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Pierre Alain Croset (Ginevra, 1957) architetto,

Pierre-Alain Croset, Giorgio Peghin, Luigi Snozzi

Croset, Peghin, Snozzi


si laurea al Politecnico di Losanna. Dal 2002 è
professore ordinario in Composizione architettonica
ed urbana al Politecnico di Torino. È stato
caporedattore della rivista Casabella sotto la direzione
Un dialogo tra Pierre Alain Croset, Giorgio Peghin
di Vittorio Gregotti dal 1982 al 1996. Assistente
di Luigi Snozzi al Politecnico di Losanna dal
1984 al 1989. Professore alla Columbia University
(New York) nel 1994, all’Institut für Baukunst del
e Luigi Snozzi sulla formazione, l’architettura e la
didattica, che esprime una condizione del progetto
contemporaneo e il senso dell’insegnamento
Dialogo sull’insegnamento
dell’architettura
Politecnico di Graz (Austria) e preside della Facoltà
di architettura di Graz dal 2001 al 2002. Attualmente
insegna alla Xi’an Jiaotong-Liverpool University di
dell’architettura, cioè il difficile compito di trasmettere
Suzhou in Cina. non tanto gli strumenti tecnici della disciplina ma il
segreto del saper progettare, la capacità di sviluppare
Giorgio Peghin (Sassari, 1965) architetto e dottore l’idea e di interpretare, con la cultura, le modificazioni

Dialogo sull’insegnamento dell’architettura


di ricerca, laureato al Politecnico di Milano, è del nostro ambiente.
stato assistente di Luigi Snozzi dal 2002 al 2006.
Attualmente è professore associato in Composizione Gli argomenti spaziano tra ambiti disciplinari differenti,
architettonica ed urbana presso l’Università degli nella consapevolezza che la pratica del progetto si
Studi di Cagliari. Dal 2002 al 2008 è stato redattore
della rivista Parametro. Autore e curatore di testi sulla
confronta oggi con una progressiva complessità del
città moderna, ha pubblicato i libri Carbonia (2009), sapere e con la sua frammentazione in tanti specialismi.
Quartieri e città del novecento (2010), Il patrimonio Alcuni temi riflettono sulla possibilità di condividere una
urbano moderno (2012). Nel 2011 ha coordinato il
progetto Carbonia Landscape Machine, vincitore del base teorica e pratica; altri si interrogano sui conflitti tra
Premio del Paesaggio del Consiglio d’Europa. pensiero pratico e pensiero teorico, tra specializzazione
e universalismo; altri ancora affermano la necessità di
Luigi Snozzi (Mendrisio, 1932) architetto, si laurea un’educazione all’arte e all’architettura che non sia “terra
al Politecnico Federale di Zurigo - ETH nel 1957.
Dal 1962 al 1968 lavora in associazione con Livio
di nessuno” dove tutto è permesso.
Vacchini. Professore ordinario, ha insegnato alla Questioni che il testo affronta in maniera non
Scuola politecnica federale di Zurigo, alla Scuola
di architettura di Ginevra, alla Scuola politecnica
sistematica o dottrinale ma attraverso una personale
federale di Losanna, alla Facoltà di Architettura di pedagogia per l’educazione all’architettura.
Alghero dell’Università degli Studi di Sassari e in
numerose altre università nel mondo. Ha ricevuto la
Laurea Honoris Causa nelle università di Bucarest
(2005), Sassari (2007), ETH di Zurigo (2007) e
TU di Monaco (2013). È vincitore dei premi Beton
(1993), Wakker (2003), Prince of Wales per il progetto In copertina:
di Monte Carasso e RIBA International Fellowship di J.N.L. Durand, Combinazione di sale di cinque
Londra (2014). interassi, disposte attorno ad una sala centrale, da
€ 10,00 “Partie graphique des Cours d’architetture”, 1821
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Copertina: Fedrigoni Woodstock grigio da 260 gr
Interno: Fedrigoni Arcoprinti Edizioni 1.3 da 120 g

Compresse
collana ideata e diretta da Francesco Trovato

Comitato Scientifico
Francesco Cacciatore
Fabrizio Foti
Paolo Giardiello
Marta Magagnini
Marella Santangelo

ISBN 978-88-6242-014-3

Prima edizione cartacea maggio 2016

© 2016, LetteraVentidue Edizioni


© 2016, Pierre-Alain Croset, Giorgio Peghin, Luigi Snozzi

Tutti i diritti riservati

Come si sa la riproduzione, anche parziale, è vietata. L’autore e l’editore si augurano che


avendo contenuto il costo del volume al minimo i lettori siano stimolati ad acquistare
una copia del libro piuttosto che spendere una somma quasi analoga per fare delle
fotocopie. Anche perché il formato tascabile della collana è un invito a portare sempre
con sé qualcosa da leggere, mentre ci si sposta durante la giornata. Cosa piuttosto
scomoda se si pensa a un plico di fotocopie.

Nel caso in cui fosse stato commesso qualche errore o omissione riguardo ai copyright
delle illustrazioni saremo lieti di correggerlo nella prossima ristampa.

Progetto grafico: Francesco Trovato

LetteraVentidue Edizioni S.r.l.


Corso Umberto I, 106
96100 Siracusa

Web: www.letteraventidue.com
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Pierre-Alain Croset, Giorgio Peghin, Luigi Snozzi

Dialogo sull’insegnamento
dell’architettura
Indice
9 Introduzione
11 Dialogo sull’insegnamento dell’architettura
23 Insegnare l’architettura.
Note sulla formazione e l’apprendimento
di Giorgio Peghin
Introduzione
Questo dialogo è nato ad Alghero in occasione di un
seminario per gli studenti del primo anno di architet-
tura da Pierre-Alain Croset e Luigi Snozzi1. Abbiamo
discusso di formazione, di architettura, di strumenti
per la didattica, riflettendo sulla condizione del proget-
to e sul suo ruolo pedagogico. Il progetto, parafrasando
Daniel Defoe sulla costruzione della torre di Babele,
è «un’impresa molto vasta, troppo grande per essere
controllata e per questo destinata, con molta probabi-
lità, ad approdare nel nulla»2. Il pessimismo di Defoe
sembra colto anche da Luigi Snozzi, che chiude questo
incontro affermando che «l’architetto si confronta in
ogni progetto con un luogo, sia esso città, campagna
o natura. Questo è difficile da insegnare agli studenti,
molto difficile». Una frase che esprime il senso dell’in-
segnamento dell’architettura, cioè il difficile compito
di trasmettere non tanto gli strumenti tecnici della di-
sciplina ma il segreto del saper progettare, la capacità
di sviluppare l’idea e di interpretare, con la cultura, la
modificazione del nostro ambiente.
Abbiamo affrontato argomenti che spaziano in

1. Conversazione tra Pierre-Alain Croset, Giorgio Peghin e Luigi Snozzi regi-


strata il 24 ottobre 2014 ad Alghero.
2. Defoe Daniel (1692), Sul progetto (tit. or. Essay upon Project), in Tomàs
Maldonado (a cura di), Electa Editore, Milano, 1983, p. 27.

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tutte le componenti disciplinari, consapevoli che la
pratica del progetto si confronta oggi con una progres-
siva complessità del sapere ed una sua frammentazione
in tanti specialismi: alcuni temi riflettono sulla possi-
bilità di condividere una base teorica e pratica; altri si
interrogano sui conflitti tra pensiero pratico e pensiero
teorico, tra specializzazione e universalismo; altri an-
cora affermano la necessità di un’educazione all’arte e
all’architettura che non sia “terra di nessuno” dove tutto
è permesso. Questioni che il testo affronta in maniera
non sistematica o dottrinale ma guardando ad una rin-
novata pedagogia per l’educazione all’architettura.
Si sviluppa così un racconto che si dipana nell’e-
sperienza diretta e personale, consapevoli della natura
effimera di queste divagazioni, in un tempo in cui non
è possibile dire niente di definitivo e permanente, in
cui l’instabilità epistemologica fa percepire il futuro
come qualcosa di indefinito3. Si ha la consapevolezza,
in una simile situazione, che l’architettura non muove
più l’interesse dell'uomo della strada, dell’intellettua-
le o del politico, estranei alla complessa dialettica che
vede coinvolti architetti, tecnici e ingegneri sul futuro
del loro ruolo. Le necessità estetiche e del pensiero, che
in passato sono state interpretate dagli intellettuali, e
tra questi dagli architetti, trovano risposta nelle infinite

3. Edgar Morin parla di questa perdita del futuro come di «una inadeguatezza
sempre più ampia, profonda e grave tra, da una parte, i nostri saperi disgiunti,
frazionati, compartimentati e, dall'altra, realtà o problemi sempre più polidi-
sciplinari, trasversali, multidimensionali, transnazionali, globali, planetari»; cfr.
Morin Edgar, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Raffaello Cortina
Editore, Milano, 2001, p. 35.

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varianti e modalità della comunicazione di massa, oggi
più che mai accessori della nostra quotidianità. Quan-
do questo fenomeno non era del tutto definito e si ma-
nifestava come una delle possibili condizioni sociali,
Theodor W. Adorno evidenziò il meccanismo di con-
trollo sociale ed il pericolo dell’omologazione. Oggi, la
grande disponibilità di informazioni e di scelte che la
rete offre sembra escludere questo pericolo, anche se ri-
mane in fondo l’idea che il fluire temporaneo ed effime-
ro di questa nuova conoscenza “liquida” possa originare
una formazione ed informazione poco consapevoli.
Il meccanismo di controllo sociale si è sempre
espresso nelle teorie educative: formare/deformare
può avere lo stesso significato se assoggettata all’ide-
ologia della globalizzazione. Riflettere sull’insegna-
mento è, quindi, un modo per ribadire un’idea di liber-
tà dalle consuetudini imposte, dai modelli dominanti,
dall’apparente inevitabilità della perdita di riferimenti,
costanti ed universali, che hanno formato generazioni
di architetti, nella consapevolezza che non l’individua-
lismo è la chiave della nostra libertà, ma la condivisione
di idee, principi e azioni.

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Dialogo sull’insegnamento
dell’architettura
Pierre-Alain Croset
Giorgio Peghin
Luigi Snozzi

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Giorgio Peghin. La formazione dell’architetto si è
modificata in modo profondo, messa in crisi dalla fine
del pensiero razionale e moderno che ne garantiva uno
statuto comune e un corpus di strumenti e conoscenze
condivisi. Una situazione analoga si era osservata con
la crisi del dispositivo regolatore degli ordini architet-
tonici e rispetto alla quale seguirono cambiamenti ra-
dicali nel modo di trasmettere i principi della discipli-
na. Veniva messa in discussione, con le avanguardie del
movimento moderno, la centralità della storia; veniva
azzerata la tradizione e i suoi codici espressivi. Eppure,
nell’insegnamento dell’architettura, non possiamo pre-
scindere dal materiale storico, dalle teorie e dai proget-
ti che si sono conformati nel tempo come riferimenti
stabili e universali e che valgono, oggi come ieri, come
fondamenti per l’architettura.
Come possiamo trasmettere questo corpus di cono-
scenze innestandolo in nuove forme d’insegnamento
ed efficaci strumenti didattici? Gli studenti, soprattut-
to nei primi anni della loro formazione, sono all'oscuro
delle complesse articolazioni che reggono i rapporti
tra forma, costruzione, luogo, storia. Percepiscono l’ar-
chitettura sulla base di un forte condizionamento del-
la “retro-cultura” costruita sull’immagine e sul valore
superficiale della forma, come avviene in altri campi
dell’apprendimento. Oggi, gli strumenti per la diffu-
sione del sapere disciplinare non sono più le riviste di
architettura ma il grande deposito digitale di immagi-
ni e progetti della rete. È un sapere generico, effimero,
continuamente cangiante e questo incide anche sulla

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Adolf Loos, Disegno per il concorso della sede del Chicago Tribute, 1922
(Albertina Museum, Vienna)
difficoltà di comunicare la cultura e gli strumenti del
progetto – dal disegno alla storia alle regole della com-
posizione – che sono, al contrario, il prodotto di una
sedimentazione lenta e di lunga durata. La brevità del
tempo disponibile per la didattica, infine, impone ri-
nunce alla completezza del sapere architettonico.
Mi sembra interessante ragionare su questi temi con
Luigi Snozzi, architetto che per anni ha insegnato al
primo anno delle facoltà di architettura, e Pierre-Alain
Croset, docente, architetto, critico e storico. Due modi
differenti di insegnare l’architettura ma che condivido-
no alcuni principi, come quello della centralità del pro-
getto e del ruolo dell’architetto come figura necessaria
nella trasformazione del nostro ambiente fisico.

Luigi Snozzi. Io farei una prima distinzione. Una cosa


è insegnare in Italia, una cosa è insegnare in Svizzera.
Malgrado la preparazione culturale sia migliore – se
parli di Palladio in Svizzera non sanno neanche chi è
– insegnare al primo anno in Italia è quasi impossibile.
Insegnare in Svizzera ed in altri paesi è più semplice,
nonostante una distinzione tra paese e paese, perché
c’è in fondo una conoscenza dell’architettura moderna
più diffusa che non in Italia. In Italia ti guardi in giro
ed è un disastro. Nei nostri comuni, nonostante tutto
– il piccolo comune di Monte Carasso è un caso parti-
colare – conoscono qualche rudimento di architettura,
c’è una consapevolezza dell’architettura. Qui in Italia è
impossibile, non c’è nessun rapporto, e mi immagino
che un giovane abbia delle difficoltà enormi.

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Farei quindi questa distinzione iniziale, che insegnare
l’architettura non è dappertutto uguale.
Nel mio modo di insegnare al primo anno, ho abolito,
ad esempio, ciò che era usuale anche da noi e che con-
sisteva nel chiedere cose cosiddette “semplici”. Come
tema si dava quasi sempre la casa d’abitazione unifa-
miliare. Io ho sempre pensato che la casa d’abitazio-
ne unifamiliare, la villa, è il tema più difficile per l’ar-
chitetto, più difficile che fare uno stadio o un pezzo
di città, perché il programma dell’abitazione è di una
complicazione estrema. Non c’è l’elemento ripetitivo,
che in architettura è fondamentale – in una casa d’ap-
partamenti, in una casa collettiva, la ripetizione serve a
generare il ritmo. Il programma è di una complessità
enorme, ogni elemento è diverso dall’altro – camera dei
genitori, camera dei bambini, una piccola biblioteca, la
lavanderia, la cucina, spesso in spazi limitati. Ogni vol-
ta che faccio una casa occupo sempre tutto il terreno;
le mie case hanno sempre una pergola o qualche altro
elemento. Cerco sempre gli estremi del lotto sul quale
devo costruire la casa, per dilatarne la dimensione.
Un altro problema importante da portare avanti riguar-
da il rapporto con la città. La casa d’abitazione singola
è antiurbana per eccellenza, è il fatto più antiurbano
che esista. Come si fa a superare questa condizione se
ami la città? Sono arrivato al punto di decidere: basta
abitazioni al primo anno, faccio la città. E negli ultimi
vent’anni di insegnamento sono sempre partito dalla
città. Il primo giorno davo temi urbani – a Trieste, il
centro, luogo complicatissimo – e chiedevo in quindici

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giorni la soluzione. Come prendere un bambino in fasce
e buttarlo nell’oceano in burrasca! Eppure, alla fine, ri-
esci a trasmette l’amore per la città: è quello che voglio,
non solo insegnare l’architettura ma l’attenzione alla cit-
tà come elemento fondamentale del nostro mestiere.
In Sardegna, ad esempio, c’è poca attenzione per la vi-
cenda delle città di fondazione sorte nella prima metà
del Novecento, spesso trascurate e solo recentemente
oggetto di operazioni per riscoprirle. Nel nostro in-
segnamento nessuno ne parla, ma io ho introdotto
queste città nei miei corsi, per portare gli studenti a
vedere queste città, meravigliose, bellissime, stupende,
come Cortoghiana.

GP. La città come strumento formativo del progetto


è in contrasto con l’idea, abbastanza diffusa, di una di-
dattica che gerarchizza dal semplice al complesso, in-
dicando il grado di difficoltà sulla base di un principio
scalare, non considerando che, come hai sottolineato,
il semplice non sempre corrisponde con il piccolo, con
la casa unifamiliare. Questo era già stato intuito da
Boullée quando, descrivendo il suo metodo di insegna-
mento, sviluppava le sue esercitazioni progettuali sul-
la progressione “capanna”, di memoria vitruviana, che
doveva rappresentare il necessario, “casa d'abitazione”
come espressione della complessità del progetto.
Il riferimento alle città di fondazione fasciste, costruite
come modelli ideali avulsi e alternativi alle dinamiche
della città reale – ma era lo stesso per Sabbioneta, la
città ideata e realizzata alla fine del Cinquecento da

15
Saverio Muratori, Plastico della città di fondazione di Cortoghiana, 1940
(Archivio Eugenio Montuori, Roma)
Vespasiano Gonzaga – potrebbe sembrare provoca-
torio, vista la rinuncia a riconoscere, ed aspirare, nel-
la città contemporanea, a qualsiasi principio di forma.
Eppure, e penso che questa sia una delle ragioni della
tua scelta, queste città ci hanno lasciato una qualità del
progetto straordinaria. Sono città basate su stabili re-
gole compositive, spesso su un ordine geometrico che
si adatta al contesto riassumendone gli elementi ge-
ografici: l’orientamento, la conformazione topografica,
la disposizione di luoghi panoramici, la gerarchia delle
parti. Riconosciamo, in queste architetture, soluzioni
molto sofisticate, come le relazioni tra gli elementi ri-
petuti, le case, moderati con la varietà e la dissimmetria
dello spazio pubblico. Il disegno, in questi casi, governa
tutti i rapporti di scala, dalle relazioni territoriali allo
spazio pubblico, alla tipologia edilizia e si offre come
l’esemplificazione concreta dell’applicazione di una te-
oria, di un’idea, di un metodo. Una situazione molto
simile a quella che si sviluppa nell’ambito di un’eserci-
tazione progettuale e che vale più di qualsiasi teoria o
nozione astratta sulla città.
Mi rendo conto, comunque, che conciliare le diffe-
renti scale del progetto non è un’operazione semplice,
soprattutto quando la scala urbana interagisce con il
paesaggio, cioè con la complessa rete di relazioni che
ogni intervento di modificazione provoca con il conte-
sto. Un passaggio che rischia di esaurire le possibilità
di un approfondimento del progetto alla scala edilizia.

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Luigi Snozzi, Deltametropoli, 2001/2003
LS. Nell’insegnamento ho rinunciato a trasmettere le
cosiddette nozioni di architettura – come si compone
una casa. Ai miei allievi non ho mai insegnato come
si disegna una facciata, mai. Ho sempre insistito sul
tema della città. Non li ho mai condotti sul piano della
costruzione, dell’architettura costruita. Mai.
Uno dei problemi italiani è che le scuole di architettura
spendono troppo tempo per le analisi, analisi del sito,
analisi della storia, analisi delle condizioni urbanisti-
che, tipologiche, morfologiche, ed alla fine il foglio del
progetto è bianco, non si arriva quasi mai al progetto.
Buttano via molto tempo e non concludono niente.
L’analisi va ridotta al minimo. Quando sono stato in
Olanda per progettare la “Deltametropoli”, ho sorvola-
to il paese con l’aereo e poi sono tornato a casa, avevo
visto tutto quello che dovevo vedere, anche perché mi
sono posto una domanda: cosa cerco in Olanda? Cerco
la metropoli. Ma devi avere un’idea di quale metropo-
li vuoi fare. La mia domanda era: è possibile fare una
metropoli nella quale l’uomo può orientarsi come nella
città storica? Sono andato per capire se questa doman-
da poteva avere una risposta, una sola, non due. Invece,
l’insistenza sulla conoscenza del luogo in tutti i suoi
dettagli è un’assurdità, perché se tu volessi esaminare
un solo terreno, piccolo, fino in fondo – le caratteristi-
che della vegetazione, la qualità della terra, la composi-
zione chimica – non ti basterebbe una vita intera.

GP. Mi chiedo se gli studenti abbiano gli strumenti per


cogliere il carattere di un luogo, le sue potenzialità. Tu

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riesci a vedere rapidamente la soluzione, una capacità
che è anche il risultato di una lunga pratica del pro-
getto. La “semplificazione monumentale” che traspare
dai tuoi progetti, per usare un’espressione di Giorgio
Grassi, nasconde l’arte della sintesi, la riduzione, cioè,
di problemi complessi a pochi e fondamentali elementi
che rivelano il progetto e che conducono all’essenzialità
dell’opera. Certo, non esiste un procedimento capace
di offrire la soluzione al progetto – le bellezze dell'ar-
te non sono dimostrabili come verità matematiche – il
progetto è sempre il risultato di un intreccio mai pre-
determinato tra il tema, il programma ed il mestiere.

Pierre-Alain Croset. È un problema pedagogico che


deve essere affrontato. Io insegno da trent’anni, perché
ho iniziato a fare l’assistente di Luigi nel 1985. Con gli
anni ti costruisci alcune certezze pedagogiche, anche
se ho vissuto alcune trasformazioni molto importanti.
Credo che tra le altre cose sia stata importante la mia
esperienza di padre, perché i problemi educativi che
devi porti come padre, li trasferisci poi anche nell’inse-
gnamento. Non perché consideri gli studenti come dei
bambini, ma perché devi porti il problema di come l’al-
tro, che ti ascolta, ragiona. Quando uno insegna deve
sempre chiedersi come lo studente lo percepisce.
Io ho avuto la fortuna di avere dei pessimi professori al
Politecnico di Losanna, che allora era una scuola terri-
bile. In fondo ho avuto solo due veri maestri, due pro-
fessori importanti. Uno è stato Vittorio Gregotti: mal-
grado il fatto che sia stato solo professore invitato per un
semestre, questo incontro fu così intenso e decisivo da
convincermi a lasciare la Svizzera per trasferirmi a Mi-
lano. L’altro è stato Jacques Gubler, uno storico anticon-
formista che entrava in aula proponendo per esempio di
parlare del cemento armato, arrivava con il giradischi e ti
faceva ascoltare la canzone del cemento armato.
Devo ringraziare di aver avuto pessimi professori, per-
ché ciò mi ha costretto ad essere ribelle ed autodidatta.
E questo ricordo mi è rimasto, anche da professore. Lo
studente, io credo, si aspetta una guida capace di sti-
molare la sua curiosità, di farlo crescere nello sviluppare
una propria cultura. Ripeto sempre agli studenti che
devono diventare veramente curiosi ed appassionati
per l’architettura, perché se non ci riescono sarà diffici-
le per loro diventare architetti. Questa questione deve
essere posta subito all’inizio, altrimenti c’è il rischio per
gli studenti di non riuscirci più.
Per riprendere la tua domanda iniziale, io vorrei di-
stinguere due questioni. La prima è il racconto di ciò
che uno insegna, la seconda è l’esistenza di un piano
più ideale, cioè come si potrebbe strutturare un corso
di questo tipo, un problema che devo necessariamente
pormi visto che adesso andrò ad insegnare in Cina, e
che insegnare ai cinesi significa confrontarsi con degli
allievi che provengono da una cultura totalmente diver-
sa. Tu non sai cosa c’è nella loro testa. Quello che può
aiutarci è il porsi domande fondamentali di pedagogia
– “come” insegnare prima di “cosa” insegnare, andando
oltre le risposte legate esclusivamente all’architettura.
In questi trent’anni ho potuto verificare, con l’educazione

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dei miei figli, ciò che è cambiato. Con mia moglie ab-
biamo provato a limitare loro l’uso dei dispositivi digi-
tali. Da un lato c’è il fatto che di fronte all’evoluzione
tecnologica un bambino, un ragazzo, ne sa sempre più
di te, e quindi più invecchi, e più vedi aumentare questa
distanza, perché ormai anche il cervello dei bambini
formatosi nell’era digitale sta cambiando moltissimo,
per esempio si sviluppa in loro una reattività e una ve-
locità legate alle immagini. Non sono immagini pro-
dotte da loro, come noi cerchiamo di insegnare ai futuri
architetti, sono immagini date che si consumano, come
succede nei video-game, se tentano di spararti devi
spostarti in grande fretta per evitare di morire simbo-
licamente dentro questo gioco. Psicologi e pedagogisti
iniziano a ragionare sul fatto che la civiltà digitale, con
la crescita esponenziale dell’informazione, sta defor-
mando le vie dell’apprendimento.
Sempre di più gli studenti si rivelano molto veloci
nell’apprendimento, ma nello stesso tempo sono pro-
fondamente immaturi, perché non hanno il tempo di
assimilare ciò che imparano. Questo succede a molti
studenti, anche a quelli più bravi. Spesso sono stato co-
stretto a lavorare con sessanta e più studenti per classe,
ed il tempo che era possibile dedicare a ciascuno di loro
non era molto. Quando arrivano a concludere il seme-
stre con un buon progetto, sono contento, soprattutto
per loro. Alcuni di questi studenti continuano con me
per la tesi finale, ed a loro posso dedicare più tempo,
ma nonostante questo non sempre i risultati sono po-
sitivi. Nell’esperienza del Design studio, gli studenti
progettano sotto la tua guida, con un tema, un sito, un
programma, hai dato loro un metodo, li hai accompa-
gnati, mentre quando elaborano la tesi, sono più soli,
perché non sono mai io a proporre un tema di tesi, in
quanto definire un proprio tema di lavoro è il primo
passo verso la formazione di un architetto indipenden-
te. In questa nuova condizione, alcuni di loro vanno in
crisi. Scopri delle persone che apparivano mature, che
avevano fatto un buon progetto nel corso, ma che sono
in seria difficoltà nel costruirsi un percorso autonomo di
ricerca e progetto. Sono molto bravi nell’imparare cer-
te tecniche, certi programmi dedicati all’elaborazione
delle immagini, riescono a realizzare progetti molto più
complessi di quelli che facevamo noi come studenti a
Losanna, riescono a risolvere anche complessi problemi
strutturali, ma ti rendi conto che non sono maturi, non
sono del tutto consapevoli di ciò che fanno, del signifi-
cato del loro lavoro. E questo potrebbe essere l’effetto di
un’abitudine, acquisita sin da piccoli, nel dare una rispo-
sta molto veloce ai problemi ma di avere scarse capacità
di assimilazione dei concetti più astratti.
Come reagire a questa condizione? Io ho deciso, dopo
molti anni di insegnamento nella Laurea magistrale,
di impegnarmi nella costruzione di una nuova Laurea
triennale nel Politecnico di Torino, cercando di moti-
vare i docenti più bravi, nel tentativo di rifondare una
pedagogia del progetto. Avrei voluto insegnare al pri-
mo anno, ma non è stato possibile, forse perché ero
stato radicale nel sostenere che il primo anno dovesse
essere tenuto da un solo professore, proprio perché è

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un anno fondamentale per dare una guida, e anche se
gli studenti sono troppi si possono ottenere buoni ri-
sultati con il contributo di un numero adeguato di as-
sistenti e di altri docenti. Però quello che dà la linea, il
programma, deve essere uno solo. Ho proposto questo
perché mi capitava spesso, nella Laurea magistrale, di
dover lavorare nel primo semestre solo sulle capacità
di base degli studenti, dovevo fare loro una sorta di la-
vaggio del cervello, per poter ripartire da zero. E la mia
energia, per il 70%, non era spesa per portare avanti la
formazione, ma per cercare di correggere e riaggiustare
studenti con evidenti carenze formative. Questa situa-
zione mi aveva spinto a voler insegnare nei primi anni,
anche per verificare se era possibile costruire dall’inizio
un profilo formativo differente.
Il primo anno è un anno dove a tutti dovrebbe essere
garantita una stessa formazione di base. Quando sono
arrivato a Torino nel 2002, ho iniziato ad insegnare
nella Laurea triennale di allora, da poco attivata, e ho
dovuto adattarmi ad un programma pedagogico a mio
parere folle, che prevedeva che il primo, il secondo ed
il terzo anno dovessero ricalcare le tre fasi della pro-
gettazione secondo la legge Merloni. Al primo anno si
fa il progetto preliminare, al secondo anno il progetto
definitivo, al terzo anno quello esecutivo. Una conce-
zione secondo me piuttosto riduttiva, in quanto sin dal
primo anno bisognerebbe far capire agli studenti che
il progetto non è un problema di scala, ma riguarda la
trasformazione della realtà, a tutte le scale. Ad esempio
il tema della città, come descritto da Luigi nel progetto
di Braunschweig, è da affrontare a tutte le scale, dal
1:10000 al 1:1. Non si può pensare alla città se non si
pensa anche alla sua materialità, se è di asfalto o di mar-
mo. Bisogna far prendere coscienza che l’architettura è
fatta anche dalla sua materialità. Quindi, l’idea che si
debba iniziare con un preliminare, che si ferma alla sca-
la di 1:500 o 1:200, poi il definitivo in scala 1:100 ed in-
fine l’esecutivo in scala 1:20, è un’idea pedagogicamente
sbagliata. E mi sono trovato in questo programma ela-
borato dai colleghi di Torino, che prevedeva che arrivati
al terzo anno, insieme ai docenti di tecnologia, si doves-
se riprendere il progetto elaborato al primo anno ed al
secondo e trasformarlo in progetto esecutivo.
Mi sono rifiutato di seguire un tale schema, anche per-
ché sicuramente se avessi dovuto riprendere in mano
un progetto portato avanti l’anno precedente da un al-
tro docente, magari valutato con il massimo dei voti,
e da me non condiviso – un progetto che potrei quin-
di giudicare in modo del tutto contrario – ciò avreb-
be creato subito un problema, in quanto lo studente
avrebbe avuto difficoltà a capire il perché di una valu-
tazione così distante per lo stesso progetto. Per questo
motivo avevo deciso di tenere solo il sito del progetto
precedente e non il programma – una scuola o un pro-
getto d’abitazione – e di chiedere loro un altro proget-
to per un albergo. Le analisi erano già fatte, non c’era
quindi il rischio di dover perdere tempo, come diceva
Luigi, conoscono il posto e hanno il programma, per
cui si può iniziare da subito a lavorare al progetto. E in
queste condizioni si era potuto arrivare ad elaborare un

25
Luigi Snozzi, Braunschweig, 1979
progetto con anche approfondimenti di costruzione.
Per riprendere il ragionamento iniziale, sono convinto
che il corso del primo anno debba essere unico, perché
è molto importante che lo studente possa fin dall’inizio
avere degli strumenti, e soprattutto non sia deforma-
to da condizionamenti ideologici. Quando ci sono più
corsi in parallelo c’è il rischio che prevalga una certa
tendenza, un certo modo dogmatico di progettare che
poi siamo costretti ad aggiustare negli anni successivi.

GP. Queste questioni mettono in evidenza la difficoltà


dell’architettura di dotarsi di strumenti oggettivi per
l’insegnamento. Forse dobbiamo prendere atto dell’e-
norme divario che si è creato tra l’idea, ancora valida
a mio parere, di un insegnamento che ha come obiet-
tivo la formazione di un architetto colto e sensibile, e
la tendenza verso un’istruzione specialistica, ritenuta
da molti l’unica opportunità per il mercato del lavo-
ro. Specialismo che riduce la capacità dell’architetto di
governare la complessità. Il dominio completo di un
determinato campo di sapere è semplicemente im-
probabile. Oggi nessuno può più riunire in sé tutte le
informazioni e le conoscenze di un particolare campo
della scienza o della tecnologia, non solo per la loro
ampiezza di saperi e tecniche. Il migliore specialista è
colui che smette di essere specialista. Tutto ciò però ri-
schia di giustificare una deriva generalista.
Quando in Italia sono sorte le facoltà di architet-
tura si pensava ad una “ingegnerizzazione” dello sti-
le, raggiungibile attraverso un complicato insieme di

27
insegnamenti propedeutici spesso inutili, alcuni dei
quali sono sopravvissuti sino ad oggi. L’aspirazione
verso una formazione tecnologica e scientifica da un
lato, culturale ed umanistica dall’altro, sembra sempre
difficile da compiersi in modo completo e definitivo.
Vorremmo ricomporre la figura dell’architetto vitru-
viano, capace cioè di interpretare e coordinare vari sa-
peri intorno a problemi sempre più complessi, senza
rinunciare alla dimensione “poetica” dell’architettura,
all’architettura come espressione dell’arte. Tutti i pro-
blemi della pedagogia ruotano intorno a questo pro-
blema fondamentale: il rapporto tra tecnica e cultura.
Un esempio di questa difficoltà si manifesta nell’a-
zione sul territorio, dove appare sempre più evidente
che il solo sapere tecnico non è sufficiente a risolvere,
o progettare, il nostro ambiente. Un’opera necessaria,
un’infrastruttura, dovrebbe costruirsi come opera di ar-
chitettura del paesaggio. L’architetto sembra inserirsi a
fatica in questo processo, sembra non essere in grado di
assumere quel ruolo di coordinamento e integrazione
tra il fatto tecnico, geografico e culturale che in passato
aveva caratterizzato questa figura.
Dovremmo lavorare in questa direzione, cioè tentare
di uscire dall’isolamento disciplinare entro il quale l’ar-
chitettura sembra posizionarsi. Nelle nostre facoltà si
sperimentano i laboratori integrati, in alcuni casi con
risultati interessanti, anche se spesso manca un oriz-
zonte comune tra le varie discipline che compongono
l’offerta formativa. Mi riferisco in particolare a quelle
scuole che, per motivi di accorpamento dipartimentale

28
provocati dalla recente riforma universitaria, si trovano
a dover gestire il delicato passaggio di una ricompo-
sizione, nell’ambito della ricerca e della didattica, con
settori disciplinari che per lungo tempo non hanno
dialogato o collaborato in maniera organica. In un con-
testo simile parlare di multidisciplinarità può aiutar-
ci ad affrontare la crescente complessità dei problemi,
ma può anche risultare causa di un allontanamento dai
problemi del progetto e dell’architettura, come sotto-
lineava prima Luigi: si dispone di una mole sempre
maggiore di informazioni specializzate, difficili da uti-
lizzare, sparse, diffuse e disorganizzate, con il risultato
di non cogliere potenziali prospettive progettuali che
vadano oltre l’essenza del problema.

PAC. A Torino ho proposto, visto che non mi faceva-


no insegnare al primo anno, di organizzare il secondo
anno con un laboratorio continuativo, perché l’architet-
to deve progettare tutti i giorni, non può essere archi-
tetto part-time, sei mesi all’anno – per sei mesi scrivo le
poesie, poi per altri sei mesi progetto. Ho ottenuto che
almeno al secondo anno si facciano due progetti, uno al
primo ed uno al secondo semestre. Il sistema è quello
dei corsi integrati, un professore di architettura con un
altro che insegna restauro, disegno, ecc. – una formula
che funziona se lavori con un collega con il quale ti
intendi. Io avevo chiesto di lavorare con gli storici…

29
LS. Come aveva fatto Aldo Rossi a Zurigo, con il
grande storico Paul Hofer.

PAC. Ho proposto questo anche in ragione della mia


esperienza a Graz, dove avevo insegnato BauKunst,
che nell’accademia tedesca significa “l’arte di costruire”
nella tradizione di Semper, collegando storia, teoria e
progettazione. Quindi, a Graz insegnavo storia, teoria e
progettazione. E la storia non era quella insegnata dagli
storici di professione, in quanto raccontavo come la sto-
ria avesse influenzato gli architetti, come gli architetti
avessero imparato dallo studio della storia. Non è la vera
storia, la storia in senso esatto. È come la storia ti serve
per capire il mondo, per diventare un bravo progettista.
A Torino avrei potuto farlo da solo. Invece, insegnare con
dei colleghi storici molto bravi, interessati alla proget-
tualità, ha consentito una didattica integrata tra lezioni
teoriche ed esercizi progettuali. Ero anche un po’ stanco
del learning by doing, che è diventato uno slogan ide-
ologico: devi imparare facendo, anche se sei ignorante,
fai qualcosa, tanto alla fine qualcosa verrà fuori. Metodo
che ho sempre trovato profondamente anti-pedagogico.
A Losanna al primo anno non ti spiegavano niente,
si attuava una specie di selezione che favoriva i figli
di architetti. Io semplicemente chiedevo ai professo-
ri di spiegarmi cosa fosse l’architettura, ed ero stufo
di questa condizione che favoriva chi era solo bravo
a disegnare. Io al contrario insistevo, volevo imparare,
mi ribellavo contro questo sistema. Questa esperienza
mi ha consentito di evitare un simile atteggiamento

30
nei confronti dei miei studenti, anche quando alcuni
hanno più talento, sanno già alcune cose, e possono
arrangiarsi da soli.
Ora, la domanda più importante diventa: possiamo an-
cora insegnare agli studenti, senza correre il rischio di
cadere nel dogmatismo o nell’accademia? Con il col-
lega Edoardo Piccoli, che avevo conosciuto nella re-
dazione de Il Giornale dell’Architettura di Carlo Olmo,
abbiamo sviluppato un metodo che prevede che ogni
settimana sia sviluppato un tema, con una o due lezioni
e un’esercitazione. Ad esempio, una settimana discutia-
mo il tema della casa e della città greca, e Piccoli che
è uno storico tiene una lezione sulla Grecia Antica, su
Olinto, mentre io faccio una lezione sulle case a corte
di Mies Van der Rohe. Spieghiamo così agli studenti
che questo tema della casa a corte nasce nell’antichi-
tà, ma poi si sviluppa come tema costante nell’archi-
tettura, e si cerca di capire come viene declinato dagli
architetti moderni o contemporanei. Successivamente
gli studenti devono fare un esercizio, che non è un vero
progetto, in quanto al primo o secondo anno non pos-
siedi ancora gli strumenti adeguati – come diceva Lu-
igi, un tema apparentemente facile come la casa, è in
realtà un tema molto complesso. Li chiamiamo esercizi
progettuali, perché ogni settimana gli studenti sono
impegnati a risolvere limitati temi progettuali. Per
continuare l’esempio della casa a corte, viene dato un
lotto, di forma quadrata, completamente recintato, ed
i muri del recinto corrispondono a quelli della casa. Il
lotto è completamente saturo, e non è possibile aprire

31
Olinto, la città greca
(da Benevolo Leonardo, Storia della città, Laterza, Bari 1975)

32
finestre sui muri perimetrali. Come far prendere luce a
questa casa? L’unica soluzione è iniziare a bucare il tet-
to, realizzare dei piccoli patii, cercando di creare delle
gerarchie tra le varie zone della casa. Un esercizio ele-
mentare, con delle regole molto precise – come in tutti
i giochi, più le regole sono precise, più è facile giocare
– perché devono capire fin da subito che la creatività
non vuol dire essere vaghi, e le migliori invenzioni si
producono nel superamento delle regole.

GP. Moderare la fantasia dei più giovani, un compito


che deve essere perseguito senza impedirne la creativi-
tà. In architettura questo sembra più difficile di quanto
accade, ad esempio, nella musica. Arnold Schönberg
aveva scritto, in riferimento alle “forme libere” del Ba-
rocco – un particolare tipo di composizione musica-
le – che queste venivano percepite come qualcosa di
informe, senza struttura, senza regole, nonostante fos-
sero strutture governate da principi di organizzazione
volutamente celati che si differenziavano da altre for-
me musicali codificate solo per questa sorta di masche-
ramento della struttura. È il principio della centina e
dell’arco, ricordato nel titolo dell’omonimo libro di Car-
los Marti Aris, cioè il carattere ausiliario della teoria che
non si deve manifestare in maniera esplicita nell’opera.

PAC. Questo argomento è la prima grande sfida


pedagogica!
Per ritornare sulle esercitazioni, l’altra sfida è quella
di far lavorare gli studenti individualmente – troppo

33
Mies van der Rohe con un gruppo di studenti dell’IIT di Chicago, 1939
(Lambert Phyllis (a cura di), Mies in America, Montreal-New York, 2001,
p. 568)

34
spesso fanno il progetto in due, tre, e quando li ritrovi
da soli, uno è bravo a parlare, il secondo a pensare ed il
terzo a progettare, e quindi sono tutti potenzialmente
incompiuti. Individuale vuol dire che non faccio revi-
sione, sono da soli, questa è la regola del gioco. Il giorno
della consegna discutiamo collettivamente i progetti.
Otto esercizi per un semestre, per novanta alunni, sono
settecentoventi correzioni, e per ognuna una frase, un
giudizio scritto. È un metodo che vorrei sperimentare
anche in Cina, magari con solo venti studenti!
Rimane questo fatto pedagogico fondamentale: dare
pochi elementi, ma sufficienti per consentire un per-
corso iniziale ed autonomo dello studente, con il qua-
le possano capire poco a poco la complessità dell’ar-
chitettura. Commentare, spiegare, esplicitare perché
un progetto, un esercizio, è più o meno riuscito. Una
didattica dell’esercizio, e la moltiplicazione degli eser-
cizi, favoriscono la costruzione di strumenti progettua-
li. Ho fatto l’esempio, prima, della casa orizzontale, la
casa miesiana; la settimana successiva è la casa gotica,
la casa verticale con caratteri tipologici opposti, con la
lettura delle città dove questa tipologia si è sviluppata,
ed infine come questa tipologia è stata interpretata dal
Movimento Moderno, ad esempio nell’Unité d’Habi-
tation di Le Corbusier, il lotto gotico in senso verticale.
L’esercizio progettuale sarà il progetto di una casa in
un lotto di Amsterdam, tra due muri, largo quattro
metri. Nella maggior parte dei casi in una settimana
riescono a realizzare una proposta progettuale, talvol-
ta anche raffinata.

35
Livio Vacchini, Il sistema dei patii del complesso scolastico ai Saleggi, Locarno,
1970/1978 (da Maniero Roberto, Livio Vacchini. Opere e progetti, Electa,
Milano 1999)
GP. Il metodo tipologico è importante, soprattutto nei
primi anni della formazione, perché consente di ridurre
le complessità del procedimento compositivo in poche
e chiare regole. È comunque pericoloso pensare che sia
sufficiente, anche perché è un metodo che obbliga ad
una conoscenza generale dell’architettura. Ludovico
Quaroni proponeva l’istituzione di una didattica ba-
sata su un numero limitato di materie fondamentali.
Quattro insegnamenti, secondo la tradizione Vitru-
viana: l’analisi funzionale, l’analisi tecnica e costrut-
tiva, l’analisi formale. Il quarto, la sintesi dei primi
insegnamenti attraverso la storia, l’estetica, la sociolo-
gia, avrebbe rappresentato il momento in cui il futuro
architetto avrebbe preso coscienza del proprio ruolo e
del proprio mestiere.
Saverio Muratori obbligava, invece, gli allievi del suo
corso di composizione a Venezia a sviluppare il proget-
to di un piccolo edificio per il quale fissava i materiali,
la funzione ed altri elementi in modo da lasciare il mi-
nor numero possibile di varianti tecniche, ma allo stes-
so tempo lasciava una grande libertà nella definizione
dei principi compositivi. Isolava, cioè, il fatto architet-
tonico da quello tecnico, per misurarsi esclusivamente
con il problema della forma.
Nella mia esperienza didattica del primo anno, il lavoro
entro gli schemi della tipologia è un momento essenzia-
le dell’apprendimento; tipologia, in ogni caso, che lascia
spazio all’invenzione, all’interpretazione del tema pro-
gettuale, ne definisce il “campo” entro il quale elaborare la
proposta. Ciò facilita la trasformazione di un’intuizione

37
La piazza di Vigevano
iniziale, che potrebbe apparire priva di possibilità, in un
progetto individuale. È un lavoro paziente che alle volte
si rivela sterile, ma che consente, comunque, di costruire
un percorso personalizzato e responsabile.
Tu, Luigi, non suggerisci mai uno schema o un im-
pianto, anche se nei progetti dei tuoi studenti si per-
cepiscono strutture regolatrici, un ordine superiore che
sembra provenire dal contesto, dalla città.

LS. La mia finalità nell’insegnamento al primo anno


non è di insegnare architettura, ma di coinvolgere gli
studenti verso l’amore per la città. Questo è il mio
obiettivo. Non insegno come si fa una casa, lascio fare a
loro, ma quello che pretendo è che amino la città. Non
mi sono prefissato altri obiettivi.

GP. Quando ragioni sulla città, come riesci a trasmet-


tere quello che definisci “l’amore per la città”?

LS. Io ricorro a degli esempi. Uso sempre alcuni esem-


pi classici, come la piazza di Vigevano, uno dei progetti
che uso per far loro amare il modo con cui la città può
essere controllata.

GP. Esempi che gli studenti non sempre sono capaci


di usare per orientare il progetto. È la paura dell’imi-
tazione, che non è considerata come un processo crea-
tivo. I concetti di copia e imitazione, al contrario, era-
no tenuti di gran conto dagli antichi. Quatremère de
Quincy aveva inserito queste voci nel suo “Dizionario”

39
distinguendone i significati: la copia è la riproduzione
di un’opera, la sua moltiplicazione, mentre l’imitazione
è un processo che consente l’interpretazione dell’ope-
ra. Ora, se attribuiamo al significato di imitazione un
ruolo creativo, gli esempi che indichiamo ai nostri stu-
denti dovrebbero essere imitati. Penso che sia frequen-
te, al contrario, il ricorso alla copia, alla riproduzione
superficiale dell’immagine, che forse l’immensa mole
di informazioni digitali rende immediata e disponibile.

PAC. Credo che proprio per i differenti modi dell’ap-


prendimento in era digitale, gli studenti possano esse-
re più informati ma abbiano difficoltà ad interpreta-
re un’immagine, spesso la riproducono senza capirne
il senso, e ciò avviene in modo oramai diffuso con i
motori di ricerca di internet. Di fronte a questo pro-
blema, l’insegnamento serve per offrire un minimo di
riferimenti. La tipologia serve per avere una classifica-
zione minima fatta di esempi e di categorie, ma non è
sufficiente. Di fronte a questo problema penso che pri-
ma di cominciare gli studi di architettura bisognerebbe
fare un anno preparatorio, come nel sistema francese
delle Grandes écoles – in Francia il diploma superiore
si prende a diciassette anni e chi vuole entrare in una
di queste istituzioni di élite fa almeno due o tre anni
di matematica, oppure di filosofia. Fare un anno pre-
paratorio vorrebbe dire avere poi un minimo di idee
su cosa possa essere l’architettura. Lo fanno in parte
gli inglesi – per entrare a Cambridge qualche anno
fa si chiedeva agli studenti di aver letto una ventina

40
di libri. Io penso che di fronte all’iper informazione
bisognerebbe avere il coraggio di dire: «se vuoi veni-
re a studiare nella mia scuola devi avere quel minimo
di cultura che serve per iniziare un percorso formativo
serio e superiore». Vuol dire che, per leggere una città,
per capire cos’è l’architettura, lo studente dovrebbe già
aver conosciuto certi elementi fondativi come il muro,
la colonna, il basamento, o fenomeni fisici come la luce
o la gravitazione. Oltre alla lettura dei libri, in questo
tipo di anno preparatorio dovresti obbligarli a disegna-
re tanto. L’architettura, come la medicina, sono mestie-
ri che mettono insieme diversi saperi, che obbligano a
sviluppare capacità di sintesi, e quindi richiedono un
tipo di formazione che dovrebbe concentrarsi non solo
sulle tecniche, esplorando i modi attraverso i quali si
possono mettere insieme i saperi che compongono la
disciplina. È questa l’arte della progettazione.
L’introduzione all’architettura dovrebbe consentire allo
studente di capire cos’è la storia, cos’è la costruzione, cosa
sono i materiali, ma anche le scienze sociali, i problemi
ambientali di una città e le sue contraddizioni, quindi
anche nozioni di scienze politiche: nozioni di base che
sono quelle che un buon architetto deve possedere. Sono
saperi che l’architetto deve imparare un po’ da solo.
Bernard Huet diceva che l’architettura è come la mu-
sica, per impararla prima devi saperla leggere – il sol-
feggio. Solo quando sai leggere una partitura, la sai vir-
tualmente eseguire. Se leggi una pianta ed una sezione
devi poter capire se rappresenta una buona architettura.

41
GP. Il riferimento alla musica mi interessa. Spesso
l’insegnamento della musica basato sulla sequenziali-
tà teoria/prassi – prima impari il solfeggio, poi inizi a
suonare, ecc. – è stato fallimentare, almeno per quegli
studenti che difficilmente sarebbero riusciti a diventa-
re buoni musicisti “classici”. Si rischia di imporre un
modello adatto a pochi. Penso al romanzo di Thomas
Bernhard “Il Soccombente”, dove il confronto tra mu-
sicisti è tutto misurato sul genio di Glenn Gould. Vo-
glio dire, quello stesso studente che sembra inadatto al
ruolo imposto da un certo tipo di formazione potrebbe
emergere sulla base di altri principi e obiettivi. Un me-
diocre musicista classico può scoprirsi buon musicista
jazz o rock, generi musicali per i quali sono più impor-
tanti l’intuizione, il ritmo, l’ascolto delle situazioni che
si creano in un ensamble, ecc.
Forse dobbiamo interrogarci se la corrispondenza tra
teoria e pratica sia efficace e garante della buona for-
mazione di un architetto.

LS. Ricordo la mia esperienza al Politecnico di Zurigo.


Avrei voluto fare il pittore, non l’architetto. Non ho fat-
to il pittore per il semplice motivo che la mia famiglia
non poteva mantenermi – nove bambini, mio padre
ammalato – ero il primo maschio, e tutti aspettavano
che portassi qualcosa in famiglia. Con la pittura, puoi
immaginarti! Per i primi due anni io non sapevo niente
di architettura, un disastro! Non sapevo cosa fosse que-
sta architettura. Ho aperto gli occhi attraverso quel-
lo che è divenuto un mio aforisma, una frase di Carlo

42
Cattaneo, «ogni regione si distingue dalle selvagge in
questo, ch’ella è un immenso deposito di fatiche. Que-
sta terra, dunque, non è opera della natura, è opera delle
nostre mani. Una patria artificiale». Questa frase mi ha
cambiato completamente. Ho cominciato a studiare ar-
chitettura con un impegno enorme grazie a questa frase.
Una frase. Ci vuole poco per smuovere la passione, l’in-
teresse. Una lettura casuale, capitata per caso.
Da quel momento ho iniziato a capire l’architettura, e
questa frase mi ha aiutato anche a prendere posizione
contro l’agire delle varie commissioni di tutela del pa-
esaggio e dei monumenti, contro i regolamenti edilizi
comunali e cantonali, basati su una interpretazione sta-
tica e romantica del rapporto con il paesaggio. Per loro
il paesaggio era ed è tuttora assunto come un fatto de-
finitivo, che deve essere immobilizzato o, se modifica-
to, solo attraverso opere non visibili, camuffate. Contro
tale interpretazione statica del paesaggio ho sempre so-
stenuto un’interpretazione diversa. Il paesaggio attuale
non è altro che il risultato della modificazione avvenuta
nei secoli con immensi sforzi da parte dell’uomo, per la
trasformazione della natura in cultura, una patria arti-
ficiale come scrive Cattaneo.
È in queste occasioni che ho capito qual è la finalità
dell’architettura, di questo mestiere. Ti metti al posto
di Dio, Cattaneo dice questo!

GP. Usi spesso gli aforismi come strumento didatti-


co. Sono messaggi diretti che riescono a comunicare
concetti anche molto complessi, altrimenti difficili da

43
Peppe Brivio, Edificio residenziale a Lugano Cassarate, 1960

44
trasmettere agli studenti del primo anno se non at-
traverso letture ed esempi molto approfonditi. Non è
semplice consigliare agli studenti testi che introducano
ad un sapere così articolato e vasto. Oggi si stampano
molti libri di architettura, ma pochi di questi sono ve-
ramente dedicati alla formazione.

LS. Il libro che consiglio, da vent’anni, ai miei studenti


è la Poetica della Musica, di Igor Stravinsky. È un libro
straordinario, un libro di architettura. Mi sono trovato
spesso ad identificarmi con il lavoro di un altro. Mi
succede con Stravinsky, le cui parole sono le mie, mi
è successo anche con Le Corbusier. In Argentina ho
visitato la Casa del dottor Curutchet a La Plata, e mentre
mi avvicinavo mi dicevo: «questa casa è mia, l’ho pro-
gettata io»! Succede che si incontrino, nella vita, delle
persone, delle opere con le quali si instaura una sim-
biosi, che si abbia la sensazione di trovarsi di fronte ad
un proprio lavoro. E quando questo succede, è straor-
dinario, non ci si sente soli, si capisce che l’architettura
è qualcosa che non appartiene al singolo autore, ma ad
un’intera collettività.
Questi maestri ci accompagnano, li ritroviamo sempre.
È importante avere dei maestri. La mia formazione di
architetto, prima che nella scuola, è avvenuta nello stu-
dio dell’architetto Peppe Brivio, dove ho iniziato a la-
vorare. Brivio è stato il mio primo maestro, con lui feci
diversi viaggi di studio, in particolare in Italia, e da lui
imparai a conoscere l’architetto americano Frank Lloyd
Wright. Un maestro che ti accompagna è importante,

45
ma il nostro interesse deve dirigersi verso le opere di
architettura antiche e moderne, i grandi capolavori ar-
chitettonici, che sono sempre attuali e non hanno tem-
po, come ha scritto il mio amico Livio Vacchini. I pro-
blemi veri dell’architettura sono sempre gli stessi. Ai
miei studenti dico che un buon architetto deve avere
due componenti fondamentali: quella del grande killer,
che colpisce sempre nel segno con estrema precisione, e
quella del grande ladro. A questo proposito cito spesso
il nome di un mio grande amico, Álvaro Siza.

GP. Le opere, quindi, sono più importanti dei libri. Sa-


per leggere un’architettura è un elemento fondamentale
nella formazione dell’architetto, come ha sottolineato
anche Pierre-Alain. In questo senso è difficile separare
la storia e il progetto. Forse, la tipologia è uno dei pochi
strumenti che ci consentono di tenere insieme questi
due aspetti, la dimensione storica delle forme architet-
toniche e la permanenza dei principi che le sorreggono.
I problemi veri dell’architettura sono sempre gli stessi.
Si chiede all’architetto un impegno verso nuove pro-
blematiche, ambientali, sociali, ecologiche: architettura
sostenibile, bio-architettura, sono termini che rappre-
sentano per molti il futuro del nostro mestiere. La buo-
na architettura si è sempre confrontata con i problemi
tecnici del comfort abitativo, della gestione delle risor-
se materiali ed ambientali, del rapporto con il luogo to-
pografico e geografico. Come valuti questi argomenti?

46
LS. Oggi in un mondo fortemente connotato dal con-
sumo, il termine architettura sostenibile, usato e abu-
sato, è un puro fatto di moda. Tutta l’architettura, fin
dai suoi albori, è sempre stata sostenibile. Ma non di-
mentichiamoci che l’architettura non è innocua. Uso
spesso un mio aforisma per esprimere questo concetto:
“ogni intervento presuppone una distruzione, distrug-
gi con senno”. Tutti gli architetti quando costruiscono
non possono fare a meno di distruggere, anche quando
costruiscono una semplice casa su un prato. Pensiamo
a come deve appoggiarsi un edificio sul suolo: è ne-
cessario, per posare le fondazioni, distruggere i primi
30-40 cm di terra, l’humus, la porzione più feconda
della crosta terrestre. Il problema non sta nel fatto della
sua distruzione, ma nel prendere coscienza di questo
atto: qui sta il problema etico. Se un architetto non è
in grado di sostituire il bene annientato con uno al-
trettanto importante, è meglio che deponga la matita.
L’etica, quindi, interviene in ogni decisione di progetto,
in quanto l’architetto si confronta in ogni progetto con
un luogo, sia esso città, campagna o natura. Questo è
difficile da insegnare agli studenti, molto difficile.

47
Luigi Snozzi, Aforisma
Office Building, 1941/1942, Hendrich-Blessing, Chicago
(Casabella, n. 651/52, dicembre 1997/gennaio 1998, p. 81)
Insegnare l’architettura.
Note sulla formazione e l’apprendimento
di Giorgio Peghin

Il presente è diventato egemonico. Eppure, la storia


è un continuo determinarsi di rapporti tra ciò che ap-
partiene alla tradizione e ciò che anticipa il futuro. La
storia non si trova mai, in una di queste fasi, allo stato
puro. Michel Foucault aveva descritto questo processo
come «un campo a doppio valore; ogni elemento che vi
si trova può essere caratterizzato come vecchio o nuo-
vo; inedito o ripetuto; tradizionale o originale, confor-
me a un tipo medio oppure eccentrico»1. L’intreccio tra
vecchio e nuovo, la lenta accumulazione del passato e
la sedimentazione delle cose – dove spesso perde im-
portanza anche l'identità del loro autore – la presenza
simultanea tra ciò che è nuovo e ciò che non lo è, con-
sentono di vedere l’educazione come la storia.
L’educazione non è mai un indefinito accumulo di
conoscenze, anche quando tende alla conservazione

1. Foucault continua così questo pensiero: «si possono distinguere due cate-
gorie di formulazioni; quelle, valorizzate e relativamente poco numerose, che
compaiono per la prima volta, che non hanno antecedenti simili a loro, che
eventualmente serviranno di modello alle altre, e che in questa misura merita-
no di passare per creazioni; e quelle, banali, quotidiane, massive, che non sono
responsabili di sé e che derivano, a volte ripetendolo testualmente, da ciò che
è già stato detto»; Foucault Michel, L’archeologia del sapere, Rizzoli Editore,
Milano, 1971, p. 186.

51
integrale di tutto ciò che costituisce la singolarità di
una disciplina, una concezione che sembra opporsi al
cambiamento, al movimento che avviene nel profondo,
spesso inavvertito dai contemporanei. La coesione di
elementi della tradizione e spinte innovative non han-
no mai costituito un problema educativo, almeno sino
a quando il sistema di riferimento culturale, l’episte-
me di cui parla Foucault, ha tenuto insieme l’ordine
delle conoscenze in un determinato periodo2. Oggi, i
cambiamenti profondi o l'incapacità di una cultura e la
difficoltà di una generazione a comunicare la propria
visione generale del mondo rendono difficile la tra-
smissione di un sapere condiviso, l’insieme di elementi
indispensabili alla costituzione di una scienza e di una
disciplina nella sua prospettiva storica.
Nel 1999, in un’intervista di Pierre-Alain Croset a
Luigi Snozzi3, emergeva la consapevolezza che la scuo-
la fosse solo un passaggio della formazione, «une base
seulement au niveau d’un savoir professional». La pratica
professionale, il tirocinio, avevano rappresentato per
Snozzi il vero insegnamento: «per me la vera Scuola è
cominciata quando ho aperto il mio primo studio con
Livio Vacchini. Ogni lavoro diveniva l’occasione di una
nuova avventura: scoprivamo una nuova architettura,

2. Teyssot Georges, Eterotopie e storia degli spazi, in Franco Rella (a cura di), Il
dispositivo Foucault, Cluva, Venezia, 1977, pp. 23-36.
3. Croset Pierre-Alain, Snozzi Luigi, Porquoi des architectes?, in Pierre-Alain
Croset (a cura di), Pour une école de tendance. Mélange offerts à Luigi Snozzi,
Presses polytechniques et universitaires romandes, Losanna, 1999, pp. 6-27,
libro pubblicato in occasione della lezione finale di Snozzi nelle vesti di profes-
sore all'Ecole Polytechnique Fédérale di Losanna.

52
ci siamo appassionati al lavoro, abbiamo cominciato a
frequentarlo, e poco a poco, lentamente, progetto dopo
progetto e avventura dopo avventura, ci siamo formati
una propria cultura del progetto… ci sono voluti dieci
anni d’esitazione, di “formazione”, prima di trovare una
chiara linea di condotta»4.
Siamo d’accordo sull’insostituibile pedagogia del
progetto che, in generale, costituisce la sostanza del-
la formazione e del lavoro dell’architetto. Eppure,
non sempre è possibile trasmettere l’insieme di que-
sta esperienza come sistema organico di prescrizioni o
indicazioni esatte: il modo di insegnare l'architettura
non è oggettivabile. Antonio Monestiroli, ad esempio,
fa notare come Franco Albini avesse difficoltà nell’in-
segnare a «compiere quel passaggio dalle funzioni alle
forme rappresentative del loro senso»5, a trasmettere,
cioè, il segreto di trasformare la funzione, gli elementi
del programma progettuale, in forma compiuta e ne-
cessaria – questione che il maestro milanese conosceva
e praticava con gli esiti straordinari a noi noti.
In architettura è difficile trasferire il “saper fare”. È
come il complicato passaggio tra la parola e la cosa, tra
l’atto descrittivo e il soggetto reale della descrizione, un
meccanismo naturale per chi lo pratica ma che appare
complesso nel momento in cui si vogliano rivelarne il

4. Idem, pp. 9-10.


5. Monestiroli Antonio, Forme realistiche e popolari, in Pisana Posocco, Gem-
ma Radicchio, Gundula Rakowitz (a cura di), Care architetture, Scritti su Aldo
Rossi, Allemandi, Torino, 2002, p. 64; ora in Monestiroli Antonio, Il mondo
di Aldo Rossi, Lettera Ventidue Edizioni, Siracusa, 2015.

53
funzionamento, il senso e le corrispondenze. Un pas-
saggio che, se anche può consentire l’avvicinamento
alla capacità materiale del lavoro, non ci aiuta a comu-
nicare quel di più dell’architettura, le sue forme più alte
e complete, al pari della poesia.
Ora, senza volerci addentrare in un’analisi del rap-
porto tra contenuti teorici e tecnici della disciplina e
loro esito materiale – cioè l’edificio costruito o il luogo
modificato – ci sembra utile rilevare alcuni temi che,
direttamente o indirettamente, il testo di questa con-
versazione affronta. La natura dell’architettura, la sua
interdisciplinarietà, è ancora rappresentabile nella di-
cotomia scienza-arte? È possibile una pedagogia della
regola come premessa all’invenzione e alla libertà?
Il tipo e la città, manifestazioni del divenire storico,
sono ancora strumenti utili per il progetto? Argomenti
che, intrecciandosi, aprono questioni generali e rappre-
sentano, in estrema sintesi, alcuni nodi del problema
dell’educazione all’architettura.
La prima delle questioni, non in ordine di valore,
investe il progetto di architettura e la sua natura. Il
progetto, riferendoci all’allegoria della torre di Babe-
le6, si compone di molteplici apporti tecnici, culturali,
disciplinari, storici: è un “edificio tecnico”, misurabile,
quantificabile, e un atto culturale e d’invenzione. Come

6. Ludovico Quaroni intitolerà una raccolta di testi sull’architettura, La torre di


Babele, Marsilio editore, Venezia, 1967, ad indicare lo sforzo notevole nella co-
struzione di un discorso sull’architettura coerente e definitivo. L’introduzione,
scritta da Aldo Rossi, evidenzia infatti l’analogia tra questa leggendaria figura
della torre e il significato sotteso, cioè il tentativo dell’uomo, in tutte le epoche,
di aspirare comunque alla razionalità in tutti i suoi aspetti.

54
Babele, il progetto rappresenta anche l'illusione che la
somma delle conoscenze specifiche possa dare come
risultato un sapere completo – ciò che pensavano gli
enciclopedisti del XVIII secolo.
In architettura, i modelli e le regole non sono dati
definitivi e il suo insegnamento non può essere fondato
su leggi inconfutabili7. Il compito della scuola è quello
di descrivere e spiegare l’edificio tecnico dell’architet-
tura, cioè le conoscenze specifiche, la storia, le opere e
le idee, i testi, i manuali, tutto il corpus teorico e tec-
nico finalizzato alla trasmissione di questo sapere, ma
anche e soprattutto di preparare il discente all’impresa
del progetto, all’avventura delle idee.
Nella torre di Babele si rappresenta, in questo sen-
so, la natura ambigua dell’architettura: una scienza
che non è sistema di conoscenze certo e progressivo,
anche se aspira alla razionalità ed all’oggettività. Ri-
torna, sempre, l’antinomia tra regola e interpretazione
soggettiva, tra vocazione scientifica e umanistica, que-
stioni che hanno definito la figura dell’architetto nel
tempo. Quali dei aspetti deve prevalere? Benché siamo
inclini a negare il concetto tradizionale di enciclopedi-
smo, in architettura oggi sembra imporsi il mito della

7. «Non esiste in architettura un progresso di scienza sperimentale che con-


senta agli ultimi artisti di far uso delle acquisizioni dei propri predecessori ed
accrescere in tal modo la possibilità di farne altre. I progressi, o come vogliamo
chiamare i passi fatti da coloro che ci hanno preceduto, non lasciano tracce
né limiti dai quali debbano necessariamente partire quelli che succedono. In
architettura possiamo solo parlare di invenzione, di ciò che si incontra e non
di ciò che si scopre»; cfr. Scolari Massimo, Principi compositivi, in “Rassegna”,
n.1 (Recinti), 1979, p. 41.

55
specializzazione in opposizione alla confusio linguarum
di un sapere complesso che difficilmente si può domi-
nare con gli strumenti del passato.
Nel 1988 Vittorio Gregotti, in un editoriale di Casa-
bella, evidenziava questa situazione: «spesso lo studente
architetto fa uno sforzo così grande per mettere a si-
stema organico l'insieme dei materiali del progetto che
il primo stato di conformazione diviene un traguardo
importante da raggiungere. Le questioni di significato
e disposizione ideale divengono così del tutto seconda-
rie; talvolta invece queste ultime prevaricano tanto le
prime da non permettere di raggiungere lo stato ele-
mentare della conformazione di cui si nega, per non
conoscenza, spessore e importanza. Il risultato è così il
fantasma del progetto, anzi la sua caricatura figurativa
e letteraria, la velleità di una volontà d'arte costruita
su un fondamento di mestiere del tutto insufficiente»8.
L’educazione all’architettura non si limita alla tra-
smissione di strumenti o informazioni neutrali ma pas-
sa per l’esperienza diretta, il progetto. Luigi Snozzi ci
mostra questo percorso attraverso una riduzione delle
complessità in pochi e chiari obiettivi. Snozzi, infat-
ti, rinunciando a qualsiasi teoria o analisi preordina-
ta, fonda il suo insegnamento su venticinque aforismi,
sintesi di una sua personale opinione sulle cose: «lo
spunto per scrivere questi aforismi nacque dalla neces-
sità per me stesso di chiarire la disciplina che avevo

8. Gregotti Vittorio, La decadenza dell'insegnamento della progettazione nelle


facoltà di Architettura, in “Casabella”, n. 552, 1988.

56
scelto, prima ancora che per i miei studenti, con la fer-
ma convinzione che se essi mi fossero serviti, sarebbero
di conseguenza serviti anche a loro»9.
Questi aforismi sono un modo di insegnare l’ar-
chitettura attraverso il meccanismo della figura reto-
rica, un metalinguaggio che presenta simultaneamente
diversi elementi. Sono una tecnica della persuasione,
una serie di regole che permettono di convincere, un
corpo di prescrizioni. Quella di Snozzi è soprattutto
una retorica della prova, del ragionamento, il mezzo
che consente di comunicare un’idea di architettura
non riducibile al senso comune. Alla fine, gli aforismi
sono un discorso completo, strutturato, persuasivo, che
si compone, come nelle “macchine” retoriche, di cin-
que parti: l’inventio, idea o scoperta che ci ricorda che
tutto esiste, bisogna solo ritrovarlo; la dispositio, cioè
l’organizzazione del discorso in un sistema efficace e
diretto che nell’insieme si ricompone in una teoria; l’e-
locutio, cioè l’uso delle immagini a complemento del
discorso e in associazione alle parole; l’actio, il momento
del racconto che Snozzi svolge come una recita; infine,
la memoria, cioè il dispositivo che consente di attiva-
re rimandi e riconoscere le parti del discorso nella loro
prospettiva storica10.
Gli aforismi rappresentano anche una risposta criti-
ca alla multidisciplinarità: «sono sempre stato convinto
che, almeno nei primi anni di studio, l'insegnamento
9. Snozzi Luigi, 25 Aphorismen zur Architektur, Edition Bibliothek Werner
Oechslin, Basel, 2013, p. 20.
10. Barthes Roland, La retorica antica, Bompiani, Milano, 1972.

57
interdisciplinare non poteva che ostacolare l'apprendi-
mento, in quanto l'interdisciplinarità ha come esigen-
za prima quella di una conoscenza approfondita della
propria disciplina, senza la quale questo tipo d'inse-
gnamento non poteva che causare delle gravi distor-
sioni... i miei studenti dovevano attenersi all'interno
di questi e qui avevano la possibilità di esprimersi con
la più grande libertà possibile»11.
Il tema della multidisciplinarità è un argomento che
ritorna continuamente nel dibattito sull’insegnamento
dell’architettura, da almeno cinquant’anni12. L’auto-
nomia disciplinare o l’integrazione scienza e arte, la
specificità dell’architettura come scienza del costruire
o espressione dell’arte, hanno segnato le forme e i con-
tenuti dell’insegnamento e della ricerca. Si è sempre
discusso, infatti, di centralità del progetto e di apertu-
ra verso altre discipline cosiddette “di servizio”; oggi,
questa impostazione sembra rovesciata, soprattutto
per la difficoltà del progetto di rappresentare la radice
comune dell’architettura13.

11. Snozzi Luigi, 25 Aphorismen..., op. cit., p. 20.


12. Il concetto di multidisciplinarità viene adoperato con non poche ambiguità.
In generale, possiamo distinguerlo tra pluridisciplinarità, che riguarda lo studio
dello stesso oggetto da parte di più discipline; interdisciplinarità, che consiste
nel trasferimento di metodi o teorie da una disciplina ad un'altra; transdiscipli-
narità, che corrisponde ad un approccio trasversale che attraversa le discipline
con la finalità di una conoscenza completa ed articolata. Cfr. Raiteri Rossana,
Progettare progettisti. Un paradigma della formazione contemporanea, Quodlibet,
Macerate, 2014, p. 57-59.
13. Ovviamente, come ha lucidamente espresso Vittorio Gregotti, ciò non deve
essere inteso come «stimolo alla separazione per specializzazioni, ma semplice
messa in evidenza della necessità di articolare le competenze a partire dal rico-
noscimento del profondo legame che riconnette in modo necessario le diverse

58
Negli anni Sessanta e Settanta in Italia si era ten-
tato, in forme comunque mai del tutto definitive, un
discorso sull’integrazione tra le differenti anime del
progetto, quella tecnica e quella culturale14. Era un’epo-
ca nella quale le materie scientifiche rappresentavano
ancora un riferimento nella definizione delle compe-
tenze professionali, almeno sino alla prima riforma del
sistema universitario: «il ’68 è un punto di riferimento
preciso che segna veramente la fine di un'era. Le di-
scipline tecniche, una volta esplicitamente finalizzate
alla progettazione architettonica, diventano vuote eser-
citazioni accademiche o di mestiere; vengono via via
abbandonate dalle masse studentesche e dietro ad esse
lentamente si profila la gravissima crisi che investirà di
lì a poco le discipline scientifiche di base»15.
La programmazione delle nuove facoltà di architet-
tura ed i risvolti politici che in quegli anni investivano
profondamente la figura dell’architetto avevano evi-
denziato i limiti di una chiusura disciplinare e, all’op-
posto, i pericoli di una frammentazione del sapere. Il
binomio tra il costruttore e l’intellettuale, condizione
che ha connotato l’architettura, sembra essersi dissolto:

ottiche che guardano all' architettura»; Gregotti Vittorio, La decadenza dell'in-


segnamento..., op. cit., 1988.
14. A tal riguardo è singolare l’impegno di alcune riviste che, dedicando numeri
monografici al tema, hanno contribuito alla sua diffusione e documentazione.
Tra queste si segnalano: “Casabella-Continuità”, n. 287, dal titolo Dibattito sulle
scuole di architettura in Italia, 1964; “Controspazio”, n. 5/6, dal titolo Facoltà di
Architettura: la ricerca progettuale, maggio-giugno 1972; “Parametro”, n. 44, dal
titolo Appunti sull’università italiana, marzo 1976; “Casabella”, n. 423, dal titolo
Università: progettiamo il mutamento, marzo 1977.
15. Di Pasquale Salvatore, Scienza e progetto, in “Casabella”, 1977, p. 33.

59
non siamo “costruttori”, e questo nostro esilio dalla
pratica, se si escludono le eccezioni, non dipende solo
da una domanda tesa alla “quantità senza qualità”. Sul
fronte opposto, sembra lontana la nostra partecipazio-
ne al dibattito culturale, almeno in forme più rappre-
sentative. Lo sfondo condiviso per diverse generazioni
– l’uomo, la casa, la città – appare secondario rispet-
to all’aspirazione verso l’unico e irripetibile dell’opera
d’arte, e il talento sembra essere sostituito dalla retorica
del genio.
Le crisi che si sono succedute con sorprendente re-
golarità rappresentano una costante nella storia dell'e-
ducazione. La crisi dell’architettura non costituisce una
novità, almeno nella storia dell’educazione occidentale.
Si confrontano ancora oggi due posizioni che difficil-
mente troveranno una sintesi. La prima, che possiamo
indicare nell’opera pedagogica di Humboldt e nella sua
concezione di universitas ispirata a Platone, sostiene
un'educazione di tipo neo-umanistico e una scienza
non contaminata dal “virus” dell'applicazione pratica.
La seconda, ispirata al principio dell'esperienza attiva
e creativa dell'individuo, si basa su un'educazione che
si svolge nella prassi e attraverso la prassi, considerata
elemento essenziale dell'educazione, learning by doing16.
Il difficile rapporto tra teoria e prassi è la conse-
guenza di un’educazione che, formalizzata in epoca re-
cente con l’istituzione delle facoltà nate nel 1925 dalla

16. Maldonado Tomás, Educazione e filosofia dell’educazione, in Tomàs Maldo-


nado, 1959, Avanguardia e razionalità, Einaudi, Torino, 1974, pp. 79-98.

60
fusione tra le Accademie di Belle Arti, i Politecnici e le
facoltà di lettere17, non ha ancora del tutto trovato il suo
statuto ordinario. Ciò si mostra, ad esempio, nel rap-
porto tra le discipline che operano nel campo dell’ar-
chitettura. Nel 1968 Giancarlo De Carlo evidenziava
la difficoltà di integrare culture tecniche e umanistiche
in una coerente offerta formativa, evitando il nozioni-
smo pluridisciplinare che poteva condurre ad una pre-
parazione superflua e inconsistente. Un tema ritenuto
centrale nel futuro della scuola: «l’architetto diventa un
matematico, fisico, ingegnere edile, storico dell’arte…
e in ogni caso rimane un dilettante»18. La frase, cita-
ta da De Carlo ma attribuita ad uno studente, appare
praticamente identica ad una asserzione di Siegfried
Giedion del 1947: «oggi si tenta di addestrare l'archi-
tetto ad essere un piccolo specialista in ognuna delle
discipline, il cui numero va di continuo aumentando.
Il risultato è che egli diventa un matematico, un fisico
statico, un ingegnere edile, uno storico dell'arte... ma
sempre un dilettante... con il risultato di fargli smarrire

17. Così, ironicamente, Ludovico Quaroni descrive la nascita delle facoltà di


architettura: «Era una scuola concepita come “incrocio” (non essendo possibile
parlare di fusione) fra due razze che non hanno voglie d'amore, e che non
hanno quindi possibilità di rinnovarsi, annullandosi ma prolungandosi, nella
discendenza: i “tecnici” delle Facoltà di Ingegneria e gli “artisti” delle Accade-
mie di Belle Arti, cui bisognava aggiungere la correzione culturale di qualche
laureato in lettere, possibilmente Soprintendente ai Monumenti, per le materie
teoriche. Quest'incrocio non è mai riuscito, ed il modello del 1920 è arrivato
fino a noi quasi intatto, guardato bene nell'ultimo ventennio dalla struttura per
Istituti della Facoltà»; cfr. Quaroni Ludovico, Cronaca di un corso di composi-
zione, in “Controspazio”, op. cit., p. 7, 1972..
18. De Carlo Giancarlo, La piramide rovesciata, De Donato Editore, Bari,
1968, pp. 38-39.

61
il senso della sintesi»19. Interessa rilevare la percezione,
a tutti i livelli, studenti-docenti-intellettuali, di una fase
della cultura architettonica che doveva sciogliere i nodi
di questa difficile integrazione tra scienza, cultura, arte
e politica.
In realtà, più che d’integrazione bisogna parlare di
scissione dell’unità dell’architettura, di un processo che
lentamente erode quelle basi disciplinari stabili e con-
divise. Una condizione continuamente denunciata dal-
la cultura architettonica italiana di quegli anni: Ignazio
Gardella ricordava, ad esempio, che «ogni componente,
la storia del luogo, la tecnica costruttiva, le scelte com-
positive, ecc. interagisce con tutte le altre e tutte insie-
me in questo loro intreccio determinano le varie tappe
del percorso del progetto»20. Con parole diverse, in oc-
casione della riforma universitaria che aveva previsto
l’istituzione dei nuovi dipartimenti, Ludovico Quaroni
evidenziava la stessa cosa: «a maggior ragione cerche-
ranno spazio in un gruppo culturalmente, ideologica-
mente, metodologicamente omogeneo coloro che sono
impegnati nelle discipline “progettuali”. Ma per questi,
e qui ci troviamo di fronte al rischio maggiore rispetto
agli insegnamenti d'altre facoltà, non è pensabile un
dipartimento, s’occupi questo solo di ricerca o s’occu-
pi anche di didattica, rigidamente monodisciplinare:
19. Giedion Sigfried, L’insegnamento dell’architettura (1947), in Giedion
Sigfried, Breviario di architettura, a cura di Carlo Olmo, Bollati Boringhie-
ri, Torino, 2008, p. 101; Olmo Carlo (a cura di), Breviario di architettura, Bol-
lati Boringhieri, Torino, 2008, p. 101.
20. Monestiroli Antonio, L’architettura secondo Gardella, Laterza, Bari,
1997, p. 78.

62
in ogni progettazione infatti, da quella urbanistica a
quella fortemente tecnologica, passando attraverso le
molte progettazioni a scala architettonica, è necessario
– come d'altronde nella pratica professionale – l'appor-
to multidisciplinare. Isolati dagli altri, i docenti di pro-
gettazione rischiano di chiudersi in loro stessi, nel loro
discorso sullo “specifico”, rinunciando ad ogni apporto,
ad ogni eccitazione che possa provenir loro dalle “altre”
discipline e le scuole italiane già manifestano oggi i pe-
ricoli d'una simile assurda torre d'avorio»21.
Anche Giorgio Grassi aveva denunciato la crisi
dell’architettura italiana: «oggi, mi riferisco ad esempio
al nostro paese, bisogna parlare anzitutto di negazione
dell'architettura, prima ancora di qualsiasi altra que-
stione: prima ancora che parlare ad esempio di una crisi
caratteristica delle scuole d'architettura. Diventa perciò
essenziale ogni discorso specifico; e a questo punto non
più tanto come autonomia disciplinare – passibile di
essere confusa con l'ambiguo discorso sull'autonomia
delle scienze o dell’arte –, quanto proprio come sempli-
ce affermazione di un’attività conoscitiva determinata
da una particolare rappresentazione della realtà, come
fatto positivo e irrinunciabile»22.
Le ragioni per cui l’architettura sia disciplina pres-
soché marginale in Italia – come rileva anche Luigi
Snozzi nel confronto con la situazione svizzera – sono

21. Quaroni Ludovico, Dipartimento e progettazione, in “Casabella”, 1977,


cit., p. 32.
22. Grassi Giorgio, L’architettura come mestiere, 1974, in L’architettura come
mestiere e altri scritti, Franco Angeli, Milano, 1985, p.158.

63
le stesse che Etienne-Louis Boullée evidenziava nella
Francia del XVIII secolo: «non più come artista, ma
come cittadino, io mi pongo di fronte all'architettura.
Fa parte della nostra educazione lo studiare le lingue,
il coltivare le lettere, il disegno, la pittura, istruire nel-
la matematica, elevarci alle scienze astratte, acquistare
infine molte cognizioni. Per quale fatalità la più utile
delle arti, e, di conseguenza, un'arte fatta per i nostri
interessi, è del tutto negletta? Sono lontano dal preten-
dere che sia preferita a tutte le altre. Ma è concepibi-
le che, al di fuori di coloro che la professano, nessuno
si occupi d'architettura? lo credo fermamente che il
non offrire conoscenze di quest'arte… sia una lacuna
nell'educazione»23. Sono parole che sembrano scritte
per descrivere la nostra condizione contemporanea!
Ma la Francia è in una situazione diversa dall’Italia.
Il problema della molteplicità disciplinare dell’archi-
tettura rimane irrisolto, diviso tra una visione “vitruvia-
na” e funzionalista, in cui troviamo, insieme, i concetti
di multidisciplinarietà, senso della sintesi, unione tra
teoria e pratica24 ed una nozione che, come aveva teo-
rizzato Boullée, si sofferma sugli aspetti dell’arte, della
composizione, della poetica25. Due modi di concepire

23. Boullée Etienne Louis, Architettura. Saggio sull’arte, Marsilio, Venezia,


1967, p. 133.
24. «Il sapere dell’architetto è ricco degli apporti di numerosi ambiti discipli-
nari e di conoscenze relative a vari campi, e al suo giudizio vengono sottoposti
i risultati prodotti dalle altre tecniche»; cfr. Vitruvio, De Architectura, a cura di
Gros Pierre, Einaudi, Torino, 1997, vol. 1, p. 13.
25. «Cos'è l'architettura? La definirò io, con Vitruvio, l'arte del costruire? Cer-
tamente no. Vi è, in questa definizione, un errore grossolano. Vitruvio prende

64
l’architettura che rappresentano l’ossimoro di questa
disciplina.
Un altro tema affrontato come compendio del pro-
getto è il rapporto con l’arte, la musica, la poesia, la
fotografia. Ernesto Nathan Rogers ci ricorda che «con-
cepire l'architettura come pura tecnica, le cui finalità
si esauriscono nella pratica, è come credere che l'atto
d'amore abbia il solo scopo di riprodurre la specie, im-
poverendolo di tutto quell'apporto di sentimenti o di
fisicità che ce lo rendono necessario nell'adempimento
completo della nostra umanità»26.
L’architettura deve servirsi di tutti gli strumenti di
cui dispone per riscoprire «suggestioni utili a ricom-
porre in maniera significativa la dimensione dello
spazio abitato che immaginiamo di trasformare»27. La
musica, in particolare, nel suo apparire come “forma” è
una delle discipline più vicine all’architettura. Il libro
che Luigi Snozzi consiglia ai suoi studenti, la Poetica
della Musica di Igor Strawinsky del 1942, è un testo
che sembra scritto per l’architettura. Strawinsky met-
te in evidenza come il processo creativo sia l’esito di
una regolata attività tecnica: «l’invenzione presuppone

l'effetto per la causa. La concezione dell'opera ne precede l'esecuzione. I nostri


antichi padri costruirono le loro capanne dopo averne creata l’immagine. È que-
sta produzione dello spirito, questa creazione che costituisce l'architettura e che
noi di conseguenza possiamo definire come arte di produrre e di portare fino alla
perfezione qualsiasi edificio. L'Arte del costruire è quindi qualcosa di secondario
che a noi sembra corretto indicare come la parte scientifica dell'architettura»; cfr.
Boullée Etienne Louis, Architettura..., op. cit., p. 55.
26. Rogers Ernesto Nathan, Elogio della architettura, in “Casabella-Continu-
ità”, 1964, op. cit., p. 2.
27. Melluso Vincenzo, Metamorfosi, in “Domus”, n. 997, dicembre 2015, p. 6.

65
l’immaginazione, ma non deve essere confusa con essa,
poiché il fatto di inventare implica la necessità di una
trovata e di una attuazione. Ciò che immaginiamo
non prende necessariamente forma concreta e può ri-
manere allo stato virtuale, mentre l’invenzione non è
concepibile fuori dalla sua attuazione nell’opera. Quel-
la che ci interessa qui non è dunque l’immaginazione
in sé, bensì l’immaginazione creatrice, la facoltà che
ci aiuta a passare dal piano della concezione al piano
dell’attuazione»28. Parole che chiariscono il rapporto
tra arte e tecnica, tra libertà espressiva e regole.
La regola, secondo questo pensiero, non pregiu-
dica le possibilità dell’invenzione. Al contrario, è un
«potente dispositivo che sollecita la molteplicità delle
esperienze e delle variazioni», come scriveva Massimo
Scolari nel 1972 in apertura di un numero monografi-
co della rivista Controspazio dedicato all’insegnamento
dell’architettura29. La regola e l’imitazione costitui-
scono i presupposti per ogni discorso sull’architettura,
gli elementi utili per un'educazione all’architettura. Il
termine imitazione, in particolare, può provocare am-
bigue interpretazioni di senso30. Il procedimento imi-
tativo non deve essere inteso come replica acritica o
emulazione; l'imitazione non consiste in una riprodu-
zione più o meno abile della realtà o dell'oggetto ma
28. Strawinsky Igor, Poetica della Musica, Edizioni Curci, Milano, 1942, p. 48.
29. Scolari Massimo, Le facoltà di architettura, in “Controspazio”, cit., 1972
30. Per un’approfondita riflessione sul termine si rimanda a Modica Massi-
mo, Imitazione, in “Enciclopedia Einaudi”, Einaudi, Torino, 1979, pp. 3-40.
Per quanto riguarda il termine in architettura, si veda Brusasco Pio Luigi,
Architettura e imitazione, Alinea, Firenze, 1992.

66
piuttosto la sua rappresentazione equivalente in ter-
mini di struttura, cioè l’attitudine a trarre dalla realtà
aspetti ed elementi che ne restituiscano un'immagine
simbolica. Aristotele affermava che ogni immagine,
pittorica o verbale, non è la semplice trascrizione della
forma esterna di un oggetto ma la rappresentazione di
certi suoi aspetti mentre, secondo la kantiana critica del
giudizio, l'imitazione consiste nel semplice apprendere.
Sono affermazioni entrambe vere: si apprende, attra-
verso gli strumenti della cultura, ciò che più interessa
per raggiungere uno scopo prefissato. Il processo di ap-
prendimento, per usare le parole di Carlos Martì Aris,
«comincia con l’osservazione attenta e curiosa dei fe-
nomeni, e prosegue attraverso l’imitazione, con l’inten-
to di ripetere con le nostre mani, guidati dal pensiero,
quello che ci piace e ci attrae»31. Con il termine imi-
tazione non si vuole, quindi, limitare il procedimento
creativo alla riproduzione di un modello, reale o ideale,
ma si indica la capacità di imparare dal modello.
In questo senso lo studio delle opere di architettura,
soprattutto se realizzato con lo scopo di comprenderne
le ragioni, deve integrare il ruolo della teoria: «il sapere
architettonico è custodito, con più forza che in qualsiasi
trattato o esegesi, proprio nelle opere o nei progetti di
architettura, dove s'insinua e rimane nascosto, al riparo
da interpretazioni riduttive o da applicazioni volgari»32.

31. Aris Carlos Martí, Transcripción / Creación. Seis notas sobre el aprendizaje,
testo inedito, 2008.
32. Aris Carlos Martí, La centina e l’arco, Christian Marinotti Edizioni, Mi-
lano, 2007, p. 28.

67
L’imitazione, dunque, è un processo conoscitivo, è
il modo di avvicinarsi alle opere, al loro segreto. Ma,
come ci ricorda Snozzi, bisogna “saper rubare”!
Nel dialogo, infine, si è fatto riferimento al ruolo
della didattica fondata sulla centralità della questione
tipologica e sulla città come sfondo per una ricerca sul-
la forma. Aldo Rossi diceva che «sul modo di insegna-
re la progettazione, o di descriverla, vi è sempre stata
una notevole disparità di vedute; è sempre comunque
difficile stabilire la bontà di un procedimento su un al-
tro dal valore delle architetture, cioè dai risultati del
procedimento. In realtà non si tiene mai abbastanza
conto del valore delle forme che si mostrano, o che gli
allievi conoscono in qualche altro modo, e la cui im-
magine diventa l'esperienza fondamentale. Ora questa
esperienza può far parte del metodo e del sistema, ma
può anche sovrapporsi, come spesso accade in modo
esterno ad esso»33.
Gli studi sul tipo architettonico si sono sviluppati
in un’epoca di forte divisione dei saperi ed hanno avu-
to un ruolo sostitutivo al “trattato”, cioè al sistema di
conoscenze che, in una data epoca, aveva il compito di
ricomporre i frammenti di un sapere disperso: «anche
se l’architettura non è scienza e quindi il suo insegna-
mento non può essere fondato su leggi inconfutabili,
dovrebbe tuttavia essere possibile avviare lo studio at-
traverso dei principi compositivi; dimostrare cioè come

33. Rossi Aldo, Introduzione a Boullée, in Boullée Etienne Louis, Architettura...,


op. cit., p. 9.

68
certi motivi restano nei cambiamenti poiché il loro uso
li ha resi tipici, non ulteriormente riducibili»34.
Nel ricorrere a principi generali il tipo è la base for-
male dell’architettura ma è anche il principio attraver-
so il quale possiamo misurare le molteplici variazioni
dell’architettura nel corso della storia. Il tipo, in que-
sto senso, non è espressione di formule preconcette o
soluzioni codificate, ma di principi che sono alla base
del sapere architettonico ed entro i quali è possibile
manifestare quella “moderata libertà creativa dell’ar-
tista”. La forma, non come manifestazione esteriore e
superficiale ma come carattere essenziale e profondo
di un oggetto, è un concetto analogo a quello di tipo.
Se, per usare le parole di Henri Focillon, il «contenu-
to fondamentale della forma è un contenuto formale»,
questo si realizza nello spazio, lo misura e lo qualifica.
La forma è l’elemento stabile e superiore, potremmo
aggiungere concluso anche se soggetto alle modifica-
zioni che il tempo imprime nella materia. Il tipo è, in-
vece, un sistema di forme che possiamo riconoscere al
di fuori di una progressione temporale lineare, che si
evolve lentamente pur mantenendo intatte le caratteri-
stiche iniziali. I due termini, soprattutto se riferiti alla
dimensione temporale, sembrano in antinomia ma in
realtà costituiscono, il primo, la condizione materiale
dell’architettura, esposta ad una progressiva decadenza;
il secondo, l’idea di architettura nel tempo in perenne
mutamento.

34. Scolari Massimo, Le facoltà..., op. cit.

69
Aldo Rossi sosteneva che la scelta tipologica «con-
siste soprattutto nel chiarire le operazioni che condu-
cono al progetto, senza timore di irrigidirle… opera-
zioni strettamente collegate allo studio analitico della
città, delle tipologie... Lo studio analitico della città
con le sue implicazioni topografiche, storiche e formali
è un riferimento disciplinare, di base, dell'architettu-
ra; lo studio delle tipologie costituisce la parte centra-
le delle scelte complessive di un progetto… lo studio
della storia dell'architettura, intesa come materiale
dell'architettura, dovrebbe essere strettamente collega-
ta con la progettazione»35. Questa frase ci consente di
riprendere la riflessione iniziale sul rapporto tra storia
e insegnamento, sull’intreccio tra ciò che permane e
ciò che si trasforma. Il rapporto tra tipo e forma, tra
storia e progetto, costituiscono uno strumento pedago-
gico sempre attuale, purché si eviti la loro separazione,
il loro disporsi come elementi autonomi del discorso
sull’architettura.

35. Rossi Aldo, Due progetti di laurea, in “Controspazio”, 1972, op. cit., p. 88.

70
Massimo Scolari, Studio per l’installazione Turris Babel, 2004
(Marzari Giovanni (a cura di), Massimo Scolari, Skira, Milano 2007, p. 193)
Nella stessa collana:

01. Fabrizio Foti, Il paesaggio nella casa. Una riflessione sul rapporto architettura-paesaggio
02. Chiara Rizzica, L’inventario del costruito recente. Forme ed usi del quotidiano in Sicilia.
04. Fabrizio Foti, Architettura. Realtà del divenire.
05. Luigi Prestinenza Puglisi, Breve corso di scrittura critica.
06. Paolo Giardiello, iSpace. Oltre i non luoghi.
07. Marella Santangelo, Coderch e l’abitare collettivo.
08. Pietro Giorgio Zendrini, Resistente - Widerrstandsfähig.
09. Davide Vargas, Città della poesia. Una ricerca di [sopra]vivenza.
10. Gennaro Postiglione, Interni. Metodi, azioni, tattiche [della ricerca].
11. Beniamino Servino, Architectura Simplex.
12. Giovanni Corbellini, Housing is back in town.
13. Luigi Spinelli, Gli spazi in sequenza di Luigi Moretti.
14. Paolo Giardiello, Lettera (e non solo) ad uno studente di architettura.
15. Giuseppe Todaro, Muratore di opera grave. Conversazione con Álvaro Siza Vieira.
16. Lorenzo Consalez, Pierluigi Salvadeo, Navigare sulla carta bianca.
17. Alessandro Mauro, Tra virgolette2. 800 aforismi sull’architettura.
18. Michela De Poli, Guido Incerti, Trasformazioni. Storie di paesaggi contemporanei.
19. Fabio Guarrera, Insediarsi e costruire. Osservazioni sul progetto della piccola casa.
20. Pier Giorgio Zendrini, Architracce. L’intuizione dello spazio nell’uomo di montagna
21. Marella Santangelo, Lo spazio del corpo, I templi di Frida Kahlo.
22. Enrico Frigerio, Slow Architecture, istruzioni per l’uso. (eBook)
23. Pietro Giorgio Zendrini, Periplo. Circolo(i) nell’ordinaria natura delle cose.
24. José Ignacio Linazasoro, La memoria dell’ordine, Paradossi dell’architettura moderna

Finito di stampare nel mese di maggio 2016


per conto di LetteraVentidue Edizioni S.r.l.
presso lo StabilimentoTipolitografico Priulla S.r.l. (Palermo)

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