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Artidesign(De Fusco e Alison)

Introduzione
Oggetto di questo libro è un genere di produzione, proprio di alcuni
settori merceologici e segnatamente dei mobili e degli oggetti
d'arredo, che si colloca fra l'artigianato e l'industrial design e che
proponiamo di chiamare «artidesign». Diciamo subito che non
intendiamo assegnare un nome ad un fenomeno produttivo di
compromesso, almeno nell'accezione più corrente e peggiorativa tra i
due tipi di attività più noti e tradizionali, ma tentare di definire un
campo che, pur risentendo di tali tipi, compromettendoli nel senso
migliore del termine, presenta una sua specificità progettuale,
produttiva, di vendita e di consumo. Intendiamo inoltre dimostrare che
esso, sia pure limitatamente ai settori suddetti, è più importante dai
punti di vista quantitativo e qualitativo dell'artigianato, specie se
arcaicamente inteso, e dell'industrial design, specie nella sua
concezione teorica ed ortodossa.
L'artidesign non è stato finora individuato dalla critica perché non è
sorto da un definito programma, ma si è venuto via via costituendo in
seguito ad una complessa serie di cause. Notiamo intanto che la
produzione artigianale, dalla seconda metà dell'800 in poi, ha subito
una evoluzione tale da differenziarsi notevolmente rispetto alla sua
condizione dei secoli precedenti. Dal canto suo l'industrial design,
nato alla stessa data, ha subito altrettante trasformazioni, soprattutto
teoriche, al punto che oggi non risponde più al modello definito negli
anni '20-'30. Questa duplice metamorfosi può considerarsi una sorta di
avvicinamento delle due esperienze - ed in molti casi si può parlare di
una loro fusione - ma, in generale, abbiamo assistito alla formazione
di un genere «terzo», con proprie caratteristiche e finalità, mentre
l'idea stessa di arte ha subito anch'essa delle modificazioni che hanno
influito sia sul nuovo artigianato, sia sul nuovo design, sia su questo
genere, per così dire, intermedio che chiamiamo «artidesign»; un
termine che racchiude appunto il riferimento alle arti figurative,
all'artigianato e al design.

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Per definire la fenomenologia di questo genere «terzo» riteniamo
pertanto necessario rapportarlo ai concetti-base e alle trasformazioni
proprie dell'arte, dell'artigianato e del design, assunti quali parametri,
quali schemi teorico-pratici rispetto ai quali, per adesione od
opposizione, potremo ricavare i caratteri esponenti del tipo di
produzione che vogliamo evidenziare.

Il parametro delle arti


Alla base di tutta la vicenda storica dell'artigianato e del moderno
design sta l'esperienza dell'arte e segnatamente della pittura e della
scultura. E ciò sia perché pittori e scultori appartenevano ad una
corporazione ritenuta superiore, sia perché le loro ricerche e proposte
morfologiche erano svincolate da diretti scopi pratici, sia perché (e
l'elenco potrebbe continuare) l'arte stessa era considerata sinonimo di
valore, libera espressione spirituale, modello di produzioni minori.
Vedremo più avanti i tentativi di modificare quest'ideologia dell'arte,
resta comunque in piedi la vexata quaestio della distinzione fra arti
pure ed applicate, la quale non va negata adducendo altri argomenti
ideologici, ma studiata riconoscendo realisticamente che artigianato e
design sono delle arti applicate e storicizzando le trasformazioni
teoriche della questione. Intanto, pur nell'accettare la priorità delle arti
maggiori, va riconosciuto a quelle applicate o decorative una certa
autonomia anche in fatto di proposte formali e linguistiche. Se in
generale cioè è facile riconoscere che la pittura e la scultura hanno
fornito all'artigianato molti motivi, vanno anche registrati dei casi che
costituiscono delle vere e proprie inversioni di tendenza. Si pensi a
tutti gli elementi antropomorfi, zoomorfi, fitomorfi e soprattutto alle
«grottesche» (un genere di decorazione nato nell'antichità classica,
riscoperto nel Rinascimento, incrementato dal Manierismo e dal
Barocco e in uso fino al tardo Ottocento) che, sorti chiaramente
nell'ambito delle arti applicate, ebbero tanto successo da passare dalla
superficie pittorico-decorativa a quella plastica, non solo, ma da
passare dall'artigianato al linguaggio dell'arte. Se non vi fossero altre
prove, basterebbe solo quella citata a smentire il perentorio giudizio

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per cui tutto quanto costituisce il patrimonio linguistico
dell'artigianato sia stato sempre prelevato dalle arti maggiori.
Ma al di là di queste considerazioni, miranti in qualche modo a
smentire l'unilateralità ideologica e a ridurre il divario fra arte e
artigianato, mette conto sottolineare ciò che anticipavamo
nell'introduzione: il fatto che l'arte ha subito delle trasformazioni tali
da avvicinarsi all'artigianato prima e al design dopo. La prima causa
ditali trasformazioni va vista nella modificata concezione della
tecnica. Com'è stato osservato, «All'arte 'pura' è stato generalmente
riconosciuto un grado di
valore o di dignità più elevato che all'arte 'applicata': lo stesso concetto
di applicazione implica l'idea di una precedenza dell'arte pura e del
successivo secondario impiego delle sue forme nella produzione di
oggetti d'uso. Questo giudizio dipendeva dalla valutazione della
tecnica come mera pratica, e della pratica come mera manualità, priva
di ogni carattere e forza ideale. Nel secolo scorso, cioè quando
avveniva la 'rivoluzione industriale', quell'ordine dei valori si è
invertito: la tecnica e la pratica, collegandosi a quella scienza positiva
che costituiva il grande ideale del secolo, hanno assunto un valore
ideale, mentre l'antico ideale estetico scadeva, com'è noto, a inutile
accademismo E...] e poiché la tecnica e la pratica implicano un fare,
l'idea del bello si connette al fare e non più al contemplare».[G.C.
Argan, Il disegno industriale, in Progetto e destino, Il Saggiatore,
Milano 1965, p.,133].
Più oltre vedremo le implicazione di questo binomio fare/contemplare
nella teoria dell'arte contemporanea, qui ci preme far cenno ad un'altra
causa delle trasformazioni concettuali subite dall'arte del nostro
secolo; quella dovuta alla modificata concezione di quantità. Lo stesso
autore sopra citato osserva: «sappiamo, per l'esperienza di tanti secoli
di storia dell'arte, che cosa significhi qualità; e non è un caso che
questo termine venga specificamente applicato all'arte, quasi per
contrasto, proprio nel momento e nel luogo in cui ha principio la
cosiddetta rivoluzione industriale. Invece il concetto di quantità, come
concetto di valore, è nuovo. Esso presuppone evidentemente l'idea

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della ripetizione e, s'intende, della ripetizione identica. Si ammette da
tutti che la macchina opera in maniera più precisa della mano
dell'uomo, sia pure armata degli utensili appropriati».[G.C. Argan, Ivi,
pp. 25-26] Il discorso è riferito alla ripetitività propria delle tecniche
industriali e per esse al nascente design ma, a nostro avviso, non può
non riguardare lo stesso artigianato, a sua volta modificato da tali
tecniche. Infatti, mentre il lavoro artistico resta fatto a mano, quello
dell'artigiano comincia ad avvalersi della tecnologia meccanica. I
nuovi materiali, i processi di lavorazione, la tipologia dei nuovi
oggetti, ecc. fanno sì che l'artigiano attinga sempre meno dall'arte fino
al punto da prelevare da essa solo motivi decorativi nell'accezione
deteriore del termine. Riducendosi l'influenza dell'arte, ossia della
pittura e della scultura, sui manufatti d'uso quotidiano è in questo
momento che anche la
loro ispirazione formale comincia ad essere ricercata nella loro
organizzazione «interna» e segnatamente nella loro funzione. In ogni
caso, per il ruolo assunto dalle macchine e per la nuova idea di valore
legato alla quantità, viene teorizzato lo statuto de L'opera d'arte
nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, così come enuncia il noto
saggio di Walter Benjamin.[Cfr. W. Benjamin, L'opera d'arte
nell'epoca della sua riproducibilità tecnica (1936), Einaudi, Torino
1966]. Ma prima di far cenno a questo libro, converrà ritornare su
quell'idea del fare artistico contrapposto alla tradizionale
contemplazione estetica.
Riferendosi specificamente alla poetica dell'arte astratta, ancora Argan
rileva: «Per la prima volta s'è posto il problema di un'arte che non
adorna o consola, ma positivamente concorre ad elevare il tenore di
vita degli uomini, che li soccorre nel loro lavoro quotidiano; che non
chiede di essere interpretata, rivissuta, capita, ma di essere soltanto
utilizzata; che infine si propone di concorrere a determinare negli
uomini un'attitudine attiva e non contemplativa o imitativa, nei
confronti della realtà».[G.C. Argan, Ancora sull'arte astratta, in Studi
e note, Bocca, Roma 1955, p. 120]. Sorvolando sull'accento
eccessivamente partigiano e propagandistico di quest'ultima citazione,

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giustificato dalla polemica in atto nella critica militante (erano gli anni
dell'astrattismo contro il realismo socialista), l'opzione attivista
dell'arte rispetto a quella contemplativa è ricca di significativi
precedenti.
Anzitutto essa riecheggia la tradizione teorica della pura visibilità del
Fiedler, vale a dire la maggiore concezione dell'arte come conoscenza.
Per lui, kantianamente, si ha conoscenza quando diamo forma alle
nostre sensazioni, il che equivale a dire che conosciamo soltanto le
cose che sappiamo in qualche modo fare e costruire; e poiché l'arte è
appunto in primo luogo conoscenza, questa si attua solo nel fare e non
nel contemplare. Il secondo significato di un'arte che si richiama alla
pura visibilità è conseguentemente legato alla didattica artistica: se
conoscenza significa fare, la didattica si risolve in un imparare
facendo; e fu proprio questo indirizzo didattico che, non importa con
quanta consapevolezza teorica, venne adottato presso il Bauhaus,
peraltro coincidendo con la pedagogia froebeliana, il cui principale
assunto era quello di imparare giocando. Ma c'è di più; l'attivismo
estetico, che coinvolse l'artigianato prima (non dimentichiamo che il
programma di Gropius era principalmente rivolto agli arti-
giani) e il design poi, non si limitava a coloro che lo esercitavano
(disegnatori e produttori) ma, almeno in teoria, si estendeva anche a
coloro i quali fruivano dei prodotti. Questi, ideati e costruiti nella
logica suddetta, portati a quel livello di conoscenza e di chiarezza, di
ordine e di economia, di cui parla Fiedier, si traduceva
intenzionalmente in una pedagogia sociale.
Beninteso, nel tentativo che stiamo facendo di ricordare l'influenza
delle arti pure su quelle applicate, ovvero di assumere l'arte quale
parametro rispetto al quale riferire l'artigianato, il design e
segnatamente l'artidesign, non stiamo descrivendo una situazione
storica poi effettivamente realizzatasi. Questa conciliazione fra l'arte e
la tecnica, la quantità e la qualità, il bello e l'utile, pur con positivi
risultati, si è rivelata prevalentemente una generosa utopia. Se non lo
confermasse tutto quanto s'è verificato dopo, ossia la continua
oscillazione fra razionalità ed irrazionalità con momenti di forte

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prevalenza di quest'ultima, basti pensare che la linea estetico-
produttiva cui abbiamo accennato alimentò solo una parte
dell'avanguardia artistica, quella che è stata definita appunto
«razionale» (De Stijl, l'Astrattismo-concretismo, lo stile Bauhaus, il
Costruttivismo, ecc. ), cui si contrappose l'altra definita «viscerale»
(Espressionismo, Dadaismo, Surrealismo, fino alle più recenti
tendenze della neoavanguardia). D'altra parte, se la storia non ha avuto
quell'andamento lineare dell'arte auspicato da autori che vedevano
definitivamente conciliata la questione del bello e dell'utile, le due
anime dell'avanguardia ci offrono un quadro più complesso e in pari
tempo più articolato entro il quale meglio si collocano sia la
fenomenologia dell'arte, sia quella dell'artigianato e del design.
Intanto, come abbiamo già notato in altri nostri scritti sull'argomento,5
una chiarificazione notevole è venuta da alcune riflessioni di Italo
Calvino. Questi, muovendo da un'ottica diversa dal binomio azione-
contemplazione, rileva che il lato «razionale» dell'avanguardia va
inteso come una «mimesi formale-concettuale della realtà industriale
(che) comincia dalle arti della visione e direi anzi dalle arti che
cercano la forma da dare agli oggetti della vita quotidiana».6 Ma, a
smentire l'»ottimismo storicistico» di questa linea, egli,
estendendo il discorso al campo letterario, scrive: «A ben vedere,
anche la linea razionalistica dell'avanguardia, geometrizzante e
riduttiva, nella sua esperienza letteraria più recente ed estrema, quella
di Robbe-Grillet, ripiega verso una interiorizzazione, e lo fa proprio
col suo massimo sforzo di spersonalizzazione oggettiva: il processo di
mimesi delle forme del mondo tecnico-produttivo si fa interiore,
diventa sguardo, modo di mettersi in rapporto con la realtà esterna».7
Il richiamo delle riflessioni di Calvino ha una notevole importanza per
il nostro argomento e in particolare per storicizzare le varie concezioni
dell'arte formulate nel nostro secolo e del rapporto stesso dell'arte pura
con quelle applicate. Infatti, egli riprende, evidentemente in una nuova
luce, il principio della mimesi, un criterio che da sempre ha guidato la
storia e la critica d'arte, accantonato troppo in fretta dagli estetologi
contemporanei. Con tale principio viene riproposto l'altro del

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referente, questa volta non naturalistico come in passato ma incarnato
dalla realtà industriale; quanto valore abbia la riproposta della mimesi
e del referente avremo modo di verificare nel prossimo paragrafo
dedicato all'arte «utile». In secondo luogo è significativa la distinzione
delle due linee dell'avanguardia artistico-letteraria; in terzo, il fatto di
aver visto nelle arti della visione e di una visione produttiva di oggetti
d'uso una priorità rispetto ad altre esperienze estetiche. Altrettanta
importanza va vista nel richiamo (o nell'auspicio) all'interiorizzazione
che, fra l'altro, affranca l'arte da un rapporto meccanico di causa-
effetto con l'artigianato e il design.
A completamento di queste note sulla storicità delle mutevoli
concezioni dell'arte, tanto più importante in quanto l'assumiamo quale
parametro cui rapportare il nostro argomento, va fatto un cenno al
tema dell'avanguardia. Com'è noto, rigorosamente inteso, il fenomeno
dell'avanguardia può definirsi, con una espressione in voga qualche
decennio addietro, un atteggiamento di «contestazione globale». Essa
nega la storia, la tradizione, i passati valori e magari ogni valore; non
accetta alcun sistema socioculturale, nonostante le transitorie
collusioni con la sinistra politica; non collabora con la cultura sia nel
senso del sapere che in quello antropologico; in una parola, il suo
intento è il nihilismo, la sua espressione lo
scandalo, il suo tempo solo il futuro, donde il successo del termine
«futurismo» anche oltre gli specifici programmi della tendenza che
portava questo fortunato e popolare nome. Ma, se è così, perché
occuparci dell'avanguardia artistico-letteraria in un testo che mira a
descrivere un settore particolare che si colloca fra artigianato e
design? Rispondiamo che, nell'assumere l'arte quale parametro per
definire altre discipline, non possiamo negare quella d'avanguardia
che, con tutte le ideologie e contraddizioni possibili, contiene pur
sempre la punta più avanzata delle esperienze artistiche, come del
resto dice la parola stessa. Un altro motivo legittimante l'avanguardia
in questa sede sta nel fatto che spesso non viene intesa nel senso più
proprio ed ortodosso: accanto al nihilismo c'è anche lo
sperimentalismo, che ha offerto all'artigianato e al design tutta una

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gamma di suggerimenti linguistici in mancanza dei quali il primo
sarebbe rimasto relegato al folclore ed il secondo condannato al
commercialismo più banale. Ancora, se il radicalismo
dell'avanguardia non ha realizzato il disegno della «contestazione
globale», è servito a rivoluzionare gusti, usi e costumi, a porre in crisi
ogni posizione preconcetta. Infine, nell'ideologia nihilista
dell'avanguardia si è creato paradossalmente uno spazio propizio per
uno sbocco verso l'artigianato e il design. Infatti, anticipando quanto
diremo fra poco, dal momento che l'avanguardia proclama,
coerentemente alla sua logica distruttiva, la «morte dell'arte», non
restano, almeno in teoria, che due vie d'uscita: o la scomparsa letterale
di ogni prodotto artistico o la fine di una certa forma d'arte per dar
luogo ad altre, tra cui l'arte «utile», un'apertura appunto verso
l'artigianato e il design.

certo senso estraneo al nostro argomento, in quanto il grande


riformatore inglese non pensava tanto ad un'arte utile quanto a tradurre
le arti pure in applicate, il modo più opportuno di impostare il
problema che ci interessa è quello di associare l'arte agli sviluppi della
critica e alle esigenze della cultura di massa, con le relative tecniche di
produzione e di comunicazione. Inquadrato in quest'ottica, il tema
dell'arte «utile» va riferito al citato saggio di Benjamin. Esso ci
suggerisce anzitutto che quella che chiamiamo arte «utile» va
senz'altro identificata con l'arte «riproducibile»; vale a dire con un'arte
che, per esigenze tecniche e sociali, ha perduto l'aura e il valore datole
dai capolavori unici e irripetibili. L'indicazione dell'autore tedesco è
tanto più significativa in quanto non si riferisce solo ad esperienze
artistiche tendenti all'architettura e al design, ma all'intera sfera
dell'arte contemporanea che è riproducibile anche perché predisposta
intenzionalmente alla riproducibilità. Se questo è vero, si riduce quel
divario fra arte libera ed arte applicata sul quale tanto s'è scritto in
passato. D'altro canto, benché tutta l'arte contemporanea sia
riproducibile, essa, utile o rappresentativa che sia, non si può ridurre al

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novero delle tradizionali arti applicate, perché la linea del tipo d'arte
che vogliamo descrivere non cada in questo novero è necessario, per
Benjamin, che essa si politicizzi, mentre, per Calvino, che essa si
interiorizzi.
Civiltà tecnologica, cultura di massa, implicazioni sociopolitiche (si
pensi in particolare alla vicenda del Costruttivismo russo, nato in
effetti con la rivoluzione), necessità di trovare uno sbocco per
l'astrattismo non espressionistico, presupposti ideologici di un'arte che
pretende di rinunziare ad ogni rappresentazione, comunicazione,
semanticità, ecc. sono solo alcuni dei principali problemi entro i quali
si è dibattuta la linea dell'arte «utile». Risulta comunque certo che,
nonostante le aporie e le contraddizioni, quest'ultima, nella sfera
dell'autonomia nella quale vogliamo coglierla, costituì una delle
principali premesse di molta architettura contemporanea e di quasi
tutte le anticipazioni formali del nuovo artigianato e del design. Dal
coacervo di tante implicazioni, cerchiamo di cogliere alcune invarianti
riscontrabili in più tendenze del tipo d'arte in esame.
La prima l'abbiamo già incontrata: l'intento cioè di farsi
mimesi formale-concettuale della realtà industriale. Unitamente a
detta invariante abbiamo già visto la prima contraddizione dell'arte
«utile»: la sua pretesa di affrancarsi da ogni referente. Questo s'è
rivelato un programma impraticabile. Essa è riuscita soltanto a
modificare i referenti: al posto di quelli tradizionali ne sono stati posti
di nuovi. Infatti, sin dall'inizio del secolo, una volta accantonato il
referente della natura, in sua vece veniva assunto un altro fattore
comunicativo: il sentimento, l'Einfllhlung, l'empatia. Ma questa ha
agito come mezzo referenziale sia della pittura figurativa (Futurismo,
Cubismo, Espressionismo), sia di quella astratta (l'Astrattismo
espressionista kandinskiano e più tardi l'Informale) Cosicché l'empatia
non è riuscita ad indicare un referente specifico dell'arte astratto-
concreta, ovvero la tendenza più prossima all'arte «utile».
Successivamente, il ricorso alla geometria non ha fatto altro che
spostare il parametro referenziale dal piano dell'esperienza empirica e
naturalistica a quello di una esperienza culturale: alle forme

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geometriche che sono pertinenti alla pittura e alla scultura tanto
quanto le figure, i paesaggi, le nature morte. Per la stessa funzione di
veicolo ispirativo-comunicativo è stato poi adottato lo «spirito» delle
forme organiche - si pensi al contributo di un Arp - ma, benché più
sofisticato, anche questo referente si trova tanto nelle tendenze
figurative quanto in quelle dell'astrattismo-concretismo. Si è poi
pensato, nel tentativo di trovare obiettivi punti di riferimento, ad un
parallelo fra arte e scienza, chiamando in causa improbabili parametri
come quelli delle geometrie non euclidee, la quarta dimensione e
simili. Infine, s'è detto, come abbiamo visto citando Argan, che
l'astrattismo non voleva essere capito, contemplato, ecc. ma solo
utilizzato; ma che cos'è se non un tentativo di ritrovata referenzialità il
fatto che la più pura arte astratta tenda a tradursi in altro, quanto meno
a farsi modello per l'architettura e le altre arti applicate?

Una seconda invariante dell'arte utile può cogliersi nell'ambito delle


idee (e delle aporie) già citate sulla «morte dell'arte», un vecchio tema
che ricorre in molte tendenze dell'avanguardia, sia del versante
razionale che di quello viscerale. Esso designava il risolversi dell'arte
in filosofia, dell'arte nella scienza, dell'arte nell'estetico della vita
quoti-
diana, ecc. Ma anche quest'idea rientra nelle ideologie rimaste
irrealizzate: se l'arte s'è risolta o è stata ridotta a qua!cos'altro, questo
non è stato né la filosofia, né la scienza, né nell'artisticità diffusa, ma
semmai la tecnologia, con tutti i noti limiti del caso. D'altra parte si
comprende come, per chi voglia produrre forme che anticipino o
mirino a funzioni utili, che non siano espressioni individuali e
soggettive, che si diano quali effimere e transitorie, che siano
insomma segni con raddicenti tutti o quasi gli attributi dell'arte, sia
indispensabile premessa considerare la morte di quest'ultima. E ciò
nella duplice ed ambigua versione di una trasformazione di essa in
dimensione estetica della società e di un morire per dar vita ad altre
forme di manifestazioni artistiche. Sostenitori di quest'idea furono gli
esponenti più radicali del Costruttivismo e di De Stijl, mentre più cauti

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sull'argomento furono gli artisti del Purismo e del Bauhaus che,
architetti o educati in un ambiente di architetti, ritenevano che fra il
bello e l'utile non vi fosse necessariamente contraddizione.
Una terza invariante nelle poetiche dell'arte «utile», questa volta più
ampiamente condivisa, era quella della «sintesi delle arti» intesa in un
modo, per così dire, tradizionale - per cui si dava corpo ad una
produzione col concorso di varie esperienze, quali la pittura, la
scultura, il teatro, la fotografia, la grafica (costruttivisti, neoplastici,
Le Corbusier, soprattutto il Bauhaus) - e in un modo più nuovo ed
inedito: la riduzione della pittura, della scultura, della fotografia in
«oggetti» che superassero lo specifico di questi singoli campi. La
teorizzazione più esplicita ditale idea si ebbe con Lissitsky e la poetica
che egli formulò intorno al concetto di «Proun», ma si trova già
anticipata in Malevich, in Tatlin e in altri costruttivisti fino a ritornare
dopo l'ultima guerra nelle esperienze dell'Arte programmata.
Un quarto punto comune a tutta l'arte «utile» è la presenza di un
«progetto». Questo è conditio sine qua non dell'arte «utile» e tuttavia
si tratta di un progetto sui generis. Infatti, da un lato, esso si
differenzia dai tradizionali studi preparatori di quadri e sculture,
dall'altro, dalla definizione tecnica e puntuale che hanno i progetti
d'architettura e di design. Infatti, mentre per quest'ultimo si tratta di un
progetto per la costruzione di oggetti rispondenti a specifiche, pratiche
funzioni, quello dell'arte «utile» serve a costruire «figure» ed oggetti
la cui funzione resta più che altro immaginaria o virtuale, donde la
maggiore carica potenziale e in pari tempo l'ambiguità di questo tipo
d'arte. Intanto alcuni progetti sono destinati a rimanere tali, valga per
tutti quello di Tatlin per la III Internazionale, ma anche quando furono
realizzati conservarono una carica polivalente ed ambigua.
Emblematica in tal senso è l'opera di Rietveld. La sua famosa poltrona
«Red and Blue», benché nata da una consumata esperienza artigiana,
non va vista come un puro e semplice oggetto d'uso, ma piuttosto
come una conformazione plastica, una sperimentazione conformativa,
sintesi di molti aspetti del linguaggio neoplastico, ridotta, tradotta, per
così dire, «costretta» in forma di poltrona. Lo stesso accade per la casa

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Schroeder che non va intesa come un esempio di architettura quante
piuttosto come una conformazione plastica, una immagine tradotta in
forma architettonica. Insomma lo specifico apporto di De Stijl alla
linea dell'arte utile non si caratterizza come quella di alcuni artisti del
Bauhaus che da una funzione virtuale ricavavano una forma, né come
quella di alcuni costruttivisti russi che muovevano da una funzione
simbolica, ma come un processo che parte da un oggettoimmagine che
trova la sua coerenza interna nel sistema linguistico preordinato e
dopo, ma soltanto dopo, una sorta di destinazione d'uso.

Il design d'artista
Corollario dell'arte «utile» e comunque ad essa legato è il fenomeno
del design d'artista. In generale, quante abbiamo finora osservato circa
l'arte «utile» e implicitamente circa la sua influenza sull'artigianato e il
design si riferisce all'avanguardia storica, alla sua visione totalizzante
e utopica; quanto diremo sul design d'artista riguarda invece la
neoavanguardia, appartiene a questi ultimi anni, ed è, tra l'altro,
sintemo di ciò che nel primo trentennio del nostro secolo fu pensato
ma non realizzato.
Per parlare della differenza fra l'arte «utile» e il design d'artista, di
avanguardia storica e di neoavanguartha, dovremmo a
rigore prima esporre delle rispettive evoluzioni, dalla seconda metà
dell'Ottocento ad oggi, come pure di quelle del nuovo artigianato e del
design verificatesi nello stesso periodo. Se anticipiamo il discorso sul
design d'artista, sulla neovanguardia, è perché vogliamo raggruppare
in un unico, primo capitolo, tutta la questione dell'arte, intesa come
parametro delle discipline più pertinenti il nostro tema. Tuttavia, il
discorso che stiamo per fare, se da un lato consente di non
interrompere il ragionamento sull'arte, dall'altro contiene quanto basta
per capire ciò che è avvenuto nei settori delle arti applicate, che sarà
comunque approfondito nei capitoli successivi.
Diamo intanto provvisoriamente per nota la crisi del design rispetto al
suo modello classico formulato nel ventennio razionalista e la
parallela crisi dell'avanguardia artistico-letteraria, segnatamente quella

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della sua linea «razionale». Al suo posto è venuta affermandosi, dalla
metà degli anni '50, una ripresa della linea «viscerale»
dell'avanguardia storica. E ben vero che anche in questo periodo sono
emersi orientamente propositivi e costruttivi, quali le ricerche di
un'arte programmata e ottico-cinetica (si pensi all'opera di Bruno
Munari, di Enzo Mari, del gruppo MID, per citare solo alcuni casi
italiani). Il che ci consente di non accreditare la rigida equazione:
avanguardia storica = linea razionale e l'altra simmetrica:
neoavanguardia = linea viscerale. Tuttavia le ricerche suddette, benché
pregevoli e talvolta prestigiose, sono rimaste minoritarie nei confronti
della più diffrisa linea irrazionale, antipropositiva, referenziale,
comportamentistica della neoavanguardia. Insomma, nonostante le
nuove forme di astratto-concretismo, matrici come sappiamo dell'arte
«utile», non si può non ammettere che dal dopoguerra in poi hanno
tenuto banco tendenze quali l'Informale, il New Dada, la Pop Art,
l'Arte povera, quella di comportamente coi suoi happening, quella
concettuale con le sue tautologie filosofiche, ecc. Un insieme di
correnti che, sia pure a suo modo, non poteva non influenzare le arti
applicate, il nuovo artigianato e il «vecchio» design, come vedremo.
La dicotomia progetto-destino, proposta da Argan, esprime
chiaramente questa inversione di rotta. «Da una lato, egli scrive, con il
razionalismo costruttivista e funzionalista, c'è il tema del progresso e
del finale riscatto creativo di una società in cui l'arte avrà contribuito a
rinnovare le strutture; dall'altro, con le poetiche dell'irrazionale, c'è il
tema del fatalismo storico, del complesso di colpa, dell'ineluttabilità,
dello scacco dell'impresa umana. Da un lato l'arte come progetto,
dall'altro l'arte come destino. Alla prima si rimprovera di essere
astratta, utopistica; alla seconda di arrendersi senza combattere. Poi si
toccherà con mano che le correnti costruttiviste, che con il loro
progettismo ad oltranza si proponevano di configurare 'storicamente'
l'avvenire della società, mancavano di relazione storica con la società
reale; e che le correnti opposte, anti-razionali, rivelavano con estrema
chiarezza la situzione storica di fatto, per quanto potesse apparire
contraddittoria rispetto alla supposta coerenza della storia. Ma che

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veramente il progetto fosse utopia ed il destino storia possiamo dirlo
soltanto oggi, con il senno di poi».8
Ora, posto che la citata dicotomia descriva la situazione dell'arte pura,
serve anche a descrivere la condizione di quella applicata, nel nostro
caso il design d'artista? E comunque come definire finalmente
quest'ultimo? Alla prima domanda rispondiamo in senso affermativo:
la carica di irrazionalità prevalente nella neoavanguardia si ritrova
puntualmente espressa in molte esperienze del design contemporaneo:
l'anti design, il radical design, la produzione di Memphis e di
Alchymia, ecc.; esperienze che hanno in gran parte alimentato il
design d'artista e ricevuto da esso una conferma. Quanto alla
definizione di quest'ultimo, in prima approssimazione lo si può
considerare come l'opera di artisti dalla formazione tradizionale, di
pittori e scultori che hanno inteso andare oltre i limiti del quadro e
della scultura per proporre la conformazione di oggetti aventi anche
una funzione pratica. In quel termine «anche» è concentrata buona
parte della differenza tra il fenomeno che studiamo e l'arte «utile»
dell'avanguardia storica. Infatti, mentre essa trovava la sua ragion
d'essere quasi esclusivamente in una utilità virtuale, trasferendo la
componente espressiva nel simbolismo della funzione, il design
d'artista non rinunzia affatto al momento espressivo, ma lo mescola, lo
confonde, lo «contamina» con quello utilitario. La principale causa
ditale differenza è dovuta alle due maggiori tendenze linguistiche alle
quali si ispirano rispettivamente i due tipi di arte applicata. L'arte
«utile» dell'avanguardia storica ha avuto come matrice l'astrattismo-
concretismo, il design d'artista della neoavanguardia ha invece quasi
sempre come matrice l'arte neofigurativa. E ciò fa sì che, nel primo
caso, con la presunta perdita del referente da parte dell'astrattismo,
referente diventava, come s'è visto, la stessa funzione pratica; nel
secondo caso, poiché permane la figurazione, oltre alla funzione
pratica è presente negli oggetti anche qualcos'altro: il richiamo
naturalistico, la vena narrativa, l'intento comunicativo, la decorazione,
ecc. Inoltre, se l'arte «utile» puntava al progetto, sia pure inteso in un
modo sui generis, il design d'artista puntò principalmente all'oggetto.

14
Figurazione e utilità s'intrecciano continuamente. In tal senso il
fenomeno non è del tutto nuovo: abbiamo ricordato che nei mobili e
negli oggetti d'uso domestico della tradizione si trovano motivi
antropomorfi, zoomorfi e fitomorfi; in età eclettica e floreale si erano
già visti tavoli a forma di tronchi d'albero o sedie a forma di fiori, ecc.
Le collusioni del design d'artista col Kitsch e con l'»elogio del banale»
sono inevitabili, una volta riammessa questa sorta di contaminazione.
Le differenze fra i due fenomeni di sconfinamento dell'arte
nell'artigianato e nel design non si limitano alle citate diversità
linguistiche, al binomio astrattismo-figurazione. Un altro fattore
distintivo sta in ciò che l'arte «utile», ancorché fatta a mano, fingeva
un processo di lavorazione meccanica; mirava a farsi prototipo di una
serie, era virtualmente inizio di un processo di quantificazione della
qualità. All'opposto, il design d'artista, anche quando non si richiama
ad un referente naturalistico ma ad uno geometrico, tiene a lasciare
una impronta di «imperfezione>, ad evidenziare una lavorazione
manuale.
Ma forse la principale distanza fra gli artisti «utilitari» dell'età
razionalista e quelli collegati alla neoavanguardia sta nel fatto che i
primi tendevano alla purezza, al minimalismo, all'essenziale, al
classico, al tipico, mentre i secondi ad un gusto volutamente spurio,
ridondante, «barocco», in una parola a «far parlare le cose», tanto più
loquaci quanto più insolite o composte da elementi insoliti: drappi di
stoffa, irrigidita dal fiberglass per reggere piani di tavoli; pietre o rami
d'albero per sostenere sedie e carrelli; stilemi del passato o della
tradizione popolare inseriti in mobili costruiti oggi; plastiche
rudimentali per dar corpo ad oggetto più svariati; effetti da trompe-
l'oeil per decorare ogni sorta di superfici, ecc.
Che senso ha una simile produzione artistica in una stagione culturale
come la nostra così fortemente contrassegnata dalla perfezione
tecnologica? Per rispondere al quesito bisogna spostare il discorso dal
piano della forma a quello dei contenuti. Visto che il design storico, il
good design, è, come vedremo, per molti aspetti fallito; che il suo
programma globale e totalizzante è rimasto in gran parte inattuato: che

15
non si è avuta l'auspicata «arte per tutti»; che il futile in molti paesi ha
superato l'utile; che l'industria è pronta a correre qualsiasi avventura
purché il suo prodotto si venda o, quanto meno, se ne diffonda
l'immagine; che in molte aziende il «radicale» ha finito per coesistere
col «commerciale» che insomma molte regole sono saltate, ivi
compresa quella della serialità che in definitiva costituiva il vero
spartiacque fra l'artigianato e il design, perché non riconoscere una
legittimità anche al design d'artista? La risposta non può che essere
affermativa, avvertiti però di due conseguenze: esso porterà ad una
ulteriore confusione in un campo dove la chiarezza è preziosa; esso
trova giustificazione accanto ad altre tendenze in nome del pluralismo
che costituisce un segno del nostro tempo.
A conclusione di questo capitolo dedicato all'arte e alla sua influenza
sull'artidesign va detto che, ribadito il carattere di artisticità sia
dell'arte «utile» sia del design di artista, ovvero l'appartenenza di
entrambi alla sfera dell'immaginario estetico, mentre gli utilitaristi in
definitiva hanno influenzato il design, gli altri hanno influenzato
l'artigianato; anzi costituiscono una conferma che quest'ultimo non è
mai morto, come pretendeva la teoria più ortodossa dell'industrial
design, ma ha assunto altre forme, quella del nuovo artigianato o
appunto quella dell'artidesign.

Il parametro dell'artigianato
Proseguendo nel nostro intento di individuare, definire e descrivere
l'artidesign, dopo le considerazione sul tema dell'arte, iniziamo ad
avanzarne altre su quello dell'artigianato. E necessario premettere che,
come abbiamo parlato di un'arte «predisposta» al nostro obiettivo,
segnatamente l'arte «utile», così parleremo di un artigianato e
successivamente di un design «predisposti» a far lue sul nuovo tipo di
produzione che intendiamo evidenziare. In altre parole, il presente
capitolo e quello che segue, pur avendo una loro specificità, non
pretendono di essere dei saggi autonomi ed esaustivi rispettivamente
sull'artigianato e il design, ma solo insiemi di riflessioni funzionanti

16
da punti di riferimento per quello che abbiamo chiamato un genere
«terzo».
A tal fine, assunto l'artigianato come un parametro o un «artificio»
espositivo, immaginiamo di scomporlo in tre fasi o momenti: il
progetto, la produzione, la socialità che esso instaura (usiamo questo
termine generico perché la vendita, la promozione, il consumo del
prodotto artigianale che esso sintetizza sono più complessi e meno
formalizzati degli analoghi fenomeni presenti nel campo dell'industrial
design). Allo stesso modo, anticipando ciò che diremo sul design,
immaginiamo di scomporlo in quattro fasi o momenti; il progetto, la
produzione, la vendita e il consumo.
Quanto ai tre segmenti dell'artigianato, muoviamo da quello del
progetto. Riferendoci alle produzioni più antiche e alle attuali che
ancora conservano metodi tradizionali, l'opera dell'artigiano può
considerarsi addirittura priva di progetto. Ciò si riscontra in quelle
operazioni meramente esecutive, ovvero di copia dei modelli
preesistenti. In questo stadio, per così dire, primordiale, l'artefice non
si avvale di alcun grafico progettuale, trovandolo come incorporato
nella forma-modello che imita e replica. Ad un livello superiore,
l'oggetto artigianale può essere realizzato sulla scorta di un progetto,
ma esso non precede l'esecuzione, nasce in sincronia con la
lavorazione, che, diciamo così, progetta la forma nel suo farsi. Questo
si verifica specialmente per alcuni campi condizionati da una tecnica
particolare: modellazione ceramica, soffiatura del vetro, ecc. Il livello
ulteriore è quello in cui l'artigiano redige prima un progetto e poi
passa ad eseguirlo. Ma in generale si tratta di un progetto sui generis:
esso non ha quel grado di definizione richiesto da un progetto di
design. Opera di un professionista che sta fuori dall'ambiente fisico
della lavorazione, il progetto di design non può per definizione essere
modificato in corso d'opera, deve contenere tutte le indicazioni per gli
esecutori, non ammette imprevisti, è, come vedremo, una espressione
ne varietur. Viceversa il progetto dell'artigiano, essendo quest'ultimo
ideatore ed esecutore, è una prefigurazione di un oggetto suscettibile
di ogni manipolazione in corso d'opera, è una sorta di pro-memoria

17
che l'artefice fissa per se stesso o al massimo per il gruppo dei suoi più
stretti collaboratori o apprendisti di bottega.
Un caso a parte è quello in cui l'artigiano è chiamato ad eseguire un
modello, nato sì da una progettazione dettagliata ma da completarsi
appunto con un modello a scale reale. In tale circostanza, l'artefice, per
un verso, collabora alla progettazione stessa, per un altro, applica solo
la sua perizia di mero esecutore. Il caso descritto - si pensi ai modelli
in legno eseguiti durante la progettazione di automobili o altri prodotti
formalmente complessi - è quello in cui si raggiunge la maggiore
integrazione fra design e artigianato, anche se il secondo è
chiaramente al servizio del primo.
Ma il nostro excursus sui vari livelli di progettazione artigianale
sarebbe incompleto senza un cenno alla sua più alta espressione,
quella cioè dell'artigianato artistico. Sgombriamo subito il campo
dagli equivoci che comporta tale espressione usata nel modo più
corrente. Per «artigianato artistico» non intendiamo quel tipo di
produzione volto alla manipolazione e alla copia di oggetti
comunemente intesi come «artistici», specie per la materia preziosa
adoperata, bensì tutte quelle lavorazioni con intento altamente
qualitativo quale che sia la natura dei materiali e il genere di articoli.
Chiarito questo punto, avendo dedicato un intero capitolo al problema
dell'arte e alla sua influenza sulle arti applicate, possiamo arricchire le
nostre riflessioni sul progetto dell'argianato artistico e stabilire nuovi
nessi fra arte, artigianato e design. In particolare, possiamo sostenere
due cose: la prima è che fra arte e artigianato il legame è più diretto e
immediato, mentre indiretto e mediato è quello fra arte e design; la
seconda è che raramente il frutto di una intuizione artistica, di una
ricerca sperimentale estetica si traduce in un oggetto di design appunto
senza la mediazione artigianale. Come e perché si riscontrano tali
fenomeni?
In linea di massima, un'opera d'arte, sia pure ascrivibile al genere
dell'arte «utile», nasce disinteressata, appartiene alla sfera della
pulchritudo vaga. L'artista la concepisce inizialmente per il proprio
piacere, per esprimere un suo stato d'animo, per lasciare il segno della

18
sua impronta, per influenzare il gusto del tempo, ecc. In un secondo
momento, quando cioè si vogliono conservare e trasferire i segni di
quell'opera d'arte in oggetti di uso quotidiano, non potendosi ricorrere
direttamente al design che ha bisogno di una progettazione sua propria
e di adeguati strumenti di produzione, interviene l'artigianato
effettuando la suddetta opera di mediazione e trasferendo quei segni in
segni di una pulchritudo adhaerens. Se non esistesse detta mediazione
e si chiedesse all'artista di trasformare l'opera in un oggetto, egli ne
sarebbe incapace, produrrebbe una nuova opera anch'essa medita e
disinteressata. Sarà vero o rispondente solo ad una convenzione, si
può dire, schematizzando al massimo, che l'artista è inventore per
antonomasia, che l'artigiano è «applicatore» della qualità estetica ad
un oggetto pratico, che il designer, interpretando questi precedenti, è
l'autore di un progetto volto a fissare la qualita alla quantità, a
garantire l'iterazione di prodotti aventi queste caratteristiche.
Naturalmente il processo arte-artigianato-design non è così lineare
come lo abbiamo descritto - si è accennato infatti a forme e motivi che
nascono all'interno dell'attività artigianale (le grottesche), né è da
escludere una qualità estetica propria del design che non attinge ad
altri precedenti artistici - tuttavia riteniamo che lo schema esposto sia
di una certa utilità almeno nel definire, in prima approssimazione, i
compiti delle tre categorie di artefici.
Il legame dell'artigiano di alto livello con l'artista si riconosce per un
altro fondamentale motivo. L'uno come l'altro mirano ad un prodotto
unico e irripetibile. Infatti e a conclusione del discorso sulla
progettualità artigianale, sulla classificazione dei vari tipi di progetti
artigiani, risulta evidente che a contrassegnare i relativi manufatti non
è in definitiva la componente progettuale, bensì appunto il carattere di
unicità del prodotto. Ci saranno, come vedremo, altri fattori che distin-
guono l'artigiano dal designer, sarà confermata l'idea che il secondo
concentra tutta la sua attenzione sul progetto, mentre il primo pone
tutto il suo impegno sull'oggetto, ma se vogliamo trovare il fattore
esponente e più caratterizzante l'artigianato di alto rango, esso va
ricercato, ripetiamo, nell'unicità e irripetibilità del prodotto.

19
Nel chiudere il nostro sintetico esame sulla componente
«progetto» dell'artigianato, è d'obbligo riportare due giudizi di
Dorfies, i quali, senza cadere in contraddizione, denotano diversi
aspetti della riflessione estetica sull'argomento. Nel primo si
osserva: «L'opera dell'artista, nel pezzo artigianale, si esplica 'alla
fine' della lavorazione, nel pezzo industriale 'al principio'. Per
questa ragione l'artigianato è destinato ai nostri giorni a diventare
sempre più un'opera 'eccezionale', proprio per la necessità della
presenza incessante dell'artista che ne rende impossibile la
produzione di 'massa' e che invece prevede solo una produzione di
élite. In questo modo l'artigianato sarà ridotto tra breve a un
genere del tutto analogo a quello di pittura e scultura, mirante alla
creazione di oggetti unici e irripetibili e che appunto perciò
saranno di per sé particolarmente pregiati e altamente costosi».G.
Dorfles, Il disegno industriale e la sua estetica, Cappelli Editore,
Bol[ogna 1963, p. 18]. 9 Soppiantato l'artigianato a basso prezzo e
folcloristico dai prodotti industriale, nella previsione di Dorfies, potrà
continuare ad esistere solo quello di singoli oggetti di lusso, di pregio,
«eseguiti da quei pochi artisti- artigiani che avranno la possibilità di
creare della merce altamente specializzata e tale da essere
commerciabile a un prezzo molto più elevato della corrente
produzione di serie».[Ivi, p. 19]. 10 Più pertinente l'aspetto linguistico
e per esso progettuale è quanto lo stesso autore sostiene altrove: «se
uno stretto rapporto 'stilistico' tra opera d'arte e opera artigiana era
evidente sin dai tempi più remoti, qual è la situazione odierna nei
rapporti tra oggetto industriale e oggetto artigianale e tra questo e
l'oggetto artistico? Subdolamente, quasi inavvertitamente, la vis
formativa propria dell'oggetto industriale si vien trasferendo anche a
quello artigianale, come si trasferisce addirittura a quello artistico, alla
scultura, all'architettura».[G. Dorfles, Il divenire delle arti, Einaudi,
Torino 1962, p. 158].11 Anche a non condividere pienamente tale
assunto, esso stabilisce tuttavia una significativa circolarità tra le
esperienze di cui abbiamo discusso, sia pure al solo livello

20
progettuale, che troverà conferma unitamente alla complessità del
problema nel fenomeno dell'artidesign.
Dalla componente «progetto» passiamo ora a quella produttiva che si
riassume in una classificazione del rapporto fra l'artigianato e la
tecnologia. AI livello più elementare l'artefice manipola materiali
naturali che in quanto tali rientrano nella tradizione tecnica più antica,
basata su un'attrezzatura semplice e per molti aspetti costante nel
tempo. Gli strumenti adoperati, com'è stato osservato da molti autori,
possono considerarsi quali estensori e potenziatori degli arti umani e
dell'energia da essi prodotta. «Il sapere e le capacità operative
dell'artigiano consistono proprio nell'abilità di integrare la
componente naturale nell'artificio di cui è maestro».[E. Manzini,
La materia dell’invenzione, Arcadia Edizioni, Milano 1986, p. 30]. 12
Ma, sospendendo la nostra classificazione della produzione in base al
crescente livello tecnologico, occorre svolgere alcune considerazioni
sulla natura dei materiali.
Intanto, in estensione a quanto abbiamo detto sul progetto e trattando
ora il rapporto fra la natura dei materiali e la forma, va ricordato
quanto osservava Henry Focillon. In un famoso saggio del '34, questi
sosteneva che la nozione di forma non è separabile da quella di
materia; poiché la forma non agisce come principio superiore su una
massa inerte, ma su una materia con determinate caratteristiche,
queste sono condizionanti la forma stessa al punto da potersi
affermare che «la materia imponga la propria forma alla forma,
ovvero che le materie hanno «una certa vocazione formale».[H.
Focillon, Vita delle forme, Le Tre Venezie, 1945, p. 74]13 L'assunto è
ineccepibile e richiama subito alla mente alcuni modelli
dell'artigianato e del design scandinavo (i mobili di Alvar Aalto, le
sedie di Finn Juhl, le ciotole di Tapio Wirkkala, ecc.), nei quali le
proprietà del legno sembrano appunto determinare la forma e le stesse
venature del materiali, assecondate ed esaltate, costituire la
decorazione degli oggetti. Recentemente i materiali sono stati
considerati anche per il loro valore semantico e simbolico. A tal
proposito è stato notato: «Lo sguardo scorre sugli oggetti della nostra

21
esperienza quotidiana. Sono forme dotate di qualità; le qualità sono
prodotte dai materiali. La memoria, l'esperienza, l'intuizione cercano
di estrarre da un catalogo mentale i nomi: 'legno' 'ferro' 'plastica'... Il
nostro rapporto con il reale passa attraverso questa capacità di dare dei
nomi: vedere, toccare, assaggiare e, alla fine, riconoscere, cioè
attribuire sulla base di questa conoscenza soggettiva e locale dei
significali più ampi, a loro volta sintetizzati in un nome. La memoria
collettiva è popolata di muri di pietra, mobili di legno, materassi di
lana, spade d'acciaio, corone d'oro: in questi stereotipi i nomi dei
materiali appaiono carichi dei loro significati più larghi; da questi
nomi l'oggetto acquista peso e spessore culturale; la pietra è la sua
durata, il legno è il simbolo dello scorrere del tempo, la lana è il calore
dell'intimità, Facciaio è la forza fredda. Ogni cultura ha conosciuto
simili significati del linguaggio delle cose».[E. Manzini, op. cit., p.
31].
14
Ritornando alla nostra classificazione per gradi di complessità
tecnologica, dopo il primo livello in cui l'artigiano manipola
direttamente i materiali naturali, ne troviamo subito un altro in cui
egli, richiedendo agli stessi materiali una prestaalone maggiore,
perfeziona la sua attrezzatura tecnica e spesso ne predispone o ne
inventa addirittura una ad hoc. Il passaggio ulteriore da una
lavorazione in gran parte manuale ad una affidata ad un congegno
meccanico si ha quando l'artefice si trova in presenza di un
procedimento che comporta movimenti ripetitivi e costanti o quando
la forma dell'oggetto da produrre richiede un grado di maggiore
precisione. Notiamo per inciso che di norma nasce prima l'esigenza di
un ausilio meccanico e poi la macchina che la soddisfa, ma non è raro,
nella storia delle manifatture, che da una invenzione tecnica, ricca
inizialmente solo di potenzialità, se ne sia trovata successivamente
l'applicazione pratica e l'adozione in più settori produttivi. Va ancora
notato che, come l'artigiano, nella maggioranza dei casi, progetta
mentre esegue, così egli adatta, modifica, manipola le sue attrezzature
mentre è intento a produrre: progetto e tecnologia allora, tra gli altri

22
punti in comune, hanno anche questo che si «inventano» in corso
d'opera. Se pensiamo ad un livello di lavorazione superiore, dobbiamo
chiamare in causa non più i materiali naturali ma quelli artificiali,
ovvero frutto di una precedente lavorazione (prodotti siderurgici,
chimici, sintetici, semi-lavorati, ecc.). Anche per essi l'artigiano ha la
duplice possibilità di trasformarli in oggetti fatti a mano o con l'ausilio
di un'attrezzatura meccanica. In ogni caso, pur considerando tutti i tipi
di lavorazione mista e di procedimenti intermedi, ritornano
costantemente quattro fattori: il materiale naturale e quello artificiale,
la tecnica manuale e quella meccanica. Ora, nonostante tutte le
riduzioni possibili per meglio descrivere la varietà della produzione
artigianale, appare evidente che, mentre la componente «progetto»,
rigorosamente intesa, segna un tangibile spartiacque fra artigianato e
design, la componente «produzione», al passaggio dall'uno all'altro
campo, lascia delle zone incerte, polivalenti, di sovrapposizione fra le
due tecnologie. Cosicché, la distinzione fra i due settori a confronto
non va tanto ricercata nel grado della loro meccanizzazione, quanto,
ancora una volta, nel carattere di unicità, di non serialità del prodotto
artigianale.
Alle considerazioni espresse sulla tecnologia artigianale non può
mancare un cenno all'hand made, che è solo in parte un problema
tecnico-esecutivo. Un tempo infatti l'espressione «fatto a mano» era
intesa come garanzia di qualità di un prodotto; successivamente, coi
perfezionamenti meccanici, essa è venuta eclissandosi fino al
completo ribaltamento di giudizio: quel modo di lavorare diventava
inferiore all'altro compiuto dalle macchine. Tuttavia tale ribaltamento
non si è verificato in ogni settore merceologico. In che cosa l'hand
made resta ancora sinonimo di qualità? Anzitutto sarebbe utile
conoscere quanta parte di lavoro manuale sopravvive nella produzione
industriale e segnatamente in quella che può inscriversi nella «cultura
del design». Dominio della manualità è certamente la già accennata
costruzione di modelli a scala reale che, in molti settori produttivi,
precede il prototipo di una serie. Si tratta di fase intermedia tra
ideazione e realizzazione per la quale non esiste alcuna macchina in

23
grado di sostituire la mano dell'uomo, dovendo il modello dar forma e
materia di sperimentazione a qualcosa di totalmente inedito o
comunque abbastanza nuovo da richiedere la flessibilità propria della
tecnica artigiana. Un altro campo nel quale l'hand made si è
dimostrato insostituibile è quello di molti manufatti strettamente legati
al corpo umano: non esiste infatti alcun sistema di confezionare abiti
che superi l'opera del sarto artigiano per esattezza di misure, aderenza
alle esigenze del committente, rispondenza al gusto personale, in una
parola per la qualità stessa del prodotto. Se ciò vale per il campo

della confezione, raggiunge il suo massimo valore per l'alta moda. Qui
notoriamente si aggiungono altre esigenze: originalità dell'articolo,
sua novità, unicità, esclusività, prestigio di una «firma», ecc. Questo
campo, che nonostante i suoi aspetti effimeri costituisce un importante
fenomeno economico e una notevole fonte di reddito per gli ideatori,
le ditte produttrici, le maestranze e le lavorazioni indotte, diventa
emblematico di quella produzione di singoli oggetti di lusso, ad alto
prezzo, di cui parla Dorfies, assegnandola alla creatività dell'artista-
artigiano. Ma, oltre questo settore-limite, autentico antipolo della
serialità meccanica, c'è un altro campo che pure merita un cenno. Ci
riferiamo a quelle lavorazioni, frequenti nel campo dei mobili, in cui
la manifattura meccanica si arresta a un certo punto e per certi
componenti che vengono affidati all'attività dell'artigiano, sia perché il
processo produttivo di un oggetto è di per sé tecnicamente eterogeneo,
sia perché si vuole diversificare ciascun esemplare della serie (ma
questo scopo è stato raggiunto recentemente grazie all'automazione,
come vedremo più avanti) sia perché in definitiva risulta più
economica una manifattura mista e integrata. Peraltro l'esplicita
ammissione da parte dei produttori della suddetta promiscuità
operativa porterebbe all'ideazione di un progetto più libero ed
articolato e non totalmente condizionato da una sola tecnologia;
porterebbe ad identificare e distinguere le lavorazioni manufatte da
quelle artefatte, evitando le frequenti mistificazioni; porterebbe lo
stesso consumatore a riconoscere in un medesimo articolo quanto si

24
deve alle une e alle altre, con un distinto apprezzamento e magari una
maggiore giustificazione di costi e di prezzi.
E veniamo ad esaminare quella che abbiamo chiamato la componente
sociale dell'artigianato; certamente la più complessa presentando al
suo interno una serie di temi e problemi che continueremo a
descrivere con una classificazione del tipo di quelle sopra proposte.
Notiamo anzitutto che l'artigiano, come l'artista, è in genere una figura
solitaria, il che non le toglie carattere sociale. Come ha scritto Hauser,
«il concetto di socialità è inteso in modo troppo angusto se esclude
quello della solitudine».'5 Inoltre sono evidentemente sociali i
problemi dei suoi rapporti con maestranze e apprendisti, quelli con
una società che tende ad emarginare alcuni aspetti della sua attività,
ecc. Ma per uscire dal generico concentriamoci sul maggiore
problema sociale dell'artigianato: il suo impatto con la committenza.
Anche qui muoviamo dal livello più elementare, quello in cui un
singolo committente chiede la mera esecuzione o la copia di un
articolo preesistente. In questo caso è la domanda che prevale
nettamente sull'offerta. Abbiamo definito elementare questo rapporto,
il che non vuol dire che esso sia semplice, specie in ordine alle
motivazioni dell'utente. Questi si rivolge all'artigiano perché l'oggetto
richiesto deve avere una foggia particolare, deve rispondere a
determinate misure fuori commercio, adattarsi a determinati spazi, ad
un gusto determinato; donde la copia di oggetti fuori moda,
pseudoantichi, pseudo - prestigiosi; in sintesi perché tipi e forme di
manufatti non sono più presenti nella normale offerta del mercato.
All'artigiano ci si rivolge in questi casi per la sua perizia, per la sua
abilità puramente manuale, per la sua disponibilità a compiere una
pura e semplice prestazione. Un livello superiore del rapporto si ha
quando l'artigiano non si limita ad essere «braccio» del committente,
ma almeno «interprete» delle sue istanze. Ciò comporta che l'artefice
debba conoscere e condividere il gusto, il costume, le abitudini, le
tendenze del cliente; che debba sapere a chi e a che cosa serve il
prodotto, magari al di là della stessa domanda espressa all'atto della
commissione. Insomma, si tratta di un rapporto diretto, fiduciario,

25
impostato sulla massima conoscenza personale. Ad un grado di
maggiore complessità non è solo il gusto del cliente a stabilire lo
scambio, ma anche quello dell'artefice. Da un lato, questi, consapevole
delle esigenze più diffuse, predispone tipi e modelli che
potenzialmente
sono in grado di incontrare il favore del pubblico; dall'altro, una volta
noto il genere di manufatto che produce un artigiano, lo si contatta per
l'acquisto di quel prodotto o di una sua variazione. Anche ora si
verifica un rapporto interpersonale, ma non più così privato come nei
casi precedenti, non più condotto da una o dall'altra parte, la relazione
domandaofferta assume un carattere dialettico. Ad un livello più
complesso, il rapporto interpersonale si allenta perché subentra l'opera
di un mediatore: il mercante.
La logica del commercio è abbastanza nota perché la si richiami in
questa sede, ma l'azione commerciale legata alla produzione artigiana
richiede un cenno particolare. Il mercante, per un verso, come s'è
appena visto, interrompe il rapporto diretto fra l'operatore e l'utente,
per un altro, agevola lo scambio fra la produzione e il consumo. Egli
infatti, facendosi interprete della domanda del pubblico, suggerisce
all'artigiano di realizzare articoli con particolari caratteristiche, li
compera, li tiene in conto deposito, li immagazzina (azioni tutte che
comportano un diverso grado di articolazione delle vendite), in una
parola: si fa agente di tutta una complessa operazione pubblicitaria,
promozionale, di distribuzione e di vendita che, pur sostituendosi alla
committenza diretta, presenta un processo notevolmente diverso da
quello che vedremo per i prodotti del design. A contatto col mercante,
l'artigiano predispone non più un solo oggetto ma un campionario di
articoli. Questo, essendo ideato e eseguito da un solo artefice è meglio
marcato, più individuabile e spesso meno costoso di quello approntato
dall'industria. Inoltre ai singoli pezzi di tale campionario non si
richiede quella perfezione tecnica e quel grado di finitura propri dei
prodotti dell'industrial design; anzi in molti casi, che i manufatti
artigianali presentino un «difetto» di esecuzione - emblematico quello

26
dei tappeti costituisce un segno di valore, di pregio, restituisce quella
unicità che sappiamo essere il fattore esponente dell'artigianato.
Comunque, a tutti i livelli di scambio, dal più elementare al più
sofisticato, abbiamo quale invariante il fatto che la domanda - sia essa
del singolo committente, del mercante mediatore, di un più nutrito
gruppo di consumatori - prevale sempre sull'offerta, costituendo
un'altra caratteristica esponente dell'attività artigianale.
Il parametro del design
Alla luce degli studi più recenti, l'industrial design non è più visto
come un'attività progettuale tecnico-estetica, bensì come un processo
unitario ma composto - come già accennato - da quattro momenti: il
progetto, la produzione, la vendita e il consumo. Infatti non si dà
progettazione se non in funzione di un determinato modo di produrre,
di vendere e consumare gli oggetti; né produzione che non si basi su
un modo di progettare, di vendere e di consumare; né vendita che non
sia legata a modalità progettuali, produttive e di consumo; né infine
consumo senza oggetti progettati, prodotti e venduti secondo
particolari modalità.16 Questa prospettiva, per così dire, una e
quadrupla della fenomenologia del design colma alcune lacune
presenti nella concezione classica della disciplina, la vede in una
chiave più realistica, l'affranca da una ideologia ora estetizzante, ora
tecnicistica, ora moralistica e, per ciò che attiene il nostro argomento,
ci consente di cogliere, oltre quelle già note, le altre più sostanziali
differenze fra arte, artigianato e design, di individuare le loro maggiori
discrepanze, entro le quali è possibile collocare l'esperienza
dell'artidesign. Insomma, l'ottica del quadrifoglio, com'è stata
chiamata, da un lato ci fornirà un nuovo metodo per rivedere
criticamente il design e, dall'altro, di definire il nuovo settore
produttivo. Tuttavia, poiché non stiamo scrivendo un saggio sul
design, ma lo stiamo considerando solo un parametro di riferimento
atto a far emergere, per analogia o differenza, l'artidesign,
utilizzeremo come schema interpretativo di tale parametro non la
nuova concezione del design (che pure sarà ovviamente soggiacente),
bensì quella classica, così come venne formulata negli anni '20 e '30; e

27
ciò per semplicità espositiva, schematicità degli assunti, gradualità
della evoluzione teorica e soprattutto perché costituisce ancora il
modo più condiviso di intendere la nostra disciplina. Ma qual è la
teoria classica o originaria del design? Essa puntava ad una logica
lineare fondata sulla quantificazione (ottenibile grazie all'impiego
delle nuove tecnologie e indispensabile per rendere convenienti i costi
di produzione), sulla qualificazione (estetica del prodotto, relativa alla
sua durata, alla sua rispondenza alla funzione), sul basso prezzo
(necessario sia per il profitto dell'impresa, sia per l'estensione dei
vantaggi dell'attività industriale all'intera sfera sociale). Si intuisce
subito che questo modello tendeva a conciliare tutte le contraddizioni
emerse dopo la rivoluzione industriale e durante il dibattito culturale
protrattosi per oltre un secolo: arte e industria, interesse privato e
necessità sociali, etica ed estetica, istanze di una élite avvertita e
domanda diffusa di beni di consumo, bisogni materiali e pedagogia
sociale, ecc.; il tutto in uno scenario ottimistico da magnifiche sorti e
progressive. Ma esaminiamo in dettaglio questi tre capisaldi della
teoria storica del design, stabiliendo anche in questo caso un criterio di
gradualità dei livelli tematici.

La quantificazione
Il fenomeno quantitativo presenta il suo livello più elementare quando,
con l'invenzione di nuove macchine capaci di sostituire il lavoro
artigianale, trova l'industria orientata unicamente a fabbricare in gran
numero gli articoli già esistenti. Questi rispondevano alla diffusa
domanda di beni di consumo da parte di un pubblico bisognoso di
molti prodotti: di un pubblico, originariamente sparso nelle campagne
e successivamente concentrato nelle grandi città. Cosicché, senza
richiamare gli aspetti sociali più noti, quali i generali miglioramenti di
vita, l'aumento dei salari, l'attrazione esercitata dall'industria
sull'agricoltura, ecc., possiamo sinteticamente dire che la primitiva
quantificazione dei prodotti è legata all'urbanesimo che fece seguito
alla rivoluzione industriale.

28
Se rimandiamo alla ricca letteratura sull'argomento ciò che concerne
la denunzia degli errori, delle contraddizioni, del profitto
incontrollato, delle condizioni in cui erano tenute le maestranze, ecc.,
e cerchiamo di cogliere il lato positivo della vicenda produttiva palco-
industriale in ordine ai suoi aspetti sociali, possiamo condividere un
sintetico quanto efficace giudizio recentemente espresso. Per esso «La
forza etica dell'industria moderna è stata... un'idea di democrazia dei
consumi. E stata l'equazione 'domani migliore = diffusione dei
prodotti' un'idea semplice e forte che ha agganciato la nozione di
'Progresso' a dei parametri quantitativi che potevano essere
immaginati come in grado di espandersi senza limite alcuno. 2 stata
un'idea vincente che ha mosso e cata-

lizzato un'intera società».17 Più avanti vedremo, in accordo con


l'autore citato, come e perché quest'idea non regge più. Per ora
limitiamoci ad osservare che, per alcuni settori, essa ha retto fino ai
nostri giorni, mentre per altri la quantificazione trovò difficoltà
notevoli sin dalla prima età industriale. Infatti, di fronte a prodotti di
prima necessità, consumabili in breve tempo da un pubblico che solo
allora si affrancava dall'indigenza, era possibile effettuare una
produzione esclusivamente incentrata sulla quantità; ma appena si
passava a beni di consumo, ancorché primari ma tali da richiedere un
minimo d'altro (il valore dei materiali, la solidità dei prodotti, una loro
maggiore durata), il rapporto produzione consumo imponeva altre
caratteristiche. Si passava così ad un livello produttivo più articolato.
Tale articolazione - fermo restante quale premessa indispensabile la
forte quantificazione per ammortizzare le spese d'impianto, per
produrre di più in tempi sempre più brevi, ecc. - si effettuava
adattando continuamente l'offerta alla domanda, perfezionando
tecnicamente il lavoro in fabbrica, escogitando nuovi sistemi di
vendita, creando nel pubblico nuovi bisogni. Non ci riferiamo a quelli
fittizi, incrementati più tardi dalla pubblicità, ma al più positivo
fenomeno di ammettere nuove e più ampie fasce di pubblico alla
fruizione di beni di consumo un tempo solo appannaggio di pochi.

29
Ritorneremo su questo tema dopo aver discusso gli altri aspetti e
livelli della politica volta alla quantificazione. Per ciò che attiene
l'adattamento dell'offerta alla domanda, si effettua ancora un processo
per gradi. Ad un pubblico non più pago dei prodotti primari, l'industria
ne propone altri più ricchi: sono quelli già esistenti e di fabbricazione
artigianale; per quantificarli l'industria non può che copiarli. Un livello
ulteriore si riscontra per i prodotti più ricchi in quanto nuovi, senza
precedenti; qui l'accoglienza del pubblico è maggiore in quanto, tra
l'altro, non ha riferimenti. I nuovi prodotti, generalmente caratterizzati
dalla loro funnone, vengono accettati per la loro prestazione: nessuno
o quasi si interroga sulla «bellezza» di un utile attrezzo.
Successivamente assistiamo al passaggio dalla fabbricazione di
prodotti semplici (possono essere tali anche quelli non primari) a
quella di oggetti complessi e in generale al passaggio da mestieri
semplici a altri complessi. Come osserva Giedion,

«ciò che distingue la meccanizzazione europea dalla americana è


evidente, tanto ai suoi primi inizi nel diciottesimo secolo, quanto un
secolo e mezzo più tardi. L'Europa procede dalla meccanizzazione dei
mestieri semplici: filatura, tessitura, produzione siderurgica.
L'America, fin dagli inizi, si comporta in maniera diversa. Essa prende
l'avvio con la meccanizzazione dei mestieri complessi».18 Questo
processo di complessificazione, i cui lati positivi vedremo fra breve,
comporta una contropartita nella domanda del pubblico. Esso, oltre a
perdere quel rapporto lineare e diretto che aveva con l'artigiano, risulta
diviso nella scelta fra prodotti primari e secondari, fra oggetti di
vecchia foggia ma di nuova fabbricazione, fra manufatti semplici ed
altri eccessivamente elaborati e finisce per accogliere con maggiore
interesse quelli completamente nuovi, per lo più funzionalistici e
meccanicistici. In complesso il suo comportamento è molteplice, il
che non facilita certo gli orientamenti dell'industria, gli scambi ed in
generale il rapporto di produzione-consumo. Per ciò che attiene alla
seconda strategia della quantificazione, quella che riguarda il
perfezionamento tecnico del lavoro in fabbrica, essa sembra porre

30
minori problemi, svolgendosi, in un certo senso, solo sul versante
della produzione Forse il primo strumento del tipo di quantificazione
in esame è quello che discende dal concetto di standard. Esso indica
l'insieme delle norme e dei requisiti tecnici ai quali deve rispondere un
determinato prodotto industriale. Nell'accezione più diffusa la
standardizzazione è sinonimo o, quanto meno, omologo alle nozioni di
normalizzazione e di unificazione. Queste limitano il numero dei tipi e
dei componenti, eliminano le diversità, l'incostanza e l'incertezza delle
norme, creano la condizione indispensabile per la lavorazione in serie,
per la suddivisione del lavoro, per l'attuazione di precisi programmi,
favoriscono il magazzinaggio, l'imballo e il trasporto. Rispetto al
consumo, i prodotti unificati consentono la sostituzione di parti
deteriorate o mal funzionanti; in una parola: incidono anche su un più
spedito rapporto fra produzione e consumo. La standardizzazione
inoltre è alla base della linea di montaggio. «Essa - scrive Giedion -
collega fra loro le fasi della lavorazione. Il suo scopo è quello di
fondere l'industria in un unico organismo nel quale vengono
coordinati i diversi stadi di produzione delle

singole macchine. Questo frazionamento della produzione in


procedimenti parziali e la loro integrazione senza attrito è la chiave
della produzione contemporanea di massa. Il fattore tempo ha una
grande importanza perché la celerità delle macchine deve essere
sincronizzata».19 Gli studi sui tempi di lavorazione in rapporto alle
capacità umane condotti da Taylor costituiscono il tentativo, per molti
versi ambiguo, di facilitare lo sforzo quantitativo e di sfruttare al
massimo la forza-lavoro, rappresentando in pari tempo uno degli
aspetti più scientifici dei metodi di quantificazione
Relativamente alla via per quantificare la produzione allargando la
fascia dell'utenza, emblematica in tal senso e sintetica di tutte le
strategie prima adottate, fu la politica socioproduttiva di Henry Ford.
Questi, come ricorda sempre Giedion, riteneva che un impulso allo
sviluppo quantitativo «poteva avere origine soltanto in un nuovo
prodotto che imponesse la necessità di rifare da capo tutte le

31
esperienze. Intorno al 1900 questo ruolo spetta all'automobile. Il
merito di Ford fu di riconoscere, prima di qualsiasi altro, la possibilità
di democratizzare il veicolo che sino allora era considerato soltanto
per privilegiati. Il concetto di trasformare un meccanismo complesso
come l'automobile da articolo di lusso in un normale oggetto d'uso, e
di adeguarlo nel prezzo alla normale capacità di acquisto, come
qualsiasi articolo da grandi magazzini, sarebbe stato inconcepibile in
Europa. La fiducia di poter trasformare l'automobile in un articolo
della produzione di massa, con la prospettiva di rivoluzionare a fondo
la produzione, assicura a Ford il suo posto nella storia».20 Restando in
tema di quantificazione e in quello di politica produttiva, va ricordata
un'altra iniziativa di Ford. Vedendo nelle sue stesse maestranze dei
potenziali compratori di automobili, egli aumentò la paga a 5 dollari
per giornata lavorativa di otto ore al posto di un salario inferiore per
l'allora tradizionale giornata di nove ore; il che consentì alla sua
fabbrica un'attività a ciclo continuo con tre turni di lavoratori al giorno
al posto di due, incrementando così la capacità produttiva degli
impianti di quasi il 50%.21
Questi aspetti di politica aziendale possono sembrare fuori scala
rispetto al nostro discorso incentrato sul design degli oggetti
domestici, ma più avanti vedremo come le idee di

Ford risultino pertinenti anche gli aspetti qualitativi della produzione.


Intanto, per completare il nostro schema sui progressivi livelli di
quantificazione, veniamo alla serialità di quelli sui quali s'incentra la
nostra indagine: gli elementi d'arredo, i mobili, le suppellettili di lusso,
ecc. E per essi che la produzione industriale non può più fondarsi sulla
sola i quantificazione a causa dell'entrata in campo di fattori quali- i
tativi ereditati dall'arte e dall'artigianato, associati a concetti o pseudo-
concetti di varia natura: estetica, etica, sociale, ecc. i Non vogliamo
ritornare su vecchie polemiche, del resto estranee ad un saggio che
non pretende di essere una storia del design. Restano tuttavia ancora
attuali e problematici alcuni i punti di quel dibattito.

32
Il primo riguarda il fatto di aver introdotto nella questione della
produzione industriale la tematica estetica, del resto inevitabile per
alcuni settori merceologici, a cominciare da quello cui ci riferiamo e
che in seguito approfondiremo. Tale introduzione ebbe motivi ed esiti
ora negativi, ora positivi. Quanto ai primi, fu certamente sbagliato
limitare il concetto di qualità alla sola qualità estetica, a scapito
magari di altre. Fu pure un errore, non tanto ispirarsi al modello
dell'arte e i dell'artigianato di lusso, quanto pretendere di ritrovare nel
i prodotto di serie lo stesso tipo di espressione estetica delmodello
citato. Quanto ai secondi, l'aver puntato così in alto, I l'aver coniugato
il bello all'utile, l'aver richiesto che nell'era ç della meccanizzazione,
l'industria superasse o almeno pareggiasse la qualità dell'arte, ha
costituito, pur fra cento aporie, una salutare azione frenante alla
quantificazione incondizio- i nata. Ma il più utile aspetto della
componente estetica, lad- .s dove non s'è ridotta ad una concezione
estetizzante, sta in ciò c che essa ha prima o poi convinto tutti che non
si dava quantificazioae senza qualificazione del prodotto industriale, i
Cerchiamo una conferma ditale assunto nel testd del paragrafo che
segue.

La qualificazione
Com'è stato osservato, «sin dal tempo di Galilei e di Cartesio.., la
scienza moderna, e in particolare la fisica, è
convinta che la natura, in quanto esiste indipendentemente dall'uomo,
abbia una conformazione quantitativa. Gli uomini, infatti, vanno
d'accordo tra loro quando devono stabilire dei rapporti quantitativi (ad
esempio la lunghezza o la larghezza di una superficie), non quando
debbono stabilire una qualità. E difficile che ci si metta d'accorso
sull'esatta sfumatura di un colore. La sfumatura del colore resta un
evento privato, strettamente legato alla conformazione fisiologica o
psicologica di ognuno di noi. Ma ciò che è «privato» esiste soltanto in
un individuo e non negli altri: non ha una esistenza esterna alla mente
alla quale esistenza ogni mente umana possa riferirsi».22

33
Questa concezione scientista, superata peraltro dallo stesso Cartesio, è
estranea alla nostra indagine sulla qualità, sia essa estetica che di altra
natura. Tuttavia contiene qualcosa di vero quando sostiene che il
grado di obiettività per ciò che attiene i valori quantitativi è maggiore
di quello che attiene ai valori qualitativi; un problema tutt'altro che
trascurabile laddove, come nel caso del design, gli uni devono esistere
accanto agli altri. La gran parte dei teorici della nostra disciplina
infatti ha speso molte energie per provare tale coesistenza.
Per molti di essi, qualità e quantità interagiscono già a livello di
progetto. «Nel processo produttivo industriale, il progetto è una specie
di idea platonica, ne varietur: si sa che la macchina non potrà che
stamparlo in migliaia di esemplari, senza che nessuna modificazione o
adattamento possano aver luogo nel corso della lavorazione. Il
progetto deve quindi comprendere in sé, nel suo tracciato, la coscienza
di tutte le condizioni tecniche inerenti alla sua realizzazione; deve
implicare la corrispondenza dell'oggetto a tutte le esigenze pratiche
cui deve servire, e non solo alle esigenze di questo o di quell'individuo
o gruppo sociale, ma alla media delle esigenze collettive, e porsi
quindi come uno standard; deve prevedere e risolvere anche tutte le
condizioni inerenti alla materia, perché nessuna distinzione, nessun
distacco possono più sussistere tra il mondo ideale, o dello spirito, e il
mondo pratico, o della materia. Ed è appena il caso di rammentare che
l'oggetto prodotto dall'industria non è mai prodotto in una materia
'naturale'; la materia naturale si presta al naturalismo dell'arti-

giano, mentre l'industria forma le proprie materie nell'istante stesso in


cui determina le proprie forme, esige materie 'sintetiche' per le sue
forme 'sintetiche'. E dunque il 'progetto' o il 'disegno industriale'
quello che determina a priori, e sempre in rapporto alla funzione, la
qualità, ch'è poi sempre qualità estetica, del prodotto; e non può,
nell'attuale condizione della cultura, darsi un buon progetto che non
nasca da un processo di intuizione o di invenzione, cioè da un
processo tradizionalmente ritenuto di carattere estetico e proprio degli
artisti».23 Ove si escluda qualche accento un po' datato, questa

34
definizione del progetto sembra essere una delle più complete e
riuscite: essa segna la maggiore differenza fra design e artigianato e
collega appunto la qualità alla quantità. Ma se resta valida quale
espressione della teoria classica del design (quella beninteso alla quale
riferiamo il discorso che andiamo svolgendo per l'individuazione di
parametri utili cui rapportare l'artidesign), lo è meno se la
consideriamo nella nostra più recente ottica del design come processo
composto da quattro momenti. Riferita a quest'ultima, l'accento posto
sul progetto risulta da un lato idealistico e dall'altro riduttivo: è
idealistico in quanto è assegnata una valenza eccessivamente intuitiva,
una conoscenza a priori capace di prevedere l'intero processo che
percorrerà il prodotto; è riduttiva perché le altre fasi o momenti della
fenomenologia del design (produzione, vendita e consumo) vengono
quasi completamente introitate solo nella fase iniziale, quella appunto
progettuale. L'esperienza ci dice che non è così: ciascuna fase
condiziona ed è condizionata in pari tempo da tutte le altre, talché
nessuna può assumersi come la principale. Certo, il progetto può
esistere anche senza essere realizzato, ma se intendiamo riferirci a un
prodotto di design, tutte le altre componenti entrano in gioco e
pariteticamente. Ritornando allo schema classico di riferimento, va
osservato che altri autori non sempre hanno assegnato alla qualità la
valenza estetica, in ciò confermando peraltro la nostra idea
dell'importanza «relativa» che assume il progetto nel processo del
design. Com'è noto fu lo scultore americano Horatio Greenough a
trasferire la formula del naturalista Lamarck, «la forma segue la
funzione», nel campo dell'architettura, dell'arte, delle manifatture. In
particolare, intorno al 1850, a proposito delle macchine, egli

diceva che se confrontiamo la prima forma di una di queste macchine


«con un nuovo più perfezionato modello dello stesso strumento,
noteremo, esaminando le fasi del perfezionamento, come il peso sia
stato ridotto nei punti in cui v'è minore bisogno di forza, come le
funzioni siano state ravvicinate senza però che l'una con l'altra si
impediscano, come i piani siano stati curvati e le curve spianate,

35
finché l'incomodo e zoppicanto ordigno non si trasforma in una
macchina solida, efficiente e bella».24 Qual è il ruolo del progetto in
questi frequenti casi di perfezionamenti produttivi di un oggetto? Esso
sarà ne vari etur nel caso semplice e diretto della realizzazione di un
solo modello, ma quando quest'ultimo viene perfezionato in ulteriori
elaborazioni seriali e, non è solo l'intuizione progettuale che conta ma
soprattutto l'esperienza produttiva del lavoro, la facilità o meno delle
vendite, il successo o meno presso il pubblico dei consumatori.
Notiamo peraltro che l'applicazione della nota formula funzionalista al
design ha avuto in America applicazioni più dirette e meno ambigue
di quelle ricevute in Europa, Come dice ancora Greenough, «per
bellezza io intendo la promessa della funzione, per azione io intendo
la presenza della funzione, per carattere io intendo la traccia della
funzione».25 Se è vero che il progetto di Ford per le sue automobili
nasce da tali presupposti, si comprende perché la loro estetica è simile
a quella di tanti oggetti di anonymous design: quella delle navi, dello
yacht, delle barche da canottaggio, del sulky e di tanti altri attrezzi
sportivi. In più, nello stesso progetto c'è quel senso di continuo
perfezionamento della macchina citato nel passo di Greenough; e non
può essere altrimenti perché Ford non pensa alle oscillazioni del gusto
ma ad un modello via via più perfetto: «ogni giorno, in passato,
accarezzavo l'idea di un modello universale>.26 Le principali idee di
Ford in ordine all'estetica, alla funzione, al senso del prodotto,
insomma alla qualificazione di questo, si possono ricavare da poche
citazioni dei suoi scritti. Per ciò che attiene ad uno dei fondamentali
temi del dibattito europeo, il rapporto utilità-bellezza, egli scrive: «la
domanda è questa: è meglio sacrificare l'artisticità all'utilità, oppure
l'utilità alla bellezza? Quale sarebbe ad esempio la funzione di una
teiera dove il beccuccio, per un intervento artistico, non consentisse di
versare il tè? 0 quella di una vanga, il cui
manico riccamente ornato ferisse la mano di chi la usa?...
Un'automobile è un prodotto moderno e deve essere costruita non per
rappresentare qualcosa, ma per prestare il servizio per cui è
prevista».27 L'assunto è volutamente polemico e le domande

36
retoriche. Già molti altri, a partire da Lodoli, avevano distinto la
«finzione» dalla «rappresentazione» e, nel caso di incompatibilità,
optato per la prima; si veda a tal proposito quanto abbiamo scritto nel
paragrafo sull'arte «utile». Il merito di Ford non sta dunque nell'aver
teorizzato il funzionalismo, quanto di averlo tradotto in tangibili
prodotti, anzi di aver offerto esempi reali di questa riduzione
all'essenziale. Più significative sono le idee del grande industriale
americano nel perseguire il continuo perfezionamento di un unico
modello, idee che, probabilmente motivate da una iniziale scelta etico-
estetica, implicano anche ragioni produttive e sociali. Nella sua
autobiografia si legge: «Se il piano costruttivo di un articolo è stato
ben studiato i cambiamenti saranno molto rari e si verificheranno solo
nelle grosse parti di congiunzione: nel processo di produzione, invece,
i cambiamenti saranno assai frequenti e del tutto spontanei .... I miei
soci non erano convinti che le nostre automobili avrebbero anche
potuta essere limitate a un solo modello .... E mio vanto che ogni
pezzo, ogni articolo che produco sia lavorato bene e sia robusto, e che
nessuno debba trovarsi nella necessità di sostituirlo. Ogni buona
automobile dovrebbe durare quanto un buon orologio».28 E tale fu il
caso del prodotto più famoso, l'automobile Modello T, tenuta in
produzione dal 1908 al 1927. Questa, pur essendo la prima utilitaria
ridotta all'essenziale, era costruita con materiali di grande resistenza:
acciaio al vanadio e metalli dal trattamento speciale, che le
conferivano leggerezza e resistenza.
In sostanza la poca considerazione di Ford per il fattore estetico, anzi
il suo sarcasmo sull'argomento, sta ad indicare una posizione che va
oltre il binomio forma-funzione per giungere ad altri valori: per lui la
qualità è sinonimo di efficienza, di durata, perfettibilità del modello,
tenuto in produzione per anni; in una parola: l'ideale di un modello
universale.
Al contrario, per altri autori - e non importa qui se a distanza di tempo
e di diverso contesto storico - la qualità di un prodotto è notevolmente
connessa alla novità. Per indivi-

37
duarla si sono effettuate inchieste conoscitive, indagini di mercato e,
ad un livello più teorico, si è chiamata in causa persino la teoria
dell'informazione. Relativamente ad essa, Dorfies scrive: «Poiché la
teoria dell'informazione si basa essenzialmente sulla ricerca della
quantità d'informazione presentata da un dato messaggio, sarà facile
convincersi che l'informazione stessa sarà tanto maggiore quanto
maggiore sarà l'imprevedibilità del contenuto di tale messaggio .... Se
ora applichiamo tale principio al caso del disegno industriale, ci sarà
facile arguire come l'inaspettatezza del messaggio (offerto dall'oggetto
industriale di nuovo conio), la sua novità dunque, sia fondamentale
per ottenere un alto grado di informazione, per presentare cioè al
consumatore un alto grado di sollecitazione all'acquisto. Tanto più
nuovo, più insolito, più inedite sarà l'oggetto posto sul mercato, tanto
più facile, più intensa ne sarà la richiesta».29 Ma è poi vero che il
gusto del pubblico si orienta sempre verso la novità? Risponderemo
più avanti a questo quesito. Intanto, a completamento dei cenni sulla
teoria dell'informazione, va detto che questa, accanto al momento
della novità, contempla anche il momento della ridondanza, vale a dire
la parte più nota e facilmente riconoscibile di un messaggio. Cosicché,
come non si dà informazione senza che questa si colleghi alla
ridondanza, altrimenti chi riceve il messaggio non sa a quale codice
riferirlo, allo stesso modo, in un oggetto di design dev'esservi, ai fini
dell'informazione, qualcosa di già noto accanto a qualcos'altro di
inedito. Del resto, senza chiamare in causa criteri così sofisticati e
legati ad una logica scientista, ma basandosi sulla sola esperienza
storicaGeorge Kubler nota: «Ad ogni istante i desideri umani sono
divisi tra replica e invenzione, tra il desiderio di tornare agli schemi
conosciuti e quello di sfuggirne attraverso una nuova variazione. In
generale il desiderio di ripetere il passato ha sempre prevalso
sull'impulso a staccarsene. Non ci sono mai azioni completamente
nuove, né è mai possibile compiere un'azione senza qualche
variazione. In ogni atto si mischiano sempre inestricabilmente la
fedeltà al modello e il distacco da questo, in proporzioni che
assicurano una ripetizione riconoscibile senza escludere quelle

38
variazioni minori che il momento e le circostanze permettono. Quando
l'importanza della variazione supera la quantità di
copia fedele abbiamo un'invenzione. In tutto l'universo la replicazione
totale assoluta supera probabilmente le variazioni: se fosse altrimenti,
l'universo ci apparirebbe assai più mutevole di quanto non sia.»3° ,

Volendo riassumere le osservazioni sulla componente qualitativa del


design, possiamo dire che la tesi più accreditata è quella che
attribuisce al progetto il maggiore ruolo nella determinazione della
qualità: la presenza stessa di un progetto sembra garantirla; dire infatti
che un prodotto è stato progettato equivale a dire che esso è stato
ideato, studiato, previsto in ogni dettaglio. Abbiamo altresì visto che
vi sono ulteriori modi di interpretare la qualità, tutti conservando
aspetti problematici: la qualità estetica; la qualità come sinonimo di
perfetta costruzione e di durata; la qualità come «novità», ecc. Più
avanti noteremo come e fino a che punto il design storico è rimasto
fedele a tali principi, quali fra essi è stato trascurato, quale, a torto o a
ragione, ha prevalso sugli altri.

Il basso prezzo
Ultima ma non per ultima, nella teoria classica del design, è la
questione del prezzo. Essa, come abbiamo già notato, è intrecciata alle
altre componenti: la quantità, ripetiamo, è indispensabile affinché si
riducano i costi di produzione; la qualità incentiva la domanda
appunto quantizzandola; ma l'una e l'altra componente non si
realizzano se il prezzo del prodotto non è accessibile al maggior
numero possibile di consumatori. Nella circolarità di questi tre fattori,
il basso prezzo chiama in causa, più degli altri, il tema del consumo, di
quella fase cioè che in definitiva sancisce il successo o il fallimento di
ciascun prodotto. La questione prezzo non rifletteva (e per alcuni
articoli riflette ancora) solo una logica produttiva e commerciale, ma
toccava anche aspetti ideologici, culturali e socioeconomici. Essi non
erano che ipotesi, previsioni, auspici, rivelatisi spesso irreali, ma non

39
per questo privi di fondamento e comunque dimostratisi utili, ancora
una volta, come punti di riferimento.
Una ditali ipotesi era quella per cui «tutti gli uomini sono uguali» e di
conseguenza «tutti hanno i medesimi bisogni»
(Le Corbusier); un'altra sosteneva il principio dell'»arte per tutti»,
ovvero il sogno dell'avanguardia di vedere un'esteticità diffusa nel
mondo degli oggetti quotidiani; un'altra dichiarava la bellezza come il
«superfluo necessario»; un'altra ancora predicava l'*<orgoglio della
modestia», ecc. Confessiamo di essere ancora legati a questi assunti
che facevano parte dell'etica della moderna produzione industriale e
costituivano il sostegno teorico di un'idea, quella per cui, grazie alla
quantificazione ottenuta mediante una semplificazione qualitativa e al
basso prezzo, si intensificava la produzione mentre si realizzava una
maggiore giustizia sociale. Ma non saremmo obiettivi se non
riferissimo anche l'altra faccia ideologica della questione, che trova
emblematica espressione in uno scritto di U. Ojetti: «Prima la chimera
democratica, poi la povertà sono venute umiliando le arti decorative; e
non esse soltanto. Quante se ne sono vedute di mostre coi modesti
mobili pensati benignamente da architetti borghesi per le case degli
operai, per le case dei contadini, per le case degli impiegati?
Sarebbero state mostre pratiche e molto utili se nel loro programma
non si fosse dimenticata un'eterna verità, cioè che borghesia, piccola
borghesia, operai, contadini sempre hanno desiderato e sempre
desidereranno di imitare anche nei mobili le classi che socialmente
sono o sembrano poste più in alto e che servono loro di modello. Ma
in Europa si vive da più di cent'anni nell'illusione di mutare una volta
per sempre gli uomini secondo taluni santi principi: anche qui
fraternité, liberté, égalité, e l'eguaglianza, adesso arrivata fino all'arte
con l'aiuto della povertà universale, consiste nel rendere tutti umili e
nello spianare le cime, che sarebbero un modo di spianare
l'intelligenza e il gusto».31 Quale che sia il giudizio su tale posizione,
essa, identificandosi col precetto del «lusso necessario» costituiva
l'antipolo dell'altro de l'»orgoglio della modestia». In questa
alternativa si muoverà l'intera vicenda del design italiano. Per capire,

40
in questa disputa evidentemente più ideologica che effettivamente
economica, quale fosse il «prezzo» da pagare per il basso prezzo, è
necessario collegare la questione alla reazione del pubblico.
L'obiettivo che si proponeva la teoria classica del design comportava
evidentemente uno scotto. Gli oggetti dovevano unicamente riflettere
la loro funzione, non concedere nulla alla

decorazione, al simbolico, all'immaginario, vale a dire a tutti quei


valori connotativi che da sempre avevano accompagnato la forma dei
manufatti, nulla togliendo alla loro funzionalità. Ed era proprio questo
il punto che il pubblico non riusciva ad accettare: se in passato la
rispondenza della forma alla funzione non era stata impedita dalla
presenza di altre connotazioni, perché mai il funzionalismo
contemporaneo doveva sussumerle o annullarle? A questo
interrogativo si rispondeva in due modi: da un lato si sosteneva
giustamente che per contenere i prezzi era indispensabile contenere i
costi di produzione, ovvero eliminare il superfluo, la decorazione e
segnatamente la decorazione intesa come correttivo di urta
lavorazione imperfetta (anche in questa caso intrecciandosi qualità e
giusto prezzo) dall'altro lato si sosteneva, con altrettanta ragione, che
le riduzioni suddette non erano sempre più economiche, anzi che la
realizzazione di un prodotto «semplice» richiedeva spesso
un'elaborazione più attenta, più accurata e in definitiva più costosa.
Tutto ciò non fu sempre spiegato chiaramente al pubblico, già di per
sé maldisposto a rinunziare al «superfluo necessario». Di fatto,
l'istanza quantitativa ottenuta con la riduzione dei prezzi di vendita, a
sua volta dovuta alla semplificazione delle forme e dei componenti,
non si tradusse in una qualità apprezzata da tutti. Ad eccezione di una
élite che aderì a questa logica della riduzione, espressa dallo slogan
miesiano «il meno è il più», alla maggioranza dei consumatori gli
oggetti apparvero e in molti casi lo erano effetivamente poveri,
meccanici, scarsamente piacevoli. In ogni caso, questa mancata intesa
fra la cultura del design ed il pubblico, che sostanzialmente era di
natura economica, tecnica, socioculturale, ecc., fu semplicisticamente

41
trasferita sul piano del gusto. E proprio su questo, come vedremo più
avanti, si incontrarono le maggiori difficoltà nel rapporto fra
produzione e consumo, costituendo il vero punto critico nella vicenda
del design e la causa di molti suoi fallimenti. Pertanto, se qualcosa non
funzionò nella teoria classica del design non fu soltanto imputabile
alla quantificazione, alla qualificazione e al basso prezzo, isolatamente
presi, bensì alla circolarità di questo trinomio, al tutto cioè piuttosto
che alle parti, un tutto che non riuscì a tradursi in una condivisa
cultura del design.

L'artidesign
Arte, artigianato e design sono stati trattati nei precedenti capitoli, pur
con tutte le informazioni funzionali al nostro argomento, non come
temi specifici ed autonomi, ma come parametri, premesse, insieme di
notizie e considerazioni predisposte all'introduzione dell'artidesign.
Augurandoci di aver fornito questa base, questi punti di riferimento
per il genere «terzo» cui dedichiamo il presente capitolo si tratta ora di
porre direttamente a contatto l'artidesign con l'artigianato e il design o,
meglio, farlo da essi scaturire per affinità o per differenze. In
particolare, poiché l'esperienza storica più recente presenta la vicenda
dell'attivita artigianale diversa da quella dell'industrial design, per far
emergere alcuni aspetti dell'artidesign dalla prima, basta un semplice
confronto, mentre per utilizzare allo stesso scopo la seconda è
necessario descrivere ed interpretare la crisi del design almeno della
sua teoria classica.

Il confronto con l'artigianato


Abbiamo a suo tempo esaminato la fenomenologia dell'artigianato in
ordine a tre fattori: il progetto, la produzione e la socialità, ovvero un
termine che comprendeva la promozione dei prodotti, la loro vendita e
il loro consumo. Usiamo ora gli stessi fattori per confrontare il genere
«terzo» con l'artigianato. Quest'ultimo, come s'è visto, non trova nel
progetto un elemento caratterizzante ed esponente. Infatti, per l'attività
artigianale, il progetto è solo un momento del processo ideativo-

42
esecutivo, interno al processo stesso - l'artigiano classico progetta
mentre esegue -, non distinguibile cioè come fase a sé stante e
comunque sui generis. Concludevamo confermando il condiviso
giudizio per cui l'attenzione dell'artigiano non è tanto rivolta al
progetto quanto all'oggetto. Possiamo dire lo stesso per l'artidesign?
La risposta è negativa. Benché esso non miri alla grande serialità ma
tutt'al più ad una serie limitata, non può trascurare il momento
progettuale. Anzitutto perché, mentre l'artigianato vero e proprio tende
ad evidenziare i segni dell'hand made e con essi il carattere unico e
irripetibile dell'oggetto, l'attività che vogliamo definire non ha questo
obiettivo, ma anzi tende a mostrarsi anche
come operazione iterabile, sia pure nei limiti detti sopra. In secondo
luogo, essa pone l'esigenza del progetto come manifestazione ideativa
che precede la realizzazione, come atto separato e preparatorio. Che
nell'artidesign il progetto abbia una consistenza diversa da quella del
lavoro artigianale si evince da un'altra serie di intenzioni. Esso infatti
tende a mostrarsi come un'operazione razionale, definita e specificata
in ogni sua parte e ciò non solo al momento produttivo, ma anche
come atto cosciente e premeditato, come risposta alle esigenze del
tempo, delle tendenze e dei moti del gusto; in una parola come segno
della «modernità». Detto diversamente, il progetto dell'artidesign,
oltre ad essere un elaborato tecnico, vuole anche dichiararsi una
espressione culturale, un attestato della storicità del prodotto cui dà
luogo. A tal proposito va notato quale caratteristica invariante del
progetto artidesign il fatto che esso, al contrario dell'artigianato, non
concede mai alla rifazione di modelli del passato, ma come s'è appena
detto, mira ad operare esclusivamente nella linea del gusto
contemporaneo. Se questo è vero, in che cosa si distingue dal progetto
del design? Che sia solo parzialmente simile a quest'ultimo si rileva da
molti fattori: l'affinità formale ma non quella operativa, la tendenza al
piccolo e non al grande numero, quella di preordinare un prodotto più
durevole degli altri fatti a macchina, ecc. Ma la maggiore distinzione
sta in ciò che, mentre l'elaborato progettuale del designer è un'idea ne
varietur durante l'esecuzione, quello dell'artidesigner ammette delle

43
modificazioni in corso d'opera, ovvero qualcosa che anticipa le
possibilità delle più sofisticate e recenti macchine a controllo
numerico, sulle quali avremo modo di ritornare.
Riferiamoci ora alla componente produttiva e tecnologica
dell'artigianato. Come s'è visto, esso si caratterizza prevalentemente
per l'uso di materiale allo stato naturale e per l'adozione di tecniche
manuali. Viceversa, l'artidesign propende per l'impiego di materiali
artificiali e di una tecnologia meccanica, anche qui nei limiti di una
produzione quantitativamente modesta. Inoltre, l'impiego di pochi
materiali naturali si spiega col fatto di una maggiore convenienza ad
adottare materiali ad uno stato di lavorazione intermedia, i cosiddetti
semilavorati, che risultano più economici e di più facile repe-
rimento di quelli allo stato grezzo. Si aggiunga che la crescente
difficoltà di reperire materiali naturali legittima il fatto che quelle
relativamente poche risorse disponibili siano utilizzate dall'attività
artigianale che, come sappiamo, non mira alla quantificazione.
Ancora, le materie allo stato di natura richiedono un maggiore
impegno manuale sia quantitativo che qualitativo, ovvero un'alta
disponibilità di mano d'opera, vale a dire una risorsa divenuta
anch'essa preziosa. Peraltro i motivi che disincentivano l'uso delle
materie naturali trovano conferma e corrispondenza in quelli già visti
a livello di progetto: la razionalità, la serialità, la modernità di
quest'ultimo.
Già da questi cenni sulle differenze tra artigianato e artidesign, per i
soli fattori progettuali e tecnico-produttivi, possiamo cogliere alcune
specificità. Abbiamo visto una vasta gamma di tipi e prestazioni
artigianali: la riproduzione di oggetti esistenti, la riproduzione
«interpretata», la produzione con un progetto redatto in corso d'opera,
l'impiego di materie naturali, la relativa tecnica manuale,
l'adattamento di una tecnica alla costruzione di un determinato
prodotto, ecc. Nell'artidesign, pur conservandosi valori progettuali ed
operativi di grande flessibilità (e qui sta il suo vantaggio sul design), si
semplifica molta parte della gamma suddetta: il progetto è quasi

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totalmente definito, la tecnica quasi adattabile esclusivamente al
prodotto da costruire (e qui sta il suo vantaggio sull'artigianato).
Se passiamo dall'ambito della progettazione e dell'esecuzione a quello
della vendita, rileviamo una delle maggiori differenze fra le due
categorie a confronto: quella del rapporto fra domanda ed offerta.
Infatti, se l'artigianato classico è un'attività che si socializza
prevalentemente sul principio della commessa, non è così per
l'artidesign, il quale si realizza e si diffonde prevalentemente
sull'offerta del prodotto. Più esattamente, dopo aver visto che lo
scambio degli articoli artigianali, pur presentando una sorta di
gradualità (rapporto diretto fra utente ed artefice, ricerca da parte del
primo di una lavorazione artigianale già nota cui rivolgersi,
mediazione del mercante fra operatore e fruitore), si risolve comunque
con una domanda che prevale sull'offerta. Nel caso dell'artidesign,
assistiamo ancora ad una gradualità nello scambio di

un prodotto; ad una domanda diretta; ad un'altra mediata dal mercante,


ma si verifica altresì un procedimento inverso: l'artidesigner non
lavora in ombra, si affida ad una rete commerciale, non è alieno da
svolgere azioni pubblicitarie e promozionali. A voler essere rigorosi
dovremmo dire che il nostro genere «terzo» tende più all'offerta che
alla domanda, ma non a caso più sopra abbiamo detto
prevalentemente. Infatti, nella realtà, il momento dello scambio è
quello in cui si realizza il maggiore compromesso fra produzione e
consumo. Permane sì un'offerta ma questa non è mai disgiunta dalla
domanda, talvolta addirittuta dalla commessa specifica e diretta.
A conferma di questo più equilibrato rapporto, di questo
«compromesso», nell'accezione più positiva del termine, sta il fatto
che, da qualche tempo in qua, la vendita su commessa non si verifica
più unicamente per gli oggetti artigianali. Per gli stessi prodotti
dell'industrial design si va affermando la tendenza del mercato a
richiedere oggetti «personalizzati» e comunque intesi come variazione
all'interno della serie. La produzione industriale tiene in gran conto
questa nuova tendenza e va attrezzandosi tecnicamente per

45
soddisfarla. Tuttavia, quali che siano i procedimenti tecnologici, non
possiamo non rilevare che questa domanda della singolarità, pur nel
contesto di una serie, il design l'abbia mutuata proprio dall'artidesign
che, espressione positiva di un compromesso, può considerarsi per tale
aspetto un genere anticipatore.
Molte altre cose distinguono l'artigianato dal «terzo» processo che
vogliamo individuare, definire e descrivere, che ci sembra emergere
punto dopo punto, ma per ora quelle citate bastano già ad indicarne
alcune. Pertano ci sembra lecito, nell'economia del nostro saggio,
riservare più spazio alle diversità tra l'industrial design e l'artidesign,
che emergeranno meglio dai rilievi critici, ovvero da considerazioni
riguardanti il divario fra la teoria classica del design e la sue effettiva
realizzazione.

La critica del design


Benché l'ambito della nostra indagine sia quello del design
del mobile e degli oggetti domestici, per effettuare un discorso sulla
crisi del design, è necessario estendere i nostri ragionamenti al quadro
più generale della produzione industriale. La gran parte dei prodotti
attualmente sul mercato non reca tracce di design perché quasi tutti gli
oggetti sono nati da una concezione e produzione meramente
tecnologica; sono esemplari unici, sia per la loro complessità tecnica,
sia per il loro uso tanto straordinario da contraddire il concetto di
serie; sono banalmente quantificati tanto da ignorare ogni ricerca di
qualificazione della forma; sono caratterizzati solo da operazioni
linguistiche e quindi sostanzialmente formalistici; sono copia degli
stili e delle morfologie del passato; sono frutto di un compromesso,
questa volta nell'accezione negativa, fra artigianato e industria, e
l'elenco potrebbe continuare con prodotti che restano comunque fuori
dai tre capisaldi del design storico. Inoltre - e beninteso le
contraddizioni che abbiamo elencate si riferiscono alle esigenze e alle
aspettative di ciascun settore merceologico - si può cogliere un
ulteriore aspetto di questa realtà per cui un'economia di profitto, una

46
mentalità diffusa, un gusto corrente vogliono sempre più ingegneresco
il prodotto tecnico e sempre più «artistici», decorativi e simbolici, le
suppellettili, gli oggetti personali, alcuni ambienti della casa, ecc.
La crisi del design storico si evidenzia ove l'intera produzione si
classifica in ordine a quattro gradi di livello tecnologico.
I settori a più avanzata tecnologia sembrano puntare su un'immagine
del prodotto che deriva la sua forma da procedimenti meramente
meccanici, diventati ormai sofisticati sistemi. Come osserva Dorfies,
«si parla di forma e funzione senza essersi resi conto che, per
moltissimi prodotti ancora ieri rispondenti a questo imperativo, oggi
non esiste neppure una forma! Per portare semplici esempi: si pensi
all'infinita gamma degli elementi basati su microprocessori, su minime
lamine di silicio grandi come un'unghia, capaci di registrare, mettere
in moto, ordinare, ecc., interi meccanismi automatizzati, laboratori,
fabbriche.., o si pensi all'infinita gamma degli strumenti Hi-fl:
registratori, amplificatori, radio, microfoni, videocassette, ecc. ormai
ridotti a minute scatolette nere che albergano solo qualche piccola
lamina su cui sono stampati misteriosi circuiti. Dove sta la forma in
questi casi? La

Forma non esiste più o è inventata di sana pianta e senza nessuna


relazione con quanto essa 'ricopre' o nasconde, solo per dare all'utente,
al compratore, un simulacro di quel contenente che in realtà è privo di
contenuto morfologicamente corrispondente».32
Di fronte all'estrema efficienza funzionale dell'apparecchio, il
pubblico rimane indifferente alla sua forma, non coglie la falsità del
rapporto tra questi due termini e anzi il mistero dei circuiti elettronici
lo induce ad un gusto per l'incomprensibile che accentua il fascino
dell'oggetto; nessuno si chiede cos'è o com'è fatto, accontentandosi
soltanto delle sue prestazioni.
I settori a medio livello tecnologico, non nel senso del processo di
lavorazione anch'esso tendente all'automazione ma in quello delle
caratteristiche del prodotto, presentano una ulteriore diversificazione
dal design storico. Pensiamo all'industria automobilistica come la più

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emblematica del campo in esame: bastano pochi minuti per
assemblare e rifinire un'autovettura che tuttavia sostanzialmente non è
molto diversa da una degli anni '20. In questo settore i problemi della
forma, del consenso degli utenti e del basso prezzo dovrebbero ancora
avere il loro peso ed invece assistiamo ad uno sviluppo morfologico
imposto quanto appiattito: solo un occhio abbastanza esperto è capace
di distinguere un modello dall'altro spesso riconoscibile grazie a
motivi di decorazione stilistica. In effetti, si può dire che oggi si sono
perdute sia la qualità del design storico sia quella della stessa varietà
di tipi che giustificava l'eterodossia del tanto deprecato styling. Per
altro, alla luce delle riflessioni più recenti, assai meno arbitrario e
formalista di quanto s'è detto finora. Più preoccupante è
l'appiattimento tipologico in relazione al prezzo: l'utilitaria va
scomparendo sostituita, nonostante la domanda del pubblico, da
modelli di tipo medio-alto.
Nel terzo settore tecnologico, quello che utilizza procedimenti
industriali associati ad altri di tipo artigianale, grosso modo
corrispondente alla categoria del design del mobile e degli oggetti
d'arredo, la condizione reale sembra ancora più fluida. E in questo
campo che si verifica il maggiore divario tra la cultura del design e le
esigenze del pubblico, il punto di rottura essendo in gran parte il
fattore gusto, un fattore più avvertito che altrove nell'ambiente della
casa, notoriamente
condizionato da una tradizione e da una particolare ideologia.

Lo storico aforisma «qualificare la quantità» ha trovato le sue


maggiori difficoltà applicative proprio sul primo termine che
implicava la nozione di gusto. Per qualità la cultura del design intese
una proprietà della forma che la rendesse coerente ed espressiva della
finzione, mentre per qualità degli oggetti il pubblico intese una
proprietà della loro forma che li rendesse, nonché rispondenti ad una
funzione, attitudine data per scontata, anche espressiva, così come era
avvenuto in passato e come abbiamo già accennato, di qualcos'altro. Il
mancato incontro sul piano del gusto ha portato la maggioranza del

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pubblico a preferire prodotti che fossero copia degli stili storici o
comunque oggetti che fossero ricchi di valenze simboliche, di una
abilità manuale, di una fantasia decorativa, ecc. E sono stati proprio
questi valori o pseudo-valori stratificati nella mitologia della casa a far
sì che, nella sua maggioranza, quello stesso pubblico che ha accettato
l'idea della città, del quartiere, dell'architettura moderna, dei suoi
caratteri distributivi e funzionali, che ha accolto con favore i nuovi
mezzi di trasporto e di comunicazione, persino le profonde
trasformazioni avvenute nel suo ambiente di lavoro, non accettasse
invece che la dimensione privata della casa fosse livellata da oggetti
seriali peraltro acquistati ad alto prezzo, come vedremo più avanti.
Per altri autori l'accettazione o meno da parte del pubblico di una
tipologia e di una morfologia di prodotti non è solo questione di gusto,
ma tocca tematiche più profonde. Parlando d'architettura, ma lo stesso
discorso vale ancor più per il design, Adorno osserva: «non a caso Le
Corbusier inventò degli uomini modello; ma gli uomini viventi, anche
i più arretrati e schiavi delle convenzioni, hanno il diritto al
soddisfacimento dei pur loro falsi bisogni. Se per investire il bisogno
vero, oggettivo, il pensiero passa sopra senza guardare al bisogno
soggettivo, si ribalta, come ha sempre fatto, la volonté generale contro
la volonté de tous, in oppressione brutale. Persino nel falso bisogno
dei viventi sussiste un moto di libertà: ciò che la teoria economica ha
chiamato valore d'uso in contrapposizione all'astratto valore di
scambio. Perché si rifiuta di dare agli uomini ciò che così fatti - e non
altrimenti
- essi vogliono e di cui hanno magari bisogno, l'architettura legittima
appare loro necessariamente nemica».33 Da questa riflessione
sull'opportunità di non mortificare le esigenze, ancorché rozze, del
pubblico, Adorno anche in questa occasione ritorna sulle
contraddizioni del funzionalismo che del gusto «oggettivo» è la
matrice. «La questione del funzionalismo è la questione della
subordinazione all'utilità. Non c'è dubbio che l'inutile sia logoro. Il
corso della sviluppo ha fatto emergere la sua immanente insufficienza
estetica; il mero utile, d'altra parte, è intessuto entro un contesto di

49
colpa, strumento di inaridimento del mondo, di desolazione, senza che
tuttavia gli uomini siano capaci da loro stessi di un conforto che non
sia illusorio. Se la contraddizione non si lascia eliminare,
comprenderla sarebbe già un piccolo passo avanti».34
Ritornando al nostro excursus sui gradi di livello tecnologico,
incontriamo quello più basso. Esso comprende la maggioranza degli
oggetti che rispondono alla logica del grande numero e che si possono
ritenere nati, per così dire, da un design spontaneo. Si tratta di quelli
rinvenibili nei supermercati, caratterizzati dal «vuoto a perdere» e
dall'.xusa e getta», da quelli insomma che, privi di ogni valore ed
estremamente semplificati, sembrano non avere altro destino che
l'ammasso dei rifiuti urbani.
Evidentemente quest'ultimo settore, peraltro niente affatto
trascurabile, specie nell'odierna cultura di massa e per i problemi
ecologici che comporta, è estraneo al nostro tema che è
specificamente rintracciabile nel terzo settore tecnologico, quello
appunto proprio del mobile e degli elementi d'arredi. La definizione
dell'artidesign dipende dunque in gran parte, come s'è anticipato, dalla
critica del design relativo a tale campo merceologico.
Affinché questa critica non resti in un ambito élitario ed avendo
toccato con le citazioni di Adorno il problema del gusto, osserviamo
come il pubblico accoglie i temi e i problemi della cultura del design
nel campo suddetto. Design storico, neo-design, moderno o post-
moderno, linguaggio funzionalista o organico, linea hard o linea soft,
sono tutte questioni poste dagli addetti ai lavori che lasciano
totalmente indifferente la gran parte dei consumatori. Termini quali
antropo-
centrismo e società, tanto usati da designer e critici, si risolvono
solitamente in mere astrazioni in quanto i gruppi decisionali non
tengono in alcun conto le esigenze reali delle comunità condizionate
storicamente da tradizioni, economie e specifici usi e costumi. Il
consumatore medio percepisce il fenomeno del design non come
vuole la teoria classica, vale a dire come una presunta autonoma ma
globale esperienza, bensì (e qui deroghiamo per un istante dal campo a

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media tecnologia come quello del mobile e degli oggetti d'arredo)
come un «valore aggiunto» pertinente ogni specifico settore: quello
della carrozzeria quando acquista un'automobile, quello
dell'arredamento quando acquista un mobile, quello degli
elettrodomestici quando acquista una lavatrice, ecc. In altre parole, il
pubblico, a torto o a ragione, non coglie il decantato valore unitario
che informerebbe tutta la produzione industriale toccata dalla qualità
progettuale e tecnologica, ma tante parziali qualità, tanti «valori»
quanti sono i tipi di articoli cui accede. Notiamo per inciso che il
pubblico col descritto modo di intendere il design è arrivato molto
prima a quella settorializzazione del fenomeno cui solo recentemente
è pervenuta la critica più avvertita, che non crede più ad assunti
totalizzanti espressi, poniamo, dagli slogan del tipo «dal cucchiaio alla
città». Come ha scritto Maldonado, «l'industria in quanto entità
astratta e monolitica è stato un mito del XIX secolo. In realtà, ciò che
esiste veramente sono 'le' industrie. E per questo motivo che non c'è
un solo industrial design, ma ve ne sono parecchi, molto diversi l'uno
dall'altro. La concezione monistica di industrial design dovrà essere
sostituita da una pluralista. Dubito che il problema leggendario dei
rapporti tra Arte e Industria possa, comunque, essere risolto. Ma di
una cosa sono sicuro: per la prima volta saremo in grado di sapere di
che cosa stiamo parlando».35
Rientrando nel tema dell'accettazione del pubblico di ciò che gli offre
il design del mobile, va aggiunto che esso percepisce essenzialmente
come fenomeni di moda il razional-flrnzionalismo; il successivo
diffondersi dell'organico mobile svedese; i prodotti espressivi della
società opulenta degli anni '60, con la riserva che questa ricchezza non
pareggia il valore del mobile antico al quale tendenzialmente non ha
mai rinunciato; gli oggetti nati dalle nuove tecnologie (le materie
plasti-
che, i procedimenti di stampaggio, le alchimie dei compensati in
legno, ecc.) dei quali non coglie le costose difficoltà produttive ma
solo l'alto prezzo al consumo e in fondo la viltà dei loro materiali; il
radical-design infine gli appare come la più ingiustificata di queste

51
mode, specie quando questo suo elogio dell'effimero, del banale, del
Kitsch comporta un prezzo alto quanto il più classico dei modelli,
antico o moderno che sia.36

Il problema del prezzo è certamente centrale nel discorso sulla critica


del design domestico. Abbiamo teste accennate al divario sul fattore
gusto e alla scarsa popolarità di quello moderno presso il grande
pubblico. Dal canto loro i produttori o hanno aderito
incondizionatamente al gusto corrente, preoccupati solo di far fronte
alla domanda o, nel migliore dei casi, per continuare in qualche modo
la tradizione culturale del design, hanno presto rinunziato alla quantità
e si sono rifatti degli alti costi di produzione tenendo ancora più alti i
prezzi di vendita. E probabile che questa linea di condotta sia forse
l'unica per coprire una precisa area di mercato, quella di un pubblico
informato e elitario. D'altra parte è lecito ipotizzare che la tendenza a
vendere cara la merce si manterrà anche quando una fascia appena più
larga di consumatori avrà aderito alla cultura del design. Perché infatti
puntare su una laboriosa quantificazione dei prodotti, con tutti i rischi
dell'imprenditorialità, con tutte le difficoltà proprie all'attività
industriale, quando per ricavare gli stessi utili basta servire una
clientela di pochi, per giunta gratificati di essere tali, di sentirsi
anticonformisti e culturalmente aggiornati? Comunque non risulta,
tranne rare eccezioni, che il successo di un mobile abbia comportato
automaticamente la riduzione del suo prezzo di vendita. In altre
parole, poiché la produzione informata alla cultura del design non ha
raggiunto la massa, almeno nel settore degli oggetti domestici, ha
tenuto forzatamente alto il prezzo del prodotto in omaggio
all'ideologia della classe agiata che, per dirla con una vecchia e nota
tesi di Veblen, identificava il valore della merce con il suo alto prezzo.
In un significativo giudizio in cui questo autore associa ai termini
suddetti anche una valenza estetica si legge: «Il principio generale... è
che un oggetto di valore per fare appello al nostro senso della bellezza
deve confor-

52
marsi alle esigenze sia della bellezza che del dispendio. Ma ciò non è
tutto. Oltre a ciò, il canone del dispendio influenza anche i nostri gusti
in modo tale da fondere inestricabilmente nella nostra valutazione i
segni della dispendiosità con le caratteristiche belle dell'oggetto, e
catalogare l'effetto risultante come un apprezzamento della sua
bellezza... Questa fusione e confusione degli elementi del dispendio e
della bellezza trova, forse, i suoi migliori esempi negli articoli di
vestiario e di arredamento domestico».37 Se è vera la tesi di Veblen
viene fatto di pensare che il fascino dell'alto prezzo non riguarda solo
la classe agiata, ma tutti indistintamente perché ognuno vede, nelle
proprie strategie del desiderio, un valore nell'alto prezzo di ogni cosa.
Prima di far emergere da queste contraddizioni del design indicazioni
utili per il nostro genere «terzo», cerchiamo di farne emergere altre o/e
di discutere come la cultura del design ha tentato ed ancora tenta di
porre rimedio alle sue difficoltà. Da quanto precede si evince
chiaramente che il maggiore intoppo essa lo ha incontrato nel rapporto
produzione-consumo. Che strategia ha adottato l'industria per
controllare e gestire tale rapporto? La risposta è nota: si sono utilizzate
la ricerca di mercato e quella motivazionale, creando un apposito
settore, il Marketing, che solo in parte rientra sia nelle nostre
competenze, sia nell'economia stessa del presente saggio. Ma
riguardando anch'esso la critica del design, dobbiamo dame un cenno.
Com'è stato osservato, «in realtà, sia la ricerca di mercato che la
ricerca motivazionale, finora, hanno condotto nei rispettivi campi
d'indagine solo esperienze frammentarie e provvisorie. Negli ultimi
tempi, la ricerca di mercato ha affinato i suoi metodi, ma si possono
ancora notare delle gravi carenze, che derivano dalla mancata
precisione dell'apparato concettuale. Si ha talvolta l'impressione che
l'operatore delle ricerche di mercato ritenga possibile un'esatta
valutazione quantitativa del comportamento del consumatore, senza
tener conto degli aspetti qualitativi. Thttavia, se si può rimproverare
alla ricerca di mercato la limitatezza dei suoi metodi strettamente
quantitativi, la ricerca motivazionale, dal canto suo, può essere

53
rimproverata per la sua unilateralità .... Sia la ricerca motivazionale
che la ricerca di mer
cato infatti soffrono della stessa carenza: si riferiscono entrambe ad
una domanda già strutturata, mai ad una domanda ancora inesistente o
in divenire».38
Che cosa è cambiato in questo giudizio dalla data in cui fu espresso
(1964) ad oggi? Teoricamente non molto, se in un saggio del '90
ancora si legge che la ricerca di mercato «può 'fotografare' la realtà,
può mettere in evidenza ciò che in qualche modo è già palese. Non
può mostrare quel particolare punto di incrocio tra ciò che il pubblico
potrebbe volere (ma non ha trovato ancora il modo di esprimere) e ciò
che la tecnica poteva offrire (ma non ha trovato ancora il terreno per
farlo) che è la 'nuova' idea del prodotto».39 Sul terreno pratico, è stata
superata quella carenza per cui si dava come tendenza da sviluppare
ciò che era solo la registrazione di una domanda in atto, magari già
esauritasi quando s'impiantava la progettazione e la produzione di un
nuovo articolo?
Si è ritenuto di risolvere tale problema con l'adozione di una strategia
che non fa intervenire la ricerca di mercato, per così dire, a cose fatte,
ma che riduce il tempo fra produzione e consumo, tanto che non
occorre sapere oggi ciò che il pubblico chiederà domani, ma riuscire a
far fronte, nel più breve tempo possibile, a quanto è richiesto oggi.
Per attuare questa strategia si è fatto ricorso alle nuove potenzialità
della tecnica: «l'industria si organizza attorno ad un sistema
informativo e produttivo integrato e in contatto con la domanda. Un
sistema in cui tutte le parti interagiscono in tempi rapidissimi. In
particolare l'integrazione tra progettazione e macchine a controllo
numerico o linee robottizzate permette (entro i limiti consentiti dal
sistema) di realizzare variazioni del prodotto praticamente in continuo,
senza bisogno di interrompere la linea produttiva. L'integrazione
dell'apparato commerciale con gli approvvigionamenti, la produzione
e il magazzinaggio consente infatti di lavorare tendenzialmente su
commessa (il corsivo è nostro), e le soluzioni tecniche adottate
permettono di apportare, su una base sostanzialmente omogenea, delle

54
variazioni che mirano a connotare diversamente il prodotto finale. A
tutto presiede una nuova idea di marketing, inteso come attività di
rapporto col pubblico che sta a monte di tutta la produzione, che
orienta sul lungo e sul breve periodo la strategia di immagine
dell'azienda produttrice e le qualità specifiche dei singoli prodotti,
traendone gli orientamenti da un'analisi in tempo reale dei trend di
consumo e di evoluzione del gusto<.4°
Francamente questa soluzione ex machina non ci convince del tutto.
Intanto, come abbiamo già notate e come più avanti vedremo meglio,
il procedimento descritto è, se non nella metodologia operativa,
almeno in gran parte nei risultati abbastanza simile a quello
dell'artidesign; il che se contribuisce a favorire la nostra tesi di un
genere «terzo», significa anche la perdita di uno dei principali caratteri
del design, quel ne varietur della produzione seriale una volta fissati
nel progetto i suoi i valori ottimali. In secondo luogo il procedimento
informatico-robotico fisserà nuove regole per il marketing, ma lo farà
ad un livello più basso. L'indagine di mercato non sarà mai stata
scientifica, come si pretendeva, ma almeno comportava un impegno
organizzativo, una previsione, una intuizione tecnico-commerciale, in
una parola, quel rischio che costituisce in definitiva la giustificazione
etica del capitalismo. Al contrario, il nuovo dispositivo tecnologico
annullerebbe tutto ciò nell'orientare il tipo di produzione mentre si
produce. Ma tale orientamento non può che limitarsi a piccole
variazioni su una base sostanzialmente omogena del prodotto. Inoltre,
queste falso lavoro su misura potrà dirci poco sugli orientamenti dei
consumatori e sulle tendenze del gusto; almeno non più di quanto ci
dica la ricerca di mercato (che continua ad esistere e a svilupparsi),
perché la spaccatura fra il pubblico e la cultura del design non si
riduce alle questioni di dettaglio risolvibili grazie all'impiego delle
macchine a controllo numerico ma ad altre più sostanziali, in parte
indicate ed in parte ancora da esaminare. Infine, quante e quali
aziende possono utilizzarle in ordine al tipo del loro prodotto? Quale
oggetto si «personalizza» perché nell'omogeneità di una serie vi sono
degli esemplari che si differenziano in qualche particolare? Gli

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elementi componibili delle cosiddette cucine americane, i braccioli di
qualche poltrona, alcuni optional e quant'altro non appartiene certo ad
un prodotto di qualità e di alta definizione.
Un'altra critica alla condizione attuale del design - e ricordiamo che
questi rilievi critici hanno lo scopo di far emergere le caratteristiche
dell'artidesign - riguarda la sua sovrastrut-
turalità, specie nel settore del mobile e degli elementi d'arredo.
Così come fino a qualche armo fa, in materia di marketing, si parlava
di bisogni indotti, di persuasione occulta e di altri simili pseudo-
concetti coniati da una sociologia rivelatasi incapace di cogliere il
rapporto produzione-consumo, oggi (ma già da qualche tempo) si
parla di informazione al posto del prodotto, di concetto al posto
dell'oggetto, in una parola: di una sovrastruttura che prevale sui
prodotti di base. Beninteso, nulla in comune col binomio marxiano
che notoriamente stabiliva un carattere dialettico fra i due termini,
quale che fosse il settore in cui veniva impiegato. L'attuale nozione
sovrastrutturale denota alla lettera un di più che mira a sostituire il
carattere strutturale dei prodotti indispensabili alla vita quotidiana.
Donde il prevalere della pubblicità di un oggetto sulla sua effettiva
qualità, quello della promozione sulla effettiva utilità, quello
dell'«informazione» sulla reale funzionalità. Né la politica del design,
come del resto tutta la produzione industriale, non importa se con o
senza intenzioni qualitative, si arresta a queste operazioni
complementari: la logica della sovrastrutturalità investe forme e
contenuti degli stessi prodotti. L'espressione più evidente di tale
fenomeno è riscontrabile nella tendenza alla «bidimensionalità».
Com'è stato notato, «il mondo sembra perdere di profondità. Lo
spessore fisico e culturale delle cose diminuisce, tutto sembra tendere
alla bidimensionalità delle superfici e ai messaggi che queste possono
veicolare. In effetti, le immagini emblematiche di oggi ci presentano
un ambiente tendenzialmente dematerializzato, fluido come le
informazioni che lo attraversano, appiattito alla bidimensionalità della
carta stampata e dello schermo video. D'altro lato, questa prevalenza
della bidimensionalità (e la percezione della smaterializzazione che

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esso comporta) si estende ben al di là dei supporti informativi. Come
per un 'effetto di trascinamento', l'intero sistema degli oggetti sembra
essere in marcia verso la stessa direzione: non solo un'estesa famiglia
di prodotti, investiti dall'elettronica e dalla miniaturizzazione delle
funzioni che essa permette, tende alla bidimensionalità, ma anche gli
oggetti che per la loro stessa ragion d'essere mantengono le tre
dimensioni, tendono a delegare alla
superficie una quota maggiore delle loro prestazioni e della loro
capacità espressiva».4'
La descrizione del fenomeno è corretta e inconfutabile, ma esso, nel
suo enunciato più generale, vale a dire la prevalenza dell'informazione
sulla conformazione, induce a più d'una considerazione, tutte
pertinenti l'odierna crisi del design.
Non saremo certo noi, da tempo interessati ai problemi
dell'informazione, del significato da affiancare alla funzione degli
oggetti, della semiotica, dei mass media42, a meravigliarci o a dolerci
che una tendenza prevalente del design contemporaneo si orienti in tal
senso, ma non vorremmo che la linea informazionale inducesse ad
equivoci.
Il primo e più diffuso è quello di confondere la «leggerezza» di alcuni
prodotti con un loro smaterializzato concettualismo: le posate e i piatti
di plastica sono e restano un surrogato di altri e tradizionali prodotti
belli, solidi e duraturi. Il fatto che costino poco, che si usino e si
gettino non li assimila per niente, poniamo, al giornale, non li rende
veicoli d'informazione; i cruscotti ipercomputerizzati delle automobili,
per la modestia dell'informazione che pretendono di dare, sono più
decorativi che funzionali; il vizio di ridurre ad una superficie le
valenze spaziali e volumetriche degli oggetti è un vecchio trucco
«decorativo» per mascherare difetti di lavorazione. Insomma, per ciò
che attiene l'informazione visiva, nell'accezione corrente, non bisogna
confondere il design col visual design. Se poi vogliamo dare al
termine «informazione» un significato più sofisticato, che peraltro gli
è proprio, anche in questo caso bisogna non incorrere in altri equivoci.
Indubbiamente, anche l'oggetto più banale ha un suo significato, ma

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esso sarà sempre di tipo connotativo e non denotativo; inoltre è
necessario distinguere un significato proprio da uno improprio o, più
semplicemente uno buono da uno cattivo: quello che pertiene al
design dovrà sempre avere un valore positivo, dovrà sempre designare
good design, espressione che sarebbe ridondante e tautologica se non
fosse esistito l'anti-design di infausta memoria.
Questi pochi cenni per manifestare il nostro fondato dubbio che molte
trasposizioni di teorie estetico-informazionali nel campo del design si
siano rivelate inutili tentativi intellettualistici di colmare un vuoto
critico e operativo che da sempre superficie una quota maggiore delle
loro prestazioni e della loro capacità espressiva».4'
La descrizione del fenomeno è corretta e inconfutabile, ma esso, nel
suo enunciato più generale, vale a dire la prevalenza dell'informazione
sulla conformazione, induce a più d'una considerazione, tutte
pertinenti l'odierna crisi del design.
Non saremo certo noi, da tempo interessati ai problemi
dell'informazione, del significato da affiancare alla funzione degli
oggetti, della semiotica, dei mass media42, a meravigliarci o a dolerci
che una tendenza prevalente del design contemporaneo si orienti in tal
senso, ma non vorremmo che la linea informazionale inducesse ad
equivoci.
Il primo e più diffuso è quello di confondere la «leggerezza» di alcuni
prodotti con un loro smaterializzato concettualismo: le posate e i piatti
di plastica sono e restano un surrogato di altri e tradizionali prodotti
belli, solidi e duraturi. Il fatto che costino poco, che si usino e si
gettino non li assimila per niente, poniamo, al giornale, non li rende
veicoli d'informazione; i cruscotti ipercomputerizzati delle automobili,
per la modestia dell'informazione che pretendono di dare, sono più
decorativi che funzionali; il vizio di ridurre ad una superficie le
valenze spaziali e volumetriche degli oggetti è un vecchio trucco
«decorativo» per mascherare difetti di lavorazione. Insomma, per ciò
che attiene l'informazione visiva, nell'accezione corrente, non bisogna
confondere il design col visual design. Se poi vogliamo dare al
termine «informazione» un significato più sofisticato, che peraltro gli

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è proprio, anche in questo caso bisogna non incorrere in altri equivoci.
Indubbiamente, anche l'oggetto più banale ha un suo significato, ma
esso sarà sempre di tipo connotativo e non denotativo; inoltre è
necessario distinguere un significato proprio da uno improprio o, più
semplicemente uno buono da uno cattivo: quello che pertiene al
design dovrà sempre avere un valore positivo, dovrà sempre designare
good design, espressione che sarebbe ridondante e tautologica se non
fosse esistito l'anti-design di infausta memoria.
Questi pochi cenni per manifestare il nostro fondato dubbio che molte
trasposizioni di teorie estetico-informazionali nel campo del design si
siano rivelate inutili tentativi intellettualistici di colmare un vuoto
critico e operativo che da sempre
ha accompagnato la disciplina in esame. In ogni caso, pur
enfatizzando al massimo le valenze semiotiche e semantiche, gli
oggetti d'uso avranno sempre come valore primario il loro uso, la
conformazione che chiarisce, evidenzia ed esalta il loro uso.
Non possiamo chiudere questa rassegna sulla critica del design senza
indicare anche quei punti da ascrivere al suo attivo, che in parte
ritroveremo nell'artidesign. Uno di questi punti è la capacità della
nostra disciplina, entro certi limiti, di autocorreggersi. La si confronti
con la pianficazione urbanistica. Il fallimento di quest'ultima,
un'attività globale e totalizzante per definizione al punto di voler
sussumere anche l'architettura e il design, oltre che per motivi politici
e socieconomici, può riscontrarsi, ancora imputabile alla suddetta
ideologia della totalità, anche nella mancata previsione dei limiti
propri alla sua logica: non s'è tenuto conto che quanto più ampia era la
scala degli interventi, più lunghi sarebbero stati gli intralci burocratici
e i tempi di attuazione del piano: questo s'è dimostrato così laborioso
che, una volta completato, risultava già superato dagli eventi e dalla
situazioni che pretendeva ordinare. Peraltro la filosofia della
pianificazione urbanistica, nata negli stessi anni dell'industrial design,
si è manifestata e continua a manifestarsi presso i tecnici
palcorazionalisti e soprattutto i politici, come una sorta di scatole
cinesi: il piano di un quartiere andava inserito in quello cittadino,

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questo in quello intercomunale, che a sua volta doveva far parte del
piano regionale e via via fino alla pianficazione nazionale. Il design,
anche nella sua fase più ortodossa, non ha nutrito mai una simile
intenzione utopica; non ha mai perso di vista ciò che serviva hic et
nunc nell'immediato. La stessa industrializzazione edilizia che in
qualche modo costituiva il ponte fra un'architettura intesa in chiave di
quantificazione urbanistica ed il design non ha avuto il successo
sperato, per una serie di motivi certo, ma anche perché non assicurava
quel rapporto diretto fra produzione e consumo, andava oltre i tempi
economici, ovvero un fattore che il design non ha potuto né voluto
trascurare. Da molte altre utopie - la produttività a tutti i costi, il
perfetto equilibrio fra quantità e qualità, la pedagogia sociale e simili -
il design è venuto mano mano affrancandosi. Molti mancati errori, è
giusto rico-
noscerlo, non sono stati commessi dalla cultura del design e vanno
ascritti alla logica liberistica che la sostanzia. Essa era ed è rimasta
nella logica dell'iniziativa privata, della libera concorrenza,
dell'affrancamento dai legami con la burocrazia, delle pubbliche
commissioni, persino in molti casi della politica. Nell'intero campo
delle costruzioni, il design è stato, nonostante le critiche avanzate
sopra, quello che più ha seguito la legge della domanda e dell'offerta,
che più si è relazionato alla logica del mercato, anche seguendone le
alterne vicende e le contraddizioni. Non avendo altri regolamenti da
seguire, ora si è mostrato, per così dire, impositivo, ora concessivo; in
ogni caso sempre muovendosi in un altalenare interno al suo stesso
processo di produzione e consumo. Grazie a questo suo liberismo, alla
sua filosofia, talvolta cinica, per cui «tutto va bene purché si venda»,
si sono certo registrate molte cadute sul piano del gusto,
dell'efficienza, della durata dei prodotti, ma è stato anche concesso un
largo margine alla sperimentazione, all'innovazione, al più ampio
spettro delle possibilità: dal rigoroso funzionalismo fino all'elogio del
banale e del Kitsch. Cosicché, se vogliamo veramente riconoscere i
segui del tempo, quelli più emblematici di una stagione culturale, non
è tanto all'urbanistica o all'architettura che bisogna riferirsi quanto al

60
sistema degli oggetti nati dal design. In conclusione, fermo restando
tutto il versante in cui il design è fallito, la parte che resta positiva può
interpretarsi come un grande «compromesso» - nell'accezione positiva
del termine: non l'affermazione di una questione di principio, né il
prevalere degli interessi di una parte su quelli dell'altra - fra tutte le
polarità poste ed agitate dalla rivoluzione industriale in poi:
qualità/quantità; utile/futile, oggetto/concetto,
informazione/ridondanza, funzionalità/decorazione,
conformazione/rappresentazione, ecc., oscillando persino fra industria
e artigianato. Donde la riduzione del design in artidesign almeno nel
campo oggetto delle nostre riflessioni, quello del mobile e degli
oggetti di uso domestico.

Dal design all'artidesign


Vicina alla nostra conclusione ci sembra l'interpretazione che
Manzini dà del momento attuale: «La cultura industriale classica
pensava a un mondo semplificato e trasparente come una catena di
montaggio. Quello che invece appare è un mondo complesso, in cui
l'alta tecnologia può combinarsi nelle più diverse forme con
tecnologie mature ed anche con l'artigianato, in cui antiche
conoscenze possono essere riciclate per nuovissimi campi di impiego;
in cui insomma, invece dell'attesa omogeneizzazione dei modelli
culturali e produttivi ad un'unica razionalità dominante, si riscoprono
le diversità. Se è vero che il mondo sta diventando il 'grande villaggio
planetario' è vero anche che in questo villaggio si parlano molte
lingue, si coltivano diverse tradizioni. E a questa varietà di forme in
cui oggi si configura la produzione corrisponde un'altrettanto ampia
varietà di forme in cui si attua l'attività del progetto. L'ambiguità
semantica del termine 'design' è il riflesso di questa molteplicità di
condizioni in cui ha luogo l'incontro tra la cultura industriale e la
cultura del progetto. Se oggi è impossibile riferirsi a un unico modello
di attività produttiva è impossibile anche riferirsi a un'unica figura di
progettista».43

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Il quadro descritto, come abbiamo anticipato, si avvicina molto al
contesto entro il quale sembra di poter inserire l'artidesign, che si
direbbe quasi definito dall'esposizione del quadro stesso. Ma non è
così. E ben vero che l'autore riconosce una combinazione fra le
tecnologie più avanzate e le forme produttive più eterogenee e
tradizionali, prime fra tutte quelle artigianali; legittima le diversità
linguistiche e i più vari apporti; che persino il termine 'design' si usa
ambiguamente a denotare una situazione dominata dalle diversità. Ma
la sua analisi tende più ad indicare il pluralismo della produzione
contemporanea, che a cogliere un nuovo settore di essa con una sua
propria, ancorché spuria, struttura. Infatti, egli premette al brano citato
un'altro che sintetizza meglio il suo pensiero, almeno in ordine ai
rilievi che stiamo muovendo: «L'industrialismo maturo ci appare
insomma un sistema egemone nel senso che determina il quadro
generale, ma anche un sistema tollerante, aperto a diverse soluzioni,
capace di integrare l'esistente reinserendolo con diverse valenze nei
propri circuiti».44
Beninteso, non intendiamo rifarci ad una condizione post-
industriale, perché non pensiamo che si possa uscire
dall'industrialismo inteso nell'accezione più vasta. Ma fino a che punto
1'»industrialismo maturo» può tollerare - specie nel settore di cui ci
occupiamo - tutta la serie delle diversità che vanno via via emergendo
come condivise istanze senza uscirne snaturato? Fino a che punto
l'artidesign, che ha indubbie componenti tradizionaliste, di opzione
per tradizionali modalità progettuale e esecutive, se si vuole persino di
riflusso, può assumersi come componente tollerata dall'industrialismo
maturo e non piuttosto come qualcosa che in gran parte lo contesta?
Il nostro genere «terzo» fra artigianato e design non può considerarsi
una pura e semplice tendenza che si affianca alle altre, un aspetto del
tanto enfatizzato pluralismo: non è, in parole diverse, una sorta di
apertura culturale, di tolleranza appunto, alimentata da teorici e da
critici, ma va assumendo la logica propria di un «mestiere» a parte,
compromesso fin che si vuole, ma con tutti i pregi e difetti che gli
sono propri. Ma poi, in pratica, in che cosa si traduce l'inclusività

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dell'industria e delle tecnologie avanzate? Ove si eccettuino le
confusioni postmoderniste, non ci viene in mente altro che
l'espediente delle macchine robotizzate e a controllo numerico, capaci,
come s'è visto, di apportare piccole variazioni «personalizzanti» ad un
modello di base senza interrompere la linea produttiva. Già questi
vantaggi, unitamente a quelli associati alla lavorazione su commessa,
si possono trovare, mutatis mutandis, nei procedimenti dell'artidesign,
senza il ricorso a costosi impianti computerizzati. Certo, nessuno
ignora che la differenza tra questi procedimenti e quelli delle
macchine a controllo numerico sta in ciò, che non bisogna
interrompere la produzione seriale, ma se i costi perché l'attrezzatura
artigiana sortisca l'effetto della varietà non sono così elevati, è proprio
così necessaria la nuova operazione tecnologica? Ed ancora, giova
ripeterlo, sono sufficienti modeste varianti ad esprimere le molte
lingue e tradizioni come detta il pluralismo? Che sorta di design è
quello dove la confonnazione strutturale di un prodotto diventa varia e
flessibile solo cambiando qualche elemento di dettaglio? E che cos'è
in fondo la decorazione, nel senso più tradizionale e superfluo, se non
una modesta variazione superficiale da
apportare ad un organismo morfologico essenzialmente definito? Non
è forse più logico, almeno per il settore che qui ci compete, orientarsi
verso una piccola serie che si distingue da un'altra per avere «sostanza
e apparenza» del tutto diversa, così come avviene per l'artidesign?
La questione del pluralismo è più complessa. Esso può sì misurarsi
con la pluralità di soluzioni particolari all'interno di una produzione
più generale ed uniforme, ma vale soprattutto per la coesistenza, non
solo di più tendenze, ma per la presenza addirittura di diversa
concezioni del design, dei tanti design di cui parla Maldonado. Il che
non è solo materia di classificazione o di teoriche tassonomie, ma
implica tangibili aspetti anche pratici, come quelli delle contropartite
che comportano i diversi modi di concepire il design e le relative
tecnologie.
Senza la pretesa di affrontare in questa sede il tema ecologico, è
tuttavia indubbio che la grande industria, unitamente agli innegabili

63
progressi, ha comportato anche i noti danni alla condizione
ambientale. Altrettanto noti sono i tentativi di pone rimedio ai «limiti
dello sviluppo»; qui fuori da ogni moralismo catastrofico e in pari
tempo da ogni proposta che pretenda di risolvere completamente il
problema, possiamo avanzare l'ipotesi che i danni prodotti dalla
grande tecnologia possano essere annullati o ridotti da una tecnologia
ancora più avanzata; ma se questo vale per le grandi produzioni,
dovrebbe simmetricamente valere anche per quelle opposte: molti
inconvenienti della piccola tecnologia dovrebbero essere, a loro volta,
annullati o ridotti da un tecnologia ancora più piccola, maneggevole, a
misura d'uomo. Non deve meravigliare, una volta ammesso il
pluralismo, questa coesistenza di macro e micro tecnologia quando da
decenni si è riconosciuta la coesistenza e persino la «doppia verità»
scientifica della macrofisica e della microfisica, sia pure con un
significato opposto a quello cui qui ci riferiamo, denotando la seconda
la fisica più avanzata. Viceversa, per quanto attiene alla nostra
disciplina, si può dire che per la macrotecnica è ancora lecito parlare
di industrial design, mentre per la microtecnica diventa ogni giorno
più utile e pertinente parlare di artidesign.
Altra conseguenza del pluralismo sono le considerazioni che
seguono. Abbiamo lasciato in sospeso, nel capitolo III, intitolato Il
parametro del design, una importante questione, quella per cui la
politica quantitativa, la «democrazia dei consumi» oggi non regge più.
«Oggi infatti possiamo osservare con senso critico come le cose siano
davvero andate. Possiamo valutare non solo i pro ma anche i contro
delle diffusione dei consumi, possiamo notare gli squilibri sociali che
si sono verificati e constatare i costi ambientali che stiamo pagando.
Agganciare il progresso a dei parametri di crescita quantitativa poteva
sembrare accettabile in un mondo che ancora appariva semplice (si
identificavano dei bisogni elementari cui si poteva dare risposta con
prodotti standard). Ma oggi i temi della quantità sono stati scalzati da
quelli della qualità. Non perché non si pongano più problemi di
quantità, che anzi sono impellenti (nel senso di aumentarla in alcuni
contesti e di diminuirla in altri) Ma perché ci si rende conto che se ci

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sarà progresso, questo non potrà essere giudicato che con parametri
qualitativi. E la dimensione qualitativa non può essere affrontata con
modelli di riferimento semplici: dire qualità, infatti, è come dire
complessità>.45
L'associazione con la complessità è uno dei moth più concreti per
poter parlare della qualità, altrimenti relegata nel vago e
nell'indefinibile. Complessità peraltro vuol dire il passaggio dalla
rigidità alla flessibilità, quello dai bisogni primari ai secondari, quello
dal prodotto commerciale al servizio sociale e quant'altro la
complessificazione del mondo contemporaneo viene quotidianamente
ponendo. Ma tale complessià non è piuttosto la presa di coscienza, la
posizione dei problemi che la loro soluzione? Una interpretazione più
realista ed operativa nella condizione attuale ci sembra essere sì la
consapevolezza di trovarci in uno scenario socio-economico-
culturaleproduttivo complesso che tuttavia richiede, non sembri un
paradosso, uno sforzo «riduttivo». Che cos'altro significa il risparmio
d'energia, la ricerca di nuove fonti più economiche, gli accorgimenti
tecnologici meno inquinanti, l'informazione stessa tanto più efficace
quanto trasmessa da pochi e precisi messaggi? Insomma, tra le vie
volte a tradurre le obiettive complessità in altrettante riduzioni che le
rendano sopportabili e intelligibili, non è affatto da escludere quella
per cui tutte queste forme di economia comportino, unitamente ad
una tecnologia più sofisticata, anche una sorta di «far macchina
indietro».
Ora, se le varie riduzioni sopra indicate richiedono certamente un
riesame ed un ripensamento per ciò che attiene alla macroindustria ed
il vero e proprio industrial design, la piccola e media industria ed il
suo equivalente, l'artidesign, ci sembrano contenere strutturalmente
alcune possibilità di soluzione di molti problemi cui abbiamo sopra
accennato. Infatti, quella maggiore flessibilità che si invoca per la
grande industria si trova da sempre nella piccola, quella qualità
(divenuta oggi indissociabile da una complessità problematica) quale
opposto della quantità (oggi più che mai meccanica ed omologante) è
per definizione propria all'alto artigianato di ieri e all'artidesign

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attuale, quel prodotto solido e duraturo al posto dell'informazione
leggera e mutevole, quelle lavorazioni più «naturali» e meno
inquinanti, quel fenomeno per cui ad ogni innovazione tecnologica,
specie in ordine all'automazione, si rende necessaria una riduzione
della forza-lavoro, ecc., sono certamente aspetti di problemi che si
risolvono in maniera più diretta e immediata nel settore cui abbiamo
dedicato il nostro saggio.
In effetti, le «grandi questioni» che investono quello che un tempo si
chiamava il «progresso» ed ora in termini più modesti lo «sviluppo»,
sono in gran parte estranee alla lavorazione artigianale, ivi compresa
la sua versione più moderna e meglio rispondente alle istanze di oggi
che abbiamo definito artidesign. Non è escluso che queste antiche
lavorazioni siano durate per tanti secoli proprio in virtù del fatto che
non comportavano un numero così grande di contropartite, di costi
sociali, di spreco energetico, di inquinamento, ecc. Per quanto
paradossale possa sembrare, è sostenibile la tesi che la grande
industria e l'industrial design siano in qualche modo costretti a «far
macchina indietro», mentre quella piccola e l'artidesign non possono
che «fare macchina avanti».
Giunti a questo punto abbiamo quanto basta per individuare, definire e
descrivere l'artidesign, grazie alle considerazioni fin qui svolte e
deducendolo, com'era in programma, in rapporto all'arte,
all'artigianato e al design.
Rispetto all'arte, l'artidesign si configura come quella pratica meglio
ne traduce in oggetti l'immagine, la fantasia, lo speri-
mentalismo il piacere estetico. E ciò perché: a) al pari dell'artigianato,
esso è in grado di trasferire nei prodotti direttamente le valenze
artistiche senza eccessivi apparati mediatori (ingegnerizzazione,
meccanismi lavorativi, dipendenza assoluta dal calcolo economico); b)
differenziandosi dall'artigianato, essa realizza, nella variabilità del
numero che compone ciascuna serie, il principio dell'arte tecnicamente
riprodotta e oltre le indicazioni dell'<>arte utile», l'artidesign grazie
alla modestia dell'attrezzatura di cui si avvale, può anche tradurre in
oggetti fruibili quegli aspetti rappresentativi, espressivi e persino

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contestativi dell'avanguardia artistica, vale a dire sia il lato razionale
che quello irrazionale di essa: d) ridimensionando la visione globale
arte-design-architettura, l'artidesign non si avvale soltanto delle
indicazioni provenienti dall'avangurdia storica, ma anche di tutta l'arte
del passato, un'arte che, tradotta in oggetti e con tecniche nuove riesce
talvolta anche ad affrancarsi dall'eclettismo.
Rispetto all'artigianato, il fenomeno che vogliamo definire ne
raccoglie l'eredità, apportandovi le seguenti correzioni o
trasformazioni: a) non cerca l'unicità del manufatto (il che legittima la
coesistenza e sopravvivenza dell'artigianato), ma una sua molteplicità
commisurata agli aspetti che seguono; b) aggiorna la sua microtecnica,
restando in equilibrio fra le tecniche appunto artigianali e i costosi
impianti industriali, il che gli consente uno sperimentalismo nonché
morfologico anche tecnologico; c) non rifiuta pubblicità e
promozionalità, ma non le affida alla pura immagine quanto
soprattutto a qualità più tangibili e sostanziali; d) come l'artigianato
lavora su commessa ma, al pari del design, è in grado di anticipare
l'offerta alla domanda del mercato; e) non instaura, di conseguenza, il
rapporto diretto e personale dell'artigiano con l'utente, senza tuttavia
perdere di flessibilità, ovvero la facoltà di instaurare un rapporto col
«gruppo», termine anch'esso intermedio fra il singolo e la massa.
Rispetto all'industrial design, il genere «terzo» si pone evidentemente
come il fenomeno più vicino, tuttavia vi si accosta e/o si allontana per
i seguenti aspetti: a) conserva l'interesse per il progetto, ma ammette la
sua correzione in fase esecutiva; b) adotta sia i materiali tradizionali
che quelli neotecnici, lavorandoli tuttavia a suo modo; c) mira, come il
design, ad un prodotto finito omogeneo, ma dichiara esplicitamente la
natura eterogenea delle parti; d) adatta anch'esso costantemente la
propria attrezzatura alle esigenze della produzione del consumo, ma
predilige macchine semplici e flessibili; e) allo scientismo della
tecnologia del design sostituisce procedimenti più empirici; O è
anch'esso attento ai moti del gusto e ai cambiamenti del costume, ma
non ha pretese ideologiche, pedagogiche, sociologiche, ecc.

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L'elenco delle sue caratteristiche potrebbe continuare, tant'è che
alcune sono state già in precedenza indicate e altre figureranno nelle
pagine che seguono, ma c'è quanto basta a fornirci un'idea
dell'artidesign come un fenomeno culturale e produttivo equilibrato,
misurato e duttile, attributi tutti che la teoria delle arti applicate ha
sempre esaltato e comunque rivelatisi i più adatti al settore del mobile
e degli oggetti domestici, per il quale la nozione stessa di questo
genere «terzo» è stata pensata.
Sc le nostre considerazioni sono vere e misurate al panorama
produttivo italiano, possiamo ritenere che il meglio della nostra
produzione nel settore citato più che al vero e proprio industrial design
debba ascriversi all'artidesign. Questo ha fatto sì che i progettisti e le
aziende migliori abbiano tratto dalla tradizione il suo lato più positivo,
abbiano maturato notevoli esperienze, abbiano trasformato limiti,
difficoltà e necessità in imprevedibili virtù.

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