitare o come si qualifica una «vera» pasta alla carbonara; allo stesso modo – e
nello stesso ambiente – possono incontrarsi immaginari politici e sociali che
precedentemente si sarebbero tenuti alla larga l’uno dall’altro, motivo per il
quale, in molti dei gruppi Facebook relativi a Montesacro discussioni sui temi del
razzismo o delle questioni di genere sono resi sostanzialmente tabù e censurati
da qualunque capo arrivino (viene censurato insomma tanto l’attivista Lgbtq+
quanto l’omofobo o il transfobico), per evitare il nascere di discussioni per cui
non si possiedono gli strumenti necessari1.
La complicazione dei modi di costruzione dell’habitus assume insomma carat-
teristiche ancora più esplosive se ragioniamo sui media digitali come strumenti da
utilizzare ovunque e non solo a casa propria; in particolare l’arrivo di smartphone
e social media sembra aver aumentato l’importanza e la portata di quel «capitale
mediatico» proposto da Vereni. All’interno di un social media come Facebook,
ad esempio, si trova uno stesso spazio virtuale condiviso da intellettuali e operai,
ricchi e poveri, bambini e adulti e tutte queste persone possono, potenzialmente,
confrontarsi l’una con l’altra. Così, l’incontro tra diverse classi sociali inaugurato
in maniera indiretta dalla televisione diviene improvvisamente diretto; succede
quindi che lo sgomento snobistico individuato da Vereni rispetto alle soap opera
o ai programmi d’intrattenimento popolari viene ribadito con ancora maggior
forza e violenza. Lo si può vedere spesso anche a Montesacro, dove quando un
tema di politica generale riesce a imporsi sulla discussione chi possiede un capitale
culturale maggiore viene spesso sorpreso a scandalizzarsi nel notare che «anche

1
Ho raccontato delle caratteristiche di questi gruppi Facebook più diffusamente in Aliberti
(2021). Per dare solamente un quadro generale del rischio percepito dell’incontro fra capitali
culturali e mediatici differenti, diversi dei moderatori dei gruppi Facebook di Montesacro
mi hanno raccontato come la necessità di vietare qualsiasi genere di discussione sul versante
politico o sociale nascesse dall’esperienza di aver visto queste comunità di vicinato (che nel
contesto preso in esame raggiungono anche i quarantamila membri) venire abbandonate e
scomparire in seguito al susseguirsi di discussioni troppo accese. Per tale ragione, loro come
molti dei membri dei loro gruppi, preferiscono mantenere la discussione solo su temi di con-
fronto condivisi, quindi perlopiù quelli relativi alla fisicità dello spazio che abitano.
66 Francesco Aliberti

gli ignoranti» hanno la possibilità di commentare su Facebook, magari proprio


sotto i loro post; dall’altra parte ci sono quanti non dispongono di questo capitale
culturale e però al contempo hanno scoperto il piacere di esprimersi, al di là dei
contenuti, e contestano con forza e spesso violenza chi vorrebbe sottrarglielo
(Aliberti 2021). In questa contesa, è proprio il capitale mediatico a essere al centro
dell’agone. Già da una prima osservazione tutto sommato superficiale emerge
come la creazione di uno spazio potenzialmente alla portata di tutti non sia stata
accompagnata né da una regolamentazione, sia che fosse repressiva o volta a co-
struire modelli di comportamento online, né dallo sviluppo di un pensiero critico
e riflessivo da parte di chi si occupa di società in ambito politico o accademico,
ma sostanzialmente lasciata a sé stessa, portando spesso alla polarizzazione dei
due fronti. Anche rimanendo sul piano dei grandi numeri non è difficile notare
questo processo, se si va a osservare il dibattito politico e sociale italiano degli
ultimi anni, con neologismi come quello di «webete», il nascere di veri e propri
fan di personaggi televisivi capaci di incarnare l’idea di «cultura alta» (come ad
esempio Piero e Alberto Angela) o di pagine che si interrogano dichiaratamente
sull’utilità del suffragio universale, sostenendo che non sempre si ha diritto a
esprimersi su temi che non si conoscono. Al contempo sorgono però delle pagine
che fanno della parola «ignoranza» un vessillo dietro cui schierarsi in difesa del
proprio stile di vita2.
Se la caduta delle barriere fisiche comporta a un livello collettivo la necessità
di ripensare i modi in cui discutiamo, ci confrontiamo ed esprimiamo le nostre
idee, a livello individuale l’aumento delle possibilità con cui costruire il proprio
capitale mediatico e il sorgere di spazi in cui incontrare «senza filtri» tutti i ca-
pitali degli altri, offrono la possibilità di appropriarsene in maniera più o meno
adeguata, moltiplicando così il repertorio di stili a cui aderire e su cui investire,
da utilizzare per giocarsi la propria posizione sul campo. Di conseguenza, per
l’individuo inserito in queste reti non è più così automatico individuare la nicchia
sociale che lui o il suo gruppo dovrebbe occupare e, in questo senso, comincia a

2
Sembra chiaro che quanto più ampia è l’arena di discussione in cui ci si incontra, tanto più
si alza il rischio di incontrare persone con un capitale culturale e mediatico significativamente
distante dal proprio. Nonostante questo, anche concentrando la mia analisi sull’uso dei social
media di una zona specifica, per quanto vasta, come Montesacro, ho potuto far fronte in diverse
occasioni a simili fenomeni. Non intendo solo osservando come gli abitanti del quartiere utiliz-
zano tali strumenti per relazionarsi col mondo esterno, ma anche facendo caso a come i social
media vengano ricontestualizzati (cfr. Miller et al. 2016) all’interno del quartiere. Nonostante
la discreta omogeneità individuabile a livello di capitale economico e culturale, vi sono discrete
differenze per quanto concerne il capitale mediatico per cui l’apertura di un’arena pubblica
provoca incontri/scontri di particolare interesse. Si tratta di un tema che ci allontanerebbe dal
focus di questo intervento, ma in particolare si può fare riferimento ai dibattiti che nascono
sul tema dell’uso dello spazio pubblico (perlopiù polarizzati su parole chiave come degrado
e movida, cui vengono opposte vivibilità e cultura), spesso costruiti attraverso la narrazione
di uno scontro generazionale. In riferimento a questi ultimi mi permetto di segnalare il caso
etnografico riportato in Aliberti (2018).
Quasi adulti 67

perdersi e a dover faticare terribilmente per tornare ad ambientarsi. Se c’è quindi


una caratteristica di questa borghesia che sto cercando di tratteggiare, è quella
di essere una «classe spaesata».
Ed è proprio questo il tema che ora cercherò di affrontare, quello di indivi-
dui «spaesati», la cui difficoltà nel ritrovare un senso alla propria presenza nel
contesto in cui si trovano, pur legata anche a vicende personali, viene acuita da
tutte le caratteristiche dei media digitali di cui ho parlato finora. Ponendomi
all’incrocio tra l’individuale e il collettivo (cfr. Candau 2002), ho cercato infatti di
osservare i tentativi di inventare il proprio quotidiano (e il proprio ruolo in esso)
messi in campo da soggetti incontrati in un momento particolare della loro vita,
quello cioè di compiere il passaggio dalla sempre più lunga adolescenza all’età
adulta, attraverso il gesto significativo di diventare indipendenti economicamente
rispetto al nucleo familiare e prendere casa con la propria nuova famiglia. In
questo frangente, la presenza di un agone pubblico – per quanto di proprietà di
privati – come quello dei social media obbliga a diverse scelte (non partecipare,
partecipare dovendosi però schierare ed esponendosi al giudizio altrui), fornen-
do però al contempo lo spazio d’azione per costruire rappresentazioni di sé che
permettano di superare questa impasse e costruirsi come persone adulte.
Mi concentrerò quindi ora sul racconto delle vicende di due persone, Valerio
ed Elga. Ho conosciuto entrambi direttamente sul campo attraverso l’incontro
favorito da amicizie in comune3. Si tratta di due individui che non si conoscono
fra loro se non di vista (come vedremo, Elga lavora in una libreria piuttosto fre-
quentata), con cui ho scelto di confrontarmi perché entrambi, per ragioni signifi-
cativamente diverse, affrontano il primo momento di netta separazione dal nucleo
familiare nel momento in cui io arrivo sul campo a Montesacro. In particolare, da
un punto di vista metodologico, ho scelto di costruire la mia partecipazione alle
loro vite condividendo con loro questo stesso momento – quello cioè di prendere
casa a Montesacro – costruendo la relazione di campo sulla condivisione paritaria
della comune «impresa» di andare a vivere con la propria famiglia d’elezione.

3
La selezione dei propri interlocutori assume caratteristiche particolari quando si fa, come
nel mio caso, campo nella propria città di nascita. Se per ovvie ragioni si semplificano diverse
questioni pratiche, diventa complesso individuare interlocutori che siano abbastanza distanti
da permetterne la «scoperta» durante il confronto etnografico. In questo senso, la scelta me-
todologica di costruzione del campo si è basata sulla strutturazione di una rete basata in parte
su contatti pregressi, in parte sul mio calarmi all’interno del quartiere Montesacro prendendo
casa al suo interno e cominciando a frequentarne gli spazi fisici e digitali.
68 Francesco Aliberti

Quasi adulti4
Incontro per la prima volta Valerio nel dicembre del 2016, quando mi invita
a salire nella sua abitazione che ha preso in affitto da poche settimane insieme
alla compagna. Come detto precedentemente, si tratta della prima «vera» casa
tutta sua e percepisco che non veda l’ora di mostrarla a chicchessia, persino a
un estraneo come me. Fino a quel momento aveva vissuto con i suoi genitori a
Monterotondo e poi per qualche anno, quando aveva provato a studiare all’uni-
versità, in una stanza nel quartiere studentesco di San Lorenzo. Arrivato quasi
ai trent’anni e dopo aver intessuto un rapporto stabile con la sua compagna da
due, ha finalmente deciso di trasferirsi nel quartiere dove aveva frequentato le
scuole superiori.

V.: «Non è una cosa da poco, perché lo sai come sono gli affitti qua, mi so’ dovuto un
po’ mettere da parte alcune cose che volevo fare, perché intanto ho bisogno di soldi».
F.A.: «Cioè, adesso cosa fai?».
V.: «Lavoro al negozio di ferramenta di mio padre, che è sempre qui a Roma, verso
san Basilio. Così intanto posso camparmi, poi vediamo».
F.A.: «Che vediamo? Vorresti fare altro?».
V.: «Boh, vorrei fa’ mille cose, a poterne fare una»5.

Che Valerio vorrebbe fare mille cose lo si capisce subito appena entrati a casa
sua. Si tratta di un appartamento al secondo piano, un bilocale di 50 metri quadri.
Il salone con angolo cottura nel quale ci si trova appena entrati è già pieno di
oggetti: in particolare la libreria che occupa tutta la parete di sinistra è impegnata
da un televisore e una Playstation nella parte più bassa, mentre i libri dell’uni-
versità sono esposti nell’angolo più vicino al muro, occupando comunque una
significativa sezione della libreria. Sopra di essi una lunga serie di altri libri, che
spazia dalla filosofia all’economia, fino alla politica. Il resto del mobile è occupato
da cd musicali più o meno di ogni genere che io conosca. Sulla parete opposta
campeggia un poster di Che Guevara, appeso sopra il divano che guarda la tv
e lo spazio viene definitivamente riempito da un tavolino che si trova davanti a
esso, al momento occupato da un portatile. Il resto della casa è il piccolo angolo
cottura alla mia sinistra mentre entro, un bagno e la camera da letto.
Notando come il mio sguardo indaga su tutta quella roba, Valerio ride diver-
tito e tira fuori il suo telefono, mostrandomi la foto di un’altra stanza, talmente
piena di oggetti, tra libri, fumetti, cd e poster, che sembra star per scoppiare.

4
Riporterò testualmente quanto raccontatomi sul campo o letto sui social media in ma-
niera diretta, comprendendo quindi – nei limiti della comprensibilità del testo – gergalismi,
espressioni dialettali, frasi volgari e costruzioni non corrette.
5
Intervista del 15 dicembre 2016.
Quasi adulti 69

V.: Questa è camera mia a Monterotondo, ti pensavi che qui era un casino eh?

Mi spiega allegramente, prima di scattare una foto al suo stesso salone.

V.: La mando a dei miei amici che non sono di Roma, che gli avevo mandato le foto la
prima volta che sono venuto a vederla, così ora vedono che l’ho già fatta diventare un
casino. In realtà ho portato solo alcune cose selezionate. Alla fine fare un trasloco è
un po’ come scegliere le cose che vuoi continuare a seguire: non ti porti più i fumetti
e allora non li collezioni più, non ti porti più la chitarra, allora probabilmente non
vuoi più suonare. Devi fare delle scelte insomma.
F.A.: Quindi tu continui ad andare all’università anche se lavori?
V.: No, ho smesso. Ma non perché non capivo, è che non riuscivo a stare appresso
ai ritmi e non mi andava tanto di continuare a fare esami. I libri però mi piacevano,
quindi me li sono portati, perché comunque anche per fare altro possono essere utili.
Mi stavo laureando in scienze della comunicazione, e ora vorrei provare a vedere se
riesco a creare qualche contenuto su internet, vabbè mentre lavoro da mio padre,
quindi comunque mi torneranno utili.

I tanti interessi e i tanti progetti di Valerio si capiscono anche guardando il


suo cellulare, che è sempre vibrante per le moltissime notifiche che gli arrivano.
Sapendo di doverlo incontrare l’avevo già aggiunto su Facebook e avevo notato
che a fianco alle condivisioni di canzoni che «da sempre» riempivano la sua
bacheca, ora erano cominciate a comparire alcune foto della sua nuova casa,
del panorama dal balcone e foto di lui e della sua compagna in alcuni punti del
quartiere.

F.A.: Senti, io me lo sono sempre chiesto, ma perché condividere la musica che ascolti
su Facebook?
V.: Guarda, per me ci possono essere tante ragioni. Cioè, magari, anzi sicuramente,
ci stanno le ragazzine che condividono la canzone stracciapalle per far capire quanto
soffrono [ride], io però le condivido principalmente perché sono dentro tanti gruppi
che parlano di musica, quindi condividendole magari ci confrontiamo un po’ sui
nostri gusti.
F.A.: Sei solo in gruppi sulla musica?
V.: No, cioè, sicuramente in molti, pure perché comunque un paio d’anni fa ho ini-
ziato una scuola, quindi ho conosciuto un po’ di gente e così ho trovato tutto quel
«filone» di gruppi e pagine da seguire. Però ne seguo tanti altri, quelli sulla Roma [la
squadra di calcio], qualcosa più di satira politica diciamo, sempre se fare meme è fare
satira politica. Poi vabbè, sono ancora in quelli dell’università, adesso sto entrando
in quelli sul quartiere.
F.A.: Come mai non esci da quelli dell’università?
V.: Vabbè non costa niente starci dentro, mica devo paga’ la retta. Però così ce l’ho
sempre lì, se voglio sapere che succede o semmai volessi ricominciare… insomma
70 Francesco Aliberti

li tieni lì, rimani un po’ aggiornato pure se non ci sei più veramente dentro. Come
coi fumetti, ormai non li seguo mica più, chi c’ha i soldi o il tempo, però resto nelle
pagine, così so più o meno cosa succede, anche se non partecipo più alle discussioni…
e magari se vedo una cosa che mi interessa in particolare prima o poi mi ricompro
qualcosa… o comunque la cerco su internet per leggerla. È un po’ come con i com-
pagni di scuola, magari non li vedi più da una vita, magari manco li voi vede, però
ce li hai su Facebook, così se una resta incinta, uno si sposa o che ne so io lo vieni a
sapere… resti aggiornato, tipo con un piede nella loro vita, meno di un piede forse,
però comunque non li perdi del tutto di vista. È come le vecchie che stanno sul bal-
cone nei paesi. Che glie frega di chi passa di là? Di base niente, però meglio buttare
sempre un occhio su tutto.

Or How to Keep People at just the Right Distance, come tenere le persone
proprio alla giusta distanza è il sottotitolo di un volume di Daniel Miller, Social
Media in an English Village (2016). Al suo interno Miller cerca di descrivere
«l’inglesitudine» (Englishness) dell’utilizzo dei social media, ovvero la decli-
nazione locale dell’uso dei vari media digitali, attraverso quella che lui chiama
la «strategia di Riccioli D’Oro» (Goldilocks strategy), una maniera con cui gli
inglesi utilizzano i social media per calibrare la precisa distanza in cui porre le
varie relazioni sociali, di modo che queste siano, come per il porridge di Riccioli
d’Oro, né troppo calde né troppo fredde, ma just right.
Più che questo modo «inglese» di fare, quello che ci interessa qui è l’idea
di utilizzare un determinato media digitale in un determinato contesto al fine di
gestire delle relazioni, che possiamo individuare anche nel comportamento di
Valerio. Egli, infatti, non utilizza i social media solo per gestire le relazioni sociali,
ma anche i propri «appetiti» culturali, i suoi vari interessi. Attraverso i social
media Valerio si posiziona in maniera ben congeniata all’interno del reticolo di
habitat di significato (Hannerz 2001) in cui si trova inserito, cercando di stare
alla giusta distanza da ognuno di essi per trovare la sua posizione all’interno del
campo di forze sociali.
Questa distanza viene gestita attraverso le varie performance messe in atto
sulle diverse piattaforme, per cui quando Valerio commenta una discussione su
un gruppo piuttosto che un altro, condivide un post dove parla di musica op-
pure di politica, sta mettendo in atto un’azione performativa che gli permette di
gestire questo processo. Allo stesso tempo, questo tenersi in contatto con tutte
le sue passioni serve a Valerio anche a salvare parti della propria personalità a
cui è affezionato ma a cui non riesce a dare più la giusta importanza. Come ab-
biamo visto, la scelta di andare a vivere insieme alla compagna, dando il là alla
sua aspettativa di costruirsi una famiglia, lo costringe a lasciare l’università. Lo
studente universitario appassionato di politica e libri di filosofia deve necessa-
riamente lasciare spazio al figlio del ferramenta che lavora nel negozio del padre.
Attraverso i social media però Valerio cerca di rappresentarsi e pensarsi come
Quasi adulti 71

una persona ancora piena di interessi e non piegata a un preciso destino sociale,
come d’altronde testimonia anche l’organizzazione del suo salotto.
Bisogna inoltre fare una seconda considerazione rispetto alla gestione delle
proprie relazioni sociali e al modo in cui questa aiuta Valerio a plasmare una
rappresentazione di sé stesso. Seguendo il suo comportamento sui vari social
media, ho visto confermarsi il concetto di scalable sociality (Miller et al. 2016),
potenzialità dei social media che permette di declinare lo stesso spazio per effet-
tuare comunicazioni dalla più privata alla più pubblica.
Ad esempio, Valerio come molti preferisce organizzarsi con gli amici con
messaggi come «ci vediamo stasera alle 9» su WhatsApp e non si sarebbe mai
sognato di scriverlo sulla bacheca di Facebook; anzi, ricorda spesso ironicamente i
primissimi anni di Facebook in Italia, quando nel 2008 non c’erano ancora servizi
gratuiti di messagistica istantanea, non era ancora chiarissimo cosa fosse Facebook
stesso e molti in effetti si organizzavano pubblicamente sulle rispettive bacheche
per i propri appuntamenti. Quando però ci siamo organizzati per andare allo
stadio, Valerio ha scelto di scrivere un post su Facebook dove taggava me e altri
suoi amici, «caricandoci» per la serata e, allo stesso tempo, facendo sapere a tutti
di questa sua attività. Al contrario, raramente Valerio ha commentato post miei
o di altri suoi amici, se non quando, con una battuta o un commento particolar-
mente ermetico, poteva far trasparire un livello di intimità maggiore rispetto a
quello di altre persone che commentavano in maniera più «ingenua». Insomma,
se la scalable sociality è sicuramente una potenzialità che i media digitali hanno
conferito alla comunicazione tra individui, questa non sembra muoversi esclusiva-
mente sulle due assi «dal più privato al più pubblico» e «dal gruppo più piccolo
al gruppo più grande», ma viene invece giocata attraverso delle poetiche del sé
in grado di selezionare astutamente di volta in volta il canale più adatto. Anche
il modo di gestire un commento, una condivisione, un like fa parte, insomma, di
una tattica auto-rappresentativa.
La difficoltà di costruire la propria soggettività come membri adulti della
società la troviamo anche nel caso di Elga, con connotati però ben diversi rispetto
alla vicenda di Valerio. Anche lei, quando la incontro, si è recentemente trasferita
nella sua «prima» casa. Per lei però la decisione di trovare uno spazio tutto suo
non dipende dalla volontà di progettare una nuova famiglia, ma dall’arrivo im-
previsto di quest’ultima. Nel 2011 infatti Elga rimane incinta, all’età di 21 anni.
In quel momento anche lei era iscritta all’università e cercava di portare avanti
dei progetti di vita ben determinati. Dopo aver lasciato gli studi per occuparsi
della figlia, è rimasta in casa dei suoi genitori fino a che la piccola Velia non ha
compiuto 4 anni e lo spazio della cameretta d’infanzia cominciava a essere stretto.
Dopo aver affittato casa da sola per qualche anno, Elga riesce nel 2018, a ormai
28 anni, a comprare la sua prima casa. In questo scenario non compare il padre
di Velia, figura misteriosa di cui molto poco mi è stato detto e che comunque è
sempre stato fuori dalla loro vita dal momento in cui lei ha scoperto di aspettare.
72 Francesco Aliberti

Quando incontro Elga lei ha ormai 28 anni e, chiaramente, ha cambiato i suoi


programmi.

E.: Si vabbè, avrei voluto laurearmi in lettere, cioè in archivistica se ci riuscivo, perché
il sogno mio era aprire una libreria. Però, obiettivamente, mica ci sarei riuscita. Ti
immagini aprire una libreria nel 2018? Se ci pensi fa’ ride. Pure essere madre single
nel 2018 fa abbastanza ride in realtà, però per fortuna i miei mi hanno potuto dare
una mano quando Velia era appena nata, ora che va a scuola ho potuto cercarmi un
lavoro e per fortuna qua intorno la mia famiglia conosceva un sacco di gente e pure
io da ragazzina mi facevo volere bene, quindi alla fine mi hanno preso proprio alla
libreria e con un contratto vero, che mi posso permettere una casa vera per me e per
Velia, no un monolocale, che allora restavamo a casa dei miei. E alla fine una libreria
mia non l’avrei mai aperta, quindi sarei comunque arrivata a questa situazione, però
magari dopo aver perso dieci anni all’università6.

Elga ha insomma dovuto scontrarsi non con la necessità ma con il dovere


inaspettato di diventare «adulta». Ha dovuto all’improvviso immaginare che tipo
di madre sarebbe stata, imparare a cavarsela per non pesare troppo sui genitori
e ha anche dovuto capire cosa fare di sé stessa come persona.
Lavorando sulla sua bacheca Facebook in maniera diacronica oltre che sin-
cronica, ho potuto notare come dal 2011 al 2012 Elga fosse praticamente sparita
dalle aree pubbliche del social, per poi riapparire l’anno successivo; non con foto
di lei e sua figlia, come ero portato a immaginare, ma con foto delle sue (nuove)
prime lezioni all’università, a cui per un breve periodo si è iscritta una seconda
volta, commenti rispetto alla cronaca generale, che le permettono di riprendere
la sua attivissima partecipazione politica dei tempi del liceo e soprattutto selfie
insieme ad amici e amiche di vecchia data in situazioni «tipiche» di ragazzi che
frequentano l’università, come aperitivi, sessioni collettive di studio, visite al bar
per un caffè e altro ancora.
Giocando su questa cosa, ho proposto a Elga di confrontare le nostre due
bacheche, di scorrerle insieme a partire dal momento della nostra iscrizione al
social. Quando le ho fatto notare questo anno di vuoto e l’inaspettata comparsa
tardiva di Velia, le chiedo se la ragione andava individuata nel non voler mettere
foto della neonata su internet, come capita di sentir dire da alcuni neogenitori
che però, tuttalpiù, mettono la foto censurando il viso del figlio o della figlia con
uno smile.

E.: No, non è che non volevo postare foto di Velia per questioni di privacy, quello non
l’ho veramente mai capito, infatti adesso le posto no? È che in quel momento… non
lo so, mi pesava? Non lei, amore mio, no, mi pesava… essere marchiata. Non volevo
che per una serie di persone che avevo conosciuto nei primi anni dell’università o che

6
Intervista del 9 marzo 2018.
Quasi adulti 73

conoscevo di sfuggita a scuola io diventassi «quella che era rimasta incinta». Essere
solo un pettegolezzo… «Ti ricordi Elga? È rimasta incinta a vent’anni, si vedeva che
era una facile» e tutte queste cose così e fine. Io continuo a essere una persona, anzi
forse sono anche una persona migliore adesso. E non è che se hai una figlia devi
smettere di esistere come persona o come donna e devi diventare solo una madre.
Certo, io ho potuto provare a fare altro pure perché la mia famiglia mi sostiene, fa
pari col fatto che sono sola… però ecco, volevo dire che io ero ancora io… e nel mio
piccolo che una donna non è solo una macchina per fare figli, pure se un figlio magari
ce l’ha. Ho una figlia e sono una persona, studio e lavoro, è un problema? Sono una
madre, ma non sono solo una madre.

Più avanti nella timeline su Facebook Velia compare, più o meno verso la
fine del suo secondo anno di età e in maniera molto preminente e pedissequa,
facendo poi la sua apparizione anche sul più recente profilo Instagram della
madre. Le foto della bambina o di madre e figlia insieme non sono quasi mai
semplici rappresentazioni della piccola in qualche posa dolce o carina, magari con
un vestitino nuovo o insieme alla giovane nonna. Sono invece quasi sempre foto
delle due che viaggiano insieme, della bambina che fa «la dura» con gli occhiali
da sole della madre, oppure immersa tra i mille libri della madre, tra i quali gat-
tona. Tutte queste foto sono accompagnate da lunghi racconti, sostanzialmente,
sulla loro relazione, sulle domande della bambina e sulle risposte della madre,
che quasi sempre finiscono per esprimere importanti messaggi sociali relativi alle
notizie di cronaca.

E.: L’altro giorno sono venuti a trovarmi degli amici e, visto che si avvicinava l’anni-
versario di Genova, ci siamo ritrovati a parlare di Carlo Giuliani. Velia ci ha sentito
e ha cominciato a fare domande, quelle domande che sanno fare solo i bambini, con
tutti i loro «Perché? Perché?». All’inizio gli altri cercavano di cambiare argomento,
ma poi le abbiamo raccontato un po’ la storia di quello che è successo. Da quel mo-
mento in poi ha cominciato a chiedermi sempre più dettagli, sulla storia di «Carlo»,
perché lo chiama così, come se fosse una di quelle persone che prendevano il caffè
con noi, uno di famiglia7.

Significativamente col passare del tempo Elga segue il percorso dei ragazzi
più giovani, abbandonando sempre più Facebook in favore di Instagram. Qui in
particolare Elga riscopre la sua partecipazione politica, raccontando con foto e
video del suo impegno – in cui la figlia è sempre coinvolta – in attività socialmente
utili, manifestazioni, prese di posizione sui temi del giorno, ecc.
Attraverso foto, video, racconti, Elga cerca di costruire una rappresentazione
di sé che la soddisfi. Manifesta, infatti, un certo orgoglio nell’osservare la differen-
za tra i post di altre mamme su Facebook e Instagram e i suoi. Non le interessa

7
Post scritto nel 20 luglio del 2017, giorno dell’anniversario della morte di Carlo Giuliani.
74 Francesco Aliberti

mettere video con colonna sonora strappalacrime che ripercorrano i passi di sua
figlia, o presentarla come una principessa. Le interessa invece dichiaratamente
proporre la sua idea di genitorialità, che, venendo rappresentata nell’agone dei
social le permette di riappropriarsi della propria soggettività rispetto alle pres-
sioni della società e del caso. Tramite un uso molto preciso dei social media, che
ora andremo a definire, riesce quindi a ricucire diverse «versioni» di sé stessa,
sia quella che era prima di diventare madre, sia quella che inevitabilmente ha
dovuto diventare dopo.

Narrazioni incidentali
Attraverso questi due esempi, che come spesso accade sono da intendersi come i
casi più significativi colti tra molti incontri non dissimili fatti sul campo, abbiamo
osservato come i social media vengano utilizzati da queste persone per rimediare
le disgiunture tra le diverse possibilità a loro disposizione per pensarsi come
individui. Le loro storie, infatti, restituiscono la complessità con cui cercano il
loro modo di «esserci», di ritrovarsi, di riuscire a trovare un senso per il loro agire
che, in maniere differenti, hanno sentito sfuggirgli con il passaggio all’età adulta
e al doversi immaginare come persone indipendenti, senza avere necessariamente
costruito dei progetti personali ben precisi.
Il quadro è poi ancor più complesso dal momento che le pratiche con cui
cercano di costruire la propria soggettività sono rese particolarmente difficili da
leggere – ma al tempo stesso particolarmente efficaci – dal loro non configurarsi
come azioni circoscritte in precise ritualità o inscritte in una tradizione. Non ci
sono grandi momenti a segnare le decisioni di Elga sul suo modo di essere madre;
né Valerio, nell’andare a vivere con la propria compagna, dedica a questa occasione
un momento importante come quello del matrimonio, nonostante l’investimento
personale sia comunque parimenti importante. Non ci sono insomma occasioni
in cui queste persone possano rappresentare e raccontare esplicitamente i loro
momenti di passaggio, le loro decisioni sul futuro, la loro rilettura del passato.
Ragionando sul ruolo del racconto nella società, Bausinger sostiene che sia
importante dare spazio a quelle storie quotidiane che «si mimetizzano, per così
dire, e per questa ragione non danno nell’occhio» (2014, 98). Secondo lo studioso,
infatti, sempre più i racconti si farebbero incidentali, cioè conformati alle cornici
in cui si inseriscono per poter essere narrati. L’incidentalità per Bausinger è la
categoria definitoria (Martella 2014) dell’oralità narrativa, date le scarse possibilità
di individuare momenti organizzati appositamente per questo scopo. Martella
propone una ripresa e un aggiornamento della tesi di Bausinger alla luce della dif-
fusione dei media digitali, osservando come l’incidentalità delle storie si comporti
all’interno di quest’ultimi; ad esempio, sembrano particolarmente interessanti le
piattaforme di messaggistica istantanea, che permetterebbero di elaborare sto-
rie in modalità scritto-orale, consentendo nuove strategie di racconto. Nei due
Quasi adulti 75

esempi qui riportati in effetti si è potuto osservare proprio una proliferazione


di storie che si fa ormai quasi tangibile: Elga si trova spesso a raccontare storie
d’attualità su Facebook, Valerio ne inserisce diverse all’interno degli scambi via
WhatsApp, raccontando quello che gli capita. In generale le storie sembrano
girare molto liberamente all’interno dei social media e con un discreto successo,
venendo spesso condivise e ri-condivise, soprattutto quando si fanno contenitori
di messaggi morali, come la storia di Elga su Carlo Giuliani.
L’incidentalità di questi racconti, d’altronde, sembra accompagnarsi a un
altro punto che emerge osservando le pratiche di utilizzo dei social media: questo
stesso utilizzo sembra essere incidentale. Voglio dire che utilizzare tali tecnologie
avveniristiche spesso non è un fatto emozionante ed eccezionale, limitato a un
contesto preciso, come poteva essere un tempo l’accesso alla sala giochi di un bar
o al computer dell’ufficio. Questo scarto nell’utilizzo attuale dei media digitali
risulta evidente quando ad esempio Elga confronta i suoi ricordi con quello che
vive sua figlia:

E.: Io mi ricordo le prime volte che a casa ci connettevamo a internet, penso quando
avevo sette o otto anni. Il rumore della connessione… te lo ricordi anche tu no? Prima
come se venisse digitato un numero, poi una specie di rumore starnazzante… era
l’inizio di queste sessioni brevissime, ma che avevano tutta una loro ritualità. Dovevi
chiedere se a qualcuno serviva il telefono, aspettare che avvenisse la connessione
e se dovevi fare una ricerca su qualcosa dovevi avere in mente cosa volevi cercare,
perché a starci troppo partiva la bolletta… era una specie di evento del week-end,
almeno a casa mia.
F.A.: E anche per tua figlia è un evento?
E.: Ma che evento, è la cosa più banale del mondo no? Non è che mia figlia stia
sempre sul mio cellulare o tablet, però obiettivamente è uno strumento con cui ha
familiarizzato da subito. Quando non dormiva da bambina usavo YouTube per farle
sentire musica da camera, che la calmava, poi i cartoni, i giochini… penso sia anche
giusto che familiarizzi con queste cose, perché non è che può arrivare svantaggiata
nella vita, e lo sarebbe se non sapesse usare un tablet. Penso pure che quando sarà un
po’ più grande comincerò a farle usare qualche social con me, così almeno impara a
usarli responsabilmente, tanto non penso sia possibile impedire di crearsi dei profili a
una che sarà adolescente nel… 2024. Però obiettivamente per lei non ci sarà niente di
emozionante nel fatto in sé, magari le succederanno cose emozionanti usando queste
tecnologie, ma non sarà emozionante usarle per usarle8.

Elga non ricorda neanche tanto precisamente cosa facesse su internet e al


computer in quei momenti speciali in cui poteva usarli, ricorda soprattutto la
gestualità e la ritualità di poterli utilizzare, ricorda, come dice lei, l’emozione di
usarle per usarle, con lo scopo dell’utilizzo che diventa marginale. Al contrario,

8
Intervista del 4 dicembre 2018.
76 Francesco Aliberti

difficilmente qualcuno sosterrebbe di emozionarsi nello «scrollare» la home di


Facebook, ma tuttalpiù si potrebbe mettere a parlare di quanto ha visto, cioè le
ultime notizie di cronaca, cosa fanno i suoi amici, una battuta simpatica; ma in
nessun modo vedere tutto questo sembra potersi considerare un grande evento,
qualcosa di emozionante a cui dedicare una parte appositamente ritagliata del
proprio tempo. Come commenta Valerio: «Praticamente quello che era clamoroso
manco tanto tempo fa, che magari ci mettevi tre giorni a farlo su internet – ma
letteralmente eh – ora lo faccio per ammazza’ il tempo mentre sto al bagno e mi
annoio pure».
In questo senso utilizzare i social media è diventata una pratica incidentale e
routinaria, qualcosa che molto spesso facciamo mentre stiamo facendo altro; così
queste pratiche finiscono sullo sfondo, il nostro navigare diventa un’operazione
assolutamente volontaria, quindi non accidentale, ma di cui spesso si perde la
consapevolezza, esattamente come quando si cammina si pensa a dove si sta
andando e non a come mettere i piedi uno in fila all’altro.
Ritengo però che sia proprio questo uso incidentale dei social media a dar
forza e importanza alle narrazioni costruite al loro interno. Queste narrazioni
incidentali che troviamo sui media digitali si presentano infatti come performance
di racconto che, approfittando della struttura multimediale che i social media
consentono, si mimetizzano di volta in volta in base al contesto della conversazione
in cui si inseriscono. È un lavorio di frasi, immagini, canzoni, video, hashtag, foto,
elementi che singolarmente potrebbero sembrare insignificanti, ma che osservati
nel loro insieme raccontano della messa in pratica del lavoro dell’immaginazione
come fatto sociale capace di negoziare l’agire tra siti d’azione individuali e campi
globalmente definiti di possibilità (cfr. Appadurai 2012). Questi racconti operano
come bricolage, cioè come pratiche che mettono insieme quanto avanza, i resti.
In questo senso, dunque, i racconti incidentali sono un «fare poetico» (Herzfeld
2006), azioni sociali attraverso cui riorganizzare i significati allo scopo di costruire
la propria soggettività e produrre un nuovo senso della propria quotidianità,
quando gli «accidenti» della propria vita personale si innestano nella complessità
di un’arena pubblica sempre più ampia in cui individuare il proprio spazio.
Va però in conclusione sottolineato un altro aspetto delle narrazioni inci-
dentali che qui ho tentato di definire; la loro natura incidentale e «tattica» (de
Certeau 2001) le rende infatti pratiche che, non operando su uno spazio proprio
in cui capitalizzare i successi, sono sempre soggette ai mutamenti di uno spazio
che è altrui in più sensi. Quello dei social media è infatti uno spazio altrui non
solo perché di proprietà di grandi aziende che ne cambiano saltuariamente le
caratteristiche in base a visioni di mercato, ma anche perché si tratta di luoghi i
cui stili rappresentativi – potremmo dire stilemi narrativi – cambiano in base al
passare di mode, momenti storici, ecc. Le narrazioni incidentali, insomma, per
esistere e permettere la costruzione di rappresentazioni del sé efficaci, devono
Quasi adulti 77

necessariamente confrontarsi con i vincoli strutturali e ideologici posti dai social


media e dai flussi globali che li attraversano.

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MICHELA BUONVINO

CLIFFORD GEERTZ A SEFROU: DALLE


«OSSERVAZIONI STRUTTURANTI» ALL’APOLOGIA
DEL FRAMMENTO

ESTRATTO
da

LARES
Quadrimestrale di studi demoetnoantropologici
2021/1 ~ (LXXXVII)
Anno LXXXVII n. 1 – Gennaio-Aprile 2021

Rivista fondata nel 1912


diretta da
Fabio Dei

Leo S. Olschki
Firenze
AnnoLXXIX
Anno LXXXVII
n. 1n. 1 Gennaio-Aprile
GENNAIO-APRILE 2021
2013
Anno LXXIX n. 1 GENNAIO-APRILE 2013

LARES
Rivista
Rivista LARES
quadrimestrale
quadrimestrale di
di studi
studi demoetnoantropologici
demoetnoantropologici
Fondata
Rivistanel
Fondata 1912
1912 ee diretta
diretta da
quadrimestrale
nel L. studi
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L. Loria (1912),F.F. Novati
Novati(1913-1915),
(1913-1915),
demoetnoantropologici
Loria (1912),
P. ToschiP.(1930-1943;
Toschi (1930-1943;
1949-1974), 1949-1974), G.B.(1974-2001),
G.B. Bronzini Bronzini (1974-2001),
V. Di Natale (2002)
Fondata V.nelDi Natale
1912 (2002),
e diretta Pietro
da L. LoriaClemente
(1912), F. (2003-2017)
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AETANO . . . . . . di . . . . . e. conflitto . . . . . . . in. Antonio . . . . . .. .. 11
35
CLorenzo Bartalesi,
ZENE Logiche
, Riflettendo in azione:
su Antonio l’antropologia
Pigliaru:Islam del pensiero
tra ordinamenti di Carlo dono .e/o
Severi. . . 5
DOSIMO
OMENICO COPERTINO , Autorità in questione. e modelli die soggettività
paradigmi –devota nelleven-
di-
Alessandro
detta? . Lupo,
scussioni . Vestire
. . a .immateriali
in. moschea . . .. presenze:
Milano .. .. .. .riflessioni
. .. .. ..su..alcuni
.. .. oggetti .. .. otomì
.. .. rituali .. .. ..alla.. 35
45
D luce
OMENICO
LAURA deCl’Oggetto
OPERTINO
CHERUBINI ,Persona
, Arpie AutoritàdiinCarlo
dalle belle Severi
questione.
chiome. DiIslam. e. modelli
capeli e. turbini
. .difra.soggettività
. . . antico
mondo . . e .survivals
devota . di-
nelle . 17
Carlo Severi,in.L’antropologia
scussioni
moderni moschea . della
. . . a Milano . . memoria,
.. .. .. il.. Leopardo
.. .. .. Cristiano
.. .. .. e.. il bisogno .. .. .. . ..
.. .. .. di.. credere 45
31
73
Roberto
LMAURA
ARIANO Malighetti,
CHERUBINI ArpiePraticando
FRESTA,,L’identitàdalle belleilchiome.
culturale sincretismo.Trasversalità
Di dei
alla prova capeli Il casoe della
e turbini
fatti. complessità
fra mondo dell’antropologia
antico e survivals
val Germanasca 1981-82 95
moderni
culturale di. Tullio
. . Seppilli.
. . . .. .. .. .. .. .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 73
39
M ARIANO FRESTA , L’identità culturale alla prova dei fatti. Il caso della val Germanasca 1981-82
Zaira
ARCHIVIOTiziana Lofranco – Federica Tarabusi, Balcanismo e costruzione sociale delle 95
migrazioni
PIETRO CLEMENTEforzate in Italia:
, Evocare esplorazioni
la «barbuira». Ritiantropologiche . . . di. ricerca
calendariali e memorie . . .. .. . . . . . 59
113
ARCHIVIO
Fulvio Cozza, Al di là dello scavo. Archeologia e pratiche del cordoglio nell’Italia contempo-
PGli ranea
autori
IETRO .. .. ,.. Evocare
CLEMENTE .. .. .la .. .. .. .. Riti
. «barbuira». .. ..calendariali
.. .. .. ..e memorie
.. .. . . di. . ricerca
. . . . .. . .. . .. . .. . .. 87
127
113
Michela Buonvino, Clifford Geertz a Sefrou: dalle «osservazioni strutturanti» all’apologia
. . . .. .. .. .. .. .. .. .. .. .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
del frammento
Gli autori 111
127
Francesco Aliberti, Perché postiamo? Una riflessione sul lavoro del Centre for Digital
Anthropology (UCL) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 131
Antonio Fanelli, La ‘partecipazione osservante’ e la via italiana all’antropologia. Una essay
review del volume di studi L’eredità rivisitata, con Nota di replica di Antonello Ricci 147
Gli Autori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 171

Pubblicato nel mese di ottobre 2014

Pubblicato nel mese di ottobre 2014


AnnoLXXIX
Anno LXXXVII
n. n.
1 1– –Gennaio-Aprile
Gennaio-Aprile 2013
2021

Rivista fondatanel
Rivista fondata nel1912
1912
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FORUM

L’OGGETTO-PERSONA. RITO MEMORIA IMMAGINE

Torna con questo numero di Lares la rubrica «Forum», dedicata alla


discussione a più voci di importanti libri recentemente pubblicati. Al cen-
tro del dibattito è L’oggetto persona. Rito memoria immagine di Carlo Severi,
tradotto nel 2018 da Einaudi (ed. orig. L’objet-personne. Une anthropologie de
la croyance visuelle, Paris 2017). Si tratta dell’opera più recente di un autore
molto noto, che prosegue e sviluppa la riflessione già iniziata in precedenti
lavori come La memoria rituale e Il percorso e la voce, intrecciando in modi
del tutto originali etnografie amerindiane, antropologia dell’arte, storia
culturale – nel quadro di una prospettiva cognitivista che Severi preferisce
chiamare “antropologia del pensiero”. Il forum si articola in due interventi
di Lorenzo Bartalesi e Alessandro Lupo, chiudendosi con una replica dello
stesso Severi. Il testo di Bartalesi e quello di Severi sono stati inizialmente
discussi all’interno di una tavola rotonda dedicata al libro, nel quadro del
convegno «Ontologie Locali/Mondi Multipli. Temi e problemi della svolta
Ontologica», tenuto presso il Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere
dell’Università di Pisa, 16-17 dicembre 2019).
Michela Buonvino

CLIFFORD GEERTZ A SEFROU:


DALLE «OSSERVAZIONI STRUTTURANTI»
ALL’APOLOGIA DEL FRAMMENTO

Significato e ordine: Sefrou, un perfetto esemplare

All’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso Clifford Geertz era ancora
indeciso sul da farsi. Alla ricerca di un campo in cui fare etnografia, impossi-
bilitato a ritornare in Indonesia a causa dell’incerta e conflittuale situazione
politica, l’«antropologo senza popolo»,1 allora assistant professor all’Universi-
tà di Chicago, approdò finalmente, nel 1964, a Sefrou. La scelta fu dettata,
come egli stesso riferì, da una serie di motivazioni molto concrete:
[…] io sto viaggiando disperatamente per il Marocco, cercando di prendere quella
che per un etnografo è la decisione più fatidica, a parte la fuga: dove mettere bot-
tega. In effetti io mi sono già deciso più o meno per Sefrou dopo una precedente
ricognizione, ancor più a perdifiato – ventuno città in trentacinque giorni. Il pascià
è affabile, i miei figli possono viverci con un ragionevole agio, e poi vi sono berbe-
ri, ebrei, olivi e mura.2

L’idea era quella di realizzare uno studio di lunga durata, un ‘Moroccan


project’, sul modello della ricerca a Pare condotta nei primi anni Cinquanta
del Novecento.3 L’équipe era composta da Hildred Geertz, Lawrence Ro-
sen, Thomas Dichter e Paul Hyman. Nel 1968, lasciandosi alle spalle l’at-
mosfera sartriana delle passeggiate sulla Senna parigina, si unì al team Paul
Rabinow.4

1 H. Rachik, Le proche et le lointain, Marseille, Éditions parenthèses, 2012, p. 190. Tradu-


zione dell’autrice.
2 C. Geertz, Oltre i fatti, Bologna, il Mulino, 1995, p. 84.
3 Si sarebbe dovuto trattare di una ricerca etnografica da realizzarsi secondo la moda del
«chain-link»: una serie di antropologi avrebbero condotto le proprie ricerche presso la stessa
cittadina (si veda T. Dichter, Are we there yet? Geertz, Morocco, and modernization, «The Journal
of North African Studies», XIV, 3-4, 2009, p. 545).
4 P. Rabinow, Reflections on fieldwork in Morocco, Berkeley, Los Angeles-London-California,
University of California Press, 1977, p. 1.
112 MICHELA BUONVINO

Anteriormente all’esperienza di fieldwork in Marocco, tra il 1952 e il


1954, Clifford Geertz era impegnato nella sua prima ricerca sul campo
a Giava, dalla quale derivò la tesi di dottorato, discussa nel 1956 all’Uni-
versità di Harvard. Tra il 1957 e il 1958 soggiornò a Bali e tra il 1960 e il
1966 furono pubblicati alcuni f ra i testi più celebri dell’intera produzione
geertziana: The Religion of Java (1960), Agricultural Involution. The Process
of Ecological Change in Indonesia (1963), Peddlers and Princes (1963), The
Social History of an Indonesian Town (1965) e Person, Time, and Conduct in
Bali (1966).
Salvo qualche recente critica proveniente da alcuni economisti politici
e dai postmodernisti, l’influenza che le opere di Geertz hanno esercita-
to sugli studi antropologici del sud-est asiatico è, tutto sommato, poco
discussa. L’approccio interpretativo allo studio dei significati culturali,
dunque, continua ancora oggi ad occupare un ruolo di guida per la mag-
gior parte delle ricerche antropologiche svolte in quei territori.5 Come
sostiene Sherry Ortner, invece, «The Morocco work is a more complex
matter».6 Infatti si trattò di una ricerca lunga e f rammentata (estesasi
dal 1963/1964 fino al 1986), da cui derivarono sostanzialmente due libri
(Islam Observed: Religious Development in Morocco and Indonesia nel 1968 e il
volume collettaneo Meaning and Order in Moroccan Society: Three Essays in
Cultural Analysis nel 1979; dei due, soltanto il secondo è incentrato esclu-
sivamente sul fieldwork in Marocco) e i cui esiti procurarono a Geertz
subitanee critiche. Difatti, erano gli stessi anni in cui Ernest Gellner con-
duceva i suoi studi in Marocco e parlava di una «cloud-culture-talk» della
‘scuola’ geertziana,7 opponendovisi solidamente. Al ‘Maghreb interpreta-
to’ dell’antropologo americano, egli ribatteva con un ‘Maghreb spiegato’
mediante il paradigma della ‘berberità classica’ e attraverso la teoria del
passaggio dalla segmentarietà al nazionalismo.8 Anche gli studiosi f ran-
cesi, da parte loro, non sembrarono interessarsi particolarmente al lavoro
di Geertz. Islam Observed venne tradotto soltanto nel 1992,9 mentre il sag-

5 Cfr. J. Bowen, The Forms Culture Takes: A State-of-the-Field Essay on the Anthropology of
Southeast Asia, «Journal of Asian Studies», vol. 54, 4, 1995, pp. 1047-1078.
6 S. Ortner, Clifford Geertz (1926-2006), «American Anthropologist», New Series, CIX,
2007, 4, p. 788. Sulle vicende travagliate concernenti la ricezione del lavoro di Geertz in Maro-
cco cfr. D.F. Eickelman, Not lost in translation: The influence of Clifford Geertz’s work and life on
anthropology in Morocco, «The Journal of North African Studies», XIV, 3-4, 2009, pp. 389-395.
7 D.F. Eickelman, Clifford Geertz and Islam, in R.A. Shweder – B. Good (a cura di), Clifford
Geertz by His Colleagues, Chicago, University of Chicago Press, 2005, p. 70.
8 Cfr. L. Addi, Deux anthropologues au Maghreb: Ernest Gellner & Clifford Geertz, Paris, Édi-
tions des archives contemporaines, 2013. La teoria della segmentarietà di Gellner si trova for-
mulata nel celebre testo Saints of the Atlas, London, Weidenfeld and Nicolson, 1969.
9 C. Geertz, Observer l’Islam. Changements religieux au Maroc et en Indonésie, Paris, La dé-
couverte, 1992.
CLIFFORD GEERTZ A SEFROU 113

gio contenuto in Meaning and Order non apparve in lingua f rancese prima
del 2003.10
Eppure è importante sottolineare che il ‘laboratorio marocchino’ ebbe,
nell’elaborazione dell’antropologia geertziana, un ruolo non meno rilevan-
te di quello indonesiano. Se si guarda alla struttura di The Interpretation of
Cultures (1973), si noterà che, sebbene rispetto all’etnografia indonesiana
quella marocchina sia presente nel testo in misura assai ridotta, nel sag-
gio cruciale Thick Description: Toward an Interpretive Theory of Culture,11 il
pretesto principale per la formulazione del concetto di ‘descrizione densa’
viene individuato da Geertz proprio in un aneddoto riguardante un fur-
to di greggi che vede coinvolti berberi, gendarmi francesi e commercianti
ebrei, avvenuto sugli altipiani del Marocco centrale nel 1912.12 Tra furti
e ammiccamenti (e ammiccamenti ad ammiccamenti), Geertz dà mostra
delle potenzialità del circolo ermeneutico, sistemando pagine memorabili
di straordinario vigore metodologico ed epistemologico.
Nel 1974 inoltre Geertz pubblica il celebre articolo intitolato «From
the Native’s Point of View»: On the Nature of Anthropological Understanding,13
nel quale, a partire dal problema epistemologico sollevato dal Diario mali-
nowskiano, sviluppa le definizioni di experience-near concept ed experience-di-
stant concept. In questo saggio l’autore si concentra sul concetto di ‘persona’
in quanto primario veicolo di significati per analizzare le forme simboliche
di presentazione e di autorappresentazione del sé. Anche in questa occasio-
ne l’etnografia marocchina si rivela fonte indispensabile di spunti teorici: in
Marocco («mediorientale e asciutto […], estroverso, fluido, attivista, ma-
scolino […] una specie di selvaggio west»)14 la persona si definisce mediante
una particolare forma linguistica chiamata nisba; una sorta di ascrizione,
un’attribuzione che specifica una relazione profonda: una correlazione che
qualifica,15 centrale nel processo di definizione del sé.
Islam Observed è, come lo definì Ugo Fabietti, «un saggio di antropologia
della religione comparata»,16 nel quale il «brillante autore»17 mette a con-
fronto gli sviluppi che l’Islam ha avuto nei due poli opposti del mondo

10 Id., Le souk de Sefrou: sur l’économie du bazar, Paris, Bouchène, 2003.


11 Id., Thick Description: Toward an Interpretive Theory of Culture, in Id., The Interpretation of
cultures. Selected essays, New York, Basic Books, Inc., Publishers, 1973, pp. 3-30.
12 Cfr. D.F. Eickelman, Clifford Geertz and Islam, cit., pp. 63-75.
13 C. Geertz, “From the Native’s Point of View”, On the nature of Anthropological Understand-
ing, «Bulletin of the American Academy of Arts and Sciences», XXVIII, 1, 1974, pp. 26-45.
14 Ivi, p. 38.
15 Ivi, pp. 38-42. Hassan Rachik formula una critica interessante all’utilizzo fatto da Geertz
del concetto di nisba (cfr. H. Rachik, Le proche et le lointain, cit., pp. 212-214).
16 U. Fabietti, Prefazione, in C. Geertz, Islam, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2008, p. vii.
17 Ibid.
114 MICHELA BUONVINO

musulmano. All’accademismo di tanta analisi antropologica religiosa, Ge-


ertz oppone, come è noto, una nuova elaborazione del concetto stesso di
‘religione’. La religione, in quanto sistema culturale,18 è allora:
un sistema di simboli che opera (o funziona) […] stabilendo profondi, diffusi e du-
revoli stati d’animo e motivazioni negli uomini per mezzo della […] formulazione
di concetti di un ordine generale dell’esistenza e del […] rivestimento di questi
concetti con un’aura di concretezza tale che […] gli stati d’animo e le motivazioni
sembrano assolutamente realistici.19

Tale definizione, enunciata per la prima volta in Interpretazione di cul-


ture, diventa definitivamente ‘operativa’ in Islam Observed. L’obiettivo, nel-
lo studio dell’Islam marocchino e di quello indonesiano (come del resto,
secondo Geertz, lo scopo ultimo dello studio delle religioni in generale),
risiede, dunque, non tanto nell’esplicitazione dei dogmi e delle istituzioni
quanto nell’andare a sondare con le modalità in cui questi dogmi e queste
istituzioni nutrono (o logorano) la fede religiosa, ovvero «un saldo attacca-
mento a una concezione ultratemporale della realtà».20
Tuttavia gli scritti sul Marocco sono stati da più parti e per più versi
radicalmente criticati. Hassan Rachik, professore di antropologia all’Uni-
versità Hassan II di Casablanca, dedica pagine importanti all’analisi critica
dell’opera di Clifford Geertz in Marocco,21 soffermandosi anzitutto sul-
le modalità attraverso cui avviene il passaggio dal particolare al generale
nell’interpretazione antropologica geertziana. Geertz parte dal presuppo-
sto dell’omogeneità culturale dei paesi studiati. Tale omogeneizzazione, in
Marocco, sarebbe avvenuta mediante la continua, ‘originaria’, contamina-
zione tra una società rurale e una società urbana; in altre parole, attraver-
so l’interazione costante tra le campagne e le città. La storia del Marocco
dimostra che il potere politico e religioso, sia nelle ‘tribù’ che nei centri
urbani, è sempre stato incarnato da figure di uomini potenti, capi carisma-
tici, comandanti politici e di norma, come nel caso del sovrano Idriss II,
da discendenti del profeta. In breve, Geertz suppone che (l’‘anima’, l’‘es-
senza’?)22 il centro di gravità culturale di quel Marocco, risieda proprio nei

18 C. Geertz, Religion As a Cultural System, in Id., The Interpretation of cultures. Selected


essays, cit., pp. 87-125; trad. it. La religione come sistema culturale, in Id., Interpretazione di culture,
Bologna, il Mulino, 1988, pp. 111-159.
19 Ivi, p. 115.
20 Id., Islam, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2008, p. 6.
21 Si vedano i capitoli Anthropologie interprétative et culture marocaine e Anthropologie inter-
prétative: prolongements et critiques, in H. Rachik, Le proche et le lointain, Marseille, Éditions pa-
renthèses, 2012, pp. 189-244.
22 La polemica di Rachik riguarda anche l’opera di antropologi come Weśtermarck, Mon-
tagne, Berque, Gellner, Waterbuty e Doutté, «accusati» di voler discernere ad ogni costo un’ani-
ma, uno spirito, una mentalità marocchini; la critica è all’essenzialismo e al culturalismo e all’im-
CLIFFORD GEERTZ A SEFROU 115

gruppi tribali, mobili e aggressivi, che avrebbero impresso la propria firma


indelebile sull’Islam marocchino, intrinsecamente nutrito dall’Islam della
Barberia, caratterizzato dal culto dei santi, dalla rigidità morale, dalla cre-
denza nei poteri magici, da una religiosità impetuosa e questo avvenne, in
pratica, «sia nelle vie di Fez e di Marrā’kush, sia nelle distese dell’Atlante e
del Sahara».23 Questi tratti, secondo Geertz, si definiscono ‘originariamen-
te’, e il mutamento li assume come base di partenza, Rachik parla, a questo
proposito, rifacendosi alle critiche mosse da Talal Asad,24 di una concezione
‘culturalista’ e ‘fatalista’ che permetterebbe a Geertz di mettere indiscri-
minatamente sullo stesso piano i racconti dei suoi informatori e gli eventi
storici del 1100. Sembra quasi, in alcuni punti, che precetti generali risol-
vano casi particolari, e non viceversa. La questione rimane evidentemente
assai complessa: ‘particolare’ e ‘generale’ si ritrovano l’uno nell’altro, senza
sapere mai esattamente se si stia passando dall’uno all’altro o viceversa.
Resta il fatto che il processo della generalizzazione è da Geertz inteso in un
modo molto peculiare. Le interpretazioni generali non vengono estrapola-
te dai casi particolari. Questi ultimi bensì suggeriscono delle piste; fungo-
no da dispositivi ispiratori che abilitano al tentativo di dare risposta a delle
questioni globali. In Islam Observed, attraverso l’analisi della figura di Sidi
Lahcen al-Youssi, sapiente proveniente dalle tribù berbere del Medio Atlan-
te, Geertz giunge ad una formalizzazione della categoria di ‘marabuttismo
marocchino’: esso «dipinge la realtà come un campo di energie spirituali
che si condensano nella persona di singoli individui, e progetta uno stile di
vita che esalta la passione morale».25 Il bárakāh,26 incarnato nel santo, ‘ere-
ditario’ e ‘caratteriologico’, definisce dunque una precisa «interpretazione
culturale dell’esistenza» secondo la quale il ‘sacro’ si manifesterebbe nella
forma di determinati individui. A questo riguardo, fa giustamente notare
Rachik, si può constatare che i due concetti che indirizzano la generaliz-
zazione geertziana sono: il concetto di ‘visione del mondo’ (la credenza)
e quello di ‘ethos’ (l’azione). Riprenderemo a breve questa considerazione

plicita, resistente dinamica della dominazione presente in molta etnologia sul Nord Africa (cfr.
Introduction. L’arroseur arrosé, in H. Rachik, Le proche et le lointain, cit., pp. 7-22).
23 C. Geertz, Islam, cit., p. 12.
24 Cfr. T. Asad, The idea of an Anthropology of Islam, Washington, Center for Contempo-
rary Arab Studies, 1986.
25 C. Geertz, Islam, cit., p. 94.
26 Geertz ne fornisce innumerevoli definizioni: «Letteralmente bárakāh significa benedi-
zione, nel senso di favore divino. […] racchiude un’intera serie di idee collegate: prosperità
materiale, benessere fisico, soddisfazione corporale, completamento, fortuna, pienezza e, […]
potere magico. […] è una concezione del mondo in cui il divino penetra nel mondo. Implicito,
indiscusso, e ben lungi dall’essere sistematico, anch’esso è una “dottrina”. […] è un modo di
costruire - emotivamente, moralmente, intellettualmente - l’esperienza umana, una interpre-
tazione culturale della vita. […] è presenza personale, forza di carattere, vivezza morale.», ivi,
pp. 44-45.
116 MICHELA BUONVINO

di Rachik che prosegue nella sua critica contestando la rappresentazione di


al-Youssi fornita da Geertz, dimostrandone la limitatezza e la parzialità, e
soprattutto rimproverando all’antropologo americano il fatto di aver eletto
a caso emblematico un leader religioso e politico, figura tutt’altro che ordi-
naria e adatta alla elaborazione di un discorso generale sulla spiritualità di
un intero popolo.27 In ultimo, la condanna di Rachik cade su quel postulato
dell’omogeneità culturale di cui sopra, ovvero sul punto di partenza di tutta
la riflessione geertziana.
Meaning and Order in Moroccan Society è un libro imponente (di circa
cinquecento pagine), interamente dedicato alla restituzione della ricer-
ca condotta a Sefrou. Si compone di quattro saggi:28 tre saggi ‘testuali’ e
uno fotografico. Il volume si apre con un’introduzione cui segue il testo di
Lawrence Rosen;29 più avanti troviamo i saggi di Clifford Geertz30 e di Hil-
dred Geertz,31 intervallati dal photographic essay di Paul Hyman.32 Ciascun
contributo vuole offrire una diversa prospettiva su un soggetto comune,
si legge nell’aletta anteriore: «a society called Sefrou». «The unity of the
book», leggiamo di seguito, «comes in part from its subjet, in part from ex-
tended fieldwork involvement of its authors with one another, and in part
from what, in the end, emerges as a coherent, if nonstandard, conception
of the inner order of Moroccan life». Nell’ambito di questo «quadro comu-
ne», ogni ricercatore ha tuttavia scelto «due o tre» argomenti specifici su
cui concentrare il proprio sguardo. Il primo studio affronta i temi dell’orga-
nizzazione sociale e dell’identità sociale; il secondo approfondisce un par-
ticolare e paradigmatico istituto, quello del Suq (per Geertz «l’equivalente

27 H. Rachik, Le proche et le lointain, cit., pp. 204-205.


28 I contributi di Thomas Dichter e di Paul Rabinow, concernenti rispettivamente «adoles-
cence, youth culture, and school system» e «religious, political and economic life in a particular
village» (cfr. C. Geertz – L. Rosen – H. Geertz, Meaning and order in Moroccan society, Cam-
bridge-London-New York-Melbourne, Cambridge University Press, 1979, p. 4) non sono stati
inseriti nella pubblicazione. Per quanto riguarda Rabinow, gli autori accennano al progetto di
un libro esclusivamente dedicato all’etnografia da lui svolta presso Sidi Lahcen Lyusi; Dichter
avrebbe fornito, invece, importanti contributi alla formulazione delle tesi generali esposte nel
libro.
29 L. Rosen, Social identity and points of attachment: approaches to social organization, in
C. Geertz – L. Rosen – H. Geertz, Meaning and order in Moroccan society, cit., pp. 19-122.
30 C. Geertz, Suq: the bazaar economy in Sefrou, in C. Geertz – L. Rosen – H. Geertz,
Meaning and order in Moroccan society, cit., pp. 123-264.
31 H. Geertz, The meanings of family ties, in C. Geertz – L. Rosen – H. Geertz, Meaning
and order in Moroccan society, cit., pp. 315-379.
32 Susan Slyomovics è autrice di un saggio interessante concernente le modalità del la-
voro fotografico di Hyman in Marocco, in relazione alle problematiche epistemologiche di usi
e disusi della fotografia etnografica (cfr. S. Slyomovics, Perceptions, not illustrations, of Sefrou,
Morocco: Paul Hyman’s images and the work of ethnographic photography, «The Journal of North
African Studies», XIV, 3-4, 2009, pp. 445-465).
CLIFFORD GEERTZ A SEFROU 117

marocchino del combattimento di galli a Bali»);33 il terzo, invece, ha al suo


centro la vita familiare marocchina. Nell’introduzione si legge:
What we all hold is the view that systems of meaning […] in terms of which in-
dividuals live out their lives constitute what order those lives attain. We see social
relationships as embodying and embodied in symbolic forms that give them struc-
ture, and we are concerned to identify such forms and trace their impact [corsivo
nostro].34

Il binomio ‘significato/ordine’ sembra richiamarsi alla coppia ‘visione


del mondo/ethos’ di cui sopra. Non a caso c’è chi ha parlato di approc-
cio dicotomico in Geertz, o di presenza latente (spesso non troppo cela-
ta) di ‘opposizioni binarie’.35 L’insieme degli studi sembra voler offrire, a
discapito di quanto affermano gli autori, un ritratto ‘monografico’ di bled
Sefrou.36 Nell’introduzione si tenta di tracciare un profilo storico e geogra-
fico generale della città, per proseguire con i saggi che vorrebbero coprire
una qualche totalità degli ambiti nei quali, nell’etnografia classica, sembra-
va possibile ‘suddividere’ una determinata società: organizzazione sociale,
organizzazione politica, economia, famiglia, parentela, ecc. (la religione, in
quanto vera e propria categoria a sé, sembra esclusa da questo disegno, pro-
babilmente perché l’autore, come abbiamo visto, se ne era già estesamente
occupato in altra sede).37 Il volume è ampiamente corredato da tabelle,
mappe, grafici, diagrammi, statistiche, numeri e appendici che vogliono
offrire dati assai precisi sulla vita pubblica e privata a Sefrou, con l’obiettivo
di restituire al lettore un’immagine omnia della società sefroui. Per ciò che
concerne l’apparato fotografico, esso consiste in sessantaquattro scatti, non
sempre giudicati ‘etnograficamente riusciti’,38 che immortalano i momen-
ti e i luoghi (della medina di Sefrou e del villaggio di Sidi Lahcen Lyusi)
più disparati: «Lunch break at elementary school», «Tailors in small funduq

33 V. Crapanzano, Review of Meaning and Order in Moroccan Society: Three Essays in Cultural
Analysis by Clifford Geertz, Hildred Geertz, Lawrence Rosen, «Economic Development and Cultural
Change», XXIX, 4, 1981, p. 850. Traduzione dell’autrice.
34 Introduction in C. Geertz – L. Rosen – H. Geertz, Meaning and order in Moroccan society,
cit., p. 6.
35 Cfr. H. Rachik, Le proche et le lointain, cit., pp. 197-202.
36 Bled (che letteralmente significa ‘località’) è un termine utilizzato dagli abitanti di Se-
frou per riferirsi alla totalità del loro territorio. Gli autori di Meaning and Order ipotizzano che
l’uso di questa espressione denoti «a deeper sense of place than merely locational» (Introduction
in C. Geertz – L. Rosen – H. Geertz, Meaning and order in Moroccan society, cit., p. 7); in so-
stanza, la parola bled evocherebbe la stretta relazione esistente tra gruppo umano e paesaggio.
37 Ciò non significa che il riferimento all’Islam sia assente; al contrario, esso è trasversale
all’intera struttura del testo. Per gli autori l’Islam costituisce l’implicito che fonda l’identità
stessa dei marocchini e che dà vita ad un’interpretazione generale dell’esistenza concretamente
rinvenibile negli istituti quotidiani della vita economica, politica e sociale.
38 Cfr. V. Crapanzano, Review of Meaning and Order in Moroccan Society, cit., p. 849.
118 MICHELA BUONVINO

with basket shop in real», «Woman shopping in medina», «Horsemanship


display on the occasion of Saint’s festival (musim) at Sidi Lahcen Lyusi»,
«The day of Sacrifice (‘Id l-kebir) in urban household», e via discorrendo.
Le complicazioni del processo di astrazione tornano a farsi sentire.
Clifford Geertz, nel suo saggio, elegge ad oggetto principale di studio le
molteplici dinamiche economiche e sociali del Suq di Sefrou. Quest’ultimo
è inteso perciò come «une partie évocatrice de la totalité»,39 in due sensi: in
primis, rispetto al bazar in quanto istituzione chiave di tutto il Nord Africa
e di tutto il Medio Oriente; in secondo luogo, in quanto ‘gioco profondo’
della società marocchina tout court.40 Se, relativamente all’Islam, Geertz
postulava l’omogeneità culturale del paese, per ciò che concerne il Suq,
l’autore presuppone al contrario un’estrema varietà culturale, espressa nei
termini del ‘mosaico culturale’. La nisba, il sistema di classificazione locale
al quale abbiamo già fatto riferimento, permette alla persona di definirsi in
rapporto al contesto: la famiglia, il villaggio, il gruppo tribale, la città, ecc.
e consente agli altri di inserirla all’interno di un ‘mosaico etnico’. Ma le ca-
tegorie etniche principali (arabi, berberi ed ebrei), a detta di Geertz stesso,
definiscono un individuo soltanto in maniera molto sommaria. Al contra-
rio, le nisba legate ai mestieri e alle confraternite, come quelle legate alla
famiglia e ai gruppi tribali, possiedono una capacità definitoria molto mag-
giore.41 Il bazar concretizzerebbe e rappresenterebbe a tutti gli effetti que-
sta qualità di ‘mosaico’ che caratterizzerebbe la società marocchina. Hassan
Rachik giudica riduttiva che la metafora del mosaico in quanto incapace
di esprimere le nuances acutamente individuate dallo stesso Geertz. Quelli
che l’antropologo americano delinea sono invece «mosaici sovrapposti, dai
confini mobili, variabili a seconda dei contesti»,42 in cui le identità plurime
dei soggetti sono perlopiù incostanti e fluide.
Anche gli altri due saggi non furono esenti da osservazioni critiche.
Il lavoro di campo di Hildred Geertz si svolge intorno ad un’unica fami-
glia di Sefrou, composta da circa duecentocinquanta individui. L’autrice
afferma che le relazioni di amicizia e di patronage sono imprescindibili nella
definizione dell’universo familiare marocchino il quale, pertanto, include al
proprio interno quadri di relazioni sociali complessi e intricati. Il soggetto
marocchino intesse, durante il corso della propria vita, una serie di rappor-
ti di varia matrice perché possano tornargli utili in particolari momenti.
Nella vita di tutti i giorni la distinzione tra parenti biologici e non parenti

39 H. Rachik, Le proche et le lointain, cit., p. 208.


40 D’altronde, già nel titolo è chiara l’intenzione di traslare i risultati della ricerca sul cam-
po in un contesto interpretativo più ampio, ossia di approdare alla ‘totalità’ del ‘significato’ e
dell’‘ordine’ nella ‘società marocchina’.
41 C. Geertz, Suq: the bazaar economy in Sefrou, cit., pp. 140-150.
42 Cfr. H. Rachik, Le proche et le lointain, cit., p. 210. Traduzione dell’autrice.
CLIFFORD GEERTZ A SEFROU 119

sparirebbe. I legami di sangue non costituirebbero nella società marocchina


il criterio di definizione delle alleanze, le quali invece verrebbero stipulate
in base a ‘contratti’ che obbligano reciprocamente. L’appunto di Rachik,
ancora una volta, ci sembra pertinente. Egli ci consiglia di non dimenticare
che, nella costruzione dei discorsi di tutti e tre gli autori, c’è sempre, tra le
righe, un avversario comune da abbattere, ovvero la teoria segmentaria di
Gellner. A questo proposito, Rachik scrive:
Conclure que les Marocains ne voient pas la parenté en termes généalogiques,
qu’ils ne séparent pas la parenté du patronage, c’est ronger l’un des piliers forts de
la charpente conceptuelle de Gellner. Cette manière dichotomique de concevoir
les Marocains réduit souvent des questions complexes à des dilemmes: consan-
guinité et généalogie vs clientélisme et patronage, structures sociales vs action so-
ciale, primat de la communauté vs individualisme.43

La pertinenza della ‘scelta’ tra le possibilità relazionali che si presenta-


no al soggetto marocchino non può che essere considerata a posteriori e in
nessun caso, dichiara Rachik, a priori. Rosen, anch’egli in aperta contrap-
posizione al paradigma gellneriano, propone di considerare i gruppi sociali
come risorse per l’individuo anziché strutture limitanti. L’individuo sareb-
be costantemente alla ricerca di rapporti che vadano oltre il proprio gruppo
di appartenenza, col fine di costruire una propria rete personale. Al cen-
tro dell’organizzazione sociale marocchina risiederebbero il contratto e la
compravendita. Una nozione in particolare, quella di haqq (obbligazione),
sintetizza appieno, per Rosen, il modo in cui i marocchini interpretano le
relazioni sociali di qualsiasi tipo: amicali, politiche, economiche, religiose,
ecc.44 In sostanza, l’autore traccia un’immagine dei marocchini come per-
sone per le quali tutto è negoziabile. Incessantemente e spasmodicamente
alla ricerca di un guadagno personale dalle relazioni di ogni sorta, essi am-
biscono al livello più alto d’informazione (nel cui ambito la conoscenza del-
la nisba ha un ruolo fondamentale) sui loro partners. Un tale approccio, ha
sostenuto Vincent Crapanzano, presuppone (arbitrariamente) una ‘teoria
della motivazione’. A questo riguardo, egli afferma:
Rosen employs a crude and simplistic, competitive, utilitarian model of human
motivation which renders Moroccan behavior mechanical and cannot account for
the complex, ambivalent nature of human desire. Like everyone else in the world,
Moroccans want what they want and use all the devices at their disposal to obtain

43 Ivi, p. 217.
44 Rosen suppone addirittura che i marocchini non possiedano un termine per significare
il contrario di haqq, ovvero un lemma che evochi l’idea di «gratuito» o di «atto reciproco disin-
teressato». Rachik smentisce in toto e giudica grave una tale affermazione, facendo notare che
la parola batel sta ad indicare esattamente il concetto di «lavoro senza contropartita» (ivi, p. 219).
Traduzione dell’autrice.
120 MICHELA BUONVINO

their wants. […] But Moroccans seek, too, […] to keep their relations as ill-defined
as possible for as long as possible in order not to be entrapped in a web of recipro-
cation and obligation.45

Le critiche di Crapanzano prendono di mira l’intero impianto teorico


e metodologico del volume. Egli crede che gli autori abbiano fallito nel
distinguere tra la funzione referenziale del simbolo e quella indessicale. In
altre parole, che essi abbiano confuso il parlare dei simboli con il parlare
dell’uso dei simboli.46 Riprendendo la riflessione di Michael Silverstein,47
Crapanzano sostiene che: «The granting of analytic priority to the “seman-
tic” or referential function of symbols (still used loosely) […] it serves, too,
to confuse ideology – a referential masking of “real” (indexed?) relations
– with the relations themselves.»48 I tre autori, pertanto, non coglierebbero
il carattere ‘creativo’ e ‘performativo’ dei simboli, prediligendo una nozio-
ne di contesto autosufficiente e direttamente determinante il significato.
Al contrario, una congrua teoria del simbolismo dovrebbe, per dirla con
Crapanzano, «take into account the “feedback” – or cycling – between sym-
bol and context».49 La reprimenda continua con un’ulteriore notazione, as-
sai significativa: Crapanzano giudica insoddisfacente l’attenzione prestata
all’analisi degli effetti del colonialismo e delle sistemazioni postcoloniali.50
Egli sostiene che:
[…] the penetration itself and the imposed order entered the rhetoric of Moroc-
can social and cultural life, provided the Moroccan with a repertory of symbols,
and gave him a new set of options and strategies. These effects were by no means
restricted to the centers of colonial power – Casablanca, Rabat, Meknes, and
Tangier – but extended […] into the bled Sefrou.51

45 V. Crapanzano, Review of Meaning and Order in Moroccan Society, cit., p. 855.


46 Ivi, p. 854.
47 M. Silverstein, Shifters, linguistic categories and cultural description, in K.H. Basso – H.A.
Selby (a cura di), Meaning in anthropology, Albuquerque, University of New Mexico Press, 1976,
pp. 11-55.
48 V. Crapanzano, Review of Meaning and Order in Moroccan Society, cit., pp. 854-855.
49 Ivi, p. 854, nota 11.
50 Si veda a questo proposito anche la critica mossa a Geertz da Marcus, in G. Marcus, The
uses of complicity in the changing mise-en-scene of anthropological fieldwork, in S. Ortner (a cura
di), The fate of ‘culture’: Geertz and beyond, Berkeley, University of California Press, 1999, pp.
87-109. Le questioni problematiche legate alle dinamiche coloniali e postcoloniali vengono in-
vece meticolosamente affrontate in altra sede da Paul Rabinow, il quale, tra l’altro, ne scrive in
relazione al villaggio di Sidi Lahcen Lyusi (situato a pochi chilometri da Sefrou); su Sefrou c’è
molto poco. I testi di Rabinow cui si fa riferimento sono P. Rabinow. Symbolic Domination, Chi-
cago-London, The University of Chicago Press, 1975 e Id., Reflections on fieldwork in Morocco, cit.
51 V. Crapanzano, Review of Meaning and Order in Moroccan Society, cit., p. 856.
CLIFFORD GEERTZ A SEFROU 121

Questa assenza è alla base di un ultimo, complessivo, appunto:


They give Sefrou, and Morocco, at times an isolated museum-like quality (no
rarity in ethnographic writing). Despite the authors’ insistence on their indepen-
dence, Meaning and Order must itself be read as a peculiarly negotiated picture
of Morocco whose inclusions and exclusions (in content, theory, and style) are
themselves revealing.52

In un articolo illuminante, Kevin Dwyer ha affrontato questioni affini,


prediligendo come lente di osservazione quella dell’attitudine comica di
Geertz e delle modalità attraverso cui tale attitudine informa le visioni in-
terpretative che l’autore elabora in relazione a determinati fenomeni della
vita culturale marocchina.53 Egli ritiene che:
However, despite invoking ‘transient examples of shaped behaviour’ or what he
elsewhere calls ‘small facts,’ and despite referring to anthropologists as the ‘minia-
turists of the social sciences’, Geertz clearly de-emphasises these aspects in favour
of broader ‘collectively created patterns of meaning’ and in favour of the large
issues to which these small facts may be made to speak.54

Un approccio siffatto, marcato dalla tendenza ad enfatizzare gli aspetti


‘dominanti’ della cultura a discapito delle istanze subculturali o controcultu-
rali, permea largamente i testi sul Marocco. Ancora, nell’ambito degli stessi
testi, Dwyer sottolinea la propensione di Geertz a riassumere complesse si-
tuazioni culturali in liste più o meno stringate di caratteristiche.55 Sebbene la
semplificazione, la categorizzazione e la stereotipizzazione debbano essere
intese nel tentativo di rendere comprensibili dinamiche complesse e poco fa-
miliari (dunque nella logica della traduzione tra concetti vicini e lontani all’e-
sperienza) e sebbene Geertz effettui tali operazioni servendosi di soluzioni
linguistiche acutamente articolate che mirano consapevolmente a provocare
il (sor)riso del lettore, queste liste – ciò che includono e ciò che omettono –
recano anche, implicitamente (in alcuni casi esplicitamente), marcati giudizi
di valore. A tale proposito, Dwyer riporta un numero consistente di esempi
tratti dalle pagine di Islam Observed e di Meaning and order; in questa sede ba-
sterà citarne uno per tutti. Nelle righe conclusive di Suq: the bazaar economy
in Sefrou, si legge: «in the details of bazaar life something of the spirit that
animates that society – an odd mixture of restlessness, practicality, conten-
tiousness, eloquence, inclemency, and moralism – can be seen with a par-

52 Ibid.
53 K. Dwyer, Geertz, humour and Morocco, «The Journal of North African Studies», XIV,
3-4, 2009, pp. 397-415.
54 Ivi, p. 404.
55 Ivi, p. 405.
122 MICHELA BUONVINO

ticular and revelatory vividness».56 Come fa notare Dwyer, in questo elenco


non figurano qualità che sicuramente potrebbero essere incluse. A questo
proposito, egli afferma:
In this catalogue of characteristics, together with the implication that they capture
in part the ‘spirit’ of Moroccan society, many qualities that should no doubt be
included are absent – sociability, caring, fraternity, among others. Also absent, not
incidentally, are the qualities of fun, amusement, and humour, even though he
has referred earlier to humour as important in the ‘conventions of bargaining.’57

Nonostante spesso si tratti di giudizi che rimangono subliminali, in


ogni caso tali giudizi, come sostiene Dwyer, ci sono: sono operativi in ma-
niere plurime nel testo e costituiscono parte integrante della comprensione
e dell’interpretazione geertziana.

Frammenti, puzzlement, riflessività

Tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta dello scorso secolo, il Marocco
divenne la terra promessa dell’‘orientalismo hippie’.58 La ‘sporca guerra’
del Vietnam sospinse all’estero flussi di americani dalle plurime occupazio-
ni, non solo giovani ‘figli dei fiori’, ma anche imprenditori nel traffico di
stupefacenti, turisti e antropologi. I Geertz entrarono a Sefrou nel 1963 con
«la sensazione di essere giunti ormai troppo tardi e di essere arrivati troppo
presto».59 La morte inattesa dell’amatissimo Re Mohammed V e la salita al
trono di suo figlio Hassan II lasciavano il paese in uno stato di sospensione
e in un clima di turbolenze: sospetti intorno alla scomparsa del vecchio
sovrano, perplessità sulle effettive capacità del nuovo di coordinare la si-
tuazione. «A Pare o a Sefrou», scrive ancora Geertz, «nel 1952, 1958, 1963,
1964, 1966, 1969, 1971, 1972, 1976 o nel 1986, sembrava che non fosse mai il
momento giusto».60 Questo sentimento di inappropriatezza, di irrisolvibile
inadeguatezza, racconta, non lo ha mai abbandonato.
A distanza di circa cinque anni da quelle riflessioni, Clifford Geertz è in
piedi di fronte ad una schiera di studiosi riunitisi presso la sala principale
del Palais del Pasha Omar, e inizia il suo discorso in questo modo: «Why

56C. Geertz, Suq: the bazaar economy in Sefrou, cit., p. 235.


57K. Dwyer, Geertz, humour and Morocco, cit., p. 405.
58 Cfr. B.T. Edwards, Morocco Bound. Disorienting America’s Maghreb, from Casablanca to
the Marrakech Express, Durham, Duke University Press Books, 2005, in particolare cfr. Hippie
Orientalism: The Interpretation of Countercultures, ivi, pp. 247-301.
59 C. Geertz, Oltre i fatti, cit., pp. 10-11.
60 Ivi, p. 11.
CLIFFORD GEERTZ A SEFROU 123

Sefrou? Why anthropology? Why me?».61 Nell’ascendenza di questi inter-


rogativi è racchiusa compiutamente la peculiare triangolazione geertziana
tra esperienza etnografica, riflessione teorica e autobiografia (non si tratta
mai di sterili autobiografismi, quanto di articolati, a volte cinici e spassiona-
ti bilanci e valutazioni del sé). Sarà quella la sua ultima visita a Sefrou, non
in veste di antropologo, bensì di ospite d’onore alle giornate culturali orga-
nizzate dal Comune. Il sottotitolo alla serie di incontri accademici tenutisi
tra il 3 e il 6 maggio del 2000 era, per l’appunto, Hommage à Clifford Geertz.
L’intervento di Geertz si conclude come segue:
Anthropologist, at least of my sort, work in a place for a long time. Two places
I have worked, one Indonesia and here in Sefrou, and the notion that one can
be received back with warmth is perhaps the greatest reward one can have; not
agreement with one’s interpretations […] but just the notion that they want to
see you again and they are willing to stand still for that. I am most moved. When
Margaret Mead died, the people of the Manus Islands planted a coconut tree, and
I feel this is my coconut tree and I am very, very moved by it.62

Il primo a sentire l’esigenza di ripensare la propria esperienza di terreno


fu lo stesso Geertz che nel 1995 pubblicò un testo intitolato emblematica-
mente After the Fact. Two Countries, Four Decades, One Anthropologist.63 «Sup-
poniamo», scrive Geertz,
che di tanto in tanto in un arco di tempo diciamo di quarant’anni vi siate trovati
immersi nella vita di due città di provincia, una sperduta lungo una strada del Sud-
est asiatico, l’altra un punto di passaggio e una sorta di avamposto nel Nord Africa,
e che vogliate dirci qualcosa sul modo in cui la loro vita è cambiata. […] potreste
confrontare il passato con l’oggi […] potreste costruire indici e individuare linee di
tendenza […] potreste scrivere un saggio di memorie […] potreste delineare tutta
una serie di stadi […] e ritenere di vedervi una destinazione finale […] Potreste de-
scrivere la trasformazione di istituzioni, le loro strutture e il loro mutamento […]. E
potreste anche costruire un modello, immaginare un processo, proporre una teoria,
tracciare dei grafici. Ma il problema è che i cambiamenti sono stati più numerosi e
più disordinati di quanto a prima vista si possa immaginare.64

61 Così recita l’incipit geertziano dei commenti finali alla conferenza di Sefrou del 2000;
è anche il titolo dell’articolo di S. Slyomovics, Introduction to Clifford Geertz in Morocco: ‘Why
Sefrou? Why anthropology? Why me?’, «The Journal of North African Studies», XIV, 3-4, 2009, pp.
317-325.
62 La citazione è tratta dalla trascrizione dei commenti finali di Geertz svolta da Susan
Slyomovics e da lei pubblicata nell’articolo indicato alla nota precedente.
63 C. Geertz, After the Fact. Two Countries, Four Decades, One Anthropologist, Cambridge,
Harvard University Press, 1995.
64 Id., Oltre i fatti, cit., p. 7.
124 MICHELA BUONVINO

Sefrou, all’inizio degli anni Sessanta, era ancora un «perfetto esemplare


da studiare»65 con una «medina da manuale».66 Difatti, nonostante la non
omogeneità delle sue componenti (arabi, berberi, ebrei, francesi) e mal-
grado la proliferazione dei quartieri residenziali e dei bazar, era comunque
possibile discernere un ordine di qualche tipo, un piano, un disegno. An-
zitutto, i rapporti tra i gruppi rimanevano ben definiti. Vi erano: un’élite
di famiglie sefroui detentrici virtuali del potere sociale, politico, religioso
ed economico, gli amministratori regi e gente di campagna recentemente
inurbata che andava a sistemarsi negli spazi appena abbandonati della mel-
lah. L’equilibrio era garantito dalla perdurante alleanza tra le élites locali e i
delegati del potere statale, che ancora rendeva possibile intendere la politi-
ca come un «affare abbastanza elementare di rapporti personali fra un “io”
e un “tu”».67 Inoltre i traffici commerciali rimanevano alquanto limitati e la
specializzazione dei bazar piuttosto netta. Insomma, per uno sguardo av-
vezzo alle «osservazioni strutturanti», Sefrou permetteva un’agevole scom-
posizione analitica. Il luogo, come dichiarerà Geertz, «non soltanto era
fatto apposta per una monografia, ma si divideva esso stesso in capitoli».68
Nel 1986 la situazione è stravolta. La moltiplicazione dei nuovi quartieri
comparsi caoticamente intorno alla città vecchia, la partenza dei francesi
e degli ebrei, l’aumento vertiginoso della popolazione (che nel 1961 era
di circa ventimila abitanti e nel 1986 di circa sessantamila), seguito al mas-
siccio inurbamento dei berberi delle campagne (provenienti in particolare
modo dalle montagne del Medio Atlante centrale e dal Rif-Prérif ), rende-
vano Sefrou irriconoscibile. Non che il processo non fosse già iniziato a
partire dalla metà degli anni Sessanta. Già allora incominciava ad emerge-
re la tensione tra una forma urbana ancora governabile e una vita urbana
sempre più composita e tumultuosa. Pertanto, sebbene ancora «luogo in
cui non accadeva nulla di molto spettacolare, e che restava agricolo, perife-
rico, e piuttosto tradizionale, Sefrou continuamente, sconsideratamente, e
istruttivamente, sfuggiva al controllo».69
Dunque lo scenario precipitò e non fu più possibile capire: «neppure il
più metodico antropologo, con gli occhi fissi sulla forma e la coerenza, può
raccontare quel tipo di storia. Le parti sono frammenti, l’intero è un as-
semblaggio, e le grandiose categorie dell’etnografia comparata sembrano
ottuse e malconce».70 Seguono pagine di riconsiderazione radicale del me-
todo antropologico di largo respiro attraverso le quali, in sostanza, l’autore

65 Ivi, p. 21
66 Ivi, p. 20.
67 Ivi, pp. 21-22.
68 Ivi, p. 23.
69 Ivi, p. 20.
70 Ivi, p. 23.
CLIFFORD GEERTZ A SEFROU 125

approda una volta per tutte all’apologia del frammento e alla condanna
di ogni minima pretesa di oggettività per ribadire ancora l’impossibilità di
evadere dall’immediatezza situazionale della conoscenza etnografica.
Thomas Dichter, che ha avuto modo di lavorare con Geertz e dopo Ge-
ertz a Sefrou, ha sottolineato quanto fosse impellente nell’analisi culturale
geertziana la ricerca di un ‘ideale di scientificità’.71 Oltre alla teoria esposta
in Interpretazione di culture, secondo la quale lo studio della cultura dovreb-
be consistere nell’alternanza tra guessing e meanings e nel tentativo di giun-
gere alle conclusioni più esplicative possibili a partire dalla formulazione
delle supposizioni/ipotesi migliori, anche la pratica del fieldwork di Geertz
era, citando Dichter, «as scientific as it could be».72 Prosegue Dichter:
[…] a formal proposition based on carefully and systematically gathered evi-
denced, tightly wound in hypotheses and their testing. For all his occasional pro-
testations that he would really have liked to become a great novelist, this Balzac
manqué was, ‘au fond’, thorough scholar and leave-no-stone-unturned systematic
investigator – a real social scientist.73

Il Geertz di Oltre i fatti, per Dichter, sembra essere in grado, una volta
per tutte, di staccarsi da quell’ideale scientifico di cui sopra74 per giungere
ad una diversa conclusione. Riportiamo, a tale riguardo, alcune righe tratte
da Oltre i fatti:
[…] bisogna accontentarsi di vortici, di confluenze e di connessioni instabili; nu-
vole che si uniscono, nuvole che si disperdono. Non c’è nessuna storia generale
da raccontare, e neppure quadri sinottici da fare. Ciò che invece possiamo costru-
ire, se osserviamo accuratamente e se sopravviviamo, sono resoconti a posteriori
sullo stato di connessione delle cose che sembrano accadute: quadri composti di
frammenti pazientemente cuciti uno dietro l’altro, dopo i fatti. […] Che ne è stato
dell’oggettività? E poi, chi ci assicura che abbiamo fatto le cose proprio come si
deve? E la scienza, dove è andata a finire?75

Secondo Dwyer il passaggio – dall’approccio strutturante e ‘diagnosti-


co’ a quello contrassegnato dal puzzlement (perplessità) – si compirebbe de-
finitivamente con la pubblicazione di Work and lives (1988). A sostegno della
sua tesi, egli cita alcune affermazioni dello stesso Geertz riportate in uno
scritto di Gary A. Olson, in cui si legge:

71 T. Dichter, Are we there yet? Geertz, Morocco, and modernization, cit., p. 546. Traduzione
dell’autrice.
72 Ibid.
73 Ivi, pp. 546-547.
74 Ivi, p. 547.
75 C. Geertz, Oltre i fatti, cit., pp. 8-9.
126 MICHELA BUONVINO

[M]ost of that kind of problem has centered on the question we usually refer to
as ‘reflexivity.’ In Works and lives I have some sardonic things to say about some at-
tempts in that direction, though I think it’s the direction to move… [W]e are part
of what we study, in a way; we’re there… Now, I’ve never done it. Well… once
in a while I’ve done it. But I’ve never really thoroughly done it, and I’ve written
a lot of books which are written from the moon – the view from nowhere. I am
persuaded that at least for some works, for a lot of works, we’ve really got to get
our-selves back into the text, to have ourselves truly represented in the text… In
the book I’m writing now, After the fact, that’s what I’m trying to do. It’s not con-
fessional anthropology, and it’s not about what I was feeling or something of that
sort; it’s trying to describe the work I’ve been doing with myself in the picture.76

L’ambigua sfida della modernità arrivava in Marocco e a Sefrou (come


in Indonesia e a Pare e in tanti centri dei cosiddetti paesi ‘sottosviluppa-
ti’) in maniera equivoca e disarticolante, riorientando le politiche culturali,
economiche e sociali dell’intera nazione. La storia politica di Sefrou si può
leggere, se si vuole, attraverso la lente di questo processo incerto e turbo-
lento, pieno di ostacoli e di contraddizioni, di dubbi e di ombre. Per dirla
con Geertz:
La «modernità» come cosa unitaria può essere che non esista. La «modernizzazio-
ne» può significare cose del tutto diverse quando è riferita a questioni differenti.
La «vita moderna» può non piacer in egual misura a ciascuno. Eppure ciò non
toglie che siano esse, o l’idea che se ne ha a stabilire i termini nei quali oggi sono
percepiti, discussi, analizzati, e giudicati, sia dal mondo in generale sia dalle loro
stesse popolazioni, paesi come l’Indonesia e il Marocco, che si dibattono da qual-
che parte tra l’«arretrato» e l’«avanzato».77

Un anno prima dell’instaurazione del protettorato la superficie di Se-


frou era di dieci ettari, compresa la cittadella (qal’a) che sorge sopra la città,
il quartiere più antico di Sefrou. Già al principio degli anni Venti si passò a
circa centotrenta ettari, con l’edificazione del quartiere arabo fuori le mura
e del quartiere europeo. Oggi la città copre una superficie di circa millecin-
quanta ettari. La compresenza di più stili di vita ha dato luogo, nel corso del
tempo, alla nascita di nuovi spazi abitativi gravitanti attorno al nucleo (la
medina). La parentesi socialista a Sefrou (1976-1983) inscrisse segni rilevan-
ti nella concezione dello spazio urbano. In seguito all’inclusione dei nuovi
sefroui e alla loro collocazione nel paesaggio cittadino, il dibattito sulla
Città Islamica ne uscì totalmente rivoluzionato. A questo proposito Geertz
riporta un episodio assai significativo concernente un discorso pronunciato

76 G.A.Olson, The social scientist as author: Clifford Geertz on ethnography and social con-
struction, in G.A. Olson – I. Gale (a cura di), (Inter)views: cross-disciplinary perspectives on rhetoric
and literacy, Carbondale, Southern Illinois University Press, pp. 203-204.
77 C. Geertz, Oltre i fatti, cit., p. 171.
CLIFFORD GEERTZ A SEFROU 127

da Re Hassan II nel 1986, poco prima delle celebrazioni in onore del ven-
ticinquesimo anniversario della sua salita al trono, divulgato dalla radio e
dalla televisione di Stato. In breve, la comunicazione reale mirava a ribadi-
re la grandiosità e l’autenticità dell’architettura marocchina, additandone
ad esempi classici gli edifici di costruzione idriside, almoravide, almohada,
sa’adiana e alawita. Per contro, si annunciava un periodo di irreparabile de-
clino, in cui volgari edifici all’europea stavano disordinatamente spuntando
intorno ai centri dell’antica civiltà. La città marocchina, nella sua forma
originaria, marchio di magnificenza culturale, periva sotto i colpi della spa-
da di una smania edilizia triviale e senza criterio. La città rappresentativa
di questa degenerazione era proprio Sefrou, sostenne Sua Maestà, prima
un «gioiello» che sfidava l’Atlante, adesso una cittadina «brutta» che non ha
saputo trovare una via nazionale e tradizionale in mezzo alla modernizza-
zione, che non è stata in grado di mantenere intatta né la conformazione
della città autentica né, di conseguenza, la propria identità spirituale e ma-
ghrebina. I vecchi sefroui, da poco tornati al potere, sollevarono non poche
polemiche contro l’operato dei predecessori, accusati di ateismo, e diede-
ro avvio ad un programma di edificazioni e di ristrutturazioni che Geertz
etichetta come «risorgimento religioso-culturale».78 Iniziò una contesa tra
nuovi e vecchi sefroui, esibita per mezzo del lessico simbolico della mor-
fologia delle strutture abitative. Alla sobria, bianca facciata delle case dei
madani (cittadini autentici), indice di una espressione moderata dello status
sociale, delegata all’interno dell’abitazione, le nuove case, sorte sregolata-
mente lungo le strade, oppongono esterni di colori audaci, come il verde,
il rosso, il blu e il giallo, «(rovesciando) la casa cittadina come un guanto
dall’interno verso l’esterno».79
È fenomeno degli ultimi quindici anni la ripresa sistematica degli studi
sull’opera di Geertz in Marocco. La University of California and Los An-
geles (UCLA) ha costituito (e costituisce tuttora) un vero e proprio epicen-
tro di dibattiti, conferenze, pubblicazioni, gravitanti attorno alla risonan-
za dell’approccio interpretativo e simbolico sull’antropologia del Medio
Oriente e del Nord Africa (MENA).80 Tra il 6 e il 9 dicembre del 2007 il Gu-
stav E. von Grunebaum Center for Near Eastern Studies si fece promotore
dell’organizzazione di una conferenza internazionale intitolata Islam Re-Ob-
served: Clifford Geertz in Morocco e di una mostra fotografica dal titolo Sefrou,
Morocco Observed: The Photographs of Paul Hyman, allestita presso i locali del
Fowler Museum dell’Università. Lo scopo principale della conferenza di
Los Angeles era quello di riunire i contributi derivanti dalla tradizione degli

78 Ivi, p. 194.
79 Ivi, p. 195.
80 Tra tutti si veda S. Hafez – S. Slyomovics (a cura di), Anthropology of the Middle East and
North Africa. Into the new millennium, Bloomington-Indianapolis, Indiana University Press, 2013.
128 MICHELA BUONVINO

studi nordamericani e nordafricani su Sefrou, sull’Islam e sul Marocco. Tra


le macrotematiche sondate durante i lavori si annoverano: l’antropologia
dell’Islam, il problema della traduzione, dello humor e della metafora nella
scrittura geertziana, l’uso della fotografia antropologica, usi e disusi dello
spazio urbano di Sefrou, le problematiche della povertà e dello sviluppo
transnazionale nella Sefrou odierna.81

Considerazioni finali

Come ha ricordato Joel Isaac, si tende di solito a dividere il pensiero di


Geertz in due grandi periodi: il primo caratterizzato da uno sguardo incline
alle strutturazioni, ancora profondamente influenzato dall’insegnamento
parsonsiano, contrassegnato da un approccio marcato da accenti positivisti-
ci e da una certa fiducia nella teoria della modernizzazione (anni Cinquanta
e anni Sessanta dello scorso secolo); il secondo invece caratterizzato dalla
svolta ermeneutica e dall’approccio semiotico alla cultura (a partire dalla
fine degli anni Sessanta, primi anni Settanta).82
In questo saggio, in breve, si è tentato di offrire un bilancio critico del
lavoro di Clifford Geertz a Sefrou, accogliendo la tesi che già era stata sug-
gerita, più o meno esplicitamente, da studiosi come Dichter e Dwyer, ov-
vero che, nel corso degli anni del lavoro e della riflessione in/sul Marocco
(a partire dagli anni Sessanta fino ai primi anni Novanta del secolo scorso),
il percorso di Geertz si sia articolato essenzialmente in due fasi: una fase
in cui si sperimenta lentamente il passaggio dal paradigma ‘strutturante’ a
quello ermeneutico, operazione connotata da significative battute d’arre-
sto e ripensamenti (anni Sessanta e anni Settanta); e una seconda fase in cui
invece si assiste all’esplosione dello stesso interpretativismo e all’approdo
al frammento e alla riflessività (dalla seconda metà degli anni Ottanta in
poi). Come abbiamo visto, è lo stesso Geertz, in Oltre i fatti, a guidarci verso
questo tipo di interpretazione. In questo testo l’autore ci consegna la testi-
monianza del processo conoscitivo che lo conduce ad una personale svolta
riflessiva. Il sottotitolo Due Paesi, quattro decenni, un antropologo specifica gli
‘oggetti’ della svolta. A questo riguardo, si legge:

81 Intervennero alla conferenza: Susan Slyomovics, Lahouari Addi, Hassan Rachik, Mon-
dher Kilani, Dale F. Eickelman, Kevin Dwyer, Khaterine E. Hoffman, Paul Rabinow, Lawren-
ce Rosen, Paul Hyman, Susan Gilson Miller, David Crawford, Thomas Dichter, alla presenza
dell’allora sindaco di Sefrou Hafid Ouchchak e di Aziz Abbassi, un “nativo” sefroui chiamato a
raccontare la propria storia.
82 J. Isaac, The Intensification of Social Forms: Economy and Culture in the Thought of Clifford
Geertz, «Critical Historical Studies», V, 2, 2018, pp. 237-238.
CLIFFORD GEERTZ A SEFROU 129

Le due città, naturalmente, sono cambiate, per molti versi superficialmente, per
alcuni versi profondamente. Ma è cambiato, e nello stesso modo, anche l’antropo-
logo nonché la disciplina in cui l’antropologo lavora, il contesto intellettuale entro
il quale tale disciplina vive e la base etica sulla quale essa poggia. E sono cambiati
pure i paesi in cui sono situate le due città e il mondo internazionale in cui essi
sono inseriti.83

Ci sembra che questa ‘terza fase’ costituisca terreno assai fertile per ul-
teriori approfondimenti (sulla scia, ad esempio, dei contributi di Roberto
Malighetti)84 concernenti quella che può essere considerata un’altra crucia-
le lezione metodologica trasmessaci da Clifford Geertz, oltre a quella più
celebre contenuta in Interpretazione di culture e che la citazione seguente ci
consegna in maniera assai efficace:
Dibattersi in mezzo agli eventi per poi confezionare dei resoconti sul modo in cui
essi sono l’un l’altro legati è ciò in cui consistono sia l’illusione che la conoscenza.
I resoconti vengono confezionati a partire delle nozioni disponibili, dall’attrezza-
tura culturale che si ha a portata di mano. Ma come qualsiasi altra attrezzatura,
anche questa entra a far parte del compito; il valore è aggiunto, non estratto. Se si
vuole arrivare all’oggettività, alla correttezza e alla scienza non si deve pretendere
che esse siano indipendenti dal lavoro concreto che le produce o le distrugge.85

Riassunto – Summary

Il presente saggio intende offrire un bilancio critico introduttivo delle ricerche


condotte da Clifford Geertz in Marocco. Attraverso la presentazione e l’approfon-
dimento dei testi prodotti dall’autore e la ricostruzione delle loro principali valuta-
zioni in campo accademico, si tenta di mostrare quanto e in che modo il ‘laborato-
rio marocchino’ sia stato centrale nello sviluppo dell’antropologia interpretativa
geertziana. Sulla base dell’analisi dialogica delle fonti prese in esame, il lettore
verrà guidato nell’esplorazione della ‘svolta riflessiva’ dell’autore, costituente la
fase conclusiva non soltanto della riflessione in/sul Marocco, ma della sua intera
sperimentazione teorico-epistemologica.
This article attempts an introductory critical summary on the research con-
ducted by Clifford Geertz in Morocco, through the presentation and the investi-
gation of the texts written by the author and through the reconstruction of the

83 C. Geertz, Oltre i fatti, cit., p. 7.


84 Cfr. R. Malighetti, Clifford Geertz: il lavoro dell’antropologo, Torino, UTET Università,
2008; cfr. R. Malighetti – A. Molinari, Il metodo e l’antropologia: il contributo di una scienza in-
quieta, Milano, Raffaello Cortina, 2016.
85 C. Geertz, Oltre i fatti, cit., p. 9.
130 MICHELA BUONVINO

main critical assessments developed by scholars. The purpose is to show how and
how much the “moroccan laboratory” has been crucial for the construction and
the development of Geertz’s interpretive anthropology tout court. Lastly, in the
light of the dialogical analysis of the sources taken into consideration, the aim
is to lead the reader towards the exploration of Geertzian “reflexive turn” which
constitutes the final phase not only of the reflection in/on Morocco, but of his
entire theoretical epistemological experimentation.
Direttore Responsabile
Prof. Fabio Dei
Università degli Studi di Pisa
Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere

Registrazione del Tribunale di Firenze n. 140 del 17-11-1949


ISSN 0023-8503
FINITO DI STAMPARE
PER CONTO DI LEO S. OLSCHKI EDITORE
PRESSO ABC TIPOGRAFIA • CALENZANO (FI)
NEL MESE DI APRILE 2022
ISSN 0023-8503
CECILIA DRAICCHIO

«C'EST L'ERGENT QUI PARLE!». ECONOMIE DELLA


SALUTE MENTALE TRA ASSISTENZA
PSICHIATRICA E PRAYER CAMP IN AREA NZEMA
(GHANA)

ESTRATTO
da

LARES
Quadrimestrale di studi demoetnoantropologici
2020/2 ~ a. 86
Economie umane economie intime. Né per Dio né per denaro
a cura di Matteo Aria
Anno LXXXVI n. 2 – Maggio-Agosto 2020

LARES
ECONOMIE UMANE, ECONOMIE INTIME
Né per Dio né per denaro
a cura di
MATTEO ARIA

Leo S. Olschki
Firenze
AnnoLXXIX
Anno LXXXVI
n. n.
1 2 Maggio-Agosto
GENNAIO-APRILE 2020
2013
Anno LXXIX n. 1 GENNAIO-APRILE 2013

LARES
Rivista
Rivista LARES
quadrimestrale
quadrimestrale di
di studi
studi demoetnoantropologici
demoetnoantropologici
Fondata nel
nel 1912
Rivista
Fondata ee diretta
diretta da
quadrimestrale
1912 L.di
da L. Loria
studi
Loria (1912),
(1912), F. Novati
F. Novati(1913-1915),
(1913-1915),
demoetnoantropologici
P. ToschiP.(1930-1943;
Toschi (1930-1943; 1949-1974),
1949-1974), G.B.(1974-2001),
G.B. Bronzini Bronzini (1974-2001),
V. Di Natale (2002)
Fondata V.nelDi1912
Natale (2002),
e diretta da P.
L.Clemente (2003-2017)
Loria (1912), F. Novati (1913-1915),
P. Toschi (1930-1943; 1949-1974), REDAZIONE
G.B. Bronzini (1974-2001), V. Di Natale (2002)
Pietro Clemente (direttore),RedazioneFabio Dei (vicedirettore),
Caterina Di PasqualeFabio Dei REDAZIONE
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Antonio Fanelli,Giuffrè,
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SCIENTIFICO
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Lanzara,Francesco
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Rossi
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France), Sergio Della Quarta, Lorenzo(Université
Bernardina Sabetta, Lorenzo Urbano.
de Bretagne
C
Occidentale), Daniel ComitatoOMITATO SCIENTIFICO INTERNAZIONALE
Scientifico Internazionale
Fabre (CNRS-EHESS Paris), Angela Giglia (Universidad
DionigiMetropolitana,
Autónoma Albera (CNRS France), Sergio Della Bernardina (Université de Bretagne
Dionigi Albera (CNRS France),Unidad
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Superiore degli
di Pisa), studi
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CasellatoOccidentale),
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di Udine), Reinhard Daniel Fabre
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di Venezia), Pietro
Johler (Universität Paris),
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Tübingen), Angela Giglia
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Ferdinando (Universidad
Firenze), Sergio Della
(Università
Autónoma
Bernardina
degli studi Metropolitana,
(Université
della Basilicata), Unidad
de BretagneFabio Iztapalapa),
Occidentale),
Mugnaini EhnGian
Billy(Università
(Umeå Paolo Gri (Università
University),
degli studi David degli
Forgacs
di Siena), studi
(New
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York University),
di Udine), Lia Giancristofaro
Reinhard Johler (Università degli
(Universität studi ‘G.
Tübingen), D’Annunzio’
Ferdinando di Chieti-Pescara),
Paggi (Université de Nice-Sophia Antipolis), Cristina Papa (Università degli studi diMirizzi Angela
(Università
Giglia (Universidad
degli studi Autónoma
della Metropolitana,
Basilicata), Fabio MugnainiUnidad Iztapalapa),
(Università Martina
degli Giuffrè
studi di(Università
Siena), di
Silvia
Perugia),
Parma), Leonardo
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Maria(Université (Università
(Università di Firenze),degli
Gianstudi
PaolodiGri
Verona), Alessandro
(Università Simonicca
di Udine),degli
Reinhard Johler
Paggi de Nice-Sophia
(Università Antipolis), Cristina Papa (Università studi di
(Universität Tübingen), Ferdinandodegli studi
Mirizzi di Roma
(Università «La
degli Sapienza»).
studi della Basilicata), Fabio Mugnaini
Perugia), Leonardo Piasere (Università degli studi di Verona), Alessandro Simonicca
(Università di Siena), Silvia Paggi (Université di Côte d’Azur), Cristina Papa (Università di Perugia),
Leonardo Piasere(Università
(Universitàdegli studi
Verona), di Roma
Goffredo «La (Newcastle
Plastino Sapienza»). University),
Emanuela Rossi (Università di Firenze), Hizky Shoham (‘Bar-Ilan’ University, Ramat-Gan),
SAGGI Alessandro Simonicca (Università degli studi di Roma ‘La Sapienza’).
PIETRO CLEMENTE, L’attualità di Antonio Pigliaru: note introduttive . . . . . . . . . 5
SAGGI
GAETANO RICCARDO, Conflitto di ordinamenti e conflitto di paradigmi in Antonio Pigliaru . . 11
PIETRO CLEMENTEEconomie, L’attualitàumane, economie
di Antonio intime.
Pigliaru: Né introduttive
note per Dio né per . denaro
. . . . . . . . 5
COSIMO ZENE, Riflettendo su Antonio Pigliaru: a cura ditraM.ordinamenti
Aria e paradigmi – dono e/o ven-
Gdetta?
AETANO. RICCARDO
. . . , Conflitto
. . . .di ordinamenti
. . . . e. conflitto . . . di .paradigmi. . . in. Antonio . . .. . 35 11
. . . Pigliaru
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LAURA CHERUBINI, Arpie dalle belle chiome. Di capeli e turbini fra mondo antico e survivalsdi . . . .
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moderni
Serge Tcherkézoff,
ARCHIVIO FRESTA, L’identità
M ARIANO Il Saggio culturale
sul donoalla di Mauss:
prova dei unfatti.
saggio su «ladella
Il caso seconda 1981-82 247 95
fase del denaro»
val Germanasca
Marta
P Gentilucci, Dalla montagna alla miniera. La ‘sacralizzazione’ del nichel nel nord
IETRO CLEMENTE, Evocare la «barbuira». Riti calendariali e memorie di ricerca . . . . . 113
della Nuova Caledonia. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
ARCHIVIO 269
JoePautori
Gli Trapido, Amore
. . ,e. Evocare
IETRO C.LEMENTE denaro
. . nella . popular
. . . music
.la «barbuira». . . . ..e memorie
congolese
. . calendariali
Riti .. .. . . di
. . ricerca
. . . . . . . . . . . . 127
289113
Cecilia Draicchio, «C’est l’argent qui parle!». Economie della salute mentale tra assistenza
autori . e .prayer
Glipsichiatrica . . camp
. . in. area
. nzema . . . . . . . . . . . . .. .. .. .. .. .. .. . . 321127
. . . (Ghana).
Angelantonio Grossi, Soldi e spiriti: alcune note dal Ghana sulle semiotiche del denaro e del
dominio spirituale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 339
Samuel Ntewusu, Co-existence in Turbulent Times: Migrants and the Making of Ghana’s
Madina . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 365
Birgit Meyer, Le zone di frontiera e lo studio della religione . . . . . . . . . . 383
Gli autori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 401
Pubblicato nel mese di ottobre 2014

Pubblicato nel mese di ottobre 2014


Cecilia Draicchio

«C’EST L’ARGENT QUI PARLE!». ECONOMIE DELLA SALUTE


MENTALE TRA ASSISTENZA PSICHIATRICA E PRAYER CAMP
IN AREA NZEMA (GHANA)

Introduzione: «C’est l’argent qui parle!»1

Senza alcuna volontà di feticizzarla, si potrebbe dire che la ricerca etno-


grafica, nel suo essere nient’altro che una dimensione della vita quotidiana,
è fatta anche di momenti-rivelazione, in cui di colpo si vede (o sembra veder-
si) qualcosa che non si era visto. Nella prima fase della mia ricerca sulle po-
litiche e le pratiche della salute mentale nell’area nzema del Ghana sud-oc-
cidentale,2 ho avuto per la prima volta la sensazione di aver vissuto uno di
questi momenti durante una visita a un prayer camp locale, in una mattina
dell’ottobre 2014.3 I prayer camp sono luoghi di cura eterogenei accomunati
dal fatto di «gravitare quasi esclusivamente attorno»4 alla figura terapeutica

1 Vorrei ringraziare di cuore Matteo Aria, Elisa Vasconi e i due peer-reviewer anonimi per
i loro preziosi commenti a questo articolo. Allo stesso modo, sono molto grata ai partecipanti
alla residenza di scrittura etnografica di Vallecupa (Tamar Blickstein, Valentina Bonifacio, Giu-
lia Frigeri, Matteo Gallo, Ofer Gazit, Francesco Lattanzi, Francesco S. Longo, Stefano Portelli e
Rossella Schillaci) per l’attenzione con cui hanno letto una precedente versione di questo testo,
per i suggerimenti che mi hanno fornito e per tutte le stimolanti conversazioni di quei giorni.
2 L’area nzema è un territorio rurale costiero situato tra la Western Region del Ghana
e la regione Sud Comoé della Costa d’Avorio. Nata con l’obiettivo di studiare le relazioni tra
politiche nazionali e internazionali della salute mentale e pratiche locali, l’etnografia su cui
si fonda questo articolo si è svolta nel versante ghanese tra il 2013 e il 2020 per un periodo
complessivo di dieci mesi e si è focalizzata gradualmente sulle articolazioni tra psichiatria e
risorse terapeutiche altre. Nei miei soggiorni di ricerca ho vissuto in un villaggio combinando
la partecipazione alla vita locale con visite quasi quotidiane a un reparto psichiatrico, diversi
prayer camp e abitazioni private, dove ho incontrato infermieri/e, guaritori e guaritrici, pazienti,
ex-pazienti e familiari. Per proteggere l’anonimato di queste persone, non specifico il distretto
né le località precise dove è stata condotta la ricerca.
3 L’episodio è citato brevemente in C. Draicchio, Tra cura e mercato. La psichiatria nell’are-
na della salute mentale in area nzema, in M. Aria – P. Schirripa – E. Vasconi (a cura di), In Ghana.
Etnografie dallo Nzema, Roma, Mincione, 2019, pp. 213-246.
4 E.K. Larbi, Pentecostalism: The Eddies of Ghanaian Christianity, Accra, CPCS, 2001,
ebook, cap. 12, § 1.
322 CECILIA DRAICCHIO

di un profeta o di una profetessa carismatica/pentecostale, presso cui ci si


reca per risolvere problemi di natura sanitaria o personale che si ritengono
connessi a forme di possessione demoniaca e/o di stregoneria.5 Molto diffusi
e virtualmente onnipresenti in un paese ‘pentecostalizzato’ come il Ghana,6
i prayer camp sono stati negli ultimi anni al centro di molti dibattiti nazionali
e internazionali sulla salute mentale per diversi casi di abusi su pazienti,7 ma
anche per la dichiarata volontà istituzionale di stabilire delle collaborazioni
tra personale psichiatrico e guaritori «non ortodossi».8 L’obiettivo della ‘col-
laborazione’ si fonda tuttavia sull’idea che esista una netta distinzione tra il
mondo ‘razionale’ della psichiatria e quello ‘irrazionale’ delle terapie religio-
se/tradizionali, e di fatto è spesso descritta in termini ambivalenti:9 «abbia-
mo cominciato a supportarli perché non possiamo eliminarli», per dirla con
le parole eloquenti di un infermiere dell’ospedale psichiatrico di Accra.10 Ad
ogni modo, alcuni casi di ‘collaborazione’, benché totalmente informale e
discontinua, talvolta esistono già in area nzema e sono chiaramente visibili
in occasione delle trasferte pianificate dagli infermieri psichiatrici per rag-
giungere potenziali pazienti nei prayer camp. È in una di queste circostanze,
note in ambito sanitario come outreach, che ho visitato per la prima volta il
campo di preghiera di Esofo Christ11 in compagnia di Michael, un infermiere

5 Sul nesso tra ‘salute’ e ‘salvezza’ nelle chiese pentecostali e carismatiche contempora-
nee, si veda P. Schirripa, Salute e salvezza nei contesti pentecostali e carismatici, in Id. (a cura di),
Terapie religiose. Neoliberismo, cura, cittadinanza nel pentecostalismo contemporaneo, Roma, Cisu,
2012, pp. 11-31.
6 Dagli anni Novanta il paese è stato investito da un massiccio processo di ‘pentecostaliz-
zazione’ della sfera pubblica facilitato dal proliferare di TV e radio cristiane private (si vedano,
tra gli altri, B. Meyer, “Praise the Lord”: Popular Cinema and Pentecostalite Style in Ghana’s New Pu-
blic Sphere, «American Ethnologist», 31, 1, 2014, pp. 92-110; M. de Witte, Altar Media’s “Living
Word”: Televised Charismatic Christianity in Ghana, «Journal of Religion in Africa», 33, 2003, 2,
pp. 172-202; P. Gifford, Ghana’s New Christianity: Pentecostalism in a Globalizing African Economy,
Bloomington, Indiana University Press, 2004, pp. 30-39.
7 Cfr. J. Osafo, Seeking Paths for Collaboration between Religious Leaders and Mental Health
Professionals in Ghana, «Pastoral Psychology», 65, 2016, 4, pp. 493-508; U.M. Read, Rights as
Relationships: Collaborating with Faith Healers in Community Mental Health in Ghana, «Culture,
Medicine, and Psychiatry», 43, 2019, 4, pp. 613-635.
8 Tale volontà è esplicitata in questi termini nel testo del Mental Health Act 846 (p. 7), una
legge approvata nel 2012 con l’obiettivo di rinnovare il sistema della salute mentale nel paese
attraverso la decentralizzazione dei servizi e la promozione di un discorso sul rispetto dei diritti
umani e sulla lotta allo stigma per le persone affette da disturbi mentali.
9 Per una contestualizzazione storica del discorso della ‘collaborazione’ promosso dal
Mental Health Act 846 all’interno delle politiche sanitarie ghanesi e nel quadro della ‘salute men-
tale globale’ si rimanda a C. Draicchio, ‘Extraordinary Conditions and Experiments’ with Collabo-
ration in Zones of ‘Social Abandonment’. Mental Health Care between Psychiatry and Prayer Camps in
Rural Ghana, «Politique Africaine», 157, 2020, 1, pp. 165-182: 166-170.
10 Colloquio con Mr. Sarpong, Accra, 14 ottobre 2014. Tutti i nomi presenti in questo
testo sono pseudonimi.
11 Esofo (pl. asofo) è il termine nzema usato per indicare profeti e profetesse.
«C’EST L’ARGENT QUI PARLE!». ECONOMIE DELLA SALUTE MENTALE 323

del reparto psichiatrico presso cui ho svolto parte della ricerca. Il campo era
un ampio spazio all’aperto che ospita la casa dell’esofo, una chiesa ad aula
e un piccolo edificio basso con alcune stanze per i residenti. Molti di loro,
pazienti e familiari tenuti/e a risiedere lì durante il percorso terapeutico,
erano seduti o sdraiate all’aperto, all’ombra di un albero o sotto una tettoia
di rafia dove alcune donne erano intente a tagliare e pelare la cassava e a
cuocere una zuppa di pesce per il pranzo. Dopo essersi presentato e aver
appreso che il profeta non era in casa, Michael ha cominciato a identificare
tra i presenti, un po’ da solo un po’ con l’aiuto di una donna, le persone af-
fette da ‘malattia mentale’:12 erano sette, di cui tre incatenate a degli alberi.
Il tema della contenzione fisica ricorre spesso nei discorsi degli infermieri sui
rischi e le potenziali incompatibilità nei tentativi di collaborazione con pro-
feti e profetesse,13 ma in quella situazione Michael ha adottato un approccio
pragmatico, evitando di concentrarsi su questo aspetto, e ha iniziato a par-
lare direttamente con pazienti e familiari al fine di elaborare delle diagnosi e
prescrivere i farmaci più adatti. È stato durante uno di questi colloqui che è
arrivato, ironico e lapidario, il commento di Ama, una giovane paziente di
origine ivoriana: «C’est l’argent qui parle!», «È il denaro che parla!» ha detto
la ragazza scuotendo la testa e abbozzando un sorriso sprezzante. Proprio
come una sorta di ‘rivelazione’, le parole di Ama mi hanno spinto, nelle
successive settimane di ricerca, a vedere il coinvolgimento diretto degli in-
fermieri nella compravendita di farmaci psicotropi: una dinamica che avevo
fino a quel momento ignorato e sulle cui implicazioni intendo riflettere in
questa sede.
In linea con l’intento del numero monografico di creare connessioni tra
l’economico e il religioso e di ragionare sulle convivenze di mondi pensa-
ti come separati, in questo articolo vorrei partire dalle parole di Ama per
riflettere sul complesso ruolo che il denaro e la compravendita di psico-

12 Come ogni scelta linguistica, l’uso dell’espressione ‘malattia mentale’ non è neutro.
Non diversamente da un termine sfaccettato e sfuggente come ‘follia’, si tratta di un conteni-
tore semantico che può comprendere esperienze molto diverse. Tuttavia, essendo strettamen-
te connessa al sapere biomedico, tale espressione può produrre l’impressione di qualcosa di
netto, ben definito e facilmente riducibile a una categoria psichiatrica. Per contrastare questa
tendenza e, al contempo, per sottolineare il fatto che si tratti di un’espressione spesso utilizzata
da attori locali, in questo articolo essa è sempre posta tra virgolette in linea con la proposta
di China Mills (C. Mills, Decolonizing Global Mental Health: The Psychiatrization of the Majority
World, London, Routledge, 2014, ebook, cap. 1, nota 2).
13 Benché sia di fondamentale importanza sia nell’esperienza delle persone affette da di-
sturbi mentali sia negli attuali dibattiti nazionali e internazionali sulla salute mentale in Ghana,
non è possibile in questa sede soffermarsi sul complesso tema della contenzione. Si vedano:
U.M. Read, Rights as Relationships: Collaborating with Faith Healers in Community Mental Health in
Ghana, cit.; Id., Between Chains and Vagrancy: Living with Mental Illness in Kintampo, Ghana, tesi di
dottorato, University College London, 2012, pp. 185-208; L.A. Taylor, Reconsidering Samuel: A
Mental Health Caretaker at a Ghanaian Prayer Camp, «Perspectives in Biology and Medicine», 59,
2017, 2, pp. 263-275.
324 CECILIA DRAICCHIO

farmaci svolgono nelle articolazioni tra prayer camp cristiani e assistenza


psichiatrica in area nzema. In dialogo con alcune prospettive classiche e
più recenti dell’antropologia economica, mi soffermerò in particolare sulle
pratiche di cura degli infermieri psichiatrici, che all’interno di queste artico-
lazioni si muovono per molti versi a cavallo tra due mondi. Come tenterò
di mostrare, infatti, un’analisi delle forme in cui la psichiatria si articola
intrecciandosi con le risorse terapeutiche religiose ci permette di mettere in
discussione non solo la dicotomia razionale-irrazionale/medico-religioso
che caratterizza il discorso psichiatrico in Ghana (e altrove), ma anche una
serie di altre opposizioni che tendono a separare in modo netto il pubblico
dal privato, il formale dall’informale, il dono dal mercato, l’economico dal
religioso e la sfera del ‘bene’ da quella della ‘sofferenza’.14

Il denaro corrompe la medicina? Mercificazione della salute, economie del dono e


antropologia del bene

In un recente articolo,15 l’antropologa Eva Krah affronta il tema del


rapporto tra denaro e pratiche di cura a partire da un’espressione diffusa
nel nord del Ghana su cui aveva già riflettuto Bernhard Bierlich nella sua
ricerca condotta in area Dagomba negli anni Novanta:16 «money spoils the
medicine», «il denaro corrompe la medicina». Pur riecheggiando il topos
occidentale del denaro come ‘sterco del diavolo’,17 nonché le idee ambiva-
lenti sull’(im)moralità del denaro veicolate dal Cristianesimo e dalla popu-
lar culture in molti contesti africani contemporanei,18 secondo Bierlich nel
contesto della sua etnografia il potere corruttivo attribuito ai soldi non si
lega tanto a un’idea di «denaro in sé», ma piuttosto «a ciò che [esso] può

14 J. Robbins, Beyond the Suffering Subject: Toward an Anthropology of the Good, «Journal of
the Royal Anthropological Institute», 19, 2013, 3, pp. 447-462.
15 E. Krah, ‘Money Spoils the Medicine’: Gift Exchange and Traditional Healing in Northern
Ghana, «Medicine Anthropology Theory», 6, 2019, 1, pp. 55-73.
16 B. Bierlich, The Problem of Money: African Agency and Western Medicine in Northern Gha-
na, Oxford, Berghahn, 2007, pp. 164-177.
17 Cfr. J.P. Parry – M. Bloch, Introduction: Money and the Morality of Exchange, in Id. (eds.),
Money and the Morality of Exchange, Cambridge, Cambridge University Press, 1989, pp. 1-32.
18 Cfr. B. Meyer, ‘Delivered from the Powers of Darkness’. Confessions of Satanic Riches in
Christian Ghana, «Africa: Journal of the International African Institute», 65, 1995, 2, pp. 236-55;
Id., The Power of Money: Politics, Occult Forces, and Pentecostalism in Ghana, «African Studies Re-
view», 41, 1998, 3, pp. 15-37; S. van der Geest, Money and Respect: The Changing Value of Old Age
in Rural Ghana, «Africa», 67, 1997, 4, pp. 534-559; J. Comaroff – J.L. Comaroff, Occult Economies
and the Violence of Abstraction: Notes from the South African Postcolony, «American Ethnologist»,
26, 1999, 2, pp. 279-303; P. Schirripa, Salute, salvezza, resistenza. Per una lettura politica dei rituali
di guarigione nel Ghana contemporaneo, in Id. (a cura di), Terapie religiose. Neoliberismo, cura, citta-
dinanza nel pentecostalismo contemporaneo, Roma, Cisu, 2012, pp. 93-106.
«C’EST L’ARGENT QUI PARLE!». ECONOMIE DELLA SALUTE MENTALE 325

fare alle relazioni tra le persone».19 In questo senso, la ‘mercificazione della


salute’20 sviluppatasi tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, con la con-
seguente possibilità di acquistare farmaci privatamente,21 ha permesso ad
alcuni individui, giovani e in particolare donne, di perseguire la guarigione
al di fuori della relazione terapeutica con i guaritori tradizionali, di norma
uomini e anziani, minando l’autorità e la posizione egemonica di questi
ultimi all’interno della società. Mentre per l’antropologo danese «money
spoils the medicine» è un enunciato segnato in modo particolare dalle re-
lazioni di genere, «un promemoria dell’ansia provata dagli uomini e dagli
anziani di fronte al possibile collasso dell’autorità maschile per via della
mercificazione»,22 per Krah, che ha condotto una ricerca etnografica nella
stessa regione, il significato di tale espressione va cercato piuttosto nelle re-
lazioni tra umani e non umani che caratterizzano la medicina tradizionale
locale. Secondo la studiosa, in area mamprusi, territorio vicino a quello da-
gomba, la convinzione che i soldi corrompano la cura accomuna uomini e
donne e non esprime tanto una preoccupazione maschile, quanto piuttosto
la visione condivisa che «l’autorità professionale [dei guaritori tradizionali]
sia intrinsecamente legata all’assenza del denaro»:23 un guaritore rispetta-
bile, cioè, non può accettare di essere pagato. Ricorrendo alla nozione di
‘inalienabilità’ nelle declinazioni che le hanno dato autori classici come An-
nette Weiner24 e Maurice Godelier,25 Krah sostiene che la medicina locale
si fonda su una economia del dono in cui le cure tradizionali non possono
essere pagate perché sono «imbevute – per usare le parole di Weiner – delle
intrinseche e ineffabili identità dei loro proprietari».26 Si tratta, infatti, di
un sapere che i guaritori hanno ereditato dai propri antenati, ai quali lo
ha a sua volta dato un’entità sovrannaturale (una divinità o uno spirito)

19 B. Bierlich, The Problem of Money, cit., p. 154.


20 P. Farmer, Pathologies of Power: Health, Human Rights, and the New War on the Poor,
Berkeley, University of California Press, 2003, p. 152 e passim; v. anche R.van Dijk – M. Dekker
(eds.), Markets of Well-Being. Navigating Health and Healing in Africa, Leiden, Brill, 2010.
21 Per un approfondimento sulla circolazione dei farmaci (tradizionali e non) in contesto
ghanese si rimanda, tra gli altri, a P. Schirripa, La vita sociale dei farmaci: produzione, circola-
zione, consumo degli oggetti materiali della cura, Lecce, Argo, 2015; K.A. Senah, Money Be Man:
The Popularity of Medicines in a Rural Ghanaian Community, Amsterdam, Het Spinhuis, 1997; R.
Libanora, Il mercato delle terapie informali di Accra, «Africa: Rivista trimestrale di studi e docu-
mentazione dell’Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente», 54, 1999, 4, pp. 557-580.
22 Ivi, p. 177. Questa interpretazione richiama da vicino la rilettura che Jonathan Parry e
Maurice Bloch forniscono del lavoro dei coniugi Bohannan sull’ingresso del denaro e del mer-
cato nella società Tiv del nord della Nigeria ( J.P. Parry – M. Bloch, Introduction, cit., pp. 12-14).
23 E. Krah, ‘Money Spoils the Medicine’, cit., p. 57, traduzione dell’autrice.
24 A. Weiner, Inalienable Possessions: The Paradox of Keeping-While-Giving, Berkeley, Uni-
versity of California Press, 1992.
25 M. Godelier, L’enigma del dono, Milano, Jaca Book, 2013.
26 A. Weiner, Inalienable Possessions, cit., p. 6, traduzione dell’autrice.
326 CECILIA DRAICCHIO

secondo il principio del «conservare mentre si dona».27 L’autrice rileva però


un’apparente contraddizione: benché molti dei guaritori che ha incontrato
rifiutino categoricamente l’idea di essere pagati, dichiarando appunto di
non poter vendere nulla perché «è la medicina dei loro padri, non la loro»,28
essi nei fatti ricevono denaro dai propri pazienti a conclusione del percorso
terapeutico. Questo denaro, tuttavia, non è inteso come una forma di paga-
mento, poiché non corrisponde a una cifra stabilita e soprattutto compare
in un momento successivo rispetto alla somministrazione della medicina:
è quindi a tutti gli effetti un contro-dono nei termini in cui l’ha (ri)definito
Pierre Bourdieu,29 tanto da essere spesso designato come cola,30 il dono per
eccellenza nella cultura mamprusi. I soldi dati dai pazienti ai loro guaritori
sono dunque concettualizzati dall’autrice come una forma di ‘denaro mo-
rale’ (moral monies): «un tipo particolare di (contro)dono monetario [che]
serve a ricongiungere i contemporanei bisogni di denaro con le radici so-
cioculturali, morali e storiche di un’economia culturale della guarigione».31
Nell’analisi di Krah, quindi, il denaro appare come intrinsecamente po-
lisemico e capace di creare e mantenere relazioni, non solo di romperle, ed
è interessante notare come l’autrice porti questo aspetto, che Jonathan Par-
ry e Maurice Bloch mettono bene a fuoco nella celebre opera collettanea da
loro curata,32 all’interno del discorso antropologico sulla salute in Africa.
Tale discorso, infatti, è generalmente caratterizzato da un taglio analitico
che si concentra sull’impatto del neoliberismo sui sistemi sanitari, sottoli-
neando la centralità dei processi di mercificazione e ‘mercatizzazione’ che
ne derivano. Il suo articolo, invece, intende dimostrare che
l’idea che sistemi sanitari africani dalla storia centenaria siano semplicemente ‘vit-
time’ del ‘mercato’ non rende giustizia alla complessità degli incontri tra locale e
globale in cui, per esempio, i poteri di agentività sono evidenti. […] C’è bisogno di
ri-enfatizzare e teorizzare la ‘cultura’ nel contesto delle trasformazioni socio-eco-
nomiche. […] In particolare, il concetto di dono può fare luce sulla solidità della
cultura nel contesto di un mercato globale neoliberista in espansione.33

27 Ibid. Come è noto, la riflessione sul «paradosso del conservare mentre si dona» è co-
struita dalla studiosa in relazione al contesto oceaniano e in dialogo con le riflessioni di Marcel
Mauss sullo hau, lo spirito del dono maori (si veda M. Aria, I doni di Mauss: Percorsi di antropolo-
gia economica, Roma, Cisu, 2016, pp. 59-65).
28 E. Krah, ‘Money Spoils the Medicine’, cit., p. 59, traduzione dell’autrice.
29 P. Bourdieu, Per una teoria della pratica. Con tre studi di etnologia cabila, Milano, Cortina,
2003, pp. 282-284. Sul denaro come dono in contesto ghanese si veda S. van der Geest, Money
and Respect, cit.
30 Le noci di cola sono un frutto diffuso in molte zone dell’Africa occidentale, a cui è
spesso attribuito un ruolo in cerimonie e rituali.
31 E. Krah, ‘Money Spoils the Medicine’, cit., p. 70, traduzione dell’autrice.
32 J.P. Parry – M. Bloch (eds.), Money and the Morality of Exchange, cit.
33 E. Krah, ‘Money Spoils the Medicine’, cit., p. 56, traduzione dell’autrice.
«C’EST L’ARGENT QUI PARLE!». ECONOMIE DELLA SALUTE MENTALE 327

La volontà di contribuire al dibattito antropologico sulla salute in Afri-


ca in questa prospettiva rappresenta, a mio avviso, l’elemento più interes-
sante dell’articolo di Krah, ma anche quello più problematico. Da un lato,
quanto sostiene sulla mera ‘vittimizzazione’ delle società africane è certa-
mente condivisibile, così come è evidente, nella letteratura su questi temi,
il rischio di proiettare un’immagine impersonale e astratta della contem-
poraneità, fatta di soggetti minacciosi e lontani – ‘il neoliberismo’, ‘il mer-
cato’, etc. Dall’altro, però, pur volendo superare la fuorviante dicotomia
dono-merce/dono-denaro, il discorso dell’autrice rischia di riprodurre una
polarizzazione tra ‘cultura’, ‘dono’ e ‘medicina tradizionale’ e ‘neoliberi-
smo’, ‘mercato’ e ‘biomedicina’. Da questo punto di vista, il discorso di
Krah richiama in parte la critica che Joel Robbins ha rivolto qualche anno
fa all’antropologia contemporanea, rea di aver sostituito il proprio oggetto
di ricerca privilegiato, l’‘altro’, con il ‘soggetto sofferente’, perdendo molte
delle sue specificità originarie: prima fra tutte l’attenzione alla differenza,
poiché, in fondo, la vulnerabilità è «ciò che accomuna tutti gli esseri uma-
ni».34 Nel suo articolo, citando alcuni lavori recenti, l’antropologo america-
no auspica l’avvento di una nuova antropologia che si concentri su «come
persone che vivono in società diverse si sforzino di creare il bene nelle loro
vite» e che «esplori i diversi modi in cui le persone organizzano le loro vite
personali e collettive per favorire quello che concettualizzano come bene».35
Un’‘antropologia del bene’, appunto, che avrebbe tra i suoi temi di ricerca
favoriti, non a caso, l’empatia, la cura e il dono. Gli argomenti di Krah e
Robbins risuonano tra loro perché gli approcci antropologici che si foca-
lizzano sull’impatto delle politiche neoliberiste e delle disuguaglianze sui
sistemi sanitari (in Africa e non solo) trovano senza dubbio nella sofferen-
za uno dei loro temi chiave, come molta dell’antropologia medica critica
prodotta negli ultimi decenni ci insegna. Ma davvero può aiutarci guardare
a questi temi – sofferenza e ‘bene’, ineguaglianze e dono, etc. – come a
sfere separate e ben definite? Davvero occuparsi di un polo significa ne-
cessariamente non occuparsi dell’altro? Come suggeriscono, ad esempio,
Sherry Ortner36 e Bruce Knauft,37 si tratta al contrario di dimensioni che si
intersecano e al cui intreccio può essere interessante guardare per provare

34 J. Robbins, Beyond the Suffering Subject, cit., p. 455. Pur avendo sfumature e bersagli
teorici in parte differenti, la critica di Robbins risuona con alcune delle critiche che Fabio Dei ri-
volge all’antropologia contemporanea in F. Dei, Di stato si muore? Per una critica dell’antropologia
critica, in F. Dei – C. Di Pasquale, Stato, Violenza, Libertà: La ‘Critica Del Potere’ e l’antropologia
Contemporanea, Roma, Donzelli, 2017, pp. 9-49.
35 J. Robbins, Beyond the Suffering Subject, cit., p. 457, traduzione e corsivo dell’autrice.
36 S.B. Ortner, Dark Anthropology and Its Others: Theory since the Eighties, «HAU: Journal of
Ethnographic Theory», 6, 2016, 1, pp. 47-73.
37 B. Knauft, Good Anthropology in Dark Times: Critical Appraisal and Ethnographic Applica-
tion, «The Australian Journal of Anthropology», 30, 2019, 1, pp. 3-17.
328 CECILIA DRAICCHIO

a decifrare la complessità della realtà e talvolta immaginarne delle altre. In


questo senso, cercare ciò che non è ‘mercificazione’ e ‘neoliberismo’ – ele-
menti come il dono e la morale – esclusivamente nella sfera del ‘tradizio-
nale’, come suggerisce implicitamente l’articolo di Krah, può costituire un
ulteriore limite, perché rischia di ipostatizzare ‘l’economia della medicina
tradizionale’ ignorando come nella vita quotidiana e nei percorsi terapeu-
tici delle persone essa si incroci e si mescoli con altre economie e pratiche.
In questo saggio, dunque, propongo deliberatamente di guardare a
‘ciò che non è medicina tradizionale’ nell’ambito della salute mentale per
provare a riflettere su come la mercificazione della salute e la sofferenza
si intreccino con le economie della cura e del dono nella vita quotidiana
delle persone in due contesti che – oltre a rispondere a visioni del mondo
diverse, eppure in comunicazione tra loro – dovrebbero entrambi essere,
sulla carta, chiare espressioni del «mercato globale neoliberista in espansio-
ne»:38 l’ospedale e le chiese carismatiche e pentecostali. Come tenterò di
dimostrare, infatti, per scongiurare il rischio di feticizzare e astrarre il ‘ne-
oliberismo’ e la ‘mercificazione’, piuttosto che eliderli dall’equazione, può
essere utile adottare l’approccio suggerito da Keith Hart nel suo Manifesto
for a Human Economy39 ed esplorare la tensione che esiste «tra le condizioni
impersonali della vita sociale e le persone che inevitabilmente la vivono»40
a partire dalle loro azioni materiali e quotidiane.

Economie informali della salute mentale in area nzema

Torniamo dunque alla scena con cui si è aperto l’articolo. Come dob-
biamo interpretare la frase di Ama, la giovane paziente del prayer camp?
Cosa significa «c’est l’argent qui parle»? E come funziona il coinvolgimento
degli infermieri nella compravendita di farmaci psicotropi cui ho accennato
nell’introduzione? Per rispondere, è necessario fornire degli ulteriori detta-
gli sul contesto della ricerca.
Innanzitutto, in linea con la tendenza che si è affermata a livello globa-
le,41 anche in area nzema l’assistenza psichiatrica42 è prettamente farma-

38 E. Krah, ‘Money Spoils the Medicine’, cit., p. 56, traduzione dell’autrice.


39 K. Hart, Manifesto for a Human Economy, 20 gennaio 2013, «WiSER», <https://wiser.
wits.ac.za/system/files/seminar/Hart2013.pdf>, consultato il 30 maggio 2020, traduzione
dell’autrice.
40 K. Hart – J. Sharp, Preface: The Human Economy Project, in Id. – Id., People, Money, and
Power in the Economic Crisis: Perspectives from the Global South, New York, Berghahn Books, 2016,
pp. vii-xi: x, traduzione dell’autrice.
41 Cfr. J.H. Jenkins (ed.), Pharmaceutical Self: The Global Shaping of Experience in an Age of
Psychopharmacology, Santa Fe, N.M., School for Advanced Research Press, 2011.
42 Parlo di assistenza psichiatrica e non di psichiatria perché le attività del reparto in cui ho
«C’EST L’ARGENT QUI PARLE!». ECONOMIE DELLA SALUTE MENTALE 329

cologica: quello che le persone si aspettano quando si recano al reparto


psichiatrico è di ricevere delle medicine, mentre quello che gli infermieri si
sentono in dovere di fare nei confronti dei loro pazienti è determinare di
che patologia psichiatrica soffrano e dar loro i farmaci più adeguati. Questo
avviene compatibilmente con le disponibilità dell’ospedale che, quando è
ben rifornito, è dotato di una gamma di ansiolitici, antipsicotici, antide-
pressivi e stabilizzatori dell’umore prodotti principalmente in Ghana e in
India. È importante, però, tenere presente, come osserva Byron Good, che
in molti paesi del sud globale, a differenza di quelli occidentali, a farla da pa-
drona è, almeno per ora, la scarsità degli psicofarmaci piuttosto che la loro
incondizionata diffusione.43 Ciò è certamente vero in area nzema, dove mi
è capitato spesso di assistere a momenti di grande frustrazione, sconforto
e rabbia, quando pazienti e accompagnatori, a volte arrivati al reparto da
molto lontano e con un investimento di risorse tutt’altro che ‘leggero’ per il
bilancio familiare, venivano a sapere che la medicina di cui avrebbero avuto
bisogno non era disponibile presso l’ospedale. Bisogna aggiungere, inoltre,
che in Ghana i servizi di salute mentale e i farmaci psicotropi, gratuiti per
legge,44 non sono stati formalmente investiti dal processo di ‘mercatizza-
zione’ sancito dall’introduzione dei servizi sanitari a pagamento a metà de-
gli anni Ottanta (user fees; meglio conosciuti in Ghana come cash&carry), in
piena epoca di Piani di Aggiustamento Strutturale.45 Per questa ragione, i
servizi di salute mentale non sono nemmeno coperti dall’assicurazione sa-
nitaria (National Health Insurance System), lo strumento introdotto nei primi
anni Duemila per tentare di arginare gli effetti devastanti delle user fees sulle
fasce più povere della popolazione46 e ottenere una copertura sanitaria uni-

fatto ricerca si fondano esclusivamente sul lavoro di infermieri psichiatrici e, in generale, non
vi sono psichiatri nell’area. Infatti, benché il loro numero si sia più che raddoppiato negli ultimi
anni, gli psichiatri in Ghana sono ad oggi solo 39 e principalmente concentrati nelle città, in
particolare nei tre ospedali psichiatrici del paese (Accra Psychiatric Hospital e Pantang Hospital
nella capitale Accra e Ankaful Psychiatric Hospital a Cape Coast) e in due ospedali universitari
(Korle Bu Teaching Hospital ad Accra e Komfo Anokye Teaching Hospital a Kumasi); si veda
Psychiatrists in Ghana as at 2nd December 2019, «Mental Health Authority», <https://mhaghana.
com/psychiatrists-in-ghana-as-at-2nd-december-2019/>, consultato il 2 giugno 2020.
43 B.J. Good, The Complexities of Psychopharmaceutical Hegemonies in Indonesia, in J.H. Jen-
kins (ed.), Pharmaceutical Self, cit., pp. 117-144.
44 Mental Health Act 846, p. 35.
45 Cfr. E. Vasconi, Tra Democrazia e Liberalizzazione. Un’analisi Antropologica e Comparativa
Del Sistema Sanitario in Ghana e in Uganda, tesi di dottorato, Università di Siena, 2012. Sull’im-
patto dei Piani di Aggiustamento Strutturale sulla salute pubblica si rimanda a J. Pfeiffer – R.
Chapman, Anthropological Perspectives on Structural Adjustment and Public Health, «Annual Review
of Anthropology», 39, 2010, 1, pp. 149-165.
46 Cfr. W.K. Asenso-Okyere et alii, Cost Recovery in Ghana: Are There Any Changes in Health
Care Seeking Behaviour?, «Health Policy and Planning», 13, 1998, 2, pp. 181-188.
330 CECILIA DRAICCHIO

versale.47 Possiamo dunque felicemente lasciare da parte, nel caso dell’assi-


stenza psichiatrica, il discorso sulla ‘mercificazione della salute’? Purtroppo
no. Come si diceva, per mancanza di fondi gli psicofarmaci sono disponibili
presso il reparto psichiatrico solo in maniera intermittente e dunque sono
spesso solo ‘formalmente’ gratuiti: per sopperire alla loro mancanza, infat-
ti, gli infermieri hanno da anni messo in moto un’‘economia informale’,48
attraverso la quale, anche grazie a una rete di contatti diffusa su tutto il
territorio nazionale, acquistano privatamente i farmaci che mancano per
poi rivenderli ai propri pazienti.49 Questa economia informale, diffusa in
vari reparti psichiatrici del paese, ha una funzione strutturale nel garantire
il loro funzionamento, tanto che qualche anno fa la Mental Health Authority,
l’istituzione responsabile dei servizi di salute mentale in Ghana, ha ema-
nato un documento – tuttora appeso a una delle pareti del reparto presso
cui ho fatto ricerca – in cui si autorizzava di fatto l’approvvigionamento e
la vendita di medicinali da parte degli infermieri, «preso atto dell’annosa
questione della carenza di farmaci psicotropi».50 È importante sottolineare
che il ruolo ‘strutturale’ e compensativo della pratica descritta ne rivela, di
fatto, tutta l’ambiguità: lungi dal rappresentare una ‘soluzione’ tout court,
l’economia informale degli psicofarmaci permette ai servizi psichiatrici di
continuare a funzionare in regime di scarsità, ma allo stesso tempo, pensata
come una misura emergenziale, non fa altro che normalizzare la privatizza-
zione della salute mentale e l’esclusione che ne deriva, come ben dimostra
il documento della Mental Health Authority.
Il denaro menzionato da Ama era, dunque, quello che di lì a poco, una
volta conclusi i colloqui, Michael avrebbe chiesto ai/alle residenti del prayer
camp per i farmaci che aveva prescritto. La reazione alla richiesta dell’infer-

47 In questo senso, il NHIS si è tuttavia rivelato piuttosto fallimentare a causa dei prez-
zi dell’assicurazione e dell’inefficacia dei criteri e dei processi di esenzione che continuano
a precludere agli strati più poveri della popolazione di accedere alla sanità pubblica (cfr. A.
Kwarteng et alii, The State of Enrollment on the National Health Insurance Scheme in Rural Ghana
after Eight Years of Implementation, «International Journal for Equity in Health», 19, 2019, 1,
<https://equityhealthj.biomedcentral.com/articles/10.1186/s12939-019-1113-0>, consultato
il 2 giugno 2020; J. Dixon – E.Y. Tenkorang – I. Luginaah, Ghana’s National Health Insurance
Scheme: Helping the Poor or Leaving Them Behind?, «Environment and Planning C: Government
and Policy», 1, 2011, pp. 1102-1115).
48 Cfr. K. Hart, Informal Income Opportunities and Urban Employment in Ghana, «The Jour-
nal of Modern African Studies», 11, 1, 1973, pp. 61-89; Id., The Informal Economy, «Cambridge
Anthropology», 10, 2, 1985, pp. 54-58.
49 Il costo dei farmaci prescritti a un singolo paziente può, dunque, variare sensibilmente
a seconda delle loro modalità di reperimento, della loro provenienza e della loro tipologia. Per
pazienti diagnosticati come schizofrenici, psicotici o gravemente depressi, la spesa mensile può
arrivare fino a 80-90 Ghana cedi, che corrispondono a circa 12-13 euro: una cifra davvero con-
siderevole per i budget familiari locali.
50 Mental Health Authority, Procurement and Sale of Psychotropic Drugs, 8 dicembre 2016.
«C’EST L’ARGENT QUI PARLE!». ECONOMIE DELLA SALUTE MENTALE 331

miere non era stata univoca: alcune persone avevano accettato di comprare
le medicine che Michael aveva scrupolosamente portato con sé, altre invece
avevano rifiutato, lamentandosi del loro costo proibitivo, nell’immediato e
sul lungo periodo. Da questo punto di vista, in modo paradossale – soprat-
tutto se pensiamo alle connessioni stabilite da molta letteratura tra chiese
carismatico-pentecostali e neoliberismo – l’economia della guarigione nel
prayer camp di Esofo Christ è molto più simile a quella descritta da Krah a
proposito della medicina tradizionale dagomba. Infatti, anche le cure of-
ferte nel campo non hanno un prezzo: non va corrisposta nessuna somma
di denaro per essere ammessi o ammesse, l’unico prerequisito è avere un
accompagnatore o un’accompagnatrice che si occupi di dar da mangiare
al/alla paziente nel corso della sua permanenza. Tuttavia, a guarigione av-
venuta, si fa un regalo all’esofo per ringraziarlo del suo aiuto. Questo dono
può anche essere di natura monetaria, ma proprio come nel contesto pre-
sentato da Krah, avviene in un momento successivo rispetto alla cura e non
c’è alcuna cifra stabilita, poiché deve essere «something from your heart»,
«una cosa che viene dal cuore». Anche nel prayer camp di Esofo Christ non
potrebbe esserci una retribuzione vera e propria, perché chi opera la guari-
gione non è il profeta, ma Dio stesso.
Durante l’outreach, dunque, due visioni diverse della follia, la ‘follia-ma-
lattia’ e la ‘follia-possessione demoniaca’, entrano in relazione attraverso
la possibilità (di acquisto) dello psicofarmaco, dando vita a una ‘collabora-
zione’ parziale, intermittente e asimmetrica tra profeti e infermieri psichia-
trici. Questa ‘collaborazione imperfetta’ è in effetti mediata dalla presenza
di pasticche e liquidi da iniettare, ovvero gli strumenti che gli infermieri
propongono di affiancare alla preghiera per una ‘gestione’ migliore della
‘malattia’. Nello spiegarmi perché permette agli infermieri dell’ospedale di
visitare il campo e ai propri ‘figli’ (pazienti) di prendere le ‘loro’ medicine,
Esofo Christ ha citato un passo biblico:
Dio ha detto: figlio mio, quando stai male, non fare finta di niente, prega il Signore
e Lui ti farà stare bene, confessa tutti i tuoi peccati e prometti che in futuro vivrai
una vita piena di grazia. Poi chiama il dottore51 perché è il Signore che l’ha creato,
e tienilo al tuo fianco. Ne avrai bisogno. Chiama il dottore perché il Signore lo ha
creato e tu dovrai tenerlo al tuo fianco.52

Se nella visione dell’esofo la medicina degli infermieri psichiatrici può, in


alcuni casi di possessione, ‘affiancare’ la preghiera, pur rimanendo quest’ul-

51 In area nzema, può capitare spesso che coloro che non sono membri del personale
sanitario presso ospedali e centri di salute usino indifferentemente il termine doctor o nurse per
indicare infermieri e infermiere.
52 Si veda Siracide (Ecclesiastico) 38, vv. 1-15; intervista ad Esofo Christ, 10 novembre
2014, traduzione e corsivo dell’autrice.
332 CECILIA DRAICCHIO

tima l’unico strumento capace di garantire la ‘completa guarigione’,53 per


gli infermieri funziona esattamente al contrario: è la preghiera a ‘supporta-
re’ la somministrazione dei medicinali prescritti. Quasi tutti gli infermieri
e le infermiere che ho conosciuto in area nzema sono membri di chiese
cristiane di diverse denominazioni e le frequentano regolarmente. Nessuno
di loro mette in dubbio la possibilità che Dio possa agire direttamente sulla
realtà. Se anche nelle conversazioni di tutti i giorni può succedere spesso
che la buona fede di alcuni specifici profeti e profetesse possa essere messa
in discussione, gli operatori sanitari non hanno particolari difficoltà a com-
prendere quali siano le ragioni che spingono alcuni dei loro pazienti a dare
un’interpretazione ‘spirituale’ della malattia e a rivolgersi ai prayer camp o
alla medicina tradizionale. Michael, ad esempio, che aveva deciso di diven-
tare infermiere da ragazzo dopo essere stato operato di appendicite proprio
per diventare come le persone che si erano prese cura di lui, mi ha descritto
la sua visione della ‘malattia mentale’ come segnata da un ‘prima’ e da un
‘dopo’:
Per quanto ne so [a proposito delle interpretazioni spirituali della malattia],
come in tutte le cose, quando non sai… all’epoca in cui non mi ero formato
come infermiere psichiatrico, se tu mi avessi chiesto: “Quale pensi che sia la
causa della malattia mentale?”, anche io avrei pensato a qualcosa di spirituale.
Dico che non sapevo perché non ne avevo proprio idea. Ma dopo che mi sono
formato… dopo che sono passato attraverso una serie di cose, posso dire che gli
spiriti non c’entrano.54

La condivisione di un orizzonte di senso ‘di provenienza’ con coloro


che non si sono professionalizzati come tecnici della salute è un elemento
che ricorre spesso nelle narrazioni degli infermieri e che serve ad indicare
simultaneamente una vicinanza e una distanza (temporale in questo caso)
con la sfera spirituale e religiosa. Di fatto, si tratta spesso di una vicinanza
che va al di là dello spartiacque della professionalizzazione e continua nel
presente. Ne sono una prova non solo la loro frequentazione delle chiese
locali o le professioni di fede che molti di loro non esitano a ‘postare’ sui
social media, ma soprattutto il loro dichiararsi consapevoli dell’esistenza di
quei poteri invisibili e pericolosi che pazienti e familiari evocano frequen-
temente nelle loro interpretazioni non psichiatriche del malessere mentale.
Ad esempio, come mi aveva detto Michael nel corso della stessa conversa-
zione citata sopra, il suo status di infermiere – una professione socialmente
riconosciuta e piuttosto redditizia, specie se comparata con le occupazioni

53 Cfr. U. Read, ‘I Want the One That Will Heal Me Completely so It Won’t Come Back Again’:
The Limits of Antipsychotic Medication in Rural Ghana, «Transcultural Psychiatry», 49, 2012, 3-4, pp.
438-460.
54 Intervista a Michael M., 22 ottobre 2014, traduzione dell’autrice.
«C’EST L’ARGENT QUI PARLE!». ECONOMIE DELLA SALUTE MENTALE 333

più diffuse nelle aree rurali – aveva talvolta destato in lui la preoccupazione
che qualcuno potesse esserne invidioso: «quello di cui ho avuto paura è che
qualcuno potesse maledirmi e causare la mia morte. In quel tipo di maledi-
zione ci credo, sì ci credo».55
Gli infermieri, dunque, pur convinti – almeno nella maggior parte dei
casi – delle cause ‘non spirituali’ della ‘malattia mentale’, non intendono far-
si portatori presso i propri pazienti e i loro familiari di una visione alterna-
tiva del mondo in cui gli spiriti, il Diavolo e Dio non esistono; e, in effetti, il
loro stesso posizionamento spirituale e religioso non glielo permetterebbe.
Quello che essi propongono attraverso i farmaci è essenzialmente «a way to
manage the illness», un modo per ‘gestire’ la quotidianità della ‘malattia’ e
in particolare i momenti di irrequietezza e ‘aggressività’ che caratterizzano
l’esperienza della ‘malattia mentale’, al di là delle convinzioni sulle sue cause.
In occasione dell’outreach descritto sopra sembra oltretutto stabilirsi una re-
lazione, o meglio emergere con più evidenza l’articolarsi di economie della
salute diverse e a loro volta sfaccettate, come si vedrà meglio nel prossimo
paragrafo.

Comprare, vendere e donare farmaci nei prayer camp: esclusione, relazioni e ‘si-
tuazioni critiche’

«Loro devono pagare, ma io non ci guadagno niente».56 Così ha esor-


dito Michael, subito dopo l’outreach, per spiegarmi il funzionamento del
sistema informale di compravendita dei farmaci tratteggiato sopra. Le sue
parole ricordano, per certi versi, quelle usate da uno dei guaritori incontrati
da Krah: «Io non faccio pagare. Anche quando mi svegliano di notte [per es-
sere curati]. Se al mattino mi danno uno o due cedi li accetto… Se vogliono
darci qualcosa dopo, lo accettiamo».57 Pur trattandosi di due esempi molto
diversi, in entrambi si traccia una distinzione dal sapore morale tra la speci-
fica transazione di denaro in cui sono coinvolti e il classico funzionamento
del mercato, che implica un guadagno e un prezzo. Nel corso della conver-
sazione, come molti suoi colleghi in altre circostanze, Michael sembrava
tenerci a precisare che i soldi che aveva chiesto all’interno del prayer camp
erano in un certo senso moral monies, per usare l’espressione di Krah. Eppu-
re, in linea con il commento di Ama sull’interesse economico di Michael,
nel corso della mattinata l’infermiere si era più volte dichiarato entusiasta
per il numero di potenziali acquirenti, evocando ai miei occhi, con la sua
valigetta piena di medicinali, la figura ambivalente di un rappresentante

55 Ibid.
56 Ibid. Lett. «io non prendo niente da loro», traduzione dell’autrice.
57 E. Krah, ‘Money Spoils the Medicine’, cit., p. 65, traduzione e corsivo dell’autrice.
334 CECILIA DRAICCHIO

farmaceutico. Se a volte può esservi un margine di guadagno individua-


le per gli infermieri che si occupano direttamente del reperimento di un
particolare farmaco, a giustificare in parte sia l’entusiasmo di Michael che
il commento di Ama vi è indubbiamente la generale necessità di rientrare
delle spese affrontate dal reparto. D’altronde, uno degli aspetti più evidenti
nel corso di outreach come quello raccontato è proprio l’esclusione prodotta
da un’assistenza psichiatrica che diventa, nei fatti, una merce farmaceutica
da comprare. Come ho sostenuto altrove,58 infatti, per alcuni pazienti, i
prayer camp non sono solo luoghi dove ‘guarire completamente’, ma rap-
presentano anche un rifugio, un’alternativa laddove la sanità pubblica risul-
ta inaccessibile. Nei frequenti casi di persone che denunciano l’impossibi-
lità di acquistare i farmaci prescritti tale inaccessibilità si rende manifesta.
Nati con l’obiettivo di raggiungere gli ‘esclusi’, coloro che sono lontani dal
reparto psichiatrico o ne ignorano l’esistenza e/o l’efficacia, gli outreach fi-
niscono talvolta per riprodurre l’esclusione e la sofferenza sociale derivanti
dalla mercificazione de facto dei servizi di salute mentale. L’esclusione ge-
nerata dalla richiesta di denaro per i medicinali è un elemento ricorrente e
centrale in molte delle storie che ho ascoltato in area nzema, ma è solo una
faccia della medaglia. Quando i pazienti o, più spesso, i loro familiari sono
in condizioni di decidere di acquistare i farmaci prescritti dagli infermieri,
il denaro scambiato sancisce un atto di fiducia e la nascita di una possibile
relazione. Come spiegano gli infermieri a pazienti e familiari, la costanza
è uno degli elementi chiave per la riuscita del trattamento farmacologico:
dopo il primo acquisto, viene a costituirsi una relazione potenzialmente
duratura fatta di telefonate, visite di controllo nel prayer camp e a domicilio,
visite in ospedale, aggiustamenti relativi al dosaggio o al tipo di medicinale,
richieste di aiuto e favori e persino occasionale dono di farmaci nel caso di
pazienti abituali in difficoltà.
Nelle conversazioni con gli infermieri e nelle loro pratiche appare chia-
ro che esiste un continuum tra interesse economico e accudimento dell’al-
tro, in cui non manca la consapevolezza delle contraddizioni dell’economia
della salute mentale dentro la quale si muovono. Questo emerge, ad esem-
pio, dalle parole di Francis, uno dei veterani del reparto:
Quello che dico è che i farmaci non arrivano [dall’amministrazione centrale]
come succedeva in passato e noi dobbiamo assicurarci che il reparto funzioni.
Non possiamo chiudere. Quindi dobbiamo trovare un modo per assicurare che
il reparto stia lì e che anche i nostri clienti stiano bene… i farmaci, a differenza di
quelli per problemi fisici [physical drugs], non si possono comprare ovunque, ma
solo nelle grandi farmacie [in città]… la distanza in termini di costi di trasporto [è
troppa]… quindi noi cerchiamo di trovare quelli più economici e di averli qui per
i nostri clienti, quelli che sono in condizioni di comprarli […] quando è il governo

58 C. Draicchio, Extraordinary conditions and experiments, cit.


«C’EST L’ARGENT QUI PARLE!». ECONOMIE DELLA SALUTE MENTALE 335

a comprarli noi li diamo [gratis] ai pazienti e poi… immagino che tu abbia notato
la situazione critica di prima.59

Con ‘situazione critica’ Francis si riferiva al momento in cui, qualche ora


prima, aveva deciso di dare gratuitamente, di regalare, dei farmaci comprati
dal reparto a una ragazza impossibilitata a pagare. In un contesto in cui repe-
rire farmaci autonomamente e venderli diviene quasi l’unico modo per pren-
dersi cura dei propri pazienti, emerge come possibilità anche la pratica del
dono. Si tratta di una pratica occasionale, più che continuativa, i cui destinata-
ri possono essere pazienti abituali con cui si è già stabilito un legame – come
la ragazza in questione – ma non solo. Infatti, nel febbraio 2020, durante un
outreach presso un altro prayer camp in compagnia di Ernest, un infermiere
psichiatrico assegnato a una piccola clinica locale (CHPS),60 mi è capitato di
assistere a una dinamica inversa rispetto alla trasferta descritta sopra. Dopo
aver elaborato le sue diagnosi, Ernest aveva deciso di non far pagare i farmaci
antipsicotici prescritti ad un nuovo paziente, essendo la madre impossibilita-
ta ad acquistarli. «Questo è il mio lavoro, che altro dovrei fare?», mi ha detto
qualche giorno dopo, commentando l’episodio e aggiungendo che gli era
capitato spesso di rimetterci di tasca propria in circostanze simili, pur am-
mettendo di non poterselo permettere sempre, né con continuità.61 La sua
scelta era stata dettata principalmente da due fattori: da un lato la gravità
delle condizioni del paziente, affetto secondo la sua diagnosi da ‘psicosi acu-
ta’, dall’altro la preoccupazione della madre, ritenuta dal figlio responsabile
del proprio malessere e più volte minacciata da lui per questo. Ernest, certo
che gli antipsicotici potessero essere una soluzione efficace per smorzare il
conflitto e migliorare le condizioni del paziente, non se l’era sentita di negare
loro tale possibilità per una ‘questione di soldi’. Aveva lasciato il proprio nu-
mero alla donna, chiedendole di aggiornarlo se ci fossero stati sviluppi, men-
tre lei, ringraziandolo, gli aveva promesso che avrebbe cercato di dargli parte
del denaro in futuro, trasformando il dono di Ernest in una forma indefinita
di debito.62 La pratica elusiva del dono/debito è un fenomeno frequente, ep-

59 Intervista di gruppo con infermieri del reparto, 10 luglio 2017, traduzione dell’autrice.
60 La sigla sta per Community-based Health Planning and Service, l’omonimo programma
nazionale di decentramento approvato nel 2005 che ha previsto l’istituzione di piccole cliniche
direttamente dipendenti dai distretti sanitari locali nei villaggi più distanti dagli ospedali (si
veda E. Vasconi, Decentramento Sanitario e Medicina Tradizionale Nel Ghana Contemporaneo. Un
Sistema Esclusivo o Inclusivo?, «L’Uomo. Società Tradizione Sviluppo», 1-2, 2011, pp. 331-357).
61 Conversazione con Ernest E., 5 marzo 2020, traduzione dell’autrice.
62 Per i fini di questo articolo, mi concentro su questi aspetti, ma la vicenda è molto più
complessa e meriterebbe una trattazione a sé, poiché chiama in causa altri temi fondamentali
come il ruolo dei familiari nei percorsi terapeutici delle persone affette da sofferenza mentale,
il diritto all’autodeterminazione, la coercizione e i dilemmi etici posti da tali questioni nella
pratica della psichiatria di comunità.
336 CECILIA DRAICCHIO

pure spesso trascurato e ‘invisibilizzato’ in contesti istituzionali come quello


dei servizi sanitari pubblici. Se, da una parte, un gesto come quello di Ernest
può produrre delle relazioni complesse che oscillano tra la riconoscenza e la
dipendenza nei confronti dell’infermiere, dall’altra parte, esso può generare
una sorta di aspettativa professionale nell’operatore: quella di aver ‘conqui-
stato’ un paziente/cliente di cui continuare a prendersi cura.
In entrambi gli episodi descritti, dunque, ci troviamo di fronte a una
‘mercificazione’ della salute mentale che non è ‘solo mercificazione’. Da
un lato, attorno alla possibilità di acquisto-vendita dei farmaci psicotropi si
sviluppano delle potenziali relazioni collaborative tra assistenza psichiatrica
e terapie religiose, due ambiti spesso immaginati come irrimediabilmente
diversi e separati. Dall’altro, nelle pratiche degli infermieri che si muovono
tra reparto psichiatrico e prayer camp, i confini tra le sfere del mercato e
della cura, dell’interesse e del dono, in tutta la loro ambivalenza, appaiono
sfumati, svelando connessioni e contraddizioni.63
Un analogo processo di ‘mercificazione informale della salute’ è analiz-
zato da Katie Kilroy-Marac nel contesto della celebre clinica psichiatrica di
Fann a Dakar, in Senegal.64 In particolare, l’antropologa riflette sulla trasfor-
mazione della figura paradigmatica dell’accompagnatore del paziente (accom-
pagnant), un ruolo prima esclusivamente appannaggio dei familiari e oggi
divenuto un impiego informalmente retribuito (accompagnant mercenaire). Il
primo istinto è quello di interpretare tale trasformazione come un passaggio
«da un’economia puramente morale di cura familiare […] a una serie di tran-
sazioni di mercato puramente amorali».65 Tuttavia, come mostra la studiosa
e come ho tentato di dimostrare fin qui, «l’assunto che le relazioni di cura
mercificate siano necessariamente amorali, meccaniche, fredde, o prive di
“vera” cura»66 si complica immediatamente quando guardiamo alle pratiche
delle persone, alle relazioni che creano, alle soluzioni che inventano e alle
scelte che fanno.

63 Cfr. V.A. Zelizer, Vite economiche: valore di mercato e valore della persona, Bologna, il Mu-
lino, 2009; J. Biehl, Care and Disregard, in D. Fassin (ed.), A Companion to Moral Anthropology,
Malden, Wiley-Blackwell, 2012, pp. 242-263.
64 K. Kilroy-Marac, Of Shifting Economies and Making Ends Meet: The Changing Role of the
Accompagnant at the Fann Psychiatric Clinic in Dakar, Senegal, «Culture, Medicine, and Psychia-
try», 38, 2014, 3, pp. 427-447; cfr. anche Id., An Impossible Inheritance: Postcolonial Psychiatry and
the Work of Memory in a West African Clinic, Oakland, University of California Press, 2019.
65 K. Kilroy-Marac, Of Shifting Economies and Making Ends Meet, cit., p. 441, traduzione
dell’autrice.
66 Ivi, pp. 429-430, traduzione dell’autrice.
«C’EST L’ARGENT QUI PARLE!». ECONOMIE DELLA SALUTE MENTALE 337

Conclusione

In questo articolo ho cercato di mostrare che il denaro scambiato tra


pazienti, o più spesso loro familiari, e infermieri psichiatrici all’interno dei
prayer camp può ‘parlarci’ in tanti modi.
In primo luogo, osservare lo scambio di soldi e farmaci ci costringe a
sfumare i confini tra sistemi spesso pensati come separati e fondati su vi-
sioni della follia (malattia e possessione demoniaca) e forme economiche
(compravendita e dono) nettamente incompatibili.
Il ruolo del denaro, inoltre, si configura come fortemente ambiguo. De-
monizzati come la materializzazione dell’individualismo che domina il no-
stro tempo, nei prayer camp i soldi possono diventare paradossalmente uno
strumento accessorio per combattere l’azione del demonio che sta alla base
della sofferenza dei pazienti. Lungi dal mero rompere i legami, il denaro –
inteso qui non come strumento rituale o performativo, né come promessa
(prosperity gospel), ma come mezzo attraverso cui si articola la relazione eco-
nomica – crea nei prayer camp delle relazioni. I soldi, però, ci dicono anche
qualcos’altro: ossia che la creazione di legami è solo uno dei possibili esiti.
L’altra faccia della medaglia rimane l’esclusione di coloro che non sono in
condizioni di pagare: da un lato, l’economia (in)formale dell’assistenza psi-
chiatrica cerca di colmare il vuoto di servizi lasciato dalla sanità pubblica;
dall’altro, con le loro pratiche e i loro discorsi, gli infermieri si muovono
in modo problematico su un continuum che va dall’accudimento dell’altro
all’interesse commerciale, facendo dei prayer camp, allo stesso tempo, un
mercato e una chiave di accesso agli ‘esclusi’ dalle istituzioni psichiatriche.
Ciò che emerge dal tentativo di «privilegiare le persone piuttosto che le
astrazioni»,67 guardando alle forme in cui la ‘mercificazione della salute’ si
declina su un piano ‘micro’ nelle pratiche di chi la esperisce e la pratica ogni
giorno, è che è impossibile comprendere le esperienze, gli itinerari tera-
peutici e le pratiche di cura delle persone nei termini di un dualismo netto
tra neoliberismo/mercato e dono/cura. Allo stesso modo, riconoscere i
meccanismi di esclusione e produzione della sofferenza generati da un’eco-
nomia della salute mentale mercificata e inaccessibile per molti/e non vuol
dire necessariamente ignorare i tentativi, per quanto ambigui, imperfetti e
contraddittori, di arginarne gli effetti, fare delle scelte sulla base di logiche
alternative e tentare di ‘favorire il bene’.68

67 K. Hart, Manifesto for a Human Economy, cit., p. 16, traduzione dell’autrice.


68 J. Robbins, Beyond the Suffering Subject, cit., p. 457, traduzione dell’autrice.
338 CECILIA DRAICCHIO

Riassunto – Summary

A partire dalle parole pronunciate da un’interlocutrice incontrata in un campo


di preghiera in area nzema, l’autrice riflette sul complesso ruolo che il denaro e
la compravendita di psicofarmaci svolgono nelle articolazioni tra prayer camp cri-
stiani e assistenza psichiatrica nel Ghana rurale. In dialogo con alcune prospettive
classiche e più recenti dell’antropologia economica, l’articolo si sofferma in parti-
colare sulle pratiche di cura degli infermieri psichiatrici, che sembrano muoversi
a cavallo tra due mondi. Analizzando, attraverso le loro pratiche, le forme in cui
la psichiatria si intreccia con le risorse terapeutiche religiose, il saggio si propone
di mettere in discussione non solo la dicotomia razionale-irrazionale/medico-re-
ligioso che caratterizza il discorso psichiatrico in Ghana (e altrove), ma anche una
serie di altre opposizioni che tendono a separare in modo netto il pubblico dal
privato, il formale dall’informale, il dono dal mercato, l’economico dal religioso e
la sfera del ‘bene’ da quella della ‘sofferenza’.
Taking the words of a prayer camp resident as point of departure, the author
reflects on the complex role that money and pharmaceutical buying and selling
play in the articulations between Christian prayer camps and psychiatric care in
rural Ghana. Drawing on both classic and recent perspectives in economic anthro-
pology, the article focuses on the care practices of psychiatric nurses in the Nzema
area (Western Region), who seem to move seamlessly between two worlds. By
analysing the ways in which psychiatric care is intertwined with religious thera-
peutic resources, the article not only directly questions the rational/irrational and
biomedical/religious dichotomies that inform discourses on mental health care
in Ghana (and beyond), but also aims to nuance scholarly discourses that neatly
oppose public and private, formal and informal, gift and market, economic and
religious, and finally ‘the good’ and ‘suffering’.
Direttore Responsabile
Prof. Fabio Dei
Università degli Studi di Pisa
Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere

Registrazione del Tribunale di Firenze n. 140 del 17-11-1949


ISSN 0023-8503
FINITO DI STAMPARE
PER CONTO DI LEO S. OLSCHKI EDITORE
PRESSO ABC TIPOGRAFIA • CALENZANO (FI)
NEL MESE DI MAGGIO 2021
ISSN 0023-8503

Questo numero monografico si propone di esplorare i processi che vedo-


no la religione e l’economia intrecciarsi e giocare un ruolo chiave nel farsi
e disfarsi di gruppi e comunità. Concentrandosi sulle cosiddette economie
‘umane’ e ‘intime’, i contributi qui presentati mettono in discussione il
paradigma razionale dell’homo economicus – che riduce la complessità della
vita sociale alla logica individualistica della massimizzazione dell’utile –
soffermandosi sull’analisi culturale dell’economia e sui significati assunti
dai legami personali nelle sfere dell’intimità, tanto quanto negli spazi pre-
suntamente anonimi e astratti del mercato. Allo stesso tempo si allontana-
no da una visione secolare della religione, che tende a separarla dall’arena
politica e a relegarla nella sfera del privato, per comprenderla invece come
profondamente intrecciata con la materialità del mondo e come capace
di continuare a esercitare uno straordinario potere trasformativo di cui è
necessario dare conto.

In copertina: Il mago Mallam Obuafour impegnato a mostrare i suoi poteri spirtuali. Foto di
Angelantonio Grossi. Progetto grafico di Sabrina Guzzoletti.
Io, gli altri, il mondo.
Incontri, empatia e relazioni
in un manicomio criminale
L Q
Università di Pisa

Riassunto
Gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG) sono stati indubbiamente mondi sociali at-
traversati da sofferenza e silenzio. Sarebbe però affrettato immaginare questa come l’intera
cifra di quei luoghi. Essi, infatti, sono micro-cosmi sociali costruiti pazientemente da tutti
i soggetti che li abitano e che si muovono lungo molteplici (e spesso impensabili) direttrici.
Vorrei porre l’accento, allora, su una dimensione istituzionale non sempre valorizzata,
ovvero quella dell’incontro tra soggetti che, nell’articolazione pratica della loro quotidia-
nità, trasfigurano l’OPG, attraverso varie modalità relazionali, rendendolo uno spazio
esistenziale originale e plastico, anche quando sofferto. Ciò che mi interessa mostrare è che i
momenti apparentemente più insignificanti – piccoli incontri informali, interazioni quo-
tidiane, pratiche ordinarie di vita – sono strutturati dal costante esercizio etico dei soggetti
che su quel palcoscenico interrogano sé stessi e i propri Altri, mettendo a tema la propria
esistenza in quanto soggetti storici e “costruendo” i propri orizzonti morali e la propria pre-
senza. Come si vedrà, ciò che resta dell’istituzione è un fascio (o una molteplicità di fasci)
di relazioni che non hanno direzioni prestabilite e che sono funzione delle scelte valoriali e
della produzione di codici morali locali mai dati a priori ma edificati attraverso la pratica
comunitaria e intersoggettiva.

Parole chiave: ospedale psichiatrico giudiziario, gioco morale, empatia, incontro, isti-
tuzioni.

I, the Others, the World.


Encounters, Empathy and Relationships in a High Security Hospital.
The Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG) were social worlds undoubtedly crossed by
suffering and silence. However, we could do a mistake in interpreting these social spaces only

L’Uomo, vol. X (2020), n. 2, pp. 71-100

71
L Q

in this way. They are microcosmos, patiently built from all the subjects who inhabit them
and move along a multiplicity of (inconceivable) directions. I want to focus my attention
on a different nuance of relations: the encounter with the Other as a practical articulation
of own everyday life that transfigures the whole OPG through different ways of relationship.
The OPG becomes an original and plastic space, even if suffered. The moments apparently
insignificants – little informal encounters, everyday interactions, ordinary life’s practices –
are structured by a permanent subjects’ ethical practices questioning about themselves and
the Others, concentrating on their own historical existence and “building” their own moral
horizons and presence. What the institution is going to become is a beam (or a multiplicity
of beams) of relations, that have not fixed directions. These relations are function of value
choices and of the production of no apriori local moral codes, constructed by a common and
intersubjective practice.

Key words: high security hospital, moral game, empathy, encounter, institutions.

«Ho letto molto Swedenborg, prendendo per oro colato


la sua idea che noi esseri umani siamo solo un segno,
un tratto di scrittura di Dio, il che ci consente di essere
un altro e di trovarci ovunque, se Dio decide che la sua
scrittura debba significare un’altra cosa»
Tomás Eloy Martinez, Purgatorio.

Premessa metodologica
Questo lavoro intende riflettere su alcuni tra gli aspetti relazionali – pri-
mo tra tutti, l’empatia – che costruiscono e plasmano lo spazio della sog-
gettività all’interno di un microcosmo istituzionale. Il microcosmo preso
in esame è un ospedale psichiatrico giudiziario (OPG), all’interno del
quale ho svolto una indagine etnografica durante il periodo del dotto-
rato di ricerca1. Da un punto di vista cronologico, la ricerca è durata da
settembre 2015 a dicembre 2016, mesi nei quali, potendo recarmi nella
struttura dal lunedì al sabato, ho trascorso all’interno dell’OPG circa ses-
santa ore settimanali. Quando sono entrato per la prima volta in OPG,
nella struttura c’erano circa 70 internati – termine con cui si definiscono
i soggetti ivi reclusi –, i cui reati coprivano una vasta gamma del codice

1
Per il sensato rispetto della riservatezza delle persone di cui si parla in questo lavoro,
tutti i nomi di luoghi o di persone sono opera della fantasia di chi scrive.

72
Io, gli altri, il mondo. Incontri, empatia e relazioni in un manicomio criminale

penale (dall’oltraggio all’omicidio) e le cui soggettività si distribuivano in


un immaginario sociale ugualmente ampio (dall’erotomane all’omicida
seriale). Ad essi, per comporre la totalità della popolazione che abitava
quel luogo, si devono aggiungere sette detenuti ordinari, che si trovavano
in OPG come lavoranti, dislocati dai penitenziari locali; circa 150 agen-
ti della polizia penitenziaria, di cui solo la metà effettivamente in servi-
zio; una decina di psichiatri, accompagnati da una trentina di infermieri,
pochi tecnici della riabilitazione psichiatrica, un paio di psicologi, e il
personale amministrativo. All’intersezione tra mondo detentivo, sanitario
e penitenziario si trovava l’Area Trattamentale, le cui due funzionarie se-
guivano i percorsi di riabilitazione degli internati all’interno e all’esterno
della struttura. Per ragioni di sicurezza, a lungo non mi è stato consentito
accedere in OPG con un registratore. Per ragioni relazionali, anche quan-
do ho potuto registrare, è sempre stato complesso ottenere delle vere e
proprie interviste. Come amavano ripetere tanto gli operatori quanto gli
internati la parola non registrata ha più libertà. Nessuno era interessato
a far sì che le proprie dichiarazioni potessero essere fedelmente riportate
da terzi. Per questo motivo, anche quando dopo molti mesi sono stato in
condizione di poter effettuare delle interviste, ho sempre preferito prose-
guire secondo una metodologia classica di osservazione partecipante – e
di partecipazione osservante – e di redazione quotidiana di un diario di
campo. In un contesto dominato fortemente dal sospetto, dalla circola-
zione intensiva di informazioni sugli altri, da regimi relazionali oscillanti
tra la fiducia e la delazione, l’ascolto paziente e il tradimento, ho sempre
confermato la scelta metodologica fondata sulla discrezione, nel tentativo
di rendermi sempre più organico all’istituzione, sempre meno visibile.
La mia permanenza all’interno dell’OPG è stata fortemente condizionata
dalle attività che ho iniziato a svolgere al suo interno: tutor per alcuni
internati che seguivano percorsi di formazione universitaria in carcere; in-
segnante di filosofia per uno degli internati che voleva riprendere gli studi
medi superiori, Alessandro; aiutante in cucina, quando vi erano eventi
aperti al pubblico; responsabile di un corso di scrittura creativa; parteci-
pante del corso di fotografia. Tutte occasioni che, dopo i primi mesi, mi
hanno permesso di aumentare considerevolmente il tempo concessomi
all’interno della struttura e che, verso febbraio 2016, mi hanno portato a
ottenere il cosiddetto “articolo 17”, cioè un permesso di durata annuale
per i volontari, che garantisce un accesso libero e continuativo alle strut-
ture detentive. Attraverso queste modalità, sebbene il mio status fosse pro-

73
L Q

gressivamente divenuto più opaco per la popolazione abituale dell’OPG –


che difficilmente riusciva a distinguere tra il mio ruolo di antropologo in
ricerca, di potenziale giornalista, di professore, di volontario, arrivando in
alcuni casi a supporre che fossi addirittura un emissario del Ministero di
Giustizia, inviato a controllare e sovraintendere alle attività dell’istituzio-
ne –, mi è stato possibile frequentare in maniera intensiva e abituale uno
spazio sociale i cui attori rifuggono spesso gli sguardi estranei. Nel corso
dei mesi, questa partecipazione ambigua ha creato le condizioni di una
paziente raccolta di dati, l’osservazione di pratiche e fatti sociali, lo studio
di elementi giudiziari e psichiatrici, oltre che l’instaurarsi di rapporti più
personali (di amicizia così come di ostilità) attraverso i quali sono state
veicolate sia narrazioni biografiche dei soggetti che popolavano l’OPG sia
rappresentazioni condivise della vita istituzionale di cui, tuttavia, come
scrivevo poco sopra, rimane traccia solo nei diari di campo.
Non solo: proprio questa ambiguità e le relazioni affettive che essa ha
comportato, oltre alla frammentarietà di alcuni elementi raccolti, mi han-
no obbligato, e mi obbligano, a una certa reticenza nell’esposizione etno-
grafica. Non tutto ciò che è entrato a far parte dell’esperienza di ricerca
può essere detto – come, ad esempio, gran parte di ciò che costituisce
l’esperienza della sessualità nell’OPG –, spesso e soprattutto per ragioni
di diritto penale2. Molto di ciò che l’ha costituita, invece, non viene detto
per volontà di chi scrive: la conoscenza del mondo istituzionale è stata
spesso mediata da patti stretti tra l’antropologo e gli attori sociali che, per
la rilevanza privata degli elementi narrati così come per il rispetto della
sensibilità di chi li ha narrati, non sono frangibili3.

“Essere al mondo”: l’esistenza in un Ospedale Psichiatrico Giudiziario


Come tutte le istituzioni e i mondi umani che le abitano, ancor più quando
di queste istituzioni si è storicamente fornita una rappresentazione omoge-
nea e compatta e di esse si sono messe in luce criticità e oscurità4, anche gli

2
Molta parte dei dati etnografici è quindi da trattare, per ovvie ragioni, con riservatezza
e rispetto.
3
Per una descrizione più approfondita della metodologia usata e del tentativo di
produrre un regime di prossimità con i soggetti operanti nell’OPG, si veda Quarta
(2019: 137-195).
4
La descrizione più compiuta di questa realtà, nel segno dell’astuzia istituzionale e

74
Io, gli altri, il mondo. Incontri, empatia e relazioni in un manicomio criminale

OPG esercitano una certa resistenza rispetto alla possibilità di descrivere la


molteplicità delle relazioni, delle variabili, delle poste in gioco che costru-
iscono quegli spazi sociali e che da essi sono costruite5. L’OPG di cui mi
sono occupato non fa eccezione e non è esente da difficoltà circoscrivere
cosa possa “essere stato” quel luogo, quali siano state le dinamiche che lo
attraversavano, la complessità dei codici e le molteplici articolazioni delle
grammatiche che davano sostanza concreta ai modi di vivere l’istituzione.
Per questi motivi, in questo lavoro, cercherò di isolare solo una piccola
componente tra le tante che hanno definito il senso specifico di quell’uni-
verso brulicante fatto di persone, di vite, di storie – oltre che di norme e di
gerarchie. Si tratta di definire i confini di quel gioco profondo – un gioco
morale – con cui la maggior parte degli abitanti dell’OPG costruiva la pro-
pria quotidianità attraverso modalità relazionali. In particolare, prenderò
in esame come l’empatia possa essere una declinazione pratica e specifica
di questo gioco morale. La questione è, insomma, di mettere in luce come
i modi di edificazione del proprio Sé dipendano strettamente dal momen-
to – sempre rinnovato, sempre reinventato – dell’incontro con l’“altro”.
Come cioè, nell’incontro con l’altro, si producano rappresentazioni e pra-
tiche – uno schema di relazioni, un gioco, appunto – che permetta di sta-
bilire un rapporto attivo tra la dimensione durkheimiana e kantiana della
morale, intesa come un sistema di valori e norme di una società data, e la
dimensione etica dei soggetti, cioè ciò che consente di «restituire ai soggetti
il loro spazio di libertà, di rivelare la loro capacità a sottrarsi all’influenza
sociale, di dialogare sui problemi morali, di produrre delle soggettività eti-
che» (Fassin 2013: 8)6.
Intenderò, quindi, con empatia una specifica articolazione – una ca-
pacità pratica del soggetto – tra l’essere nel mondo e l’esserci con gli altri.
In questo senso, essa tende a riattualizzarsi in ogni relazione duale io-tu.
Rispetto a questa relazione, a questo incontro, tuttavia, risulta essere di
primaria importanza, cosa che proverò a mettere in luce attraverso l’analisi
dei contesti etnografici, il fatto che questa dimensione etica e pratica del

della capacità pervasiva del potere coercitivo, è sicuramente quella fornita da Goffman
(1968).
5
Sui vari ordini di complessità nell’affrontare i mondi istituzionali, cfr. Fassin 2014.
6
Sull’etica come modalità pratica di stabilire un rapporto dialettico con la morale si
veda Faubion (2011) e Zigon (2011). Più in generale, la riflessione antropologica in
questione è fortemente debitrice della riflessione filosofica di Michel Foucault (2001;
2009; 2015).

75
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soggetto non vada ascritta all’ordine della scelta individuale – essa non è
mai intellettualizzata. I soggetti non sono “empatici” perché vogliono es-
serlo. Lo sono perché, in modo irriflesso, strutturano le relazioni facendo
dell’incontro una possibilità etica7.
Affrontare il tema del rapporto fondativo con l’alterità, anche e soprat-
tutto in un OPG, implica, tuttavia, una caratterizzazione chiara dello spazio
di cui si discute: il “gioco morale” che è alla base della produzione di legami
affettivi non intende essere il principio di assoluzione di una istituzione
giustamente criticata per la sua storia inquietante, torbida e complessa8 né
vuole avanzare una descrizione irenica di uno spazio attraversato da pro-
fonde tensioni e contraddizioni. Perché, a voler essere sintetici, questo sono
stati gli OPG9: dei campi di battaglia, degli spazi di discorsi e pratiche con-

7
Negli ultimi quindici anni, gli antropologi si sono sempre più occupati del tema
dell’empatia in relazione all’analisi qualitativa dei mondi sociali, producendo teorie e
rappresentazioni molto articolate (Hollan 2008; Hollan, Throop 2008; Throop 2008,
2010). Come dimostrano i testi recenti di Bubandt e Willerslev (2015) e di Throop e
Zahavi (2020), legati l’uno all’altro da un confronto polemico, nella comunità non c’è
ancora un consenso ampio su cosa intendere per empatia e come lavorare su questa
dimensione relazionale. È per questo motivo che, pur appoggiandomi alla letteratura
indicata, preferisco ridefinire questo campo in termini, da una parte, demartiniani
(essere nel mondo ed esserci) e, dall’altra, bourdieusiani (articolazione pratica).
Questo per sottolineare quanto il tema dell’empatia abbia a che vedere sia con il
garantire la presenza del soggetto coinvolto sia con il rapporto pratico – e, appunto,
non intellettualizzato – che esso stabilisce con gli altri. È un tentativo di superare gli
approcci psicologici in direzione di un’analisi fenomenologica ed esistenziale dei modi
di relazione tra soggetti nel momento stesso dell’incontro, poiché l’empatia “può andare
oltre il coinvolgimento con le emozioni altrui includendo l’intera soggettività” (Kirmayer
2008: 461; cfr. Maibom 2020). Da una parte, quindi, il rapporto tra codici morali
e pratiche etiche; dall’altra, l’empatia diventa una significativa possibilità pratica di
costruire l’esperienza della soggettività propria e aliena, declinando in concrete modalità
sociali questa dialettica tra codice e pratiche: l’empatia è quindi una delle possibilità
in cui vediamo concretizzarsi attivamente il gioco morale che attraversa l’istituzione e
l’emergere di specifiche soggettività etiche. Per una recente rassegna critica di autori e
temi dell’antropologia etica e dell’antropologia della morale, cfr. Urbano 2020.
8
Per una storia degli OPG, cfr. Valcarenghi 1975; Manacorda 1982; Fornari 2005;
Dell’Aquila 2009; Catalfamo 2010; Corleone, Pugiotto 2013; Ferraro 2015; Miravalle
2015.
9
Il tempo della scrittura prescelta è sempre un tempo declinato al passato. Gli OPG,
infatti, dopo centocinquant’anni di storia, per l’applicazione della legge 81/2014, sono
stati definitivamente chiusi e superati da nuove istituzioni regionali, le Residenze per
l’Esecuzione della Misura di Sicurezza Detentiva (REMS-D). La transizione assume
grande interesse per lo studioso di scienze sociali poiché sancisce un passaggio di
paradigma, ancora tutto da approfondire. Se la ratio degli OPG era combinare due

76
Io, gli altri, il mondo. Incontri, empatia e relazioni in un manicomio criminale

flittuali e contraddittori10, dove l’umanitario principio di cura si è spesso


confuso con minuti meccanismi di sopraffazione – come nell’abuso della
contenzione – e dove il principio di sicurezza sociale, garantito dal mecca-
nismo detentivo, si è trasfigurato nell’attuazione, spesso sistematica, della
cosciente “messa in oblio” delle persone lì internate – un esempio tra tutti,
l’ergastolo bianco (Spellanzon 1939)11. Ma è proprio in questa tensione tra
buone intenzioni e pratiche perverse – nel senso etimologico di sconvolgen-
ti, snaturate, mutate di segno –, tra meschino abuso dell’altro e incontro
affettivo con l’altro, che quello che poco sopra chiamavo “gioco morale”
assume importanza: è, cioè, nelle pieghe della contraddizione e dell’ambi-
guità che si aprono le zone grigie12 in cui il senso strutturale dell’istituzione
– curare allontanando e proteggere escludendo – si trasfigura per diventare
qualcosa di nuovo, cioè qualcosa di più plastico, di più malleabile. Banal-
mente, qualcosa di più socialmente “normale”13.
L’OPG, certamente, era immerso in un tempo immobile – immobile
per chi è sottoposto al regime di proroga14, immobile per la rara presenza

istanze socialmente rilevanti, quella della sicurezza sociale e quella della cura della
sofferenza – ordine disciplinare e ordine terapeutico –, il passaggio alle nuove strutture
segna l’emersione di una spiccata sensibilità a istituire come dirimente l’ordine
terapeutico. Nelle REMS, infatti, è assente il corpo di controllo, la polizia penitenziaria,
lasciando alla dimensione sanitaria e riabilitativa l’intera gestione dell’istituzione e dei
percorsi individuali di chi in essa è internato. Tuttavia, è da notare, anche se solamente
come suggestione e in via provvisoria, che la modifica istituzionale non ha comportato
un intervento sul codice penale, lasciando invariati i dispositivi giuridici che normano
lo status dell’internato.
10
Per l’OPG come “campo di battaglia”, cfr. Quarta (2019).
11
Con “ergastolo bianco” si intende la continuatività di una pena, attraverso meccanismi
giuridici quali la misura di sicurezza e la proroga (v. nota 14), fino a coprire la durata
di un’intera vita. Il termine “bianco” sta a indicare la differenza tra la pena realmente
emanata in fase di processo penale – ad esempio, il massimo della misura di sicurezza
applicabile, cioè dieci anni – e la reale attuazione della stessa che, appunto, si tramuta
in un ergastolo.
12
Sebbene non appartenga alla specifica letteratura antropologica, credo che il riferimento
più puntuale al concetto di “zona grigia” si trovi nell’acuta e dolorosa descrizione che ne
offre Primo Levi nell’omonimo capitolo in I sommersi e i salvati (1986).
13
Utilizzo “normale” secondo un’accezione di senso comune. Intendo cioè una modalità
di relazionarsi che appartiene alla realtà del quotidiano, “naturalizzata” – in senso
bourdieusiano – secondo i codici comuni della vita sociale e contaminata il meno
possibile da forme di relazione strutturate secondo la norma vigente all’interno di
istituti di pena.
14
Non è questa la sede per entrare in modo più specifico nei meccanismi giuridici

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di orologi, per l’ottusa ripetitività con cui le giornate si inseguono sempre


identiche a sé stesse, per l’apparente impossibilità di scegliere un giorno
differente. Era costellato da tracce abbandonate in cui spesso si intravede-
vano sofferenze di “altre” vite – quelle di chi non era più in OPG o, ancora
più tristemente, non era più nel mondo –, piccoli disegni come le tipiche
stanghette verticali – sette – sbarrate da una obliqua che indica la fine di
una settimana. Tracce di parole, come i pensieri consegnati ai muri. Tracce
senza autori, senza più autori. Pochi serbavano la memoria dei nomi di chi
le aveva incise sui muri, di chi aveva attraversato quello spazio consegnan-
do ad esso brandelli della propria esistenza.
Vi erano poi le interazioni minute e crudeli a cui si assisteva quotidiana-
mente: quelle che avevano un volto e un nome. Quello dell’agente della po-
lizia penitenziaria che lanciava scioccamente dei sassolini contro un inter-
nato intento in una rasatura del volto. Perché poi lanciare sassolini contro
un internato, in quel momento totalmente inerme e innocuo, se non per
un misto inconsolabile di noia e di stupidità che appariva tanto più assurda
visto il potere già concesso dall’indossare la divisa di una delle quattro for-
ze dell’ordine italiane15? Scene dolorose che raccontavano storie di miseria
umana – miseria culturale e affettiva, abbandono istituzionale, deprivazione
sociale tanto dalla parte dell’agente quanto da quella dell’internato – non
erano evento raro e non riguardavano unicamente le relazioni tra Polizia
Penitenziaria e internati. Questa strisciante dimensione di violenza e so-
praffazione, che spesso trovava il proprio côté in forme di acuta sofferenza,
coinvolgeva internati che si relazionavano ad altri internati, medici che si re-
lazionavano a internati e viceversa, agenti e altri agenti – e così via, enume-
rando tutte le possibili combinazioni relazionali che sia dato immaginare16.

che conducono una persona all’interno di un OPG. Per agevolare il lettore nella
comprensione, basti dire che, qualora sottoposti a una misura di sicurezza, a causa
di una perizia psichiatrica che ha convenuto sulla “pericolosità sociale” del soggetto,
al termine della durata della misura stessa il soggetto viene nuovamente valutato da
un’équipe di psichiatri. Qualora questi riscontrassero il perdurare della pericolosità
sociale, la misura viene prolungata ulteriormente. Questo meccanismo si chiama,
appunto, “proroga”.
15
Sulla noia come dimensione costante dell’esperienza di vita di alcune componenti delle
forze di polizia si può far riferimento ai lavori di Fassin (2011, 2014).
16
Sulla rappresentazione della realtà afflittiva degli OPG, si vedano il già citato Roba da
matti (Miravalle 2015) e il testo prodotto dalla commissione parlamentare d’inchiesta,
presieduta nel 2011 dal senatore Ignazio Marino. Per un approccio critico a queste
istituzioni si veda Colucci (2016).

78
Io, gli altri, il mondo. Incontri, empatia e relazioni in un manicomio criminale

Nondimeno gli stessi muri su cui si potevano contemplare, in luttuo-


so silenzio, le tracce di chi non poteva più dirsi “qualcuno” in rapporto a
qualcun altro, di chi non era più – posto che fosse mai stato, che gli fosse
stato concesso il diritto di esistere socialmente – erano gli stessi che apri-
vano degli spiragli su una molteplicità di pieghe del mondo dell’OPG
da cui si producevano possibilità di “esserci” (de Martino 2015, 2019)
in modo differente. Altre forme di relazione erano anche solo accenna-
te, eppure la loro presenza era indubitabile. Ne ebbi assoluta certezza
entrando nel Federiciano, il vecchio reparto che, durante la mia ricerca,
restava come monumento di un tempo passato, racchiuso nel suo totale
abbandono: lunghi corridoi pieni di minuscole celle in cui nessuno abi-
tava più da molti anni. Il Federiciano, il reparto che “insultava i palpiti
dell’anima”17, era un luogo tetro, a primo impatto; le celle umidissime e
ricoperte da muffe pertinaci obbligavano a domandarsi come fosse stato
possibile consegnare degli uomini a quegli anfratti angusti. Poi, in quello
stato di abbandono, la vita degli uomini che ne avevano costituito il
nerbo e la storia si faceva strada, sempre attraverso segni iscritti sui muri,
foto attaccate ai blindo – come sono comunemente chiamate le porte
blindate, le inferriate e i portoni carrai delle carceri –, frammenti di lette-
re o di pagine di diario ancora nascoste nelle fessure di quelle celle. Uno
degli aneliti più ostinatamente consegnati a quelle tracce – com’è facile
immaginare in uomini privati di molto, quando non di tutto, per molti
anni – era il corpo. Il sesso.

Martedì, nel lugubre viaggio tra i relitti murari del Federiciano, ho visto la vita
abbandonata che resiste nel dominio del sesso. Non saprei dire se si trattasse di
erotismo o pornografia.
Quasi tutte le celle del secondo piano erano arredate da foto di donne, foto di
donne semi-nude, foto di donne vestite. Qualche “inquilino” coatto più capa-
ce di raffigurare il desiderio con una matita, o, ancora più semplicemente, più
caparbio degli altri, ha disegnato volti di donna, corpi di donna sulle pareti.
Altri ancora sono evasi da sé stessi e dai muri malinconici attraverso tramonti
cristallizzati. Il rifiuto della carcerazione cede al disagio della sopravvivenza: nei
limiti del possibile, c’è esigenza di domesticità18.

17
La citazione fa riferimento a un testo, molto più lungo e articolato, scritto dagli
internati per accompagnare una mostra fotografica che fu presentata in OPG durante
aprile 2016. Cfr. Quarta (2019: 165-176).
18
Dal diario di campo, 15/05/2016.

79
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Qualcosa, dunque, resiste anche in un’istituzione che ha forse trop-


po spesso trovato la sua ragion d’essere sotto l’egida del controllo, della
ri-normalizzazione, del disciplinamento – o, peggio, dell’allontanamen-
to e dell’annullamento – di persone modellate da storie complesse che,
a ripensarle oggi, difficilmente avrebbero potuto portare altrove se non
in un OPG. Qualcosa resiste ed è l’“esigenza di domesticità”, la capacità
di creare spazi di intimità, spazi personali. E la possibilità di assentire a
questa esigenza non può prescindere dalla dimensione relazionale, ovvero
quella dell’incontro. L’incontro, però, come sottolinea Michel de Certeau,
non è mai uno spazio relazionale pacificato ma un momento esperienziale
complesso, carico di tensioni, di rapporti di forza, di incomprensioni, e
nondimeno è struttura fondante della produzione dell’umano (de Certeau
2004, 2005a, 2005b) 19.

Un album di famiglia
Primi marcatori significativi della capacità di plasmazione dei codici mo-
rali, attraverso la dimensione emotiva, si possono intravedere nei ponti
affettivi, negli incontri che alla loro base pongono l’umana condivisione di
emozioni, di sentimenti – positivi o negativi che siano.
Un martedì di fine aprile. Tre fotografie. Sempre lo stesso protagonista.
Era una delle prime belle giornate di sole di quella primavera. Al centro
dell’OPG si imponeva un grande spazio verde, ormai perlopiù incurato.
C’era un campo da calcio in cui crescevano piante selvatiche che rende-
vano complicato il gioco del pallone; e tutto intorno una fitta sterpaglia
cresceva lussureggiante.
Quel martedì, essendo una giornata incredibilmente mite l’assistente
capo Lorenzo Novembre, che sovraintendeva a molte attività svolte dagli
internati, soprattutto quando coinvolgevano l’impegno di volontari, pro-
pose a un fotografo – che ogni settimana teneva un corso di fotografia – di
portare nello spazio aperto l’attivo gruppetto di ragazzi che partecipavano
all’attività. L’entusiasmo di tutti era palpabile.
Gli internati amavano molto questo corso perché, in una insondabile
cessione di fiducia, il fotografo portava in OPG i suoi costosi apparecchi
fotografici, li consegnava nelle mani dei partecipanti e si dava pena solo di

19
Per una lucida e profonda trattazione dei temi affrontati da Michel de Certeau, anche
in rapporto al tema dell’incontro, cfr. Sobrero 2018, 2019.

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Io, gli altri, il mondo. Incontri, empatia e relazioni in un manicomio criminale

insegnar loro lo sguardo fotografico, la grandezza dell’istante colto e mo-


numentalizzato da una fotografia. Da parte loro, nonostante la goliardia,
c’era il riconoscimento di questa concessione di fiducia che veniva ripagata
dalla più grande attenzione e responsabilità rispetto a quegli arnesi così
preziosi. In genere, le foto che venivano prodotte erano classificabili in
quattro tipologie: foto in posa, foto non in posa, ambienti e sbarre. Le
prime erano foto con delle composizioni studiate, con corpi plasticamente
ordinati su uno sfondo, in cui c’era un’intenzionalità precisa che veicolava
il messaggio che si voleva trasmettere. Le seconde – migliaia di foto, in
quei pochi mesi di corso – rispondevano più all’esigenza ludica di usare
la fotografia per cogliere gli altri inaspettatamente oppure per tentare di
reinventare costantemente la presenza di spirito dell’occhio creatore del
fotografo. Le sbarre, come si potrà facilmente immaginare, erano foto che
riproducevano gli spazi più sofferti dell’OPG – quelli che tagliano lo sguar-
do, lo frammentano, lo limitano, parlando in modo quanto mai incisivo
della condizione carceraria. Gli ambienti, in ultimo, raggruppavano quelle
fotografie che, invece, cercavano di riprodurre tutti gli spazi dell’OPG,
senza soggetti umani, senza abitanti: la cucina, le celle, i corridoi, la cap-
pella, il campanile, il campo da calcio…
Di quel giorno di fine aprile conservo tre fotografie che apparterrebbero
al gruppo delle foto non in posa20. In ognuna di queste foto sono ritratti
due soggetti dei quali però, in tutte e tre, uno è sempre lo stesso: Alessandro.
Era uno tra i più giovani internati dell’OPG e, nonostante questo, aveva già
vissuto cinque anni della sua vita in quell’istituzione. Ragazzo quasi sempre
gioviale, accompagnava alla sua bonomia una profondità di spirito non in-
taccata dal lungo internamento, dai farmaci o dalla patologia che gli avevano
diagnosticato. Di rara – e selvaggia – capacità introspettiva, era uno degli
internati maggiormente in grado di modificare, in base alla situazione sociale
in cui si trovava, il proprio ruolo nell’istituzione. Alessandro “era” tantissime
cose: un cuoco, un amico, uno studente, un internato, un ragazzo, un “de-
linquente” in formazione21, un paziente… Nessuno di questi ruoli lo cristal-

20
Per il già citato diritto alla riservatezza dei soggetti coinvolti – il loro diritto a non
essere offesi o disturbati da queste parole – mi è impossibile condividere il materiale
fotografico cui faccio riferimento.
21
Alessandro era uno dei pochi internati a non vivere in un contesto puramente
ospedaliero – cioè, a non condividere il reparto con altri internati. La sua cella era in
un piccolo reparto al pianterreno dove erano stati alloggiati i sette detenuti comuni
lavoranti. Convivere con queste persone voleva dire – cosa nota ai suoi terapeuti –

81
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lizzava, ma essi lasciavano ampi spazi a slittamenti di fase, a cambiamenti, a


trasformazioni. Per questi motivi, la sua fragilità – forse anche la sua vulne-
rabilità – all’interno di un campo di battaglia quale era quell’istituzione che,
come ho scritto nel primo paragrafo, si produceva costantemente a partire
da tensioni, ambiguità e contrapposizioni, era lampante. Ogni volta che si
ingenerava un qualche conflitto interpersonale – e soprattutto intergruppale
– Alessandro si trovava nella posizione più difficoltosa, quella cioè di chi non
ha un solo ruolo, chiaramente definito, e dunque deve far ricorso a una serie
di escamotages discorsivi, morali, affettivi per non essere pienamente investito
da questo conflitto. Le storie che raccontano le tre fotografie cui accennavo,
tuttavia, fanno riferimento alla dimensione meno problematica di questa
fluidità di posizionamento che caratterizzava il giovane.
La prima fotografia è un primo piano di due volti. Alessandro, con il
felpone nero che si intravede sotto il suo mento, abbraccia un uomo poco
più alto di lui. Poggia il capo sulla spalla di quell’uomo, entrambi sorri-
denti. Ha gli occhi socchiusi, come l’uomo che abbraccia. È un abbraccio
fraterno e, se non ci fossero i vestiti, se non si conoscesse la storia dei due
uomini nella foto, si potrebbe supporre che ci sia un qualche rapporto di
familiarità. Se non si conoscesse la storia dei due…
La storia, tuttavia, è facilmente desumibile dagli abiti del secondo sog-
getto, che si intravedono appena: una inamidata giacca blu scuro, delle
mostrine rosse sulle spalline. I segni distintivi delle divise della polizia.
La persona che Alessandro abbraccia caramente è, infatti, l’agente della
Polpen, Lorenzo Novembre. Tra i due, negli anni, si era creato un solido
legame affettivo che si disinteressava dei ruoli primari che erano loro af-
fidati: il custode e il custodito. Lorenzo aveva spesso avuto l’impressione
di essere divenuto una figura di riferimento per il giovane, cosa che Ales-
sandro ammetteva serenamente, almeno quando non era costretto a farlo
davanti ai detenuti ordinari i quali avrebbero mal tollerato un’affermazione
del genere. Quando aveva una difficoltà – che fosse di ordinaria ammini-
strazione, come chiedere un permesso per qualcosa, o più personale, come
l’avvicinarsi del giorno del suo compleanno, che sempre, per ragioni legate

esporre Alessandro a un lento e pervasivo processo educativo, quasi un apprendistato,


che vedeva negli altri detenuti le figure pedagogiche. In una sezione carceraria, l’ordine
morale del mondo, così come i codici comportamentali e le grammatiche relazionali,
sono strutturate in modo alquanto diverso dal nostro ordinario (Fassin 2015). Il
processo di apprendimento cui Alessandro era quotidianamente sottoposto mirava,
precisamente, a incorporare questo tipo di ordine morale.

82
Io, gli altri, il mondo. Incontri, empatia e relazioni in un manicomio criminale

alla sua storia delittuosa, lo riduceva in uno stato di angoscia – l’assistente


Novembre era la prima persona che cercava per chiedere consiglio, aiuto
oppure – semplicemente – per parlare. E mai, nei limiti delle possibilità
consentite, Lorenzo gli aveva negato il suo aiuto e il suo tempo. Era una
sincera relazione di amicizia che si era costruita nel tempo lento della de-
tenzione e nella condivisione quotidiana di spazi, vissuti ed esperienze e
che aveva, lentamente, disarticolato la rigidità dei ruoli ingenerando nuove
possibilità di essere insieme.
La seconda fotografia inquadra, sempre in un primo piano abbastanza
schiacciato, il solito Alessandro che conversa con una donna. Alessandro
ha un sorriso grande, aperto, e – essendo questa volta lui a essere il più
alto – osserva la sua interlocutrice dall’alto in basso, con attenzione. Lei,
nella foto, è quasi di spalle. Le si intravede una piega del volto al cui limite
spunta un labbro arricciato all’insù: anche la donna sorride. Ha in mano
dei fogli stampati e un bouquet di gladioli. Erano due regali di Alessandro.
Il primo era un racconto sul quale aveva lavorato nelle ultime settimane
del corso di scrittura creativa. Un breve racconto autobiografico nel qua-
le, tuttavia, si potevano scorgere dei personaggi caratterizzati come alcune
figure del mondo dell’OPG e, una di queste, era proprio Clarissa, la don-
na a cui nella foto si rivolge amabile, una delle due responsabili dell’Area
Trattamentale. Il bouquet di gladioli l’aveva appena raccolto e ne aveva
fatto omaggio a quella donna sempre molto attenta rispetto alle esigenze di
tutti, pronta a riflettere sul percorso di reinserimento dei singoli internati
e altrettanto pronta a ritornare sui suoi passi, qualora si rendesse conto che
la strada imboccata non era quella giusta. Clarissa era una donna dura,
assertiva, che però sapeva rompere i rigidi vincoli del protocollo – quando
lo riteneva necessario – e stabilire un contatto con tutti gli internati, che
passasse dall’offrire loro un caffè a fare una carezza a un uomo affranto e in
difficoltà. Il rapporto tra lei e Alessandro non era certo quello di complici-
tà; nondimeno, era un rapporto di stima e rispetto reciproco tali da pensa-
re anche a un virtuoso scambio di piccoli doni, di pensieri estemporanei,
come nel caso della foto.
L’ultima foto ritrae un prato lussureggiante, cosparso di piccole mar-
gherite. È un ritratto di grande profondità, luminosissimo. Al centro della
foto, stesi sull’erba, due uomini: Alessandro e Brizim, un giovane detenuto
di origini albanesi. I due quasi si abbracciano, ma l’immagine racconta una
storia di reciproca ironia e provocazioni. Alessandro e Brizim condividevano
lo stesso reparto e vivevano in celle attigue. Inoltre, lavoravano insieme in

83
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cucina e, nel tempo libero, li si poteva spesso incontrare a conversare, a gio-


care a carte o a biliardino. Brizim era poco più grande di Alessandro ed era
detenuto per un reato infamante. Questo, però, tra i due era poco rilevante.
Erano soliti schernirsi vicendevolmente, con battute cameratesche che di-
leggiavano la virilità, l’intelligenza o l’arguzia. Nella foto, Alessandro guarda
beffardo il vicino, immortalato nel gesto di coprirsi la bocca per mascherare
una risata. Scena nota: nella “gara di insulti”, questa volta aveva vinto Ales-
sandro. La tonalità di fondo che domina questa istantanea è la serenità. I
due, certamente, non si amavano. Alessandro guardava Brizim con sospetto
perché temeva di essere oggetto di attenzioni omosessuali, cosa che non fa
mai piacere a un detenuto – e non a caso le battute tra i due ruotavano spesso
intorno all’ostentazione di virilità. Brizim, dal canto suo, non comprendeva
a fondo le scelte di Alessandro. Era, e voleva restare, un detenuto: riprodurre
le logiche carcerarie, gli schemi relazionali, le alleanze e le ostilità. Alessan-
dro, nella sua fluidità di status, era ai limiti dell’inaccettabile per una persona
come Brizim. Tuttavia, nonostante i posizionamenti assunti nel vasto campo
sociale dell’OPG producessero spesso tra i due, se non una dichiarata ostilità,
quantomeno una reciproca diffidenza, anche in questo caso la foto testimo-
nia della capacità dei soggetti di rimodellare costantemente, attraverso una
comunione affettiva, lo spazio di interazione precedentemente fissato.

Pasticceria e molteplicità. L’empatia come catalizzatore di spazi


di incontro
Le foto analizzate nel paragrafo precedente sono, ovviamente, dei piccoli
elementi, certamente significativi, che però assumono maggiore chiarezza
quando accostati a quadri di vita più articolati.
Martedì 9 febbraio 2016. Una giornata fredda e l’OPG restava ancora
uno spazio, per me, inospitale. La mattina era trascorsa in incontri occa-
sionali con alcuni internati. In particolare, avevo avuto una lunga con-
versazione con Fioravante, un internato di lungo corso. Erano sedici anni
che non riusciva ad abbandonare l’arcipelago istituzionale di custodia e
prevenzione, di cui il manicomio criminale costituisce solo un’isoletta tra
le tante. Era stato un vagabondo, un alcolizzato, un erotomane. E si trova-
va lì, mi avevano raccontato, per oltraggio a pubblico ufficiale. Nel corso
della ricerca scoprii anche che, insieme ad altri internati, era subentrato
nell’organizzazione di una rete di prestito usuraio di sigarette. Un soggetto
considerato da tutti come inattendibile per la sua abitudine oziosa alla

84
Io, gli altri, il mondo. Incontri, empatia e relazioni in un manicomio criminale

mendacità. Quella mattina mi aveva raccontato di essersi presentato di


fronte al magistrato di sorveglianza per discutere di un’istanza di scarcera-
zione. Gli era stata rifiutata. Pochi mesi dopo la sua misura di sicurezza fu
prorogata di un ulteriore anno. Parlava singhiozzando, con gli occhi lucidi.
L’arrivo di Alessandro che, quel giorno come molti altri, aveva appena
concluso il suo turno di lavoro in cucina, mi riscosse dall’intontimento emo-
tivo causato dall’incontro con Fioravante. C’eravamo conosciuti da poco più
di una settimana ma quel ragazzo dagli occhi profondi e intelligenti, misto
difficile da districare di timidezza e giovialità, trasmetteva immediatamente
un senso di appaesamento e normalità. Mi aveva raccontato di essere di Pisa,
città in cui abitavo. La prima volta che avevamo parlato il tempo era trascor-
so nello smarrirci, con le parole, nei vicoli della città da cui lui proveniva e
che, ora, mi ospitava. Le passeggiate al tramonto sull’Arno, i locali in cui cer-
care una birra a buon mercato, le piccole piazze di spaccio, i parchi silenziosi.
Alessandro aveva un legame affettivo estremamente forte con la sua città,
legame che mi aveva molto colpito. Mi aveva colpito sia per la dolcezza con
cui ne parlava – che non credevo potesse resistere in un OPG ma che emerse
lentamente negli incontri con tutti i soggetti che si muovevano in quello
spazio e che, proprio in quanto portatori di un percorso biografico specifico,
erano in grado di custodire e di comunicare quella dolcezza – sia per il fatto
che ne parlasse così intensamente con una persona a lui sconosciuta. Per que-
sto motivo, durante il fine settimana, mi ero recato su un tratto di Lungarno
da cui, guardando verso la foce, si scorgono all’ora del tramonto i colori più
sanguigni del cielo e dell’acqua e i profili dei palazzi vecchi della città. Feci
una fotografia, la feci sviluppare, la incorniciai.
Quando mi venne incontro, strappandomi dall’inebetimento in cui mi
aveva lasciato Fioravante, sfilai dalla borsa il quadretto con la fotografia che
mostrava uno dei tanti tramonti pisani. Come annotai sul diario, poco dopo,
«[q]uando ha visto le foto ha iniziato a tremare come una foglia, agitato, feli-
ce e addolorato. Un giovane il cui corpo è uno strumento poetico che canta
nostalgia»22. In verità, non era una specificità di Alessandro. In OPG, il ca-
pitale informazionale23, ovvero la quantità di informazioni sugli altri imme-
diatamente spendibili in contrattazioni e negoziazioni, era forse la principale
forma di capitale simbolico a disposizione dei soggetti. Per questo motivo, le
conversazioni spesso si focalizzavano su questo scambio incessante di notizie

22
Dal diario di campo, 10/02/2016.
23
Cfr. Quarta (2019: 181-185; 262-274).

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e pettegolezzi che coinvolgevano altre persone. Non era frequente affidare


alle parole le proprie emozioni che, invece, si manifestavano maggiormente
attraverso il corpo e un’efficace quanto intensa comunicazione extra-verbale.
Gran parte di ciò che interessava la sfera emotiva e affettiva, l’immedesi-
mazione empatica, la sofferenza, la comprensione dei vissuti degli altri, si
esprimeva in modo estremamente plastico – pur se con gesti minuti, come
una mano sulla spalla, un occhiolino, una lacrima, un sorriso, un digrignare
i denti, uno schiaffo, un abbraccio. Una questione di corpo e di habitus24.
Fu però estremamente interessante ricevere un immediato contraccam-
bio di Alessandro: mi propose, per ringraziarmi del piccolo dono ricevuto,
di prendere parte alla preparazione della festa che si sarebbe tenuta nel
pomeriggio in occasione dell’imminente carnevale.
Ottenni facilmente le autorizzazioni per seguirlo in cucina. Il pome-
riggio fu scandito da attività incessanti. Innanzitutto, la preparazione della
sala, dove fu collocato un dj set grazie alla strumentazione portata da un
agente della polizia affidata alle mani di un internato che, prima di essere
tale, si era distinto come disc jockey in alcuni localini romani. Quindi,
tutte le forze disponibili, di internati e agenti, furono convogliate verso la
cucina per la preparazione del piatto forte della festa – bomboloni ripieni
di crema e cioccolato.
L’OPG era un brulicare di persone – internati, amministrativi, funzio-
nari dell’area trattamentale, agenti della polizia penitenziaria, infermieri,
medici – che si muovevano, quasi liberamente, da uno spazio all’altro per
preparare e imbandire i tavoli, addobbare le stanze, convincere i più riot-
tosi a uscire dalle proprie celle e prepararsi per l’evento. In tutto questo, il
volontario che gestiva il corso di fotografia, insieme ad alcuni internati che
vi partecipavano, si spostava nelle varie stanze ritraendo internati sorriden-
ti che friggevano bomboloni, agenti della penitenziaria dal volto infarinato
che giravano la crema in grandi pentoloni d’alluminio. Alcune foto, cer-
to, parlano anche di quei volti che non vollero prendere parte all’euforia
collettiva della festa: visi spenti e lontani dietro le sbarre, fumatori solitari
inginocchiati negli angoli bui, un internato che piangeva perché aspettava
da anni una visita che non sarebbe mai arrivata, perché la famiglia non
voleva sapere più nulla di lui. L’OPG, anche e soprattutto in questi mo-
menti, manifestava con grande drammaticità la molteplicità dei vissuti che

24
Su questo aspetto si vedano le pagine di Pierre Bourdieu sulla conoscenza attraverso il
corpo; cfr. Bourdieu 2003: 203-210.

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Io, gli altri, il mondo. Incontri, empatia e relazioni in un manicomio criminale

lo attraversavano e si sottraeva a qualsiasi descrizione univoca e omogenea.


Era molte cose, perché molte erano le persone che lo attraversavano e l’or-
dine di complessità – spesso anche stridente – di vissuti, percorsi biografici
e valori morali che in quest’arena dovevano convivere dimostrava come la
dimensione dell’intersoggettività non potesse che costruirsi anche attra-
verso l’esperienza della solitudine, dell’abbandono e dell’incomunicabilità.
Arrivò l’ora della festa e i bomboloni furono serviti. In uno spazio re-
lativamente grande tutti i partecipanti, relazionalmente molto più prossi-
mi di quanto le reciproche divise non facessero supporre, si apprestarono
a mangiare e ballare insieme. Le combinazioni si esaurirono tutte: tutti
ballarono con tutti e tutti si sporcarono con la stessa crema, come pun-
gentemente fecero notare alcuni internati del gruppo di scrittura creativa
quando si trattò di redigere un testo di accompagnamento alle foto che
erano state scattate quel giorno. Il testo recitava:

E ci sono anche le foto di denuncia: lo sapevate che anche gli psichiatri e i


poliziotti mangiano i bomboloni? Anche loro hanno un’umanità che lacera la
divisa. Fingono di non avercela, gli stronzi. Ma gliela vedi sfuggire da sotto la
pelle mentre hanno un bombolone in mano. E questo, per noi, forse per voi
un po’ meno, è molto confortante25.

Come gli stessi internati che avevano scritto questo frammento erano in
grado di notare – con anche una sottile critica a chi guarda i mondi sociali
dall’esterno, senza averli attraversati, producendo rappresentazioni man-
canti e giudicanti – esistevano in OPG delle dimensioni relazionali che non
potevano essere ridotte né alla sopraffazione e alla violenza né alla custodia
e alla cura. Erano relazioni appartenenti alla fisiologia della vita sociale,
capaci di mettere in immediata connessione quei caleidoscopi di vissuti cui
accennavo sopra. Esistevano delle distanze incommensurabili nelle storie
e nelle provenienze dei singoli individui, ognuno con i propri simboli di
identificazione: la divisa, il camice, le dita bruciate dalle sigarette, l’occhio
acquoso figlio di psicofarmaci. Tuttavia, nella comune quotidianità si met-
tevano in atto delle forme pratiche di ricostruzione degli spazi relazionali,
senza intenzionalità specifica o premeditazione. Un semplice frutto della
condivisione e sovrapposizione di frammenti di esistenza che entravano in
reciproca risonanza, in risonanza empatica, permettendo a tutti di collocarsi
socialmente all’interno di un tragitto specifico. Di definirsi, cioè, di volta in

25
Per la provenienza del testo, si veda la nota 17.

87
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volta, secondo le possibilità che questa risonanza empatica metteva a dispo-


sizione delle persone nel momento del loro incontro.

Oltre la terapia. Nuove riconfigurazioni del rapporto medico-paziente


Come dovrebbe essere semplice immaginare, queste forme pratiche di rico-
struzione degli spazi relazionali non erano sempre all’insegna della prossi-
mità affettiva. O meglio, la prossimità affettiva non assumeva sempre quello
che potremmo considerare un segno positivo. Non si procedeva obbligato-
riamente nella direzione della strutturazione di relazioni di confidenza, di
affetto, di amicizia. L’eterogeneità dei vissuti e delle visioni del mondo che
si incontravano sul campo dell’OPG avevano certamente a che vedere con
la traduzione pratica di codici morali, spesso negoziati o negoziabili tra i
singoli soggetti o i vari gruppi cui questi appartenevano; capitava spesso,
tuttavia, che la stessa eterogeneità producesse attriti e conflitti. In un rap-
porto triangolare che poteva coinvolgere un internato, uno psichiatra pre-
posto alla sua cura e un agente della polizia penitenziaria che si faceva carico
della sua custodia, ad esempio, non era detto che si producesse una sintesi
positiva di quei codici morali e di quelle prassi etiche che, prima di poter
essere condivisi, provenivano da percorsi squisitamente personali.
Daniele Cinni era un internato la cui gestione umana, terapeutica e
custodiale era particolarmente complessa. Era un ragazzone che proveniva
da una delle province più interne della Toscana. Ragazzone che, poco più
che maggiorenne, aveva ucciso “per noia” – stando a quanto mi fu detto
– un suo coetaneo e che era stato condannato a sedici anni di carcere. Era
stato spostato, in regime di art. 14826, in OPG e, fin dal suo arrivo, si era
imposto come uno degli internati più difficili da trattare. Per gli psichiatri,
era uno “psico-organico”, un paziente cioè i cui disturbi dipendevano da
danni funzionali a livello cerebrale. Daniele non aveva un grande controllo

26
L’articolo 148 del codice penale disponeva che la pena detentiva potesse essere differita
o sospesa, con immediato spostamento del detenuto in un ospedale psichiatrico
giudiziario o in una casa di cura e custodia, nel caso di una sopravvenuta infermità
mentale tale da rendere impossibile l’esecuzione di una pena restrittiva della libertà
personale. Con la chiusura degli OPG sono state istituite delle sezioni psichiatriche
speciali all’interno degli stessi penitenziari per l’applicazione del suddetto articolo. Era
uso comune, in OPG, differenziare gli internati, coloro cioè che erano stati prosciolti in
fase processuale, da quelli che venivano comunemente chiamati “i 148”, che, appunto,
rispondevano alla casistica appena delineata.

88
Io, gli altri, il mondo. Incontri, empatia e relazioni in un manicomio criminale

dei suoi impulsi ed esplodeva spesso in scatti di ira difficili da controllare.


Per gli agenti di polizia, invece, la dimensione organica del suo disturbo era
irrilevante: era solo un fardello del reparto, che aggrediva improvvisamente
persone, spaccava oggetti, necessitava di sorveglianza speciale, in quanto
spesso tentava il suicidio, soprattutto per ragioni dimostrative.
Una delle ultime volte in cui egli tentò il suicidio – a febbraio o mar-
zo del 2016 – lo fece ingerendo un’intera radiolina portatile della quale
aveva anche aperto l’antenna fino a farle raggiungere la massima estensio-
ne. Questo evento causò un forte irrigidimento delle pratiche disciplinari
nei suoi confronti, pratiche raramente condivise da Chiara Paneco, la sua
psichiatra. Il comando della polizia penitenziaria dispose l’immediata pri-
vazione di tutti i suoi effetti personali, incluse le lenzuola, temendo che
potesse utilizzarle a fini auto- o etero-lesivi. La misura durò per molte set-
timane, sortendo effetti tutt’altro che desiderati. Tardando a manifestarsi
i primi caldi primaverili, Daniele era costretto a dormire seminudo utiliz-
zando solo una vecchia coperta di lana che gli causava fastidiosi eritemi
cutanei. In più, essendo un forte fumatore e non disponendo più del suo
accendino, era costretto a rivolgersi in continuazione all’agente di control-
lo che, però, raramente ben disposto nei suoi confronti, tardava a fornir-
gli il fuoco per la sua sigaretta, quando proprio non glielo negava. Tutto
questo andava avanti giorno dopo giorno, notte dopo notte, producendo
un’esasperazione condivisa nel personale penitenziario, nel personale sani-
tario, tra gli internati. Oltre che, ovviamente, in Daniele stesso, che viveva
la sua quotidianità come inutilmente vessatoria.
Uno di questi giorni, al colmo dell’insofferenza, mentre la vita ordina-
ria dei reparti procedeva apparentemente secondo la sua normalità, udim-
mo un boato che proveniva dal corridoio, seguito dall’esplosione in serie di
rumori sordi. Daniele, vedendosi ignorato per l’ennesima volta dall’agente
della polizia penitenziaria cui chiedeva l’accendino, si era accanito contro
l’unico distributore di acqua. Con un calcio lo aveva gettato in terra e con-
tinuava a colpirlo tentando di distruggerlo. Le conseguenze di questo gesto
furono immediate: fu disposta la prosecuzione del regime di sorveglianza
speciale e l’immediato isolamento disciplinare nella sua cella.
In quel momento mi trovavo con la dottoressa Paneco e con un suo
collega nello studio medico. All’evento seguì un lungo discorso tra i due.
I medici, ovviamente, vedevano negli atti di Daniele e nella causa che
vi leggevano – la lesione organica – un limite insormontabile tanto alla
cura farmacologica quanto alla pedagogia disciplinare. Semplicemente,

89
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la maggior parte dei farmaci non faceva effetto su quel ragazzo così ag-
gressivo e irascibile; e, d’altro canto, la privazione dei suoi effetti perso-
nali e la sorveglianza speciale, sebbene scongiurassero eventuali rischi di
azioni suicidarie, non facevano altro che aumentare la rabbia del ragazzo,
così come i suoi gesti inconsulti. Il punto, per la dottoressa, era elemen-
tare: con Daniele bisognava parlare, pur sapendo che sulla lunga distanza
non ci sarebbe stata alcuna possibilità di fargli acquisire alcuna forma
di resipiscenza né, cosa ancora più ardua, di consapevolezza complessa
di sé e degli altri. Ne discusse lungamente con il collega, che si trovava
completamente d’accordo.
Nel frattempo, fuori dallo studio medico, andava in scena un copione
completamente differente. L’agente che aveva provveduto all’isolamento di
Daniele parlava con un’operatrice socio-sanitaria (OSS). Anche questi si
trovavano d’accordo ma su punti fondamentalmente dissimili da quelli dei
medici: la OSS sosteneva che Daniele sarebbe dovuto essere chiuso in iso-
lamento, gettando via la chiave. L’agente annuiva con un sorriso, aggiun-
gendo che fosse stato per lui avrebbe fatto anche di peggio, continuando a
definire il ragazzo con epiteti poco lusinghieri.
Intorno a questo internato “problematico” si strutturavano due discorsi
diversi, entrambi distanti dai lessici che ci si aspetterebbe debbano definire
il perimetro relazionale all’interno di un OPG: i medici non parlavano fa-
cendo riferimento al campo semantico della terapia così come l’agente e la
OSS non affrontavano la situazione secondo una logica prettamente custo-
diale. Ciò che veniva mobilitato era un lessico che faceva più propriamente
riferimento alla relazione umana dequalificata da ogni specificità di campo:
non la terapia né il lessico penitenziario ma una manifestazione puramente
affettiva che, nel caso dei medici, faceva appello a concetti come l’umana
comprensione, la pazienza, il dialogo e, nel caso dell’agente e della OSS, si
rivolgeva alle tonalità dell’odio, dell’insofferenza, del disprezzo.
Alla fine, la dottoressa Paneco decise di chiedere all’agente di servi-
zio di lasciar uscire dalla cella il giovane internato, ottenendo un secco
rifiuto. La situazione si modificò nel pomeriggio, con il cambio turno e
l’arrivo del Comandante della polizia penitenziaria. Chiara Paneco fu al-
lora messa in condizione di iniziare un’interlocuzione che, appunto, non
aveva a che vedere né con la psicoterapia né con la psicofarmacologia
ma, semplicemente, con l’incontro umano tra due soggetti di cui uno è
profondamente consapevole della storia dell’altro, delle sue vicissitudini,
del suo stato attuale e si rivolge all’altro utilizzando uno strumento non

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Io, gli altri, il mondo. Incontri, empatia e relazioni in un manicomio criminale

particolarmente connotato: il dialogo aperto e paritario, non simmetrico


né gerarchico. Nei mesi successivi, Daniele fu al centro di quasi tutte le
chiacchierate che ebbi modo di avere con la dottoressa. E i suoi turni la-
vorativi erano in parte dedicati all’incontro con questo ragazzo irascibile
che, vedendosi riconosciuto come soggetto di dialogo, vedendo comprese
le proprie esigenze e istanze, andò progressivamente tranquillizzandosi.
Una simile scelta si rivelò profondamente vincente, portando all’allenta-
mento delle maglie del controllo.
Non si trattò, in questo caso, di un’alleanza terapeutica né di una scelta
prettamente strategica. Si era fatto avanti, nell’urgenza di una quotidianità
difficile da gestire, l’esigenza di riconfigurare la relazione interpersonale, fa-
cendo passare in secondo piano le questioni più squisitamente giudiziarie o
sanitarie. Fu quindi ridefinito lo spazio di incontro in termini puramente
affettivi. Empatici, nel senso che la dottoressa dimostrò una capacità spe-
cifica di comprendere come tutto ciò che definiva lei stessa e il ragazzo,
all’interno di quella relazione, non era soltanto il lessico psichiatrico né
l’istanza terapeutica ma, molto più a fondo, vi era la comprensione di una
situazione di grande difficoltà umana che richiedeva l’impiego di strumen-
ti differenti: la prossimità affettiva e il dialogo comprendente.
D’altra parte, anche l’agente e l’OSS avevano optato per una scelta si-
mile con la differenza che la loro prossimità affettiva, mediata anche dal
giudizio personale sul ragazzo il cui reato commesso “per noia” risultava
ai loro occhi come particolarmente esecrabile, si manifestava nei termini
di un rifiuto umano e sociale. La scelta della privazione, quasi a carattere
espiativo, rispondeva più a una necessità personale di esprimere una con-
danna morale sul ragazzo che a una vera esigenza di utilizzare la disciplina
a fini riabilitativi.
Emerge, anche in questo caso, come la quotidianità di questi incontri
risponde a ordini di valori molto differenti: certamente, vanno considerate
le specificità dei saperi e delle tecniche coinvolte, ovvero l’ordine psichia-
trico e quello penitenziario. Eppure, ben al di là di questi, vi è il diretto
coinvolgimento personale dei soggetti che si incontrano in questo campo
di battaglia. I loro vissuti precedenti, le loro visioni del mondo, le loro
rappresentazioni morali – che si rispecchiano nel senso del bene e del male,
del giusto e dello sbagliato, del vero e del mendace che essi riproducono –
trovano una declinazione pratica significativa all’interno delle relazioni che
instaurano con i propri altri. Declinazione che dà corpo non solo alla loro
etica individuale quanto al più generale senso etico dell’istituzione.

91
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Spazi, frontiere, simboli. Scene di ordinaria empatia


Il senso etico dell’istituzione, prodotto e mediato dalla soggettività eti-
ca dei singoli che la compongono, si poteva cogliere in molte relazioni
interpersonali e, in particolare, in quelle che avevano ad oggetto piccoli
elementi della quotidianità.
Un giorno qualsiasi di una settimana qualsiasi. Fine febbraio; al più,
inizio marzo. L’OPG, come sempre in quei mesi di rigido inverno, era un
luogo quasi inaccessibile. Le finestre non erano certo i confortevoli infissi
di una casa di proprietà ben arredata. Erano vecchi enormi finestroni con
una struttura di legno un po’ tarlato e consumato dalle intemperie e dal
tempo. Reggevano sottilissimi pannelli di vetro, spesso scheggiati nei bor-
di. I corridoi erano sempre pieni di spifferi, di sibili gelati che, dopo poco,
iniziavano a penetrare nel corpo – non importa quanto ci si possa abbi-
gliare adeguatamente, quanti maglioni si possano indossare. Il freddo, in
alcuni momenti, era intollerabile. Sembrava quasi una eccedenza di pena e
di espiazione non prevista dal codice penale.
Quella vecchia struttura era un edificio immenso che richiedeva sva-
riate decine di minuti per essere attraversato. Il portone di ingresso alla
sezione, che si apriva su un androne voluminoso, era sempre aperto. Al-
tro vento e altro freddo si impossessavano dei corridoi. Nel giorno cui
faccio riferimento, l’OPG era immerso in un cielo plumbeo e piovoso
che aumentava la percezione di annichilimento legata alla rigidità che
accompagna il freddo da cui non ci si riesce a proteggere. Per scaldar-
mi, come molti internati, camminavo ininterrottamente nel lunghissimo
corridoio del secondo reparto. Contavo i passi per capire quanto fosse
lungo e per obbligarmi a un’attività cerebrale che mi distraesse dalle per-
cezioni corporee. Mi imbattei nel primo termosifone. Provai a trovare
conforto nel tepore del metallo ma un internato mi avvertì che, quel
giorno, quel termosifone non funzionava. Camminai ancora fino a tro-
varne un altro. Feci per appoggiarmi e mi accorsi immediatamente che
anche quello era spento. Evidentemente c’erano problemi alle caldaie,
problemi che, vista l’imminente chiusura dell’istituzione, chissà quando
sarebbero stati risolti. Continuai, con una certa pena per me e per gli
altri, a muovermi nel corridoio27.

27
Sul rapporto tra percezioni corporee soggettive del ricercatore e spazio sociale della
ricerca ha scritto pagine molto significative Michael Taussig (2004).

92
Io, gli altri, il mondo. Incontri, empatia e relazioni in un manicomio criminale

Mi venne incontro Tancredi. Da mesi, nonostante le difficoltà iniziali


– le legittime diffidenze, la disabitudine a conoscere volti nuovi, per lui;
l’incapacità di intravedere spiragli relazionali che permettessero di stabi-
lire un contatto, per me – eravamo diventati, se non due amici, quanto-
meno due buoni conoscenti. Parlavamo spesso. Mi chiese come stessi.
Feci un cenno con la testa e gli posi la stessa domanda. Con un gesto
eloquente mi invitò a entrare nella sua cella, nella sua stanza. Essendo
un luogo non solo terapeutico ma anche detentivo, è facile immaginare
come non ci fosse grande privacy in OPG. Se qualche spazio di autore-
golamentazione, di domesticità, di intimità si poteva intravedere questo
era sicuramente all’interno delle celle. Ognuna arredata in modo diverso.
Alcune più spoglie, altre più ricche di oggetti minuti – piccoli regali, fo-
tografie, immagini di giornale, qualche libro, a volte disegni o quadretti,
qualche lettera, una poesia… In quasi tutte le celle si vedeva una paziente
stratificazione di scritte murarie, di immagini vergate con una penna o un
pennarello. Il muro e l’inchiostro erano i materiali più resistenti alla siste-
matica depauperazione prodotta dal tempo. La cella di Tancredi rientrava
tra quelle che si potrebbero annoverare tra le più spoglie, ornata solo con
due o tre libri, un posacenere ricavato da prodotti di scarto, un quaderno
e una penna. Mi propose di sederci sul letto. Fumammo silenziosamente.
Provai a chiedergli ancora come stesse. Mi disse con il suo sguardo umido
– i suoi occhi erano sempre velati da una patina acquosa, quasi fosse in
ogni istante sull’orlo di un pianto disperato; un pianto mai arrivato – che
si sentiva solo. Mi raccontò, ancora una volta, un brandello della sua
strana esistenza, fatta di tanti abbandoni, di perdite, di lutti, di droga, di
militanza politica. Fatta soprattutto di un figlio che non voleva vedere.
Che non poteva vedere, diceva. Non in quelle condizioni. Non con quegli
occhi umidi. Non con il dolore sordo di una condanna lunghissima, frut-
to di una scelta di ribellione politica il cui senso ancora rivendicava. Non
lo vedeva da anni. Non sapeva neppure più come fosse fatto28. Ascoltavo
in silenzio, sapendo che quello era uno dei nuclei esistenziali più tragici
della vita di quell’uomo abbattuto e spesso sconfitto, una storia che – la
sua psichiatra me ne aveva informato – raccontava raramente. Certo, ac-

28
Credo sia importante notare, anche per comprendere quali importanti mutamenti
abbia comportato la riforma istituzionale degli OPG, che, dopo un lungo percorso
psicoterapeutico, una volta uscito dall’OPG ed entrato in REMS, Tancredi ha chiesto
e ottenuto di poter incontrare suo figlio con cadenza regolare.

93
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cennava all’esistenza di suo figlio. Ma i dettagli erano un’altra cosa e io


non potevo che ascoltare. Non c’era nulla da dire…
Il nostro discorso – il suo discorso – fu bruscamente interrotto da Axel,
un altro internato, un ragazzo molto simpatico e gentile, reso però im-
prevedibile dalle allucinazioni contro cui nulla potevano i farmaci. Axel
viveva in una cella posta alla fine del corridoio, uno degli angoli più freddi
d’inverno e più caldi d’estate perché completamente esposto ai capricci del
meteo. Entrò ridacchiando, cosa che faceva spesso e Tancredi si ammutolì
immediatamente. Senza dare troppo valore alla mia presenza, guardò fissa-
mente Tancredi e gli chiese se nella sua cella ci fosse acqua calda. Tancredi
alzò le spalle e gli propose di controllare lui stesso. Axel chiese allora se
poteva entrare nel suo bagno, ricevendo una chiara risposta di assenso. Si
avvicinò con circospezione e discrezione alla porta metallica che separava il
bagno dal resto della cella. Si protese, cercando di non entrare interamente
nel bagno, e aprì l’acqua, esultando dopo pochi secondi per la presenza
dell’acqua calda che anche noi potevano intuire dalle volute di vapore che
si erano levate dal lavandino. Chiuse l’acqua e riemerse con la stessa discre-
zione, rivolgendosi nuovamente a Tancredi ma, questa volta, balbettando,
cosa che non era tipica di Axel, noto a tutti per il suo scilinguagnolo da
rapper mancato. Stretto nelle spalle, guardano ottusamente il pavimento,
non riusciva a dire ciò che, evidentemente, aveva bisogno di esprimere.
Non capivo, ovviamente, il senso di ciò che stava accadendo.
Tancredi, invece, lo capì molto velocemente e anticipò, con tono asciut-
to ma conciliante, il suo interlocutore. “Vuoi farti la doccia?”, gli chiese.
“Se fosse possibile…”, rispose Axel. “Certo, certo. Noi usciamo. Prendi
pure le tue cose e vieni a farti la doccia qui”, e, lasciandoci alle spalle la
cella, uscimmo dal reparto per andare a prendere un caffè e fumare un’altra
sigaretta, concedendo ad Axel la possibilità di ristorarsi da quella giornata
così inclemente con una doccia calda.
Un’interazione simile potrebbe apparire banale, quotidiana. Non è im-
mediato comprendere cosa significhi il “bagno” per un internato. Come
dicevo poco sopra, se esiste un luogo che possa essere addomesticato, reso
personale, intimo, questo è la cella. E nella cella, il luogo per eccellenza
è il bagno. Il bagno è, infatti, uno spazio che si può isolare, la cui porta
crea una demarcazione netta tra il mondo osservabile e controllabile e il
privato. Se c’è una vera articolazione tra pubblico e privato questa ha a
che vedere con il bagno. Per comprendere quanto sia indispensabile quella
forma di intimità si pensi a ciò che maggiormente richiede riservatezza e

94
Io, gli altri, il mondo. Incontri, empatia e relazioni in un manicomio criminale

allontanamento dallo sguardo che controlla: il corpo e il sesso. Come mo-


stra il frammento di diario del primo paragrafo, anche in un mondo in cui
sulla sessualità grava un pesante interdetto essa resiste nelle forme dell’im-
maginazione che si alimenta di “foto di donne, foto di donne semi-nude,
foto di donne vestite”. La masturbazione è pratica ampiamente diffusa,
unico modo di ricreare quella complicità affettiva con il proprio corpo. E,
per ragioni che sarebbe davvero superfluo sottolineare, il bagno è il luogo
privilegiato per questo genere di attività. Tutto ciò che ha a che fare con
la corporeità è legato a quell’unica stanza in cui non possono arrivare gli
sguardi indiscreti dei medici, degli agenti e degli altri internati. Il bagno,
quindi, diviene spesso uno spazio non valicabile, motivo della discrezione
con cui Axel vi si affacciò all’interno.
Eppure, anche l’universo del privato, in OPG, poteva essere messo a
disposizione degli altri. Non vi era certo una regola che amministrasse
questo tipo di condivisione ma essa si ingenerava nella spontanea necessità
di muoversi, in qualche modo, anche in funzione degli altri. Le retoriche
che mettevano spesso in campo gli internati – e, in particolare, Tancredi
che era uno dei più convinti assertori di un sistematico individualismo
strutturante le logiche relazionali dell’OPG – non apriva spiraglio alcuno
a simili possibilità. Sembrava, a dir loro, un mondo popolato da piccoli
egoismi, incapacità di attenzione verso l’altro, disinteresse per problemi
che, invece, in molti casi erano comuni. Non era, allora, così scontato che
Tancredi concedesse il “suo” spazio. Ciò che però veniva fatto valere in
quell’occasione era l’evidenza di una situazione comune, comprensibile e
comunicabile. Attraverso l’incontro pratico di esigenze comuni si impo-
neva un principio morale superiore che esulava dai singoli interessi indi-
viduali e modificava immediatamente il posizionamento sociale dei due
interlocutori, così come modificava le frontiere simboliche di un piccolo
ambiente dell’OPG.
Se l’empatia può essere definita come l’articolazione pratica e relazionale
dell’essere nel mondo e dell’esserci con gli altri – ovvero una forma di in-
contro non intellettualizzato, che si manifesta nella costante negoziazione
tra gli interessi del Sé e la percezione dinamica dell’alterità – questa, come
nel caso del “prestito” del bagno tra Tancredi e Axel, esercita una notevole
forza di plasmazione su sé stessi e sui mondi che si abitano. In questo caso,
infatti, l’esigenza di domesticità cambia di segno, obbligando Tancredi a
riconoscerla parimenti in Axel e portandolo ad aprire al compagno – non
un amico, ma un compagno, qualcuno cioè che vive la stessa esperienza

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esistenziale – i suoi spazi più riservati e privati. A rifunzionalizzare, cioè,


quei luoghi, a cambiarne destinazione, dando un nuovo senso alla frontiera
simbolica che la porta metallica del bagno, in genere, rivestiva. Senza una
costante apertura all’incontro – apertura che, ripeto, non è intellettualizzata
né formalizzata ma “avviene”, o può avvenire, solo nell’istante dell’incontro,
che non è mai aprioristicamente codificato – la dimensione dell’empatia,
presupposto essenziale di questo tipo di relazioni, non ha modo di darsi in
uno spazio così frammentario e, spesso, rigido come quello di un OPG. La
condivisione di spazi così fortemente caratterizzati è, certo, un marcatore
importante delle possibilità che le concrete relazioni sociali – e quindi affet-
tive ed emotive – ingenerano nelle persone che abitano luoghi così dolorosi
come può essere una istituzione che, spesso, custodisce i soggetti senza che
essi possano cogliere una durata quantificabile della loro pena. È uno dei
modi per andare oltre i rigidi codici culturali – espiativi, detentivi, custo-
diali – che dovrebbero dare corpo all’istituzione e riflettere sulle capacità
relazionali che producono il senso quotidiano della vita istituzionale.

Conclusioni
Questi piccoli eventi costituiscono un materiale relativamente ridotto per
poter procedere a grandi generalizzazioni sul senso, le strutture e le funzio-
ni di certe istituzioni della contemporaneità. In essi, tuttavia, si possono
intravedere elementi utili ad ampliare l’orizzonte entro il quale riconcet-
tualizziamo il ruolo e le pratiche dei soggetti all’interno del dedalo istitu-
zionale che questi vivono nella loro quotidianità. In altre parole, ci aiutano
a ripensare il modo in cui i soggetti, ogni giorno, producono e riproduco-
no codici morali locali attraverso un esercizio etico e intersoggettivo.
Ciò che emerge è la rilevanza della dimensione relazionale nella pro-
duzione di spazi di agentività nel perimetro di un’istituzione la cui finalità
resta sempre quella detentiva e terapeutica. L’incontro, come pratica quo-
tidiana, è una delle dimensioni relazionali che è disperatamente cercata
da tutti i soggetti che popolano l’OPG. La posta in gioco di questo in-
contro è, più precisamente, l’empatia. Incontro, empatia e presenza sono
intimamente legati l’uno all’altro ed essi sono, nella pratica, alcune delle
dimensioni umane e intersoggettive che permettono ai singoli abitanti di
un’istituzione – ma, più in generale, ai singoli appartenenti a una comuni-
tà – di agire attivamente su sé stessi e sul mondo che li circonda. L’incon-
tro permette ai singoli soggetti di stabilire un rapporto dialettico, fatto di

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Io, gli altri, il mondo. Incontri, empatia e relazioni in un manicomio criminale

differenza e riconoscimento, con soggetti moralmente e socialmente altri.


In ogni singolo incontro, è possibile riconoscere vissuti similari o abissi in-
colmabili, esperienze sovrapponibili o distanze non ricomponibili, legami
o fratture, intersezioni o disgiunzioni. L’incontro con l’altro è una specifica
dimensione esistenziale che, al di là forse delle intenzioni dei singoli sog-
getti, produce nel tempo una reale comunità cooperante.
L’empatia, quindi, come scrivevo all’inizio di questo testo, non deve
essere considerata una qualità dell’individuo ma una struttura che dipende
da un contesto: un contesto fatto di incontri e relazioni in cui ci si costru-
isce vicendevolmente – si esiste per sé stessi e per l’altro – agendo e nego-
ziando su quelle polarità cui accennavo poco sopra (vicinanze e differenze,
legami e fratture, etc). L’empatia mette in gioco il concetto di presenza
perché, come struttura possibile dell’intersoggettività, apre il soggetto ver-
so la conoscenza dell’altro ma, contemporaneamente, ne radica l’esistenza
come Sé nel mondo. È una modalità intersoggettiva di abbracciare sé stessi
e gli altri. Il racconto di Tancredi sulla sua solitudine, improvvisamente
condivisa in una dinamica affettiva e non più unicamente terapeutica, la
cessione del proprio spazio “privatissimo” a una persona che condivide
esperienza analoghe; la capacità di Alessandro di aprire spazi relazionali
affettivi ed emotivi con persone diverse, che ricoprono ruoli diversi; la
declinazione puramente affettiva, pur di segno opposto, della dottoressa
Paneco e dell’agente della polizia penitenziaria nei confronti di Daniele,
internato difficile da gestire; l’incontro comunitario volto alla creazione di
uno spazio condiviso di festa e goliardia; tutte queste sono modalità attra-
verso le quali il soggetto costruisce il proprio Sé all’interno di un processo
che è sempre “dinamico”. L’empatia è quindi una pratica (Scheer 2012)
che agisce sempre in modo processuale, valorizzando anche le ambiguità
e le contraddizioni. Concordo con Throop nel riconoscere che l’empa-
tia, come forza processuale, è «realizzata, riconosciuta e agita all’interno di
modi di sintonizzarsi, di memorie, di emozioni, di desideri, di fantasie e
di interessi sempre mutevoli che costituiscono, per ogni individuo, la vera
fabbrica della nostra vita cosciente» (Throop 2010: 773). Questa possibi-
lità relazionale ha quindi a che vedere con un certo modo di intendere la
presenza, di radicare cioè il soggetto al suo mondo e impedire la perdita
del suo orizzonte di senso. L’essere del soggetto nel mondo è una tradu-
zione – o forse una trasfigurazione – di sé stesso in una realtà relazionale
fatta di affetti ed emozioni (Zigon 2014a; 2014b; Zigon, Throop 2014).
La vita del soggetto è costantemente immersa in processi dialettici che

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coinvolgono il Sé, l’altro e il mondo. Questa vita, tuttavia, non può essere
colta in una prospettiva puramente cognitiva – il soggetto “non sceglie”
la propria presenza con un atto volontaristico né con un puro moto di
intellettualizzazione del mondo; non siamo nel campo liberale della scelta
individuale – ma deve essere ripensata nell’ordine delle pratiche che fanno
del soggetto un Io per Sé e un Tu per l’Altro. Comprendere questo tipo di
esserci – ragionare cioè sull’incontro e l’empatia – vuol dire ragionare in
termini di relazioni affettive, emotive, cognitive e, certamente, politiche.
Vuol dire, cioè, comprendere che le persone “fanno” la propria empatia,
“fanno” la propria presenza.
L’empatia, tuttavia, non è una condizione permanente delle relazio-
ni. Come ben sottolinea Throop, nella dimensione dell’incontro esistono
momenti in cui la risonanza empatica diviene impossibile – in cui, cioè, la
differenza, la distanza, il limite, la frontiera prendono il sopravvento e cir-
coscrivono un nuovo contesto di scambio. Essa però resta linfa vitale, so-
prattutto in un ambiente così strutturalmente deprivativo come un istituto
pensato per la custodia di persone sofferenti; linfa vitale per poter produrre
forme di presenza salda che, come nel caso del “bagno”, danno l’avvio a
riscritture delle frontiere simboliche e spaziali o, come nel caso delle foto,
“inventano” nuove forme di umanità in comune.

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