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Radio, cinema, Tv. Comunicare la società dello spettacolo. Dai modi della visione di massa
alla visione individuale condivisa.
Quando Howard aveva cominciato a pubblicare i suoi primi saggi critici su riviste che Harold non si sarebbe
mai sognato di comprare, un cliente era arrivato in macelleria con un ritaglio in cui suo figlio tesseva lodi
entusiastiche di Merda d'artista di Piero Manzoni. Harold aveva chiuso bottega ed era andato alla cabina
telefonica in fondo alla strada con una manciata di monetine. «Merda in scatola? Perché non ti occupi di
cose belle come la Gioconda? Tua madre ne sarebbe stata così orgogliosa. Merda in scatola?» (Zadie
Smith, Della bellezza)
«Oh Emma…». Nello spot francese che pubblicizza una carta igienica Emma, la moglie irrisa dal marito per
l’utilizzo di tecnologie meno evolute delle sue, passa all’uomo seduto sul water un tablet con
l’immagine di un rotolo della preziosa e insostituibile carta…
Fin dalla metà degli ottanta si è posto il problema della portata dell’avvento del digitale sulla vita quotidiana,
in particolare grazie alla mostra Les Immatèriaux, curata dal filosofo Jean-Francois Lyotard, uno dei più
attenti studiosi della cosiddetta post-modernità, secondo cui la dematerializzazione portata dal digitale si
scontra inevitabilmente con la materialità degli oggetti, dei prodotti di massa immessi sul mercato, dando
luogo a delle irrealtà virtuali e contemporaneamente mutando il paesaggio urbano e le modalità della
comunicazione.
Non è tuttavia pensabile di affrontare questa rivoluzione della comunicazione e della vita quotidiana senza
ricordare i caratteri di quelle precedenti, soprattutto se si vuole analizzare il sistema delle arti visive
nell’epoca della globalizzazione e della evoluzione delle tecnologie, ma anche della mutazione dell’arte a
partire dalla metà dell’Ottocento, non a caso in coincidenza con la nascita della fotografia. Nonostante il
radicale cambiamento delle modalità tecniche della produzione e circolazione delle immagini e
dell’informazione, nonché delle modalità della fruizione, è infatti possibile utilizzare i parametri già
utilizzati per analizzare e comprendere i media che li hanno preceduti.
L’uomo non comunica soltanto attraverso gli strumenti appositamente messi a punto nel corso della storia,
dalla parola alla scrittura fino alle più complesse tecnologie informatiche, l’uomo comunica anche attraverso
quello che produce e quello che costruisce per fini utilitaristici, si tratti di case – o comunque di edifici
oppure di giardini – e allora siamo nel campo dell’architettura, di oggetti - e siamo nel campo del design,
dove l’estetica si sposa alla funzionalità – e ancora si comunica con il modo con di come ci si veste o ci si
acconcia – e allora è la moda - e persino il cibo è fatto comunicativo - soprattutto nella sua ritualità, ma
anche nel packaging. In questo senso è fatto comunicativo anche il corpo umano, alla ricerca di una propria
identità e della volontà di esprimerla sempre e comunque – anche in un’epoca come la nostra che tende alla
omogeneizzazione - e che possiamo definire come sopravvivenza del self.
Nel caso dell’arte – soprattutto di quella contemporanea – ci si deve confrontare però anche con il problema
della comprensione e dell’interpretazione: il campo della soggettività come metro di interpretazione si
scontra con la oggettività dell’arte stessa. «La soggettività, e quindi la diversità, è uno dei tratti caratteristici
dell’essere umano, sia che esprima giudizi di valore o descriva ciò che vede; ma il nostro metro di giudizio o
il nostro modo di guardare sono condizionati dalla cultura cui apparteniamo, dalle nostre conoscenze, dai
nostri valori» (GB, Leggere la società). L’arte è una forma di espressione fortemente legata ai processi
culturali e richiede quindi una lettura adeguata, ricordando che non può esistere una assoluta oggettività
nella contrapposizione bello/brutto o arte/non-arte; non è un azzardato dire che anche in questo campo è
necessario quanto vale per l’analisi sociologica in generale, ovvero «saper usare quella che il sociologo
americano Wright Mills ha definito immaginazione sociologica, cioè la capacità di rinnovare
continuamente le metodologie di ricerca per poter comprendere e valutare il contesto dei fatti storici, dei
suoi riflessi sulla vita interiore e sui comportamenti degli individui» (GB)
ARTE, SOCIETÀ, CULTURA, COMUNICAZIONE
Lo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa permette un più frequente contatto tra differenti culture,
mentre i fenomeni legati alla globalizzazione offrono forme planetarie di condizionamento con cui deve
sempre più fare i conti l’autonomia dell’individuo Anche gli individui più consapevoli non sono sempre
indenni da questi condizionamenti, in una società sempre più anomica in cui il legame sociale e la solidarietà
si indeboliscono sempre più, a fronte del fiorire di strutture comunicative definite “social” , dove le
“amicizie” hanno spesso un significato ben diverso da quello reale.
Se la cultura di una società - intesa come insieme di comportamenti e di modi di pensare comuni che
esercitano un costante condizionamento dei comportamenti collettivi e individuali - è l’espressione di una
complessità al cui interno ogni individuo si deve destreggiare per interagire con gli altri membri della
comunità e il sapere umano non è innato, ma appreso, ne consegue che con la nascita della scrittura e la
conseguente capacità di astrazione si sviluppa ulteriormente la possibilità di compiere atti simbolici.
L’interazione simbolica è dunque uno degli aspetti comunicativi più importanti del comportamento umano, a
partire dalla parola e dalla gestualità fino alle espressioni più complesse dell’arte. In ogni caso la conoscenza
dei codici specifici è alla base di una più efficace comunicazione e comprensione: per comprendere l’arte è
quindi necessario conoscerla – non basta l’istinto, mentre il gusto è prodotto della cultura – perché, come
sostiene Goffman, il fondamento della interazione è lo scambio di messaggi fondati sulla comune cultura,
quindi su significati condivisi. Lo scambio nell’era di Internet assume nuove modalità di interazione: è
quindi sempre più necessario sviluppare la consapevolezza e la capacità interpretativa dell’individuo,
nonostante le modalità della comunicazione tendano a limitare questa consapevolezza. Abbiamo citato la
immaginazione sociologica di Wright Mills, vogliamo ricordare la teoria dell’attore sociale di Luciano
Gallino, secondo cui l’individuo che agisce all’interno del contesto di una società deve essere in grado di
fornire la propria interpretazione, «perché la vita umana si svolge in un contesto comunicativo e i bisogni
umani sono più complessi di quelli puramente biologici», mentre la cosiddetta comunicazione “social”
sembra ridurre al minimo questa complessità.
L’ARTE, LA SOCIETÀ MODERNA, LO SVILUPPO DELLA CITTÀ
Uno dei nodi centrali dell’analisi che da tempo conduco sullo sviluppo della città come luogo tipico della
modernità ruota sui cambiamenti culturali che hanno caratterizzato il processo che ha portato alla
industrializzazione dei processi produttivi e al conseguente rovesciamento dei modelli della vita quotidiana
all’interno di una città che è divenuta luogo dell’estetica diffusa.
Le radici di questo fenomeno sono da ricercare nella nascita del mondo moderno: accanto ai grandi
cambiamenti economici e politici quali crisi del sistema feudale, nascita delle banche,
mercantilismo, nascita degli stati nazionali e rinascita della città, mi piace ricordare la nascita della
prospettiva - ad opera di artisti quali Brunelleschi e Leon Battista Alberti – che non dobbiamo intendere
soltanto come una tecnica di rappresentazione della realtà, ma un modo nuovo di vederla, sintomo di un
diverso atteggiamento mentale e culturale. «Per le caratteristiche visuali della prospettiva centrale è
significativo che essa sia stata scoperta in un momento e in un luogo solo di tutta la storia dell'umanità» ha
scritto Rudolf Arnheim, ed effettivamente la portata del Rinascimento va molto oltre il semplice ambito
della pittura. L’artista comincia «a sentirsi libero dai desideri del committente e a trasformarsi da produttore
per il cliente in produttore di merce», cambiando così la natura della produzione e comunicazione artistica
«come conseguenza diretta del rapporto impersonale che si stabilisce tra compratore e opera d’arte, tra
compratore e artista» (Hauser)
ALCUNE NOTE SULL’ANALISI DEI FENOMENI COMUNICATIVI
Non può esistere analisi dei fenomeni comunicativi nell’epoca della visione di massa che non tenga conto
del pensiero di Walter Benjamin - comunque troppo spesso banalizzato e malinterpretato a proprio uso e
vantaggio - e dalla sua analisi sulle allora nuove tecniche di comunicazione e il loro carattere di massa che
ha trovato forma nel saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica.
Tornerò sul ruolo della fotografia nell’era di internet e instagram, tuttavia non possiamo dimenticare che la
fotografia aveva messo in crisi l’essenza stessa dell’arte a causa della riproduzione di qualcosa che non
sarebbe in sé riproducibile. L’aura, ossia «l’originario aspetto magico e sacro di un’opera d’arte, che si
perde con la sua trasformazione in un oggetto di consumo tecnicamente riproducibile» (GB) è definita da
Benjamin come «Un singolare intreccio di spazio e tempo: l’apparizione unica di una lontananza, per quanto
possa essere vicina. Seguire placidamente in un mezzogiorno d’estate, una catena di monti all’orizzonte
oppure un ramo che getta la sua ombra sull’osservatore, fino a quando l’attimo, o l’ora, partecipino della
loro apparizione — tutto ciò significa respirare l’aura di quei monti, di quel ramo». Siamo quindi nel campo
delle sensazioni più che dell’oggettività, ma che sono sostenute da una concretezza filosofica che regge
ancor oggi, in quanto l’evoluzione della tecnologia ha confermato alcune sue intuizioni, mentre altre sono
state messe in crisi. Benjamin «ha individuato nella fotografia — che anticipa a sua volta il cinema — un
movimento rivoluzionario nella storia dell’arte, il momento della trasformazione di un sistema a oggetto
unico, quale è l’opera d’arte, circondata appunto dall’aura, in oggetto artistico moltiplicato». Sebbene oggi
sia evidente la portata comunicativa ed estetica di una tiratura fotografica in più copie o di una serigrafia
(pensiamo ad Andy Warhol), il suo lavoro resta comunque fondamentale negli studi sui mezzi di
comunicazione, spostando il problema dell’aura dell’opera d’arte alla produzione di qualcosa che a volte è
arte e spesso non lo è. Affronterò in seguito il tema dell’arte e della rete, ma basti pensare ora ai videoclip
musicali nati negli anni ottanta o ai filmati postati su Youtube.
Benjamin non affronta solo il tema della riproducibilità ma anche quello della produzione: «con la
fotografia, nel processo della riproduzione figurativa, la mano si vide per la prima volta scaricata delle più
importanti incombenze artistiche, che ormai venivano ad essere di spettanza dell’occhio che guardava dentro
l’obiettivo. Poiché l’occhio è più rapido ad afferrare che non la mano a disegnare, il processo della
riproduzione figurativa venne accelerato al punto da essere in grado di star dietro all’eloquio. L’operatore
cinematografico nel suo studio, manovrando la sua manovella, riesce a fissare le immagini alla stessa
velocità con cui l’interprete parla». In una sola frase ridefinisce tutta la storia dell’arte del Novecento!
Benjamin ci svela che «nella litografia era virtualmente contenuto il giornale illustrato» mentre «nella
fotografia si nascondeva il film sonoro», ma è anche in grado di cogliere una suggestione di Paul Valéry, che
preannuncia la nascita della televisione, se non addirittura di Internet: «Come l’acqua, il gas o la corrente
elettrica, entrano grazie a uno sforzo quasi nullo, provenendo da lontano, nelle nostre abitazioni per
rispondere ai
nostri bisogni, così saremo approvvigionati di immagini e di sequenze di suoni, che si manifestano a un
piccolo gesto, quasi un segno, e poi subito ci lasciano». Oggi possiamo senza esitazione affermare che
televisione e Internet hanno portato a compimento questa profezia. In particolare la pubblicità televisiva
sembra portare alle estreme conseguenze quanto aveva osservato Harold Garfinkel rispetto ai
comportamenti quotidiani, per scoprire quanto viene dato per scontato e il
«non-detto che prevale su quel che viene detto in quanto fatto noto a entrambi» e senza di cui l’interazione
non sarebbe possibile, ovvero alla metacomunicazione «costituita dai messaggi indiretti che accompagnano
la comunicazione verbale e ne definiscono meglio il contesto». Goffman nel saggio La vita quotidiana
come rappresentazione analizza quindi l'espressività dell'individuo, la interazione sociale e la modalità di
trasmissione delle informazioni. Per lui è importante il campo della interrelazione, della gestione della
propria identità e della rappresentazione della vita quotidiana «dove l’azione è condizionata dal modo in cui
si cerca di apparire, e dove tuttavia il copione è scritto solo in parte» poiché esiste la possibilità
di
«manifestare o comunque difendere la propria identità individuale». Ernst H. Gombrich ha cercato di
definire i metodi di studio dei processi psicologici della percezione, «dimostrando che l’arte non nasce dalla
natura, bensì dall’arte stessa e dalla sua conoscenza, mentre la notorietà del primo studioso dei sistemi di
comunicazione di massa Marshall McLuhan è legata alla paradossale affermazione «il medium è il
messaggio»: la natura del mezzo impiegato nel processo di comunicazione sarebbe quindi più importante del
contenuto stesso del messaggio. Vedremo più avanti come gli studiosi del network affermino oggi come la
rete stessa sia il messaggio.
Se Benjamin aveva individuato il problema della spettacolarizzazione della merce, Guy Debord ha portato
all’estremo questo discorso di Benjamin nel saggio La società dello spettacolo, in cui sviluppa una critica
radicale della società capitalistica e dell'industria culturale, del consumismo e dei mezzi di comunicazione
di massa. La società sarebbe divenuta un grande spettacolo, che
«non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui mediato dalle immagini», in modo che
«tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione», con la conseguenza che ci si
accontenta di osservare invece che sperimentare direttamente. A partire da una citazione di Feuerbach
secondo cui si «preferisce l'immagine alla cosa, la copia all'originale, la rappresentazione alla realtà,
l'apparenza all'essere» Debord afferma che «Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una
rappresentazione».
La vita ai tempi della rete sembra sempre più una relazione artificiale, fatta di incontri digitali più che reali:
persino aspetti più materiali – e fondamentali – della vita umana come il sesso e il cibo divengono “cyber”…
Gregory Bateson, fondatore della ecologia della mente, ha osservato la realtà sottolineando l’esistenza di
Una sacra unità tra mente e natura e di un doppio legame in ogni tipo di relazione, elaborando la
teoria del doppio vincolo (double bind). La comunicazione umana non è fatto solo di contenuti ma è anche
un discorso sulla relazione tra i soggetti che comunicano; anche in Bateson troviamo infatti un «livello
metacomunicativo - che costituisce la cornice in cui operare - che è integrato dal linguaggio del corpo, dalla
comunicazione non-verbale (cinetica), che costituisce la ridondanza, un elemento che permette di integrare
le parti mancanti del messaggio. Questo codice cinetico non solo permette il discorso sulle relazioni, ma
permette anche all’uomo di esprimersi in forme complesse come la musica e la danza». (GB) E quello della
ridondanza sembra proprio essere uno dei problemi della comunicazione via SMS, FaceBook, Twitter.
LE ARTI VISIVE NEL PROCESSO DI COMUNICAZIONE E INFORMAZIONE: VEDERE,
GUARDARE, COMUNICARE
«La Tv pensò Keith. VCR. Dynacors. Memorex. JVC. Keith schiacciò il pulsante Pausa e continuò a
guardare la tv o «a guardare» la tv… a guardare la tv a modo suo. Era un’abitudine. Tutte le sere
registrava sei ore di tv e poi le visionava al ritorno (…) non sopportava più di vedere la televisione a
velocità normale, senza lamediazione del telecomando e la tirannia del suo pollice
brunito dalle sigarette. Pausa. SloMO. Picture Search (…) Super Fast Forward. Poi Rewind, SloMo, Freeze
Frame (…) Le visionature di Keith erano di solito velocissime, ma qualche sequenza, a suo dire, lo ripagava
di giorni o perfino di settimane di studio e applicazione». (Martin Amis, London Fields)
I processi comunicativi e dell’informazione presuppongono diverse modalità di utilizzo dei nostri sensi, che
spaziano dalla casualità alla piena consapevolezza. L’ascolto e la visione distratti caratterizzano gran parte
delle forme della comunicazione e della informazione (e di fatto anche delle relazioni umane); non si tratta
solo di ascolto distratto, ma anche della visione: per il filosofo Stanley Cavell sarebbero proprio i media
fruibili individualmente - come la televisione, che offrono la possibilità di cambiare canale a piacimento,
anche in continuazione (zapping) - a incoraggiare nello spettatore una visione e quindi partecipazione
distratta. Ma lo zapping caratterizza anche la lettura dei messaggi che compaiono sul wall di FaceBook,
comportamento necessariamente ineludibile per chi abbia una mole di contatti superiore alla reale possibilità
di interazione («… ma come, non hai visto il mio post?»).
Il grande storico dell’arte John Berger ha incentrato la sua ricerca sull’importanza del saper guardare. E da
questa premessa parte la nostra analisi, dal fatto che «iI vedere viene prima delle parole. Il bambino guarda e
riconosce prima di essere in grado di parlare», come ci ricorda, appunto, Berger, secondo cui il vedere
«viene prima delle parole anche in un altro senso» in quanto sarebbe «il vedere che determina il nostro posto
all'interno del mondo che ci circonda; quel mondo può essere spiegato a parole, ma le parole non possono
annullare il fatto che ne siamo circondati. Il rapporto tra ciò che vediamo e ciò che sappiamo non è mai
definito una volta per tutte». Se è vero che «ciò che guardiamo è, sempre, il rapporto che esiste tra noi e le
cose» è anche vero che «vediamo solamente ciò che guardiamo. Guardare è un atto di scelta».
A partire da questa considerazione possiamo cercare di analizzare due problematiche che caratterizzano lo
sviluppo dei processi comunicativi e le loro modalità espressive: la impossibilità di non comunicare e il
rapporto con la tecnica e la sua evoluzione. La comunicazione è una delle attività umane più rilevanti in
quanto fondamento della società, che richiede la cooperazione tra gli individui. Paul Watzlavíck e la Scuola
di Palo Alto hanno dedicato le loro ricerche allo scambio comunicativo al fine di definire una
Pragmatica della comunicazione umana, mettendo in evidenza che «se si accetta che l'intero
comportamento in una situazione di interazione ha valore di messaggio, vale a dire è comunicazione, ne
consegue che comunque ci si sforzi, non si può non comunicare». Non è raro che qualche “amico”
comunichi di essersi temporaneamente dissociato da un socialnetwork per pensare o fare altro, quello
che colpisce non è che senta la necessità di farlo, ma di comunicarlo. Il “silenzio stampa” comunicato da
politici o sportivi è di per sé una forma eloquente di comunicazione. Non è solo nel comportamento umano
di inattività e silenzio che troviamo espressione di questa impossibilità, ma anche nelle forme dell’arte, dalla
poesia e la letteratura al cinema e alle arti visive, dove l’arte informale e concettuale meglio di tutto
esprimono questa condizione umana.
L’evoluzione delle forme della comunicazione e dell’arte è strettamente intrecciata non solo con
l’evoluzione economica e sociale, ma anche, e forse anche di più, con quella tecnologica. La scrittura, la
pittura, la scultura sono in qualche modo uguali a se stesse da migliaia di anni: cinema televisione prima e
poi videoarte e net art sarebbero addirittura impensabili senza le trasformazioni della tecnologia, per quanto
in alcuni casi la creatività e la fantasia umana abbiano potuto immaginare queste trasformazioni.
Se «nessuna nuova forma di comunicazione ha soppiantato quella precedente, anzi ha dato vita a un
processo cumulativo, aumentando le possibilità comunicative di ciascun individuo» è vero anche che,
parallelamente allo sviluppo di ogni nuova modalità comunicativa, si sono realizzati mutamenti culturali
capaci di dare forma a nuovi modi di pensare e intendere le relazioni con gli altri, spesso in concomitanza
con cambiamenti economici e politici. Si pensi, infatti, agli esiti del
passaggio dalla cultura orale alla cultura manoscritta, e poi a quelle tipografica, dei media elettrici ed
elettronici e infine a quella informatica. Il messaggio contenuto nel mezzo stesso va oltre il suo significato
immediatamente percepito ed è proprio legato alle sue caratteristiche tecniche e tecnologiche, e questo vale
evidentemente anche per il campo specifico delle arti visive, sia per quanto riguarda la realizzazione che la
fruizione di un’opera. Scegliere di esprimersi con una tecnica tradizionale (pittura ad olio o comunque
utilizzare un supporto che chiamiamo “quadro”) o attraverso i nuovi media è già un elemento costituivo
dell’opera e di una concezione dell’arte: percorrere le sale di un museo o trovarsi coinvolti in un happening
non è solo una questione di tipo spaziale. Se prendiamo in considerazione due forme di espressione come la
pittura e la performance o il video, vale ancora il ragionamento di McLuhan a proposito dell’evoluzione del
sensorio umano e al prevalere dell’occhio rispetto dell’orecchio o al ritorno alla oralità secondaria
caratteristica dall’epoca dei mezzi di comunicazione elettronica. In alcune opere contemporanee il senso
dell’udito può essere coinvolto in modo anche rilevante, ma è l’occhio che continua ad avere la parte più
importante: addirittura la visione richiede una più ampia gamma di modalità e ad essa si unisce la necessità
di una riflessione in tempo reale.
Con la scoperta dell’America, inizia a cambiare la percezione dello spazio, ma è soprattutto con l’ingresso
nella contemporaneità, favorito dallo sviluppo delle tecnologie elettriche ed elettroniche e dei mezzi di
comunicazione che su di esse si fondano, che cambiano definitivamente sia la modalità di produzione delle
opere (si pensi alla fotografia e al cinema innanzitutto) e quindi la dimensione di spazio e tempo, fino ad
arrivare alla costituzione di quello che è stato definito villaggio globale, prima e al cyberspazio poi.
L’avvento della televisione ha sicuramente avuto un impatto decisivo sulla evoluzione delle arti visive, in
aggiunta all’effetto già portato da fotografia e cinema, come abbiamo già ricordato, ma ha cambiato anche
la natura della percezione, ha cambiato il nostro modo di vedere. Se la nascita della stampa aveva favorito
l’introspezione e il pensiero critico, la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa ha portato a una
ricezione sostanzialmente distratta, che a sua volta ha tra le conseguenze quello che è stato definito come un
addormentamento delle coscienze.
Benjamin aveva sottolineato il ruolo fondamentale della fotografia e dell’importanza della riproducibilità
nella conoscenza della scultura e dell’architettura e nella conoscenza in generale dell’arte. L’avvento delle
tecnologie informatiche permettono oggi addirittura la visita virtuale dei musei - al museo immaginario di
Malraux si sostituiscono mostre virtuali e persino in Second Life - ma è evidente che l’impiego di strumenti
che costituiscono comunque un ausilio fondamentale, non esonerano dalla necessità di una conoscenza reale
delle opere e quindi dalla visita dei musei.
Vedendo la foto di un’opera riprodotta su di un libro, a nessuno verrebbe in mente di accontentarsi e
vorrebbe vederla dal vero. Un’opera vista in internet può invece far ritenere soddisfatto il fruitore
superficiale. Le visite virtuali dei musei che dovrebbero avere carattere puramente informativo finiscono per
sostituirsi alla visita reale.
COMUNICAZIONE DI MASSA, CULTURA DI MASSA, SPETTACOLARIZZAZIONE DEI
FENOMENI ARTISTICI
I mezzi di comunicazione di massa sono quei mezzi che instaurano un rapporto comunicativo tra una
emittente centralizzata e un pubblico vasto ma disperso, come giornali quotidiani, riviste, cinema, radio,
televisione. Ad essi possiamo aggiungere oggi, anche se con modalità differenti, Internet. Questi strumenti
non sono stati utilizzati soltanto come mezzo di diffusione e divulgazione dei prodotti artistici ma, per le loro
caratteristiche, sono stati utilizzati essi stessi come mezzi per la produzione di opere d’arte, cambiando lo
statuto delle arti visive.
Lo sviluppo dei mass media ha portato a un nuovo tipo di produzione culturale, semplificata per essere
divulgata, la cultura di massa che - in quanto parte del processo di produzione industriale e quindi legata
alle dinamiche del mercato - ha dato vita a quella che è stata definita industria culturale: ho già ricordato il
ruolo di Guy Debord nella critica radicale della società capitalistica e dell'industria culturale e del
consumismo che, in particolare nel saggio La società dello spettacolo, come abbiamo visto, porta
all’estremo il discorso di Benjamin sulla spettacolarizzazione della merce. Attraverso la pratica del
détournement – ossia la riappropriazione e decontestualizzazione
di un’opera d’arte o di un testo – trasforma, per esempio, l’incipit del Capitale «Tutta la vita delle società
moderne in cui predominano le condizioni attuali di produzione si presenta come un’immensa
accumulazione di merci» in «tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di
produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli»: la società intera si trasforma in un
unico grande spettacolo.
Nel campo delle arti visive il processo di spettacolarizzazione si concretizza oggi soprattutto nella
realizzazione di grandi mostre – spesso presso i musei più famosi – iperpubblicizzate, di fatto trasformate in
un prodotto da vendere (e che non riescono tuttavia ad avvicinare più che tanto il pubblico all’arte). Questi
eventi sono sempre accompagnati da un vasto merchandising, non dissimile da quello che accompagna i
grandi eventi sportivi, e che spesso si risolve in quella produzione di kitsch così ben analizzata da Gillo
Dorfles fin dagli anni sessanta del secolo scorso.
La spettacolarizzazione è spesso associata al gigantismo, reso possibile da ingenti somme di denaro investite
o comunque messe a disposizione da sponsor, mercanti e collezionisti. Commentando la fiera Art Basel
2013 Giancarlo Politi ha scritto: «Art Basel 2013 ha rappresentato la più spettacolare kermesse d'arte dei
nostri tempi. Opere gigantesche (Unlimited) e già costosissime a realizzarsi, ma anche opere difficilmente
collocabili per lo spazio che richiedono. A meno che non siano già state realizzate per entrare in collezioni
private o spazi istituzionali. E stand spettacolari, da museo, con opere milionarie, bellissime e alcune mai
esposte sino ad ora». (FlashArt Newsletter)
Certe opere si possono realizzare solo in questo modo, si pensi ai Sette palazzi celesti di Anselm Kiefer
esposti in permanenza all’Hangar Bicocca, grazie a Pirelli, che ha reso possibile anche
«l’installazione di Tomas Saraceno (la grande bolla su cui era possibile camminare provando la sensazione
di trovarsi tra le nuvole) – visitata da 140mila spettatori - che ha rotto la barriera tra l’arte contemporanea e il
grande pubblico. Sì, perché tutto si può dire dell’arte contemporanea, tranne che sia facile». (Silvia Bernardi,
All’Hangar Bicocca il futuro è gratuito). Stesso discorso per la bellissima mostra personale di Rudolf
Stingel a Palazzo Grassi – gestito dall’imprenditore francese Pinault - a proposito di cui Angela Vettese
(Tappeti e quadri al muro) dice: «Quello dell’ingiustizia del sistema promozionale è un problema senza
soluzione. È bello però constatare che ci sono collezionisti che desiderano generare capolavori e non solo
fare buoni investimenti. Ed è ancora più bello constatare che, a volte, coloro a cui vengono date simili
opportunità le sanno usare in modo convincente».
«L'aura è viva e vende bene» sostengono – a ragione – Dal Lago e Giordano, a proposito della città di
Bilbao, che ha assunto il ruolo di città d’arte – affiancandosi a quelle tradizionali, come Venezia per esempio
(…) Il gigantismo è quindi interpretato come un elemento «al servizio di una concezione innovativa di
museo: non più o soltanto uno spazio dedicato alla memoria e alla contemplazione, ma uno show di arte c
cultura contemporanea, in uno spirito non troppo dissimile da quello dei parchi a tema e di Disneyland», di
fatto una attrazione turistica, come il Beaubourg a Parigi.
Anche le opere di Christo si collocano nel quadro del gigantismo. Ecco l’opinione della scrittrice Monika
Maron (La mia Berlino) a proposito del Reichstag impacchettato. «Nel 1984, quando Michael S. Cullen,
agente di Christo a Berlino (e naturalmente anche di sua moglie Jeanne- Claude, ma allora di questo non si
parlava), mi comunicò che Christo intendeva impacchettare il Reichstag, non riuscii, se ben ricordo, a
trovarci nulla di strano. Nulla avrebbe mai potuto superare l'assurdità del Muro di Berlino, e l'iniziativa di
ricoprire di drappi un edificio parlamentare vuoto, a due passi da lì, mi pareva solo un fatto conseguente. Nel
1994, quando il dilemma se impacchettare o meno il Reichstag era ormai lievitato fino a diventare una
questione di identità nazionale, che esigeva una decisione del Parlamento, mi parve ridicolo che, dopo il
Pont Neuf, la costa californiana e alcune isole del Pacifico, si volesse impacchettare il minuscolo Reichstag.
Quando poi si arrivò al dunque, mi ritrovai dalla parte degli scettici, dove mi aveva spinto anche il tono della
discussione, o eri a favore di Christo, oppure eri borghese e nazionalista.
Adesso invece mi sono convertita. Trovo l'impresa piacevole e divertente; da quando Christo ha rivestito il
Reichstag, Berlino è diventata un'altra città. Ne aveva bisogno. Non importa se il Reichstag sia bello o
brutto, che abbia questa o quella storia, che ne risulti irriconoscibile oppure no. Chi del centro berlinese
vuole stravolgere qualcosa, fa meglio a lasciarlo così com’è. Christo ha impacchettato il Reichstag e ci
trasmette il suo messaggio: venite qua, venite tutti qua».
L’installazione The floating piers di Christo recentemente realizzata sul lago d’Iseo rappresenta il momento
più alto della capacità di una artista di utilizzare la comunicazione di massa per far conoscere un’opera di
grande poesia e così lontana dai canoni tradizionali, apprezzata però dal grande pubblico ignaro dell’arte. E
in questo senso l’opera di Christo sembra incrinare quello che è sempre stato uno dei cardini dell’analisi dei
mass media, ovvero che l’oggettiva difficoltà di immediata comprensione dell’arte contemporanea favorisce
la riproduzione dell’altro elemento caratteristico dei mass media, ossia che «il singolo spettatore tende ad
accettare solo messaggi non contrastanti con il proprio modo di pensare»: il controllo sociale, in questo caso
nella sua accezione di trasmissione del patrimonio sociale e culturale, passa non solo attraverso l’azione di
ciarlatani e imbonitori delle televendite, ma anche attraverso l’azione di opinion leader come Sgarbi o
Daverio.
Noam Chomsky ha analizzato in modo chiaro le strategie della manipolazione attraverso i mass
media, secondo cui «l’elemento primordiale del controllo sociale è la strategia della distrazione che
consiste nel deviare l’attenzione del pubblico dai problemi importanti», e poi la strategia della gradualità:
«per far accettare una misura inaccettabile, basta applicarla gradualmente»; la strategia del differire: «un
altro modo per far accettare una decisione impopolare è quella di presentarla come “dolorosa e necessaria”,
ottenendo l’accettazione pubblica, nel momento, per un’applicazione futura»; rivolgersi al pubblico come ai
bambini, usare l’aspetto emotivo molto più della riflessione, mantenere il pubblico nell’ignoranza e nella
mediocrità. Questo vale proprio per l’abbassamento del livello qualitativo dei prodotti della cultura di massa,
rispetto a cui è sempre valida l’analisi di Umberto Eco in Apocalittici e integrati: evitare soluzioni originali
e distruggere le caratteristiche culturali dei singoli gruppi; di rivolgersi a un pubblico inconscio di sé come
gruppo sociale, quindi, non in grado di esprimere esigenze ma solo di accettare quanto proposto; di
secondare il gusto esistente, dando ciò che chiede ma suggerendo che cosa volere; incoraggiare una visione
passiva e acritica del mondo e favorire il conformismo. Questo ci spiega perché le barzellette de La
Settimana Enigmistica siano sempre uguali a sé stesse (anche nella grafica) rispetto a cinquant’anni fa, si
tratti di rapporti matrimoniali o di arte contemporanea.
Nel recentissimo volume Arte moltiplicata. L'immagine del '900 italiano nello specchio dei rotocalchi
(a cura di Barbara Cinelli, Flavio Fergonzi, Maria Grazia Messina, Antonello Negri) si analizza come sia
stata affrontata l'arte visiva del Novecento negli organi di stampa divulgativi: con sufficienza e
superficialità, cercando soprattutto – come abbiamo già detto – gli aspetti personali degli artisti più famosi.
«A volte prendere in giro è facilissimo: vittime designate sono Lucio Fontana con i suoi tagli e buchi o Piero
Manzoni che offriva al pubblico uova sode o il suo fiato chiuso in dei palloncini (…) e in generale tutti gli
astrattisti sono stati immuni da lazzi a buon mercato» commenta Vettese, secondo cui questo «non ha aiutato
il pubblico a uscire da pregiudizi e stereotipi di cui paghiamo ancora le conseguenze».
Ecco, la tecnologia che pure ha rovesciato i canoni e lo statuto delle arti visive deve essere presa con
leggerezza, senza dimenticare quanto diceva André Breton: «L’opera d’arte ha valore soltanto in quanto sia
attraversata dai riflessi del futuro». Anche perché la percezione del cambiamento non è immediata e
«impercettibili modificazioni sociali tendono a modificare la ricezione in un modo che poi torma a
vantaggio soltanto della nuova forma d’arte» così che «giunte a certi stadi del loro sviluppo, le forme d’arte
tradizionali tendono ad ottenere effetti che più tardi vengono ottenuti liberamente dalla nuova forma d’arte».
(Benjamin). L’esempio fatto era quello del cinema secondo i dadaisti (e poi sarebbe arrivato Chaplin):
pensiamo agli incredibili lavori di Gianni Colombo o di Franco Grignani, che oggi non riusciamo a
concepire senza l’esistenza del computer…
E per completare il discorso relativo alla tecnica non resta che citare Rosalind Krauss, che nel capitolo
Forgetting - Supporti Tecnici nel suo Sotto la tazza Blu così ne spiega l’evoluzione:
«L’automobile, il nastro magnetico, il film d'animazione non sono supporti tradizionali della pratica artistica
come lo sono l'olio su tela, la grafite su carta o il gesso su armatura di metallo. Sono "supporti tecnici", sorti
in reazione allo sdegno postmodernista, a sua volta provocato dall'esaurimento, percepito dagli artisti negli
anni settanta, sia dei media tradizionali sia dell'insistenza sulla specificità. Per il postmodernismo
l'astrazione della griglia cubista andava dimenticata per essere sostituita con montagnole di fieno, la sua
sobrietà era soppiantata dalle figure muscolose del neoclassicismo del fascismo, mentre il revival del bronzo
rinascimentale dichiarava la morte delle geometrie puriste della scultura modernista. All'interno di questa
situazione che potremmo definire enigmatica ma che in realtà segnalava una crisi, l'avanguardia non aveva
altra scelta che identificarsi con la ricerca di nuovi supporti, quelli non compromessi dal marchio di una
tradizione esaurita. Il postmodernismo spinse l'avanguardia a volgersi dapprima verso la tecnologia come
l'alternativa più forte ai materiali naturali dei media tradizionali. Il video era uno dei supporti offerti dalla
tecnologia. Ma l'avanguardia fece ricorso anche ad altri supporti, presi, come il video, dalle forme
disponibili nella cultura di massa».
Tra la fine del 2006 e fino a gennaio 2007 il Centre Georges Pompidou di Parigi – meglio conosciuto come
Beaubourg – ha presentato la mostra Le mouvement des images, ossia una rilettura dell’arte del XX
secolo a partire dal cinema - che più che come spettacolo si presenta oggi come un modo di concepire e
pensare le immagini – e al tempo stesso una ridefinizione dell’esperienza cinematografica attraverso le
problematiche e le forme dell’insieme delle arti plastiche. Nell’epoca della rivoluzione digitale la mostra
proponeva, mediante la proiezione continua sulle pareti del museo, anche una ridefinizione della fruizione
del film ravvicinandola a quella che si ha normalmente davanti a un quadro, i film diventano pittura in
movimento. In fotografia, in scultura o in pittura l’adozione del formato longitudinale, l’uso del dispositivo
sequenziale sincopato e discontinuo, la divisione regolare del supporto e la ripetizione delle forme
producono dei fenomeni di variazione e di sequenza che si rifanno all’esperienza cinematografica.
Per Eisenstein «il montaggio al cinema non è che l’applicazione di un principio più generale. Questo
principio, esaminato nella sua complessità, va oltre il semplice gesto di incollare insieme dei pezzi di film»
che è punto di arrivo di un procedimento che attraversa la storia delle arti plastiche: il taglio della superficie
pittorica, la rottura di scala tra gli oggetti raffigurati, i giochi di trasparenza e opacità o la sovrapposizione
dei piani. I collages cubisti di Braque e Picasso, surrealisti di Max Ernst o Man Ray, gli assemblaggi pop di
Martial Raysse o James Rosenquist fanno agire una molteplicità di immagini o di frammenti di immagini in
una unica sequenza: essi riuniscono nella simultaneità quello che l’esperienza ordinaria del cinema dispiega
nella successione. Oracle di Robert Rauschenberg, che è un condensato della vita urbana - i disparati
frammenti che lo costituiscono sono stati prelevati nella metropoli new-yorkese - contrappone collages
visuali con un collage sonoro, composto in modo aleatorio a partire da onde radio ambientali.
László Moholy-Nagy, emancipandosi dal modello della pittura, nel suo film Jeu de lumière noir- blanc-
gris ha registrato dei movimenti lenti, accelerati, rallentati, rovesciati di una struttura cinetica di metallo e
vetro. Il film propone una nuova definizione di plasticità e fa della manipolazione e della distribuzione della
luce, che sta alla base del cinema, un elemento di unificazione delle arti. L’opera non è più concepita come
una forma statica, all’oggetto chiaramente delimitato nello spazio, si sostituisce un continuum in divenire
che invade lo spazio e si dispiega nel tempo.
Il 19 novembre 1971 alle 19.45 Chris Burden si fa sparare in un braccio. Una performance leggendaria,
quanto il film che testimonia l’operazione è antispettacolare: solo otto secondi di immagini, la cinepresa
super-8 emette il caratteristico rumore della pellicola che si aggancia,
appare l’immagine, parte il colpo, l’artista avanza tenendosi il braccio. Lo schermo ritorna nero, si sente il
rumore del bossolo vuoto che cade per terra.
Nei giorni in cui terminavo la prima stesura di questo saggio, impazzava sul web il video Beauty
(http://vimeo.com/83910533) presentato dagli autori come “A path of sighs through the emotions of life.
A tribute to the art and her disarming beauty” e rilanciato da www.lastampa.it: «I classici dell’arte si
animano con la magia del digitale. I grandi capolavori del simbolismo, manierismo, paesaggismo,
romanticismo e neoclassicismo diventano animati. Il progetto di Rino Stefano Tagliaferro trasforma i gesti
“congelati” dei dipinti in animazioni digitali». Vi invitiamo a visionare il video, aggiungendo soltanto il
commento che abbiamo postato su Facebook: «L'ideale estetico dell'accordo categorico con l'essere è un
mondo dove la merda è negata e dove tutti si comportano come se non esistesse. Questo ideale estetico si
chiama Kitsch». (Milan Kundera, L'insostenibile leggerezza dell'essere) Questo video è il kitsch
assoluto, è pura pornografia! Detto in modo comprensibile a tutti: merda.
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