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Renzo Piano
Cronologia
1937 Renzo Piano nasce a Genova 1992 Ricostruzione di Potsdamer Platz, Berlino
1960-1964 Lavora presso lo studio milanese di Franco Albini 1994 Nomina di Ambasciatore dell’Unesco per l’Architettura
1964 Si laurea in architettura al Politecnico di Milano Vince il concorso internazionale a inviti per l’Auditorium, Parco
1968 Primo ufficio laboratorio dello studio Renzo Piano a Genova della musica di Roma
1969 Padiglione dell’Industria italiana all’Expo di Osaka 1995 Premio imperiale a Tokyo
1971 Si costituisce lo studio Piano & Rogers con sede a Londra 1996 Torri per uffici e residenza, Sidney
Lo studio Piano & Rogers vince il concorso internazionale per il 1998 Vince il premio Pritzker
Centro culturale Georges Pompidou, Parigi 2000 Incarichi per la London Tower Bridge e per la California
1977 Si costituisce la Piano & Rices Associates Academy of Sciences, San Francisco
1981 Si costituisce il Renzo Piano building workshop (RPBW), con Riceve il Leone d’oro alla carriera alla biennale dell’architettura
sede a Parigi e Genova di Venezia
1982 Progetto e realizzazione del museo d’arte per la collezione 2001 In occasione del G8 viene realizzata la biosfera del porto di
Menil, Houston. Genova
1984 Consultazione internazionale a inviti: venti architetti sono 2004 Viene costituita la fondazione Renzo Piano
chiamati a presentare le loro proposte sull’utilizzo del Lingotto 2008 Riceve la Gold Medal dell’American Institute of Architect (AIA)
a Torino. Il progetto di Piano vince e il Sonning Prize dell’università di Copenaghen
1985 Assegnazione della Legione d’onore a Parigi 2009 Ha inizio la progettazione dell’auditorium del parco, L’Aquila
Conferimento dell’Honorary Fellowship del Riba di Londra 2013 Inaugurazione del nuovo quartiere eco sostenibile “Le Albere”,
1987 Stadio San Nicola per i mondiali di calcio del 90’, Bari Trento
1988 Vince il concorso internazionale per il terminal dell’aeroporto
Internazionale del Kansai, baia di Osaka
1989 Nuova sede del RPBW a Punta nave, Genova
Gli viene assegnata la Riba Royal Gold Medal for Architecture
1991 Centro culturale Jean Marie Tjibaou, Nouméa, Nuova Caledonia
Museo d’arte della fondazione Beyeler, Basilea
Aula liturgica per Padre Pio, San Giovanni Rotondo (inaugurata
nel 2004)
Renzo Piano con la figlia Lia Schizzo del centro culturale G. Pompidou
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STUDENTE: Giulia Romano DOCENTE: Prof.ssa Vilma Fasoli
“La nostra luce è un orologio naturale: cambia con l’ora e il clima dando colori
diversi ai muri , ai tavoli da lavoro, agli oggetti. Le lamelle del tetto disegnano tagli
d’ombra, dando una grana variabile a tutte le superfici. All’imbrunire si accendono le
lampade a sbalzo rivolte verso gli schermi riflettenti al soffitto. In questo modo si
conserva la caratteristica dell’ambiente: anche la luce artificiale proviene dall’alto.”
Proprio la luce e il vento sono elementi molto cari a Piano che afferma: “Più elimino
schizzo del RPBW a Punta nave 1
il superfluo, più ottengo economie dei materiali. Più riduco i materiali, più mi
avvicino alla natura ed entro in contatto con la luce e il vento. La qualità di un
edificio dipende in gran parte da una buona illuminazione e dagli effetti
piacevoli della ventilazione.”
È questa convinzione che lo porta a progettare edifici in cui assumono rilevante
importanza la trasparenza e la leggerezza. Attraverso la prima l’architetto ligure non
solo risponde ad esigenze di tipo energetico ma – come scrive Paola Gregory -
“trasforma l’involucro in una sorta di filtro, di velo che nasconde e rivela: captando
gli infiniti cromatismi atmosferici della città”. A questo proposito sorge spontaneo
citare il grattacielo (di recente costruzione) sede del New York Times, NY, in cui
la “pelle” dell’edificio è costituita da una sottile trama di listelli di ceramica bianca
che hanno la funzione di schermare le facciate trasparenti dalla luce e dal calore dei
raggi solari e fanno sì che esso cambi colore ogni giorno.
Attraverso la seconda, invece, Piano riesce a fondere nelle sue strutture gli Il rispetto che Piano nutre nei confronti dell’ambiente naturale e il conseguente
elementi materiali con gli elementi immateriali come possono essere la interesse per le tecniche di risparmio energetico sono evidenti in un progetto
luce, le trasparenze, la vibrazione, il colore, i quali “interagiscono con la recente di Piano: il MUSE (MUseo delle ScienzE) situato nel quartiere “Le Albere” di
Trento, inaugurato nel luglio 2013.
forma dello spazio, ma che non sono riconducibili a essa”.
La struttura sfrutta energie rinnovabili quali: la luce solare, la forza geotermica, il
E molto spesso tale leggerezza porta con sé la sostenibilità - tuttavia, ammette, che vento e l’acqua (l’uso di una cisterna per il recupero delle acque meteoriche
non sempre è l'efficienza energetica a conferire leggerezza. Talvolta il peso può permette una riduzione del 50% dell'utilizzo di acqua potabile. L'acqua raccolta nella
essere utilizzato per ottenere una buona inerzia termica - . vasca viene utilizzata per l'irrigazione della serra e per alimentare gli acquari e lo
specchio d'acqua che circonda l'edificio).
Una leggerezza dunque che , come scrive Calvino nelle sue lezioni
americane, “ si associa con la precisione e la determinazione, non con la
vaghezza e l’abbandono al caso”
Il progetto per il MUSE nel nuovo quartiere eco-sostenibile di Trento "Le Albere"
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Il concetto di “architettura sostenibile” non si riduce, però, soltanto ad una L’architetto di Genova si è occupato più volte negli anni del recupero di ex aree
sostenibilità ambientale. Infatti, secondo Piano, non è solo il futuro del pianeta ad industriale e attraverso i suoi progetti ha cercato di creare dei quartieri vivi,
essere a rischio, ma anche il futuro della città: multifunzionali, in cui per prima cosa ci fossero spazi di incontro come le tanto
amate piazze che sono luoghi di incontro e di “sorpresa”. Alcuni esempi sono
“È questa idea di crescita senza limiti che ha fatto esplodere le nostre città ed ha Potsdamer Platz a Berlino, l’auditorium del Parco di Roma, il quartiere Le Albere di
fatto costruire le peggiori periferie, fatte di mura ma senza strutture nelle quali la Trento, Il Lingotto di Torino, l’area ex Falck di Sesto San Giovanni.
società di organizza e vive. Ecco come si arriva a riflettere su un’architettura
sostenibile”.
Egli sostiene che nel dopoguerra e fino agli anni sessanta le città sono esplose
rubando spazio alle campagne e ai comuni vicini dando vita ad un continua
conurbazione, a seguito della quale, intorno agli anni ottanta, ci si è resi conto che
era ora di fermarsi a riflettere sul fatto che queste città dovevano cercare di
implodere e non di esplodere (creando così quei pezzi di città infelici che oggi
sono le periferie), e ciò è possibile solo attraverso una crescita “dal di dentro”,
riassorbendo i vuoti urbani provocati dal processo di deindustrializzazione, che
Piano chiama “buchi neri”.
Jean-Marie Tjibaou era capo kanak durante la lotta per l’indipendenza della Nuova
Caledonia dalla Francia, tra il 1984 e il 1988. Fu lui a negoziare gli accordi di
Matignon che garantivano il riconoscimento della cultura kanak ma non
l’indipendenza. Tjibaou fu ucciso da alcuni estremisti kanak nel 1989 e ciò
svergognò il governo francese a tal punto che Mitterand (allora presidente della
repubblica francese) decise di costruire un centro culturale che ora porta il nome del
leader kanak.
Il sito scelto è la penisola di Tina, a est di Nouméa, capitale della Nuova
Caledonia cosicché i Kanak inurbati potessero riscoprire le proprie radici e i “non
Kanak” potessero entrare a contatto con questa cultura.
Piano visitò i luoghi nel 1992 quando il suo progetto fu scelto nell’ambito del
concorso internazionale. Egli rimase notevolmente colpito dalla bellezza dell’isola,
dalla sua vegetazione e dalle tipiche capanne kanak. Notò che vi era un sentiero che
si incurvava sulla cima del promontorio e tre chiazze di terra senza vegetazione.
Così decise di seguire l’allineamento di quel sentiero e costruire in quelle
parti in cui non vi erano alberi o piante lasciando intatto il verde, anzi
permettendo alla natura di “entrare nell’architettura”. Inoltre il progetto pone
particolare attenzione sulla forza del vento la quale viene più assecondata che
contrastata. A tal proposito sono significative le parole del progettista stesso,
riportate nel suo libro “La responsabilità dell’architetto”:
“Pensai allora a una fila di costruzioni lungo quella striscia di terra, fortemente
legate all’ambiente nel quale dovevano sorgere. Abbiamo usato il più possibile
materiali naturali: dal legno, al corallo, alla corteccia d’albero, e li abbiamo
intrecciati con il meglio che poteva fornirci la moderna tecnologia. Abbiamo
inventato un sistema di areazione delle capanne che, attraverso una doppia
copertura, consente una circolazione dell’aria in modo tale che quando soffiano i
monsoni produce un suono che è tipico dei villaggi kanak e delle foreste.”
Nel progetto iniziale le capanne erano molto somiglianti a quelle kanak con le
costole verticali convergenti tutte verso un apice comune e le parti aperte delle
capanne si aprivano al vento su entrambi i lati. Questo fu approvato all’unanimità
dalla commissione incaricata di valutare le diverse proposte ma nonostante ciò Piano
nutriva alcuni dubbi riguardo alla forma delle capanne e alla resistenza della
struttura alla ventilazione passiva. Effettivamente la prova nella galleria del vento
dimostrò che le paure dell’architetto genovese erano fondate così si procedette a
escogitare una soluzione differente.
Venne cambiata la forma delle capanne secondo una nuova versione che prevedeva
la presenza di un cerchio esterno e uno interno di costole verticali, nessuna delle
quali si toccava in cima. Lo spazio tra questi cerchi risultò molto utile a creare una
ventilazione naturale.
Schemi di pianta, prospetti e assonometria delle singole capanne Sezione della parte inferiore delle costole e del muro perimetrale di una sala
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Le costole del cerchio più interno salgono dritte a reggere il sistema della copertura
(una trave ad anello ellittico di tubolare d’acciaio dalla quale si diramano le travi
inclinate che sostengono una lamiera d’acciaio ondulata sulla quale è stesa una
membrana isolante e impermeabile), mentre quelle del cerchio esterno si incurvano
e reggono soltanto gli schermi di assicelle di legno.
Le costole sono in iroko, un legno stabile, resistente che non ha bisogno di
particolare manutenzione, e sono unite alla base con giunti acciaio e rafforzate da
elementi di collegamento orizzontali anch’essi in acciaio.
La struttura ha inoltre un valore simbolico:
“il palo centrale della capanna è il “gran capo” , che è protetto dai “capi minori” cioè
i pali delle pareti che lo attorniano, e le corde di fibra di cocco che li legano assieme
sono le donne, la cui funzione è quella di tenere unita la tribù”.
Peter Buchanan, “Renzo Piano Building Workshop”, Phaidon Press Limited 2000
Veduta della giunzione dei controventamenti Vista dall'alto del modellino della struttura Posizionamento della struttura in acciaio del tetto
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Le capanne si trovano tutte sullo stesso lato della passeggiata e volgono il dorso ai
venti. Esse sono in tutto dieci, di tre misure diverse: le più piccole hanno diametro
di 4 m e altezza di 18 m, mentre le più grandi hanno il diametro di 13,5 m e altezza
di 28 m. il resto del centro è meno vistoso e si nasconde sui lievi pendii che
scendono verso la laguna, aprendosi su un contesto molto più antropizzato di
coltivazioni.
Il centro include sale per mostre temporanee e stabili, un teatro al chiuso, un
auditorium all’aperto, una sala per proiezioni audio-visive, una sala per i bambini,
una caffetteria, negozi di souvenir.
Tutti i partecipanti alla gara trattarono l’area (che ingloba il grande complesso del
Kulturforum, costituito dalla Galleria di Mies van der Rohe, dalla Filarmonica di
Berlino e dalla Biblioteca Nazionale di Hans Scharoun) come un’isola a sé stante,
mentre lo schema del RPBW (presentato insieme a Christoph Kohlbecker) prevedeva
la collocazione di nuovi edifici soprattutto fuori dall’area di gara per ricucire la
piazza (considerata da Piano come “il buco nero” di Berlino) con tutta la zona
circostante avendo constatato quanto il sito fosse isolato. Il progetto puntava a
mantenere un carattere omogeneo per tutti gli edifici, che vennero affidati, oltre che
a RPBW, anche ad architetti selezionati successivamente.
Uno dei punti fondamentali è l’importanza data alla Alte Potsdamerstrasse che
viene fatta finire in una nuova piazza (Marlene Dietrich platz) su cui si affacciano il
Teatro, il Casinò e la preesistente Biblioteca Nazionale. Proprio la Biblioteca di
Scharoun ha fatto sorgere i primi problemi, in quanto costruita nel 1967 quando
sembravano impossibili la caduta del muro e la futura riunificazione di Berlino, essa
volge le spalle alla nuova piazza. Nel progetto di RPBW alla Biblioteca vengono
affiancati i volumi del teatro e del Casinò, con la piazza coperta che li unisce. In
questo modo Berlino si riunisce proprio nel punto in cui una volta era separata dal
muro. La piazza è il fulcro dell’intervento, sia dal punto di vista formale che urbano.
Qui sono insediate tutte le funzioni principali previste dal piano regolatore: oltre al
Teatro e al Casinò ci sono negozi, residenze, uffici, ristoranti. Infatti ciò che Piano ha
voluto creare con questo progetto è un luogo con molteplici funzioni ed utilizzi che
sia vissuto di notte e di giorno.
Interno dell'Arkade
Alle critiche che il progetto ha ricevuto da più parti poiché non adeguato ad una
città come Berlino Piano ha risposto:
“C’è chi mi ha criticato per Potsdamer Platz, e devo dire che lo hanno fatto fin
troppo poco. Ma anche se la città ha accolto molto bene il mio progetto di fronte ad
alcune miei idee e certi materiali, qualcuno, più o meno gentilmente, mi ha fatto
notare che non si confacevano a Berlino, che è una città di pietra, è una città di
sofferenza. Bè devo dire che non sono mai riuscito a capire perché l’architettura, per
essere una cosa seria, debba essere sofferenza. Chi lo ha detto che una città per
essere vera ,autentica, deve essere tetra? Una città deve essere intensa, non
grigia e pesante. La città è una stupenda emozione dell’uomo!”.
Vista dalla torre di uffici di Hans Kollhoff Vista dall'Alte potsdamerstrasse fino al teatro e al casinò con la biblioteca alle loro spalle
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Era il 1981 quando Dominique Menil contattò Renzo Piano per la costruzione di un
museo a Houston che ospitasse la collezione di arte surrealista e africana di
famiglia, composta da circa 10.000 pezzi. L’obiettivo era quello di realizzare uno
spazio che favorisse un rapporto diretto e rilassato tra visitatori e opera
d’arte, un ambiente familiare, privo di ogni carattere di monumentalità, a contatto
con la natura. Per la localizzazione del museo è stata scelta un’area verde di un
quartiere residenziale ottocentesco, in cui esistevano già altre abitazioni che,
riutilizzate per attività museali complementari, hanno portato alla costituzione di
una sorta di “Village Museum”.
“Man mano che prendeva forma l’idea del museo - racconta Dominique de Menil,
oggi presidente della Fondazione – nasceva in me la volontà di preservare almeno in
parte l’intimità con quelle opere d’arte. Formulai quindi una richiesta, a cui Renzo
Piano rispose brillantemente: avremmo esposto le opere a rotazione, solo una
parte della collezione alla volta, ma inserite in un ambiente spazioso e idoneo. Gli
oggetti non esposti sarebbero rimasti nei depositi, accessibili a studiosi e visitatori.
Le opere dovevano mostrarsi, scomparire e nuovamente riapparire, come attori sul
palcoscenico. Così da poter essere viste con occhi sempre nuovi”.
Renzo Piano con Domenique Menil
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In effetti il museo, che non va oltre i due piani fuori terra, è composto dagli spazi
espositivi che si trovano al piano terra assieme ai percorsi pubblici di
attraversamento e collegamenti e agli spazi di servizio, e dalla Treasure house,
dove sono custoditi e protetti gli oggetti della collezione che non sono esposti, la
quale è situata al primo piano assieme agli uffici. Al piano interrato si trovano
laboratori, magazzini e impianti.
I punti focali del progetto sono ben delineati da uno dei collaboratori di Piano,
Shunji Ishida:
“Prima di tutto il museo doveva essere in grado di ospitare una collezione di più di
10.000 pezzi in un interno spazioso, e doveva presentare un esterno molto
compatto. In secondo luogo doveva apparire solenne ma non monumentale. Quindi
doveva essere facilmente percorribile, e non solo da parte dei visitatori ma anche
dalle persone che vi lavoravano e da chi voleva condurre delle ricerche. Infine,
aspetto che aveva la priorità su tutti gli altri, doveva consentire di esporre le
opere d’arte illuminate dalla sola luce naturale, così da far esprimere l’energia
di ogni opera attraverso i cambiamenti della luce. In altre parole, le opere d’arte
avrebbero acquistato una ricchezza di espressione grazie alle variazioni
della luce naturale; variazioni determinate dai movimenti ritmici del vento e
delle nuvole. Eravamo tutti consapevoli che la chiave del progetto risiedeva nel
modo in cui avremmo trattato la luce naturale. Immediatamente iniziammo a
Genova gli esperimenti su modelli, al fine di studiare i livelli di luce. Nello stesso
tempo Peter Rice e Tom Baker (Ove Arup & Partners) intrapresero uno studio
analitico basato sulla simulazione al computer delle condizioni geografiche di
Presentazione del modellino a Dominique Menil
Houston”.
Il primo modello utilizzato per verifiche sul comportamento della luce Schizzo di Renzo Piano
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Il problema che si poneva era: come trattare la luce naturale che proveniva
dal tetto, in condizioni climatiche come quelle di Houston, dove il sole è così
forte e l’umidità così elevata?
Piano decise di progettare una copertura vetrata, che agisce come filtro in quanto è
in grado di riflettere il calore e i dannosi raggi ultravioletti ma di fare entrare la
quantità di luce necessaria ad ammirare le opere d’arte, schermata da esili elementi
modulari in ferrocemento bianco a forme di “foglie”, sostenuti da travi reticolari in
acciaio. In particolare, il profilo dell’elemento in ferrocemento impedisce ai raggi
solari di raggiungere direttamente le opere esposte, garantendo però un’
illuminazione naturale, mutevole a seconda delle condizioni atmosferiche.
“Il sistema-albero – spiega Renzo Piano – è basato sulla continua rifrazione tra
foglia e foglia; una rifrazione che crea zone d’ombra senza per questo ostacolare
l’aerazione. Gli schermi di Houston, in fondo, non sono che delle grandi foglie
organizzate geometricamente, in posizione tale da far passare l’aria ma bloccare i
raggi ultravioletti che danneggerebbero le opere d’arte”.
In basso a sinistra:
copertura del portico
intorno al museo.
In alto a destra:
Schizzo di Piano sullo
studio della luce.
In basso a destra:
interno di una sala espositiva
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Bibliografia e fonti
- http://www.rpbw.com/
- http://www.lighting.philips.it/pwc_li/main/shared/assets/downloads/it/luminous_n_3.pdf
- http://www.novarchitectura.com/2012/02/08/menil-collection-museum-renzo-piano-1981-1987-houston-tx/
- http://www.infobuildenergia.it/progetti/muse-225.html