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Introduzione.

Oggetti, pratiche e istituzioni di due


campi sociali correlati

di Marco Pedroni e Paolo Volonté 1

Alcune coppie di concetti sono così ovvie che appaiono immediatamente


chiare a chiunque. Questo è il caso, per esempio, di moda e genere, o moda e
società, oppure moda e artigianato. Apparentemente, ma solo apparentemente,
ciò vale anche per moda e arte. Non appena si prova a riflettere più a fondo
sulla questione, infatti, ci s’imbatte in una molteplicità di piani problematici
sovrapposti e, a tratti, del tutto indipendenti tra loro. Il titolo Moda e arte sot-
tintende una varietà di questioni, delle quali solo una parte può essere presa in
considerazione nei margini ristretti di un solo volume.
Già a prima vista il titolo potrebbe suscitare aspettative in due direzioni di-
vergenti. Da un lato, ci si potrebbe aspettare di trovare un contributo alla ricor-
rente questione se la moda sia arte, ovvero quale posizione essa occupi nel-
l’ampio e duttile panorama delle arti, dei mestieri e delle professioni. Dall’al-
tro lato ci si potrebbe aspettare invece di trovare un contributo sui ricchi rap-
porti che sono spesso intercorsi, oggi come nel passato, tra il mondo della
moda e quello dell’arte. In effetti, questi due sono i grandi ambiti problematici
in cui si collocano i contributi del libro, due ambiti indipendenti e a pari tempo
connessi. Ma il tema «moda e arte» non si esaurisce qui, e tocca anche altri ar-
gomenti che meriterebbero un’ulteriore trattazione. In questa introduzione, in
cui contrariamente all’abitudine diffusa non faremo la sintesi dei contenuti del
libro, vogliamo delineare un quadro il più possibile completo, ancorché som-
mario, delle tematiche sottese a questa coppia concettuale.

1 Gli autori hanno condiviso l’impianto complessivo del saggio e l’elaborazione di tutte le sue
parti. L’estensione dei paragrafi 1, 4 e 5 è da attribuire a Paolo Volonté, quella dei paragrafi 2, 3
e 6 a Marco Pedroni.

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1. Considerazioni preliminari

In via preliminare rispetto al nostro compito, tuttavia, è bene chiarire alcu-


ne distinzioni di fondo rispetto agli stessi concetti di arte e di moda.
Anzitutto va detto che l’intero discorso svolto qui, e a maggior ragione
l’intero insieme di tematiche affrontato dal volume, andrebbe storicizzato. Si
parla spesso di moda e arte senza tener conto che questi non sono universali
culturali, ma concetti che variano, anche considerevolmente, col variare del
contesto storico e geografico, cioè col variare della cultura di riferimento. La
moda, per esempio, non è qualcosa di costante. Cento anni fa essa s’identifi-
cava totalmente con la haute couture parigina, cioè con un regime di alta sar-
toria in cui dominavano i pezzi unici o i multipli a produzione artigianale.
Negli anni Ottanta e Novanta del Novecento l’haute couture non è sparita dal-
la scena, ma la parte predominante del sistema moda è stata occupata dalla
produzione industriale del prêt-à-porter, per il quale hanno cominciato a di-
ventare rilevanti le distinzioni tra gli artefatti mostrati in passerella e quelli
prodotti in serie per la commercializzazione di massa. Allo stesso tempo è dive-
nuta sempre più marcata la distinzione tra creatori di moda che privilegiano la
ricerca estetica e, forse, finanche artistica, e creatori di moda che privilegiano
il successo commerciale. Il punto che andrebbe adeguatamente studiato e di-
scusso (lo fa in parte Enrica Morini in questo volume) è come la relazione
della moda con l’arte possa variare nel tempo e nello spazio in relazione a
questi mutamenti della sua stessa natura.
Sull’altro versante, anche l’arte è un’emergenza storica con forti condizio-
namenti culturali. Nel medioevo si trattava di una forma di artigianato di alta
qualità motivato da scopi devozionali. Col tempo sono divenuti sempre più ri-
levanti sia la maestria del singolo esecutore (e quindi l’autorialità), sia l’unici-
tà dell’artefatto, fino a culminare nella concezione ottocentesca dell’art pour
l’art, che estromette dall’arte dapprima ogni funzione pratica, poi anche quel-
la economica. Con le avanguardie storiche e le neoavanguardie, tuttavia, i cri-
teri di legittimazione dell’artisticità di un’opera d’arte sono stati ribaltati e alla
maestria tecnica s’è sostituita, quale principio fondamentale, la creatività con-
cettuale. Ciò ha però rapidamente condotto ad abbandonare l’ideale del pezzo
unico a favore della realizzazione di multipli che, in certi casi estremi (Warhol
per primo), rasentano la produzione industriale. Nel contempo, la diffusione
della produzione industriale in ogni settore della vita umana ha fatto nascere
un ampio spettro di arti applicate la cui identità si colloca «nei pressi» delle
arti figurative. Infine, l’estensione del ventaglio metodologico dell’arte occi-
dentale alle tecnologie elettroniche e digitali e al mondo dei media ha gra-
dualmente eroso la distinzione tra arti visive (che producevano artefatti resi-
stenti nel tempo) e arti dello spettacolo, sicché sempre più spesso l’arte viene
identificata con l’esperienza estetica che l’artista produce in un certo contesto
spaziotemporale definito. Anche sul versante dell’arte, dunque, sarebbe op-

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portuno specificare a quale genere d’arte ci si riferisca nel momento in cui si
solleva la questione del rapporto tra moda e arte.
Non potendo svolgere un lavoro di tipo enciclopedico, qui dovremo lascia-
re questa esigenza di storicizzazione sistematica insoddisfatta e limitarci a far
trasparire di volta in volta la cornice spaziotemporale del discorso svolto.
Inoltre, benché raramente gli studiosi e i protagonisti dell’arte e della moda
ne siano espressamente consapevoli, è di fondamentale importanza riconosce-
re che la relazione tra arte e moda, in qualsiasi modo la si voglia intendere,
può essere studiata collocandosi su almeno tre diversi terreni di ricerca.
Un primo terreno di ricerca, quello che più frequentemente viene inconsa-
pevolmente battuto, è quello degli oggetti, ovvero degli artefatti artistici o dei
prodotti di moda. Quando si prendono in considerazione gli oggetti la doman-
da centrale cui si cerca di rispondere verte intorno al carattere più o meno arti-
stico dei prodotti del fashion design: le creazioni dei maggiori fashion desi-
gner possono essere equiparate a delle opere d’arte? La risposta viene allora
formulata sulla base di variabili come il carattere innovativo dell’artefatto, la
sua unicità o serialità, la rarità, il fatto che sia stato incluso in istituzioni arti-
stiche (musei), la sua riconducibilità a un autore riconoscibile e noto per i
propri contributi artistici (autorialità), la sua inutilità pratica. Si dirà allora che
un certo fashion designer è o non è un artista perché realizza o non realizza
delle opere d’arte. La definizione dello status del creatore di moda dipenderà
dallo status riconosciuto ai suoi prodotti. Il principio ultimo di riferimento sarà
quello dell’aura che contraddistingue le opere d’arte e le distingue da artefatti
d’altro tipo.
Si noti che, in questa prospettiva, molto meno risalto viene dato alla que-
stione diametralmente opposta, ovvero se, a quali condizioni e in che misura
l’arte sia una moda. L’asimmetria di trattamento deriva chiaramente dal fatto
che mentre la moda aspira a essere legittimata come arte, perché ciò apporta
prestigio, notorietà, e in definitiva anche fatturato, nessun’arte aspira a essere
considerata una moda, poiché ciò la ricondurrebbe dall’empireo dei valori
eterni (contrariamente all’evidenza storica restiamo tutti intimamente convinti
che le opere d’arte siano sempre state tali e sempre lo saranno) alla dannazio-
ne di ciò che è destinato a declinare. Ciò nonostante, è facile intuire che un
certo fattore di moda è presente in tutte le arti di tutti i tempi, in quanto mani-
festazioni culturali come tante altre, e che sarebbe quindi molto istruttivo ca-
pire come esso agisca di volta in volta nella modulazione delle esperienze ar-
tistiche. Anche questo è un compito complesso che non è stato possibile af-
frontare in questo volume.
Il secondo terreno di ricerca su cui si muovono molti studi su moda e arte è
quello dei soggetti e delle loro pratiche: artisti e stilisti, modi di fare arte e
modi di fare moda. Se si guarda ai soggetti sociali che si qualificano come arti-
sti o come fashion designer, ci si chiede allora che cosa determini la loro ap-
partenenza a quell’ambito e non appartenenza a quell’altro, che cosa consegua

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nella loro vita (in termini di comportamenti, aspirazioni, rappresentazioni) da
tale appartenenza, che tipo di rappresentazione si costruiscano del proprio
ambito e dell’altro, nonché di chi appartiene all’altro ambito, che legami si in-
staurino tra i soggetti dei due ambiti. Ci si chiede, soprattutto, se dei fashion
designer possano essere equiparati a degli artisti, e a quali condizioni. Si dirà
allora che un certo fashion designer è o non è un artista perché si comporta o
non si comporta come un artista. La definizione dello status del creatore di
moda avverrà sulla base delle sue pratiche. I principali criteri di riferimento
saranno atteggiamenti come il disinteresse economico, l’indipendenza dai gu-
sti dominanti, l’inclinazione per innovazioni di tipo radicale o, come emerge
dal capitolo di Maria Antonietta Trasforini (ma si veda anche Sudjic 2009:
170-171), la capacità di sollevare – con strumenti diversi dalla parola – que-
stioni critiche e socialmente rilevanti.
Il terzo e ultimo terreno di ricerca su cui si muovono molti studi su moda e
arte è quello della sfera istituzionale, ovvero dei «mondi» sociali cui appar-
tengono, di volta in volta, artisti e stilisti. Ciascuno di questi mondi sociali si
caratterizza per aspetti differenti. Per esempio, esistono le riviste d’arte ed esi-
stono le riviste di moda, e di norma le prime non si occupano di moda e le se-
conde non si occupano d’arte, se non col dichiarato intento di dedicarsi a
qualcosa d’altro rispetto al loro proprio campo. Lo stesso vale per le principali
istituzioni (associazioni corporative, premi e concorsi, organismi di controllo).
Esistono poi organizzazioni che appartengono al mondo dell’arte (musei, gal-
lerie, case d’asta, case editrici) ed esistono organizzazioni che appartengono al
mondo della moda (aziende, fiere, studi professionali, case editrici), e quasi
mai coincidono. Esistono norme e modelli d’azione che sono percepiti come
più o meno vincolanti da chi appartiene al mondo dell’arte e norme e modelli
d’azione vincolanti per il mondo della moda. E così via per le gerarchie di va-
lori, la cultura materiale, gli insiemi di conoscenze condivise. Considerando la
moda e l’arte come due istituzioni sociali di questo tipo, viene spesso solleva-
ta la domanda intorno a ciò che separa questi due campi istituzionali: che cosa
li rende simili e che cosa li rende differenti? Esistono degli ambiti di sovrap-
posizione, appartenenti a entrambi? Quali tipi di relazione legano i due mon-
di? Si dirà allora che un certo fashion designer è o non è un artista perché ap-
partiene o non appartiene al mondo dell’arte. La definizione dello status del
creatore di moda avverrà su base istituzionale. Il principio ultimo di riferi-
mento sarà quello dell’inclusione nel campo sociale privilegiato dell’arte.
Va subito detto (e lo si verificherà meglio durante la lettura del libro, per
esempio nel contributo di Silvia Mazzucotelli Salice) che su questo terreno la
situazione è particolarmente mobile, poiché la condizione istituzionale del
mondo della moda e le sue relazioni con altri mondi sociali sono in rapida
evoluzione. Rientrano in questo ambito concettuale distinzioni come quella
tra arte pura e arte applicata, o quella tra arte e artigianato artistico, cioè di-
stinzioni che mutano rapidamente con l’evoluzione tecnologica e le trasfor-

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mazioni dei costumi (quando una litografia non può più essere agevolmente
distinta da un poster, è chiaro che comincia a esserci una sovrapposizione tra
mondi dell’arte, dell’editoria, del turismo ecc.). Ma, soprattutto, negli ultimi
anni si sta verificando una progressiva commistione tra mondo della moda e
mondo delle celebrities (si vedano il contributo di Pamela Church Gibson in
questo volume e Sudjic 2009: 102-110) che porta non tanto gli stilisti ad ac-
cedere al primo, quanto gli artisti ad accedere al secondo, del quale gli stilisti
sono storicamente una parte rilevante. Tutto ciò rende la dimensione istituzio-
nale un punto di vista particolarmente attuale.

2. Il contributo della sociologia

Come detto, gli approcci più diffusi al tema del rapporto tra moda e arte si
pongono sul terreno degli oggetti. Il terreno delle istituzioni, invece, è spesso
trascurato dalla pubblicistica più comune, sebbene ampiamente indagato dagli
studi di carattere sociologico. Il motivo di tale disinteresse è che arte e moda
vengono normalmente ipostatizzate nella comprensione degli studiosi, così
come in quella della gente comune, in qualcosa di oggettivo, esistente in sé e
per sé, indipendentemente dalle azioni, dalle scelte, dai gusti e dalle opinioni
delle persone. È invece importante, nel dedicarsi a uno studio dei complessi
rapporti tra arte e moda, comprendere bene che solo la dimensione istituziona-
le delle sfere sociali (o «mondi») e delle corrispettive regole d’ingresso, ap-
partenenza, interazione con altre sfere sociali può spiegare sia le situazioni di
fatto (perché una certa creazione di moda sia stata inclusa in un museo d’arte
contemporanea, perché una certa artista abbia sviluppato una collaborazione
duratura con una fashion designer, perché una casa di moda investa ingenti
somme nell’organizzazione di mostre d’arte), sia le tendenze e le potenzialità
(in che misura un determinato modo di progettare abbigliamento possa legit-
timamente aspirare a trovare spazio nelle mostre o nei concorsi d’arte, oppure,
al contrario, quando la retrospettiva di un fashion designer dentro a un museo
d’arte appaia subito come mera iniziativa promozionale). Illustreremo ora
questo aspetto appoggiandoci sulla letteratura più nota a riguardo, e in parti-
colare sulla proposta di considerare oggetti e soggetti dell’arte come nodi di
un più articolato sistema di relazioni, norme, convenzioni e pratiche collabo-
rative e conflittuali. Becker (2004) ha definito tale sistema un insieme di
«mondi dell’arte», e questa categoria è poi stata largamente impiegata nella
sociologia dell’arte. La si incontrerà a più riprese nella seconda e terza parte
del volume, in particolare nel contributo di Diana Crane, che si chiede espres-
samente se la moda sia un mondo dell’arte.
La definizione di Becker, costruita a partire da un’analisi delle pratiche di
chi a vario titolo calca la scena artistica, dal creatore puro all’esecutore di
opere altrui, dal tecnico al pubblico, prende le distanze dalle teorie estetiche e

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da ogni forma di valutazione degli oggetti d’arte, per concentrarsi invece sulla
dimensione collettiva del lavoro artistico e sui rapporti tra i suoi protagonisti:
«I mondi dell’arte sono costituiti dall’insieme dei soggetti la cui attività è ne-
cessaria alla produzione di determinate opere che in quel mondo, e forse an-
che in altri, vengono definite “arte”» (ivi: 50); si tratta, in sostanza, di reti re-
lativamente stabili di cooperazione tra soggetti (singoli individui, ma anche
organizzazioni) che producono non solo eventi e oggetti artistici (Becker
1985: 39). Il punto fondamentale della questione è che in questa prospettiva
non sono gli oggetti (le «opere d’arte») a stabilire chi fa parte dei mondi del-
l’arte (quali creativi sono degli artisti, quali musei sono musei d’arte ecc.) ma,
al contrario, sono i soggetti che si accordano sulla definizione stessa di ciò
che può essere legittimamente considerato «arte», e quindi sull’insieme degli
oggetti che appartengono a quel mondo.
L’uso del plurale «mondi» è centrale nella proposta di Becker poiché de-
molisce la retorica di un’arte che si vuole presentare come terreno unitario, a
dispetto della sua complessità, derivando da questa esibita compattezza la for-
za della sua superiorità rispetto ad altre manifestazioni della creatività umana.
L’analisi sociologica individua come unità di studio ciascun singolo «mondo»
dell’arte e ne riconosce la specificità, vale a dire la presenza di pratiche e con-
venzioni non del tutto sovrapponibili a quelle di altri mondi artistici: così, non
solo la musica risulterà funzionare secondo un insieme di norme e prassi di-
verse dalla pittura, ma al suo interno la scena jazz urbana, i concerti rock e le
attività di un auditorium si presenteranno come mondi caratterizzati da dina-
miche eterogenee e solo in parte assimilabili.
I mondi dell’arte funzionano «facendo riferimento a un insieme di nozioni
convenzionali incorporate nella prassi comune e negli oggetti usati di solito»
(Becker 2004: 50), convenzioni descritte come una sorta di automatismo che
rende «l’attività collettiva più semplice e meno costosa in termini di tempo,
energie e altre risorse» (ivi: 51). In musica, per esempio, la scala cromatica
costituisce una «convenzione» condivisa da tutti coloro che appartengono a
questo mondo dell’arte, e che consente di coordinare tra loro senza eccessivi
sforzi le attività del compositore, dell’esecutore, del fabbricante di strumenti
musicali, dell’accordatore e del pubblico. Le opere d’arte non sono il semplice
prodotto individuale di singoli creatori – gli artisti, che costituiscono il sotto-
gruppo considerato più talentuoso dei mondi dell’arte – ma il frutto di un la-
voro collettivo. Becker coglie il funzionamento delle sfere artistiche come
istituzioni dotate di convenzioni proprie guardando non agli oggetti in sé, ma
alla natura collettiva e processuale della loro realizzazione; al contempo non
cade nell’errore di attribuire ai mondi dell’arte una natura statica, ma li pensa
piuttosto come reti dai confini fluidi. Le ragioni di questa flessibilità sono
molteplici: nel tempo mutano, innanzitutto, le forme di cooperazione tra i loro
membri e la definizione di ciò che caratterizza un mondo come «artistico»; e,
aspetto ancor più rilevante per gli obiettivi del nostro volume, coltivano «rap-

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porti intimi ed estesi con i mondi da cui vogliono distinguersi» quali «le arti
commerciali, artigianali, popolari» (ivi: 52). Da ciò è lecito concludere che la
porosità dei confini e la tendenza all’ibridazione con altri mondi artistici, e in
particolare con quelli che non sempre sono riconosciuti come tali (come la
moda), è parte costitutiva del funzionamento dell’arte.
Ma se la proposta di Becker ha il merito di spostare il discorso dal piano
degli oggetti e dei soggetti a quello delle istituzioni, mettendo in luce come
l’arte sia un insieme di mondi sociali parzialmente autonomi, frutto di logiche
relazionali e pratiche collettive, meno convincente è la sua capacità di spiega-
re come e perché questi mondi mutino nel tempo. Non si capisce quali siano
le forze che spingono un mondo dell’arte a evolversi e trasformarsi.
Pierre Bourdieu suggerisce di usare, a questo scopo, la nozione di «campo
sociale». Il concetto di campo comporta l’idea che i soggetti che ne fanno par-
te occupino delle «posizioni» al suo interno che stanno in una relazione reci-
proca di tipo, potremmo dire, gerarchico, basata cioè sulla dominazione, la
subordinazione o l’omologia. Sicché appartenere al campo sociale dell’arte,
anziché al più generico mondo dell’arte, significa far parte di un cosmo in
perpetua lotta, o competizione, per accaparrarsi le posizioni più ambite. Il
campo è «una rete o una configurazione di relazioni oggettive tra posizioni»
(Bourdieu 1992: 67) che funziona come un gioco, i cui partecipanti usano le
«carte» in proprio possesso per ottenere una «posta in gioco» (una posizione
preferibile alle altre). Nelle intenzioni di Bourdieu la metafora ludica non in-
tende sminuire la serietà delle attività che hanno luogo nei campi, ma esempli-
ficarne il funzionamento. Le carte consistono nelle forme di capitale di cui
ciascun agente dispone: il capitale economico, culturale (titoli di studio, edu-
cazione familiare) e sociale (la personale rete di relazioni), che generano una
sorta di «meta-capitale» consistente nel capitale simbolico (Santoro 2010) ov-
vero, a grandi linee, nel livello di prestigio di cui si gode nel campo. I parteci-
panti al gioco accordano un tacito consenso alle regole della competizione (è
ciò che Bourdieu chiama illusio, un totale coinvolgimento nel ludus) e al fatto
che la posta in gioco meriti un investimento di energie per essere conseguita.
Nella sua feconda produzione scientifica, Bourdieu ha applicato la nozione di
campo a svariati ambiti dell’attività umana, comprese l’arte letteraria (Bour-
dieu 2005) e la moda (Bourdieu e Delsaut 1975). Senza entrare nel dettaglio
del funzionamento dei singoli campi, quel che qui ci sembra rilevante sottoli-
neare è la dinamica di funzionamento generale di un campo, in cui la collabo-
razione tra agenti sociali è una, ma non l’unica, strategia per assicurarsi il con-
trollo dello spazio sociale. L’altra, che rende profondamente diversa l’analisi
di Bourdieu da quella di Becker, è la competizione.
L’enfasi di Becker sulla dimensione cooperativa dei mondi dell’arte è og-
getto di una esplicita critica di Bourdieu (1991: 4), che riconosce a Becker «il
merito di trattare la creazione artistica come azione collettiva, rompendo con
la rappresentazione naïve del creatore individuale», ma gli contesta il metodo

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di analisi di matrice descrittiva: artisti, esecutori, tecnici, pubblici dell’arte sono
considerati da Becker come una «somma» di soggetti interagenti nel mondo
dell’arte, elemento che non consente di considerarne le relazioni oggettive né
le dinamiche di cui fanno parte anche «lotte per conservare o modificare» il
campo 2.
In Becker non è del tutto assente, in realtà, il riferimento a dinamiche con-
flittuali. Il sociologo americano, ad esempio, sceglie di analizzare non solo i
mondi dell’arte riconosciuti come tali dall’establishment, ma anche quelli la
cui «artisticità» è oggetto di controversie o i cui membri producono opere as-
similabili a quelle artistiche, pur senza essere interessati a definirle come «ar-
te» (entrambe situazioni, notiamo per inciso, in cui la moda rientra pienamen-
te). La sociologia bourdieusiana ha tuttavia un accento più marcatamente con-
flittuale e interroga ogni ambito dell’azione sociale come un sistema di potere
in cui inevitabilmente si contrappongono gruppi egemoni e gruppi dominati,
con i secondi che accettano come legittima e naturale l’imposizione di catego-
rie arbitrarie da parte dei primi. La definizione di arte illustra alla perfezione
questo meccanismo: nell’ottica di Bourdieu l’arte è un campo segnato da rela-
zioni collaborative e antagonistiche tra i suoi membri, e quel che è considerato
arte in un dato momento è il frutto non di un consenso tra tutti gli agenti del
campo, ma di un accordo tra le fazioni dominanti che esclude automaticamen-
te dall’aura di «artisticità» chi occupa posizioni marginali. Come per Becker,
quindi, è l’accordo fra i soggetti a stabilire i confini di ciò che è «arte», ma a
differenza di Becker Bourdieu riconosce l’esistenza di una corona di soggetti
che non condividono la definizione data dai gruppi dominanti, anche se vi si
devono in qualche modo adeguare.
Il riconoscimento dello status di «arte» è quel che Bourdieu definirebbe la
posta in gioco del campo. Non diversamente, Becker scrive: «Poiché la defi-
nizione di “arte” è un titolo onorifico ed è vantaggioso riuscire ad applicare
questa etichetta a quello che si fa, molti cercano di attribuirsela» (Becker
2004: 53). Molti, ma non tutti. «Alcuni membri della società», prosegue Bec-
ker, «possono controllare l’applicazione del titolo onorifico di “arte”, in modo
tale che non tutti siano in condizione di godere dei vantaggi legati a quella
qualifica, anche volendo» (ibid.). Questo passaggio è in sintonia con la visio-
ne bourdieusiana di mondi sociali animati da una costante lotta per il monopo-
lio del potere di categorizzazione, vale a dire la facoltà di etichettare un cam-
po sociale (come quello della moda o quello dell’arte) definendo chi ne faccia
parte e chi no, chi abbia il diritto di fregiarsi di un titolo (di couturier o di arti-
sta) e chi sia escluso da tale privilegio.
Un approccio centrato sul terreno delle istituzioni ha dunque il grande
vantaggio di affrontare lo studio delle relazioni che intercorrono tra moda e

2 Il commento di Bourdieu, originariamente redatto nel 1982, si riferisce a due testi di Becker
(1974; 1985, ed. or. 1976) precedenti a I mondi dell’arte (2004, ed. or. 1982).

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arte in maniera disincantata, a prescindere da idee precostituite di ciò che è
arte e ciò che non lo è. L’analisi dei singoli oggetti e soggetti percepiti come
limitrofi ai due mondi conduce a domande («Questo abito è un’opera d’arte?
Questo designer è un artista?») che non potrebbero mai trovare una risposta
oggettiva o ampiamente condivisa. Ragionare in termini di sfere di produzio-
ne culturale consente, invece, di cogliere la dimensione collettiva e relaziona-
le tanto della moda quanto dell’arte. Ogni abito e ogni opera, come dimostra
in questo volume Sanda Miller, possono così uscire dalla gabbia del giudizio
estetico ed essere studiate come l’esito di pratiche che coinvolgono molteplici
attori, ciascuno con finalità e modi operandi propri, legandoli all’interno di
uno spazio sociale che richiede la condivisione di norme, regole, prassi e muta
nel tempo la sua fisionomia in conseguenza delle interazioni (collaborative o
conflittuali) tra i suoi membri.
Quel che ne risulta è una visione più «laica» del rapporto tra moda e arte,
capace di cogliere gli spostamenti dei confini tra i due mondi e il fatto che la
loro parziale contaminazione ha un risultato rilevante: la progressiva ridefini-
zione delle reciproche identità e non, come alcuni pretenderebbero, l’ingresso
della moda nel campo dell’arte; né tantomeno la creazione di un macrouniver-
so ibrido di «modarte», dal momento che anche i lavori che sfidano il confine
possono essere letti come strategie di creazione di capitale simbolico da spen-
dere nel proprio campo di appartenenza. Moda e arte mutano storicamente in
virtù delle dinamiche di campo interne, ma anche in conseguenza degli incon-
tri e degli scontri che si vengono a creare sul loro confine; nel fare questo,
funzionano secondo logiche autonome e poste in gioco specifiche, con margi-
ni di sovrapposizione (descritti alternativamente come attriti o simbiosi) che
diventano visibili quando i due mondi collaborano o competono per conquistare
una posizione privilegiata nell’immaginario contemporaneo.
È questa, ci pare, la chiave di lettura da privilegiare nella lettura dei saggi
che compongono il volume.

3. L’arte della moda e l’arte nella moda

Veniamo dunque all’analisi dei temi sottesi al titolo Moda e arte, comin-
ciando dalla prima delle due macrotematiche menzionate sopra.
La moda è un’arte. O forse non lo è. Oppure possiamo dire che sia un’arte
solo se usiamo il termine in un senso diverso da quello che usiamo per indica-
re le opere di Michelangelo Buonarroti o di Maurizio Cattelan. La questione
viene solitamente molto discussa nei contributi giornalistici, nelle interviste
agli stilisti e nei cataloghi delle loro mostre retrospettive, mentre più rari sono
i contributi di carattere scientifico.
Vi è un’accezione dell’espressione «l’arte della moda» che, per quanto
molto interessante e degna di approfondimento (cfr. Eicher et al. 2000: 287-

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307), dobbiamo escludere subito dal nostro orizzonte perché estranea al con-
cetto di «belle arti», cui fa riferimento invece il termine «arte» nel nostro tito-
lo. Si tratta dell’accezione generica di arte come «tecnica magistrale», ovvero
quell’accezione che usiamo ogni volta che a un artigiano chiediamo di svolge-
re il suo lavoro «a regola d’arte». L’arte della moda sarebbe allora, in quella
prospettiva, l’insieme dei canoni del fare moda, cioè la capacità di creare capi
d’abbigliamento ben fatti, ben funzionanti rispetto a certi scopi funzionali o
estetici. Nell’usare questa espressione si equipara l’arte dell’abbigliamento a
un’arte applicata (come l’arte del gioiello), inserendo quindi la moda tra tutte
quelle forme di artigianato che prevedono anche una dimensione di artigiana-
to artistico. Ciò, peraltro, introduce immediatamente a una questione che ci
avvicina in parte all’argomento del nostro libro. Sorge infatti la domanda –
come in tutte le altre arti applicate – di che cosa contraddistingua l’artigianato
artistico della moda rispetto alla mera produzione di abbigliamento a fini
commerciali. Ma si tratta di una problematica ancora del tutto interna al fare
moda, dato che la sfera dell’arte propriamente detta non vi è coinvolta. Se, in-
fatti, ancora all’inizio del Novecento la dimensione dell’arte era strettamente
legata a quella della lavorazione artigianale (in opposizione alla produzione
industriale), questi schemi hanno successivamente cominciato a perdere signi-
ficatività grazie soprattutto all’impatto che i media, con la loro «riproducibilità
tecnica» sostanzialmente illimitata, hanno avuto sul processo produttivo del-
l’opera d’arte. La questione più interessante, allora, non è se una certa crea-
zione vestimentaria sia fatta a regola d’arte o con una lavorazione artistica
particolare, ma che cosa consenta (o non consenta) a certe creazioni vestimenta-
rie, siano pure l’esito di un processo industriale collettivo di creazione e pro-
duzione, di essere incluse nella sfera di ciò che attualmente è considerato arte.
La domanda non è nuova, sebbene ne siano mutati i termini. Nel novembre
1967 il «Metropolitan Museum of Art Bulletin» pubblicò una serie d’intervi-
ste sotto il titolo: La moda è un’arte? (Norell et al. 1967). Il primo a interve-
nire fu Norman Norell, fashion designer statunitense noto per aver disegnato
abiti per Gloria Swanson e altre star del cinema muto: «Il meglio della moda è
degno di essere chiamato arte», sosteneva, riferendosi ad «artisti della moda»
quali Chanel, Vionnet e Balenciaga, capaci in modi diversi di coniugare ele-
ganza e qualità. Affermativa fu anche la risposta di Irene Sharaff, designer di
costumi per il teatro e il cinema, che nella moda sottolineava la componente
creativa e la capacità di esprimere lo spirito dei tempi, come fa l’arte. Di pare-
re opposto era la scultrice Louise Nevelson, la quale riteneva che per qualifi-
care la moda come arte essa debba «essere un’espressione diretta di chi la in-
dossa ed essere in relazione con il suo ambiente» (ivi: 133) e non, invece,
espressione dell’idea di un designer la cui firma prevale sull’identità di chi ne
veste gli abiti. Per ragioni simili si schierò sul fronte del no il coreografo Al-
win Nikolais: «La moda non è arte perché le donne si affidano così tanto ad
altre persone che disegnino i vestiti. [...] Gli abiti dovrebbero esprimere la tua

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personalità. Dopo tutto, la creatività è un’affermazione di sé, e così vale per i
vestiti: perché la moda sia un’arte, una donna dovrebbe essere la stilista di se
stessa» (ivi: 136). La chiusura era affidata al couturier André Courrèges: «Di
certo non direi che la moda non è arte» (ivi: 138), disse, aggiungendo poi:

Se la funzione dell’arte è di dare gioia attraverso l’armonia, il colore e la forma, forse,


vestendo una donna in modo che si possa sentire giovane e partecipare pienamente alla
vita possiamo, dopo tutto, darle una gioia paragonabile a quella che prova nel
contemplare un dipinto (ivi: 140).

Oltre a evidenziare l’esistenza di opinioni contrastanti, questa breve carrel-


lata fa emergere che le opinioni scaturiscono da criteri di valutazione di vario
tipo, anche se poi non vi è consequenzialità tra il criterio scelto e l’opinione
espressa. Una variabile importante, per esempio, è se s’identifica l’«opera»
della moda (o del fashion designer) con l’abito in sé (l’oggetto materiale) o
con l’abito indossato. La questione è interessante, e rispecchia a suo modo
l’analoga contrapposizione tra le pale d’altare considerate in sé (e per esempio
collocate nelle asettiche sale di un museo) e le pale d’altare considerate come
oggetti d’arte sacra nel contesto della chiesa per la quale furono realizzate.
Nel nostro caso, è interessante notare che tra coloro che mettono l’accento sul
carattere «vivo» della creazione vestimentaria, e identificano quindi l’opera
d’arte vestimentaria con la donna vestita d’indumenti che ne esprimono la per-
sonalità (Nevelson, Nikolais e Courrèges), i primi due ne traggono la conclu-
sione che, allora, la moda non è arte, mentre il terzo sostiene la tesi contraria.
Nella maggior parte dei casi, però, non è la donna rivestita a essere consi-
derata la potenziale opera d’arte della moda, ma l’oggetto materiale, l’abito da
indossare. Scorrendo la letteratura si capisce che coloro che sostengono che la
moda possa incorporare tutte le caratteristiche dell’arte in senso proprio (delle
«belle arti») fanno prevalentemente riferimento ad artefatti che sono stati pro-
dotti dal sistema della moda e che, per le loro caratteristiche di innovatività,
bellezza, forza estetica o unicità, hanno molto in comune con ciò che siamo
abituati a considerare un’opera d’arte. Esempi di questo tipo possono essere i
corpetti di plastica di Issey Miyake, gli abiti deformanti di Rei Kawakubo, gli
abiti metallici di Paco Rabanne, le sculture vestimentarie di Roberto Capucci,
tutte sperimentazioni nate nel contesto del sistema della moda ma capaci di
sorprendere per la loro innovatività estetica e culturale. Alternativamente, si fa
riferimento a proposte di moda che incorporano esperienze artistiche sotto
forma per esempio di citazioni, come nei famosi casi dell’abito aragosta di
Schiaparelli (che cita Dalì) e dell’abito Mondrian di Yves Saint Laurent.
In tutti questi casi ci si pone, chiaramente, sul terreno degli oggetti: oggetti
che si prestano alla museificazione perché sono in grado di esercitare la pro-
pria forza espressiva anche solo attraverso lo sguardo. Non bisogna dimenti-
care, però, che su questo stesso piano degli oggetti vi sono numerosi motivi di

19
distinzione tra l’opera d’arte e l’opera vestimentaria, messi alternativamente in
risalto dai vari autori (Boodro 2011; Radford 1998; Stern 2004).
Si pensi anzitutto alla durata. L’arte è longeva. Certo, sempre più spesso si
assiste a esperienze artistiche effimere, ma finora esse costituiscono ancora la
frangia esterna di un campo basato su materiali durevoli e istituzioni per la loro
protezione, conservazione e restauro. Al contrario, la durevolezza è tenden-
zialmente estranea al campo della moda, dove sono i temi della conservazione
e del restauro a occupare nicchie marginali. Pure nella moda s’incontra l’uso
di materiali durevoli (la plastica di Miyake, il metallo di Rabanne), ma anche
a prescindere dal fatto che il materiale preferito dai creatori di moda, il tessu-
to, resta particolarmente soggetto a usura, la questione fondamentale è che la
moda è di breve durata da un punto di vista concettuale: l’essenza della moda
consiste nel passar di moda, e il destino degli oggetti di moda è di apparire a
un certo punto datati. Il loro interesse passa dal piano dell’esperienza estetica
a quello della storia della cultura, dal mondo dell’arte a quello dei beni cultu-
rali. La moda, insomma, al contrario dell’arte (e del design: cfr. Giacomoni
1984: 61), non mantiene la capacità di svolgere tutte le sue funzioni originarie
anche al di fuori dell’epoca in cui è stata realizzata.
Un secondo aspetto importante è quello del disinteresse. Il significato sto-
rico di questo fattore è immediatamente chiaro: l’arte ha valore per se stessa e
l’opera d’arte viene realizzata dall’artista perché corrisponde a una sua deter-
minata visione estetica, la moda ha uno scopo commerciale e l’abito è creato
dallo stilista per piacere a un pubblico possibilmente vasto di consumatori.
Tanto che la moda si è industrializzata appena ciò è stato possibile, mentre
l’arte continua, nella grande maggioranza delle sue manifestazioni, a conser-
vare un carattere artigianale. Tale significato storico s’è fatto tanto più discu-
tibile quanto meno credito ha raccolto col tempo la teoria dell’art pour l’art.
La discussione su questo aspetto potrebbe ampliarsi a dismisura, ma qui ci inte-
ressa portare l’attenzione su quello che ci sembra il nodo centrale, al di là del-
le molteplici manifestazioni storiche di moda e arte: l’orizzonte sociale entro
cui si forma e viene coltivato l’interesse dell’artista è molto più ristretto e cul-
turalmente omogeneo dell’orizzonte sociale entro cui si forma e viene coltiva-
to l’interesse del creatore di moda. Quindi il gusto e la percezione di novità,
che in entrambi i casi costituiscono le coordinate entro cui l’autore si muove,
hanno nel primo caso un carattere sensibilmente e necessariamente più elitario
che nel secondo. L’opera d’arte deve apparire avvincente e innovativa a un
pubblico assai più ristretto, colto ed esperto rispetto all’opera vestimentaria.
Perciò l’opera d’arte appare particolarmente disinteressata rispetto a quella
vestimentaria, anche qualora non ci si nasconda che il moto economico è uno
stimolo capace di spiegare entrambe.
Un terzo aspetto degno di nota è l’autorialità. Nonostante l’esteso, a volte
parossistico ricorso alla firma nel mondo della moda, è evidente che l’autoria-
lità vi svolge una funzione diversa da quella che svolge nei mondi dell’arte

20
(Bourdieu e Delsaut 1975: 19-21). Mentre nella moda la celebrazione dell’au-
tore è perlopiù solo uno strumento di promozione commerciale impiegato dai
grandi marchi, nell’arte essa costituisce una norma di comportamento piutto-
sto rigorosa e molto osservata. Nella retorica dell’arte vi è una netta divisione
tra coloro che possono fregiarsi del titolo di autori e tutti gli altri soggetti che
hanno partecipato a qualche titolo alla realizzazione dell’opera (e che nell’arte
contemporanea come in quella antica possono essere a volte un grande nume-
ro). Sicché un’opera d’arte porterà sempre con sé il nome del suo preteso autore
o della sua autrice, dei suoi autori o delle sue autrici, mentre le opere vesti-
mentarie sono normalmente anonime, contraddistinte da un marchio industria-
le o dalla firma di un morto.
Il quarto motivo fondamentale di distinzione tra opera d’arte e opera ve-
stimentaria è quello dell’inutilità. Anche sotto questo rispetto, il punto diviene
chiaro se si sfugge alle definizioni più ingenue. Naturalmente le opere d’arte
non sono mai state inutili (perché conservarle sennò?). Ma la loro utilità è cir-
coscritta a un limitato spettro di fattori (esperienza estetica, investimento,
ostentazione, decorazione, denuncia) ai quali, nel caso della moda, si aggiun-
ge sempre (ed è questo che fa la differenza) anche il fattore vestimentario
propriamente detto: abbigliarsi per condurre la propria vita sociale con soddi-
sfazione (Loschek 2009: 171). Elemento, quest’ultimo, che colloca inequivo-
cabilmente l’abbigliamento nel territorio funzionalità degli oggetti che al-
l’adempimento della propria funzione sacrificano la loro stessa esistenza.
Dal punto di vista dei soggetti la moda è considerata un’arte nella misura
in cui è un’attività svolta in stretta relazione con l’estetica e sottoposta a una
poetica specifica (Barnard 2002: 28). A un livello assolutamente generale, Eli-
sabeth Wilson osserva che l’abbigliamento è un «mezzo estetico per l’espres-
sione di idee, desideri e credenze che circolano nella società» (Wilson 2008:
22). Ma la moda possiede anche un’estetica o, al plurale, delle poetiche pro-
prie: l’estetica dell’abbigliamento sartoriale e della haute couture (Miller 2007),
le poetiche proprie dei singoli marchi. In questi casi si tende a far risaltare il
carattere creativo dell’attività dei soggetti coinvolti nella realizzazione di capi
d’abbigliamento, e in particolare dei fashion designer. Angela McRobbie, per
esempio, scrive:

Definisco fashion design l’applicazione di un pensiero creativo alla concettualizza-


zione ed esecuzione dei capi d’abbigliamento, in maniera che essi palesino una coe-
renza estetica formale e distintiva che abbia il sopravvento sulla loro funzione
(McRobbie 1998: 14).

Come osserva anche Malcolm Barnard (2002: 28), questa visione è fortemen-
te centrata sulla contrapposizione tra pensiero creativo e pensiero strumentale,
forma estetica e funzione materiale. Se uno dei crinali che separano l’arte dal
design è quello per cui nella prima la forma prescinde dalla funzione, mentre
nel secondo ne è la conseguenza (Sullivan 1896), identificare il fashion design
21
con un’applicazione del pensiero creativo mirata a produrre un’estetica forma-
le significa collocarlo sin dal principio in un campo più vicino a quello del-
l’arte che a quello del design. Peraltro, come argomenterà Paolo Volonté nel
suo contributo in questo volume, l’impostazione di McRobbie è fortemente
modellata sull’idealtipo del designer londinese, che per motivi storici e am-
bientali è molto prossimo alla figura dell’artista d’avanguardia. Molti fashion
designer diplomati nelle scuole d’arte britanniche privilegiano, nelle loro pra-
tiche, la realizzazione di una «moda da vedere» rispetto alla «moda da indos-
sare» cui si dedica il mainstream dei fashion designer. Ora, chiedersi se la
moda sia arte può apparire un vero nonsense se si guarda, da un lato, ai maestri
dell’arte figurativa (Michelangelo) e, dall’altro, alla produzione industriale di
indumenti d’alta portabilità per un pubblico di massa (Armani). Ma diviene
una domanda molto più naturale e, anzi, perfino banalmente retorica se si
mettono a confronto, da un lato, l’artwear o casi particolari di performance
artistiche, come l’abito di carne di Jana Sterbak descritto in questo volume da
Maria Antonietta Trasforini, e, dall’altro, le sperimentazioni più radicali di
«moda da vedere» proposte tra gli altri dai principali fashion designer giappo-
nesi, «generalmente considerati come artisti da critici d’arte e curatori di mu-
sei» (Mears 2008: 96).
In questi ultimi casi, infatti, la moda – come l’arte – attinge alla retorica
dell’ispirazione, del genio e della creatività. Pur senza nascondere il carattere
fondamentalmente industriale della moda nel suo complesso, al suo interno vi
sono molteplici esperienze e stili professionali che si avvicinano al modello
della creazione artistica. Il design di abiti è descritto come una «creazione», i
suoi esponenti più innovativi vengono considerati un’«avanguardia» capace di
trasformare le estetiche contemporanee, i designer lavorano come artisti con-
cettuali, formando correnti e incorporando nelle proprie opere una funzione di
critica sociale (cfr. Gill 1998). Ciò, peraltro, non riguarda esclusivamente il
fashion design, ma anche la fotografia, la regia delle sfilate e altre professioni
tipiche del settore. Il capitolo di Marco Pedroni descriverà, più avanti, il caso
del coolhunting. Da questa prospettiva è preferibile parlare non della moda
come arte, ma dell’arte dentro la moda, e per questo motivo abbiamo scelto di
dedicare a questo ambito tematico una sezione a se stante del volume (la se-
conda).

4. Due mondi, un destino

Questo ampio ventaglio di argomentazioni pro e contro l’identificazione di


certe esperienze di moda con l’ambito artistico propriamente detto testimonia
in ogni caso della stretta contiguità tra i due mondi e tra le rispettive istituzio-
ni. Ma, appunto, di una contiguità tra due mondi sociali. La domanda intorno
all’equazione o distinzione tra moda e arte non può trovare una risposta com-

22
piuta se ci si limita a osservare le opere, né se ci si limita a osservare gli attori.
È necessario spostarsi sul versante delle istituzioni per chiedersi in che misura
opere e attori del mondo della moda facciano parte, o possano far parte, dei
mondi dell’arte.
Un suggerimento molto utile a questo proposito viene da Nancy Troy, che
propone di spostare l’attenzione dal riscontro di analogie formali, contamina-
zioni e riferimenti incrociati tra stili di moda e movimenti artistici, di cui è pa-
radigmatica la mutua influenza tra Elsa Schiaparelli e Salvador Dalì, alla natu-
ra culturale e storica di tale rapporto:

Accontentandosi di una definizione limitata della relazione tra arte e moda, espressa in termini
di indumenti progettati da artisti o abiti con caratteristiche artistiche, l’approccio [delle grandi
esposizioni su arte e moda degli ultimi decenni] ha privilegiato le analogie formali, che sono
spesso molto efficaci visivamente ma generalmente inconsistenti quando si passa all’esplora-
zione di relazioni strutturali più profonde, le quali, a loro volta, non danno necessariamente vita
a somiglianze stilistiche o formali di qualche tipo tra determinati capi d’abbigliamento e opere
d’arte specifiche (Troy 2002: 3).

A quali «relazioni strutturali più profonde» fa riferimento Troy? Poiché il suo


orizzonte temporale è dato dai primi decenni del XX secolo (l’epoca di Paul
Poiret), ciò a cui la studiosa americana pensa è il contesto economico e cultu-
rale in cui l’espansione dell’industrializzazione del mondo occidentale ha pro-
dotto il diffondersi delle idee, dei valori, delle pratiche e delle contraddizioni
del modernismo e delle avanguardie storiche. L’idea sottostante è che tra le
strategie commerciali di Poiret e le strategie artistiche di Duchamp vi sia un
filo comune dato dallo sconvolgimento che la riproducibilità tecnica degli arte-
fatti ha portato nei mondi basati sui principi dell’originalità, dell’autorialità,
dell’esclusività 3: se la tecnica rende possibile la produzione di copie che non
possono essere distinte dall’artefatto originale, se la riproduzione in serie ren-
de accessibile a molti oggetti che in precedenza venivano ricercati perché uni-
ci e distintivi, allora alcuni valori su cui si fondavano, ciascuno per suo conto,
i mondi dell’arte e della moda diventano improvvisamente irrilevanti.
In quest’ottica, gli sforzi di avvicinamento all’arte da parte di couturier
come Paul Poiret vanno letti non solo come un tentativo di portare alla maison
un’aura estranea al suo alveo naturale, ma anche come la riproduzione di una
strategia avanguardistica che gli artisti stavano sperimentando in quegli stessi
anni per far fronte all’ampliamento dei mercati, alla riproducibilità degli arte-
fatti, alla popolarizzazione dei gusti dominanti. Una doppia attenzione all’élite

3 Nel suo famoso e seminale saggio sull’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecni-
ca, cui le osservazioni di Troy e le nostre sono ispirate, Walter Benjamin nota, tra l’altro: «Ver-
so il 1900, la riproduzione tecnica aveva raggiunto un livello, che le permetteva, non soltanto di
prendere come oggetto tutto l’insieme delle opere d’arte tramandate e di modificarne profon-
damente gli effetti, ma anche di conquistarsi un posto autonomo tra i vari procedimenti artisti-
ci» (Benjamin 2008: 21). Un secolo più tardi tutto ciò s’è fatto ancora più marcato.

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e alla classe media, insomma, non dissimile dalla strategia di promozione dei
pittori cubisti, da un lato ospitati in gallerie private, dall’altro esposti in esibi-
zioni destinate al grande pubblico e pubblicati su libri ad ampia circolazione.
L’analisi di Troy mette in luce che la moda non si limita a scimmiottare
strategie e retoriche artistiche, ma le incarna perfettamente e, in maniera forse
ancora più esplicita dell’arte stessa, canalizza le spinte contraddittorie della
cultura moderna, fondendo cultura d’élite e cultura popolare. E questo non solo
ai tempi della haute couture parigina, ma ancor più oggi, quando la diffusione
dei media elettronici e digitali ha consolidato quelle trasformazioni rendendo-
le indipendenti dal peso della produzione industriale. L’incontro tra arte e mo-
da non va semplicisticamente inteso come un movimento del mondo della
moda che bussa alla porta dell’arte, ma come l’intersecarsi di due mondi che
nell’ultimo secolo sono stati ripetutamente e violentemente scrollati, fin nelle
radici più salde (valori condivisi, convenzioni adottate, principi di legittimità),
dal progresso tecnologico e dalle trasformazioni sociali. L’arte, anzitutto: ciò
che sta profondamente cambiando nel mondo contemporaneo è l’arte più an-
cora della moda.
In conclusione, la domanda se la moda sia un’arte esige una risposta com-
plessa, anche a prescindere dalla preliminare necessità di storicizzare e conte-
stualizzare i concetti di moda e arte. Da un lato, è chiaro che, volendo fare una
considerazione di carattere complessivo che tenga conto della struttura e del
funzionamento dell’intero sistema della moda occidentale, né le molteplici atti-
vità professionali coinvolte nella produzione di abbigliamento di moda né i
moltissimi indumenti che quelle attività producono possono, nel loro insieme,
avvicinarsi a uno qualsiasi dei concetti d’arte che si sono affermati nella storia
della cultura occidentale. Quindi, coloro che affermano che la moda è un’arte
lo fanno in considerazione solo di una parte molto piccola del mondo della
moda, corrispondente all’attività e alle creazioni di alcuni fashion designer di
nicchia, noti non per l’efficacia vestimentaria delle loro creazioni ma, appun-
to, per la loro attinenza a una creatività che s’ispira a quella delle avanguardie
artistiche. Dall’altro lato, se invece si guarda alla dimensione istituzionale dei
mondi dell’arte e della moda, si può osservare la loro manifesta tendenza ad
avvicinarsi, intrecciarsi e sovrapporsi, tanto che la questione di arte e moda
viene sollevata sempre più frequentemente negli ultimi decenni, più ancora in
quest’età di produzione di massa che all’epoca, fa ora un secolo, della produ-
zione artigianale di haute couture. In un momento storico in cui la distinzione
tra cultura alta e cultura popolare sta ormai perdendo ogni residuo senso di
classificazione categoriale (Crane 2005; Gans 1999), le istituzioni dell’arte si
aprono a quelle esperienze del mondo della moda che ritengono più compati-
bili, legittimandone così l’aspirazione a un’elevazione di status: le riviste d’ar-
te dedicano servizi ai fashion designer (come «Artforum» nel 1982, vedi la
fig. 1, p. 56), i musei (come il Guggenheim di New York) aprono le loro sale a
retrospettive di stilisti famosi. Peraltro, in senso inverso, gli artisti e le gallerie

24
ricorrono alla moda come istituzione per incrementare la propria notorietà
quando invitano le sue celebrità a presenziare ai vernissage, accettando impli-
citamente che la legittimità dell’arte, anche di quella più colta, passi oggi per
l’indice di popolarità che riesce a realizzare.
Alla continua ricerca di una conferma e un rinnovo della propria legittimità
sociale, i mondi dell’arte si legano sempre più spesso a sfere sociali contigue
(altri mondi dell’arte, del design, della moda, del cinema, della musica) per
trarre da esse nuova linfa non solo creativa, ma anche sociale e politica. Dal
canto suo il mondo della moda non ha mai smesso di cercare nelle solide tra-
dizioni dell’arte occidentale un appiglio di stabilità per il fluire effimero delle
proprie attività. La questione di moda e arte si ripropone allora da un diverso
punto di vista: non ci chiediamo più in che misura la moda sia arte (o l’arte
una moda), ma quali forme di relazione intercorrano tra i contigui mondi della
moda e dell’arte. A questo argomento dedichiamo il prossimo paragrafo.

5. Ai confini tra arte e moda

Studiare ciò che accade ai confini tra arte e moda significa abbandonare
l’aspirazione a qualche forma d’identificazione tra i due campi e riconoscerne
la rispettiva indipendenza e specificità, un’indipendenza e una specificità che,
tuttavia, comporta l’esistenza di una relazione reciproca, che si manifesta in
fenomeni di vario tipo. I più appariscenti sono ovviamente quelli più facil-
mente visibili, vale a dire quelli che richiedono o producono una cornice spa-
ziotemporale comune. Sono, per questo, i fenomeni che più frequentemente
richiamano l’attenzione di studiosi e protagonisti, quale per esempio l’uso di
spazi istituzionalmente destinati a uno dei due mondi per attività che insorgo-
no nell’altro, col conseguente incontro di soggetti provenienti da entrambi. Si
pensi ai casi di riviste d’arte che hanno dedicato spazi importanti alla moda (il
già citato caso di «Artforum» 1982), o riviste di moda che hanno dedicato un
ruolo all’arte dentro agli stessi spazi istituzionali di presentazione della moda
(«Donna» 1983). Oppure si pensi ai molteplici casi di musei d’arte che hanno
offerto i propri spazi alla retrospettiva di un famoso stilista (Celant 2007; Steele
2008; Wilcox et. al. 2002), alle rassegne internazionali d’arte interamente con-
sacrate al tema della moda (Celant et al. 1996), alle griffe che, come Prada o
Trussardi, creano spazi da destinare a esposizioni d’arte (Rock 2009: 604-667).
Una considerazione a parte la meritano i pochi e perlopiù infelici musei di
moda. Per certi aspetti, in quanto produce oggetti materiali, preziosi, deterio-
rabili, la moda è «museizzabile», e questo l’avvicina molto alle pratiche isti-
tuzionali dell’arte: entrando nel circuito della museizzazione gli abiti impe-
gnano nuovi gatekeeper provenienti dai mondi dell’arte, come i curatori, i galle-
risti, le società d’aste. Ma la collocazione degli abiti in un museo non è una

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scelta approvata da tutti, e le critiche arrivano sia dall’esterno sia dall’interno
del campo della moda. Come osserva Valerie Steele,

se la moda è un fenomeno «vivente» (attuale, sempre in trasformazione), allora un museo di


moda è ipso facto un cimitero di abiti «morti». Infatti, molti di coloro che sono fortemente inte-
ressati all’abbigliamento (tra cui alcuni fashion designer) si oppongono attivamente all’idea
stessa di un museo di moda. È come se pensassero che collezionando gli abiti e mettendoli in
mostra in un museo di fatto se ne «uccidesse» lo spirito (Steele 1998: 334).

In verità, il senso di «morte» su cui insiste Steele deriva dal fatto che i musei
di moda hanno più il significato di luoghi per la conservazione di un patrimo-
nio storico-culturale (la cui «vita» s’è quindi svolta altrove, ed è lì soltanto ri-
cordata e rappresentata) che non il significato di luoghi in cui un patrimonio
estetico possa agire e produrre i propri effetti (cioè «vivere», come le opere
d’arte vivono dentro agli spazi per i quali sono state create). Quest’ultimo, per
la moda, è ancora diviso tra la passerella e la strada.
In verità la sovrapposizione spaziale di moda e arte va molto oltre queste
manifestazioni isolate e appariscenti e coinvolge nel profondo la geografia dei
due campi. Parigi, per esempio, per tutto il tempo in cui è stata centro propul-
sore delle mode all’epoca della haute couture è stata anche una delle città dal-
la più intensa vita intellettuale e artistica (Montagné Villette e Hardill 2010:
461-464). C’è infatti un legame tra lo sviluppo delle molteplici forme d’attivi-
tà creativa nei contesti metropolitani. Esso è stato da tempo riconosciuto dagli
studiosi e trattato di volta in volta, a seconda degli aspetti che se ne volevano
mettere in risalto, coi nomi di cultural economy (Scott 2000), aesthetic eco-
nomy (Entwistle 2009), Warhol economy (Currid 2007). Da questo legame de-
riva che la vitalità artistica è una caratteristica comune alle città in cui nasce la
moda, perché sono città in cui si afferma un’economia generale della creativi-
tà che comprende arte, teatro, musica insieme a moda, gallerie d’arte e locali
notturni, generando sia profitto sia cultura. Città come New York, modello
della Warhol economy, beneficiano di un alto tasso di creativi in diversi settori
dell’industria culturale e, al tempo stesso, di una forte domanda di prodotti
creativi, alimentando un tessuto urbano in cui gli operatori del settore stringo-
no strette relazioni tra di loro e con i propri pubblici. Relazioni che col tempo
si strutturano sin nelle parti più intime dei rispettivi mondi, come le istituzioni
preposte alla socializzazione, tanto che in una città come Londra, capitale
mondiale della moda quanto dell’arte, i principali percorsi formativi dei fas-
hion designer passano attraverso le famose scuole d’arte (McRobbie 1998),
creando nei neodiplomati una cultura in cui arte e moda sono in fondo due
modi diversi di intendere la stessa vocazione professionale.
Ora, volendo provare a riassumere le caratteristiche fondamentali del rap-
porto tra arte e moda, intesi come mondi diversi ma contigui e intrecciati, ci
sembra di poterle identificare in tre tipi d’azione per molti aspetti complemen-

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tari: la moda produce, usa e rappresenta l’arte, pur riconoscendone l’alterità, e
viceversa. Vediamo più da vicino.
L’arte prodotta dalla moda. In questo contesto usiamo il concetto di pro-
duzione in un senso generico, simile a quello impiegato nelle arti dello spetta-
colo. Vi sono molte situazioni in cui la moda produce arte nel senso che alcuni
eventi che scaturiscono dal mondo della moda trovano una propria colloca-
zione legittima all’interno del mondo dell’arte. Uno dei casi più noti è quello
della coppia di concettualisti Viktor & Rolf, di fronte alle cui opere, come os-
serva Richard Martin (1999: 111), «lo spettatore raramente cerca di capire se
siano arte o moda, esattamente come lo spettatore di Wagner non si chiederà
se si tratta di musica o teatro». In molti altri casi la moda ha invece ripetuta-
mente fornito le risorse finanziarie e organizzative per produrre le mostre
d’arte (per i motivi che si son detti) e supportare l’attività degli artisti.
La moda prodotta dall’arte. Non si tratta, evidentemente, delle sole opere
d’arte ispirate al tema dell’abbigliamento o del rivestimento e nascondimento
del corpo umano, ma destinate a una fruizione meramente visiva. L’arte produ-
ce moda quando percorsi nati e sviluppatisi all’interno dei mondi dell’arte
conducono alla realizzazione di indumenti indossabili, che a loro volta posso-
no quindi diventare possibilità vestimentarie per un pubblico interessato all’ab-
bigliamento. Le occorrenze più note sono quelle delle collaborazioni tra artisti e
case di moda dai tempi di Fortuny e Thayaht (Stern 1992) fino a oggi, ma non
bisogna sottovalutare l’impatto che possono avere sul paesaggio culturale circo-
stante le singole opere di artisti come Vanessa Beecroft o Jenny Tillotson.
L’arte usata dalla moda. La moda usa l’arte fondamentalmente in due
modi: come fonte d’ispirazione e per qualificare i propri prodotti. Come fonte
d’ispirazione, nel senso che designer, stylist e registi di sfilate ricorrono spes-
so al patrimonio iconografico e stilistico dell’arte mondiale per stimolare la
propria creatività. Questo è non solo immediatamente ovvio, ma trova con-
ferma in moltissime interviste e biografie di designer riportate in letteratura.
Inoltre, l’arte è usata dalla moda per qualificare i propri prodotti quando que-
sti espressamente incorporano stili o opere d’arte. L’esempio archetipico cui
tutti fanno riferimento è quello che noi stessi abbiamo già citato, e che tornerà
più volte nel corso del libro, del connubio di Elsa Schiaparelli con gli artisti
surrealisti (Mackrell 2005: 135-146; Blum 2007).
La moda usata dall’arte. L’arte usa la moda ogni qualvolta debba impiega-
re l’abbigliamento per i propri scopi (Eicher et al. 2000: 347-373). Spesso si
tratta di una libera scelta dettata da ragioni strettamente artistiche, come nei
casi dell’artwear (Leventon 2005) e della clothes art (Trasforini in questo vo-
lume; Airyung e Steinberg 2005). In certi casi l’arte non può fare a meno di
prendere posizione rispetto alla moda, dato che mette in scena dei corpi uma-
ni. Ciò vale già per le arti visive figurative di tipo più tradizionale, ma trova
nelle arti dello spettacolo il suo terreno d’elezione. L’arte dei costumisti, ov-
vero la sartoria teatrale, non solo è legata indissolubilmente alla moda, ma in

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questo caso – è interessante notarlo – è la moda a divenire modello per l’arte e
non, come avviene solitamente, viceversa. Nelle arti visive e nelle performan-
ce contemporanee, invece, molto spesso la moda offre una sorta di feticcio
della società moderna facile da smascherare attraverso processi di deconte-
stualizzazione o estremizzazione dei suoi prodotti (Loschek 2009: 169).
La moda rappresentata dall’arte. Nella misura in cui usa la moda in pub-
blico, l’arte la rappresenta anche, cioè costruisce dei discorsi intorno alla moda.
Per questo motivo l’arte è anche un’importante fonte d’informazione per la
storia, l’archeologia e l’etnologia della moda (Eicher et al. 2000: 59-67, 366).
Considerata in questi termini, la questione riguarda le mode del passato ed è
quindi di esclusivo interesse metodologico. Ma in ogni epoca, nella misura in
cui ha «messo in scena» una certa moda, l’arte è stata strumento di diffusione
della moda: un abito rappresentato in un quadro ben visibile diviene modello
per tutti. Anche l’arte contemporanea, che pur essendo divenuta in gran parte
non figurativa nelle sue espressioni visive s’è molto arricchita di performance
dal vivo o registrate, si fa archivio d’informazioni sulla moda contemporanea
per la nicchia di consumo degli early adopters (Rogers 2003: 283). Come ha
mostrato Anne Hollander (1993: 311-390), nell’atto stesso di vestirsi, cioè di
scegliere i propri abiti, il consumatore si conforma a un’immagine mentale che
è il prodotto delle immagini fisiche di corpi vestiti di cui ha fatto esperienza,
l’effetto dunque delle rappresentazioni della moda offerte dall’arte e dai media.
L’arte rappresentata dalla moda. Analogamente, anche la moda, nella mi-
sura in cui usa l’arte in pubblico, la rappresenta. Rappresentando l’arte in
pubblico non solo qualifica i propri prodotti, ma contemporaneamente con-
ferma il prestigio e la speciale legittimità dell’arte come sede del bello e del
raffinato.

6. Effetti di campo

Molto si potrebbe aggiungere ancora per completare questo sommario qua-


dro del rapporto tra moda e arte, ma ci sembra di aver messo a fuoco le que-
stioni fondamentali, quantomeno nella forma di un’agenda di tematiche che
vale la pena sistematizzare per ripensare sociologicamente tale relazione, elu-
dendo la gabbia del senso comune e le piste di ricerca più frequentate. In par-
ticolar modo, abbiamo provato a spostare la trattazione di questo tema dal livel-
lo formale e oggettuale a quello sociale e istituzionale, per sottrarla finalmente
a quella trappola concettuale che i mondi dell’arte tendono a se stessi e agli
altri quando finiscono per rinnegare la propria costituzione storica e cultural-
mente contingente, «ontologizzando» così se stessi. Se si sfugge al raggiro, se
moda e arte vengono correttamente intese come mondi sociali istituzionalizza-
ti, allora diventa chiaro che il loro rapporto è un processo d’interazione tra
mondi diversi, in cui entrambi ricercano qualcosa di funzionale alla propria

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sopravvivenza. In questa interazione (che, non va dimenticato, può essere tan-
to reale quanto meramente rappresentata, come quando il couturier si atteggia
ad artista) si creano delle influenze, quasi delle forze gravitazionali, che si ma-
nifestano attraverso gli effetti che producono in ciascuno dei due mondi. Effetti
di genere assai diverso.
Anzitutto vi è un effetto di contaminazione: l’interazione tra arte e moda
produce una crossfertilization dalle molteplici forme e direzioni che, come
tutte le situazioni di fertilizzazione incrociata, genera frutti particolarmente
creativi e innovativi in entrambi i campi, attraverso il trasferimento di cono-
scenze culturali e tecnologiche e competenze professionali tra i due settori.
Alla contaminazione a volte segue, e non deve sorprendere, un effetto di me-
tamorfosi di un mondo nell’altro e viceversa: la moda si artifica, l’arte si merci-
fica. La moda tende a camuffarsi da mondo dell’arte e a far propri alcuni mo-
delli di comportamento sia avanguardistici sia accademici dell’arte contempo-
ranea. L’arte tende ad assimilare dal mondo della moda tattiche, pratiche e vezzi
commerciali e, soprattutto, ad assoggettarsi ai ritmi sincopati della moda. Un
terzo effetto, molto utile per entrambi i campi, è poi quello di legittimazione,
perché ogni mondo o campo sociale ha costantemente bisogno di legittimarsi
agli occhi della collettività. Così, la moda può attingere alle retoriche dell’arte
per legittimarsi come attività di valore e prestigio, e spesso lo fa, anche con
successo. Dal canto suo l’arte rifugge – l’abbiamo ampiamente sottolineato –
dalla moda, che rispetto ai suoi principi e modelli potrebbe risultare facilmen-
te delegittimante, al punto di dissimulare le dinamiche di moda al suo interno,
ma nello stesso tempo si ritrova sempre più spesso a costruire la propria legit-
timazione sociale su quei meccanismi di prestigio sociale (notorietà, glamour)
che sono in verità il terreno di cultura della moda stessa. Infine, l’interazione
tra moda e arte produce anche un effetto d’identità, nel senso che ciascun
mondo è spinto dall’incontro con l’altro a rientrare in se stesso e ridefinire i
propri confini e le proprie ragioni d’essere. Abbiamo più volte detto, e lo si
vedrà più avanti (per esempio nel capitolo di Enrica Morini), che l’arte tende
a identificarsi per opposizione con la moda, che racchiude in sé molti dei di-
svalori da cui l’attività dell’artista si sente minacciata. La moda, invece, fede-
le al proprio carattere equivoco e volubile, pur scegliendo spesso l’arte quale
modello rispetto a cui definir se stessa, lo fa alcune volte per identificazione,
altre per opposizione.
L’individuazione e l’analisi degli effetti qui considerati, e di altri che pos-
sono prodursi nell’interazione tra moda e arte, ci consentono di cogliere la
stretta connessione tra il piano delle istituzioni e quello dei soggetti. Ogni
mondo sociale ha infatti dei confini, e coloro che controllano il campo tendo-
no a presentarli come un «dato» auto evidente, un problema risolto a priori; in
realtà questi confini sono oggetto di una continua rinegoziazione, nella prati-
ca, ad opera dei partecipanti al campo stesso. Studiare gli «effetti di campo»
(cfr. Bourdieu 1992: 70-71) prodotti o subiti dagli agenti sociali – detto altri-

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menti, le conseguenze che il campo come istituzione ha sui suoi soggetti – ci
può dunque aiutare a identificare i margini (provvisori) di un mondo sociale,
le sue regole di funzionamento, le ragioni per le quali i suoi attori scelgono di
invadere (in maniera autentica o simulata) un campo contiguo o di difenderne
le frontiere. Nel nostro caso, la questione è complicata dal fatto che stiamo
prendendo in esame non uno, ma due territori insieme: è pertanto evidente che
lo spostamento del confine tra moda e arte, come in un conflitto tra nazioni
limitrofe, ha conseguenze sull’identità di ciascuno dei campi coinvolti.
Contaminazione e metamorfosi, legittimazione e identità ci sembrano, in
questa prospettiva, prodotti delle interazioni tra i mondi della moda e dell’ar-
te, che si concretizzano in strategie utilizzate dai soggetti per allargare, re-
stringere o ridefinire i confini vuoi del campo della moda vuoi di quello del-
l’arte. Questa idea di campo come «configurazione relazionale dotata di una
gravità specifica» (Wacquant 1992: 23) ci restituisce l’immagine di due mondi
sociali, moda e arte, che come campi magnetici sono segnati da forze tanto
d’attrazione quanto di repulsione, mentre i loro soggetti – come le particelle –
si muovono simili a corpuscoli instabili; è la loro interazione, insieme alla
(parziale) imprevedibilità del movimento, a produrre energie più grandi che fini-
scono per modificare la geografia dello spazio sociale. Sono queste le energie e le
trasformazioni che occorre decostruire per poter leggere il rapporto tra moda e
arte senza opinioni precostituite e al di fuori di ogni retorica celebrativa.
***
Questo volume trae spunto dal convegno internazionale Moda e Arte, orga-
nizzato dal Centro per lo studio della moda e della produzione culturale (Mo-
daCult) dell’Università Cattolica di Milano (9 maggio 2008), e da alcune ri-
cerche empiriche ivi condotte. Ringraziamo Laura Bovone ed Emanuela Mora
per i preziosi consigli di cui abbiamo potuto beneficiare.

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