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Mondi Sociali e Sistemi Comunicativi.

Territori, Culture, Linguaggi, a cura di Nicolò Leotta, 2016


GIOVANNI BAI
Parte Terza. Radio, Cinema, Tv. Comunicare la società dello spettacolo. Capitolo 1.
Dai modi della visione di massa alla visione individuale condivisa. Parte
Quinta. Social network & media digitali
Capitolo 1. AgoràFutura.art
Appendice. Globalizzazione & Comunicazione.
Capitolo 2. WebGlobalArt

Radio, cinema, Tv. Comunicare la società dello spettacolo. Dai modi della visione di massa
alla visione individuale condivisa.
Quando Howard aveva cominciato a pubblicare i suoi primi saggi critici su riviste che Harold non si sarebbe
mai sognato di comprare, un cliente era arrivato in macelleria con un ritaglio in cui suo figlio tesseva lodi
entusiastiche di Merda d'artista di Piero Manzoni. Harold aveva chiuso bottega ed era andato alla cabina
telefonica in fondo alla strada con una manciata di monetine. «Merda in scatola? Perché non ti occupi di
cose belle come la Gioconda? Tua madre ne sarebbe stata così orgogliosa. Merda in scatola?» (Zadie
Smith, Della bellezza)
«Oh Emma…». Nello spot francese che pubblicizza una carta igienica Emma, la moglie irrisa dal marito per
l’utilizzo di tecnologie meno evolute delle sue, passa all’uomo seduto sul water un tablet con
l’immagine di un rotolo della preziosa e insostituibile carta…
Fin dalla metà degli ottanta si è posto il problema della portata dell’avvento del digitale sulla vita quotidiana,
in particolare grazie alla mostra Les Immatèriaux, curata dal filosofo Jean-Francois Lyotard, uno dei più
attenti studiosi della cosiddetta post-modernità, secondo cui la dematerializzazione portata dal digitale si
scontra inevitabilmente con la materialità degli oggetti, dei prodotti di massa immessi sul mercato, dando
luogo a delle irrealtà virtuali e contemporaneamente mutando il paesaggio urbano e le modalità della
comunicazione.
Non è tuttavia pensabile di affrontare questa rivoluzione della comunicazione e della vita quotidiana senza
ricordare i caratteri di quelle precedenti, soprattutto se si vuole analizzare il sistema delle arti visive
nell’epoca della globalizzazione e della evoluzione delle tecnologie, ma anche della mutazione dell’arte a
partire dalla metà dell’Ottocento, non a caso in coincidenza con la nascita della fotografia. Nonostante il
radicale cambiamento delle modalità tecniche della produzione e circolazione delle immagini e
dell’informazione, nonché delle modalità della fruizione, è infatti possibile utilizzare i parametri già
utilizzati per analizzare e comprendere i media che li hanno preceduti.
L’uomo non comunica soltanto attraverso gli strumenti appositamente messi a punto nel corso della storia,
dalla parola alla scrittura fino alle più complesse tecnologie informatiche, l’uomo comunica anche attraverso
quello che produce e quello che costruisce per fini utilitaristici, si tratti di case – o comunque di edifici
oppure di giardini – e allora siamo nel campo dell’architettura, di oggetti - e siamo nel campo del design,
dove l’estetica si sposa alla funzionalità – e ancora si comunica con il modo con di come ci si veste o ci si
acconcia – e allora è la moda - e persino il cibo è fatto comunicativo - soprattutto nella sua ritualità, ma
anche nel packaging. In questo senso è fatto comunicativo anche il corpo umano, alla ricerca di una propria
identità e della volontà di esprimerla sempre e comunque – anche in un’epoca come la nostra che tende alla
omogeneizzazione - e che possiamo definire come sopravvivenza del self.
Nel caso dell’arte – soprattutto di quella contemporanea – ci si deve confrontare però anche con il problema
della comprensione e dell’interpretazione: il campo della soggettività come metro di interpretazione si
scontra con la oggettività dell’arte stessa. «La soggettività, e quindi la diversità, è uno dei tratti caratteristici
dell’essere umano, sia che esprima giudizi di valore o descriva ciò che vede; ma il nostro metro di giudizio o
il nostro modo di guardare sono condizionati dalla cultura cui apparteniamo, dalle nostre conoscenze, dai
nostri valori» (GB, Leggere la società). L’arte è una forma di espressione fortemente legata ai processi
culturali e richiede quindi una lettura adeguata, ricordando che non può esistere una assoluta oggettività
nella contrapposizione bello/brutto o arte/non-arte; non è un azzardato dire che anche in questo campo è
necessario quanto vale per l’analisi sociologica in generale, ovvero «saper usare quella che il sociologo
americano Wright Mills ha definito immaginazione sociologica, cioè la capacità di rinnovare
continuamente le metodologie di ricerca per poter comprendere e valutare il contesto dei fatti storici, dei
suoi riflessi sulla vita interiore e sui comportamenti degli individui» (GB)
ARTE, SOCIETÀ, CULTURA, COMUNICAZIONE
Lo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa permette un più frequente contatto tra differenti culture,
mentre i fenomeni legati alla globalizzazione offrono forme planetarie di condizionamento con cui deve
sempre più fare i conti l’autonomia dell’individuo Anche gli individui più consapevoli non sono sempre
indenni da questi condizionamenti, in una società sempre più anomica in cui il legame sociale e la solidarietà
si indeboliscono sempre più, a fronte del fiorire di strutture comunicative definite “social” , dove le
“amicizie” hanno spesso un significato ben diverso da quello reale.
Se la cultura di una società - intesa come insieme di comportamenti e di modi di pensare comuni che
esercitano un costante condizionamento dei comportamenti collettivi e individuali - è l’espressione di una
complessità al cui interno ogni individuo si deve destreggiare per interagire con gli altri membri della
comunità e il sapere umano non è innato, ma appreso, ne consegue che con la nascita della scrittura e la
conseguente capacità di astrazione si sviluppa ulteriormente la possibilità di compiere atti simbolici.
L’interazione simbolica è dunque uno degli aspetti comunicativi più importanti del comportamento umano, a
partire dalla parola e dalla gestualità fino alle espressioni più complesse dell’arte. In ogni caso la conoscenza
dei codici specifici è alla base di una più efficace comunicazione e comprensione: per comprendere l’arte è
quindi necessario conoscerla – non basta l’istinto, mentre il gusto è prodotto della cultura – perché, come
sostiene Goffman, il fondamento della interazione è lo scambio di messaggi fondati sulla comune cultura,
quindi su significati condivisi. Lo scambio nell’era di Internet assume nuove modalità di interazione: è
quindi sempre più necessario sviluppare la consapevolezza e la capacità interpretativa dell’individuo,
nonostante le modalità della comunicazione tendano a limitare questa consapevolezza. Abbiamo citato la
immaginazione sociologica di Wright Mills, vogliamo ricordare la teoria dell’attore sociale di Luciano
Gallino, secondo cui l’individuo che agisce all’interno del contesto di una società deve essere in grado di
fornire la propria interpretazione, «perché la vita umana si svolge in un contesto comunicativo e i bisogni
umani sono più complessi di quelli puramente biologici», mentre la cosiddetta comunicazione “social”
sembra ridurre al minimo questa complessità.
L’ARTE, LA SOCIETÀ MODERNA, LO SVILUPPO DELLA CITTÀ
Uno dei nodi centrali dell’analisi che da tempo conduco sullo sviluppo della città come luogo tipico della
modernità ruota sui cambiamenti culturali che hanno caratterizzato il processo che ha portato alla
industrializzazione dei processi produttivi e al conseguente rovesciamento dei modelli della vita quotidiana
all’interno di una città che è divenuta luogo dell’estetica diffusa.
Le radici di questo fenomeno sono da ricercare nella nascita del mondo moderno: accanto ai grandi
cambiamenti economici e politici quali crisi del sistema feudale, nascita delle banche,
mercantilismo, nascita degli stati nazionali e rinascita della città, mi piace ricordare la nascita della
prospettiva - ad opera di artisti quali Brunelleschi e Leon Battista Alberti – che non dobbiamo intendere
soltanto come una tecnica di rappresentazione della realtà, ma un modo nuovo di vederla, sintomo di un
diverso atteggiamento mentale e culturale. «Per le caratteristiche visuali della prospettiva centrale è
significativo che essa sia stata scoperta in un momento e in un luogo solo di tutta la storia dell'umanità» ha
scritto Rudolf Arnheim, ed effettivamente la portata del Rinascimento va molto oltre il semplice ambito
della pittura. L’artista comincia «a sentirsi libero dai desideri del committente e a trasformarsi da produttore
per il cliente in produttore di merce», cambiando così la natura della produzione e comunicazione artistica
«come conseguenza diretta del rapporto impersonale che si stabilisce tra compratore e opera d’arte, tra
compratore e artista» (Hauser)
ALCUNE NOTE SULL’ANALISI DEI FENOMENI COMUNICATIVI
Non può esistere analisi dei fenomeni comunicativi nell’epoca della visione di massa che non tenga conto
del pensiero di Walter Benjamin - comunque troppo spesso banalizzato e malinterpretato a proprio uso e
vantaggio - e dalla sua analisi sulle allora nuove tecniche di comunicazione e il loro carattere di massa che
ha trovato forma nel saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica.
Tornerò sul ruolo della fotografia nell’era di internet e instagram, tuttavia non possiamo dimenticare che la
fotografia aveva messo in crisi l’essenza stessa dell’arte a causa della riproduzione di qualcosa che non
sarebbe in sé riproducibile. L’aura, ossia «l’originario aspetto magico e sacro di un’opera d’arte, che si
perde con la sua trasformazione in un oggetto di consumo tecnicamente riproducibile» (GB) è definita da
Benjamin come «Un singolare intreccio di spazio e tempo: l’apparizione unica di una lontananza, per quanto
possa essere vicina. Seguire placidamente in un mezzogiorno d’estate, una catena di monti all’orizzonte
oppure un ramo che getta la sua ombra sull’osservatore, fino a quando l’attimo, o l’ora, partecipino della
loro apparizione — tutto ciò significa respirare l’aura di quei monti, di quel ramo». Siamo quindi nel campo
delle sensazioni più che dell’oggettività, ma che sono sostenute da una concretezza filosofica che regge
ancor oggi, in quanto l’evoluzione della tecnologia ha confermato alcune sue intuizioni, mentre altre sono
state messe in crisi. Benjamin «ha individuato nella fotografia — che anticipa a sua volta il cinema — un
movimento rivoluzionario nella storia dell’arte, il momento della trasformazione di un sistema a oggetto
unico, quale è l’opera d’arte, circondata appunto dall’aura, in oggetto artistico moltiplicato». Sebbene oggi
sia evidente la portata comunicativa ed estetica di una tiratura fotografica in più copie o di una serigrafia
(pensiamo ad Andy Warhol), il suo lavoro resta comunque fondamentale negli studi sui mezzi di
comunicazione, spostando il problema dell’aura dell’opera d’arte alla produzione di qualcosa che a volte è
arte e spesso non lo è. Affronterò in seguito il tema dell’arte e della rete, ma basti pensare ora ai videoclip
musicali nati negli anni ottanta o ai filmati postati su Youtube.
Benjamin non affronta solo il tema della riproducibilità ma anche quello della produzione: «con la
fotografia, nel processo della riproduzione figurativa, la mano si vide per la prima volta scaricata delle più
importanti incombenze artistiche, che ormai venivano ad essere di spettanza dell’occhio che guardava dentro
l’obiettivo. Poiché l’occhio è più rapido ad afferrare che non la mano a disegnare, il processo della
riproduzione figurativa venne accelerato al punto da essere in grado di star dietro all’eloquio. L’operatore
cinematografico nel suo studio, manovrando la sua manovella, riesce a fissare le immagini alla stessa
velocità con cui l’interprete parla». In una sola frase ridefinisce tutta la storia dell’arte del Novecento!
Benjamin ci svela che «nella litografia era virtualmente contenuto il giornale illustrato» mentre «nella
fotografia si nascondeva il film sonoro», ma è anche in grado di cogliere una suggestione di Paul Valéry, che
preannuncia la nascita della televisione, se non addirittura di Internet: «Come l’acqua, il gas o la corrente
elettrica, entrano grazie a uno sforzo quasi nullo, provenendo da lontano, nelle nostre abitazioni per
rispondere ai
nostri bisogni, così saremo approvvigionati di immagini e di sequenze di suoni, che si manifestano a un
piccolo gesto, quasi un segno, e poi subito ci lasciano». Oggi possiamo senza esitazione affermare che
televisione e Internet hanno portato a compimento questa profezia. In particolare la pubblicità televisiva
sembra portare alle estreme conseguenze quanto aveva osservato Harold Garfinkel rispetto ai
comportamenti quotidiani, per scoprire quanto viene dato per scontato e il
«non-detto che prevale su quel che viene detto in quanto fatto noto a entrambi» e senza di cui l’interazione
non sarebbe possibile, ovvero alla metacomunicazione «costituita dai messaggi indiretti che accompagnano
la comunicazione verbale e ne definiscono meglio il contesto». Goffman nel saggio La vita quotidiana
come rappresentazione analizza quindi l'espressività dell'individuo, la interazione sociale e la modalità di
trasmissione delle informazioni. Per lui è importante il campo della interrelazione, della gestione della
propria identità e della rappresentazione della vita quotidiana «dove l’azione è condizionata dal modo in cui
si cerca di apparire, e dove tuttavia il copione è scritto solo in parte» poiché esiste la possibilità
di
«manifestare o comunque difendere la propria identità individuale». Ernst H. Gombrich ha cercato di
definire i metodi di studio dei processi psicologici della percezione, «dimostrando che l’arte non nasce dalla
natura, bensì dall’arte stessa e dalla sua conoscenza, mentre la notorietà del primo studioso dei sistemi di
comunicazione di massa Marshall McLuhan è legata alla paradossale affermazione «il medium è il
messaggio»: la natura del mezzo impiegato nel processo di comunicazione sarebbe quindi più importante del
contenuto stesso del messaggio. Vedremo più avanti come gli studiosi del network affermino oggi come la
rete stessa sia il messaggio.
Se Benjamin aveva individuato il problema della spettacolarizzazione della merce, Guy Debord ha portato
all’estremo questo discorso di Benjamin nel saggio La società dello spettacolo, in cui sviluppa una critica
radicale della società capitalistica e dell'industria culturale, del consumismo e dei mezzi di comunicazione
di massa. La società sarebbe divenuta un grande spettacolo, che
«non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui mediato dalle immagini», in modo che
«tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione», con la conseguenza che ci si
accontenta di osservare invece che sperimentare direttamente. A partire da una citazione di Feuerbach
secondo cui si «preferisce l'immagine alla cosa, la copia all'originale, la rappresentazione alla realtà,
l'apparenza all'essere» Debord afferma che «Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una
rappresentazione».
La vita ai tempi della rete sembra sempre più una relazione artificiale, fatta di incontri digitali più che reali:
persino aspetti più materiali – e fondamentali – della vita umana come il sesso e il cibo divengono “cyber”…
Gregory Bateson, fondatore della ecologia della mente, ha osservato la realtà sottolineando l’esistenza di
Una sacra unità tra mente e natura e di un doppio legame in ogni tipo di relazione, elaborando la
teoria del doppio vincolo (double bind). La comunicazione umana non è fatto solo di contenuti ma è anche
un discorso sulla relazione tra i soggetti che comunicano; anche in Bateson troviamo infatti un «livello
metacomunicativo - che costituisce la cornice in cui operare - che è integrato dal linguaggio del corpo, dalla
comunicazione non-verbale (cinetica), che costituisce la ridondanza, un elemento che permette di integrare
le parti mancanti del messaggio. Questo codice cinetico non solo permette il discorso sulle relazioni, ma
permette anche all’uomo di esprimersi in forme complesse come la musica e la danza». (GB) E quello della
ridondanza sembra proprio essere uno dei problemi della comunicazione via SMS, FaceBook, Twitter.
LE ARTI VISIVE NEL PROCESSO DI COMUNICAZIONE E INFORMAZIONE: VEDERE,
GUARDARE, COMUNICARE
«La Tv pensò Keith. VCR. Dynacors. Memorex. JVC. Keith schiacciò il pulsante Pausa e continuò a
guardare la tv o «a guardare» la tv… a guardare la tv a modo suo. Era un’abitudine. Tutte le sere
registrava sei ore di tv e poi le visionava al ritorno (…) non sopportava più di vedere la televisione a
velocità normale, senza lamediazione del telecomando e la tirannia del suo pollice
brunito dalle sigarette. Pausa. SloMO. Picture Search (…) Super Fast Forward. Poi Rewind, SloMo, Freeze
Frame (…) Le visionature di Keith erano di solito velocissime, ma qualche sequenza, a suo dire, lo ripagava
di giorni o perfino di settimane di studio e applicazione». (Martin Amis, London Fields)
I processi comunicativi e dell’informazione presuppongono diverse modalità di utilizzo dei nostri sensi, che
spaziano dalla casualità alla piena consapevolezza. L’ascolto e la visione distratti caratterizzano gran parte
delle forme della comunicazione e della informazione (e di fatto anche delle relazioni umane); non si tratta
solo di ascolto distratto, ma anche della visione: per il filosofo Stanley Cavell sarebbero proprio i media
fruibili individualmente - come la televisione, che offrono la possibilità di cambiare canale a piacimento,
anche in continuazione (zapping) - a incoraggiare nello spettatore una visione e quindi partecipazione
distratta. Ma lo zapping caratterizza anche la lettura dei messaggi che compaiono sul wall di FaceBook,
comportamento necessariamente ineludibile per chi abbia una mole di contatti superiore alla reale possibilità
di interazione («… ma come, non hai visto il mio post?»).
Il grande storico dell’arte John Berger ha incentrato la sua ricerca sull’importanza del saper guardare. E da
questa premessa parte la nostra analisi, dal fatto che «iI vedere viene prima delle parole. Il bambino guarda e
riconosce prima di essere in grado di parlare», come ci ricorda, appunto, Berger, secondo cui il vedere
«viene prima delle parole anche in un altro senso» in quanto sarebbe «il vedere che determina il nostro posto
all'interno del mondo che ci circonda; quel mondo può essere spiegato a parole, ma le parole non possono
annullare il fatto che ne siamo circondati. Il rapporto tra ciò che vediamo e ciò che sappiamo non è mai
definito una volta per tutte». Se è vero che «ciò che guardiamo è, sempre, il rapporto che esiste tra noi e le
cose» è anche vero che «vediamo solamente ciò che guardiamo. Guardare è un atto di scelta».
A partire da questa considerazione possiamo cercare di analizzare due problematiche che caratterizzano lo
sviluppo dei processi comunicativi e le loro modalità espressive: la impossibilità di non comunicare e il
rapporto con la tecnica e la sua evoluzione. La comunicazione è una delle attività umane più rilevanti in
quanto fondamento della società, che richiede la cooperazione tra gli individui. Paul Watzlavíck e la Scuola
di Palo Alto hanno dedicato le loro ricerche allo scambio comunicativo al fine di definire una
Pragmatica della comunicazione umana, mettendo in evidenza che «se si accetta che l'intero
comportamento in una situazione di interazione ha valore di messaggio, vale a dire è comunicazione, ne
consegue che comunque ci si sforzi, non si può non comunicare». Non è raro che qualche “amico”
comunichi di essersi temporaneamente dissociato da un socialnetwork per pensare o fare altro, quello
che colpisce non è che senta la necessità di farlo, ma di comunicarlo. Il “silenzio stampa” comunicato da
politici o sportivi è di per sé una forma eloquente di comunicazione. Non è solo nel comportamento umano
di inattività e silenzio che troviamo espressione di questa impossibilità, ma anche nelle forme dell’arte, dalla
poesia e la letteratura al cinema e alle arti visive, dove l’arte informale e concettuale meglio di tutto
esprimono questa condizione umana.
L’evoluzione delle forme della comunicazione e dell’arte è strettamente intrecciata non solo con
l’evoluzione economica e sociale, ma anche, e forse anche di più, con quella tecnologica. La scrittura, la
pittura, la scultura sono in qualche modo uguali a se stesse da migliaia di anni: cinema televisione prima e
poi videoarte e net art sarebbero addirittura impensabili senza le trasformazioni della tecnologia, per quanto
in alcuni casi la creatività e la fantasia umana abbiano potuto immaginare queste trasformazioni.
Se «nessuna nuova forma di comunicazione ha soppiantato quella precedente, anzi ha dato vita a un
processo cumulativo, aumentando le possibilità comunicative di ciascun individuo» è vero anche che,
parallelamente allo sviluppo di ogni nuova modalità comunicativa, si sono realizzati mutamenti culturali
capaci di dare forma a nuovi modi di pensare e intendere le relazioni con gli altri, spesso in concomitanza
con cambiamenti economici e politici. Si pensi, infatti, agli esiti del
passaggio dalla cultura orale alla cultura manoscritta, e poi a quelle tipografica, dei media elettrici ed
elettronici e infine a quella informatica. Il messaggio contenuto nel mezzo stesso va oltre il suo significato
immediatamente percepito ed è proprio legato alle sue caratteristiche tecniche e tecnologiche, e questo vale
evidentemente anche per il campo specifico delle arti visive, sia per quanto riguarda la realizzazione che la
fruizione di un’opera. Scegliere di esprimersi con una tecnica tradizionale (pittura ad olio o comunque
utilizzare un supporto che chiamiamo “quadro”) o attraverso i nuovi media è già un elemento costituivo
dell’opera e di una concezione dell’arte: percorrere le sale di un museo o trovarsi coinvolti in un happening
non è solo una questione di tipo spaziale. Se prendiamo in considerazione due forme di espressione come la
pittura e la performance o il video, vale ancora il ragionamento di McLuhan a proposito dell’evoluzione del
sensorio umano e al prevalere dell’occhio rispetto dell’orecchio o al ritorno alla oralità secondaria
caratteristica dall’epoca dei mezzi di comunicazione elettronica. In alcune opere contemporanee il senso
dell’udito può essere coinvolto in modo anche rilevante, ma è l’occhio che continua ad avere la parte più
importante: addirittura la visione richiede una più ampia gamma di modalità e ad essa si unisce la necessità
di una riflessione in tempo reale.
Con la scoperta dell’America, inizia a cambiare la percezione dello spazio, ma è soprattutto con l’ingresso
nella contemporaneità, favorito dallo sviluppo delle tecnologie elettriche ed elettroniche e dei mezzi di
comunicazione che su di esse si fondano, che cambiano definitivamente sia la modalità di produzione delle
opere (si pensi alla fotografia e al cinema innanzitutto) e quindi la dimensione di spazio e tempo, fino ad
arrivare alla costituzione di quello che è stato definito villaggio globale, prima e al cyberspazio poi.
L’avvento della televisione ha sicuramente avuto un impatto decisivo sulla evoluzione delle arti visive, in
aggiunta all’effetto già portato da fotografia e cinema, come abbiamo già ricordato, ma ha cambiato anche
la natura della percezione, ha cambiato il nostro modo di vedere. Se la nascita della stampa aveva favorito
l’introspezione e il pensiero critico, la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa ha portato a una
ricezione sostanzialmente distratta, che a sua volta ha tra le conseguenze quello che è stato definito come un
addormentamento delle coscienze.
Benjamin aveva sottolineato il ruolo fondamentale della fotografia e dell’importanza della riproducibilità
nella conoscenza della scultura e dell’architettura e nella conoscenza in generale dell’arte. L’avvento delle
tecnologie informatiche permettono oggi addirittura la visita virtuale dei musei - al museo immaginario di
Malraux si sostituiscono mostre virtuali e persino in Second Life - ma è evidente che l’impiego di strumenti
che costituiscono comunque un ausilio fondamentale, non esonerano dalla necessità di una conoscenza reale
delle opere e quindi dalla visita dei musei.
Vedendo la foto di un’opera riprodotta su di un libro, a nessuno verrebbe in mente di accontentarsi e
vorrebbe vederla dal vero. Un’opera vista in internet può invece far ritenere soddisfatto il fruitore
superficiale. Le visite virtuali dei musei che dovrebbero avere carattere puramente informativo finiscono per
sostituirsi alla visita reale.
COMUNICAZIONE DI MASSA, CULTURA DI MASSA, SPETTACOLARIZZAZIONE DEI
FENOMENI ARTISTICI
I mezzi di comunicazione di massa sono quei mezzi che instaurano un rapporto comunicativo tra una
emittente centralizzata e un pubblico vasto ma disperso, come giornali quotidiani, riviste, cinema, radio,
televisione. Ad essi possiamo aggiungere oggi, anche se con modalità differenti, Internet. Questi strumenti
non sono stati utilizzati soltanto come mezzo di diffusione e divulgazione dei prodotti artistici ma, per le loro
caratteristiche, sono stati utilizzati essi stessi come mezzi per la produzione di opere d’arte, cambiando lo
statuto delle arti visive.
Lo sviluppo dei mass media ha portato a un nuovo tipo di produzione culturale, semplificata per essere
divulgata, la cultura di massa che - in quanto parte del processo di produzione industriale e quindi legata
alle dinamiche del mercato - ha dato vita a quella che è stata definita industria culturale: ho già ricordato il
ruolo di Guy Debord nella critica radicale della società capitalistica e dell'industria culturale e del
consumismo che, in particolare nel saggio La società dello spettacolo, come abbiamo visto, porta
all’estremo il discorso di Benjamin sulla spettacolarizzazione della merce. Attraverso la pratica del
détournement – ossia la riappropriazione e decontestualizzazione
di un’opera d’arte o di un testo – trasforma, per esempio, l’incipit del Capitale «Tutta la vita delle società
moderne in cui predominano le condizioni attuali di produzione si presenta come un’immensa
accumulazione di merci» in «tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di
produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli»: la società intera si trasforma in un
unico grande spettacolo.
Nel campo delle arti visive il processo di spettacolarizzazione si concretizza oggi soprattutto nella
realizzazione di grandi mostre – spesso presso i musei più famosi – iperpubblicizzate, di fatto trasformate in
un prodotto da vendere (e che non riescono tuttavia ad avvicinare più che tanto il pubblico all’arte). Questi
eventi sono sempre accompagnati da un vasto merchandising, non dissimile da quello che accompagna i
grandi eventi sportivi, e che spesso si risolve in quella produzione di kitsch così ben analizzata da Gillo
Dorfles fin dagli anni sessanta del secolo scorso.
La spettacolarizzazione è spesso associata al gigantismo, reso possibile da ingenti somme di denaro investite
o comunque messe a disposizione da sponsor, mercanti e collezionisti. Commentando la fiera Art Basel
2013 Giancarlo Politi ha scritto: «Art Basel 2013 ha rappresentato la più spettacolare kermesse d'arte dei
nostri tempi. Opere gigantesche (Unlimited) e già costosissime a realizzarsi, ma anche opere difficilmente
collocabili per lo spazio che richiedono. A meno che non siano già state realizzate per entrare in collezioni
private o spazi istituzionali. E stand spettacolari, da museo, con opere milionarie, bellissime e alcune mai
esposte sino ad ora». (FlashArt Newsletter)
Certe opere si possono realizzare solo in questo modo, si pensi ai Sette palazzi celesti di Anselm Kiefer
esposti in permanenza all’Hangar Bicocca, grazie a Pirelli, che ha reso possibile anche
«l’installazione di Tomas Saraceno (la grande bolla su cui era possibile camminare provando la sensazione
di trovarsi tra le nuvole) – visitata da 140mila spettatori - che ha rotto la barriera tra l’arte contemporanea e il
grande pubblico. Sì, perché tutto si può dire dell’arte contemporanea, tranne che sia facile». (Silvia Bernardi,
All’Hangar Bicocca il futuro è gratuito). Stesso discorso per la bellissima mostra personale di Rudolf
Stingel a Palazzo Grassi – gestito dall’imprenditore francese Pinault - a proposito di cui Angela Vettese
(Tappeti e quadri al muro) dice: «Quello dell’ingiustizia del sistema promozionale è un problema senza
soluzione. È bello però constatare che ci sono collezionisti che desiderano generare capolavori e non solo
fare buoni investimenti. Ed è ancora più bello constatare che, a volte, coloro a cui vengono date simili
opportunità le sanno usare in modo convincente».
«L'aura è viva e vende bene» sostengono – a ragione – Dal Lago e Giordano, a proposito della città di
Bilbao, che ha assunto il ruolo di città d’arte – affiancandosi a quelle tradizionali, come Venezia per esempio
(…) Il gigantismo è quindi interpretato come un elemento «al servizio di una concezione innovativa di
museo: non più o soltanto uno spazio dedicato alla memoria e alla contemplazione, ma uno show di arte c
cultura contemporanea, in uno spirito non troppo dissimile da quello dei parchi a tema e di Disneyland», di
fatto una attrazione turistica, come il Beaubourg a Parigi.
Anche le opere di Christo si collocano nel quadro del gigantismo. Ecco l’opinione della scrittrice Monika
Maron (La mia Berlino) a proposito del Reichstag impacchettato. «Nel 1984, quando Michael S. Cullen,
agente di Christo a Berlino (e naturalmente anche di sua moglie Jeanne- Claude, ma allora di questo non si
parlava), mi comunicò che Christo intendeva impacchettare il Reichstag, non riuscii, se ben ricordo, a
trovarci nulla di strano. Nulla avrebbe mai potuto superare l'assurdità del Muro di Berlino, e l'iniziativa di
ricoprire di drappi un edificio parlamentare vuoto, a due passi da lì, mi pareva solo un fatto conseguente. Nel
1994, quando il dilemma se impacchettare o meno il Reichstag era ormai lievitato fino a diventare una
questione di identità nazionale, che esigeva una decisione del Parlamento, mi parve ridicolo che, dopo il
Pont Neuf, la costa californiana e alcune isole del Pacifico, si volesse impacchettare il minuscolo Reichstag.
Quando poi si arrivò al dunque, mi ritrovai dalla parte degli scettici, dove mi aveva spinto anche il tono della
discussione, o eri a favore di Christo, oppure eri borghese e nazionalista.
Adesso invece mi sono convertita. Trovo l'impresa piacevole e divertente; da quando Christo ha rivestito il
Reichstag, Berlino è diventata un'altra città. Ne aveva bisogno. Non importa se il Reichstag sia bello o
brutto, che abbia questa o quella storia, che ne risulti irriconoscibile oppure no. Chi del centro berlinese
vuole stravolgere qualcosa, fa meglio a lasciarlo così com’è. Christo ha impacchettato il Reichstag e ci
trasmette il suo messaggio: venite qua, venite tutti qua».
L’installazione The floating piers di Christo recentemente realizzata sul lago d’Iseo rappresenta il momento
più alto della capacità di una artista di utilizzare la comunicazione di massa per far conoscere un’opera di
grande poesia e così lontana dai canoni tradizionali, apprezzata però dal grande pubblico ignaro dell’arte. E
in questo senso l’opera di Christo sembra incrinare quello che è sempre stato uno dei cardini dell’analisi dei
mass media, ovvero che l’oggettiva difficoltà di immediata comprensione dell’arte contemporanea favorisce
la riproduzione dell’altro elemento caratteristico dei mass media, ossia che «il singolo spettatore tende ad
accettare solo messaggi non contrastanti con il proprio modo di pensare»: il controllo sociale, in questo caso
nella sua accezione di trasmissione del patrimonio sociale e culturale, passa non solo attraverso l’azione di
ciarlatani e imbonitori delle televendite, ma anche attraverso l’azione di opinion leader come Sgarbi o
Daverio.
Noam Chomsky ha analizzato in modo chiaro le strategie della manipolazione attraverso i mass
media, secondo cui «l’elemento primordiale del controllo sociale è la strategia della distrazione che
consiste nel deviare l’attenzione del pubblico dai problemi importanti», e poi la strategia della gradualità:
«per far accettare una misura inaccettabile, basta applicarla gradualmente»; la strategia del differire: «un
altro modo per far accettare una decisione impopolare è quella di presentarla come “dolorosa e necessaria”,
ottenendo l’accettazione pubblica, nel momento, per un’applicazione futura»; rivolgersi al pubblico come ai
bambini, usare l’aspetto emotivo molto più della riflessione, mantenere il pubblico nell’ignoranza e nella
mediocrità. Questo vale proprio per l’abbassamento del livello qualitativo dei prodotti della cultura di massa,
rispetto a cui è sempre valida l’analisi di Umberto Eco in Apocalittici e integrati: evitare soluzioni originali
e distruggere le caratteristiche culturali dei singoli gruppi; di rivolgersi a un pubblico inconscio di sé come
gruppo sociale, quindi, non in grado di esprimere esigenze ma solo di accettare quanto proposto; di
secondare il gusto esistente, dando ciò che chiede ma suggerendo che cosa volere; incoraggiare una visione
passiva e acritica del mondo e favorire il conformismo. Questo ci spiega perché le barzellette de La
Settimana Enigmistica siano sempre uguali a sé stesse (anche nella grafica) rispetto a cinquant’anni fa, si
tratti di rapporti matrimoniali o di arte contemporanea.
Nel recentissimo volume Arte moltiplicata. L'immagine del '900 italiano nello specchio dei rotocalchi
(a cura di Barbara Cinelli, Flavio Fergonzi, Maria Grazia Messina, Antonello Negri) si analizza come sia
stata affrontata l'arte visiva del Novecento negli organi di stampa divulgativi: con sufficienza e
superficialità, cercando soprattutto – come abbiamo già detto – gli aspetti personali degli artisti più famosi.
«A volte prendere in giro è facilissimo: vittime designate sono Lucio Fontana con i suoi tagli e buchi o Piero
Manzoni che offriva al pubblico uova sode o il suo fiato chiuso in dei palloncini (…) e in generale tutti gli
astrattisti sono stati immuni da lazzi a buon mercato» commenta Vettese, secondo cui questo «non ha aiutato
il pubblico a uscire da pregiudizi e stereotipi di cui paghiamo ancora le conseguenze».
Ecco, la tecnologia che pure ha rovesciato i canoni e lo statuto delle arti visive deve essere presa con
leggerezza, senza dimenticare quanto diceva André Breton: «L’opera d’arte ha valore soltanto in quanto sia
attraversata dai riflessi del futuro». Anche perché la percezione del cambiamento non è immediata e
«impercettibili modificazioni sociali tendono a modificare la ricezione in un modo che poi torma a
vantaggio soltanto della nuova forma d’arte» così che «giunte a certi stadi del loro sviluppo, le forme d’arte
tradizionali tendono ad ottenere effetti che più tardi vengono ottenuti liberamente dalla nuova forma d’arte».
(Benjamin). L’esempio fatto era quello del cinema secondo i dadaisti (e poi sarebbe arrivato Chaplin):
pensiamo agli incredibili lavori di Gianni Colombo o di Franco Grignani, che oggi non riusciamo a
concepire senza l’esistenza del computer…
E per completare il discorso relativo alla tecnica non resta che citare Rosalind Krauss, che nel capitolo
Forgetting - Supporti Tecnici nel suo Sotto la tazza Blu così ne spiega l’evoluzione:
«L’automobile, il nastro magnetico, il film d'animazione non sono supporti tradizionali della pratica artistica
come lo sono l'olio su tela, la grafite su carta o il gesso su armatura di metallo. Sono "supporti tecnici", sorti
in reazione allo sdegno postmodernista, a sua volta provocato dall'esaurimento, percepito dagli artisti negli
anni settanta, sia dei media tradizionali sia dell'insistenza sulla specificità. Per il postmodernismo
l'astrazione della griglia cubista andava dimenticata per essere sostituita con montagnole di fieno, la sua
sobrietà era soppiantata dalle figure muscolose del neoclassicismo del fascismo, mentre il revival del bronzo
rinascimentale dichiarava la morte delle geometrie puriste della scultura modernista. All'interno di questa
situazione che potremmo definire enigmatica ma che in realtà segnalava una crisi, l'avanguardia non aveva
altra scelta che identificarsi con la ricerca di nuovi supporti, quelli non compromessi dal marchio di una
tradizione esaurita. Il postmodernismo spinse l'avanguardia a volgersi dapprima verso la tecnologia come
l'alternativa più forte ai materiali naturali dei media tradizionali. Il video era uno dei supporti offerti dalla
tecnologia. Ma l'avanguardia fece ricorso anche ad altri supporti, presi, come il video, dalle forme
disponibili nella cultura di massa».
Tra la fine del 2006 e fino a gennaio 2007 il Centre Georges Pompidou di Parigi – meglio conosciuto come
Beaubourg – ha presentato la mostra Le mouvement des images, ossia una rilettura dell’arte del XX
secolo a partire dal cinema - che più che come spettacolo si presenta oggi come un modo di concepire e
pensare le immagini – e al tempo stesso una ridefinizione dell’esperienza cinematografica attraverso le
problematiche e le forme dell’insieme delle arti plastiche. Nell’epoca della rivoluzione digitale la mostra
proponeva, mediante la proiezione continua sulle pareti del museo, anche una ridefinizione della fruizione
del film ravvicinandola a quella che si ha normalmente davanti a un quadro, i film diventano pittura in
movimento. In fotografia, in scultura o in pittura l’adozione del formato longitudinale, l’uso del dispositivo
sequenziale sincopato e discontinuo, la divisione regolare del supporto e la ripetizione delle forme
producono dei fenomeni di variazione e di sequenza che si rifanno all’esperienza cinematografica.
Per Eisenstein «il montaggio al cinema non è che l’applicazione di un principio più generale. Questo
principio, esaminato nella sua complessità, va oltre il semplice gesto di incollare insieme dei pezzi di film»
che è punto di arrivo di un procedimento che attraversa la storia delle arti plastiche: il taglio della superficie
pittorica, la rottura di scala tra gli oggetti raffigurati, i giochi di trasparenza e opacità o la sovrapposizione
dei piani. I collages cubisti di Braque e Picasso, surrealisti di Max Ernst o Man Ray, gli assemblaggi pop di
Martial Raysse o James Rosenquist fanno agire una molteplicità di immagini o di frammenti di immagini in
una unica sequenza: essi riuniscono nella simultaneità quello che l’esperienza ordinaria del cinema dispiega
nella successione. Oracle di Robert Rauschenberg, che è un condensato della vita urbana - i disparati
frammenti che lo costituiscono sono stati prelevati nella metropoli new-yorkese - contrappone collages
visuali con un collage sonoro, composto in modo aleatorio a partire da onde radio ambientali.
László Moholy-Nagy, emancipandosi dal modello della pittura, nel suo film Jeu de lumière noir- blanc-
gris ha registrato dei movimenti lenti, accelerati, rallentati, rovesciati di una struttura cinetica di metallo e
vetro. Il film propone una nuova definizione di plasticità e fa della manipolazione e della distribuzione della
luce, che sta alla base del cinema, un elemento di unificazione delle arti. L’opera non è più concepita come
una forma statica, all’oggetto chiaramente delimitato nello spazio, si sostituisce un continuum in divenire
che invade lo spazio e si dispiega nel tempo.
Il 19 novembre 1971 alle 19.45 Chris Burden si fa sparare in un braccio. Una performance leggendaria,
quanto il film che testimonia l’operazione è antispettacolare: solo otto secondi di immagini, la cinepresa
super-8 emette il caratteristico rumore della pellicola che si aggancia,
appare l’immagine, parte il colpo, l’artista avanza tenendosi il braccio. Lo schermo ritorna nero, si sente il
rumore del bossolo vuoto che cade per terra.

Social network & media digitali: comunicare artweb. AgoràFutura.art


IL MONDO DELLE RETI
«Cosa voleva dire ieri sera Blackwell quando ha parlato di Rez che vuole sposare una ragazza giapponese
che non esiste? - Aidoru - disse Yamazaki. - Cosa? - Cantante-simulacro. È Rei Toei. Un costrutto di
simulazione, un insieme di componenti software, la creazione di progettisti informatici. È simile a ciò che a
Hollywood chiamano un synthespian, credo. Laney chiuse gli occhi, li riaprì. - Allora come fa a sposarla? -
Non lo so - rispose Yamazaki. - Ma ha dichiarato con grande determinazione che è sua intenzione farlo».
(William Gibson, Aidoru).
Mattelart ha dimostrato come il villaggio globale creato dai mass media e dalla televisione in particolare, si
stia trasformando nella società globale dell’informazione, grazie all’avvento e alla evoluzione delle
tecnologie informatiche. Ciò che ha cambiato il modo di comunicare non è soltanto l’evoluzione dei
computer, ma la integrazione con le tecniche di trasmissione dei dati che ha dato vita alle reti telematiche
multimediali. Una utile definizione di multimedialità è quella proposta da Andrea Balzola e Anna Maria
Monteverdi: «Il termine «multimediale» indica, nella sua accezione più generale, etimologica e letterale,
l'uso simultaneo di più modalità, strumenti o supporti di comunicazione a carattere tecnologico. In
particolare, per noi corrisponde all'integrazione tecnica dei media (libri, giornali, radio, cinema, televisione,
telefonia ecc.) e dei relativi codici testuali, grafici, fotografici, audiovisivi, musicali, anche tattili, resa
possibile dal digita- le e veicolata mediante i computer multimediali. Qualsiasi fonte, medium o supporto
visivo e sonoro può essere oggi, per la prima volta nella storia umana, mediante il processo di
digitalizzazione dei dati (trasformazione di qualsiasi informazione in un codice numerico binario), convertito
e trasposto in un unico metamedium tecnologico (oggi il computer) per essere riprodotto senza perdita di
definizione o rielaborato e integrato con altri media, secondo modalità intercreative e interattive». Nel
volume Le arti multimediali digitali Balzola e Monteverdi analizzano l’impatto delle nuove tecnologie
elettroniche sulle diverse arti, sul ruolo e la funzione dell’artista e del pubblico, oltre che sulle moderne
teorie estetiche e della comunicazione. Il processo di digitalizzazione dei dati non ha portato soltanto a una
integrazione tecnica tra i vari media (libri, giornali, cinema, televisione, radiofonia, eccetera), ma permette e
suggerisce anche una contaminazione estetica tra le varie forme espressive: «il passaggio dalla tecnologia
elettronica analogica al digitale ha trasformato i linguaggi artistici codificati, dando vita all’integrazione di
precedenti forme artistiche e alla nascita di nuove; ha prodotto "rimediazioni" delle forme storiche dei mass-
media; infine ha trasformato il contesto e le modalità di creazione». Gli autori si soffermano non solo sulla
nozione di rete e di web ma su forme artistiche di recentissima invenzione, come la hacker art e la net art,
che scardinano il concetto stesso di opera d’arte e che uniscono la protesta politico-sociale all’azione
artistica, dove anche la figura dell’artista muta e tende a diventare un autore collettivo, in cui la creatività
deve essere affiancata e supportata da competenze tecniche sempre più raffinate, e l’opera d’arte tende a
trasformarsi in un laboratorio dell’esperienza.
Più in generale si parla di net art con riferimento alle tecniche volte a creare opere per la rete ma anche con
la rete stessa, anche se non ha senso classificare le varie modalità o i requisiti di appartenenza, quello che è
importante è che l'esperienza della fruizione estetica si sposta dalla materialità alle reti telematiche.
L’aspetto positivo di queste esperienze è la tendenza controculturale e la volontà di sovvertire i paradigmi
dell'estetica tradizionale, così come del sistema economico fondato sul concetto di proprietà intellettuale. In
questo senso si può davvero considerare la creazione delle prime reti telematiche come un’opera d’arte,
così come la
cosiddetta
hacker art e la creazione di virus informatici.
Nel suo libro Internet Art Julian Stallabrass ha tentato di mappare il contesto socio-politico che ha dato vita
a progetti artistici pensati per Internet e classificati oggi come Net art, anche se ritiene che sia perduto il
potenziale utopico di internet e il dominio degli scambi commerciali ne abbia annullato l’autonomia. Per
Stallabrass Internet sarebbe stato un ambiente ideale, un luogo dove artisti e pensatori potessero produrre e
condividere opere immateriali, un’arte non convenzionale fatto al di fuori del sistema delle gallerie.
Il percorso della Net art sembra far rivivere quanto era accaduto con l'arte cinetica o con il video: l’idea di
un’arte immateriali e che potesse dare vita a circuiti alternativi. L’arte visiva ha fatto proprio questo
concetto molto prima della nascita di internet e quando le tecnologie si limitavano al cinema e alle prime
forme di videoregistrazione, e pensiamo all’expanded cinema di Alberto Grifi o di Fabio Mauri, alle
sperimentazioni di artisti come Schifano, Baruchello o Nespolo e addirittura alle proiezioni multiple di
diapositive. In soli trent’anni siamo passati alla possibilità per chiunque di produrre, elaborare e distribuire
immagini fisse e in movimento, e di condividerle in tempo reale con il mondo intero.
McLuhan ha parlato di Galassia Gutenberg a proposito della nascita della stampa a carattere mobili,
identificando in quella invenzione qualcosa che ha cambiato radicalmente la vita dell’uomo. Il sociologo
catalano Manuel Castells parla oggi di Galassia Internet per sottolineare la portata di questa tecnologia,
che ha cambiato non solo il modo di comunicare, ma tutta la nostra vita, come
– e forse molto di più - aveva fatto la stampa cinquecento anni fa.
L’avvento dei mezzi di comunicazione di massa ha cambiato la nostra concezione di spazio e tempo, quindi
la nascita di Internet ha dato vita a quello che è stato definito cyberspazio, che Pierre Lévy nel saggio
Cybercultura definisce come «lo spazio di comunicazione aperto dall’interconnessione mondiale dei
computer e delle memorie informatiche», ricordandoci anche che «la parola “cyberspazio” è stata inventata e
usata per la prima volta nel 1984 da William Gibson nel suo romanzo di fantascienza Neuromante. Il
termine designa l’universo delle reti digitali da lui descritto come campo di battaglia tra multinazionali,
come oggetto di conflitti mondiali e nuova frontiera economica e culturale» rendendo così sensibile «la
geografia mobile dell’informazione, normalmente invisibile».
L’espansione delle reti comunicative è strettamente connesso con il controllo dell’economia: la network
society sarebbe infatti funzionale ai «bisogni di flessibilità gestionale e globalizzazione di capitale,
produzione e commercio dell’economia». Il termine network – nel senso in cui lo usa Castells – ha un
significato più ampio di rete, perché si focalizza sull’aspetto delle interconnessioni, sui nodi della rete
stessa. «Si tratta – secondo Castells - di forme molto antiche dell’attività umana», che hanno preso «una
nuova vita nel nostro tempo e sono diventate reti informazionali» così che Internet è divenuto la trama delle
nostre vite. Se la tecnologia del- l'informazione è l'equivalente odierno dell'elettricità nell'era industriale,
Internet potrebbe essere paragonata sia alla rete elettrica sia al motore elettrico, grazie alla sua capacità di
distribuire la potenza dell'informazione in tutti i campi dell'attività umana. Quindi, come le nuove tecnologie
per produrre e distribuire energia hanno reso possibili le fabbriche e le grandi imprese come fondamento
organizzativo della società industriale, Internet ha fornito la base tecnologica della forma organizzativa
nell'età dell'informazione.
Ancora, Castells sottolinea che «Il mondo sociale di internet è tanto diversificato e contraddittorio quanto lo
è la società» così che la nascita delle comunità virtuali ha creato nuove forme di interazione sociale,
permettendo in parte di uscire dalla logica delle relazioni fondate sull’individualismo - che è propria di
Internet – e che aveva raggiunto il suo massimo livello
negativo nel fenomeno degli otaku giapponesi, portatori di una vera e propria patologia sociale e incapaci di
rapportarsi alle persone in carne e ossa.
Con l'avvento del computer si è sviluppata la della cultura della velocità, già teorizzata da Paul Virilio, ma
anche quella della ubiquità: possiamo connetterci alla rete da qualsiasi computer del mondo, e quindi siamo
raggiungibili in ogni parte del mondo. Questa condizione è amplificata dall’avvento della telefonia mobile,
grazie alla quale siamo raggiungibili – se lo vogliamo – ventiquattr’ore al giorno. Ancor più dei mezzi di
comunicazione di massa, questi mezzi – che non lo sono – contribuiscono a modificare e annullare le
dimensioni dello spazio e del tempo. Il telefono è divenuto esso stesso un computer, che permette non solo
di parlare, ma di inviare messaggi, scattare fotografia, registrare filmati, giocare e, ovviamente, connettersi
alla rete di Internet, inviare e-mail. Il filosofo Maurizio Ferrarsi sostiene che «l'alleanza tra telefono e com-
puter assicurata, almeno tendenzialmente, dal telefonino, rappresenta un formidabile strumento di
costruzione della realtà sociale».
Twitter - che permette ai suoi utenti di postare messaggi di testo che possono essere letti immediatamente
dagli altri utenti con cui si è in contatto – è andato oltre alla semplice creazione di una rete: il cinguettio è
divenuto uno dei simboli delle rivolte sociali dei paesi arabi o lo strumento usato dall’artista dissidente
cinese Ai Weiwei, in quanto per le sue caratteristiche tecniche riesce ad aggirare le limitazioni di accesso
alla rete di Internet.
«Il networking è un'arte», sostiene la sociologa e attivista mediatica Tatiana Bazzichelli, secondo cui è
un’arte la pratica del saper creare una rete di relazioni, soprattutto se utilizzata per scambiare esperienze
artistiche o proporre una forma di informazione critica, diffusa attraverso progetti indipendenti e collettivi
che condividono l'idea della libertà di espressione: «Questo concetto è carico di significati perché unisce due
mondi apparentemente diversi, quello delle pratiche di networking e quello dell'arte, che si trovano invece
perfettamente integrati in questo contesto. Fare network significa creare reti di relazione, per la condivisione
di esperienze e idee in vista di una comunicazione e di una sperimentazione artistica in cui emittente e
destinatario, artista e pubblico, agiscono sullo stesso piano» (Tatiana Bazzichelli, Networking). Nel suo
progetto Disrupting Bazzichelli si propone di creare turbative e ripensamenti: «Nel mondo degli affari,
interruzione significa introdurre nel mercato una novità che il mercato non si aspetta. Questa innovazione
viene da dentro il mercato stesso. Trasferito nel campo di arte e attivismo, disagi mezzo per produrre
pratiche e interventi che sono inaspettate, e giocare all'interno dei sistemi sotto esame» così «Arte,
hacktivism e le imprese sono spesso intrecciate, generando un ciclo di feedback di rivoluzioni e cooptazioni
che è funzionale allo sviluppo del capitalismo. Il capitalismo ha bisogno dei nostri giri perché generano
nuovi stili di vita, i prodotti e le pratiche che creano nuovi mercati e desideri dei consumatori. Allo stesso
modo, i sistemi di potere hanno bisogno della nostra resistenza e di opposizione perché servono ad
aumentare la sicurezza e forme di controllo. Abbiamo bisogno di trovare nuove strategie che vanno oltre il
semplice atto di opposizione e che sono più difficili da appropriata». (Turbativa in rete: Ripensare
Opposizioni in Arte, Hacktivism e Business A cura di Tatiana Bazzichelli)
Derrick De Kerchove sostiene che il fenomeno del networking era stato anticipato dalla pratica della mail
art ben prima di internet («come il pointillisme di Seurat potrebbe essere considerato profetico rispetto
all'immagine televisiva» aggiunge) e sia quindi centrale soffermarsi sulla dimensione sociale della
connettività: «Il network della partecipazione e il formarsi di reti di relazioni attraverso la tecnologia è un
fenomeno sempre più pervasivo e globale» così che
«riprendendo la famosa frase di Marshall McLuhan "il mezzo è il messaggio", oggi potremmo dire che the
network is the message of the medium internet (il network, ovvero la rete, è il messaggio del medium
internet)».
Ma «se il mezzo è il messaggio, nel tempo della comunicazione virtuale l'immagine è la realtà» afferma
Raffaele K. Salinari analizzando il caso di Sweetie, una bambina virtuale creta in rete per smascherare i
pedofili, e da essi scambiata per reale. «Com'è possibile non cogliere la differenza che passa tra una bambina
vera ed una bambina virtuale? Non è solo una questione di sofisticazione tecnologica: Sweetie appare reale
solo per chi abbia lo sguardo schermato che caratterizza quelli che vivono le loro trasgressioni attraverso un
video, o che hanno oramai delegato alla virtualità anche l'accesso e la pratica dei desideri che una volta
davano un senso alla vita reale, perché – conclude Salinari citando Virilio – il Novecento non è stato il
secolo dell'immagine ma quello della “illusione ottica”».
Anche la tecnica gioca a favore dell’illusione, ossia vediamo dei particolari perché sappiamo che ci sono,
anche se l’immagine è sfocata. Commentando l’allestimento della mostra di Stingel a Palazzo Grassi – di cui
abbiamo già parlato - interamente ricoperto dalle immagini di un tappeto, Vettese scrive: «La moquette è
stata ottenuta con un procedimento tecnico lontano al ready- made: è stato fotografato un tappeto a una certa
definizione, per poi venire stampato su di una superficie tessile ignifuga con un alto grado di ingrandimento
e quindi assumendo un senso di sfocatura: riconosciamo i nodi solo perché sappiamo che ci sono.
L’immagine risulta dunque volutamente scorretta, secondo un uso dell’errore fotografico che ci rimanda a
tutti i testi sulla riproduzione dell’opera d’arte, da Walter Benjamin a Roland Barthes. D’altronde siamo
abituati alle carenze tecniche delle immagini digitali, in particolare quelle che produciamo a raffica col
telefono. Questi sbagli possono avere un effetto psicologico, parlandoci di nostalgia per qualcosa che è
andato perso nel tempo, come accadeva con i colori virati o le cattive esposizioni che erano il dramma delle
foto in pellicola».
Ritornando ai temi della virtualità che sostituisce la vita reale, non deve stupire che si sia diffuso in
Giappone il fenomeno degli Aidoru, idoli virtuali del business dello spettacolo. Alcuni di questi sono reali,
per quanto creature mediatiche totali, interamente «costruiti dai manager, tramite attente strategie di
immagine, marketing, PR. Le agenzie di talent-scout li scovano, insegnano loro a cantare e a danzare,
scrivono i testi, elaborano per loro un look, una personalità, una gestualità peculiare a cui attenersi; infine,
quando la loro immagine mostra di essere sfiorita, li scaricano» (Valtorta e Gomarasca). Altri sono
completamente virtuali, anche se tutti sono consapevoli della loro inesistenza. «I testi delle loro canzoni
sono assolutamente insulsi, i messaggi che essi lanciano sono una miscela di banalità e buon senso
comune, gli stili che essi incarnano, anche quando si rifanno a look apparentemente trasgressivi - punk,
rapper, heavy metal - si riducono a una versione annacquata e inoffensiva. In questo senso, gli aidoru sono
al tempo stesso dei luoghi comuni mediatici e dei "simulacri" delle vere star. Il fascino di un aidoru non
risiede nel suo talento ma nella sua esplicita mancanza: gli aidoru sono i ragazzi/le ragazze della porta
accanto» spiegano Alessandro Gomarasca e Luca Valtorta (Sol Mutante), che ci informano anche
come
«uno degli ultimi aidoru venuti alla ribalta sia Yui Haga, un idolo virtuale, un idolo che non c'è: Yui Haga è
un fantasma fatto di corpi e voci differenti. Ai concerti la sua faccia è oscurata e la sua voce è preregistrata.
In televisione viene raffigurata come un cartone animato, una graziosa ragazzina con gli occhi da cerbiatta.
A un party per il lancio di un libro fotografico pubblicato di recente, c'erano tre ragazze al tavolo degli
autografi. I fan potevano avere la firma di quella delle tre che più corrispondesse alla loro interpretazione di
Haga-chan. Tutti sanno che Yui Haga non esiste», concludendo che «gli aidoru sono carne da macello per
l'insaziabile voyeurismo del pubblico giapponese».
INTERNET E LA FOTOGRAFIA
Senza dimenticare che la fotografia è sempre più usata nella realizzazione di opere d’arte, teniamo conto
che le immagini — prodotte e riprodotte con mezzi meccanici prima ed elettronici e informatici poi —
costituiscono il medium fondamentale per la nostra pratica della conoscenza e dell’esperienza del reale. Web
e telefonini si fondano sull’uso della fotografia, ma la logica sottesa
ha cambiato la natura della fotografia stessa e della sua pratica. Se da un punto di vista tecnico la fotografia
digitale è altro rispetto alla fotografia analogica, il vero cambiamento portato dalla digitalizzazione è
soprattutto quello della possibilità di scattare fotografie con i telefoni cellulari: oggi chiunque ha con sé una
macchina fotografica, non è più necessario avere una apparecchio specifico né conoscerne le caratteristiche
tecniche e il suo specifico linguaggio. A questo si aggiunge la possibilità di distribuire le immagini in tempo
reale
Persone che non avevano mai avuto una macchina fotografica e non avevano mai scattato una fotografia si
sottopongono e ci sottopongono a una orgia di immagini inutili e inguardabili, non solo dal punto di vista
estetico, ma anche logico. Un recente video che circola in rete mostra un attivista munito di cesoie che
taglia il gambo dei supporti per scattare i “selfie”…
«Quella in cui viviamo è stata definita la società dell’immagine, nel duplice senso che le immagini sono uno
dei più importanti strumenti della comunicazione, ma anche che il modo con cui appariamo - l’immagine
che offriamo di noi agli altri - è determinante. Sebbene le immagini in movimento – offerte dal cinema dalla
televisione, da internet – siano sempre più presenti nella nostra vita, la maggior parte delle immagini che
vengono prodotte, riprodotte e diffuse sono immagini fotografiche: nei giornali quotidiani e nelle riviste,
accanto alle immagini della cronaca abbiamo le immagini della pubblicità, onnipresenti nelle strade delle
nostre città». (GB)
Abbiamo già citato Benjamin e il suo famoso statement: «Non colui che ignora l’alfabeto, è stato detto, -
sarà l’analfabeta del futuro». Ma è forse più importante la frase che segue: «Ma un fotografo che non sa
leggere le proprie immagini non è forse meno di un analfabeta. La didascalia non diventerà per caso uno
degli elementi essenziali dell’immagine fotografica?» Anche in questo caso aveva individuato come la
informazione scritta avrebbe declassato la fotografia a puro elemento di supporto.
A questo proposito Vettese ha notato come «Nelle prossime generazioni il vero analfabeta sarà chi non
sarà in grado di capire le immagini tecnologiche. La nostra testa sarà sempre più piena di quella roba.
Vivendoci sempre in mezzo per amore o per forza, dovremo imparare a comprenderne gli aspetti
subliminali, quelli che vengono dalla loro composizione e dallo stratificarsi in esse di messaggi. Non sarà
solo l’arte visiva a diffondere ciò che sta diventando il linguaggio globale più condiviso, anzi questa cerca di
porsi ora come il grillo parlante di un possibile appiattimento dell’immagine comune. Le frontiere del nuovo
saranno aperte soprattutto dalla grafica interattiva e dalla possibilità che l’interaction design (per usare
l’espressione più corretta) dà di inventare e riprodurre immagini. Questo assunto, che in fondo nacque già
con Walter Benjamin e che fu alla base degli studi sulla percezione visiva di Rudolf Arnheim…»
Arianna Di Genova completa il quadro del cambiamento delle forme dell’immaginario con il suo discorso su
Nam Jume Paik: «In tempi non sospetti, era il 1965, Nam June Paik scriveva ”Il tubo catodico sostituirà la
tela…”. Profetico, l’artista coreano riparte da lì e siccome la televisione è un medium per tutti ma è anche un
bell’oggetto domestico, una scultura ready-made, accumula nelle sale dei musei monitor su monitor. Va in
onda raccontando la sua vita in frames autobiografici, poi installa monumenti digitali, dove il segnale è
disturbato e l’immagine si annulla in un rumore assordante, una musica cacofonica. Non soddisfatto di
questa smaterializzazione plastica, progetta una sua ‘tv-utopica’, palinsesto ideali per spettatori molto
esigenti: ore 7 del mattino, lezione di Duchamp; ore 8, musica di John Cage, ore 9, ginnastica con Merce
Cunningham. Nessuna emittente ha mai comprato il suo programma, ma Paik ha proseguito per la sua
strada, immaginando una tv attiva, mai anestetica, che spara icone su icone, , mixando Pepsi Cola e Buddha,
con grande disinvoltura. E lo schermo è diventato un feticcio, sorta di ‘quadro’ contemporaneo, finestra
aperta sul mondo. Paik, performer di Fluxus e pioniere della videoarte, collaboratore di outsider come Laurie
Anderson, Joseph Beuys, David Bowie ha anche lanciato – con i suoi robot – una nuova idea di statuaria
classica, personaggi meccanici pronti allo scontro con la civiltà moderna (una sua celebre performance
consisteva nel far investire da una macchina il suo omino cibernetico in una strada di new York…). Pur
navigando dentro i meandri dell’high-
tech, Paik ama collezionare cose antiche ai mercatini delle pulci e riesce a mantenere una distanza ironica
dall’epopea digitale quando confessa “io mostro il lato ridicolo della tecnologia”». (Il lato ridicolo della
tecnologia)

Globalizzazione & Comunicazione


Se «la città è il luogo tipico della vita moderna e in particolare lo è la metropoli, caratterizzata dalle
dimensioni, da nuove funzioni e da un diverso aspetto, fondato sull’emergere di nuove tipologie di edifici
quali i grattacieli», la nascita stessa della città aveva segnato una svolta fondamentale nello sviluppo
dell’umanità. La nascita della città non è solo un fenomeno geografico e demografico, ma è un fenomeno
economico e culturale.
Ma le città che ospitano i più importanti musei e sono il centro del mercato dell’arte non sono le città d’arte
per eccellenza, ma le sedi dell’economia globale, le città globali che ben descrive Nicolò Leotta: «Ci
troviamo così di fronte a un’identità urbana sovranazionale e all’emergere di una nuova proiezione
spaziale/virtuale ed economica della città che da un contesto localista si inserisce in un network mondiale. È
il caso di New York, Londra e Tokyo, che svolgono la funzione di centri finanziari e dei servizi per l’intera
economia internazionale. Queste grandi città mostrano alcuni tratti comuni, indipendenti dalla cultura in cui
si sono originariamente sviluppate: presentano una peculiare stratificazione sociale (fatta soprattutto di ceti
professionali emergenti e di lavoratori del terziario avanzato relativamente poveri), hanno stili di vita propri
(che attraggono ampi strati sociali di tutto il pianeta), fanno un uso massiccio delle nuove tecnologie di
comunicazione, di cui sono al tempo stesso vetrina e luogo di sperimentazione. Sono città capitali, ma non di
singoli Stati. Sono capitali di una rete invisibile che avvolge l’intero pianeta. E come enormi pilastri che
reggono questa rete urbana transnazionale, Tokyo, New York, Londra possono essere considerate vere e
proprie global cities che, con i loro edifici-mondo sedi delle grandi corporations internazionali, si sfidano
a tutto campo in un’arena mondiale dominata ormai dalle comunicazioni virtuali». Ma, ci mette in guardia
Paolo Maranini, «Non debbono, non possono trarre in inganno gli aspetti monumentali, lo scintillio del
vetrocemento che ospita nei suoi palazzi le banche e gli uffici delle società di assicurazione. Queste sono le
istituzioni portanti della società della tecnica. Non è un caso che il vetrocemento dei palazzi delle banche e
delle istituzioni finanziarie costituisca oggi la forma di gran lunga prevalente di autocelebrazione del
sistema. Dopotutto l'analogia tra l'onnipotenza del denaro e il concetto occidentale di Dio non è casuale»,
così come non è un caso che i protagonisti dei film Wall Street e Wall Street. Il denaro non dorme mai
di Oliver Stone siano entrambi raffinati collezionisti d’arte.
La valenza estetica della città è un elemento che non è disgiunto dalla vita quotidiana: la bellezza della città
è qualcosa da saper cogliere, come la bellezza dell’arte, quella che non riusciamo a comprendere,
soprattutto. «Mentre attraversavamo San Francisco, Jack drizzò la testa e cominciò a fare commenti sulle
case e sul traffico. Ovviamente la città lo eccitava, in maniera di certo non sana. (…) Quando imboccammo
il Golden Gate nessuno dei due prestò la minima attenzione all'incredibile panorama della città e della baia e
delle colline di Marin; entrambi mancavano della capacità di godere le cose da un punto di vista estetico; a
Charley bastava che avessero un valore finanziario e a Jack che fossero... che cosa? Dio solo lo sa»: questo
passo dalle Confessioni di un artista di merda di Philip K. Dick è oltremodo significativo. Un ulteriore
elemento di difficoltà nella comprensione dei significati della struttura urbana è dato dall’intrecciarsi di
parole e segni che si sovrappongono al messaggio urbano. Lamberto Pignotti (PubbliCittà) sostiene infatti
che «La società odierna sta usando la città nel senso in cui lo scrittore usa la carta. In altre parole la struttura
urbana viene semplicemente utilizzata come un medium, un supporto, per ulteriori tipi di comunicazione.
(…) La sovrapposizione massiccia ed estesa di elementi emanati da altro codice alla struttura della città per
scopi pubblicitari, propagandistici, commerciali, funzionali, alter
ovviamente di essa il significato originario, specialmente nei centri storici, ma anche in alcuni dei più
rilevanti episodi di architettura moderna».
L’avvento della telematica – nata dalla integrazione fra tecnologie di telecomunicazione e tecnologie
informatiche – con la possibilità di elaborazione e trasmissione di grandi quantità di informazioni «ha
impresso una accelerazione senza precedenti allo sviluppo delle telecomunicazioni, contribuendo in
modo determinante al processo di globalizzazione economica e alla nascita della società dell'informazione».
(Manlio Dinucci) Ma è anche aumentata a dismisura la concentrazione del potere economico - e di fatto di
quello politico - con la nascita di poche multinazionali della comunicazione. Grazie al diffondersi di nuovi
strumenti comunicativi, compresa la rete di Internet, negli ultimi anni si sono configurati, secondo
Armand Mattelart,
«nuovi modelli di potere ed egemonia culturale», così che al concetto di villaggio globale, oggi si sostituisce
quello di «società globale dell’informazione», fondato sul potere delle tecnologie dell’informazione: una
quantità sempre maggiore di interstizi della vita sociale e professionale è infatti permeata dalle nuove
tecnologie intellettuali e «la fabbrica di produzione dell'immaginario legato alla nuova età
dell'informazione lavora ormai a pieno regime».
Anche Jean-François Lyotard ha evidenziato che con l’avvento della società postindustriale il sapere e le
istituzioni che lo producono cambiano di statuto e «il paradigma tecnico-informativo» diviene l’asse di un
progetto geopolitico, con lo scopo di garantire la riorganizzazione economica del pianeta. Questo tipo di
sviluppo non è però — come è sempre stato — uniforme, ma esiste una frattura digitale, o digital divide:
«mentre si accendono le promesse delle autostrade dell’informazione, una moltitudine di paesi o regioni del
pianeta non è fornita di una rete stradale nazionale degna di questo nome e seicentomila villaggi sono
sprovvisti di luce elettrica!». Per Paul Virilio lo sviluppo della rete delle telecomunicazioni avrà come
conseguenza la nascita di una meta-città che esiste solo in virtù dell’urbanizzazione delle
telecomunicazioni: «un centro che è contemporaneamente ovunque e in nessun luogo», al quale si accede
grazie alle nuove tecnologie, e una grande periferia completamente scollegata.
A proposito del rapporto tra informazione, rete ed economia, Federico Rampini nel volume Rete padrona
sottolinea che «La Silicon Valley, e con essa tutta l'economia digitale, è il terreno di uno scontro continuo,
inestinguibile, tra due anime: quella anarchico-libertaria e quella del capitalismo monopolistico. A volte gli
stessi individui nel corso della loro traiettoria passano da un campo all'altro. Purtroppo l'evoluzione è quasi
sempre unidirezionale: idealisti da giovani, avidi di potere da "vecchi"» però «Gates capì che il computer
invece poteva diventare un elettrodomestico di massa, alla portata di tutti. Una rivoluzione democratica, in
un certo senso: portando un pc, un "personal computer", in tutte le case e su tutte le scrivanie, Gates avrebbe
dato un contributo decisivo alla diffusione dell'informazione. Era il passaggio preliminare, preparatorio,
verso Internet. Facebook e Twitter seguono percorsi analoghi: nati come giocattoli per ragazzi, per renderci
tutti più vicini tra noi, più amici e comunicativi, si trasformano velocemente in macchine di distruzione della
nostra privacy, ci spiano per vendere le informazioni sui nostri gusti e sui nostri consumi al migliore
acquirente».
Ancora Rampini commenta «Ci vuole il genio di un romanziere di San Francisco, poco esperto di tecnologie
ma dotato di intuizione e di preveggenza, per descrivere questo mondo dominato dai "cattivi" di Internet. C'è
riuscito infatti Dave Eggers con il suo romanzo The Circle ("Il Cerchio"), una formidabile allegoria
orwelliana del nuovo totalitarismo digitale, abile nel mascherarsi dietro le bandiere progressiste, pronto a
schierarsi con tutte le cause nobili per la salvezza del pianeta, ma spietato nel sorvegliare le nostre anime»
anche se «La rapidità delle rivoluzioni tecnologiche può farci paura, ma guai a ignorarne gli aspetti esaltanti.
In molte parti del mondo il telefonino è uno strumento di emancipazione e di sviluppo attraverso la libertà di
comunicare. In Africa ci sono più abitanti col telefonino di quanti abbiano accesso all'acqua potabile o a una
toilette igienica collegata a un sistema fognario. Intervistati sull'utilità del telefonino, i più entusiasti del
mondo (oltre 90% di risposte positive) sono gli indiani e i brasiliani, seguiti a breve distanza dai cinesi. Per
molti di loro lo smartphone è il primo e unico telefono che abbiano mai avuto».
I processi della globalizzazione si stanno estendendo anche al mondo dell’arte: gli storici dell’arte
Roberto Pinto - nel volume Nuove geografie artistiche ha esaminato il fenomeno del moltiplicarsi, negli
ultimi anni, delle biennali d’arte a livello globale – e Marco Meneguzzo (Breve storia della
globalizzazione in arte) hanno analizzato le trasformazioni che hanno portato negli ultimi vent’anni i paesi
emergenti (i cosiddetti BRICS, in particolare) ad assimilare il sistema dell’arte occidentale per adattarlo e
modificarlo alle esigenze e alle attitudini peculiari della propria cultura e dei propri mercati, sino a
ipotizzarne – come fa Meneguzzo - un mutamento radicale, quando descrive i cambiamenti del «sistema
dell’arte occidentale che, non ancora riassestatosi dai rivolgimenti della Postmodernità, si trova oggi a
misurarsi con altri modelli di sviluppo solo in apparenza analoghi, ma sostanzialmente forieri di grandi
cambiamenti che nel breve-medio periodo potrebbero mettere in discussione proprio lo stesso sistema
occidentale». Tuttavia questi processi presentano forme di originalità, perché a un mondo che aveva il suo
unico centro in Europa e negli Stati Uniti ne sta subentrando uno che abbraccia anche quelle aree del mondo
che ne erano sempre state escluse, con un fiorire planetario di Fiere e Biennali: «Un curioso servizio fornito
da Google Maps mostra sul planisfero la diffusione delle biennali d'arte attualmente presenti nel mondo, tra
grandi e piccole: è una mappa affollatissima, punteggiata di quei tag ormai consueti con cui su Google si
segnalano i punti d'interesse, tanto numerosi da essere praticamente non conteggiabili». (Marco
Meneguzzo).
Nell’epoca attuale della globalizzazione — con il definitivo affermarsi del capitalismo finanziario — lo
sviluppo delle comunicazioni ha assunto un’importanza sempre maggiore: in un’epoca in cui il vero potere è
nelle mani di pochi gruppi economici planetari e di imprese globali, il cui peso negli affari del mondo supera
non di rado quello dei governi e degli Stati, la rivoluzione digitale ha abbattuto i confini che separavano le
tradizionali forme di comunicazione, permettendo lo sviluppo di quel nuovo modo per comunicare che è
Internet.
Questo fatto ha cambiato quindi anche regole dell’industria culturale, ma anche le dinamiche del potere,
secondo Ignacio Ramonet: «La rivoluzione digitale ha spazzato via i confini che separavano le tre forme
tradizionali di comunicazione: suono, scrittura e immagine. E ha permesso l'apparizione e la rapida
affermazione di Internet, che rappresenta un quarto modo per comunicare, e un modo nuovo per esprimersi,
informarsi e distrarsi». Le imprese mediatiche accorpano ora in sé tutti i media classici (stampa, radio,
televisione), ma anche tutte le attività dei settori della cultura di massa, della comunicazione e
dell'informazione. Queste tre sfere, che un tempo erano autonome e «tanto diverse tra loro, si sono con
l'andar del tempo saldate insieme per costituire una sola e unica sfera ciclopica, in seno alla quale diventa
sempre più difficile distinguere le attività appartenenti alla cultura di massa, alla comunicazione o
all'informazione». (Ignacio Ramonet, Il quinto potere, Le Monde Diplomatique)
In fondo, questo lo avevano già delineato quarant’anni prima Horkheimer e Adorno nella loro analisi della
industria culturale: «La civiltà attuale conferisce a tutti i suoi prodotti un'aria di somiglianza. Il film, la radio
e i settimanali costituiscono, nel loro insieme, un sistema». E in modo simile avevano descritto lo sviluppo
della città, di cui abbiamo già parlato: «le sedi decorative delle grandi amministrazioni e delle esposizioni
industriali non sono molto diverse nei paesi autoritari e negli altri». I due maestri della Scuola di Francoforte
ci descrivevano «palazzi monumentali, tersi come cristalli, che si vedono spuntare da tutte le parti», e oggi
vediamo palazzi di cristallo sorgere e moltiplicarsi anche nei paesi emergenti, dove il riverbero dei cristalli
rende il clima ancor più torrido. E il perché ce lo avevano spiegato nella loro analisi della Dialettica
dell’illuminismo: le tecniche riproduttive ripetitive non sono una esigenza meramente tecnica, ma «la
razionalità tecnica di oggi non è altro che la razionalità del dominio».
Trasformandosi in società dell’informazione, la società industriale trasforma anche l’oggetto della sua
produzione: sulla produzione di beni prevale la produzione immateriale. Non si tratta solo della scomparsa
di tradizionali supporti, come nel campo della musica, si tratta di format televisivi, di know how
tecnologico, di brevetti, di diritti di riproduzione, del vendere i diritti sui prodotti prima che i prodotti stessi.
IL SISTEMA DELL’ARTE CONTEMPORANEA: E ALLORA, CHE COSA È L’ARTE E CHI È
L’ARTISTA?
« - Nel mercato attuale, sa - disse Roddy, con la bocca piena di blinis al salmone affumicato - è da ingenui
pensare che si possa promuovere il lavoro di un artista a prescindere dalla sua personalità. Un'immagine ci
deve pur essere, qualcosa che si possa vendere ai giornali e alle riviste. Non importa quanto siano
meravigliosi i quadri, se poi non si ha niente di interessante da dire su di sé quando la giornalista
dell’Independent viene a fare un'intervista, allora sì che son guai. Phoebe ascoltava in silenzio. Già.
Perché, malgrado il suo dichiarato interesse per la sua personalità, sembrava che Roddy la volesse proprio
così. - Anche la fotogenia è importante, naturalmente. Sorrise compiaciuto. - Ma credo che lei, in questo
campo, non abbia alcun problema». (Jonathan Coe, La famiglia Winshaw)
«Era un cattivo momento per tutte le arti. L’originalità era in declino. Anche nella gastronomia c’erano un
declino e un indebolimento. Tutti i prodotti della cucina che si definivano nuovi non erano altro che varianti
di piatti già noti» (Fernando Pessoa)
«Uno dei principi delle avanguardie storiche è stato quello dello scandalo una sorta di schiaffo al buon gusto
del pubblico che si sente garantito dalla cornice del museo e vuole invece galleggiare nella palude entropica
dei valori costituiti: il codice come conferma. L'arte è smottamento, catastrofe, spostamento, attività
tellurica, irruzione dell'immaginario soggettivo nell'equilibrio tettonico dei linguaggi: introduzione della
rottura. Da qui il lavorare sistematicamente e preventivamente, attraverso manifesti di guerra. Avanguardia,
termine desunto dai codici militari, un drappello che procede più avanti rispetto alla massa degli artisti e al
gusto collettivo», sostiene lo storico dell’arte e critico Achille Bonito Oliva, mentre «Di tutte le
caratteristiche dell'arte così come si è sviluppata in occidente, certamente la più funzionale al sistema che
l'era borghese vi avrebbe costruito attorno è il fattore novità, cioè l'idea che l'introduzione di elementi, di
forme, di relazioni nuove e sorprendenti all'interno dell'opera sia innanzitutto un valore, e poi che questo
valore condizioni la percezione di tutto il lavoro» afferma Meneguzzo, interrogandosi anche sul fatto che «la
vera incognita della globalizzazione in arte» è se il sistema reggerà all'impatto dei nuovi mercati. «In altre
parole, in quale misura si modifica il sistema iniziale - inventato e sviluppato in occidente - quando è
adottato nei paesi emergenti?»
«Chi disegna i confini dell'arte?» si interroga Massimo Carboni, che parte da una affermazione di Nigel
Warburton: «Nel 1913 si celebra il rito di fondazione dell'arte contemporanea: Marcel Duchamp, fino ad
allora pittore, espone una ruota di bicicletta come opera d'arte. Nel 1959, Yves Klein, nella galleria di Iris
Clert, lascia lo spazio completamente vuoto, e quella è la sua mostra. Negli anni Sessanta, Andy Warhol
espone le “sue” scatole di detersivo Brillo, e Daniel Spoerri incolla sulla superficie piatti, bicchieri e
stoviglie sporche. Nel 1993 Mark Wallinger battezza un bel cavallo da corsa A real work of art e il belga
Francis Alys, all'ultima Biennale veneziana, ha mandato a rappresentarlo The Ambassador, un pavone
vivo. Sarebbero esempi estremi se ormai non fossimo abituati a quelle che un gergo stucchevole e
stereotipato si ostina a chiamare provocazioni. Resta il fatto che buone regole di ginnastica mentale ci
invitano a considerare tuttora salutare domandarsi che cosa queste provocazioni abbiano in comune con un
torso di Prassitele, o con la Deposizione del Pontormo o anche con un quadro cubista di Braque, dato che
continuiamo, in mancanza di meglio, a riunire il tutto sotto il termine-ombrello di arte». (Nigel Warburton,
La questione dell'arte)
Molti studiosi hanno posto il problema dell’arte all’epoca della globalizzazione, come Achille Bonito Oliva
e Anna Maria Nassisi che, nella introduzione alla raccolta di saggi Estetiche della globalizzazione
ribadiscono che «il passaggio dal moderno al postmoderno avviene sullo spettacolare crinale che noi
chiamiamo globalizzazione, che ha unificato modi di vita, linguaggi e culture e nello stesso tempo ha
aperto una inedita crisi del rapporto tra l’arte e le grandi masse.
Dominante diviene il passaggio dalla produzione dell’oggetto artistico a un oggetto sempre più carico di
esteticità (…) l’oggetto artistico si identifica sempre più con l’oggetto estetico e terreno privilegiato del suo
apparire divengono mass media e realtà virtuali». In altri due saggi, contenuti nello stesso volume, Paolo
Balmas si interroga su Globalizzazione e derealizzazione nell’arte contemporanea: «produttore o
consumatore che sia, il soggetto economico globalizzato non potrà che uniformarsi alle stessi leggi di
mercato e agli stessi modelli di efficienza» mentre Marco d’Eramo disserta sul fantasma che ci ossessiona
nella mondializzazione, ossia «che tutto divenga uniforme, che ogni differenza sia spazzata via dalla
modernizzazione, dalla tv, dall’americanizzazione, che le identità culturali siano cancellate dalla
standardizzazione dei modi di vita, da McDonalds a Michael Jackson. Che ci venga sottratto il nostro
passato, che ci siano strappate le radici. Insomma che ci sia rubata la nostra identità. E così il mondo di oggi
ci appare come un interrotto guerreggiare tra una mondializzazione che appiattisce e una differenza che
resiste». Ho parlato di sopravvivenza del self, D’Eramo ricorda invece che lonspazio estetico
«diventa il luogo privilegiato per il movimento dell’individuo verso una piena realizzazione di sé» e insiste
sulla necessità di una «attività artistica come libera espressione delle facoltà creative» in cui l’arte si
trasformi in esteticità diffusa, con chiaro riferimento alla Dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e
Adorno: «L’arte, la dimensione estetica assumono un ruolo di opposizione nei confronti non solo della
razionalità tecnica, che è al fondamento della odierna società di massa e della moderna industria culturale,
ma anche di ogni altra forma di sapere».
Secondo Nathalie Heinich con l’arte moderna «si era già sperimentata una serie di trasgressioni plastiche
alle regole tradizionali dell'arte», ma con l’arte contemporanea «la trasgressione non riguarda soltanto i
quadri estetici ("quadro" può essere inteso anche in senso letterale, come nel caso di Franck Stella), ma
anche i quadri disciplinari (con la mescolanza di espressioni plastiche, letterarie, teatrali, musicali,
cinematografiche), perfino i quadri morali e quelli giuridici. Trasgressione particolarmente evidente perché
riguarda i materiali stessi, come nel caso delle installazioni, delle performance o della videoarte».
Rispondendo alle domande di Arianna Di Genova, l’artista Giulio Paolini afferma di essere
«fermamente convinto - anche se non lo posso dimostrare perché nulla in arte si può dimostrare, ma solo
argomentare - che l'autore non debba essere un artefice sorgivo, non è lì per trasmettere qualcosa della sua
interiorità o intimità. Al contrario, è qualcuno che viene toccato - il termine è discutibile - da uno stato di
grazia. Si sente interprete di qualcosa che c'è già e, in un certo senso, lo trascende e precede».
Potrebbe sembrare presuntuoso, ma Paolini – che è artista di grande rigore formale - è sicuramente uno dei
più importanti artisti non solo italiani, ma soprattutto ha il merito di riportare alla mente le considerazioni di
Gregory Bateson nel saggio Stile grazia e informazione nell’arte primitiva, in cui tratta i temi a lui cari
dell’inconscio e dei codici della comunicazione e ribadisce:
«io sostengo che l’arte è un aspetto della ricerca della grazia da parte dell’uomo; la sua estasi a volte,
quando in parte riesce; la sua rabbia e agonia, quando a volte fallisce».
Come dice Bonami è vero che i grandissimi sono molto rari, infatti – conferma Meneguzzo «Da almeno
vent'anni l'arte del mondo occidentale è scandita semplicemente da variazioni su temi già conosciuti e ben
maneggiati dalle generazioni di artisti più vecchi. Con scarsissime eccezioni, tutte le manifestazioni
artistiche più importanti dell'ultimo decennio - come la Biennale di Venezia o Documenta di Kassel -
hanno mostrato come gli artisti esposti, tra i giovani e i giovanissimi, in fondo riproponessero modalità già
sperimentate da generazioni precedenti, con varianti sempre più infinitesime e invisibili».
Siamo in presenza del fatto che nella attuale condizione del mercato si produce ciò che è vendibile e,
soltanto una volta arrivati al successo, gli artisti avrebbero la possibilità di liberarsi dai condizionamenti, in
quanto «il prestigio della firma dà loro un potere contrattuale sufficiente per
imporre, a loro volta, condizioni ai mercanti» - come, in maniera totalmente condivisibile, ragiona Poli. Si
tratta però di una liberazione relativa «perché per rimanere sulla cresta dell’onda bisogna necessariamente
continuare a produrre opere in linea con il cliché stilistico che ha determinato, in precedenza, il successo».
Abbiamo citato esperti d’arte come Sgarbi e Daverio, noti al grande pubblico in quanto personaggi
televisivi; i curatori delle Biennali sono molto meno noti dei banditori delle televendite, e alcuni artisti
presenti solo in quei programmi sono più conosciuti dei grandi artisti contemporanei. Di Cattelan il grande
pubblico conosce forse qualche opera a causa del dibattito che ha suscitato, ma non certo i titoli di queste
opere e la poetica che sottende questi lavori.
Annigoni non compare in alcuna storia dell’arte ma i rotocalchi lo hanno a lungo osannato come il pittore
dei re e delle regine, i cui quadri si definiscono per la tecnica oleografica rassicurante affettata e realistica-
soft tipica dei pittori di strada, che fanno lo stesso ritratto in ogni parte del mondo (anticipando la
globalizzazione?), da piazza Duomo a Milano, a Firenze o Montmartre, assecondando il gusto medio, la cui
unica alternativa è la caricatura grottesca che amplifica i tratti salienti del soggetto. L’unico elemento
comune tra l’arte contemporanea e la musica pop invece, sembra essere l’età: «Come le popstar, l’artista
deve essere sempre più giovane, sempre più nuovo, sempre più fresco». (Meneguzzo)
Per concludere due riflessioni: nella prima pensiamo ai grandi artisti del Rinascimento e alle loro botteghe:
essi non erano solo grandi imprenditori, ma vere e proprie star contese da re, principi e papi. La seconda
riguarda una visita a una mostra di “pittura”: alla luce di quanto detto finora non dobbiamo stupirci se
troviamo esposta una proiezione cinematografica oppure una fotografia. Lo scrittore e semiologo Salvatore
Zingale - che ha individuato la prassi dell’arte nel saper fare («saper fare: questa è la utilità dell’arte
stessa») - ha messo al centro della sua ricerca il tema dell’abduzione, come capacità di ipotizzare scenari
possibili e plausibili. «L’inventiva è “arte del trovare”, è il processo mentale che anima ogni frase di
un’azione di progetto. L’abduzione è “astuzia dell’intelligenza”, il salto che permette di spostare il pensiero
verso nuove immaginazioni. È il procedere di modello in modello, di visione in visione, fino a scovare
l’immagine cercata. L’immagine che inventa un mondo possibile».
E piena di speranza è anche la conclusione cui giungono Dal Lago e Giordano, per cui «non tutto è arte e
ben pochi sono artisti» (ovviamente). Eppure, «ammettere che qualsiasi cosa può diventare arte e che
chiunque può essere artista, lungi dal configurarsi come un relativismo an- estetico, rappresenta, a nostro
parere, un riconoscimento delle potenzialità artistiche di chi, per qualsiasi motivo, è escluso o non
riconosciuto dalle guardie confinarie dell'esclusivismo estetico. Significa guardare all'universalità potenziale
dell'arte. Se è vero che è opera d'arte ogni “cosa” capace di suscitare sentimenti (ma anche pensieri), in chi la
fruisce, in chi la gode (e anche in chi ne è respinto), perché limitare tale capacità a chi è convenzionalmente
etichettato come artista? Azzardiamo qui che - rinunciando in via sperimentale, ai canoni, e se vogliamo, ai
pregiudizi, di una certa filosofia dell'arte, si aprono alla fruizione artistica territori imprevedibili e
affascinanti». Anche perché, continuiamo noi, ci sono ancora tantissimi artisti che, nelle mille contraddizioni
del mercato, continuano romanticamente a credere nell’arte come mezzo di trasformazione del mondo.
POSCRITTO

Nei giorni in cui terminavo la prima stesura di questo saggio, impazzava sul web il video Beauty
(http://vimeo.com/83910533) presentato dagli autori come “A path of sighs through the emotions of life.
A tribute to the art and her disarming beauty” e rilanciato da www.lastampa.it: «I classici dell’arte si
animano con la magia del digitale. I grandi capolavori del simbolismo, manierismo, paesaggismo,
romanticismo e neoclassicismo diventano animati. Il progetto di Rino Stefano Tagliaferro trasforma i gesti
“congelati” dei dipinti in animazioni digitali». Vi invitiamo a visionare il video, aggiungendo soltanto il
commento che abbiamo postato su Facebook: «L'ideale estetico dell'accordo categorico con l'essere è un
mondo dove la merda è negata e dove tutti si comportano come se non esistesse. Questo ideale estetico si
chiama Kitsch». (Milan Kundera, L'insostenibile leggerezza dell'essere) Questo video è il kitsch
assoluto, è pura pornografia! Detto in modo comprensibile a tutti: merda.

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