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Pietro Valle (Udine, 1962) è architetto, critico e docente.

Una raccolta di osservazioni sui paesaggi contemporanei

Pietro Valle
Dopo la laurea conseguita a Venezia si è trasferito negli degli Stati Uniti e della Cina, Limboland è organizzato in
Stati Uniti dove ha ottenuto un Master alla Harvard due gruppi di testi scritti a più di vent’anni di distanza
Graduate School of Design ed è rimasto a lavorare per che esplorano la forma fisica e spaziale di luoghi in
sette anni. Rientrato in Italia, ha vissuto a Trieste e dal rapida trasformazione e la relatività del giudizio che
2003 è tornato a Udine dove oggi dirige lo Studio Valle accompagna lo sguardo di chi osserva. Non è un caso
Architetti Associati. Dal 1993 ha insegnato come Visiting che il titolo, preso a prestito da un articolo di giornale su
Professor in varie università di architettura europee e un’area urbana in forte trasformazione, parli di una

Limboland
americane. Ha pubblicato quattro libri: la monografia realtà sospesa che si volge in più direzioni. La velocità
di architettura Mecanoo, Pragmatismo Sperimentale, del cambiamento della città e del territorio globalizzati,
l’antologia di scritti 00_arch.it papers, il libro-intervista soggetti al consumo del mercato e alla continua
Dan Graham, Half Square-Half Crazy (assieme ad costruzione di realtà artificiali legate a esso, è indagata
Adachiara Zevi) e la raccolta di saggi Alpe Adria Senza, nell’evidenza materiale e visiva dei luoghi osservati.
paesaggi contemporanei a Nord Est. Questa, secondo l’autore, parla delle differenze che li
caratterizzano più degli eventi o delle grandi narrazioni
Davide Tommaso Ferrando (Torino, 1980) è critico di che li hanno finora definiti.
architettura, editore, curatore e docente. Master in
Progettazione Architettonica Avanzata alla ETSA Madrid
e Dottorato in Architettura e Progettazione Edilizia al
Politecnico di Torino, svolge attività di docenza in en-
trambe le università. È fondatore ed editor della webzine
“011+”, nonché presidente dell’omonima associazione
culturale. Suoi scritti sono pubblicati in riviste nazionali
e internazionali, e in libri collettivi. Ha curato Torino
Atlante dell’Architettura 1984|2008 (con Michele Bonino,
Giulietta Fassino e Carlo Spinelli), 011+ Architetture Made
in Torino e 1301iNN Elasticospa+3.

Limboland
Pietro Valle
ISBN 978-88-6764-079-9

9 788867 640799 euro 16,00 a cura di Davide Tommaso Ferrando


MOSAICO
Limboland
Pietro Valle

a cura di Davide Tommaso Ferrando

L I B R I A
Pietro Valle
Limboland

Collana Mosaico

Comitato scientifico
Stefano Borsi, Mario Pisani, Paolo Portoghesi, Nasrine Seraji

Metodi e criteri di referaggio


La collana adotta un sistema di valutazione dei testi basato sulla revisione paritaria e anonima
(peer-review). I criteri di valutazione adottati riguardano: l’originalità e la significatività del tema propo-
sto; la coerenza teorica e la pertinenza dei riferimenti rispetto agli ambiti di ricerca propri della collana;
assetto metodologico e il rigore scientifico degli strumenti utilizzati; la chiarezza dell’esposizione e la
compiutezza d’analisi.

Coordinamento Editoriale
Antonio Carbone

Stampa
Centro Grafico Srl - Foggia

Prima edizione
Marzo 2016

© Copyright
Casa editrice Libria
Melfi (Italia)
Tel/fax + 39 (0)972 23 60 54
ed.libria@gmail.com
www.librianet.it

ISBN 978 88 6764 079 9

Questo libro non sarebbe stato possibile senza il contributo, diretto o indiretto, delle persone che
hanno partecipato ai viaggi, condiviso una quotidianità nei luoghi descritti o scambiato delle
opinioni su di essi: oltre al curatore Davide Tommaso Ferrando ringrazio, in ordine geografico,
mia moglie Francesca Medioli e la piccola Angelica, Pelen Yip, Elena e Laura Carlini, Gabriella
Gabrielli, Renata Murnaghan, Robert Kennett, Rodger Fairey, Peter Wiederspahn, Glen Forley,
David Heymann, Robin Evans, Vladimir Petric, Elias Torres, Billie Tsien, Evan Douglis, Judy
Mattingly, Kyna Leski, Chris Bardt, Roger Cardinal, Musa Train, Svetlana Boym, Caterina Roiatti,
Bob Traboscia, Massimo, Lella e Luca Vignelli, Pietro Cicognani, Ann Kalla, Emilio Ambasz, Chung
Nguyen, David Robinson, Olafur Thordarson, Reade Elliott, John Berry, Susan Narduli, Frank O.
Gehry, Edwin Chan, Tom Hoos, Paul Lubowicky, Marc Angelil, Michael Gruber, Michelle Lambson,
Theodora Lambson, George Terbovich, Renè Diaz, Dan Rockhill, Marie Aquilino, Jose Fernandez,
Aaron Casey, Steve Hardy, Suzanne Johnson, Susan Craig, Vladimir Krstic, Eugene Kremer, Rob
Corser, Larry Davis, Francisco Sanin, Egidio Marzona, Dan Graham, Vito Acconci e Lawrence
Weiner. Se non ho ricordato tutti coloro che ho incontrato nei viaggi descritti, me ne scuso. Uno
speciale ringraziamento a Roberto Vidali e Marco Brizzi per avere a suo tempo pubblicato due di
questi scritti (Proiezioni e Detroit Radiale) sulle loro riviste Julet e Arch’it, nonchè a Neva Gasparo
per aver rivisto le fotografie.
Sommario

Introduzione 8

USA 13

CORRIDOIO ATLANTICO 14
Lago Ghiacciato 15 | Attraversamento 17 | Fine della Parkway 18 | Festa sulla
Sommità 21 | Flatiron versus Reliance 22 | Hotel Trasformato 25 | Sovrapittura 28 |
Luna Park 30

RUSTBELT 34
Demolizione 35 | Detroit Radiale 38 | Quartiere 41 | Natura in Città 43 | Oscurità/
Contenitori 46 | Vetrine 47 | Prefab 49

DESERTI 52
Orizzonte 53 | Sguardo dal di Fuori 55 | Proiezioni 57 | Argilla 61 | Livelli 63 | Bianco 64

SUBURBIA SOTTO IL SOLE 66


Eucalipto 67 | Telaio in Legno 69 | Mondi Privati 73 | Interni 74 | Mirage 76 | Mare
d’Alberi, Montagne Urbane 78 | Natale 79

PAESAGGI 83

CINA 105

CELESTE TERRITORIO 106


Arrivo a Pechino in Aereo 107 | Tombe Ming 107 | Grande Muraglia, Passo Yuyong 109

CITTÀ FILAMENTOSA, CITTÀ PROIBITA 112


Quartiere degli Hutong a Nord della Città Proibita 113 | Città Proibita 114 | Area
Rifatta e Area Ricostruita di Hutong 116 | Casa di Lu Xun 116 | Attorno alla Città
Proibita 117 | Piazza Tien’anmen 118 | Museo dell’Urbanistica 118

5
PECHINO DAL TAXI, VISIONI CONTEMPORANEE 120
Ingresso in città 121 | Circonvallazione, Radiali, Sopraelevate - Zona Ovest 121 | Radiale
verso Nord 122 | Circonvallazione verso l’Aeroporto a Est 123 | Centro Commerciale
Parkview Green (FanCaoDi) 123 | Ritorno alla Città Notturna 125 | Sanlitun Shopping
Mall, Soho Center e Galaxy Soho 125 | CCTV 126 | Uffici di un’Impresa di Costruzioni
Cinese 127

TEMPLI COME CASE, STORIA RIPETUTA 128


Tempio di Confucio 129 | Guozijian, Università Imperiale 130 | Tempio Lama
Yonghe Gong 131 | Palazzo del Principe Gong 132 | Casa di Gong Shing Lin 133 |
Tempio Taoista Donguye 134 | Palazzo d’Estate, Lago Kunming 135 | Tempio del
Cielo 137 | Museo dell’Architettura 137

CITTÀ SEGRETA, CITTÀ CHE SALE 140


Xi’an, Arrivo in citta 141 | Esercito di Terracotta e Mausoleo di Qin Shi Huang 142 |
Ai bordi del Centro di Xi’an 143 | Quartiere Islamico 144 | Vecchia Moschea 145

IL PAESAGGIO, ISTRUZIONI PER L’USO 147


Conversazione a distanza
sulla scrittura del paesaggio contemporaneo
LIMBOLAND
Introduzione

8
Nel 1994 apparve sul supplemento domenicale del Kansas City Star
un articolo intitolato Limboland. Trattava di una porzione di città,
schiacciata tra il downtown terziario e il midtown manifatturiero, che
stava rapidamente cambiando. La zona, un tempo semiabbandonata,
era stata recentemente occupata da nuove residenze e attività
commerciali. Questo luogo senza nome non apparteneva a nessun
quartiere, essendo stato storicamente unito a quelli limitrofi, aveva
visto passare diversi gruppi sociali, e si apprestava a intraprendere
un’ulteriore mutazione che gli avrebbe dato una diversa identità.
La velocità del cambiamento della città e del territorio americani, sog-
getti al consumo del mercato capitalista e alla continua costruzione di
realtà artificiali legate a esso, sembrava racchiusa nel destino di quella
zona senza nome. In quanto temporaneo residente di quella porzione
di città, decisi di adottare quel titolo per una prima raccolta di osserva-
zioni sul paesaggio contemporaneo degli Stati Uniti che testimoniano
gli anni passati in quel paese tra il 1987 e il 1996. Tale dimensione
sospesa l’ho ritrovata vent’anni dopo durante un lungo viaggio in Cina
intrapreso nel novembre 2014 su cui scrissi un lungo diario. Assieme
a Davide Tommaso Ferrando abbiamo deciso di unire questi due
gruppi di scritti con lo stesso titolo Limboland. Pur nella differenza di
frequentazioni e di date, quello che li accomuna è l’interesse per la
forma fisica e spaziale di luoghi in rapida trasformazione e la relatività
del giudizio che accompagna lo sguardo di chi osserva. Non è un caso
che il titolo parli di una realtà sospesa che si volge in più direzioni.
La prima parte di Limboland descrive i territori e le città nella loro
forma fisica e spaziale, spesso senza fare ricorso alla presenza di perso-
ne o di azioni. Vuole indagare l’evidenza materiale e visiva dei luoghi,

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essa parla delle differenze che li caratterizzano più degli eventi.
Testimonia anche la progressiva formazione di uno sguardo che, pro-
veniente da una cultura diversa come quella europea, fatica a trovare
un punto di vista di fronte all’impermanenza del paesaggio americano.
Descrivendo uno smarrimento, Limboland, racconta indirettamente
l’evolversi di una presa di coscienza della relatività dei luoghi da parte
di chi scrive.
Vent’anni dopo, il resoconto del passaggio in Cina assume un simile
atteggiamento, ma affronta i luoghi con più immediatezza. Lo sguardo
è più sicuro del suo giudizio, i siti hanno un nome che viene citato
(mentre prima era in calce a ogni testo), vi è una maggiore coscienza
storica e le grandi narrazioni che hanno accompagnato la modernità
di questo paese sono messe a confronto con il percepito in modo più
stringente. I testi sono sintetici, quasi delle annotazioni, si vede un
trascorso intrapreso nelle pubblicazioni che porta a formulare un giu-
dizio al termine di ogni esplorazione. Anche qui, tuttavia, il confronto
tra una tradizione (più presente che negli Stati Uniti) e la dinamica
delle trasformazioni recenti (si pensi solo al passaggio dal Comu­
nismo al Capitalismo) pone questioni aperte più che offrire risposte.
Limboland si domanda come scrivere il paesaggio contemporaneo,
come raccontare le trasformazioni e i processi aperti, come traslare
una cultura globale in un contesto locale. La risposta è aperta o,
meglio, vi sono più risposte: solo un atteggiamento trasversale può
affrontare un simile compito. Per questo, ognuno degli scritti qui rac-
colti comprende le forme del racconto, del saggio, del diario di viaggio
e della relazione tecnica ma, spesso, non le distingue. Ogni paesaggio
è guardato in modo specifico e sembra richiamare una propria moda-
lità di scrittura, relativa e, a volte, inconclusa. In certi casi, diverse forme
sono compresenti, segno questo che le categorizzazioni non servono
e bisogna imparare a lasciarsi andare per comprendere un luogo.
Un frammento può richiamare un insieme, un contesto condiviso, ma
può anche inventare una dimensione autonoma, ha la libertà di tra-
dire i propri assunti. I brani qui inclusi non si riferiscono a un ambien-
te unitario e sono obbligati, per necessità, ad attraversare forme di
pensiero e scrittura diverse. Tra l’aspetto descrittivo e la riflessione

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critica sui luoghi emerge una dialettica, una tensione irrisolta. Essa
non vuole giungere a conclusioni generali ma preferisce porre delle
questioni per fare meditare chi legge.
Le fotografie incluse sono state scattate nei due suddetti periodi per
quanto non sono presentate contestualmente agli specifici luoghi
descritti. Non hanno pretesa di completezza né cercano di riassumere
un contesto in una sintesi o in un’icona. Formano, piuttosto, dei con-
trappunti al testo che suggeriscono improvvise aperture o fughe tra-
sversali senza una meta precisa, segno anche questo che i luoghi del
contemporaneo non si fanno racchiudere in formule definitive.

11
USA
Corridoio Atlantico

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Lago Ghiacciato
Lago d’inverno nel mezzo della foresta, un punto bianco circondato
dal verde scuro. Il ghiaccio è coperto da neve fresca, la superficie
morbida riflette il cielo, un pozzo di luce. Il muro di conifere che for-
ma la circonferenza reintroduce la monotona densità che ricopre il
territorio, il lago è un evento eccezionale separato da qualsiasi resto.
Una strada lo raggiunge ma non arriva in vista della superficie, solo
appresso in un punto. Le rive s’innalzano a formare un terrapieno, la
carreggiata rimane nascosta dietro ad esso. Anche se gli alberi cre-
scono fino ai bordi del ghiaccio, il lago è orograficamente e visiva-
mente isolato dall’intorno. L’anello di terreno, chiaramente artefatto,
rivela che questa radura è un bacino artificiale, un apparato che co-
struisce una percezione astratta. Elimina l’intorno, gli accidenti, pre-
senta la natura senza dettagli. La superficie bianca, le punte degli
alberi e il cielo sono perfettamente delimitati, chiusi, bloccati.
Camminare sul ghiaccio, i passi comprimono la neve raddensando-
la con un suono sordo, senza origine. L’eco rimbalza contro il limite
degli alberi, l’estensione ritorna verso se stessa, è teatro del proprio
isolamento. Il riverbero della luce sulla neve impedisce di fissarla, il
centro diventa superficie vuota. Lo spazio, come il suono, è riman-
dato indietro, il bianco assoluto non è riconducibile a punti o per-
corsi esterni.
Unico limite: la foresta, la sostanza opaca, il non-sguardo. Addentrarsi
a piedi in essa, è impossibile stabilire un punto di vista e una distan-
za che separi uno spettatore da un paesaggio, il territorio cieco si
spezza contro gli alberi-ostacoli. L’oscurità del sottobosco si misura

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con il corpo che lo attraversa e con lo sforzo di memorizzare il percorso.
Quando è stata l’ultima interruzione della foresta? Quale altro episodio
riconoscibile? Rintracciare il lungo viaggio in automobile, ore e ore
avanzando all’ombra delle chiome. Il nastro della strada si snoda
senza accenti, i tronchi sfrecciano lateralmente, il loro addensarsi crea
un’ipnotica vibrazione, un ripetersi di bagliori sfocati. La graduale co-
scienza che non c’è segno di vita, che ci si muove nell’indifferenziato.
Estensione senza apertura, solo alberi: un’eterna natura senza visione
dove l’occhio, abituatosi alla ripetizione, finisce per non vedere.
Si crea uno scarto quando la foresta è interrotta, il lago è isolato
come fatto autonomo. La scala del territorio amplifica le scarse pre-
senze umane che si stagliano nel vuoto, figure al confine di una pos-
sibile metamorfosi, in questo assoluto indifferente possono diventa-
re qualsiasi cosa. Eppure l’icona della radura nella natura selvaggia è
un artificio, la strada che termina dietro al terrapieno costruisce la
scoperta improvvisa del nuovo, la non-anticipazione del lago. Altre
presenze emergono tra gli alberi: un motel, una stazione di benzina,
un piccolo centro commerciale, delle case isolate, fragili volumi rico-
perti di assi di legno. La foresta ingannava, l’automobile è strumento
percettivo che isola i manufatti: arriva talmente a ridosso che si iden-
tifica con essi. Non si sono attraversate soglie, dall’abitacolo protetto si
guarda la natura che si è lasciata indietro e che deve essere comunque
allontanata. Il paesaggio è manipolato per creare l’isolamento, la na-
tura deve assumere il ruolo di materia impenetrabile dove sorgono
bolle di vuoto abitabile. La foresta definisce il limite di proprietà fon-
diarie, la separazione da altri non visibili ma comunque presenti. Il
godimento del proprio confine sull’infinito naturale trasforma gli al-
beri in zona cuscinetto, in proiezione di ossessioni di privacy. Il bordo
della radura è il fondale dello spettacolo del pioniere solitario, pre-
servarlo implica mantenere la possibilità di ripetere l’atto fondatore
del­l’insediamento. Il viaggio di ritorno si riduce ad attraversamento
di un’enorme scenografia del desiderio del vuoto intorno a sé. Il per-
corso prosegue senza tornare indietro, quello che si è incontrato c’è
già da qualche altra parte ed è riproducibile a piacere.
Walden Pond, Massachussets 1987

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Attraversamento
Questa città è diventata un parco terziario, pochissimi edifici del cen-
tro sono sopravvissuti, forse una banca e un paio di palazzi storici.
Il resto è stato sostituito da parallelepipedi di vetro riflettente. Non
sono grattacieli e neanche edifici bensì oggetti riposizionabili che si
specchiano l’uno nell’altro in un gioco di reciproci annullamenti. Le
nuvole subiscono la quadratura dei pannelli di vetro rivolti costan-
temente verso l’esterno. Il downtown è un esercizio repulsivo, lo
spazio urbano è rimandato indietro mentre gli interni rimangono
nascosti. L’attraversamento è un salto nel vuoto della compressione
visiva che aggredisce da numerose direzioni. Un’autostrada soprae-
levata si immerge nella città, sorvolando gli edifici, gli ingressi sono
dimenticati sotto. Riflessi multipli collassano in sequenze di pannel-
li blu, le facciate esplodono in un montaggio di fotogrammi contigui.
Non hanno forature per fare respirare la strada, sono somme di de-
iezioni che aggrediscono lo spazio. Catturano qualsiasi cosa passa
loro accanto e la respingono in fuori. Le scatole a uffici sono fortez-
ze, dietro alle loro finestre, occhi nascosti guardano la strada. Solo di
sera, calmata l’energia della luce riflessa, gli interni si accendono e
alcuni di essi permettono di essere penetrati. Altri edifici sono inve-
ce lasciati al buio e scompaiono nei loro buchi neri. Le distanze e le
relazioni sono alterate perché esistono solo le strutture illuminate,
gli unici punti di riferimento. L’attraversamento relaziona entità tra
loro distanti e, da lontano, la città è una costellazione di grappoli
puntiformi sul piedistallo arancione dell’autostrada. Il fumo degli
impianti di condizionamento risplende staccato dal cielo, le strade
sono vuote, i marciapiedi sprofondano nell’ombra della sopraelevata.
Gli uffici sono evacuati fino a domani mattina ma non rimangono
immobili. Le lampade stradali vibrano, tutti i telai di vetro le seguo-
no con un impercettibile tremolio che va dalla fonte fino alle figure
riflesse. Fissare le cose è impossibile, porta a un abbaglio insoppor-
tabile. Correre in auto è l’unica alternativa, frammenti di edifici illu-
minati scivolano via.
Questo è un luogo dove chiudersi dentro o passare accanto, l’abban-
dono degli esterni porta a esporsi all’aggressione delle immagini.

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Ma queste, sono forse individuate? Il rispecchiamento cattura tutto
quello che passa davanti al piano di proiezione senza selezione e le
facciate moltiplicano incessantemente gli stessi elementi. Mostruosa
presenza della realtà raddoppiata nella sua inerzia (gli immobili) e
nell’impermanenza (il traffico). Gli edifici non ampliano lo spazio in
fughe prospettiche ma lo schiacciano contro muri di immagini già
viste. Il vetro non ha diverse proprietà ma è solo specchio, animato
dalla latitudine del suo campo di riflessione. Diviene fotogramma di
una realtà più ampia la quale è rappresa in un rettangolo e riman-
data indietro. Non più finestra, non più profondità, esso è solo una
porzione di scorrimento laterale. La città di specchi è una città di
esterni reiterati indifferentemente, guidare sulla sopraelevata è attra-
versare un labirinto di immagini, un replay continuo. Questo è un
nodo terziario, sollevato da terra, separato dagli interni, abbando­
nato fuori orario. Esso non può fare altro che passare via senza fer-
marsi e dunque non è che un satellite di una costellazione infinita.
Poco distanti dalle facciate di vetro, riposano nel buio i sobborghi di
villette del quartiere giardino, lo sfondo che non è mai riflesso. Oltre
l’anti-immagine allo specchio c’è solo l’opacità del silenzio privato.
Hartford, Connecticut 1987

Fine della Parkway


La strada inizia a discendere verso il fiume, gli alberi scompaiono e
cedono il posto a un terreno incolto a metà strada tra il taglio di una
cava e una scogliera. La carreggiata si restringe, le altre auto corrono
più vicine, il rumore echeggia sulle pareti di roccia ed è amplificato. I
veicoli sono forzati a compiere una curva continua, non si vede a di-
stanza, i segnali appaiono all’ultimo momento e c’è l’urgenza di cam-
biare corsia per raggiungere la propria uscita. Un complesso sistema
di intersezioni ha luogo ai confini della città, varie freeways e parkways
sono scavate nella roccia lungo il fiume. Una conduce a sud verso il
centro, la seconda si incanala verso un enorme ponte sospeso e at-
traversa il fiume, altre vanno a nord e a est verso altri quartieri. La
strada orientale deve oltrepassare un altro canale artificiale, quella

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a nord corre lungo il fiume. Il terreno è ripido e discende verso l’ac-
qua con crinali nerastri. Per far posto alle intersezioni, sono state
scavate porzioni di roccia e costruiti viadotti su livelli diversi. Almeno
quattro o cinque autostrade confluiscono dalla regione e si immet-
tono nel sistema viario urbano. Un ingannevole terreno intermedio
tra naturale e artificiale si forma in questa zona. Varie direzioni si
scontrano e cercano di districarsi l’una dall’altra. Per chi guida, la
percezione del sistema è impossibile perché si è troppo presi ad
assorbire le continue opzioni di uscite e deviazioni dell’itinerario.
Incanalate nelle strette corsie, le auto formano code che non rallen-
tano mai e forzano l’andatura su ripide discese. Frammenti di visio-
ne sono accompagnati dalle variazioni di un rumore incessante. Il
riverbero dei pneumatici sull’asfalto e sulle griglie metalliche dei
ponti, il sole negli occhi minacciato dalla massa nera di una forma-
zione rocciosa, la sottostruttura di un viadotto che imprigiona lo
sguardo. Improvvisamente, lame d’ombra tagliano la luce a metà.
L’auto di fronte va fuori fuoco, la propria corre su un viadotto. Il
rumore raddoppia, come in galleria. Un’uscita sotto il ponte, veicoli
che incrociano di fronte, accecati dal sole. Un altro crinale a destra, la
città in controluce a sinistra, l’appoggio del ponte sospeso di fronte,
il vento che soffia dal fiume colpisce improvvi­samente da lato. Per
scendere in città, la strada deve superare un dislivello. Un ponte
secondario e quello sospeso si incrociano a diverse altezze. Un mondo
di pareti verticali e di strutture scorre sopra la testa, l’impressione è
di slittare su uno scivolo dalla gravità inesorabile. Auto si immettono
da destra, si è forzati a ridosso del guardrail. Uno sguardo giù, si in-
travede un minuscolo parco sepolto ai piedi del ponte. L’ombra
delle strutture sospese, il rumore molto in alto, un respiro metallico.
Reticoli che tremano, la vibrazione è il comune denominatore di
questo corridoio ma nessuno ha il tempo di accorgersene. Passaggio
puro senza sosta, corsie che si restringono comprimendo tutto, per-
cezione in velocità di un qualcosa che si allontana continuamente.
Intersezioni aeree con altri flussi che si incrociano e non si toccano
mai. Le rocce, i crinali, i buchi, il volo, la mancanza costante di un
insieme ma forse l’insieme è solo la pulsione a buttarsi nel vuoto,

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il salto sempre possibile. Puntare l’attenzione su di un cordone d’asfal-
to in moto lineare, una direzionalità che ritorna su se stessa perché
senza obiettivo finale, un nastro infinito che non esce mai dalla condi-
zione di galleria, anche se non ha pareti laterali. Questo loop monta
tagli su tagli, interruzioni su interruzioni, salti di luce/apertura/suono.
Due estremi si toccano, un piano sequenza dove l’auto è la pallina di
un flipper e un montaggio con cesure ripetute che segmentano il
moto.
Il bordo della città combatte contro il territorio circostante, si disperde
in un ganglio di direzioni. Quando la lotta è terminata, uno è dentro
o fuori, assorbito o rigettato. Questo è il rito di passaggio per entrare,
un’amnesia collettiva dove si dimentica tutto e non si considera nul-
la, un antispazio dalla durata incontrollabile. Si percorre l’inabitabile
e tuttavia esso è l’unico tratto dove si percepisce la rete di connessio-
ni e infrastrutture che servono la città. Solo qui escono alla luce del
sole, tra gli edifici sono sepolte sottoterra mentre nella suburbia si
disperdono in lottizzazioni orizzontali. Al confine del crinale, si scon-
trano alla luce del sole. Nessuno può fermare le corsie, nemmeno il
terreno divelto. È una regione dove nastri d’asfalto, linee d’energia e
scarichi fognari sono aggrappati alle rocce, la sezione di un sottosuolo
brulicante è aggrappata a un’orografia impossibile. Le infrastrutture,
tuttavia, vanno ben oltre il loro ruolo funzionale: vi è ipertrofia dei
viadotti e dei tunnel. Equivalenza dei versi di marcia, azzeramento
dell’orientamento, mancanza di obiettivo, il viaggio attraversa ma
non sa dove va e questo diventa il luogo dei ritorni inarrestabili. Gli
edifici non arrivano alla zona dell’attraversamento e neppure gli al-
beri o le sistemazioni paesaggistiche. Ci sono solo lavori stradali,
tubi, rumore e vibrazioni: un grande luogo da evacuare. Per entrare
in città, bisogna compiere una deviazione in questo funambolico in-
terregno. Su di un lato di esso vi sono le educate parkways immerse
nel verde, sull’altro la città, separata dalla regione circostante.
New York 1988

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Festa sulla Sommità
Le strade non hanno termine, sono canali paralleli che corrono
all’infinito bordati da edifici scuri. Qui però siamo vicini al fiume e
questa strada sembra finire prima dell’altrove che inquadra. Un
grande magazzino multipiano fa angolo con le rive, ha superfici in
vetrocemento e tamponamenti in mattoni. La Ventinovesima Strada
si affaccia a Ovest, gli edifici in controluce sono avvolti in un’ombra
soffusa, l’acqua brilla. La fine è oltre l’abitato, è la natura, l’indeter-
minato, l’apertura forse. La città catapulta fuori di sé, annulla la
distanza e porta l’esterno dentro le strade. Il fiume però non per-
mette di continuare all’infinito. È una cesura netta, è la fine del buio.
Taglia ogni cosa con una lama di luce riflessa che dura anche dopo
il tramonto.
Il montacarichi del magazzino sale lentamente, lo sguardo può spa-
ziare nella penombra di un vano più ampio della cabina. Ogni tanto
aperture lontane inquadrano telai di cemento e grandi pareti cieche.
Sembra di muoversi nel vuoto, il suono dei macchinari echeggia
descrivendo vastità incommensurabili. L’ascesa non è inscatolata,
attraversa un territorio neutro ma vasto, senza limiti certi. In questo
magazzino si sprofonda salendo, il montacarichi sospeso cancella
l’orientamento e annuncia il livello superiore della città, un’entità
separata.
L’arrivo, un ultimo piano prima dell’esterno, una rampa di scale e poi
una serie di terrazze sfalsate. Il pavimento è in ghiaia, i passi risuona-
no ma la prossimità non è percepibile. Oltre il muro di cinta, vi è la
città di notte. Il quartiere attorno al magazzino è completamente al
buio, non ci sono che depositi e manifatture. Lontano si innalza il
Midtown con ghirlande di luce. I muri del magazzino sono sull’orlo di
un abisso, c’è un’interruzione oscura e poi la fosforescenza dell’oriz-
zonte, irraggiungibile. Gruppetti di persone si radunano sui tetti, fol-
gorati dalla tensione della città lontana. Sulla sinistra il fiume è anco-
ra illuminato e taglia le masse nere, il blu dell’acqua ha aree di diver-
sa intensità, correnti. Viene voglia di saltare oltre il bordo per capire
quanto a lungo si cade. Forse l’oscurità collega segretamente con le
torri lontane, lo skyline schiaccia i corpi vicini, li congela in silhouette.

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La luce è solo orizzontale, non ha altezza, le persone sul tetto riman-
gono grappoli d’ombre.
I fuochi d’artificio hanno inizio, lontano, dietro le masse nere degli
edifici, la loro intensità è poca cosa rispetto alla dimensione della cit-
tà ma il fumo sale, rifratto dai reticoli di luce dei grattacieli. In venti
minuti il Midtown è coperto da una nube arancio che sembra ema-
nare dalle torri. Bagliori riflessi e mormorii sommessi indicano dove
vengono sparati gli ultimi colpi. La città brucia, la città è nelle nuvole,
sospesa in un magma gassoso. Isolamento e solitudine di paesaggi
irraggiungibili, un mondo proibito è proiettato sull’aria rappresa.
La festa crea la simulazione di una città sulle nuvole (che c’è già) ma
anche di fuoco. Il fumo è apparato di occultamenti e rivelazioni im-
provvise, propone l’enigma della separazione temporanea tra diver-
si livelli. La rappresentazione non può essere cristallina, deve avvol-
gere le cose in un’aura che di solito non c’è. La normale efficienza è
dura e levigata, la festa deve dissolverla e occultarla, può liberare
qualcos’altro, l’energia nascosta, il fuoco della sommità, l’abisso del-
le strade.
Il brontolio degli ultimi fuochi finalmente smette, aveva coperto tut-
to, per un periodo indefinibile era diventato l’unico suono della città.
Un intervallo di silenzio e poi il rumore riprende con un’ondata. Un
enorme sussurro alita ai piedi dell’abisso, auto, clacson, folla. La
celebrazione isola le cime lontane, le rende sogno per un attimo. Ora
la città atterra di nuovo su quello che viene dal basso, la vita di strada.
Il silenzio ovattato delle sommità cede il passo all’eco che sale, allo
spazio acustico compresso tra pareti opposte. Il rimbombo si mesco-
la alle esplosioni contratte, l’affabulazione ricomincia.
New York, 4 luglio 1988

Flatiron versus Reliance


Cos’è un luogo se tutto lo evade? Significato, valore e uso occupano
temporaneamente una porzione di territorio. La abbandonano
dopo averla sfruttata e non lasciano ricordi perché la memoria è
riposizionabile. Non risiede nelle ripartizioni fondiarie, può essere

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fabbricata e ricollocata in diversi spazi per dare una rappresentazione
civica che sembra monumentale, ma in realtà opera solo fino a
quando serve: poi la si elimina o porta via. Non c’è crescita graduale
ma boom and bust. L’unica rappresentazione non programmata è
quella dell’allineamento, della contiguità casuale degli edifici, dell’im-
pressionante sequenza di parallelepipedi che presentano una faccia
sola sulle strade diritte. Canali, non spazi, movimenti continui che
fuggono via. Il parallelepipedo è formato dal massimo volume co-
struibile ma il volume è risultato dalla ripartizione fondiaria sul ter-
reno, da una scacchiera che viene prima degli alzati e non sa come
essi saranno. Urbano è l’edificio che si adatta a questa condizione
di serialità senza profondità, che accetta lo scivolamento dei fronti
l’uno verso l’altro e l’erosione dell’identità da parte del consumo
della città. Alternativamente, cerca di reagire all’omologazione ac-
centuando la propria individualità con una rappresentatività artifi-
cialmente creata ma comunque temporanea. Louis Sullivan aveva
tensioni schizofreniche, denudava gli edifici fino a ridurli a scheletri,
esponendo quella maglia di pilastri e travi che sta comunque sem-
pre dietro alle cose costruite. Allo stesso tempo, avvolgeva queste
membra in un flori­legio rampicante, cercava di far diventare gli edi-
fici natura vegetale che si autorigenera spontaneamente. La sua era
l’illusione di una crescita armoniosa, di un radicamento che non
poteva esserci nella città sostituibile. Daniel Burnham era più prag-
matico, la sua White City era una maschera ufficiale dietro la quale
si nascondevano spe­rimentazioni che cercavano uno spazio nella
nuova realtà urbana. La sua dissimulazione del travestimento crea-
va gia da sé un’ambiguità, un secondo livello di lettura oltre la faci-
le interpretazione delle facciate “storiciste”.
Flatiron Building, il reticolo di strade ha un’eccezione, un lotto irre-
golare, un cuneo. L’edificio diventa estrusione della devianza di
Broadway dalla city grid. Il vertice del cuneo è prua/indicatore che
punta verso il nord ma anche erosione del blocco edilizio da parte
del flusso che arriva da quella direzione, dall’unione di Manhattan
con il resto del continente. Analogia aereo/idrodinamica, l’isolato
non è più a lato della strada ma al centro di essa e ne devia il vettore

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in due direzioni, rimanendone affilato. Nella città antica l’architettura
creava la strada, il solido plasmava lo spazio. Qui il vuoto, eterno
movimento, costruisce il blocco per sottrazione, intagliandolo, ri-
muovendo materia edilizia secondo la linea di minima resistenza,
sino a quando il traffico può scivolare sulle due facce piane del pri-
sma triangolare. L’edificio riconosce le due linee di energia che lo
investono da nord. La decorazione barocca articola i lati con onde
verticali come se ci fosse una spinta continua che non solo consuma
la massa ma anche tira la facciata in un tunnel del vento urbano. Il
Barocco, massimo plasmatore dello spazio curvo e della transizione
continua, si trasforma in pelle rappresa, piegata, spinta dal movi-
mento della strada.
Dietro l’apparente occasione dell’irregolarità del lotto del Flatiron,
scorrono pulsioni dinamiche. Assorbimento del flusso/deriva urbana
come fiume e dell’edificio come sedimento che registra la città con la
propria erosione; assimilazione della maglia stradale come moto,
come unica forza (e non forma) che costruisce la città; coscienza
dell’architettura non come costruzione ma come rimozione di quan-
tità edilizio/fondiaria; invenzione dell’idea di cuneo passivo, non fen-
dente ma consumato; tensione tra volume e rivestimento-pelle rap-
presa (ma mai messa a nudo); impiego di uno stile ma frammenta-
zione di esso in sottounità plasmabili.
La piega si ritrova nel Reliance Building a Chicago ma non è morbida
bensì spigolosa. Non genera risvolti ma affacci. Posto sull’angolo tra
due strade ortogonali, esso non emerge, così schiacciato da strutture
adiacenti più alte. Il Reliance è più scatola che volume: ampie fine-
stre ne rivelano la natura di foglio e leggere decorazioni lineari fun-
gono da cuciture che ne tengono uniti gli angoli. Questi ultimi però
non rimangono retti, il tema del bow-window deforma l’involucro in
molteplici fronti diagonali. L’edificio contempla l’incrocio delle strade
(i due canali infiniti che si incontrano) ma si moltiplica in più sguardi
obliqui. I bow-windows incolonnati creano tagli di luce inaspettati
quando il sole si rispecchia sui molteplici orientamenti dei vetri.
Ubiquità dell’affaccio, sembra un parallelepipedo unitario ma in real-
tà è un milleocchi che non si sa mai in che direzione stia guardando.

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C’è tensione tra l’ordine volumetrico e l’angolarità inaspettata dei
fronti. Gli occhi/bow-windows sono sollevati sulla base del piano
terra, anzi, aggettano oltre aumentando l’effetto di proiezione. Il
volume edilizio si sporge in fuori quasi a negare l’incrocio ortogona-
le (o forse a sfruttare la maglia di strade per ottenere più vedute). La
città si specchia su facce di vetro, su edifici infinitamente angolati. La
città è rappresa in un involucro/accordion che concentra tanti orien-
tamenti nelle sue pieghe. Il bow-window è finestra/ambiente, è af-
faccio reso spazio, è occupazione di un territorio intermedio che non
è più stanza e non ancora esterno. Un edificio di bow-windows risie-
de tra l’isolato rettangolare e il flusso della città. Mentre il Flatiron
toglieva parti edilizie dal cuneo, il Reliance costruisce stratificazioni
tra interno e strada. La natura Tudor-Gotica delle decorazioni ricorda
un montaggio di case, il bow-window è elemento appeso, sovra-
struttura, interstizio dinamico, l’isolato permette a queste case/finestre
di vivere appese. Anche qui, come nel Flatiron, l’inesorabilità dei
fronti ortogonali è superata e l’angolo urbano concentra eventi spa-
ziali in un luogo denso. L’angolo tra strade diventa punto d’incontro/
scontro, testimone di movimenti che provengono da lontano. Due
edifici apparentemente ordinari affrontano l’impermanenza della
città e rovesciano questa incertezza in un’opportunità spaziale che
sembra avvenuta casualmente, non creata ma portata qui da fuori.
I loro esterni non hanno volto proprio, sono solo il riflesso del flusso
urbano.
Chicago 1994

Hotel Trasformato
Un grande edificio, discreto. L’ingresso è nascosto dietro agli alberi
del viale. Il corpo principale, all’angolo tra due strade, è punteggiato
da piccole finestre regolari che circoscrivono un ampio perimetro. La
sommità recede a terrazze ed è nascosta dalla strada. Il rivestimento
è in piastrelle di clinker grigio, decorazioni in stile gotico marcano il
mezzanino e si estendono a formare una pensilina che aggetta sopra
l’ingresso. Doppie porte in ottone conducono a una grande hall

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rivestita di marmo rosso scuro. Al banco, tre o quattro portieri atten-
dono, dietro di loro il reticolo dorato di caselle della posta per centi-
naia di stanze. L’hotel è stato riconvertito in miniappartamenti, la
reception mantenuta. La quantità di vita in esso racchiusa è leggibile
dal nu­mero di caselle lasciate a vista dietro al bancone dove si depo-
sitano le buste che il postino consegna. Il loro ordine è diventato un
con­trosenso, non marcano più ambienti transienti ma mondi privati
stabilizzati. A volte si crea dell’imbarazzo a causa del controllo indi-
retto della privacy. La vita dietro le porte degli appartamenti è imper-
scrutabile ma uno sguardo alla reception è forma di registrazione
visiva, la casella piena di buste o svuotata con regolarità indica la
frequenza di chi è presente tra le mura domestiche. La hall continua
sul lato destro del bancone. C’è un accesso secondario dalla strada
laterale, un andito dove si aprono le porte di tre ascensori. Esso sfugge
al controllo della reception e accede direttamente ai piani superiori:
una volta era destinato ai facchini che scaricavano le valigie.
Sosta a uno dei livelli superiori, uno stretto corridoio assorbe i rumo-
ri con la moquette. I muri sono color bianco crema, il soffitto è in
formelle di metallo stampato. Tutti gli elementi appaiono ridipinti più
volte e i contorni arrotondati si sciolgono uno nell’altro. Riduzione
delle linee, scomparsa dei margini. La distribuzione degli ambienti
non ha direzionalità precisa, la parete trasla nel soffitto, il pavimento
sembra un piano immateriale, le aperture non forano i muri. Ci sono
diversi incroci di corridoi che sembrano portare a diverse ali dell’e­
dificio con piccoli gruppi di stanze. L’orientamento è perduto quando
si percorre uno di essi, sembra più lungo del previsto e incrocia ulte-
riori biforcazioni laterali. Non ci sono finestre ma solo piatte luci a
soffitto che rendono tutti i percorsi identici, paralleli, pervasivi.
L’ortogonalità degli incroci produce il disordine con lo strumento
dell’assoluta regolarità. Un impianto razionale si dispiega senza con-
clusioni, privo di gerarchie, l’occhio ne scorre tutte le possibilità ma
non arriva da nessuna parte, si trova a ripetere le stazioni oltrepassa-
te perché non si accorge che le ha già percorse. Mentre il reticolo di
strade all’esterno si integra con la differenza degli edifici, l’omogenei-
tà totale di questa geometria racchiusa moltiplica il disorientamento.

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Porte con numeri sovrastanti si succedono in piccoli insiemi accosta-
ti da logiche non consecutive. Sembra che manchino delle sequenze
numeriche e si ha l’impressione di aver mancato una svolta, di non
aver visto una possibile estensione laterale. La razionalità dell’ango-
lo retto e del numero diventa mappa dell’indefinito, costruisce un
anti-insieme e si dispiega in direzioni sempre aperte. Una moltipli-
cazione delle possibilità senza riferimento, un caos seriale, un labi-
rinto di ripetizioni circoscritte. L’ordine astratto non costruisce quello
fisico, non corrisponde a esso. Il corpo che percorre i corridoi si perde
nell’astrazione resa distanza, in cannocchiali che non proiettano in là
ma ripiegano su se stessi. La mente disorientata si lega al ricordo,
alla dimensione dell’edificio, questi corridoi ne dovrebbero descrive-
re l’area occupata. Tuttavia sembrano intraprendere un percorso più
lungo del previsto. Sorge il dubbio che ci sia un altro luogo, un resto
incommensurabile nascosto nelle pieghe dell’isolato urbano. L’identità
dei corridoi e il mistero delle porte chiuse fanno pensare che i mon-
di paralleli che si aprono su di essi possano essere intercambiabili,
potenzialmente differenti. L’hotel diventa l’attesa di un’altra città im-
plosa all’interno dell’isolato ma essa non arriva mai e ci si perde a
immaginare cosa c’è dietro alle porte.
L’unica identità riconoscibile a ogni piano è la porta dell’ascensore.
Ritrovarla dopo un lungo percorso è un apparente sollievo. Salita agli
ultimi piani, erosi dal setback, l’ermetica opacità dei corridoi è violata
da improvvisi squarci con finestre nei punti dove il volume edilizio è
stato rimosso dall’arretramento. Gli appartamenti hanno terrazze che
si affacciano su altre terrazze. Ogni abitante guarda la vita in esterni
dei livelli inferiori senza essere visto. Le pavimentazioni esterne sono
personalizzate, qualcuno mette dell’erba artificiale e allude a un
giardino pensile. C’è un’esplosione di differenze nella privacy di ogni
terrazza visibile da chi, nascosto, la guarda. Il peep-show compensa
l’opacità dei corridoi, anche se, anche qui, non c’è mai incrocio di
sguardi e uno spazio condiviso è comunque negato. Sulla sommità
dell’edificio, le torri dell’acqua sono comprese in un’unica struttura,
una loggia che si affaccia su di un tetto comune. Questo sembra più un
nascondiglio che un luogo dominante, si è soli e non si è accarezzati

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dallo sguardo di chi ci osserva, il sottostante esibizionismo è eliminato.
L’ascensore ritorna giù nello scantinato dove i magazzini dell’albergo
occupano due interi livelli sotterranei. Un mondo oscuro per coloro
che vogliono raggiungere la laundry. Anche qui corridoi vuoti e svol-
te a novanta gradi senza aperture possibili, i muri sono punteggiati
di aperture murate, le soglie sono negate. Il sottosuolo è una sala
macchine che alimenta il mondo proteiforme racchiuso nell’edificio,
una zona imperscrutabile, si odono rumori ma il meccanismo è
inavvicinabile. Il superintendent che abita qui è il guardiano del se-
greto del basement. È una zona di confine, lo scantinato è prossimo
a reti sotterranee che servono la città e che scavano il sottosuolo vi-
cino, i muri tremano al passaggio della metropolitana. Assieme al
fragore ovattato si diffonde un calore dolciastro, un’emanazione del
movimento che traspira attraverso i muri divisori, una perdita termo-
dinamica che raggiunge il mondo domestico. L’edificio, l’isolato, sie-
de su un magma di infrastrutture che circuitano energia da un sot-
tosuolo verso canali verticali che salgono negli edifici: interstizi,
ducts, shafts, il funzionamento linfatico del blocco edilizio. Passaggi
nascosti, intercapedini dietro i muri creduti solidi, oltre le stanze che
si pensa di controllare. Altre cose si muovono lungo essi e penetrano
indistur­bate, nel quotidiano: flussi d’aria, sedimenti, malattie, scara-
faggi, topi. Poi i visitatori sfuggono via, nello stesso modo in cui sono
venuti. Lo spazio inscatolato cerca di arrestare gli interstizi trasver­sali
che oltrepassano le barriere, ma non può fare a meno di essi. L’hotel,
mondo della geometria e della sorveglianza, è in realtà permeabile:
tutto può traslare e uscire di scena.
New York 1989

Sovrapittura
Gli oggetti, i rivestimenti, i profili, formano la dura superficie di un
esterno che, dalle strade, penetra in ingressi, corridoi, scale, anditi. La
loro usura non è segnalata dall’abrasione ma dalla ricopertura del­
l’esistente con una nuova tinteggiatura senza che la precedente sia
rimossa. Vi è, da un lato, una defoliazione che rivela livelli di diverse

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pitture; dall’altro, ogni nuovo strato registra e mantiene la leggera
depressione superficiale delle abrasioni sottostanti. Le rende mono-
crome, puramente tattili. Spesso gli oggetti presentano, come ripen-
samenti, ricoperture di colori diversi fatte in rapida successione. Invece
di riprendere un colore esistente, lo si nasconde sotto una nuova
mano. L’ambiente cambia più velocemente di quanto si degrada.
In una città di manufatti formati da rivestimenti successivi, si crea la
percezione di una stratificazione di parti autonome, non di strutture
ma di fragili pellicole aggiunte. Non si deve ripristinare un’unità pro-
fonda che sta sotto le cose, ma solo un nuovo livello di nascon­
dimento e quindi si dipinge sopra quello che c’era prima. I profili di
legno negli interni si arrotondano in morbidi contorni irregolari, le
facciate di mattoni sono tinteggiate e poi si scolorano perché si ap-
plica la vernice anche dove essa non tiene, i profili metallici presen-
tano sfumature quasi acquerellate tra pittura e ruggine. A un certo
punto, le superfici in movimento raggiungono un livello di sospen-
sione della durata, non si sa più se stanno decadendo o sono in uno
stato di perenne rimaneggiamento. Sorge il dubbio se la sovrapittu-
ra serva a risolvere le cose o a mantenere un incerto equilibrio tra
distruzione e mutamento. Il durante e il dopo sono compresenti in
una metamorfosi prolungata all’infinito. Il non rimuovere il sotto è
intenzionale, coprire vuol dire accettare che, nel rimesso a nuovo, c’è
la traccia di molti inizi e di nessuna fine, un segno impercettibile ma
presente, lo si tocca con mano. Accarezzando una superficie di nuova
tinteggiatura si scoprono comunque le depressioni dell’usura di
quella precedente. Una cultura industriale avanzata potrebbe can-
cellare tutto, chiudere il cerchio. Invece, siccome è transiente, essa
sposta l’interesse sui manu­fatti in un tempo più veloce del loro com-
pleto ripristino. Basta un’altra mano a dare una nuova faccia e
questo non cancella le tracce del precedente, semplicemente ag-
giunge il nuovo, la maschera istantanea, il trucco sopra il trucco. Il
nuovo contiene la dissimulazione del vecchio ma anche la sua rive-
lazione, lo si ritrova immobilizzato sotto l’ultimo strato. La superficie
crea la sorpresa del rinvenimento della pellicola sottostante, di un
tono e di una lucentezza inaspettati. Un colore può contenere tutti

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gli altri, non si mischia con essi ma li copre con una velatura. Il tono
è solo superficie, la profondità è differenza, il substrato sono tante
pelli o forse tanti toni di una stessa pelle. Sovrapittura piatta ma
anche:
– morbida sul profilo di oggetti sfigurati dal suo spessore irregolare,
– nuvolosa nelle variazioni d’intensità,
– fugace come una meteorologia degli immobili, delle loro stagioni
d’uso,
– infinita come un era mitica che inizia e non si conclude mai.
Questa città è da rivedere più volte: scolora e rinasce in continuazione.
New York 1989

Luna Park
La metropolitana corre prima sottoterra, poi risale gradatamente ma
rimane in trincea. Prossima al capolinea affiora completamente e poi
si eleva su di un viadotto. Il quartiere è formato da case a schiera di
due o tre piani di legno e mattoni, il treno corre più in alto di esse.
Solo in prossimità del capolinea vi sono condomini multipiano alli-
neati lungo la linea della costa. Un grande boulevard corre parallelo
ad esso, separa la zona residenziale da un luna park che si affaccia su
di una passerella di legno per i bagnanti. Durante il viaggio si passa
da sotto la città, a un cuneo che la taglia per finire sospesi in aria.
L’itinerario sembra procedere verso la separazione e il luna park è il
terminal di questo territorio alieno. Quasi tutte le attrazioni si alli­
neano lungo il boulevard, basse strutture sono schiacciate dalle loro
insegne, chioschi, giostre, diners. Più in là, oltre al commercio su
strada, c’è una sezione con le grandi strutture. Sono poste ortogonal-
mente alla spiaggia e inframmezzate da grandi lotti a parcheggio.
La passerella di legno cancella il mare all’altezza dell’occhio, le barac-
che con i chioschi volgono le spalle a questa zona. Ci sono tre grandi
mon­tagne russe, una di loro è abbandonata e il suo telaio si erge tra
le erbacce. È costruita in montanti di legno tutti della stessa sezione
che formano intrecci aerei per sostenere il binario. La stessa unità
segue una legge frattale quando si somma a formare vertici e dossi

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infinitamente variati. Anche se grezza e squadrata, si dissolve in cur-
ve continue. La montagna russa è una struttura eccessiva che quasi
nasconde quel che supporta – quel piccolo binario – ma parallela-
mente ne permette la levitazione. Successivi reticoli di legno si so-
vrappongono e schermano la vista del sole, del mare, del resto del
parco. Anche l’immagine delle montagne russe è esagerata perché
non termina mai: la sua estensione non ha inizio né fine, è un nastro
continuo che si dispiega per coloro che viaggiano. La gabbia ondeg-
giante racchiude un’area interna, un recinto. Le forze sono centrifu-
ghe ma il viaggio è risucchiato in un gorgo artificiale. Il centro tutta-
via è vuoto, uno spiazzo inutilizzato: le montagne russe qui inter-
rompono lo sfruttamento intensivo del suolo e la razionalità delle
lottizzazioni. Le altre giostre hanno elementi tecnologici più evidenti,
braccia meccaniche colorate che agitano dischi volanti nel cielo. Le
loro strutture sono minime e non espansive, i supporti delle cabine
si ritirano sempre nel fulcro. Non costruiscono impalcature per salire
verso le nuvole, non hanno il senso di rovina dei castelli in aria.
Lontano, all’orizzonte, c’è la torre dei paracaduti, un ricordo dell’Expo
del 1939. Un telaio reticolare metallico a forma di cono culmina in
un ampio ombrello, la gente si buttava da esso attaccata a dei fili che
ne arrestavano la caduta a pochi metri da terra. È stata chiusa perché
ritenuta pericolosa e ora i fili ondeggiano al vento. Il sole tramonta
dietro alle sue travi, imprigionato in una gabbia svuotata. Anche
nella torre vi è un disequilibrio tra elaborazione strutturale e reale
impiego, montagne russe e piattaforma sono costruzioni inutili, strut-
ture che diventano monumento della propria sublime artificiosità.
Non è un caso che questo eccesso avvenga in un luogo di diverti-
menti e tuttavia non fa parte dell’intrattenimento, è qualcosa che
rimane dopo di esso, anche nel vuoto del mare invernale, anche
nell’abbandono dell’estate. La passerella di legno vede le prue delle
montagne russe ormeggiate lungo a essa, è un piedistallo per guar-
dare il mare e un palcoscenico per essere visti dalla spiaggia. Sotto di
essa i ragazzini si nascondono nell’ombra segnata dalle righe di luce
che passano tra le assi di legno. Altri piccoli chioschi con bar e gela-
terie sono allineati come cabine sul suo ponte infinito. Varie scalinate

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connettono la passeggiata alla spiaggia e al parco, è la soglia d’in-
gresso al mare. Di notte, luci elettriche danzano sul boulevard, inse-
gne, ruote, profili formano un orizzonte in movimento. Le cortine dei
condomini limitrofi rimangono spente e il luna park è un’isola sgar-
giante in una città al buio o, almeno, così sembra. Lo strip di baracche
con i chioschi sembra vivo perché illuminato ma la vita del quartiere
si svolge nel silenzio delle case, nella città invisibile. Il luna park non
si espande, non va oltre certi limiti e, anzi, pare si sia ridotto negli
ultimi decenni con il degrado del quartiere circostante e la sua occu-
pazione da parte di etnie povere appena arrivate in città. La spiaggia
attira ancora molte persone ma esse arrivano da fuori, da un altro
mondo. Lo scorrere della vita in questa parte di città, la demolizione
di parti del tessuto edilizio, l’esistenza nelle case, le stagioni della
spiaggia, giorno e notte nel luna park, la domenica al mare, la sera
fuori, la durata di un giro alle giostre. Animazione, morte, immobili-
tà, intensità, abbandono, distruzione: diversi tempi si incrociano in
questo luogo ma non sembrano tra loro compatibili. C’è una sincerità
in questo effimero, nel divertimento delle giostre, nella vacanza in
spiaggia, nel viaggio sulla luna artificiale, nell’ostentazione delle
strutture abbandonate. Hanno durate riconoscibili che resistono
all’invisibile sostituzione della città che sta loro appresso. Perché ci
vuole l’intrattenimento per vederle? Perché il parco è un’epifania?
Perché il divertimento del passato lascia scheletri di montagne russe e
quello odierno se ne va? Perché c’è bisogno di tracce ai margini della
città che si è trasferita altrove? Forse perché quell’altrove è qui, nel­
l’immaginazione spontanea che ha creato e poi abbandonato queste
strutture. Il luna park offre la scelta di stare dentro o di rimanere
fuori, di uscire dai segni e ammirarne la parte nascosta. Le strutture
che supportano lo spettacolo acquisiscono più importanza del fronte.
Il retro, il vuoto, il telaio, l’interstizio, il recinto inutilizzato, il parcheg-
gio, il sotto della passerella, i lati nascosti del rito pubblico diventano
luoghi attraversabili. In quanti altri quartieri c’è stato un tale spreco
di spazio e, nella pianificazione dell’intrattenimento, si è previsto un
luogo appartato per persone sconosciute? Gli intervalli sembrano
elementi costitutivi, crescono nel tempo grazie all’abbandono.

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Questo vuoto non è casuale, lo si conosceva, lo si era previsto. C’è
stato bi­sogno delle macchine da divertimento per misurare le di-
stanze dell’abbandono. La cancellazione non è stata possibile all’in-
terno del luna park.
Coney Island, New York 1988

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Rustbelt

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Demolizione
Una sezione del downtown, non c’è più commercio o manifattura, i
giganteschi magazzini sono stati lasciati vuoti e stanno cadendo a
pezzi. Solo tre o quattro sono rimasti ancora in piedi, distese di pila-
stri e solai, volumi isolati l’uno dall’altro, poche strade li lambiscono.
Il territorio in mezzo è occupato da binari e terreno incolto. Cos’è
questa zona di nessuno? È solo la divisione dei lotti fondiari, l’urba-
nistica che viene prima dell’architettura, indifferente al fatto che ci
siano strutture o no a riempire i perimetri. La lottizzazione rimane,
gli edifici nascono e muoiono, non durano mai. È l’efficace pragma-
tismo di una città che sostituisce gli involucri quando non sono più
necessari.
Il vento soffia, un grande viale punta verso nord, i marciapiedi sono
deserti. Alcuni edifici sono rimasti affiancati, un magazzino color
giallo ha nervature gotiche che terminano in foglie di terracotta
verde e rossa. Le finestre, enormi, hanno gli infissi che dividono le
vetrate in reticoli. La facciata simmetrica si articola in una serie di
parallelepipedi che arretrano in altezza, ma è solo sul fronte: i lati
sono completamente spogli. L’immagine è applicata al contenitore
solo dove è visibile, nella sezione che si affaccia sullo spazio pubblico.
L’edificio è fatto di parti discrete con ruoli diversi, accomunate solo
dal compito di definire la massima capienza fondiaria con volumi
sommari.
Diverse fasi di demolizione hanno isolato questo e altri due tre edifici.
Dall’altra parte della strada c’è un parallelepipedo di mattoni scuri con
poche finestre ornate da una cornice bianca. Era forse una manifattura

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con relativi uffici: il fronte stradale è in piedi ma il coronamento è
già interrotto a tratti. Le aperture e una scritta sul muro laterale
sono semi-cancellate. Silenzio, sottolineato dal vento che si inca-
nala nelle interruzioni tra i blocchi edilizi. Si odono dei colpi inter-
mittenti, una gru fa cadere una palla di metallo sui muri a intervalli
regolari. Il retro non c’è più, l’edificio è tagliato precisamente in
sezione con spessori murari in evidenza e gli ambienti interni sono
proiettati sulla strada. Enormi frammenti di intonaco rimangono
sospesi su ragnatele di ferri di rinforzo. La scatola aperta mostra una
proliferazione di ambienti contenuti in un unico involucro e reci­
procamente segregati, la demolizione li accosta per la prima volta.
Il rumore di materiale compresso che si sbri­ciola, l’apertura di pas-
saggi tra universi paralleli: ecco la metà di una grande sala con
controsoffitto a volta, forse l’aula principale o un laboratorio, poi
stanze rivestite con piastrelle di colore diverso e passaggi interni
ciechi. Sull’attico, enormi travi reticolari aggettano su un altro
ambiente largo quanto l’intero edificio. Ogni comparto sembra un
universo in sé forzato all’interno del perimetro. Contenitore contro
contenuto, uno contro molti, molti dentro uno: quel che c’è fuori
non riflette la complessità interna, non dice che c’è un’altra città di
luoghi diversi racchiusa dentro agli edifici. Le stanze si muovono,
cambiano senza influenzare quelle contigue, scompaiono, ricom­
paiono altrove. Schizofrenie funzionali, non sequenze, ma compre-
senze di spazi.
Il colore del tutto è un rosso scuro, quello di uno strato di ruggine,
alcuni muri sono anneriti. Le travi d’acciaio emergono ai piani supe-
riori, divelte, piegate verso il cielo, non portano più peso. I solai sono
caduti ai piani inferiori e rimangono accatastati l’uno sull’altro. La
palla colpisce, una pioggia di detriti cade tra i livelli. Su, tra le travi
di copertura si intravede il cielo, piccole nuvole attraversano gli
squarci. Nella demolizione di queste strutture non c’è visceralità: se
anche si scoprono le interiora, non c’è un corpo unitario ma solo
membrane successive. I diversi strati di materiali rimangono distinti
anche nella distruzione e rivelano che questo tipo di costruzione è

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un montaggio di parti specializzate, struttura, tamponamento, isola-
mento, rivestimenti interno ed esterno, altri mondi contigui. Non c’è
rovina monolitica, non c’è l’erosione di un’unità, non c’è gradualità
che misura il passare del tempo con una sequenza. Vi è solo un
insieme di disfacimenti paralleli, parcellizzabili con un processo ana-
litico che si può interrompere a qualsiasi stadio. Gli edifici sono invi-
sibili perché non raggiungono un’identità ma solo un elenco di parti
discrete. Scompaiono ufficialmente solo quando va giù la facciata
applicata a posteriori, l’ultimo livello. Prima di allora possono vivere
una vita fantasma con altre sembianze, i cambiamenti non lasciano
tracce. Coesistenza di durate diverse: il silenzioso background senza
storia, le facce reversibili, il mutamento continuo che disfa l’edificio e
lo rifà, l’eternamente nuovo e il continuo abbandono. Poi, a un certo
punto, crolla tutto e bisogna erigere una nuova struttura. Modifica-
zione e scomparsa sono due facce della stessa efficienza.
La demolizione è il momento che apre i diversi spazi ma anche i
tempi e li proietta per la prima volta l’uno sull’altro, è epifania ma
anche stupore per la non riconoscibilità di quello che si incontra.
L’estensione dell’edificio è dominata dalla legge della contiguità.
Essa si misura in contenitori i cui confini definiscono funzioni chia-
ramente delimitate ma non relazionate l’una con l’altra. Gli ambien-
ti nulla ci dicono di come gli usi occupano lo spazio, conta solo la
sua estensione. È il mistero della massima specializzazione all’inter-
no di involucri assolutamente generici. La demolizione è una catar-
si im­possibile, c’è sì l’orrore di scoprire per la prima volta tutto l’in-
sieme ma questo non rivela alcuna verità se non che si può convi-
vere con l’altro senza accorgersene.
Alcune persone guardano l’enorme buco nel retro dell’edificio e l’a-
zione della palla, il consumo della città è esibito senza problemi. L’ap-
propriatezza di una faccia duratura non conta, il rudere è spettacolo
di uno scambio di energia. L’urbanizzazione procede per salti tempo-
rali riuniti nella demolizione. Dalle durate parallele si passa al nodo
distruttivo che le fa scontrare e, accelerato, giunge immediatamente
al nulla. In fondo, l’esibizione della molteplicità non lega le storie

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parallele, le disgrega e basta. Si consuma il presente per fabbricarne
un altro, probabilmente identico.
Dietro alla demolizione si intravede un edifico bianco. La torre del­
l’acqua forma uno ziggurat sulla sommità. Agli estremi del coro­
namento, quattro piedistalli cubici sorreggono delle urne. Al centro,
vi è un tempietto circolare con cupola. Il tutto senza dettagli, una
graduale sequenza di volumi proporzionali sottolineata dalla luce.
Sembrerebbe un non finito perché estremamente semplificato. La
demolizione oscura si accompagna a una purezza accecante, lo
sguardo è disturbato dal bianco che affiora tra gli squarci, la polvere
è spinta dal vento.
Philadelphia, Pennsylvania 1992

Detroit Radiale
Le strade, sempre diritte, si intersecano a sessanta gradi formando
incroci a forma di stella. Se esse sono affiancate da un fronte con­
tinuo di edifici, la compressione spaziale in un tunnel urbano è
garantita. Gli incroci tuttavia negano l’abitudine di relazionare l’o-
rientamento alle solite quattro direzioni: fronte, retro, destra e sinistra.
Molteplici angoli si estendono da questi punti e spingono fuori
asse. Attraversarli implica non tre ma cinque direzioni possibili; le
strade sembrano estendere ogni impercettibile rotazione del volante
e del corpo/automobile che si muove tra di loro. Non canalizzano
l’andamento ma sembrano rispondere a esso. Ogni isolato è una
ridda di possibilità, un centro di proiezioni centrifugo dove si viene
attratti verso troppe opzioni possibili. La geometria radiale crea
smarrimento non solo in questa manifestazione locale, ma nel con-
fronto con le altre città ortogonali. Improvvisamente si lega a esse
nel disorientamento, nel non ritrovare quello che ci si aspettava.
Provoca un procedere attento, una ipersensibilità a cui questi con-
glomerati urbani non avevano preparato perché si pensava che
fossero ovunque uguali. Detroit non è dunque ubiqua ma dramma-
ticamente solo qui. Negli ultimi anni la depressione economica,

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l’abbandono e le demolizioni hanno distrutto i muri che definivano
le strade, l’impenetrabile parete che garantiva la direzione e mate-
rializzava la maglia radiale come un’estrusione tridimensionale di
un astratto disegno territoriale. Il retro degli isolati viene alla luce ed è
immediatamente proiettato sulla strada con muri tagliafuoco, cavedi,
corti, superfetazioni, alleys, il tutto inframmezzato da parcheggi. Lo
spazio, il vuoto, si arresta su sofferte riduzioni. Si scopre che la spina
dorsale nascosta degli isolati, i singoli lotti, non osservano la geo-
metria radiale. Altri ordini sono rivelati, una distribuzione ortogo-
nale che provoca accavallamenti edilizi con i fronti angolati e un
inserimento di strutture aggiunte negli spazi retrostanti. Ci sono poi
altri segni alla scala territoriale, grattacieli e grandi edifici, un tempo
inseriti in un continuum di strutture intermedie, stanno da soli
presso gli incroci. Se formavano relazioni focali con precise direzioni,
ora sono sempre lì, stabili e assenti allo stesso tempo. La loro plani-
metria, basata sulla geometria radiale, ha forma a losanga, a trape-
zio, a cuneo ma sempre con due facciate finestrate e tre cieche.
Queste ultime, un tempo adiacenti ad altre strutture, sono ora visi-
bili a miglia di distanza. Non c’è più connessione tra allineamenti
stradali ed elementi verticali, essi presentano enigma­tiche sfaccet-
tature e più muri ciechi di quello che ci si aspettava. Le torri ango-
late, quelle che sono diventate torri angolate, possono essere circo-
scritte rivelando nuovi fronti. Il mistero di oggetti inesplicabili che
ipnotizzano invitando a un’esplorazione per capirne l’orientamento,
l’assenza di fronte e retro, la perdita di linee che leghino le facciate.
Il dialogo tra questi totem senza volto è enigmatico, la maglia radiale
è scomparsa dalle strade ed è stata assunta da questi prismi sboz-
zati, da rimozioni di originali parallelepipedi pieni.
Una nuova metropolitana sopraelevata attraversa il downtown: nega
gli accidenti del terreno e sorvola gli edifici senza direzione prefissata.
L’orientamento è smarrito di nuovo e frammenti isolati appaiono
inaspettatamente. Questo è l’unico downtown completamente
abbandonato. Magazzini, uffici, negozi hanno tutti le finestre chiuse
da assi di legno. Le pareti non riflettono nessun cielo, edificio o

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persona, la strada non è permeabile. La sopraelevata sorvola una
città murata dall’interno dove l’ossessione per la difesa è stata meta-
bolizzata e ed è divenuta struttura portante, capillare, persino
nascosta. Ora le strade sono il fondo di una valle cieca che gli uomini
devono occupare per la prima volta e attraversare a loro rischio.
Capanne di rifiuti e falò di homeless abitano gli incroci, la metropo-
litana passa in alto per non toccare tutto ciò. Fuori da questo centro
si estendono dieci miglia di sobborghi residenziali anch’essi com-
pletamente abbandonati. I cristalli violati del downtown radiale si
stagliano nella lontananza, sono catapultati alla scala geografica.
Non c’è più differenza tra strada e skyline, lo svuotamento si pre-
senta come un tutto, il terreno pianeggiante non consente alcuna
differenziazione.
Non è possibile leggere un tale dato di fatto come immediato, l’ab-
bandono si deve essere evoluto per arrivare a questo punto. Eppure
tutto sembra così immobile, il fotogramma di un evento già avvenuto.
Che cosa vuol dire il tempo in una città dove esso sembra essere
arrestato o eroso nel suo funzionamento? Consumo e abbandono,
di­struzione definitiva senza sostituzione, non c’è né cambiamento
né evoluzione. I frammenti rimangono lì e non invecchiano (almeno
apparentemente). Non accumulano segni del tempo: se si deterio-
rano, lo fanno in maniera nascosta, per parti discrete e mai come
insieme. Resti duri, murati, immobili, inesplorati, non si potrebbe
neanche dire che sono svuotati perché non li si può penetrare, la
paura della violazione del privato vive in questi involucri inutilizzati.
Non c’è durata, né evoluzione, né memoria di tempi con funzioni
diverse ma solo l’alternativa di uso o non uso, entrambi immediati,
immutabili, definitivi. La città, dopo aver sfruttato i suoi edifici e
quartieri, si sposta e costruisce città parallele a fianco della prima
parte ormai svuotata. Dieci miglia di quartieri residenziali diruti e
poi la suburbia abitata, l’altra città che fa sì che questo centro si
dica vivo, anche se è completamente deserto e vive sul suo anello
esterno. Tuttavia l’usa e getta di intere porzioni urbane non riesce
a cancellare quel che si lascia dietro, resti grandi come quartieri.

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La città che consuma se stessa produce un eccesso di scarto più gran-
de di quello che fa crescere, una mostruosa massa di detriti senza
memoria. Sono inesplicabili come i prismi isolati, creano una disca-
rica artificiale che però è l’unica a mantenere frammenti di rappre-
sentatività contro la dilatazione senza senso dell’urbanizzazione
esterna. L’intersezione delle strade a stella è ancora più inesplicabile
in mezzo a frammenti che aprono squarci alternativi. Una città di­
laniata proiettata su una città/retro che proliferava in silenzio.
All’opposto dell’estensione lineare dei fronti, quest’ultima era densa,
senza respiro. Ora si affaccia sulla strada e l’ombra del vuoto disturba
la solare geometria degli allineamenti territoriali che non reggono più.
Detroit, Michigan 1992

Quartiere
Non ci sono solamente il centro finanziario e i quartieri suburbani
recenti. Una fascia è schiacciata in mezzo, la città giardino storica, de-
gradata, già consumata, abbandonata ai poveri, soggetta a rimozioni.
È un interstizio urbano dominato dallo slumlord che stravolge le
case esistenti per riempirle di più abitanti diversi, di solito etnie
appena giunte o minoranze esiliate in questo nuovo ghetto. Le
architetture divengono involucri straniati, capaci di essere suddivisi
da unifamiliare a collettivo, sorta di alberghi lasciati consumare dal-
la vita transiente che li attraversa. Non sono mantenute per essere
continuamente evacuate, sono tappezzate con rivestimenti aggiun-
ti alla meglio e percorse da più corridoi che ne ritagliano l’interno.
L’etnia e la religione di persone spodestate occupano gli interni
delle case, anche se dalla strada non si vedono. La domesticità, dila-
niata dallo sfruttamento, si accampa internamente in stanze segrete.
Il ghetto residenziale oppone una faccia esterna diruta ai riti nasco-
sti dell’occupazione spontanea. Interni inconoscibili e traslazione
delle stesse caratteristiche di casa in casa, gli edifici sono riflessi di
una doppia identità, pubblica e privata. La neutralità degli ambienti
ospita un’altra domesticità, la vita di un luogo importato e comunque

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diverso da uno spazio pubblico mascherato dalle convenzioni e
degradato dallo sfruttamento. La genericità dell’involucro edilizio non
è in contraddizione con la specificità di una cultura immigrata, è anzi
risposta pragmatica all’occupazione temporanea. La vita è nomade,
esiliata e celebra i suoi riti in case dove può solo accampare. In più,
qui è offerta la dimensione nascosta, il massimo anonimato che
ospita l’altro, l’esotico. In fondo, queste manifestazioni domestiche
non hanno luogo se non nell’immaginario che creano. Perché pen-
sarle in siti specifici? Si spostano in continuazione tra spazi in affitto,
emergono come apparizioni nei recessi di un quotidiano che è riaf-
fittato a chiunque.
La quotidianità del quartiere è profondamente legata a eventi di gruppo.
Nonostante il degrado imposto e i segreti interni, si svolge nell’at-
tesa trascorsa insieme, il segno dell’immobilità della disoccupazione.
I vecchi bungalow di legno sono anticipati da ampli portici, qui si
svolge il teatro del quartiere: all’ombra, sulle panche, su sedie a
dondolo, sugli scalini, sui marciapiedi si affollano persone che non
fanno nulla. La cura delle automobili è antidoto per l’attesa. Il rito
del lavaggio su strada diviene performance pubblica. L’auto splen-
dente si contrappone alla casa diruta, il veicolo truccato è l’unico
controllo in mano ai dispossessed, le cui dimore sono modificate da
altri. L’officina in strada è la meccanica delle opzioni possibili contro
l’inattività che inchioda nel quartiere.
I neighborhood shops sono caleidoscopi di oggetti diversi accumu­
lati lì quasi per caso. Il concetto di convenience store è trasversale,
apre a un commercio che evita le specializzazioni e si dilata nel
bazar, nell’altare voodoo ma anche nello spaccio di frontiera o nella
prigione. Questi negozi sono gabbie protette dove, per sicurezza, i
clienti rimangono fuori e un unico commesso sta asserragliato den-
tro e, spesso, è armato. L’acquisto impone di non oltrepassare una
soglia, di parlare dietro a un vetro e di deporre banconote in un
cassetto mobile. I negozi diventano centri di pellegrinaggi che si
estendono sulle strade, aggregazioni di necessità. Esistono anche
piccoli supermercati alimentari all’ingrosso, dove sono accumulati

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i prodotti della cucina povera, il soul food. Le vasche refrigeranti sono
piene di sacchi con pezzi di carne di scarto surgelate in serie: cosce,
orecchie, guanciali, frattaglie, pezzi di pelle, interiora. È un gabi-
netto anatomico di massa, il paradosso dello scarto impacchettato e
conservato, quasi un analogo della condizione del quartiere. Questi
negozi hanno spesso prodotti che non si trovano in altri posti, in essi
è rotta la catena della grande distribuzione.
Ritorno a casa: ci sono due vie, quella della strada frontale e quella
retrostante. Il paesaggio della alley offre una lettura alternativa del
quartiere, un canale privato all’interno dei lotti, una veduta sui retri
dove la frammentazione delle additions è maggiormente evidente.
Mentre sul fronte le case mantengono un’impenetrabile unità, sulla
alley esse mostrano le parti diverse di cui sono fatte. Gli edifici si
proiettano in ampliamenti, duplicazioni, filiazioni e appendici ma
solo sul retro. La rioccupazione plurima degli ambienti è legata a un
approccio frammentario, fare e disfare si intrecciano, non finito
equivale a non crollato e quindi proliferano gli elementi instabili. Vi
è un eccesso di trasformazione non controllata e senza autore nasco-
sta dietro le case, un disfacimento indotto dalle persone che vi
abitano. Vivere gli interstizi implementa livelli di storie inattese
nelle pieghe dimenticate della città.
La moltiplicazione delle case è una possibile fine, la scomparsa un
altra, il frutto della demolizione totale, dell’assenza impartita da un
consumo senza resoconti. Gli empty lots mantengono solo l’im-
pronta, il muro di fondazione degli edifici. Gli spazi diventano area
neutra, natura incontrollata, pianeta di detriti, piattaforma di asfalto.
Si aggiungono nuove forme di delimitazione, barriere di reti metalliche.
Il quartiere assume una nuova geografia della paura indotta dell’os-
sessione di circoscrivere la povertà, di isolare i gruppi in enclàves
protette. Confini arbitrari ridividono i lotti, sono zonizzazioni mutanti
che crescono nel tempo. La presenza del cambiamento si rileva dal
confronto dello stesso tipo di strutture in aree diverse e non dal­
l’apparizione di nuovi edifici. La misura del degrado, la densità del­
l’occupazione, l’estensione dei recinti, questi sono i parametri del

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quartiere. Le case sono espressione di una città che non costruisce
più e che consuma un hardware preesistente. Nell’urbanità che
cambia vi è la permanenza del degrado di questi quartieri, la mera-
viglia di scoprire che l’abbandono è un lavorio perenne.
Kansas City, Missouri 1995

Natura in Città
La natura è primigenia, è un’esperienza solitaria, è il guardare il crea­to
per la prima volta, è la possibilità di spaziare su un orizzonte sgom-
bro, di andare sempre oltre. Sintetizzata e ridotta ai minimi termini,
ha creato la città giardino, la sintesi del lotto individuale in serie.
Tuttavia deve rimanere una qualche traccia collettiva della wilderness
rousseauiana. Ecco quindi il City Beautiful, il Park System, le Parkways,
corridoi di natura informale che serpeggiano nel reticolo urbano,
escludono la città e offrono un punto di vista su un paesaggio incon-
taminato per il jogger e l’automobilista di passaggio. Questo terri­
torio primordiale rimane monumento di grandeur civica anche
quando la città attorno decade economicamente. Il quartiere diventa
ghetto, zona murata, pericolosa, un’altra wilderness impenetrabile.
La città/estensione si rifugia in enclàves che si richiudono in se
stesse. La parkway rimane e alla natura progettata con i dettami del
Pittoresco, si sovrappone quella spontanea che cresce nelle aree
abbandonate, cancellando i punti di vista privilegiati. Siamo arrivati
oltre i limiti del landscaping che fa da zona cuscinetto della subur-
bia: la parkway è diventata un’entropia naturale, era stata creata
artificialmente per controllare lo sviluppo e ora riconquista tutto in
modo casuale. La sua indeterminatezza è la nuova natura urbana,
l’intervallo che divide la città.
Il disfarsi del quartiere rompe la gerarchia di strada/fronte e retro/alley.
Tra le smagliature degli empty lots risultati dalle demolizioni, cre-
scono vegetazioni e percorsi alternativi che sezionano la città tra le
barriere che essa ha creato. Una natura opaca, una macchia densa,
abita i quartieri. Non ha direzione, non ha distanza, non mostra

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dove si va, non può essere rappresentata. La si attraversa tattilmente
con i piedi che avanzano, con le mani che cercano, con i rumori che
filtrano, con le sovrapposizioni delle stagioni vegetali, con la deca-
denza delle strutture. Vicino alla freeway, sotto enormi cartelloni
pubblicitari, c’è un luogo simile, un tasca di natura dove rimangono
solo i perimetri delle fondazioni delle case su un terreno che non ha
più strade e marciapiedi. La giungla urbana è abitata da bushmen
senza casa che si nascondono nelle sue pieghe. Contro la razionalità
del reticolo regolare di strade, c’è una città partizionata che rimane
nascosta. È il ritorno della colonia spontanea, di un’appropriazione
che esisteva all’inizio come promessa nell’insediamento di frontiera
ma è stata rimossa dalla speculazione. Riappare silenziosa nel cre-
puscolo urbano delle zone abbandonate, inframmezzata a luoghi
cintati che non la guardano.
La città poggia su fragili fondazioni. Il suolo è difficile, scosceso, friabile.
Gli edifici sorgono sull’orlo di discontinuità naturali ma anche create
dal taglio delle strade che va contro la vena del terreno. Geologia
vera e indotta si sovrappongono, quella che si oppone all’antro­
pizzazione insieme alle nuove discontinuità delle infrastrutture.
Trincee ferroviarie incolte, corridoi industriali, depositi sotterranei,
bacini e canali, viadotti dismessi. L’esposizione diretta della geologia
come traccia della natura è in parte intenzionale, in parte risultato
della fretta di costruire, in parte conseguenza incontrollata. Resto di
natura e resto di costruito, orografia artificiale e rischio di erosioni,
frane o alluvioni. La città è sull’orlo di un abisso che essa stessa ha
creato, un sommovimento che affiora a tratti, un’energia liberata da
scavi, accumuli, canalizzazioni. La geologia è forzata a seguire il
ritmo dell’urbanizzazione, la dispersione degli interventi produce
fondazioni incerte. La città non è solo un accampamento ma la sab-
bia mobile che sta sotto a esso.
Kansas City, Missouri 1995

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Oscurità/Contenitori
L’oscurità e l’opacità sono assunte nei mattoni e nel loro continuo
ricorrere. I mattoni sono incorporati in grandi edifici multipiano,
daylight factories, fantasmi dell’era industriale riutilizzati come
magazzini senza produzione; essi si ripetono identici in distretti
manifatturieri, macelli, aree ferroviarie. La parte di rappresentanza è
sul fronte strada, cornici, decorazioni, aggetti. I lati sono vuoti con
fronti dipinti, aperture arretrate nel muro, insegne scrostate, parole
enormi, la scrittura che prolifera sui muri. Nomi come ossessioni,
riferimenti ad altri luoghi, attività, imprenditori che non ci sono più,
nazioni d’origine. Porte chiuse, piattaforme di carico e scarico, pen-
siline, torri dell’acqua, telai reticolari che supportano insegne sul
tetto. Quando c’è il sole, i volumi sono descritti da zone d’ombra che
formano piani diagonali. D’inverno, grandi masse nere sfrecciano
sopra la freeway che attraversa i distretti abbandonati.
Le parole non sanno descrivere l’immagine, la realtà fisica sfugge
perché riappare ed è impenetrabile. Oscurità: la luce non passa attra-
verso queste strutture supposte trasparenti. Scatole, assi, accumuli di
merci abbandonate si affacciano alle finestre, formano un secondo
muro dietro l’involucro esterno. I vetri che illuminavano il lavoro
mostrano ora altri strati di magazzino, contenuto inerte e nuova
facciata opaca. Archeologia impossibile perché non ci può essere
reperto nel prodotto di scambio che è continuamente rimosso.
Spazi interni inaccessibili o attraversati indifferentemente, non c’è
mediazione. Spazi rioccupati, riempiti, scartati, lo spreco si deposita
dopo l’uso. I magazzini sono la riserva inabitabile della città, il luogo
che non si può possedere. Sfuggono al mercato stesso che li ha
creati con la loro incontinenza, tutto è ingerito ma anche espulso.
Contenitori come rimosso spiacevole, con loro ritornano l’occupa-
zione temporanea, il trasloco incessante, lo sfratto reso istituzione.
Non sono abitabili, né fisicamente, né da un senso. L’efficienza dello
scambio economico è qui resa estensione, misura, divisione.
Ora i contenitori sono utilizzati solamente per piccole porzioni al
piano terreno: sembra esserci vita sulla strada ma in alto le finestre

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sono barricate. L’eco del lavoro che una volta vi avveniva si rinchiude
silenziosamente all’interno. Il ritmo oscillante delle partenze e degli
arrivi resiste a qualsiasi appropriazione. Che cosa può abitare queste
strutture se esse erano state create per essere vacate continuamente?
Oggi sono riusate senza motivo, in segreto e a regime minimo. Le
piccole attività che si nascondono nell’oscurità rallentano il processo
di consumo della città iniziato quando le fabbriche fuggirono nei
green fields. Esiste un’architettura capitalista senza vita e senza uso,
lo scarto abbandonato riappropriato segretamente. I magazzini come
escrescenza del traffico commerciale, impronta senza segno. La loro
localizzazione in una maglia stradale indifferente, crea geografie
relative ma reali di distanze, densità, allineamenti. Questi segni
evidenti offrono l’unico orientamento possibile nella città svuotata,
sono tracce minime. Nella distanza, i magazzini misurano il vuoto
con le loro masse opache.
Kansas City, Missouri 1996

Vetrine
La vetrina informa l’intero edificio, il fronte rettangolare del piano
verticale diventa sezione del fabbricato e proietta la strada nelle
profondità dell’interno. Storefronts: sopra vi sono uffici o apparta-
menti con muri pieni; sotto, lo spazio commerciale pare eroso dal
flusso del traffico urbano. Un’unica finestra larga come tutta la fac-
ciata ritaglia il piano terreno degli edifici e parallelamente rispecchia
per un attimo il moto dei passanti in un fotogramma orizzontale.
Vetrina cinetica, in profondità, di lato ma anche in verticale: la dop-
pia altezza non permette solo l’esposizione delle merci ma, soprat-
tutto, la visione dello spazio interno, il taglio di luce diagonale che
penetra e segna i muri, la prospettiva delle formelle di metallo
stampato sul soffitto che recede all’infinito. La finestra è più alta
dello sguardo, diventa cannocchiale urbano, vuoto strutturato ma
anche lampada notturna che, di sera, proietta l’interno sulla strada.
La penetrazione degli edifici, in entrambi i sensi, diventa essenza

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del moto urbano, un invito vitale al traffico. La merce è meno impor-
tante della trasparenza di un unico grande spazio, lo storefront
inquadra ogni cosa in un perimetro più grande dei prodotti e delle
persone. Questo eccesso dimensionale è specchio di un desiderio di
riunire le cose vicine e lontane, di sovrapporre le diversità in un’u-
nica zoomata. All’interno, le merci sono oltrepassate, lo spazio segue
la direzione dettata dalle pareti laterali cieche verso quell’unico
grande riquadro di luce che si protende fino all’edificio dall’altra
parte della strada dove il sole batte sulla facciata. Le case prospi-
cienti che diventano fonte di luce riflessa sono importanti, la vetrina
celebra il dirimpettaio e l’interno è bombardato dall’energia della
strada. Per coloro che procedono all’esterno, si dischiude un cata-
logo di affondamenti laterali nelle stanze dei negozi. L’andamento
lineare della strada è punteggiato dalle articolazioni di un unico
piano orizzontale permeabile dove si susseguono dei teatri contigui.
Marquees e pensiline, a volte presenti, dividono il mondo commer-
ciale da una città opaca che abita i piani superiori. A volte non
aggettano ma sono solo fasce per le insegne, una parentesi per
giustapporre due universi distinti.
Gli storefronts, negozi-magazzini urbani, sono resi obsoleti da una
città che non c’è più, che ha lasciato indietro i loro volumi svuotati.
La prima fase della dismissione degli spazi commerciali è la loro
trasformazione in banchi dei pegni per i poveri. La vetrina del pawn
shop, da esposizione di prodotti, diviene raccolta di resti eterogenei
che nasconde la privacy del pegno e quindi esige una schermatura
retrostante. Non c’è più affondo e trasparenza, il retro non equivale
al fronte, la povertà non deve essere esibita. Una serie di tramezzi
dietro ai pochi oggetti disposti malamente sul fronte è la prima fase
del boarding up, della chiusura delle aperture che segna l’abbandono.
Questo tamponamento è un atto simbolico, non serve solo per sicu-
rezza ma è segno dell’interruzione del flusso tra interni ed esterni.
Le vetrine sono prima oscurate e poi chiuse sulla facciata con tavole
di legno giustapposte alla meglio. Gli storefronts, quando erano ancora
in vita, sublimavano la condizione di natura morta dell’esposizione

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con la dinamica dello sguardo urbano. Ora sono essi stessi natura
morta dell’intera città perché il moto visivo che oltrepassava i con-
fini tra interni e esterni è interrotto.
Non sono gli edifici diruti che impressionano in questa città fanta-
sma di frontiera ma la staticità delle vetrine chiuse. Molte sono
bloccate da pannelli e tavole, altre lasciano intravedere il vuoto
interno e aprono su stanze dismesse. La penetrazione degli interni
è un viaggio nel vuoto, forse più invitante delle barriere, ma anche
spaventosamente neutrale. Improvvisamente nella vetrina di un
negozio chiuso, compare un arrangiamento di vecchi oggetti, un
trofeo di attaccapanni, stoffe, piume, gabbie, manichini. Sembra
posto lì a evocare l’esposizione come se tutti gli oggetti lasciati al
pegno si fossero aggregati magneticamente in un incongruo fantoccio.
Nella città delle vetrine interrotte, sorge una comunità della merce
transiente la quale, abbandonata a se stessa, ha annullato le distan-
ze che rendevano individuabili i singoli articoli. Oggetti su oggetti,
scarto su scarto, proliferazione organica, innesto contro natura.
Forse esiste una città di prodotti-detrito che si autorigenerano in
silenzio. Ce ne saranno altre di vetrine così? Scopriremo altre con-
crezioni di ricordi che abitano le Main Streets deserte?
Las Vegas, New Mexico 1994

Prefab
Moderno, prefabbricato, grattacieli, gruppi finanziari, amministrazio-
ne pubblica, anni Sessanta e Settanta. Paesaggio di bunker: è astrat-
to ma non trasparente come un curtain wall. Mostra una corazza
difensiva con la materialità opaca dell’elemento prefabbricato. Non
mette in discussione l’oggetto autonomo Modernista, anzi lo fonda
come baluardo in downtowns svuotati dalla crisi delle industrie.
Interiorizzazione, brutale sincerità nel trattare la città come tabula
rasa da cui separarsi: l’edificio non si può più attraversare, non offre
la trasparenza illusoria delle scatole di vetro. L’interno protetto è vuoto
flessibile reso possibile dalla struttura portante posta sul perimetro

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e dal tamponamento totalmente opaco. Identità dell’open space
interno e della strada esterna senza diretto contatto tra essi. La
mancanza di astrazione (l’edificio mostra i muscoli) come veicolo di
questa omologazione. Tutto è zona di guerra, la corporation difende
un confine (il perimetro dell’edificio) dall’assedio della città cattiva e
dall’anonimato dello spazio aperto. Bisogna mostrare una materialità
artificiale attraverso l’industria. Residuo di rappresentatività nei mem-
bri fabbricati in serie e poi assemblati in cantiere. Costole, timoni,
funghi, parasoli, padiglioni, colonne, rampe, pilastri, pennacchi, vo­
lute, logge, bastioni, dighe, contrafforti, ma soprattutto cemento,
graniglia di ciottoli con pasta grossa, ruvida, che mostra di essere
conglomerato. Il tentativo di costruire una memoria di fortezze, di peso,
di sforzo attraverso la riduzione degli elementi edilizi a diagrammi e
a forme tipo ripetibili. L’elemento prefabbricato non è fisso, è prodotto
di serie dislocato ubiquamente ma qui gli si vuole dare un’apparenza
di stabilità. Pezzi di bunker, essi resistono nel paesaggio delle facciate
grazie alla loro ottusità. Gli architetti di questa revanche sono tutti
contro la trasparenza, isolati nei loro baluardi perché la memoria è
imprigionata nel singolo elemento prefabbricato ripetuto che non si
fissa mai. La perversione di echeggiare la rap­presentatività, poi di-
sperderla in tanti elementi uguali che non si aggregano tra loro, che
formano barriere fisse con elementi mobili. Il denominatore ultimo
del Moderno è la granitica presenza della rappresentatività nell’ele-
mento ripetibile che vuole colonizzare un mondo alieno con la ripeti-
zione seriale. La maschera di stabilità dice che l’ambiente circostante
è sconosciuto e ostile. L’elemento prefabbricato “ricorda qualcosa an-
che se non si sa esattamente cosa”, prende le caratteristiche d’insieme
del primo insediamento su di un pianeta alieno. Con il suo eccesso di
articolazione, deve ricordare una città turrita (o una base lunare)
anche se in realtà è molto meno. L’imperativo di mantenere un’ico-
nografia sovrappone il futuribile al passato sospendendo il tutto
nell’assenza di un tempo o forse nel vuoto della guerra fredda.
Potenza del guscio d’insetto, dello scheletro divenuto membrana,
della corazza che garantisce il vuoto a partire dall’immediato intorno

50
dell’edificio. Non c’è spazio di mediazione, tutto avviene sull’involu-
cro, quel vestito ingombrante che sembra spuntato una mattina
dopo una metamorfosi urbana notturna. Nel mondo continua-
mente smobilitato della realtà capitalista che si autoconsuma, que-
ste fortezze prefabbricate sono il vero altro della città, un prodotto
non transiente. Esse negano le teorie del significato disgiunto dal
significante: non sono citazioni, non forme originarie ma materiale
inerte. Il bunker prefabbricato è evidenza del capitale privato, il
semilavorato grezzo che sembrava annegato dietro la pellicola cri-
stallina dei curtain-wall esce fuori con la sua massa ottusa. Questi
edifici completamente opachi sorgono allo stesso momento in cui la
città demolisce interi quartieri storici abbandonati dalle classi medie:
l’urban redevelopment. Si devono erigere dei baluardi, dei caveau,
dei sistemi di protezione. Tutto a un tratto, essi spuntano in gran
quantità e riconfermano il carattere medioevale di una città che non
ha mai conosciuto il Medioevo, ma vuole essere una fortezza cir-
condata dal vuoto.
Rochester, New York 1996

51
Deserti

52
Orizzonte
Le nuvole fuggono in formazioni autonome, seguono quasi la curva-
tura della terra. È impossibile dire da dove soffia il vento, molteplici
formazioni gassose sono compresenti e ognuna si muove con una
logica diversa. Si possono seguire le ombre che scorrono sulla super-
ficie ondulata della terra frammiste a bagliori di luce. Le colline sono
coperte d’erba giallastra, non sono veri rilievi ma continue ondulazio-
ni che si succedono l’una dopo l’altra. L’estensione del territorio è
troppo vasta per quantificare la distanza. Dov’è l’orizzonte? È remoto,
proiettato dopo vari piani di profondità; è vicino, il crinale più prossi-
mo nasconde i successivi. Mancano dei termini di misura, alberi, edi-
fici o persone. La strada scompare dietro un rilievo e riappare proiet-
tata in un’altra profondità. In questa zona tutto è contemporanea-
mente vicino e lontano. Il potere di spaziare a volte si arresta a poche
centinaia di metri e poi, improvvisamente, è dilatato verso una di-
stanza incommensurabile. La vegetazione contribuisce all’inganno
formando superfici sovrapposte che innalzano il punto di vista. La
prospettiva perde le sue linee di fuga, i piani d’arretramento divengono
frontali e sembrano venire incontro a chi guarda. L’orizzonte è un’ipo-
tesi, la terra è ingannevole, un dispiegarsi di ostacoli inframmezzati.
Non si trova lo sfondo ma neanche il punto di vista. La lontananza è
immaginata, mai reale. L’openness è il continuo rimando a vedere
uno spazio aperto, non la sua immediatezza. Questo porta ad andare
avanti, ad attraversare il territorio, a cercare una direzione.
Un ordinamento c’è ma è invisibile, consegnato all’astrazione
geometri­ca e al distacco della visione aerea, il reticolo di Jefferson.

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La sua regolarità è la figura impossibile a cui tende il territorio. Strade
sterrate, fossi e confini tra pascoli erbosi si ripetono serialmente. Il
profilo morbido dei rilievi è però compromesso da improvvise ero-
sioni legate ai corsi irregolari dei fiumi. Sono cavità, depressioni, pie-
ghe nella continuità della superficie. È qui che si nascondono le po-
che comunità abitate. Fattorie, villaggi, insediamenti invisibili posti
nelle smagliature delle suddivisioni fondiarie. Non sembrano reali,
sono tagliati fuori dalle autostrade e collegati da percorsi capillari. La
vita si svolge in questi interstizi che interrompono la regolarità del
reticolo di strade e confini. Le linee delle miglia si arrestano sui fiumi
e le scarpate, ripartono dalle forme tortuose che ne cancellano la
continuità. Il reticolo è compromesso dalle vie serpentine dei fiumi,
dalle rare aree coltivate.
L’acqua, opponendosi alle ondulazioni, nega il territorio, il fuoco lo
amplifica a dismisura. La prateria ha una vegetazione stratificata. Le
erbe cresciute di recente soffocano le radici delle piante più alte e
questo danneggia l’allevamento. I pascoli sono incendiati ogni pri-
mavera per purificare il suolo, il fuoco brucia la superficie e non toc-
ca le radici più profonde che poi possono germogliare di nuovo. Il
rituale prevede la creazione di un unico incendio lineare controllato
lungo diverse miglia che avanza lentamente. Di giorno esso attraver-
sa silenzioso le colline bruciando la superficie con fiamme basse e
quasi impercettibili. Ci si stupisce nel sentire il crepitio del fuoco sen-
za quasi vederlo. La linea fantasma scavalca strade, corsi e recinti
lasciando dietro di sé il suolo annerito. La terrificante forza della di-
struzione è un’astrazione, è il silenzio di un film al rallentatore che
vira il territorio in bianco e nero. Di notte, la linea di fuoco costruisce
un orizzonte continuo: se le fiamme non sono direttamente visibili,
lo è il fumo illuminato di rosso che sale contro il cielo. Il vicino e il
distante sono finalmente unificati in controluce da una linea arbitra-
ria e mobile. La frontiera è una nozione indistinta, il territorio che
dovrebbe sostenerla è investito da segni artificiali che cercano di
descriverne l’estensione: linee geometriche, campi cromatici, com-
bustioni pilotate. Questi tentativi rimangono incompleti, si riducono

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a espedienti temporanei, non trattengono la dispersione. Anche dopo
il fuoco, tutto ritorna come prima: dal terreno nero spuntano germo-
gli che ricoprono di nuovo le colline con un manto d’erba gialla. Il
segno del vuoto rimane una possibilità aperta perché si autocancella.
Chase County, Kansas 1992

Sguardi dal di Fuori


La lettura del paesaggio naturale è determinata dagli apparati per-
cettivi selezionati dagli operatori turistici e dalle modalità con cui
essi organizzano l’accessibilità ai luoghi. Qui paesaggio equivale a
immensità, non qualcosa di statico ma la ripetizione di medesime
caratteristiche in una durata indeterminata. La visione gradatamente
perde la messa a fuoco e assume una disattenzione diffusa, dove il
territorio diventa un sottofondo indifferente ma sempre presente. La
durata senza accenti dell’attraversamento diventa misura dello spa-
zio, cronologia e movimento sono accomunati da un unico comune
denominatore, un minimo percettivo. Singoli elementi di rilievo, una
volta avvistati, si ripetono per ore come quella linea di montagne
rosse, la cui immagine permane fissa e dopo un po’ è assorbita come
dato di fatto. Gli elementi si allontanano lentamente mentre li si
avvicina, perdono definizione nel tempo, sembrano più prossimi, ri-
mangono presenti come un residuo incancellabile. La linea retta che
conduce a queste isole nel nulla percorre un arco impercettibile per
giungere a esse. Rallentamento delle cose, iniziale distanziamento e
poi progressiva magnificazione per giungere alla coscienza della ine-
vitabile prigionia in una fissità fuori scala, privi di mezzi per misurare
la distanza e il tempo.
Il supporto di questo tipo di percezione è l’automobile: il nastro d’asfal-
to elimina l’orografia e riduce il moto a un continuo scorrimento, la
velocità non è più rilevabile nell’incommensurabilità dell’ambiente.
L’automobile riconosce la relatività dei riferimenti visivi e configura una
durata-pulsione ad andare sempre avanti. Guidare è un film che ritorna
costantemente indietro in un corto circuito di immersione-rimozione.

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Il paesaggio è assunto come condizione immanente, non è mai
esterno sebbene non offra spiegazioni, è sotto, attorno, dietro, forse
dentro ma mai isolabile in un punto.
Il muoversi senza senso, l’inutilità di un verso devono essere modifi-
cati, bisogna arrivare a dei luoghi, anche se arbitrari. L’indifferenza
non è trasmissibile, è individuale, mai condivisibile. I parchi nazionali
isolano highlights nel silenzio continuo del territorio, costruiscono
parole e immagini. Sono organizzati in percorsi accessibili (i più brevi)
e punti di vista (icone bloccate, istanti che annullano la durata). L’auto
raggiunge delle stazioni certe, la strada organizza un film a puntate,
il montaggio delle attrazioni cancella i tempi morti. Nel fare così, il
percorso forzato dà visibilità all’immensità ma riduce l’immanenza
dell’attraversamento, crea uno sguardo dal di fuori, una distanza per
coloro che erano prima immersi dentro al deserto e non potevano
uscire per guardarlo. Prima si era sulla strada ma anche nel territorio,
adesso si è fuori e si guarda un esterno a sé.
Il paesaggio è comunque indifferente. Vi sono due modi di attraversarlo:
– Rimozione involontaria: con il viaggio in automobile sulle strade
normali si è staccati dal terreno ma il paesaggio ritorna gradatamen-
te e assorbe tutto con la sua fissità, divenendo substrato, ontologia,
presenza inevitabile.
– Rimozione strutturata nel percorso dedicato all’interno dei parchi
nazionali: qui sono date poche informazioni ma viene tolto il resto.
In particolare, è eliminato lo smarrimento, quel senso di mancanza
di direzione che cresce gradatamente e disturba la linearità del solito
attraversamento.
Il parco nazionale, con la sua differenziazione organizzata, diviene
rimozione necessaria del paesaggio, toglie l’incompletezza, l’attesa,
la pulsione a scoprire qualcosa.
Nell’altro viaggio invece, fuori dai parchi, le architetture anonime,
indifferenti al luogo, costituiscono ulteriori fonti di smarrimento. Le
case unifamiliari, i motel, le stazioni di benzina – tutti uguali tra loro –
si ripresentano durante il percorso. Nell’identificare i luoghi bisogna
affinare lo sguardo, non importa cosa siano i manufatti ma come essi

56
sono posti nel sito. Impercettibili variazioni distinguono i luoghi per
orientamento, percorso d’accesso, perimetrazione del terreno di per-
tinenza, prossimità ad altri manufatti. La fissità inesorabile del terri-
torio senza scala incontra qui la civiltà dei manufatti seriali. Entrambi
formano il paesaggio, vi è simbiosi nella mancanza di caratteristiche
individuali e nella trasparenza dei luoghi. Le posizioni relative nello
spazio sono sempre superate, senza memoria, senza necessità. Le
cose, gli oggetti, stanno attorno ma sono dimenticati prima di essere
raggiunti, la loro è un’assenza che non è restituita. È la libertà di poter
essere sempre sostituiti che si oppone alla riduzione a spettatori in
vetrina sui percorsi organizzati da altri.
Vermilion Cliffs, Colorado 1990

Proiezioni
Il paesaggio dell’apertura, una prateria desolata e pianeggiante. La
mancanza di barriere non è vista come libertà ma come opportunità di
controllo. Il territorio è vicino al confine con il Messico ed è pattugliato
dai militari, l’estensione permette il rilievo di ogni movimento, oggetto
o persona, la distanza si misura in ore di fuga e di inseguimento. Lo
spazio deserto riunisce la natura incontaminata e la razionalità del
controllo geometrico nella zona degli avvenimenti che potrebbero, ma
non devono accadere. La prigione non è un recinto, è la sua assenza,
la punizione è l’ipervisibilità, lo strumento è una distanza asimmetrica,
incolmabile per alcuni e attraversabile da altri. Non è un caso che qui
sorga un campo militare, Fort Russel, dove prigionieri erano mandati
al confino. Quel campo, un giorno dismesso, è stato rilevato da un
artista interessato ai paradossi della perimetrazione e della trasparenza,
Donald Judd, che vi ha qui installato la Chinati Foundation. Tuttavia,
l’avvicinamento alla zona limite non dà alcuna possibilità di spaziare.
Una tempesta di neve e ghiaccio avvolge l’automobile per ore in una
calotta opaca senza distanza. Il deserto è invisibile, non si sa se esiste.
Quando il sole riappare, sembra di essere entrati in un’altra dimen-
sione, la cecità del maltempo era un rito di passaggio.

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Fort Russel è separato dalla cittadina, un’ulteriore rimozione, e per
trovarlo bisogna esplorare il reticolo regolare di strade. Parallelepipedi
a un unico piano lo occupano, legno, metallo e adobe: l’architettura
del contenimento e della dipartita senza residenza, magazzini con
porte e poche finestre. Dei binari ferroviari li attraversano e arrivano
loro appresso sotto tettoie aggettanti. Le scatole edilizie, prima trop-
po piccole, acquisiscono una dilatazione longitudinale legata all’ab-
brivio dei treni, l’unica distanza fisicamente misurabile in un paesag-
gio altrimenti incerto.
Donald Judd rimane sospeso tra alfabeto geometrico e la spazialità
materiale degli oggetti specifici. La finitura industriale delle sue ope-
re annulla qualsiasi residuo di fattura artistica. La forma si rapprende
ma provoca distaccate metamorfosi del luogo, gioca con il corpo del
visitatore il quale deve trovare una misura perché essa non è data. La
ripetizione di parallelepipedi è la formula che allude a una produ­
zione seriale dello spazio che è già presente qui, nella natura mili­
ta­re-industriale dell’insediamento. L’oggetto è straniato ma non più
autonomo. Paradossalmente, per negazione, si lega all’ambiente in-
vitando alla scoperta di minime unità d’identificazione che ne indi-
viduino un orientamento. La ripetizione evidenzia scarne variazioni
materiali e luminose, posizioni e distanze dalle strutture esistenti. Il
forte, la cittadina, i magazzini diventano campo d’azione per un
gioco a nascondino tra involucri analoghi. L’arte occupa la prigione
abbandonata perché l’evasione è già avvenuta.
Si esplorano le baracche dove abitavano i prigionieri, lunghe struttu-
re in legno con un portico frontale. Stretti cunicoli tra letti a castello
e la porta è il fondo del tunnel che apre sull’incommensurabile
esterno. Ma qui non c’è nulla e si passa alle strutture funzionali, i
templi del lavoro forzato. Il fabbricato del maneggio, l’Arena, è co-
perto da una struttura reticolare che si estende su un grande vuoto
interno. L’intervento dell’artista non aggiunge nulla, il pavimento è
scavato fino a fare apparire i cordoli paralleli delle fondazioni. Gli
interspazi sono riempiti di ghiaia e formano un giardino zen di ban-
de equivalenti. Le pareti sono forate da finestre quadrate a filo terra

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e da un nastro continuo che cinge il perimetro all’imposta della
copertura. La luce del pomeriggio entra in due modi, la figura isolata
e la striscia obliqua che si piega tra parete e pavimento. Su uno dei
terminali dei lati corti, vi sono arredi in compensato e bandiere
appese, sono i posti a sedere per gli spettatori o lo spettacolo sul
palcoscenico? Il vuoto è reso visibile dalla proiezione della luce che lo
occupa, il suo corso diurno è prigioniero del contenitore, non può
estendersi. Compie un girotondo ripetuto, come i cavalli nel recinto
all’esterno e i reclusi nel campo d’internamento. L’abbandono è
occupato da se stesso in cattività, la luce non può portare la visione
ovunque.
Se il vuoto è contenuto, gli oggetti, quando esistono, sfuggono
all’esterno. Negli hangar poco distanti, tutte le pareti laterali sono
state rese vetrate con infissi quadrati segnati da una croce centrale
mentre il tetto è coperto da una volta a botte metallica. Lo spazio
longitudinale è doppiamente trasparente, attraversabile dallo sguardo.
Al suo interno, vi sono due file parallele di cubi d’acciaio apparente-
mente identici: ognuno di loro ha, in realtà, almeno una delle facce
diversa e leggermente angolata. L’assoluto della forma geometrica è
violato dal materiale semilevigato che riflette ombre e bagliori dell’e-
sterno in modo sfuocato. Potenziali immagini scivolano da un cubo
all’altro, non si sa a chi appartengono. Solo il contorno tiene insieme
una forma esplosa dalle sue proiezioni esterne. Lo scorcio dalla te-
stata dell’hangar, anch’esso uno spazio longitudinale, presenta la
prospettiva centrale dei cubi disturbata dalla luce proveniente dalle
pareti esterne. Il fuoco prospettico centrale è al buio, la luce laterale
forma due linee di fuga divergenti e strabiche. Il contenimento si ri-
balta, il museo fugge all’esterno. La visione laterale presenta le croci,
i cubi in serie, le ulteriori finestre e, in fondo al prato, altri cubi in
cemento che sono sovrapposti a quelli interni. L’edificio invita lo
sguardo a entrare e lo proietta subito al di là di sé, verso degli analoghi
che non si sa quanto siano distanti ma che sembrano avere una
dimensione visiva equivalente. Quattro diverse profondità precipi­
tano l’una sull’altra e sembrano trattenute dall’involucro edilizio

59
che funge da apparato scopico. Cos’è il contenitore e cos’è il contenuto?
Quello che sta all’interno degli hangar o quello che sta oltre esso ed
è inquadrato dalle pareti vetrate? Cos’è il museo? Cosa vi è contenuto?
Cos’è messo in mostra? Quello che c’è dentro, quello che c’è fuori o
forse il dispositivo che non permette di isolare nulla e provoca una
deiezione continua?
La dimensione del luogo, o almeno, quella che è fatta immaginare, è
ambigua. Proseguendo a piedi oltre l’hangar, si scopre che i cubi di
cemento sono molto più distanti di quello che appare. La visione
non coincide col cammino. Da lontano sembrano quasi degli edifici,
avvicinandosi si riducono sempre di più fino a raggiungere una sca-
la intermedia tra l’oggetto e l’abitacolo. Sono troppo piccoli per pe-
netrarli, troppo grandi per circoscriverli con un unico sguardo, biso-
gna girarci intorno. Operano a distanza come un’esca visiva che fa poi
compiere un percorso più lungo del previsto. L’anticipazione però
supera l’evidenza: se la loro scala è calibrata alla sovrapposizione
visiva da lontano, non altrettanto avviene per il percorso di ritorno.
Giunti ai volumi di cemento, gli hangar paiono lontanissimi, lo spa-
zio non è reversibile per chi lo percorre in entrambe le direzioni, an-
che se gli elementi che lo bordano sembravano proporzionali tra di
loro: da un lato esso attrae, dall’altro distanzia. Il tempo del percorso
non collega questi due eventi analoghi, anzi, diventa la misura
dell’orientamento a senso unico del luogo. I cubi di cemento sono
disposti in gruppi separati ed equidistanti dagli hangar su una linea
parallela a essi. Ogni insieme ha unità aperte su due lati verticali e
orientate in modo differente. La loro successione invita a una rico-
gnizione presso le diverse stazioni per scoprire come la luce abita i
tunnel tagliati nei volumi. Le ombre prodotte dallo stesso elemento
sono declinate, formano un corso di geometria proiettiva senza ge-
rarchia né termine ultimo. La materia è moltiplicata dalle posizioni
del sole, quasi fosse pronta ad accoglierle tutte.
Il fischio di un treno coglie di sorpresa, dietro ai cubi di cemento
passa una ferrovia di cui non ci si era accorti. Un lungo convoglio
merci attraversa la pianura divenendo un ulteriore piano in profondità.

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È anch’esso una variazione delle geometrie primarie? La serie come
razionalità impazzita che non arriva a un termine? L’irrimediabile
internamento? Un’allegoria del confino e della condanna al perenne
altrove? Esplosione del museo? Ricostruzione del luogo? Si riparte
senza avere ottenuto risposte, lungo il viaggio di ritorno si vedono
immigrati clandestini che hanno varcato il confine di nascosto e proce-
dono a piedi lungo le strade. Hanno bisogno di un riparo, ma quale?
Marfa, Texas 1993

Argilla
Il deserto sembra artificiale, una selezione è avvenuta e un unico
elemento è stato scelto per rimanere in assoluto isolamento, l’argilla.
Il terreno mostra una separazione precisa tra sedimenti minerali di-
versi ma non la purezza assoluta: quella implica un livello d’intensità
rappresentativa unitaria ma qui c’è la sola evidenza materiale di più
parti compresenti e ripetute. Dune coniche dai contorni ammorbidi-
ti si estendono con continuità da un crinale all’altro: un accumulo di
granuli fini, quasi polveri, ma anche un impasto denso, non volatile.
I colori sembrano anch’essi essere stati sottoposti a un processo di
campionatura. In alcune aree, ogni rilievo porta una tonalità diversa:
rosso, giallo, ocra, bianco, verde, grigio. In altre, i singoli coni sono
formati da più strati con nette divisioni verticali. Dei pigmenti in pol-
vere sembrano stati ordinati per gradi di pesantezza o tonalità e
posti su livelli diversi.
Tutto è ridotto a geologia e palette cromatica. È impossibile analizza-
re l’unità di quel che si vede, la visione si trasferisce a un livello
astratto. Il deserto diventa un concetto e non lo si guarda più, esclu-
de ogni articolazione e assume un enorme peso visivo, iperreale ma
anche remoto. Esso va considerato anche in relazione con la civiltà
dell’artificio: in un paese dove la materialità e la rappresentazione
sono fabbricate, anche la natura diviene un costrutto. Sembrerebbe
esistere un luogo dove le polveri sono state selezionate e poste a
strati su morbidi declivi a formare un paesaggio di variazioni pastello.

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Chi può, tuttavia, dire se esso è reale? Il deserto sorge spontaneo o
era già preparato? Risiede qui o si ripete altrove?
L’astrazione si ribalta nel suo opposto, la pura materialità cieca. È
argilla nella sua evidenza assoluta, la sua presenza disturba perché
non si relaziona a nulla. Anche il colore, quel concetto prima così
certo, sfugge. Non è fissato alle forme dei rilievi, si presenta in più
punti diversi. Non c’è una relazione stabile tra forma, colore e luce da
cui iniziare a guardare. I toni potrebbero essere trasferiti o invertiti e
nessuno se ne accorgerebbe. La fissità si incrina e il paesaggio va alla
deriva, ogni commistione è possibile.
L’inganno del deserto che cambia in silenzio, l’argilla sembra coeren-
te nella sedimentazione che forma gli strati, in quel sottosuolo delle
dune che non si vede mai. Non è così: la profondità è irregolare e la
superficie è soggetta agli agenti atmosferici. Le dune non sono soffici,
c’è una crosta all’esterno indurita dal vento e dall’umidità. L’interno
non pare essere toccato, la sua astrazione si guarda ma non si scava.
La modificazione geologica è avvenuta milioni d’anni fa ma opera
anche impercettibilmente in ogni istante, in forme temporali non
rilevabili. Il deserto non è immobile come appare. Durante l’inverno
piove e nevica, i coni sono violati dall’acqua, piccoli rivoli discendono
i crinali e incidono la crosta. I colori delle diverse sabbie, rapiti dai
loro strati d’origine, si rimescolano scendendo e ristagnano nelle de-
pressioni del terreno. Nuove superfici e tonalità emergono, la fissità
della palette viene dissolta, non vi è più separazione ma commistio-
ni multiple. Non si sa più quali siano i princìpi e le derivazioni, nel
deserto non esistono colori primari. Il carattere artificiale risiede for-
se nella possibilità di modificazione infinita, in un processo sempre
aperto. L’argilla è instabile caleidoscopio di tutti colori, li assume
ma non li trattiene. Indurisce e poi assorbe, sprofonda e rimescola
sommessamente. È lì, apoteosi del puro visibile e della sua dispersione.
Usciti dalle dune colorate, rimane solo il resto, il deserto grigio e
piatto con la sua dura fissità. La vertigine dell’argilla è superata.
Death Valley, California 1989

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Livelli
Il pianeta terra pare formato da masse geologiche poste ad altezze
diverse. La sezione, il giunto tra i livelli ha luogo in un unico punto,
dove i piani orizzontali sono separati da una grande erosione lineare.
La strada asfaltata corre sul livello più alto e quando giunge sull’orlo
della depressione, fa credere che il mondo inizi da questa quota verso
il basso. Non ci sono cime all’orizzonte perché questo è il luogo più
elevato. L’occhio guarda solo in avanti e in giù da una piattaforma
incredibilmente orizzontale. Essa forma un rilievo ma è così dilatato
che risulta impercettibile. Guidare per ore e sentire la salita solo con
la fatica del motore, l’automobile è sensore dell’orografia. Poi, im-
provvisamente il taglio, l’erosione, l’enorme rimozione in negativo di
parti diverse. Ci sono solo due condizioni orografiche: il piatto e l’ero-
so, il luogo da cui si guarda e il sotto, l’inarrivabile, il rimosso. Il piano
è una crosta leggera che si sbriciola e fa posto a strati geologici che
si aprono in profondità. È uno sguardo verso il centro della terra, il
processo ha scavato il terreno a una tale profondità che più micro­
climi esistono a diversi livelli dell’erosione: molteplici materiali, colo-
ri, periodi, temperature, umidità, vegetazioni, faune attuali e fossili.
Il fondo dove il fiume scava faticosamente le sue anse, il livello inter-
medio con uno strato calcareo bianco che colora i pinnacoli, l’alto-
piano coperto di arbusti che si abbarbicano sulle rocce. Questa non è
solo una ricognizione di luoghi e tempi diversi, è una sorta di prei-
storia istantanea o almeno è l’immagine che abbiamo di essa, è l’ar-
tificialità di una presenza simultanea che è fissata dalla natura nelle
rocce e presentata a uno sguardo onnicomprensivo, non sembra
possibile che tutto sia stato ordinato in maniera così analitica. La
rappresentazione dei periodi geologici nei diagrammi del museo di
scienza naturale sembra derivare da luoghi come questo.
La natura verticale dell’erosione è chiara e procede per passi omogenei,
quella orizzontale deriva dall’acqua in movimento ed è serpentina. Il
fondo dell’erosione si nasconde tra meandri ombrosi e irraggiungibili.
Gli andamenti del fiume sono delle ipotesi, degli avvistamenti fram-
mentari di un flusso che salta da una posizione all’altra.

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Si guarda giù, si domina il panorama ma ci si sente separati da esso.
È un bordo invalicabile, una condizione limite. Scendere lungo l’ero-
sione è fisicamente difficile ed è sempre compresente con l’ampio
spaziare dello sguardo, con l’inesorabile senso di una distanza che
non è mai colmata. La necessità di spaziare impone il movimento su
di un unico piano ma non tra livelli diversi. Così il canyon appartiene
al mondo della visione, mai a quello dell’esplorazione. L’erosione atti-
ra come la vertigine ma è la pianura che invita a girarsi e a proseguire.
Canyonlands, Utah 1989

Bianco
Una grigia pianura dai contorni indefiniti, macchie di arbusti, basse
montagne retrostanti. Improvvisamente appare una linea orizzon­
tale di dune di sabbia, una zona ristretta tra la strada e i rilievi.
Qualcos’altro ha inizio, una superficie di deserto bianco posta come
un corpo alieno nel paesaggio roccioso. Il suo bordo molle contrasta
con la durezza delle pietre. Si entra nelle dune, il territorio circostan-
te scompare. Non c’è orientamento e i profili cambiano con il vento
che smuove la sabbia finissima, una linea di polvere si leva dalle
sommità dei crinali. Non sembra avere peso ed è incapace di accumu-
larsi in forme stabili, è continuamente erosa dalla propria leggerezza.
Tutto è cancellato da un’ondata bianca, il riflesso dal terreno è così
forte che l’occhio non può fissare il suolo che per pochi secondi. Luce
pura dall’alto, luce pura dal basso, è un mondo senza ombre. Il cam-
mino diviene un procedere accidentato tra bagliori animati. Si spro-
fonda nella sabbia e si è rapiti dallo stato polverizzato del deserto nel
vento. È un’area ristretta ma sembra infinita, nasconde l’orizzonte e
l’intorno pietroso. Prima elimina l’esterno facendoci sprofondare, poi
agisce come pura esteriorità che rimanda tutto indietro. Il materiale
è separato dalla visione, i piedi sono pesanti per la gravità aumenta-
ta mentre, dallo stesso luogo, si innalza una fascia di calore che non
sembra poter condividere il terreno con il corpo che vi si appoggia.
È un ambiente diverso da quello della sabbia color ocra, qui c’è solo

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cecità, il bianco che annulla il colore. I luoghi dell’astrazione come
questo sono circoscritti, attrezzati per l’accessibilità, ridotti a un
nome, istituzionalizzati come parco e, tuttavia, questo è il sito meno
invitante dove si possa sostare. Non c’è percorso ma solo piccole
avances dal bordo verso l’interno. I sentieri si perdono nel grande
nulla bianco, il vento li cancella. La zona non è attraversabile: circo-
scrivibile da fuori, rimane incommensurabile all’interno. Il suolo è
reso specchio: la Fata Morgana fa fluttuare in aria i profili delle per-
sone che camminano a distanza, li proietta nel cielo. La superficie
riflettente è esplosa in miriadi di granelli-schegge. Non è solo l’am-
biguità dello specchio che riflette tutto quello che gli passa di fronte,
ma è anche la mancanza del suo limite, del piano di riflessione che
qui è ovunque, infinitamente ubiquo. Il ristretto diviene assenza,
l’orizzonte profondità, il materiale bianco uno specchio.
White Sands, New Mexico 1989

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Suburbia sotto il Sole

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Eucalipto
L’Eucalipto è un albero che mantiene delle caratteristiche interne
dissimulate mentre cambia l’aspetto esteriore. Il tronco è completa-
mente staccato dalla chioma, è formato da strati di corteccia che si
sfogliano e penzolano dal fusto e dai rami. Molteplici superfici sovrap-
poste trasformano l’albero nel tempo: bianco, grigio, rosso, argento.
Non si intravede un ultimo stadio di una metamorfosi continua che
si svolge nel tempo e porta l’Eucalipto ai limiti dell’irriconoscibile.
Il legno è leggero e poroso, poco adatto a essere impiegato per le
strutture. Questo aumenta la sensazione di trovarsi di fronte a una
specie fantasma, a una pelle senza corpo.
Le foglie sono lanceolate e divise longitudinalmente da un’incisione
lungo la quale le due metà si piegano. Sono color argento, paiono
riflettenti ma in realtà sono rigide e oleose. Secrescono un’essenza
che aleggia intorno agli alberi creando una foschia bluastra visibile
soprattutto al tramonto. Il suono e l’aspetto metallico sono allora
soffusi da un distanziamento visivo che ammorbidisce i profili delle
chiome. Mosse dal vento, producono un fruscio, il suono del trasci-
namento di detriti. Quando cadono, mantengono il loro colore in
quanto l’Eucalipto è sempreverde. Vita, morte, natura e artificio si
rimescolano nella coesione e smembramento delle parti.
L’Eucalipto cresce veloce e si adatta a diversi climi costruendo un
ambiente che pare integrato con i luoghi ma in realtà è completa-
mente artificiale. Guardando il paesaggio si ha l’impressione di averlo
già visto con altri alberi e invece è l’Eucalipto che provvede l’analogia
mutando dimensioni, densità e colore. Configura simulacri ambientali

67
facilmente esportabili: il giardino arcadico, la savana, la giungla.
In questa città gli Eucalipti furono importati negli anni Trenta e
Quaranta, appartengono profondamente all’immaginario urbano,
anche se non sono sempre stati qui. Costruiscono l’illusione di quar-
tieri giardino strappati al deserto. Le loro radici trattengono l’erosione
delle colline, sembrano dare equilibrio a una terra che non smette
mai di franare e che si continua a riempire di case unifamiliari. Le
chiome metalliche si perdono nell’orizzonte di smog che aleggia pe-
renne, costruiscono il fantasma dell’inquinamento. Le strade sono
accompagnate dal suono delle foglie e dalla caduta delle cortecce
lungo i marciapiedi. Negli spazi pubblici, gli Eucalipti non parlano
solo di vegetazione ma anche del deserto che è la città. Nei giardini
delle ville, divengono racconti tropicali che circondano la privacy con
le loro ombrose chiome e la corteccia selezionata di colore bianco.
Sono espressione d’affluenza e isolamento ricercati ad ogni costo.
Diventano lo strumento dell’artificialità verde dell’enclàve irrigata da
giardinieri messicani.
L’Eucalipto è l’Arcadia dei golf club, la savana delle strade sporche dei
quartieri meridionali, la giungla dei lotti abbandonati. Le sue parti
non collimano, mutano continuamente ruolo. È una presenza diffe-
rita che parla sempre di un luogo altro, il perfetto strumento per
realtà traslate. L’Eucalipto vive nella distanza che stabilisce tra sé e il
luogo ove è posto. Natura detrito, natura allegoria, natura manipola-
ta, natura novità che contiene il già consumato. Si adatta alla costru-
zione di un perfetto paesaggio naturale (la selva originaria, la radura
esotica, il prato informale dei quartieri giardino) e alla sua successiva
dismissione (le aree depresse, la desertificazione della città).
L’Eucalipto non lascia intravedere la sua ambiguità. C’è stupore ini-
ziale di fronte alle sue peculiarità: le foglie, la corteccia, l’argento, la
grande altezza. La diversità emerge gradatamente, quando si comin-
ciano a percepire le affinità con altri luoghi. L’ambiguità è lenta, ve-
getale, la costruzione della natura di un sito inizia impercettibile.
L’Eucalipto sembra resistere ai paesaggi, pare antecedente ad essi. In
realtà, sia nel rigoglio suburbano sia nella decadenza dell’abbandono,

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esso giunge alla fine. La vegetazione mette a fuoco il destino dei
luoghi, li sintetizza in una rappresentazione apparentemente indi-
pendente per poi assorbirli. L’Eucalipto è il silenzioso distruttore:
proietta la città verso un’altra identità perché lo spazio qui non può
rimanere immobile, è votato al cambiamento, al consumo, alla ripro-
duzione, allo spreco.
Los Angeles 1989

Telaio in Legno
In America vi è grande disponibilità di legno. Si costruiscono case
unifamiliari ovunque, se ne sono sempre costruite. Vicino alla fore-
sta probabilmente, il luogo che fornisce il materiale, con un corto
circuito natura-insediamento. La tradizione precedente, qui impor-
tata, vedeva l’impiego di grandi profili di legno che formavano un
pesante telaio con pochi punti di sostegno e travi capaci di coprire
luci strutturali considerevoli. All’inizio, i profili di legno erano connes-
si con giunti ottenuti sagomando le teste di travi e pilastri, traendo
vantaggio dalle loro grandi sezioni senza elementi di collegamento.
L’industrializzazione ha portato, invece, a impiegare tanti profili leg-
geri a sezione rettangolare, tagliati in serie e connessi da chiodi e viti.
Si è eliminata la specializzazione dei diversi componenti, in modo
che lo stesso profilo possa servire per più usi, sia come elemento
portante che portato. Due persone con pochi attrezzi possono mon-
tare una struttura fatta di tanti elementi leggeri e identici senza l’au-
silio di argani o gru. Il risultato è un telaio diafano, una fitta gabbia
con tanti montanti posti a distanza ravvicinata la quale sostituisce i
pesanti elementi precedenti. Il rapporto colonna-trave è polverizzato,
ridotto al minimo comune denominatore sino alla scomparsa della
riconoscibilità del sostegno. Gli edifici hanno assunto una configura-
zione stratificata dove il telaio leggero è integrato dagli elementi a lui
collegati che completano il tamponamento. La struttura porta il rive-
stimento ma questo la irrigidisce. Esso è formato da un primo livello
“grezzo” (sheathing) di tavole orizzontali o pannelli di compensato

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e da una finitura (cladding) che può assumere diversi materiali
(intonaco, legno – di nuovo – ma anche mattoni o fogli metallici).
I rivestimenti, in realtà, sono due, quello interno, di cartongesso, e
quello esterno, di compensato: la casa può quindi avere un aspetto
finale completamente diverso sul lato pubblico e su quello privato.
Il telaio di legno è parallelamente struttura e non strut­tura perché
necessita del rivestimento per diventare supporto. Condensa sche-
letro e pelle in un unico pacchetto dove le parti sono separabili e
autonome ma devono lavorare insieme per formare un involucro
rigido. L’aspetto finale, lo ‘stile’, è completamente indipendente
dal­l’ossatura e, anzi, può essere cambiato come un vestito. In ciò
il telaio è invisibile ma sempre presente. Sta dietro a tutti i rive-
stimenti ma non si rivela mai. È lo strumento della cultura del
camaleonte.
Esistono due tipi di telaio:
– Balloon Frame: quando i montanti verticali coprono tutta l’altezza
dell’edificio a formare un involucro onnicomprensivo insieme al tetto.
I piani intermedi sono successivamente appesi/ricavati all’interno di
questo contenitore principale. Il Balloon è la scatola per eccellenza:
può essere solo suddivisa o riempita ma quello che c’è fuori è indi-
pendente dalle divisioni interne.
– Platform Frame: quando ogni piano forma una scatola autonoma e
i montanti sono alti quanto essa. Successivi livelli sono montati l’uno
sopra l’altro come edifici indipendenti. I solai diventano qui impor-
tanti e sono usati come elemento di congiunzione. L’edificio è una
pila di involucri e passare da un livello all’altro implica fare un buco
in un doppio strato orizzontale che è parallelamente tetto di una
scatola e pavimento di un’altra. La trave di solaio si chiama, infatti,
double plate ed è sdoppiata.
Si può tentare una definizione del telaio in legno con una sorta di
approssimazione di termini opposti poiché è difficile racchiudere in
un’unica formula una struttura così ambigua:
– Non è un muro solido: è diviso in strati indipendenti (frame,
sheathing, cladding) che possono essere separati e sostituiti. Non è

70
monolitico, non ha spessore, non opera attraverso il peso di livelli
successivi sovrapposti.
– È anche un muro solido: condensa la struttura lungo il perimetro
delle case e non all’interno. Il pacchetto delle parti è serrato e la den-
sità dei montanti non permette grandi aperture sull’esterno. L’insieme
di questi fattori contribuisce alla lettura di una parete continua senza
trasparenza.
– Non è una struttura puntiforme: non funziona con la logica del
rapporto colonna-trave che copre delle luci strutturali intermedie. Il
peso di una trave non è distribuito su più supporti ma isolato in un
rapporto di uno a uno con un singolo montante verticale. I pesi non
sono trasmessi né distribuiti ma solo parcellizzati. L’azione portante è
circoscritta e il telaio è frazionabile in parti indipendenti. Non funziona
come un insieme equilibrato: può essere interrotto, sezionato, integrato.
– È anche una struttura puntiforme: in un certo senso miniaturizza il
rapporto colonna trave e infittisce le luci finché lo scheletro si avvici-
na a un diaframma continuo.
– Non è una struttura tridimensionale. Gli stessi profili a sezione ret-
tangolare sono assemblati a formare telai piani, esili fogli che diven-
tano poi indifferentemente solai o pareti. Le due dimensioni sono la
base del sistema, l’equivalenza di portante e portato sembra far flut-
tuare le unità piane dell’edificio.
– È anche una struttura tridimensionale: gli stessi profili sono inter-
cambiabili, sono posti in tutte le posizioni con diversi orientamenti.
Sono quindi unità libere nello spazio, svincolate da ruoli fissi. Avendo
risolto il ruolo di supporto miniaturizzandolo, sfidano la gravità con
la loro leggerezza.
Queste ambiguità sono il prodotto di una cultura pragmatica che
guarda alla flessibilità d’uso, alla trasformazione, alla sostituzione, al
reinvestimento. Poco interessano i princìpi: l’interpretazione elastica
del sistema ha più valore di un’identità precisa la quale può essere
continuamente rinnovata. Non c’è specializzazione delle parti, la
costruzione degli edifici è veloce così come rapido è lo smontaggio.
Il telaio è temporaneo, non dura, non deve durare. Il rivestimento è

71
sostituito dopo pochi anni, i montanti sono recuperati e riusati in
un’altra struttura. Non serve rinnovare gli edifici, costa meno rifarli e
la città muta aspetto, anche se in realtà non cambia nulla perché la
speculazione edilizia suburbana ripropone sempre gli stessi modelli
insediativi. La casa non accumula il tempo ma assomma diverse du-
rate parallele. Non c’è invecchiamento ma sostituzione: emerge un
senso di incertezza ma anche di possibilità. Gli edifici hanno signifi-
cati che possono essere continuamente mutati.
Il telaio è una conquista moderna e populista. La standardizzazione
dei profili di legno è spinta al massimo non per produrre alta tecno-
logia ma per fornire un sistema semplice e accessibile a tutti. Non
servono costruttori esperti, le case si fanno con un manuale che
spiega le procedure di montaggio del kit, chiodi, martello e sega.
Non è una struttura scientificamente calcolata: i pesi sono talmente
distribuiti che non esiste carico superiore a quello dei supporti, gra-
zie al rapporto di uno a uno dei montanti con le travi. Questo per-
mette di compartimentare ogni porzione dell’edificio e di costruirli
anche per fasi: non solo sostituzione quindi ma totale incompletezza
anche se le configurazioni distributive realizzabili sembrano appa-
rentemente finite. Che cosa può essere più democratico? Solo il libe-
rismo consumista può avere creato un prodotto così evanescente. Il
telaio non è un segno ma l’esplosione del significato che si disperde
tra migliaia di montanti in gabbie opache. Le unità sono troppo
povere per avere un’identità, la serie disperde qualsiasi senso con la
sua ripetizione ossessiva. La fine di una sequenza di montanti non
implica il termine di una struttura: qualsiasi altra cosa può essergli
connessa e questo scardina qualsiasi gerarchia (o, alternativamente,
rende possibili diverse gerarchie). Indifferente a diversi edifici, il
te­laio può diventare un’altra cosa ma rimane comunque nascosto
e pervasivo.
Los Angeles 1990

72
Mondi Privati
Il vetro continuo si innalza da pavimento a soffitto, la casa ha un solo
livello, il tetto piano aggetta ben oltre l’involucro interno formando
un’ampia loggia. Una piscina in mezzo al prato fa da sfondo al sog-
giorno, i riflessi dell’acqua si proiettano sui muri. I divisori sono
schermi leggeri di assi di legno che guardano verso patii interni alla
casa, non c’è vera differenza fra tramezzi e muri esterni, essendo gli
uni l’estensione degli altri. Stanze e corti sono riempite di piante e
vasche d’acqua, servono a nascondere la chiusura continua del peri-
metro della proprietà. Vi è l’impressione che i muri, le vetrate e gli
schermi si pieghino su se stessi e sugli abitanti. Luce e natura sono
portate dentro la casa, è una selezione di comfort perché nessuna
casualità sembra poter raggiungere l’interno. I collegamenti con la
strada sono scarsi e dissimulati. Un accesso carrabile, separato da una
siepe, termina direttamente nel garage, non è connesso al giardino.
L’ingresso pedonale dalla strada si affaccia invece su di un prato visi-
bile da essa. Il sentiero pavimentato non conduce a una porta ma
scompare dietro a un ulteriore schermo di legno. Superato questo, vi
è uno dei patii nascosti con la porta d’ingresso posta al termine di un
percorso che ne circoscrive il perimetro ritardando il contatto con il
mondo esterno. Alberi e arbusti formano i punti di vista che conclu-
dono i percorsi interni alla casa, dietro a loro non vi è l’aperto ma
ulteriori recinti. Case simili si allineano sulla strada, hanno gli stessi
prati curati su cui non si affacciano le stanze, la stessa stratificazione
degli ambienti, aperti solo su esterni protetti. Alcuni edifici si sporgo-
no sul bordo dei crinali delle colline offrendo ampie vedute della
città. Queste case sono, in un certo senso, differenti. Leggere solette
aggettano su pilastri puntiformi e supportano superfici vetrate orien-
tate verso il panorama lontano. Anche se qui c’è un collegamento
con il mondo esterno, il distacco rimane. La città è una veduta tenuta
a distanza, una fotografia congelata e irraggiungibile. Gli schermi ver-
ticali dei patii e i telai che elevano le solette hanno lo stesso compito.
Formano un apparato senza radici che separa gli interni dal sito su cui
la casa è posta. Gli uni lavorano orizzontalmente, erigendo molteplici

73
divisori che nascondono il perimetro della proprietà, gli altri vertical-
mente, innalzando un piedistallo sopra gli accidenti del terreno. Che
cosa succede nel resto della città? Che cosa succede nella casa vicina?
Non si sa, nessuno vuole saperlo. Molteplici strati nascondono e se-
gregano la propria privacy da quella degli altri. Le stanze della casa
sono aperte su di un esterno fittizio, su una rappresentazione dell’a-
pertura imprigionata dentro recinti protetti. La casa si addensa verso
i bordi per riparare un centro inesistente. Questo vuoto è protetto da
confini discreti e moltiplicati, mai diretti. Li si attraversa gradualmen-
te e poi si arriva a un riflesso che si dissolve nelle vetrate luminose e
sulla superficie della piscina. La finzione regna, l’estensione del guar-
dare attraverso la casa genera un rispecchiamento senza alterità. La
claustrofobia è ottenuta, paradossalmente, con l’apertura, la traspa-
renza, la luminosità. Il privato finge di spingersi verso uno spazio
pubblico che non c’è e si affaccia su di una prigione mascherata da
giardino. I quartieri dove regna la sicurezza sono scenari d’intratteni-
mento per ammantare di incanto la noia profonda di un quotidiano
sicuro. L’industria del piacere domestico scivola sulle superfici, il suo
movimento è la deviazione e mai l’affondo.
Il sole splende per la maggior parte dell’anno, il luogo è pieno di luce.
Il boulevard è fiancheggiato da alberi con alti fusti, stamattina sono
scomparsi nella nebbia che soffia dal mare e che aggiunge un ulte-
riore strato di silenzio alle case, l’invisibilità si deposita tra le stanze.
Los Angeles 1990

Interni
Nella città estesa, vi è la possibilità che le parcelle tutte uguali siano
occupate da edifici diversi. Le aree scoscese sono solcate dal reticoli
di strade ortogonali, la geometria piana della lottizzazione cede il
passo all’accumulo verticale di case unifamiliari e altre strutture, pic-
coli condomini e manifatture si abbarbicano sui crinali delle colline,
si sovrappongono gli uni sugli altri. Come reazione a questa innatu-
rale prossimità vi è il rinchiudersi all’interno, il non affacciarsi sul

74
verde perimetrale quasi a cercare un’opportunità di privacy nel caos
della città. Le case tendono ad aprirsi verso corti interne, patii, porti-
ci e vicoli di servizio retrostanti. Lo spazio privato si piega su se stes-
so a formare labirinti interni, universi paralleli non comunicanti. Le
dimensioni si riducono, la casa implode.
Il piegarsi e l’interiorizzarsi si articolano in passaggi chiusi, disimpegni
con nicchie dove sostare: panche, sedute, armadi, ripostigli, recessi.
Sono stazioni temporanee, mensole per appoggiare la vita quotidia-
na, supporti per riporre una simbologia personale, appigli che docu-
mentano transizioni. Le icone pubbliche cambiano la casa, gli spazi
principali sono già invasi da esse: gli arredi comprati da catalogo, i
costumi dell’arena-televisione... C’è un linguaggio collettivo già
stabilizzato anche in queste dimore che desidererebbero lasciare
il mondo esterno alla porta d’ingresso. I supporti, i disimpegni, le
mensole invece rimangono, misteriosamente intatti perché sco­
nosciuti, non presi in considerazione. Anonimi ma introversi, gli abi-
tanti si misurano con una forma di privacy intercambiabile fatta di
percorsi interni tra piani d’appoggio temporanei.
Le superfici non sono mai unitarie ma composite, stratificate, formate
da diversi livelli di materiali: carte da parati, moquettes, rivestimenti.
Si vuole creare un’archeologia tattile che difende l’interno dall’anoni-
mato stradale, ma queste non sono forse le case che si aprono sulla
loro proprietà recintata? Non hanno forse la fortuna di potersi relazio-
nare con l’esterno attraverso grandi aperture e porticati? E invece la
trasparenza convive con la stratificazione interna, le moquettes e le
carte da parati giungono fino al bordo dei patii ma non sono condi-
zionate dallo sguardo verso l’esterno. Due mondi coesistono, en-
trambi parti complementari di un rituale di difesa. La casa è un incu-
nabolo, il mondo esterno un peep-show, osservato da un punto pro-
tetto e non riguardabile. La città che si dilata nel territorio offre una
fuga indifferenziata, la casa è invece autoriflessiva, un universo di
frontiere arbitrarie.
Los Angeles 1990

75
Mirage
L’hotel è una torre multipiano, tre ali rivestite di vetro riflettente si
intersecano a formare una planimetria a forma di ipsilon. Le facciate,
poste a centoventi gradi l’una rispetto all’altra, proiettano ulteriori
edifici su di un cielo virtuale. Il piano terra dell’edificio è un’enorme
piastra dal perimetro indefinito che contiene gli spazi pubblici. Tutti
i casinò sono così, parallelepipedi nascosti dietro alla scenografia del
boulevard e posti su di un basamento non relazionato a loro. Sul
retro stanno le strutture dei parcheggi che, con le loro solette a vista,
proiettano l’unica ombra percepibile in un ambiente di volumi senza
peso. L’area tra le due ali rivolte verso la strada è occupata da una
montagna artificiale coperta da palme e cascate d’acqua. La visione
dal boulevard è quella di un’oasi con un palazzo sospeso sopra di
essa. Una volta oltrepassate le porte d’ingresso, l’atmosfera diventa
soffusa. C’è un percorso che va dalla lobby al casinò nascosto sotto la
montagna; esso passa attraverso una serra illuminata da una cupola
vetrata e riempita da un landscaping tropicale. Nuvole di vapore sal-
gono dalla vasca che raccoglie le acque, la vegetazione è così fitta che
riesce difficile vedere il cielo. Due versioni dell’oasi sono scisse su li-
velli diversi: quella esterna è scintillante ma irraggiungibile, quella
interna ombrosa e avvolgente. Entrambe sono soglie verso un’altra
dimensione. Dal passaggio debolmente illuminato, vi è l’ingresso
alla notte del casinò, uno spazio infinito i cui limiti non sono mai
percepiti. L’intero ambiente è rivestito da un tessuto blu scuro che
assorbe la luce e i rumori. Il luogo è pieno di slot machines e tavoli
da gioco inframmezzati da varie attrazioni: bar, ristoranti, palcosce­
nici con spettacoli di stili diversi, una specie di catalogo dei piaceri
possibili. Ogni postazione è illuminata da una miriade di minuscole
lampadine che si allineano in comete di punti colorati. Le macchine
sono poste in sequenza in corridoi paralleli, seriali. L’assorbimento
acustico è così forte che solo quello che avviene a pochi metri è udi-
bile; il rumore metallico delle monete è isolato, la musica dei bar e
degli spettacoli è circoscritta all’area dove l’evento ha luogo. Anche se le
luci sono numerose, esse lasciano l’ambiente nell’oscurità, definiscono

76
solo gli arredi più prossimi e mai lo spazio intorno ad essi. È un mondo
di profili che segnano ma non rappresentano. Le cascate di luce sug-
geriscono l’estensione attraverso la propria moltiplicazione e non con
la reale distanza, fuggono in ogni direzione senza linee prestabilite.
I muri perimetrali non sono mai visibili ma rimangono ben nascosti
dietro fondali, palcoscenici e separé. Uno strano tipo d’infinito si vie-
ne a formare. Anche se un visitatore si rende conto di trovarsi in una
grande sala affollata, è isolato. Ognuno è proiettato verso una di-
stanza indefinita rimanendo celato nella propria asola oscura. Osserva
le luci di fronte a sé ma, se abbassa lo sguardo, può a malapena
vedere i propri piedi. Il casinò smembra gentilmente lo spazio e il
corpo, il grande ambiente si rivela intimo, il singolo tavolo diventa il
centro di riferimento. L’effetto di distanziamento è articolato, la me-
moria cerca di ricostruire come ci si è persi: all’esterno c’era una vi-
sione dilatata ma definita, all’interno c’è lontananza senza orizzonte.
Il casinò è minuscolo perché aderisce al corpo ma è anche enorme
perché trasla nel buio e può riapparire in più punti. Negando un
piano intermedio tra singolo visitatore e involucro spaziale, esso pro-
lunga il potere dei suoi giochi. La gente passa attraverso le stesse
posizioni migliaia di volte senza riconoscerle. La durata dell’azzardo
non è una sequenza di eventi ma la ripetizione non cosciente dei
medesimi atti. Non si sa più se sono le stazioni a riposizionarsi o
siamo noi a passare di nuovo tra esse. Ognuno è invitato a concen-
trarsi sul proprio gioco, la tattilità delle slot machines diviene l’unico
appiglio. Aggrapparsi alla possibilità di controllare la materia, la luce,
il peso, il tatto come pulsione che si oppone alla cancellazione della
gravità. Le monete, la mano che tira la leva, la ruota che gira e defi-
nisce un baricentro locale. Come resistere a questa dispersione pia-
nificata? Forse vagando, sospesi nel buio, nella penombra tra gli
eventi. Spettatori silenziosi, siamo incanalati nel ruolo di voyeurs che
osservano nascosti il gioco altrui. L’isolamento di questo luogo non
è solitudine, è spettacolo individuale che mantiene la privacy degli
altri mentre la fa guardare di nascosto. Peep show, occhi su persone
non coscienti di un’altra presenza. L’atto di spiare diviene collettivo:

77
non siamo mai insieme e mai da soli, rimaniamo in osservazione
mentre siamo sbirciati da qualcuno. Il casinò è una somma di riti
autoindulgenti tutti uguali, le ore passano in un’eterna notte so-
gnante, l’uscita all’esterno è un brusco risveglio sotto il sole. Il tempo
è rimasto indietro.
Las Vegas, Nevada 1989

Mare d’Alberi, Montagne Urbane


Non c’è scala intermedia tra vegetazione e città, manca lo spazio
per staccarsi e apprezzarle entrambe. Il downtown è una montagna
che emerge da un mare d’alberi, la sua base affonda in una massa
vegetale. Entrare in città, sentirsi arrivati, vuol dire liberarsi della fore-
sta, elevarsi e guardare dall’alto oltre essa. Di solito, ci si perde nel
sottobosco opaco ma, in alcuni casi, la conformazione del terreno fa
apparire l’incommensurabile distanza tra mare verde e rilievi urbani.
Ci sono crinali dove si passa da sotto a sopra gli alberi: la strada im-
provvisamente spunta oltre un’immensa superficie di nuvole verdi e
le cortine degli edifici si stagliano nel cielo. Questo stato di natura è
un inganno, c’è una città anche nella foresta ma può essere perce­
pita solo all’interno del sottobosco. Non è wilderness ma suburbia,
città giardino, natura artificiale. Nascoste nel verde, ci sono case uni-
familiari, servite da strade serpeggianti. I loro giardini bordano la
carreggiata ma non hanno prati aperti che distanziano le case, ci
sono sempre alberi in mezzo. Perdersi tra le strade sinuose non rela-
zionate agli edifici, dove le radure sono opache e bisogna cercare la
direzione nell’ombra; essere sempre troppo vicini o troppo distaccati
nell’estensione geografica. Sopra a tutto questo ci sono le cime degli
alberi, il secondo livello della città che divide un mondo compresso
da un’imperscrutabile distanza superiore. Gli edifici/montagne ap­
paiono a intervalli tra le poche aperture nella volta verde. Gli squarci
nel sottobosco stabiliscono un orientamento diverso: l’attesa di ri­
trovare l’high-rise che perfora l’ombrello verde crea frammenti di
distanza nel labirinto della suburbia. Forse le torri sono così alte per

78
definire qualcosa che si elevi sopra la foresta e che, alfine, deve
apparire. Non si legge la città con le direzioni ma con i livelli: 1) sotto-
bosco/case unifamiliari, 2) foresta/barriera, 3) grattacieli/montagne
artificiali. Dialettica tra perdita e ritrovamento, il privato è nascosto e
il pubblico è posto a una distanza che non si sa se si può colmare.
Bisogna sapere che la foresta è abitata da radure dove altre persone
vivono nascoste, che sulla montagna artificiale ci sono osservatori
isolati. La città reitera il viaggio degli esploratori: persi nell’impenetra-
bile, trovano riferimenti geografici e conquistano dei punti di vista
elevati. La città non è però natura nel suo funzionamento, questa è
forse un’illusione per un visitatore che si improvvisa alla scoperta. Nel
quotidiano, la mancanza di orientamento diventa piega, dove si na-
scondono percorsi quotidiani invisibili ma ricorrenti. La suburbia che
si muove sulle strade serpentine, le torri che si riempiono al mattino
e si svuotano la sera, l’evidenza “naturale” è maschera dietro la quale
bisogna scoprire un’altra realtà. L’unico tema che accomuna la città
fisica e quella immaginata è il movimento, la percezione della distan-
za e le funzioni quotidiane che si svolgono in automobile. La città
distoglie e proietta sempre oltre sé, alimenta la frustrazione del non
vedere o lo spiazzamento del vedere troppo in là. Quando si passa
dal verde alle cortine edilizie, quando si entra nel downtown, si ritrova
la città rispecchiata sulle facciate continue in vetro. La natura/foresta
è assenza che consuma qualsiasi riconoscibilità, la città di riflessi in-
finiti è l’antidoto alla perdita trascorsa. La suburbia invita a cercare un
accesso agli edifici, il downtown a trovare un esterno alla moltiplica-
zione di identiche immagini riflesse.
Houston, Texas 1988

Natale
Le case sono tutte uguali, bungalow di legno a due piani. Bassi tetti a
falda si estendono oltre gli involucri edilizi a formare portici che pro-
teggono dal caldo. Le unità d’aria condizionata sono appese qua e là
e interrompono l’uniformità delle pareti verticali. L’unica differenza

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tra le case è il loro collocamento rispetto ai meandri delle strade nel
verde. Dolci curve si dispiegano nel paesaggio arrestandosi al termi-
ne di cul-de-sac. La posizione relativa degli edifici è messa in rilievo
dall’uniformità dei loro colori – dal bianco crema al grigio perla – e
dall’assenza di vegetazione nei giardini. Qualche arbusto è presente
sui retri e ai lati, la parte privata dei lotti. Il fronte è un prato orizzon-
tale che copre tutta la lottizzazione, appoggiato sulla terra semide-
sertica ai margini della città. La vegetazione, artificiale come le case,
non appartiene a questo posto, le scatole di legno sembrano sospe-
se in aria. Di solito, una lampada per casa illumina la notte, è posta
sotto il portico e scava una stanza di luce nel buio. Durante le festi-
vità, linee di lampade decorative sono appese alle abitazioni trasfor-
mandole in ghirlande colorate. I muri e i tetti sono bordati da linee
tratteggiate e cascate di lampadine pendono sotto gli sporti. Gli
edifici scompaiono nel buio perché i piccoli bulbi incandescenti
illuminano solo se stessi e non l’intorno. I profili edilizi sono ridise-
gnati ed evidenziati. Le luci tracciano un’altra casa, anzi la sdoppia-
no: essa è prima nascosta e poi ricostruita come massa buia descrit-
ta da un perimetro astratto che potrebbe anche circoscrivere il vuoto;
non importa quello che c’è in mezzo ma solo il contorno. Privacy e
rappresentazione pubblica coesistono senza toccarsi, il silenzio degli
ambienti bui e una faccia pubblica che li circoscrive senza mostrarli.
Le barriere tra interni ed esterni, visibili di giorno, divengono vuoti
nella radiografia notturna. I pochi spazi con luce diffusa – i portici – si
staccano dalle case e non entrano nei profili. È come se l’involucro
delineato non contenesse nulla e frammenti di stanze illuminate
fluttuino segregati in una dimensione parallela, case senza interni e
stanze senza esterni sono separate e allo stesso tempo unite nella
deriva natalizia.
Le lampade operano come compendio delle case e come motivo
decorativo distaccato, proiezioni di qualcos’altro e rappresentazioni
autonome. Essendo entrambe le cose, creano una tensione irrisolta.
L’ambiguità di una celebrazione i cui contorni evidenziano se stessi e
non una figura centrale. Potrebbe essere una scenografia senza

80
oggetto, tenuta insieme da un’impalcatura trasparente. L’oscillazione
tra significante e possibile significato si muove con il vento che fa
ondeggiare le ghirlande elettriche. Luce in sé, luce di un profilo e
luce che serve una casa: tutte e tre le opzioni sono possibili ma sono
presenti in forma incompleta. Le decorazioni non hanno profondità
e non creano arretramenti spaziali. Tutte le case sono assorbite in
una galassia continua che inghiotte il quartiere. Scompaiono le dif-
ferenziazioni delle curve stradali e le angolazioni dei parallelepipedi
l’uno rispetto all’altro. Presso i circus che concludono le strade cieche,
le case si specchiano le une nelle altre, moltiplicandosi radialmente
e annullandosi singolarmente. L’illuminazione crea una zona d’om-
bra visiva e mentale ma anche una coerenza: tutte le case del quar-
tiere diventano veramente uguali nell’assenza. La suburbia mette in
scena il fantasma di se stessa e solo in questo momento diventa au-
tentica in quanto gioca con il proprio sradicamento esibendolo. Le case
sono qui ma anche altrove, non lasciano segni, si riproducono ovunque.
Automi, replicanti, sagome virtuali, diagrammi di massimo ingombro.
Natale: le case sono in festa ma hanno espulso tutto e, quindi, che
cosa si celebra? Cosa significa varcare una soglia che non c’è?
Houston, Texas 1988

81
PAESAGGI
84 Chicago, il West Loop visto dalla cima della Sears Tower
Muri, New York 85
86 Scale antincendio, New York
Suburbia, Lawrence, Kansas 87
88 Edifici abbandonati, Las Vegas, New Mexico
Welton Becket and Associates, Rank Xerox Tower, Rochester, New York 1967 89
90 Silos del grano, Kansas
Miniera, Montana 91
92 Death Valley
Rudolph Schindler, casa Janson, Hollywood, 1949 93
94 Hutong, Pechino
Museo dell’Urbanistica, plastico della città, Pechino 95
96 Città Proibita, Pechino
Soho Center, Pechino 97
98 Viadotto, Hainan
Passaggio tra le corti, Palazzo del Principe Gong, Pechino 99
100 Stoa, Palazzo d’Estate, Pechino
Risalita, Palazzo d’Estate, Pechino 101
102 Nuove torri residenziali in costruzione, Xi’an
Esercito di terracotta, Xi’an 103
CINA
Celeste Territorio

106
Arrivo a Pechino in Aereo
Dopo 16 ore di volo nella notte, sorge l’alba e la luce spinge a guar-
dare fuori dal finestrino. La Mongolia vista dall’alto è un deserto sen-
za segni. C’è solo la modellazione orografica di un’immensità incolo-
re, non si distingue se sia prateria o sabbia. Non ci sono strade, si
avvistano ogni tanto dei minuscoli accampamenti nomadi, recinti
nel nulla. Scendendo verso Pechino si innalza una catena di monta-
gne nerastre, prima una poi altre, successive. Più l’aereo scende, più
sembrano alte. Qui dovrebbe esserci la Grande Muraglia ma lingue di
nubi si insinuano nelle valli e impediscono la visione. In prossimità
del fronte meridionale, i crinali sono intagliati da terrazzamenti che
trasformano il rilievo in un enorme reticolo frattale. Poi un mare di
nebbia avvolge la pianura attorno alla città, l’atteso smog. La struttura
storica del territorio si percepisce nelle due ultime ore di volo: 1- Nord/
deserto/invasori, 2-Montagne/muraglia/barriera, 3-Sud/pianura/civiltà.
Atterrando, le presenze fantasmiche di quartieri di torri spuntano
ovattate tra bagliori di sole che sfondano per un attimo la cortina
gassosa.

Tombe Ming
Il paesaggio collinare a nord di Pechino sale verso la catena di mon-
tagne dove siede la Grande Muraglia con una serie di rilievi carsici
occupati da macchie boscose. Le rocce bianche affioranti si alternano
a macchie di fogliame rosso autunnale e a gruppi di cipressi neri.
Il paesaggio dei quadri cinesi con picchi improvvisi e nuvole croma-
tiche è già qui. Più in alto il bosco diventa invernale e le rocce hanno

107
dorsali metamorfiche che emergono dai crinali. L’insieme assume un
innaturale tono violaceo.
Un’intera vallata circondata da colline è il sito delle tombe della
Dinastia Ming, occupa un’estensione di ottanta chilometri quadrati.
Vi è un ingresso rituale con una successione di portali di pietra che
sovrastano la via d’accesso, dopo di che le strade si dividono e rag-
giungono diversi insediamenti lineari, ognuno dei quali è la tomba
dedicata a un imperatore che risale una propria collina. Gli agglome-
rati funebri si guardano l’un l’altro nell’anfiteatro naturale della valle.
Alcuni sono andati distrutti, alcuni sono stati restaurati, uno è visita-
bile. Anche qui non si comprende quanto dei manufatti è originale e
quanto rifatto, quanto è reale e quanto è stato reinterpretato.
Sequenza lineare in salita, asse simmetrico: vi è un edificio d’ingres-
so con cancello posto in una zona alberata che dissimula le stazioni
successive. Segue un grande blocco cubico intonacato e tinteggiato
di rosso con due tetti a pagoda sovrapposti. Alla sua base, con quat-
tro grandi archi, si apre uno spazio voltato a crociera sotto cui è posta
la statua di una tartaruga di pietra sormontata da un obelisco scolpito.
Segue uno slargo pavimentato con enormi lastre lapidee dove tre
ponti oltrepassano un rio d’acqua con un profilo curvilineo continuo
(è un rito d’ingresso come nei cinque ponti della Città Proibita). Vi è
poi un ulteriore muro rosso che nasconde un terrazzamento in salita.
In esso si apre un padiglione porticato al cui interno è posta una
tavola imbandita con tovaglia color giallo vivo su cui sono poste del-
le offerte: è il banchetto rituale dei defunti. Lo spazio interno è diviso
in due parti: la sala vera e propria e un corridoio retrostante scher-
mato con grandi pannelli di assicelle di legno rosso. Lungo il corridoio
sono posti dei troni, come un luogo d’attesa. Il successivo spazio
esterno è bloccato da un nuovo muro con cancello, oltre il quale sale
una ripida rampa di pietra: alla sua base vi è un tavolo con urne ri-
volte verso il cielo. Sulla sommità vi è un enorme cubo di pietra sor-
montato da una pagoda di legno. Si attraversa la base del cubo in un
passaggio voltato e si arriva in una corte retrostante racchiusa tra il
muro rettilineo del cubo e quello curvo che circoscrive l’intera som-
mità della collina. Questa, per estensione, è assolutamente invisibile

108
nella sua interezza. È qui che, in un tumulo sotterraneo, è sepolto
l’imperatore: sia la sommità della collina sia la camera mortuaria
scavata al suo interno sono rese inaccessibili dal grande muro peri-
metrale che vi gira tutto intorno. Due rampe risalgono vero la pago-
da sulla sommità del cubo, il percorso non procede, ritorna indietro
e si innalza. Giunti sulla sommità del cubo, si scopre una seconda
camera voltata con la sua tartaruga sormontata da obelisco, un altro
simbolo fallico. Da qui ci si può affacciare verso il percorso intrapreso,
la valle, le altre tombe. Una successione di piattaforme ascendenti e
di simboli di fertilità porta a un punto non oltrepassabile per poi
nascondere la tomba nel cuore della terra e racchiuderla in una for-
tezza inaccessibile. È un cammino cadenzato da stazioni che invita,
alla fine, a voltarsi indietro e a sentire l’appartenenza all’insieme
delle tombe situate nel paesaggio, un punto dominante esterno
che dissimula l’ultima dimora radicata sotto o, meglio, oltre esso.
L’architettura organizza la sequenza ma alla fine soccombe alla terra,
a una montagna che è simbolica e reale allo stesso tempo. Solo essa
può racchiudere la camera con sarcofago, non le strutture. In realtà,
tutte le stazioni attraversate dialogano con il paesaggio circostante,
sono aperte verso il bosco ai lati e consentono successive viste verso
la valle che si lascia indietro: esse sono, tuttavia, parziali. Il terrazzo
finale fa comprendere la distanza intercorsa e la fa corrispondere con
quella visibile. Ricompone così un senso di appartenenza alla valle e
alle altre tombe: solo qui si capisce che questa sequenza si ripete in
ognuna di esse. Rimane, tuttavia, il mistero dell’ultima dimora na-
scosta sotto la sommità del rilievo. La collina circoscritta dal muro
circolare, la sommità e la sezione inaccessibili, mostrano il possedi-
mento dell’intera terra da parte dell’Imperatore in una vita ultrater-
rena che si presumeva eterna.

Grande Muraglia, Passo Yuyong


Come nel racconto di Kafka Durante la costruzione della Muraglia
Cinese, essa è inafferrabile come insieme, sia nella concezione, sia
nella costruzione, sia nella percezione che ancora oggi dà di sé.

109
Può essere solo esperita per episodi discreti, anche separati tra loro:
ognuno di essi debilita a tal punto che bisogna interrompere e pas-
sare al successivo. Al passo Yuyong, la muraglia attraversa un fiume
e, presso una chiusa, inizia in opposte direzioni percepibili come di-
stinte. La visione panoramica di entrambe per tutta l’estensione del-
la valle aiuta a stabilire un inizio e una fine, anche se parziali.
Non è inusuale porre una serie di bastioni su picchi e crinali in posi-
zione di avvistamento. Quello che è straordinario è lo sforzo di unirli
in un’unica linea con un muro percorribile sulla sommità che sfida
tutte le discontinuità del terreno. La linea deve avere un andamento
discontinuo per aggrapparsi ai dorsali più ripidi delle montagne. Per
formare una difesa non può adagiarsi su elementi di mediazione,
deve seguire l’andamento della massima pendenza. Nel farlo, rileva
e descrive gli spartiacque sia planimetricamente sia in profilo. È questa
l’impresa sovrumana: l’orografia è molto più ripida di quanto può
essere un percorso pedonale: essa compie sempre il tragitto più
diretto. Per questo la Grande Muraglia, larga costantemente sei metri
e chiusa tra due muri merlati, racchiude pendenze impossibili, col-
mate con gradini dalle alzate vertiginose e discontinue che spezzano
il cammino. Dopo poche centinaia di metri, bisogna fermarsi a ripren-
dere il fiato.
La Grande Muraglia dispiega il confronto tra il corpo umano e la geo­
grafia (il limite, la difesa, la creazione di una linea unica nel territorio),
tra il corpo umano e l’orografia (la linea diretta tra due cime). Il
confronto miniaturizza l’uomo di fronte all’enormità del territorio da
difendere (le viste sono infinite e variate a ogni crinale) ma anche in
relazione alla propria opera (il muro è un’infrastruttura inconcepibile
come opera unica, può essere solo costruito a fasi).
La Grande Muraglia assume quindi un tratto sovrumano, infinito,
mutevole, serpeggiante: i cinesi dicono giustamente che è come un
dragone che cavalca il profilo delle montagne. Ha, tuttavia, un carat-
tere sorprendentemente malleabile: la barriera si piega, si flette, curva,
si adagia. Non va mai contro natura, la accompagna e la sottolinea.
Nel fare ciò, aderisce al paesaggio naturale in modo continuamente
variato. Nel seguirlo in tutte le sue pieghe, diventa segno infinito,

110
il cui termine è continuamente dilazionato, come se si decidesse di
descrivere la terra con una linea unica che non si stacca mai da essa.
La Grande Muraglia è così alternativamente eroica e soffusa, rigida ed
elastica, dominante e sottomessa, assoluta e discreta. Qui è anche
misteriosa. I turisti ne percorrono dei tratti restaurati mentre altri
sono crollati e scomparsi nella foresta o tra le rocce. Sono brani di una
carta geografica grande come la terra che si è dispersa in frammenti.

111
Città Filamentosa, Città Proibita

112
Quartiere degli Hutong a Nord della Città Proibita
Hutong: struttura tradizionale della città cinese, orditura a tappeto
con un primo reticolo di strade che racchiude una seconda città inac-
cessibile fatta di corti e passaggi interni. Tutti gli edifici sono a un
piano e disposti a perimetro. L’infrastruttura base di un gruppo di
corti è accresciuta da concrezioni spontanee sulle strade pubbliche:
negozi, magazzini, laboratori artigiani, lavoro su strada, mercato tem-
poraneo con accumuli di ortaggi, folla. All’interno, oltre la soglia
pubblica, vi sono residenze, giardini, orti, corti private, un mondo
completamente nascosto. È come se le strade fossero state scavate
successivamente all’interno di una massa totalmente introversa per
ottenere dei passaggi pubblici. Gli ingressi al mondo privato sono
controllati da una gerarchia di molteplici soglie: i passaggi verso l’in-
terno, sorta di magazzini lineari dove si accatastano oggetti di ogni
tipo, sono tortuosi. Incontrano costantemente dei muri trasversali
che obbligano a deviare il percorso. Qui avviene il controllo e il rico-
noscimento: qualcuno, prima o poi, ti chiede di identificarti e spesso
non ti lascia proseguire. La struttura urbana organizza una succes-
sione di riti di passaggio verso le corti. O forse il vicolo esterno è un
modo per contenere il pubblico e liberare lo spazio per il labirinto
interno. La vita pubblica e quella privata coesistono contigue, ma
non si toccano. Il tessuto degli Hutong è denso in pianta ma leggero
in alzato, il fatto di essere a un livello rende difficile l’orientamento,
non si guarda mai oltre, non si vede la fine. Le case sono in mattoni
grigi con muri esterni ciechi, i tetti in tegole di maiolica anch’esse
grigie ma di un tono più scuro. Qualche accento è in radi baldacchini in
legno dipinto di rosso sugli ingressi su strada. Il colore che permane

113
è, però, il grigio, un orizzonte di muri opachi che fanno da sfondo
neutro al lavorio temporaneo del quotidiano. Il nostro alloggio è qui:
una corte del sistema. I tempi nell’Hutong sono compressi e non
distinti: antichità sedimentata e impermanenza del presente si alter-
nano continuamente.

Città Proibita
Il perimetro definisce questo recinto come l’inizio di un mondo altro.
Canale d’acqua, viale di salici sulla riva e muro di pietra a vista con
padiglioni montati sugli angoli. Assialità e distanza monumentale
contro il caos concentrato degli Hutong. Elevazione verticale di muri
enormi con templi sopra: la città del potere è celeste e confronta la
cecità dei vicoli orizzontali schiacciati a terra.
Le porte: grandi muri intonacati colorati di rosso pompeiano, tetti
con travi di legno incastrate, sagomate sugli spigoli e decorate di blu
e verde (il legno è sempre rivestito e dissimulato), più tetti a pagoda
sovrapposti con tegole di maiolica lucida giallo ocra. Il montaggio
verticale dei materiali crea l’effetto di una montagna artificiale con
un tempio sopra, un’analogia del paesaggio nel costruito.
Le corti d’ingresso e i tre padiglioni con sale di ricevimento: nella
prima corte si attraversa un corso d’acqua sinuoso con cinque ponti.
I recinti vogliono creare distanza, sono un segno di potere. I tre padi-
glioni di ricevimento sono enormi templi vuoti posti su un unico
piedistallo terrazzato di pietra bianca punteggiato di colonnine ver-
ticali che frammentano visivamente il parapetto dei successivi livelli.
Sono un palcoscenico da guardare e da cui essere guardati. Gli edifici
sono vuoti, hanno un’unica stanza con un trono decorato posto
nella penombra. Hanno colonne e schermature verticali di legno
laccato rosso, castelli di travi in legno incrociate e soffitti a cassettoni
decorati in verde e blu. Tutta la città ha un impianto rigidamente
simmetrico. I padiglioni rituali sono posti sull’asse centrale e sono
singoli, gli insiemi abitati sono doppi e simmetrici.
Il quartiere residenziale: posto più a nord, mostra una parvenza di
una vita quotidiana in confronto alla solitudine degli edifici rituali.

114
Due vicoli murati, posti sui due lati dell’asse centrale, distribuiscono
a pettine delle piccole corti circondate da padiglioni. Hanno una sca-
la simile agli Hutong ma inserita in un sistema ordinato. L’accesso al
vicolo e a ogni corte avviene attraverso porte rituali che venivano un
tempo chiuse ogni notte, un sistema gerarchizzato di ingressi emer-
ge anche qui. I muri opachi con cancelli danno accesso a un sistema
di leggeri telai in legno. La stessa sequenza di elementi architettoni-
ci degli enormi edifici ufficiali, verticale rosso e orizzontale verde-blu,
si rivela qui amichevole. Nelle corti dove risiedevano le concubine, è
visibile anche l’invecchiamento, la pittura del legno non è stata ripre-
sa più volte e mostra screpolature, macchie, annerimento. Se i padi-
glioni d’ingresso sono analoghi a dei templi per un dio-imperatore,
questa è una città-modello per il controllo sociale.
Il giardino imperiale a nord del quartiere residenziale è una surreale
analogia delle montagne con templi dei paesaggi dipinti. Su un
pavimento di pietra sovrastato da un ombrello di chiome d’alberi,
emergono delle montagne artificiali fatte di sassi porosi cementati
tra loro, costruiscono accumuli con piccoli templi-padiglioni in cima.
Una montagna di guglie più alta si addossa al muro esterno setten-
trionale della città. Il giardino è lo specchio di tutto il territorio (mon-
tagne, fiumi e templi), stilizzato e racchiuso in una corte.
Vista dall’alto da Parco Jingshan: la sequenza di tetti a padiglione ha
un sapore wrightiano, ricorda le vedute a volo d’uccello dell’Imperial
Hotel a Tokyo. È come se la copertura, quinta facciata, fosse il legante
che tiene insieme le differenze. Si guarda la Città Proibita e si pensa a
un Oriente filtrato attraverso gli occhi del moderno che è leggero,
stilizzato e fatto di componenti intercambiabili. Ma forse non è questa
la sua realtà.
Cos’è il tempo nella città degli Hutong dove il presente instabile si
lega a un’ossatura antica ma invisibile? Cos’è il tempo nella Città
Proibita dove gli edifici sono stati tutti rifatti nello stesso modo in
secoli successivi e non si vede alcuna successione di periodi? Il tem-
po è forse sempre lo stesso ma è ciclico: si ripresenta irriconoscibile.

115
Area Rifatta e Area Ricostruita di Hutong
Più a nord della Città Proibita, una porzione di Hutong è stata restau-
rata e trasformata in area pedonale commerciale. Il fronte con negozi
rivive accanto alla vita quotidiana raccolta nelle corti con tutto il suo
bric-a-brac. La ricostruzione avviene all’interno di recinti chiusi: im-
provvisamente in fondo a un passaggio compare un cantiere invisibile.
Non si vede la differenza temporale, tutto è costruito con gli stessi
mattoni e tegole grigie di un tempo. Muri ciechi e tetti a pagoda
sono il neutro senza storia.
Più a est, un intero isolato è stato ricostruito (ma forse si potrebbe dire
costruito) ex-novo in stile tradizionale. Nello spazio introverso nasco-
sto dietro ai recinti opachi si nascondono nuove residenze di pregio
servite da un livello di parcheggi interrati. Cartelli di vendita mostrano
che quest’area è soggetta alle leggi di mercato. Le soglie tra pubblico
e privato esperite nel settore tradizionale sono qui annullate.
Cos’è nuovo e cos’è antico?
Cos’è fatto e cos’è rifatto?
Cos’è originale e cos’è copia?
Cos’è storico e cos’è contemporaneo?
Queste categorie non sembrano aver senso in un paese dove il tem-
po non è evidentemente solo progressivo ma ritorna anche su se
stesso. Nel fare ciò non rende distinguibili le fasi successive ma le
equipara tutte.

Casa di Lu Xun
Lu Xun, scrittore (1880-1936), è un interessante figura di transizione.
È testimone del crollo della Cina imperiale e dell’affacciarsi alla
modernità. Ondeggia tra internazionalismo e tradizione: passa dalla
traduzione di Huxley e Verne in cinese, ai pamphlet giornalistici fino
alla difesa della scrittura tradizionale. La sua minuscola casa, parte di
un Hutong e resa oggi visitabile, è un condensato di tradizione ma
anche un moderno tentativo di mimesi dello studio dell’artista nel
caos della città. Si arriva all’ingresso attraverso un tortuoso vicolo e si
penetra al suo interno attraverso una sequenza di tre piccole corti.

116
La prima ha la cucina a sinistra, un deposito a destra e un gruppo di
servizi sul retro; il fondo è un minuscolo soggiorno con all’interno un
tavolo e due sole sedie. Un passaggio laterale con vicolo esterno rag-
giunge la seconda corte che ospita un piccolo studio, una stanza
spoglia con un solo tavolo di lavoro e una sedia, i muri sono nudi e
senza scaffali. Una terza corte ha ulteriori servizi che isolano lo studio
al centro dell’insieme nel cuore dell’Hutong. Non vi sono collega-
menti tra gli ambienti. Essi sono tutti ospitati in case separate rag-
giungibili solo dall’esterno. Ognuna di loro ha una singola vetrata
orientata e, in un rapporto uno a uno, ogni stanza guarda una sua
corte dedicata e non condivisa con altri ambienti. In tale modo si
crea un mini-insediamento rurale nascosto nel cuore dell’edificato:
la vita sembra svolgersi nei passaggi tra stanze e corti, con qualsiasi
clima. È spartana come lo sono i pochissimi arredi che Lu Xun am-
metteva nelle stanze. È un oasi di silenzio che diventa mimetica per
riduzione alla logica dell’Hutong: tanti spazi separabili convivono
contigui e si affacciano sulla propria corte. Ma allora l’Hutong può
contenere qualsiasi cosa? Forse sì, è casa ma è anche altro e non lo
rende riconoscibile, sia esso lavoro, commercio o mini-agricoltura ur-
bana. Tutto è ricondotto a un abitare introverso che vive parallelo ad
altre forme di abitare, a qualsiasi altra cosa.

Attorno alla Città Proibita


Nei parchi Beihai e Jingshan si declina la nozione di paesaggio artifi-
ciale: pavimento in pietra, filari di alberi piantati e finte montagne fat-
te con ammassi di rocce aguzze cementati tra loro. Non ci sono prati
né boschi ma, in caso, aree incolte, spontanee e invisibili, poste in
mezzo al paesaggio ricostruito. La natura delle chiome degli alberi –
volumetrica, pendente, coloristica – è l’unico effetto che questi parchi
sembrano ricercare, come un ombrello agli infiniti affari umani che si
svolgono sotto di esso. La gente, di tutte le età e ceti, frequenta il
parco. Vi sosta per fare Tai Chi, per ballare, per cantare in coro. Qual è
la natura spontanea del parco? Qui sembra essere la gente, non la
vegetazione. Ad essa si offrono occasioni per un infinito teatro collettivo.

117
La folla è protagonista di questo come di tutti i monumenti storici
della città: massa di cinesi, turismo interno, spesso in comitive. Gli
stranieri, gli occidentali, sono invisibili, una goccia nel mare. La
demografia, la legge dei numeri della Cina, è impressionante quan-
do si dispiega nei luoghi pubblici. Dopo alcuni giorni non ci si stupi-
sce che i cartelli informativi siano solo in cinese. La comunicazione è
per loro, gli unici presenti.
La Torre della Campana e la Torre del Tamburo sono i guardiani del-
la città antica sul terminale nord dell’asse centrale che si estende
dalla Città Proibita. Monoliti verticali, uno rosso, l’altro di pietra: en-
trambi hanno un coronamento di legno: merli e tetti, merli e logge
appese. La prima ambisce a diventare muraglia perché larga quanto
alta. L’altra è torre solitaria, diventa un picco colonizzato da una ca-
panna di legno.

Piazza Tien’anmen
Vastità troppo estesa contornata da edifici fuori scala che fungono
unicamente da fondale. Stasera è riempita da un bouquet monu-
mentale di fiori artificiali illuminati elettronicamente posto al centro.
L’effetto ricorda Las Vegas ma il light-show riempie il vuoto di un
potere che non sa più come rappresentarsi. Transenne e crowd
control all’ingresso della piazza: per entrare si passa attraverso dei
metal detector gestiti dalla Guardia Nazionale. Gli edifici real-socialisti
sono dei templi di pilastri con solette multiple che imitano in
astratto i più tetti delle pagode. Il mausoleo di Mao, tuttavia, è in
stile “tradizionale”, identico agli edifici d’ingresso della città proibita.
È una copia, un’imitazione o un originale che si pone in continuità
con l’architettura di un potere millenario?

Museo dell’Urbanistica
Ospitato in un edificio recente a sud di Tien’anmen, presenta enormi
plastici grandi come stanze che ritraggono la città in diversi periodi
storici. Il grande modello di bronzo appeso sulla scala centrale e

118
quello della Città Proibita con il suo intorno, mostrano che Pechino
era tutta Hutong, un enorme mare filamentoso, e i templi, con i loro
recinti regolari, emergevano come isole d’ordine. Gli Hutong forma-
no una rete molle che si flette e curva ma non è mai capace di arri-
vare a un limite, a formare un isolato concluso circoscritto da strade.
Il tessuto delle corti si estende come un morbo, un parassita.
I templi però anticamente erano molti di più, le isole avevano un
senso in relazione alla scala del mare frattale che li circondava. Tutto
questo è stato cancellato sia dal Comunismo sia dal Capitalismo re-
cente: l’ottantacinque per cento dei monumenti antichi era stato eli-
minato da Mao, il resto è stato compiuto dal boom edilizio specula-
tivo recente. Il tessuto degli Hutong sopravvive in alcuni frammenti
vicino alla Città Proibita. Sostituzione immemore (il tessuto degli
Hutong) e sostituzione autoritaria (i templi come simbolo di potere
passato) si sono alternate, operando in sintonia.
La successione dei piani urbanistici di Pechino, esposti in sequenza
dagli anni Cinquanta a oggi, tratta l’edilizia come materia generica,
definita da un retino di zoning e ritagliata indifferentemente. Cam-
biano gli assi stradali di penetrazione, le circonvallazioni e le isole
verdi a servizio dei nuovi quartieri. Il resto, e cioè l’edilizia, è materia
indefinita e non si sa quale forma o densità abbia. Così è cresciuta la
città: il grande modello del presente e futuro in scala 1:500, visibile
da due livelli in un grande salone a doppia altezza, mostra un collage
di parti alte e basse, dense e svuotate, che si succedono indifferente-
mente. L’unico elemento che le tiene insieme è la viabilità, l’unico
modo per dare loro un senso è di trattare ognuna di esse come un
villaggio e dargli un’identità locale che non comunica con le altre.

119
Pechino dal Taxi, Visioni Contemporanee

120
Ingresso in Città
Viali monumentali sono contornati da edifici alti con reticolo di ce-
mento a vista, raggruppati in insiemi compatti e distanti l’uno dall’altro.
Più avanti, essi si alternano a singoli palazzi di vetro con forme indi-
vidualiste, anch’essi disposti casualmente. I segni di tempi successivi,
il Comunismo e il Neo-Capitalismo, sono posti spazialmente conti-
gui, anche se l’attribuzione temporale è incerta e le sovrapposizioni
ricorrono. In questa struttura urbana dispersiva che alloggia ventuno
milioni di abitanti, isole di oggetti edilizi senza ordine e senza viabi-
lità interna si alternano alle autostrade sopraelevate. È la struttura
“asiatica” dei villaggi nella città, già esperita a Mosca, e un’estrusione
verticale del labirinto che si troverà negli Hutong.

Circonvallazione, Radiali, Sopraelevate - Zona Ovest


Viali immensi a n-corsie con torri poste a grappoli: seriali al loro inter-
no, disordinati nelle rispettive relazioni. Caos degli oggetti nell’ordine
monumentale degli assi, effetto americano su gerarchia sovietica.
Gli edifici hanno caratteri cinesi pur essendo genericamente modernisti:
– Hanno reticoli di cemento a vista: il telaio strutturale è preponderante.
– Hanno bow-window posti in sequenza verticale a formare nervature
vetrate.
– I bow-window sono segnati dalla presenza di macchine per l’aria
condizionata esterne o racchiusi in reti e sbarre per la sicurezza.
Queste trasformano questi grattacieli residenziali in surreali sequenze
di gabbie aeree.
– Gli edifici sono posti a gruppi di 2-3-4-5 con orientamenti a volte

121
paralleli ma spesso irregolari o legati al solo allineamento del fronte
lungo il viale monumentale. Per il resto sono oggetti singoli in isolati
enormi, senza ordine e non sempre bordati da strade. L’ordine del­
l’Hutong, il villaggio nella città, accessi pubblici esterni e percorsi pri-
vati interni, pare ripetersi negli isolati con torri nell’hinterland.
– Molti edifici o mall commerciali privilegiano un ordine neoclassico
o neo-Decò fatto di volumi gerarchizzati con un centro e gradazioni di
ali laterali simmetriche. È lo stile Coloniale degli anni Venti rivisto
negli anni Ottanta-Novanta. In queste torri rappresentative, si predi-
lige il rivestimento di pietra o di maioliche con finestre singole.
– Il sapore cinese sul generico volume modernista è dato dal ripetersi
di solette aggettanti in più punti del corpo verticale. Esse richiamano
in astratto i tetti scalettati delle pagode. In altri casi, vere e proprie
pagode sono montate sopra il volume astratto ripetendo la dualità tra
montagna e padiglione delle mura storiche.
– C’è poi il Corporate International Style vetrato in tutte le sue declina-
zioni. Più è generico, più e importato ma anche più flessibile. L’ansia
di reiterarlo è segno di una cultura che ha fretta di adeguarsi alle
tendenze del mercato globale e costruisce infinite sequenze rifletten-
ti quasi per rispecchiarsi.

Radiale verso Nord


Cluster Theory: gruppi di grattacieli residenziali nel paesaggio grigio
dell’autostrada. Altissimi e serrati in grappoli, isole nel vuoto.
Sembrano sottoscrivere la nozione cinese di unità discrete di spazio e
tempo. Come scrive Marcel Granet nel suo monumentale Il pensiero
cinese del 1934, nella tradizione “... nessuno ha trovato interesse nel
considerare lo Spazio come un’estensione semplice risultante dalla
giustapposizione di elementi omogenei... Tutti preferiscono vedere nel-
lo Spazio un complesso di ambiti, di climi e di orienti. In ogni oriente,
l’estensione si particolarizza e prende gli attributi particolari di un cli-
ma o di una zona”. Cosa sono questi insiemi discreti? Sono forse me-
morie di villaggi, unità di vicinato o appropriazioni casalinghe del
Modernismo? Sembrano la città di Hilberseimer ma in realtà non è

122
così perché non si dilatano nel territorio ma si raggrumano in insiemi
chiusi.
Il landscaping della città: è sempre ottenuto con più file serrate di al-
beri diversi poste lungo le strade. Si crea uno schermo multiplo con
contrappunti coloristici e di chiaroscuro che cambiano con le stagioni.
Ora, ad esempio, si vedono piccole conifere scure poste tra due file di
alberi a foglie caduche gialle. La fascia verde serve a creare un ombrel-
lo d’ombra alla base degli edifici dove avvengono gli eventi umani. Qui
sono poste fermate d’autobus, panchine, zone con chioschi tempora-
nei di vendita, una seconda città seminascosta. Crea un muro perime-
trale dentro il quale sono racchiusi i quartieri, come il bordo sponta-
neo degli Hutong.

Circonvallazione verso l’Aeroporto a Est


Il complesso Linked Hybrid di Steven Holl, otto torri che racchiudono
una corte e ponti sospesi che li legano, va visto in relazione ai cluster
di grattacieli residenziali che gli stanno attorno. A un primo sguardo,
si mimetizza lungo la tangenziale, sembra uno di loro, ne ripete la
dimensione. Con il suo reticolo di finestre generico, segnato solo dal
colore all’interno degli imbotti, esso richiama la robotica ripetizione dei
cluster asiatici fatti di Lego che avanzano nella periferia indifferenti a
tutto. L’elemento diverso, che appare a chi penetra il complesso, è dato
dallo svuotamento centrale che forma uno spazio condiviso (altrove as-
sente) e dalla presenza dei ponti volanti, enormi spiedini che infilzano le
torri. Il complesso è così mimetico e paradossale, inserito e provocatoria-
mente diverso. È alveare generico e comunità definita, frammento
Metabolist e banale ripetizione di un tipo standard. È questa compresen-
za di contestualità, di banalità e di modificazione che lo rende pregnante.

Centro Commerciale Parkview Green (FanCaoDi)


Mall con galleria centrale multipiano, sormontata da piramide di vetro
alta 90 metri. Un lungo ponte pedonale sospeso porta dalla strada
all’ingresso, sorvolando i piani inferiori a parcheggio. Ponti e scale mo-
bili, artatamente posti in diagonale rispetto alla galleria rettangolare,

123
cercano di dare un senso di movimento a uno spazio altrimenti rigi-
do. L’involucro è un volume di vetro con struttura esterna formata da
travi e nervature diagonali intrecciate tra loro (anche se disegnato da
Arup è un clone del Nido, lo stadio olimpico). L’interno ha una piace-
vole qualità dell’ambiente: luci e distribuzione fluiscono senza inter-
ruzioni o accenti evidenti, cercando di rompere l’omogeneità. I piani
terra e primo hanno negozi e ristorazione, il piano secondo gallerie
d’arte, ci sono poi cinque o sei piani di uffici e l’attico con un ristoran-
te panoramico. Tutto l’interno è costellato di opere della nuova arte
contemporanea cinese inframmezzate ai negozi di lusso per nouveau
richès. Ad esse si alternano grevi opere occidentali come le sculture
baroccheggianti dell’ultimo Dalì dove solo ogni tanto emerge un toc-
co d’ironia come in una madonna dilaniata da un grande buco al cui
centro pulsa sospeso un cuoricino di neon.
La nuova arte cinese (o, almeno, quella qui visibile) presenta continui
rimandi a canoni occidentali tradizionali (la scultura monumentale, lo
sfumato leonardesco, i pattern decorativi bizantini) e moderni (la
pennellata informale, il dripping di Pollock): essi sono, tuttavia, inten-
sificati nell’iconografia, nella fattura decorativa e nella retorica espres-
siva. Non c’è astrazione, non c’è ironia, non c’è distacco Pop. Si vede
che la Cina non ha elaborato nè la Modernità né la cultura di massa:
per ora esse rimangono vestiti assunti dall’esterno. Quella che si vede
in queste opere è una rivolta all’omologazione comunista, che usa,
come segno di protesta, gli elementi retorici della propaganda in
modo paradossale, per affermare l’individualità di artisti protagonisti
del momento. Tutto ciò, visto nella mall del centro commerciale, ha
un sapore di decòr di lusso e non di arte pubblica. L’abolizione della
cornice del museo mostra la ricerca di commistione con le commodity
di consumo. Gli unici pezzi che mostrano un tratto d’immaginario
sono modelli di macchinari mutanti in acciaio sospesi in aria con dei
cavi: una balena-sommergibile che si apre per mostrare le sue costo-
lature interne, delle portaerei-pesci con la prua-muso rotante. Sono
macchinari attivi con un perpetuum mobile azionato da pesi e cavi di
collegamento: in essi emerge la nostalgia per un età meccanica che
aveva ancora legami con la natura e che ora si può solo evocare.

124
Ritorno nella Città Notturna
Interminabili file di auto con le comete dei fasci dei loro fari sfrecciano
lungo strade vuote di pedoni, anche se siamo nel più lussuoso quar-
tiere commerciale. Non c’è vita di strada. Pechino vorrebbe essere
New York ma è una metropoli svuotata che in realtà assomiglia più a
una Los Angeles dove la suburbia è diventata un office park. Il modello
occidentale importato è diventato distopico, ha perso la folla del
downtown e il verde della città giardino, ha smarrito allo stesso tem-
po la collettività e l’espressione individuale.

Sanlitun Shopping Mall, Soho Center e Galaxy Soho


Tre mall, tre isole pubbliche nel nulla, il commercio è l’unica forma di
aggregazione della città nuova a est del centro. La prima è un insieme
di edifici di tre o quattro piani con asse pedonale centrale a cielo
aperto e un’isola che, a un certo punto, lo divide in due. Delle strade
a pettine si dipartono con sottoportici da questa spina principale. Ai
piani superiori, degli occasionali ballatoi reiterano la vita del livello
terreno per quanto sono i negozi ad essere multipiano al loro interno
e non i percorsi pubblici. Gli spazi sono proporzionati e i volumi edi-
lizi hanno diversi trattamenti degli involucri ma, al di fuori dell’asse
centrale, perdono gerarchia e risultano tutti uguali.
L’antistante Soho Center ha una piazza esterna ribassata ed alti gratta-
cieli che scalano verso l’alto circondandola. Tutti i volumi hanno un
pianta curvilinea con involucri concavi e convessi segnati da una gra-
fica di facciata a bande irregolari verticali alternatamente bianche,
nere e di vetro. Per evitare un senso di ripetizione, le bande saltano
posizione ogni due o tre livelli producendo una vibrazione visiva che
riflette il cielo e i dintorni in più modi. La scalettatura del pattern di
facciata e la curvatura continua dei fronti creano però una parallela
indifferenziazione degli spazi che non sembrano mai giungere a un
termine. Solo una delle torri, più bassa e colorata di toni di arancio, sta-
bilisce un punto di riferimento in un insieme altrimenti frammentario.
La dittatura angosciante della curva continua si ritrova nella galleria
del più recente Galaxy Soho disegnato da Zaha Hadid. Qui i cinque

125
volumi che racchiudono la mall sono curvilinei anche in alzato e se-
gnati da ballatoi e vetrate a nastro continue. L’incessante avvilupparsi
delle linee orizzontali in volumi e ponti aerei produce un effetto di
straniamento totale. Le lamelle sembrano pesare visivamente sul vi-
sitatore il quale è qui schiacciato al piano terra molto più che dalle
scalettature verticali del Center. Il Galaxy è abitato ai primi livelli men-
tre in quelli superiori sembra completamente deserto, segno di crisi o
di scarsa attrazione commerciale dei suoi spazi. L’architettura blob
ipertrofica diventa massa vuota e mai volume, superficie opaca e mai
riflesso. Il presunto dinamismo del progetto ha fallito, non promuove
alcuna leggerezza, non si lascia abitare da alcuna folla, è monumento
pubblico svuotato.

CCTV
Il portale piegato della sede della TV di stato di OMA se ne sta, un po’
compresso, tra una selva di nuovi grattacieli scintillanti, quegli edifici
che voleva sfidare per cambiarne la tipologia e a cui, alfine, ha dovuto
soccombere. Fosse stata un’idea originale, come i Grattanuvole di El
Lissitzky alle porte di Mosca, se ne sarebbe potuta lodare l’originalità.
Lì c’era l’idea, la posizione simbolica d’ingresso alla città, lo sbalzo
ardito che apriva lo skyline, la carica rivoluzionaria. Qui c’è solo un
ulteriore oggetto indifferente tra altri. L’idea è derivata (come sempre)
dal Costruttivismo, gli sbalzi di due Grattanuvole sono stati uniti a
formare un portale (che, per quanto tridimensionale, è una figura
chiusa) e l’intento è quello di farsi accettare dal mondo dell’alta finanza.
I due volumi a “zeta” inclinati risultano tozzi e contengono indifferen-
temente i livelli orizzontali: essendo questi degli studi televisivi, sono
delle scatole chiuse poste all’interno di un involucro vetrato che non
li illumina. Il portale inquadra la città ma la vista è spesso arrestata
dalla presenza di torri limitrofe più grandi. Le forze strutturali sono
rappresentate in facciata da un reticolo di nervature poste a quaran-
tacinque gradi, ma esse compongono un gioco grafico che non gira
mai gli angoli del volume. Il tour interno per il pubblico oltrepassa
velocemente i membri portanti per condurre i visitatori a camminare

126
sullo sbalzo e li invita a guardare il vuoto sottostante con degli oblò
posti a pavimento. Se il panorama è il suolo e non l’orizzonte, la sede
della CCTV dichiara la sua appartenenza alla gravità: ha messo in gio-
co dei costosissimi sbalzi aerei per ritornare a terra. Mostra inoltre la
propria autoreferenzialità: il suo panorama è la propria stessa base e
non l’intorno.

Uffici di un’Impresa di Costruzioni Cinese


I cinesi sembrano avere acquisito troppo in fretta la ricchezza dei
nuovi edifici capitalisti. Non la conoscono, non sanno gestirne le fini-
ture, la vivono come un bene di consumo da usare a bisogno, lascia-
no negli ambienti dei gradi di incompletezza o di degrado che coesi-
stono con i materiali più lussuosi. La facciata di questo palazzo a uffi-
ci è splendente ma il livello della strada è degradato, il marciapiede non
è finito ed è invaso da automobili che non sanno dove parcheggiare.
L’ingresso sembra essere ancora in cantiere, vi sono cartoni incollati
alle pareti della lobby e dell’ascensore. L’insieme però non è in
fieri ma un non finito che dura da tempo: il degrado si assomma
all’inconcluso. È come se a nessuno interessi finirlo, l’apparenza non
è mai comprensiva e lascia degli sfondati su tratti di povertà.
Non sembra che si sappia come usare i nuovi ambienti. Una lobby
enorme al piano è vuota, ci dicono che non sanno come impiegarla. I
tavoli di marmo della reception sono racchiusi in una teca di vetro
come se non potessero essere usati. Un reticolo di scaffalature finite
con intonaco a marmorino è riempito di faldoni vecchi. All’interno di
ridotte stazioni di lavoro, troppo compresse e non riconfigurabili, tro-
neggiano surreali acquari con pesci rossi che galleggiano tra i computer.
Delle piante morenti in vasi languono in sale riunioni con una cattiva
aria condizionata che obbliga ad aprire le finestre. Durante le riunioni
si fuma e il sistema non garantisce un opportuno ricambio degli odori.
L’insieme trasuda un aria di bene collettivo non mantenuto cui si ag-
giungono le finiture status symbol portate dalla nuova ricchezza. A chi
appartengono questi ambienti? Chi domina lo spazio nella nuova
Cina? La domanda non trova risposta.

127
Templi come Case, Storia Ripetuta

128
Tempio di Confucio
Dopo avere visitato un certo numero di siti storici, ci si rende conto
che lo stesso linguaggio edilizio era impiegato per diversi usi e credi
religiosi quasi fosse un neutro da riempire di contenuti e da ripren-
dere in periodi distanti tra loro. In successivi templi si scopre come
venisse adattato ai tre ceppi religiosi dell’antica Cina: il Taoismo, il
Confucianesimo e il Buddismo senza perdere i suoi connotati:
– impianto a corti successive, percorso simmetrico assiale, templi e
muri con aperture chiuse da cancelli che formano soglie poste in
asse al centro delle corti. Pavimento degli esterni in pietra, alberatu-
re piantate che formano schermature e aree d’ombra.
– Edifici a un solo livello con telaio in legno, affiancati da muri che
separano le corti, i quali coincidono solo a volte con le sole testate
che sono sempre cieche.
– Elementi verticali in legno laccato rosso: colonne cilindriche, tam-
ponamenti, schermi e finestre in assicelle. Elementi orizzontali in
legno sagomati e compositi decorati in blu e verde. Joinery a incastro
tra gli elementi del telaio portante. Tetti a padiglione con pendenze
a pagoda coperti di tegole in maiolica gialle (o grigie, a volte verdi, in
rari casi blu).
– Edifici solitamente a una o due campate trasversali e numero di-
spari di campate longitudinali per supportare la simmetria.
Qui è il regno di Confucio e presenta oltre ai suddetti edifici anche
delle strutture cubiche poste ai lati dell’asse di penetrazione nelle
corti principali. Sono gli altari (come altrimenti chiamarli?) con aper-
ture ad arco e statua di tartaruga sormontata da obelisco posta al
centro dello spazio con volta a crociera già incontrati nelle tombe

129
Ming. Qui sono più di uno e formano una mini-città rituale rinchiu-
sa in un recinto.
Nelle hall degli edifici principali sono posti degli altari. L’ultima, la
più vasta, è impressionante per proporzioni anche se l’arredo è spar-
tano e mostra un centro religioso operativo ma inflessibile nel per-
seguire il pragmatismo del suo fondatore. Nulla è dato al visitatore
se non l’opportunità di attraversare questi spazi. Più invitante è la
limitrofa Guozijian, l’università imperiale.

Guozijian, Università Imperiale


La volontà politica di fondare un’accademia per l’educazione dei qua-
dri dello stato, risalente già al 124 a.C., è straordinaria. Sorge una
mini-città con aule, uffici amministrativi, spazi d’ospitalità, corti e un
padiglione centrale da dove parlava l’imperatore stesso. Il sistema di
corti, cresciuto nei secoli, è limitrofo al Tempio di Confucio e condivi-
de un muro del recinto con esso, anche se è completamente diverso.
Sin dall’ingresso, ci si accorge che le corti non sono autonome come
negli altri complessi. Le due ali laterali traslano da una corte alla
successiva come lunghi stoà: esse ospitano i servizi, mentre le fun-
zioni didattiche sono poste sempre e solo negli edifici trasversali al
centro degli spazi. Le colonne sono qui eccezionalmente laccate di
nero e segnano lo spazio longitudinale accompagnato dai due por-
ticati simmetrici che perforano gli angoli delle corti.
Dopo il padiglione e lo spazio d’ingresso si giunge a una corte più
vasta eccezionalmente tappezzata da un prato e coperta da un fitto
ombrello d’alberature. Al centro di essa vi è un canale d’acqua circo-
lare attraversato da quattro ponti che racchiude un padiglione qua-
drato con 3x3=9 campate perfettamente cubiche e aperte con
schermi mobili verso l’esterno. Al centro di esso vi è la cattedra
dell’imperatore. Una stampa antica, visibile nella parte espositiva
ospitata nel complesso, mostra la funzione di questo spazio: la cor-
te diventava una grande aula dove gli allievi si sedevano nell’erba
sotto gli alberi mentre l’imperatore, opportunamente distaccato,
parlava dal padiglione.

130
Tempio Lama Yonghe Gong
La visita continua con la ripetizione di identità e differenze. Anche
qui si incontra lo stesso impianto a corti ma più decorato, come se
la tipologia descritta fosse un’infrastruttura base da arricchire. Questo
è il centro della cultura buddista tibetana in Cina, anticamente
ospitato dagli imperatori in città e oggi tollerato dal governo che
spera così di far dimenticare le parallele persecuzioni che attua in
quel paese: l’insieme, abitato da monaci in arancione (non si sa
quanto reali) appare come una scenografia per la parallela opulenza
della cultura buddista e per l’insistita rappresentazione del rituale
con bracieri dove fuma l’incenso e inginocchiatoi posti di fronte agli
edifici.
Il recinto perimetrale è qui a due livelli con un ballatoio esterno
schermato da ordini sovrapposti di colonne, che fanno apparire le
ali edilizie come I quartieri residenziali di un monastero. Dentro ai
santuari vi sono enormi statue lignee di Buddha laccate d’oro e ar-
ricchite da drappi e cascami coloratissimi, poste in penombra per
attutire il riflesso delle tinte. Gli ambienti sono multipiano ed hanno
una forte tensione verticale, ma questo è visibile solo internamente
mentre all’esterno tutto è nascosto da successivi tetti a pagoda.
L’ultimo santuario ospita un Buddha alto 18 metri che guarda un po’
sommessamente dall’alto come se fosse costretto in uno spazio un
po’ angusto per le sue dimensioni. Nelle ali laterali al piano terreno
si aprono delle stanze con gruppi di Bodishattva in scala al vero che
formano dei quadri didattici. L’insieme è sensuale, variegato e acco-
gliente come se, per la prima volta, gli spazi si animassero. Il Buddismo
sembra abitare gli ambienti in modo più fastoso e scomposto delle
rigide nature morte con trono viste finora nei palazzi imperiali. In ciò
è decisamente più barocco: già il fatto di sfidare le proporzioni
dell’architettura con una statuaria fuori scala costituisce una rivinci-
ta del corpo sul contenitore.

131
Palazzo del Principe Gong
Con il palazzo più vasto dell’antica Cina, posto assieme a una serie
di residenze nobiliari lungo il lago Houhai, si raggiunge il paradosso
della moltiplicazione del sistema edilizio a corti. Il complesso occu-
pa un’area di 60.000 metri quadri, di cui il palazzo ne occupa 28.000
e il giardino a nord 32.000. L’insieme forma un rettangolo di 330x180
metri e gli spazi interni assommano solo a 850 metri quadri sui
28.000 occupati, il che mostra la bassa densità dell’abitato e la pre-
ponderanza degli spazi esterni. A parte un’ala a due piani che sepa-
ra il palazzo dal giardino, l’insieme ha un solo livello.
Il palazzo è una successione di corti quasi identiche di circa 6 metri
di larghezza x 4 di profondità, tutte formate da edifici in telaio di
legno dello stesso linguaggio già descritto (i tetti sono qui sommes-
samente grigi). L’unica caratterizzazione degli spazi è la presenza o
meno di alberi nelle corti, il che risulta in un sistema ripetuto di
patii, labirintico nella sua indifferenziazione. La gerarchia è data dalla
chiusura dei cancelli e cioè dalla successione di soglie di penetrazio-
ne verso il palazzo centrale che non è altro che un’ala di una corte
un po’ più vasta. Vi sono cinque corti trasversali nel tappeto con tre
corti centrali separate dalle due esterne da vicoli-corridoi chiusi tra
muri ciechi. Sono i percorsi di servizio per la servitù e hanno
un’analogia sia con i vicoli della Città Proibita che con quelli degli
Hutong: non offrono alcun orientamento e non invitano ad alcun
accesso che non sia concesso da chi sta all’interno. Tutti gli spazi
interni del palazzo sono non caratterizzati, sono stati rifatti recente-
mente e offrono una congerie di mostre diverse con allestimenti
contemporanei, il che aumenta il senso dell’anonimato del sistema
spaziale.
Il Palazzo del Principe Gong stabilisce un tappeto edilizio potenzial-
mente infinito ripetibile nelle direzioni X e Y ma non in altezza.
Sembra un esercizio strutturalista degli anni Sessanta a là Candilis,
Josics e Woods. Vi è una totale antigerarchia nella tipologia che è
controbilanciata dalla rigida gerarchia dei muri di chiusura e dei
successivi cancelli d’accesso a ogni corte: il contrasto tra più centri e
i loro collegamenti crea una curiosa tensione. Vi è parallela apertura

132
nella ripetizione del sistema e chiusura forzata di ognuna delle sue
parti. Gli edifici, nei loro lati lunghi, sono quasi sempre monoaffac-
cio con un muro retrostante (che chiude una corte) e il portico da-
vanti. In alternativa possono anche essere a doppio affaccio quando
condivisi tra due corti, ma questo avviene solo nel passaggio di pe-
netrazione centrale.
Dopo un edificio a barriera alto due piani, porticato verso sud e chiu-
so a nord, inizia il giardino del palazzo, che è completamente distinto
dalle corti-recinti. Anch’esso, come quello della Città Proibita, è com-
pletamente artefatto, un microcosmo dove la natura è ricostruita.
È pavimentato in pietra con alberi e aiole circoscritte, ed è infram-
mezzato da montagne artificiali fatte di rocce aguzze poste a corsi
orizzontali e alternate da aperture (la montagna è qui una sorta di
traforo impervio). Su di esse, come isole al centro di uno specchio
d’acqua, sono posti dei minuscoli padiglioni fatti per essere visti da
lontano o, al massimo, per ospitare una o due persone. Tutti gli
edifici e le montagne sono servite da leggeri portici in legno che
assumono andamento diagonale quando in salita. Non c’è mai di-
stanza, sembra di essere nell’antesignano di un Theme Park, ove lo
spazio è continuamente diviso e segmentato in modo che ogni
angolo fa ambiente a sé. Le rocce aguzze e le chiome degli alberi
creano un effetto di chiaroscuro, non c’è mai transizione tra luce e
ombra ma solo contrasti. Il giardino è spigoloso e frammentario,
spinge all’attraversamento ma non invita a risiedervi se non, forse,
nei padiglioni, che sono dei rifugi da esso e non dei complementi.

Casa di Gong Shing Lin


Eroina della rivoluzione (1893-1981) e pasionaria che organizzò il
sistema educativo comunista, Gong Shing Lin visse negli ultimi anni
in una villa in stile “tradizionale” fatta costruire per lei da Zhu Hen
Lai e ben posizionata lungo il lago Houhai tra altre residenze di no-
tabili (il Principe Gong in primis). La villa è cinese solo d’aspetto, in
realtà è una mansion americana arredata in stile anni Quaranta-
Cinquanta: ha due livelli su giardino con ampia zona giorno e salone

133
di ricevimento al piano terra, zona notte con studio a quello superiore.
È costruita in cemento ed ha applicazioni decorative in legno solo
sugli esterni. Ogni camera ha un arredo frugale e campagnolo di un
borghese trattenuto ma ricco di gadget tecnologici: telefono, citofo-
ni e radio: un vero ritratto della domesticità in allerta della Guerra
Fredda. Il tratto comunista è dato dalla presenza in tutti gli ambien-
ti di un’ampia zona con doppia fila di poltrone fronteggiantisi, in
modo che Gong potesse tenere delle riunioni collettive in qualun-
que momento.
Questa casa è un reperto dell’amnesia di massa degli anni della
Rivoluzione Culturale, della completa obliterazione della tradizione
e dell’incertezza nel trovare uno stile rappresentativo moderno per i
quadri alti di un potere collettivista. La tradizione cinese è un’esile
pellicola su una tipologia di villa suburbana di chiaro carattere
occidentale.

Tempio Taoista Donguye


Inserito nel moderno e consumista distretto di Sanlitun, questo an-
tico tempio ha lo stesso impianto dei complessi classici già visitati in
città: ingresso con portale dell’era Ming, peristilio perimetrale, siste-
ma di corti interne, altari cubici con tartarughe, un giardino di steli
di pietra e un tempio centrale. L’eccezione è rappresentata dalla sta-
tuaria dei “Dipartimenti dello Spirito” taoisti che occupano ogni ar-
cata del perimetro in successive stanze o cappelle visibili dal portico.
Essa forma un surreale ministero dell’anima la quale è scandagliata
in tutte le sue variazioni spirituali secondo i dettami di quell’elusiva
religione. Ogni cappella, di forma rettangolare, è popolata sui tre lati
da sculture al vero. Sullo sfondo vi è un sacerdote che guarda due
gruppi allineati sui due lati. Le figure che li compongono sono per
metà realistiche e per metà dei mostri antropomorfi. Vi sono chiari
ritratti di gruppi sociali (contadini, militari, sacerdoti, ecc.) e demoni
inclassificabili con il corpo umano e la testa animale. I temi delle
singole cappelle, enunciati da cartelli, variano dal “Dipartimento delle
Morti Violente”, al “Dipartimento degli Spettri Vaganti”, passando

134
per il “Dipartimento per l’Espiazione delle Colpe” e così via. Negli
altari, le principali divinità Taoiste, realizzate in scala 2:1, sono poste
all’interno di cornici dorate e iperdecorate. Tutte le figure sono rea-
lizzate in gesso e policrome. La riproduzione metamorfica dei corpi
e dei volti, iniziata nell’Esercito di Terracotta, giunge qui a un apice
grottesco e sinistro. Il tempio è popolato da figure semi-umane che
ritraggono vizi e virtù in una sovrapposizione di iperreale e onirico.
I confini tra naturale, caricaturale e allegorico sono continuamente
oltrepassati. I corpi abitano lo spazio creando un tribunale delle anime
che ritrae un popolo e i suoi sogni, tutti compresenti nello stesso
ambiente. Il senso di un teatro dell’intera società è dato dalla varia-
zione delle figure, dalla sistematica dilatazione delle casistiche raffi-
gurate nei Dipartimenti. Lo spettatore non può sfuggire a un coin-
volgimento: egli è il quarto lato di ogni cappella e non si sa se è
l’imputato o lo spettatore. O, forse, è tutti e due.

Palazzo d’Estate, Lago Kunming


Insieme di edifici costruiti (anzi, ricostruiti) dall’imperatrice vedova
Cixi alla fine dell’Ottocento dopo essere stati distrutti dagli inglesi
nel 1866 durante la Guerra dell’Oppio. Il complesso si pone sulle
rive del lago Kunming ai confini settentrionali di Pechino in un luo-
go che era un tempo campagna. Ecco un altro esempio di originale
rifatto. Ingresso: una serie di corti labirintiche con padiglioni bassi a
un piano (teatro, padiglione dei ricevimenti, annessi residenziali
della corte), ci sono sempre i telai di legno rosso laccato e gli scher-
mi di assicelle alle finestre. Gli spazi non danno alcuna indicazione
sulla direzione da seguire, le corti sono autonome e, allo stesso
tempo, concatenate. Si arriva, alfine, a un muro intonacato di bianco
dove si aprono delle piccole finestre di forme geometriche diverse,
hanno nature morte vegetali stilizzate sulle loro vetrate. Dopo di
esso inizia il parco lungo il lago Kunming, lineare e stretto tra la ri-
pida collina e la riva. Un porticato isolato di legno lungo ottocento
metri forma un diaframma spaziale tra l’acqua e gli edifici retrostanti.
È largo non più di due metri, alto due metri e mezzo e fatto di

135
pilastrini a sezione quadrata tinteggiati di verde che continuano le
travature e i pannelli di copertura: gli elementi verticali di legno
sono sagomati e tinti come quelli orizzontali solo in questo tipo di
percorsi esterni. Una folla enorme si muove lungo questo leggero
stoà lasciando sorprendentemente liberi il lungolago e le pendici
del monte con gli accessi agli edifici: è forse il potere di suggestione
della struttura direzionale con la sua prospettiva ritmata? In succes-
sivi giardini e nella salita al monte, i percorsi sono costretti in simili
telai lineari in legno assolutamente distinti dagli edifici e dalle corti.
Si viene a formare una sezione ripetuta: riva del lago, stoà, parco
lineare con edifici puntuali e collina con bosco. A metà del lungolago
vi è la salita al tempio buddista posto sulla sommità della collina.
Una successione di corti residenziali schermano ulteriori stoà in
pendenza con percorsi gradonati che annunciano la risalita. Essi
terminano contro degli enormi contrafforti di pietra gialla risaliti da
ripide rampe. Sulla sommità vi è una corte quadrata che racchiude
un tempio cilindrico formato da tre tamburi sovrapposti, ognuno di essi
ha travi radiali e scalettate che segnano fortemente i coronamenti.
Al centro dello spazio interno vi è un Buddha d’oro, il primo corpo
(artificiale) che prende possesso di questi ambienti vuoti. Lungo la
risalita e la successiva discesa lo sguardo inizia a spaziare verso il
lago a sud. Su parti del crinale roccioso liberato dagli alberi appaio-
no, come visioni, dei piccoli templi isolati che punteggiano il per-
corso come dei sogni aerei, sembrano calibrati per essere delle sce-
nografie da guardare a distanza.
Tutti gli edifici abitati che si è potuto visitare nel Palazzo d’Estate
sono singole stanze centrali in penombra. Hanno solo un accesso e
un uscita centrali, non sono articolati. Viene da chiedersi se fosse
più importante la sequenza del percorso esterno dell’attuale vita
che vi si svolgeva dentro.

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Tempio del Cielo
Sequenza rituale di piattaforme, edifici e recinti posti su un percorso
assiale di un chilometro all’interno di un parco ai confini meridiona-
li della città. Hanno tutti il tetto in maiolica blu riflettente per distin-
guersi dagli altri siti religiosi.
– Tempio d’ingresso rettangolo con portico e cancello.
– Montagna artificiale fatta di tre anelli circolari serviti da rampe.
Sono racchiusi in un recinto quadrato e hanno sulla loro sommità
un altare per sacrifici. In pietra bianca con balaustra segnata dalle
stesse colonnine dei piedistalli della Città Proibita.
– Grande tempio circolare con tre tamburi sovrapposti affiancato da
due padiglioni porticati simmetrici. La struttura di grandi elementi
di legno pesanti è tenuta insieme a incastro: joinery monumentale.
Gli elementi verticali in rosso e orizzontali decorati in verde-blu si
ritrovano in un fuori scala. Assenza di leggerezza, assenza di traspa-
renza, gli enormi tronchi sovrapposti formano nodi ciclopici.
– Distanza assiale, vuoto creato e cadenzato tra vari recinti ognuno
con cancello d’ingresso che lo isola dagli altri. Ai lati dei padiglioni e
dissimulati nel parco, vi sono ulteriori recinti preparatori ai riti:
recinto dell’Astinenza, dell’Uccisione degli Animali, ecc.
L’insieme ha un che di sinistro, quasi volesse creare il vuoto attorno
a un delitto sacrificale. La folla è attratta ed espulsa allo stesso tempo,
non può appropriare questo sito.

Museo dell’Architettura
Il museo è ospitato in un altro complesso antico posto a sud del cen-
tro città presso il Tempio del Paradiso. Gli edifici sono circondati da
altari esterni e da un forno per cuocere gli elementi di ceramica, un
piccolo baldacchino posto su piedistallo con una grande imboccatura.
Uno degli altari è un piedistallo quadrato alto circa un metro e mez-
zo con quattro scale di risalita al centro dei lati. Un altro è vegetale
con un tappeto di bosso giallo alto un metro circondato da una cor-
nice di bosso verde. Una serie di monoliti di pietra bianca scolpiti è
allineato sul bordo di questo recinto inaccessibile. Rispetto ai giardini

137
artificiali visti in precedenza, questi piedistalli-matrici di un possibi-
le sviluppo a venire, sono più allusivi.
All’interno del palazzo più grande, il Museo dell’Architettura pre-
senta le parti dell’arte del costruire con grandi modelli lignei. Esse
sono così presentate in sequenza:
– L’arte dell’incastro ligneo (Joinery): i profili di legno a grande sezio-
ne sono intagliati e montati a più livelli per definire le travature di
copertura poste su colonne che sono tronchi interi arrotondati. Il
montaggio non è mai semplice ma eccessivo, moltiplicato e scalare
nella sua riduzione in altezza. Sembra voler contrastare il peso delle
grandi sezioni dividendole in lunghezza e formando gradonate.
– Muri e fondazioni: ibridi, misti, a sacco. Sono orientati a costruire
masse e non volumi. I mattoni o le pietre sono usati indifferente-
mente per erigere i due fronti esterni che tengono insieme una se-
zione informe.
– Tetti e terrecotte: le tegole sono accentuate come profilo, colore e
lucentezza. Il componente forma corazze scalettate poste sulla testa
della città.
– Recinti moltiplicati: nella definizione degli insediamenti vi è l’os-
sessione ricorrente di definire recinti che contengono altri recinti.
Risiedere implica attraversare successive soglie, mai una sola.
– La città: è il centro di più recinti all’incrocio di linee di forza geo-
mantiche ritrovate nel paesaggio. La mappa della Pechino antica
mostra un intreccio ortogonale di più linee, un reticolo.
– L’insediamento nel paesaggio: è basato su un equilibrio di forze
(corsi d’acqua e rilievi) che definiscono un ambito in cui l’edificato
può trovarsi bilanciato tra loro. È il famoso Feng-Shui (non la bana-
lizzazione new age sdoganata in Occidente...) e l’esempio presentato
è la valle delle Tombe Ming. Ne emerge un disegno di respiro terri-
toriale di grande sensibilità, come una sorta di ascolto del paesaggio
prima di intervenirvi.
– La verticalità: si declina con la moltiplicazione in altezza di volumi
uguali e di proporzioni progressivamente scalate. Essa non è quindi
mai diretta ma mediata, ridotta a una matrice ripetuta.
– La frattalità: è la ricerca dell’intreccio e della regola che governa la

138
frammentazione da uno a molti e viceversa. Si applica sia nella ri-
duzione sia nella crescita. Si declina a diverse scale, dai dettagli edi-
lizi, all’equilibrio strutturale tra membri diversi fino al profilo delle
città.

139
Città Segreta, Città che Sale

140
Xi’an, Arrivo in città
Capoluogo della provincia dello Shaanxi e capitale di ben tredici
dinastie, Xi’an è stata storicamente il terminale orientale della Via
della Seta. Presenta ancora oggi antichi monumenti e reperti tra cui
lo straordinario Esercito di Terracotta voluto dall’imperatore Qin Shi
Huang attorno al secondo secolo a.C. La città è però in rapida trasfor-
mazione e ha subito, al di fuori dalle mura storiche, un incredibile
boom edilizio che l’ha portata ad avere, in pochi anni, una popola-
zione di otto milioni di abitanti.
Molto più evidentemente che a Pechino, qui la città nuova sale.
Immensi cluster di torri residenziali sorgono lungo le strade di
penetrazione. Sono serrati all’interno e dispersi l’uno rispetto all’altro.
Tutto è in costruzione, tutto è un cantiere. Casseri rampanti sormon-
tano cores di cemento e solette aperte illuminate da costellazioni di
lampade notturne. Crisalidi di tela verde sono stese tra impalcature
di bambù a formare molli involucri amorfi. Nessuno degli edifici è
più basso di quindici piani. Nervature verticali di bow window, cap-
pello tradizionale su volume moderno: le caratteristiche dei decenni
precedenti, già viste a Pechino, sono proiettate a una scala immane.
Non sembra esserci piano urbanistico se non la presenza delle auto-
strade urbane, la distanza dalle quali diventa unico riferimento per le
isole-cluster.
Viene da chiedersi se il modello dell’high-rise americano, trasmigra-
to attraverso l’esperienza collettivista e poi catapultato nella nuova
fase neo-capitalista, abbia mutato i suoi geni e saputo adattarsi a
diverse esigenze ambientali. O forse stiamo solo assistendo a un
epigono della logica della crescita speculativa modernista a una

141
scala più grande, ma, in fondo, sempre uguale. Nessuna pianificazione
territoriale, assenza di servizi, città verticale dormitorio, dipendenza
dall’automobile: tutti gli errori del Novecento contribuiscono a una
nuova fase di amnesia collettiva. Forse la crescita come cancellazione
è diventata la cifra della nuova Cina. È un movimento continuo e
immemore, che non permette di sostare, che proietta tutto troppo in
avanti. Il tempo circolare, che non distingue vecchio e rifatto, incon-
tra l’amnesia del consumismo e produce una sommatoria di mini-
città nuove contigue e indifferenti l’una all’altra.

Esercito di Terracotta e Mausoleo di Qin Shi Huang


Il dittatore Qin Shi Huang nel 220 a.C. crea una tomba che è un’inte-
ra collina (il Mausoleo) e la circonda con un esercito di guerrieri di
terracotta sepolti in una città sotterranea. Una serie di temi eccessivi
compongono una narrativa di vita, morte e nuova vita:
– Follia totale: l’idea di mettere in opera la riproduzione di un’intera
comunità (10.000 figure) in scala al vero è dettata da un assoluto de-
lirio di onnipotenza, dalla convinzione di potersi sostituire alla vita.
– Costruzione: una città sotterranea composta di corridoi paralleli è
coperta da due metri di terra posti su una copertura di travi di legno,
tappeti di canapa e uno strato di terracotta compattata.
– Produzione in serie: una serie di componenti ripetuti (i corpi dei
guerrieri in un numero limitato di posture) sono sormontati da sin-
gole caratterizzazioni (le teste con volti individuali) in una catena di
montaggio quasi industriale che riunisce identità e ripetizione.
– Trasporto e seppellimento: i guerrieri sono trasportati dai forni di
cottura alla città sotterranea attraverso rampe dedicate che raggiun-
gono ogni corridoio. Dopo il riempimento, le rampe sono distrutte e
sotterrate per non consentire l’accesso.
– Crollo, deterioramento e vandalismo: nel corso dei secoli alcuni
soffitti collassano, ci sono furti e sottrazioni, le figure si rompono in
pezzi e perdono la loro finitura policroma. All’ordine cartesiano delle
file parallele di guerrieri succede il caos di una sorta di post-battaglia
che lascia un paesaggio di disjecta membra.

142
– Archeologia delle riproduzioni: alla fine degli anni Settanta, sca-
vando un pozzo, si ritrova un tratto di un corridoio e si inizia a dissot-
terrare l’intero esercito. Emerge uno scenario viscerale di corpi spez-
zati e semisepolti, una sorta di Pompei monocroma dove la terracot-
ta sembra aver preso il posto della carne. Il tutto però è fatto di fram-
menti di riproduzioni e quindi si viene a creare una sorta di doppio
dell’archeo­logia e di simulazione di una fossilizzazione.
– Scavo, copertura e ricomposizione: dagli scavi emerge un terreno
sepolto di incisioni parallele che viene coperto da giganteschi hangar
crepuscolari (la luce zenitale è scarsa). All’interno di queste strutture
temporanee, il dissotterramento e la ricomposizione dei guerrieri
continuano sotto gli occhi del pubblico che cammina sul perimetro.
I diversi tempi dell’archeologia, scavo, ritrovamento, ricostruzione dei
corpi e loro riordinamento nei corridoi dissotterrati avvengono tutti
in parallelo in un sincretismo temporale reso visibile.
L’esercito di terracotta ha quindi una sua durata multipla nel doppio
processo della produzione originale e ricomposizione attuale. I pezzi
seriali dei guerrieri, posti in file nei corridoi dissotterrati, riacquistano la
loro immane forza come numero, come unità ripetute. La (ri) produ-
zione di massa che originariamente cercava di sostituire la vita con una
comunità di avatar sepolti, acquisisce una nuova esistenza davanti agli
occhi del visitatore e inscena un ciclo di morte, decomposizione, rina-
scita e riordinamento che prima non aveva nella sua fissità sotterranea.
Sorge la speranza che il processo di scavo, ritrovamento e ricomposi-
zione dei guerrieri non finisca mai, che diventi un perpetuum mobile,
che reiteri in continuazione la creazione della vita artificiale. L’imperatore
Qin Shi Huang, in questa esistenza postuma, sembra essere riuscito
paradossalmente nel suo utopico intento di dare vita a degli automi
che si rigenerano senza sosta. In questo, ha innescato una gigantesca
industria turistica sulle ceneri della sua produzione seriale.
L’enorme mall di negozi e mercatini di souvenir che filtra l’accesso al
sito degli hangar rovescia la città nascosta nella nuova città del turi-
smo di massa. È una comunità virtuale che vive solo durante l’orario
di apertura ed è vacata di notte, ma essa è più evidente degli artefatti
che serve, è la nuova faccia pubblica della storia ritrovata.

143
In ciò, il lungo percorso dai cancelli alla sommità della collina del
mausoleo è una riposante alternativa all’affollamento di guerrieri, tu-
risti e venditori. Si cammina lungo sentieri, prati e boschi per giunge-
re su una cima dove non si trova nulla. Si guarda, al massimo, la
piatta campagna circostante. Come nelle tombe Ming, la camera
mortuaria è sepolta diverse centinaia di metri sottoterra e non è stata
scavata. L’immane costruzione, sdoppiata nella collina e nell’esercito,
era invisibile. Ora è stata svelata e ha mostrato la sua natura infinita.

Ai Bordi del Centro di Xi’an


L’ingresso alla città storica attraversa quartieri con edifici di grande
scala che si affacciano su grandi boulevard di penetrazione. Sembra
un’urbanistica novecentesca americana, che ordina oggetti diversi ma
li pareggia tutti con la regola dell’allineamento. Il nuovo qui, invec-
chia presto: gli edifici, anche se recenti, mostrano segni di degrado,
modifiche e non-finito, come se il presente li divorasse. Sarà lo smog
che avvolge tutto in una cortina gassosa, sarà lo sviluppo troppo ve-
loce che consuma tutto, sarà il passato recente con la sua edilizia in-
dustrializzata già decrepita. Il tempo sembra avere una forza corrosiva.
Le mura monumentali del centro storico formano una barriera a
questo consumo: sono ciclopiche cortine di mattoni con bastioni so-
vrastati da leggeri padiglioni lignei con profilo a pagoda, ulteriori
conquiste delle montagne artificiali.

Quartiere Islamico
Un vero e proprio suq coperto da una tettoia di vetro e di plexiglass,
segna lo stretto asse commerciale del quartiere islamico, il più antico
della Cina e legato al commercio della Via della Seta. Su di esso si
affastellano bancarelle con un mix di prodotti per turisti e usato.
Tutt’attorno si dirama una ragnatela di strette strade commerciali
bordate da edifici di tre o quattro piani, che sembrano essere cre-
sciuti gradatamente in altezza su un impianto originario. È un tessu-
to pedonale di corti e passaggi che oggi appare come una sequenza

144
di case moderne troppo vicine, le cui finestre sono tutte ingabbiate
per sicurezza e assumono per questo un ulteriore tono da scherma-
ture islamiche.
C’è un’intensa vita di strada con un mercato costante: cucinare, ven-
dere, produrre e mangiare sono tutti svolti in pubblico. Vi è un lato
viscerale con macellerie en plein air dove interi quarti di bue vengo-
no tagliati di fronte al pubblico, il sangue cola sul selciato e le inte-
riora sono raccolte in secchi ed esposte sul marciapiede. Vi è un
aspetto di fucina infernale con forme di cottura di ogni tipo che han-
no luogo in inedite macchine: calderoni fumanti, secchi rotanti dove
si tostano le noci nella sabbia, enormi girarrosto che colano grasso in
vasche annerite. C’è una cornucopia di oggetti e cibi incomprensibili
che affollano banchetti temporanei e vengono offerti all’assaggio
degli avventori prima dell’acquisto: spiedini, dolci, volumi di cara-
mello, accumuli di spezie colorate. C’è una ristorazione su strada con
folle di gente seduta sul marciapiede che mangia. C’è un universo
tessile di scampoli e vestiti con prova su strada dietro improvvisati
separé. Il quartiere offre un surreale miscuglio di esoticità, carnalità e
realtà parallele tutte esperibili contemporaneamente.

Vecchia Moschea
Guardata da uomini con caffetano, berretto cilindrico e lunghe barbe,
la Vecchia Moschea, fondata nel 732, ha finalmente un sapore antico,
invecchiato e non rimaneggiato. Il recinto murario che si affaccia sul-
le strade del suq è decorato con fini bassorilievi in pietra gialla trafo-
rata inseriti in cornici che interrompono il sudicio muro del mercato.
L’interno presenta un sistema di cinque successive corti con pavi-
menti in pietra, alberi piantati, portali divisori, padiglioni a pagoda al
centro degli spazi e ali laterali con edifici di servizio in legno. Il legno
vira dal colorito al naturale argentato con screpolature che segnano
la vernice, originariamente verde. Le finestre hanno successivi scher-
mi sovrapposti in assicelle di diversi periodi. La pavimentazione è
dissestata e il prato cresce un po’ incolto nelle aiole al centro delle
corti. In una di esse si svolge un pranzo della comunità: gli uomini

145
siedono presso basse tavolate temporanee portate qui. Mangiano
Paomo, la locale zuppa di carne, mentre le donne cucinano e servono.
Al nostro passaggio si fanno di lato e continuano il loro rito. L’ultima
corte contiene la moschea, un edificio che occupa tutto il lato lungo
finale introdotto da un grande portico ligneo con cinque campate.
L’interno, inaccessibile agli occidentali, è coperto di tappeti e, sullo
sfondo, si percepisce un mihrab in legno nell’oscurità.
L’impianto a corti cinese incontra il microcosmo del giardino islamico
e una nozione religiosa progressiva per cui mostrare il passaggio del
tempo ha un valore collettivo. La Vecchia Moschea di Xi’an è l’unico
complesso storico in cui si percepisce un’origine e un decorso. In
tutti gli altri insediamenti il tempo è componente seriale e riprodu-
cibile attaccato artificialmente a un ambiente. Esso perde qualsiasi
prospettiva nel servire un eterno presente che cambia in continua-
zione ma non si evolve mai.

146
Il paesaggio, istruzioni per l’uso
Conversazione a distanza
sulla scrittura del paesaggio contemporaneo

148
Allo stesso modo in cui il paesaggio della nostra esperienza individuale,
in un istante e in un luogo qualsiasi, è necessariamente limitato da un
certo orizzonte, il paesaggio in generale è limitato dall’orizzonte di una
certa visione del mondo, propria di un certo contesto, di una certa
cultura e di una certa epoca1.

Davide Tommaso Ferrando: Ci tenevo a cominciare citando questa


bella frase di Augustin Berque, che oltre a restituire in maniera preci-
sa e sintetica la complessità dei concetti chiamati in causa ogni volta
che si parla di “paesaggio”, offre un’efficace chiave di interpretazione
dei contenuti di Limboland: diario di viaggio (di due viaggi, per la
precisione) la cui lettura, parallelamente alla ricostruzione descrittiva
dei territori visitati, pone in atto una ricostruzione per parti del tuo
specifico sguardo sulla realtà, del tuo “orizzonte”. Tale sguardo si ma-
terializza, a mio parere, in una serie di temi ed elementi attorno ai
quali vorrei strutturare questo scambio, ma prima di tutto, mi piace-
rebbe sapere da dove nasce il tuo interesse per il paesaggio e per i
suoi metodi di narrazione.

Pietro Valle: Direi dal cercare di rendere la visione e il ragionamento


sui luoghi con una parola la più impersonale possibile. Più il metodo
appare asettico nel descrivere la consistenza fisica dei luoghi più, in
realtà, è soggettivo lo specifico punto di vista e più emerge la relativi-
tà dello sguardo, il suo essere culturalmente e personalmente condi-
zionato. Massima individualità nel contenuto con minima forma nel
modo di scrivere e, come risultato, massima ambiguità, anzi direi,

1 Augustin Berque, Come parlare di paesaggio?, in Paolo D’Angelo (a cura di),


Estetica e paesaggio, Il Mulino, Bologna 2009, p. 174.

149
molteplicità dei punti di vista su uno specifico contesto. È questo un
detournement che ho appreso dal Nouveau Roman francese (Alain
Robbe-Grillet, Michel Butor, Claude Simon) e ho applicato alla mia
esperienza. Il libro da leggere in questo caso è la raccolta di saggi Pour
un Nouveau Roman di Robbe-Grillet che spiega quel meccanismo di
scrittura2.
Naturalmente, non tutto finisce qui, ci sono altre, tante premesse.
Sicuramente c’è l’esperienza dell’architetto che deve imparare ad “an-
nusare” i luoghi da più punti di vista, e questo è un vizio di casa, mi
sa che l’ho assorbito da mio padre che diceva che i luoghi sono sem-
pre relativi e ogni nuova lettura offre una diversa interpretazione, anzi
una modificazione di uno specifico contesto. Gli architetti però ri-
schiano sempre di diventare artisti o autori, pensano di comprendere
tutto con il loro ego e di ridurre tutto a figure, a rappresentazioni visi-
ve. Il personalismo, per quanto ineluttabile, non mi è mai interessato
celebrarlo, né penso che l’immagine basti a spiegare un luogo: si
rischia infatti di cadere nel pittoresco, di ridurre il territorio a veduta.
La pretesa di capire tutto egoisticamente l’ho messa da parte per ap-
plicare una sorta di straniamento: se riesco a rendere lo spazio e la
visione con le parole (e non con le figure), se tento di descrivere i
luoghi senza il mio personale punto di vista, fuoriesco da me stesso e
cerco un contatto tra visione, spazio, materia e parola che affronta la
transitorietà del paesaggio contemporaneo con armi che ne mimano
la relatività. La parola è altro dalla figurazione e proprio per questo la
può esplorare. Ricercando un sistema impersonale di scrittura dei
luoghi, ho dunque trovato nel Nouveau Roman un punto di partenza,
e affascinato dalla lettura di Le gomme, Il voyeur, L’impiego del tempo
e libri simili, ho perseguito il rigore della massima corrispondenza ai
luoghi senza frapporre alcun personalismo.
L’idea della relatività del paesaggio, dei suoi modi di lettura e dei suoi
codici rappresentativi, ha poi un’origine nella mia educazione ame­
ricana, nel post-strutturalismo e nell’interesse per la decostruzione
dei linguaggi. Ogni linguaggio presuppone un codice entro cui far

2 Alain Robbe-Grillet, Pour un Nouveau Roman, Editions du Minuit, Parigi 1963.

150
convergere i significati, e i messaggi non sono indifferenti al codice
entro cui sono veicolati, dato che dietro la loro creazione vi sono va-
lori, priorità, esigenze funzionali e tradizioni di valori. Il linguaggio
non è trasparente: lo stesso contesto raccontato in un linguaggio di-
verso assume valenze modificate. Il processo di confronto di diversi
codici rappresentativi del paesaggio è un percorso critico imprescin-
dibile, che somma la difficoltà di far passare lo stesso luogo per più
vie di ricerca, le quali interagiscono creando relazioni reciproche tra
loro. Questa “proiettività” me la fece capire un insegnante che ebbi a
Harvard nel 1989-90, l’inglese Robin Evans. Una persona eccezionale
che sarebbe diventato uno dei più grandi critici di architettura interna-
zionali se non fosse morto d’infarto a 49 anni nel 1994. Scrisse tre libri
tra cui The projective Cast e Translations from Drawings to Buildings,
che sono pietre miliari per lucidità critica3.
La relatività di lettura dei luoghi mi ha portato, quasi naturalmente, a
interessarmi a contesti senza affezione, senza apparente tradizione,
che ho trovato nella contemporaneità, nella sua impermanenza e
alienazione. L’America, la Cina ma anche il Nordest, sono punti di par-
tenza per elaborare l’esercizio del dubbio attuato attraverso il dispie-
gamento rigoroso di più codici. Ecco forse perché Limboland non è
inquadrabile né nel formato del saggio, né in quello del racconto, né
in quello del report tecnico, sebbene li includa tutti e tre.

DTF: Uno dei tratti distintivi di Limboland si ritrova nel particolare tipo
di scrittura da te adottato, che in maniera del tutto analoga ad Alpe
Adria Senza4 si caratterizza per la sistematica sospensione di ogni
azione nel tempo: un espediente narrativo che si serve della costru-
zione ad hoc di una palpabile assenza – quella di personaggi e intrec-
ci – per produrre una vivissima presenza – quella del paesaggio.
Quest’ultimo si manifesta così attraverso immagini memorabili

3 Robin Evans, The Projective Cast, Architecture and its Three Geometries, The MIT
press, Cambridge 1995 e Translations from Drawings to Buildings and Other Es-
says, Architectural Association Press 1997.
4 Pietro Valle, Alpe Adria Senza. Paesaggi contemporanei a Nord Est, Maqom hazé,

Trieste 2014.

151
evocate da parole meticolosamente selezionate, la cui precisione e ric-
chezza contrastano il processo di impoverimento del linguaggio cui stia-
mo oggi assistendo, come ha scritto recentemente Robert MacFarlane
su «The Guardian»5.

PV: Di fronte ai luoghi mi sento come un topografo che fa un rilievo.


Descrivo minuziosamente e geometricamente quello che vedo. A un
certo punto l’apparente oggettività che impiego si scontra con i riferi-
menti culturali che influenzano la visione di quel luogo, la sua me-
moria collettiva. Tra misura e opinione condivisa si crea uno scisma.
Quello che mi trovo di fronte può essere la conferma, ma spesso è la
messa in discussione del punto di vista culturalmente determinato
che influenza la percezione di quel luogo. Mi piace arrivare a questo
limite, dove la spersonalizzazione rileva la distorsione operata dalla
cultura e dal tempo nella visione dei luoghi. In ciò nulla è più certo
ma questo è il prezzo da pagare per continuare a cercare, a esplorare.
Naturalmente, la ricerca di questa dialettica è l’opposto della riduzio-
ne del linguaggio a cliché e formule prestabilite su cui si fonda la
cultura dell’informazione odierna… da cui l’impoverimento del lin-
guaggio che porta con sé la tipizzazione dei luoghi attraverso defini-
zioni banali che non hanno nulla a che fare con essi.

DTF: Questa tensione tra oggettività e soggettività mi ricorda L’Alle­


goria della Pittura di Vermeer, che secondo l’interpretazione data da
Svetlana Alpers in Arte del descrivere, suggerisce una sostanziale ana-
logia tra rappresentazione artistica e cartografica, attraverso l’accosta-
mento, all’interno dell’immagine, della tela su cui il pittore sta ritra-
endo la fanciulla e della retrostante cartina geografica con profili di
città, appesa alla parete della stanza in cui si svolge l’azione. Tutti i
paesaggi descritti in Limboland mantengono questa ambiguità tra
realtà vissuta e analizzata. In particolare, trovo molto interessanti i
continui salti di scala e punto di vista cui ricorri nell’osservazione dei
luoghi: un esercizio di restituzione della complessità del reale che è
5 Robert MacFarlane, The word-hoard, in «The Guardian», 27 Febbraio 2015,
http://www.theguardian.com/books/2015/feb/27/robert-macfarlane-word-
hoard-rewilding-landscape

152
certamente tipico degli architetti, e che mi fa pensare alle straordinarie
sezioni della crosta terrestre disegnate da Alexander Von Humboldt
durante i suoi viaggi. I tuoi paesaggi diventano così concretizzazioni
delle energie non solo tettoniche, ma anche economiche, antropolo-
giche, sociali, politiche, culturali (etc.) che danno forma al territorio –
osservate dal tuo punto di vista, ovviamente.

PV: The Art of Describing, sul paesaggio olandese dipinto nel Seicento,
era parte di un mio corso sulle rappresentazioni dello spazio che in-
segnai negli Stati Uniti negli anni Novanta6. La contemporanea capa-
cità di precisione microscopica e di ampiezza territoriale che si trova
nei dipinti olandesi (e fiamminghi prima) è dovuta a una relativizza-
zione della visione attuata anche con strumenti scopici. La camera
oscura coglie visioni parziali e perfette del paesaggio che poi sono
montate una affianco all’altra a formare paesaggi impossibili e com-
positi che vogliono includere gli opposti in un singolo sguardo. Gli
interni delle chiese riformate di Pieter Saenredam, nel loro apparente
rigore, sono fotomontaggi cut and paste. Mi piace pensare che la scrit-
tura dei paesaggi possa attuare la stessa sintesi (e parallela dissimula-
zione) di prospettive diverse di queste vedute del Seicento. Uno legge
un’apparente precisione e trova un’esplosione di significati diversi.

DTF: A proposito dell’influenza dei riferimenti culturali, credo che la


parte di Limboland dedicata alla Cina evidenzi in maniera molto chiara
l’impossibile riconciliazione tra la verità di un luogo e la sua visione.
Nel capitolo Città Proibita, ad esempio, tu stesso scrivi di «un Oriente
filtrato attraverso gli occhi del moderno che è leggero, stilizzato e fat-
to di componenti intercambiabili», aggiungendo però, subito dopo,
che «forse non è questa la sua realtà». Più che la difficoltà di com-
prendere una realtà prodotta da una tradizione diversa dalla propria,
mi interessano gli specifici filtri culturali attraverso i quali hai osser­
vato i territori qui descritti: filtri che emergono tra le righe del testo
per mezzo dell’uso di concetti legati non solo alla tua formazione di

6Svetlana Alpers, The Art of Describing: Dutch Art in the Seventeenth Century, The
University of Chicago Press, Chicago 1984.

153
architetto (ripetizione, scomposizione per elementi, interno/esterno,
portante/portato) ma anche ai tuoi contatti con la Land Art (cambi di
scala, stratificazione, natura/artificio, visione/esplorazione).

PV: La visione e la verità di un luogo coincidono quasi sempre. Non è


pensabile staccare lo sguardo dai condizionamenti culturali: essi lo
influenzano. Uno vede sempre quello che vuole vedere, non quello
che gli si para davanti agli occhi. Per questo, la presunta oggettività
della visione è una chimera. Per rivelare i filtri culturali che condizio-
nano la figurazione si possono perseguire due vie: una è quella della
spersonalizzazione e della “scientificità” della descrizione, che fanno
emergere gli scarti tra misura e valore; l’altra è quella della moltiplica-
zione dei modi di descrivere secondo più parametri. La relatività dello
sguardo può emergere dallo scollamento tra i diversi modi descrittivi
che non presentano la stessa entità nel medesimo modo. Il cinema (altra
mia passione) ha elaborato questa relatività in film come Rashomon
di Kurosawa o L’anno scorso a Marienbad di Resnais (guarda caso, con
la sceneggiatura di Robbe-Grillet), ma questi film hanno tutti un’in-
fluenza letteraria. Il secondo, in particolare, è ispirato al romanzo L’in-
venzione di Morel di Adolfo Bioy Casares, del resto, gli scrittori aveva-
no ben da prima iniziato a rimescolare realtà e opinione. Ti cito solo
due esempi di racconti americani dell’Ottocento che mi piace sempre
rileggere: Accadde al Ponte di Owl Creek di Ambrose Bierce e I delitti
della Rue Morgue di Edgar Allan Poe.
Non posso poi fare a meno di ricordare una terza influenza sulla mia
scrittura del paesaggio, quella dall’Arte Ambientale degli anni Ses-
santa e Settanta, che ho avuto la fortuna di conoscere da vicino attra-
verso il lavoro di collaborazione con i suoi artisti intrapreso nella co-
struzione delle loro opere nel parco d’arte del collezionista Egidio
Marzona a Villa di Verzegnis in Carnia. Lì ho collaborato con artisti
come Dan Graham, Richard Long, Sol LeWitt, Bruce Nauman, Lawrence
Weiner, Bernd Lohaus e altri, assorbendo la loro lettura del paesaggio
nella realizzazione di site specific projects. Quello che mi interessa di
quest’arte è la ricerca sulla relatività della percezione, degli spazi e
soprattutto della temporalità dei luoghi. Il tempo, la durata della

154
percezione, il mutare dell’ambiente e della materia sono parte della
riflessione degli artisti ambientali più interessanti. Come per il linguag-
gio, anche il tempo è soggetto a deterioramenti e mutazioni impreviste.
Robert Smithson (probabilmente il più formidabile autore di saggi sui
luoghi contemporanei che io conosca) si richiama all’entropia, il se-
condo principio della termodinamica secondo cui in ogni cambiamen-
to vi è una produzione di energia incontrollata che non è utilizzabile.
Entropia come scarto, come eccesso, come detrito quindi. Smithson
interpreta come processi entropici tutti quelli riguardanti il terreno e
le rocce e, con un corto circuito logico, relaziona tempo geologico,
consumo incontrollato dell’ambiente post-industriale e fragilità del
linguaggio7. Egli interpreta tutta una serie di luoghi “degradati”
(pe­riferie, discariche industriali, miniere abbandonate) come luoghi
“entropici” nei quali leggere una nuova geologia del deterioramento
e un nuovo tipo di rovina: non la rovina prodotta dal passare del tem-
po ma una rovina in fieri contenuta potenzialmente in ogni processo
di mutazione dell’ambiente. Il paesaggio post-industriale diviene il
nuovo parametro per leggere una durata e una materialità che sfug-
gono al controllo e alla certezza.
In questa ricerca, Smithson e altri artisti approfondiscono la lettura di
tutta una serie di ambienti dimenticati del territorio e ne raccolgono
tracce e materiali, questi ultimi visti come sorta di “fossili” del futuro.
I non-siti di Smithson, le sue esplorazioni delle periferie e dei depo-
siti di detriti, i “progetti continuamente alterati” di Robert Morris, le
documentazioni delle periferie di Dan Graham e degli edifici industria-
li di Bernd e Hilla Becher, non sono catalogazioni esatte ma reperimen-
ti di tracce che equiparano mutazioni fisiche e semantiche. Tempo e
materialità, natura e artificio vengono indissolubilmente legati in
questa lettura che parla del crollo di un tempo lineare e proietta la
realtà verso una continua frammentarietà o una durata “geologica”
incontrollabile. Queste meditazioni sul rapporto tra tempo e ambiente
aprono una riflessione sul funzionamento della memoria e su tutta

7 Robert Smithson, The Writings of Robert Smithson, Essays with Illustrations


(a cura di Nancy Holt), New York University Press, New York 1979.

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una serie di procedimenti analogici non lineari. Nei Passagenwerk di
Walter Benjamin (un’altra influenza fondamentale, un altro scrittore
trasversale), le rovine e le presenze materiali della città parlano indi-
rettamente dei meccanismi tortuosi della memoria8. Parallelamente,
le “rovine al contrario” di Smithson e i suoi “paesaggi entropici” sono
procedimenti di configurazione che aprono a una dimensione spazio-
temporale multiforme e ambigua.
Questo tema del crollo del tempo, della presenza di più durate, appa-
re in continuazione in Limboland come anche in Alpe Adria Senza. In
effetti siamo partiti dall’astrazione geometrica del Nouveau Roman e
siamo arrivati ai labirinti della memoria di autori molto diversi. Tra i due,
tuttavia, non c’è la distanza che si crede. Se la parola tenta di parlare di
uno spazio, essa parla anche del tempo in cui lo si esperisce. Il tempo è
sempre presente in modo multiforme ed esso non permane mai.

DTF: A proposito di spazio/tempo, Limboland nasce per accostamento


di due diari di viaggio scritti a più di vent’anni di distanza. Inizialmente
non pensati per esser pubblicati insieme, una volta radunati in un
unico luogo i due scritti entrano in risonanza, rendendo esplicite del-
le relazioni di significato che altrimenti rimarrebbero nascoste, ma
che ora si presentano come necessarie. Una di queste sembra essere
la traiettoria storica di una certa idea di spazio, quella del capitalismo
occidentale (lo spazio delirious e generic dello sprawl, della strip e
della grid), che in Limboland si trasforma in un personaggio migrante
dal suo luogo d’origine, gli Stati Uniti, verso i nuovi territori della Cina
post-comunista. In effetti, ancor più delle differenze colpiscono qui le
somiglianze tra la metropoli cinese e americana, che in alcuni dei
capitoli dedicati a Pechino assumono tratti fin grotteschi, presentan-
dosi come la manifestazione di un capitalismo «acquisito troppo in
fretta», come tu stesso scrivi.

PV: Il modello liberista che è diventato globale si basa sulla disgiunzione


tra le parti in modo che esse rimangano sempre disponibili per essere
ricapitalizzate senza alcun legame con un’idea di insieme permanente.

8 Walter Benjamin, Parigi Capitale del XIX Secolo, Einaudi, Torino 1986.

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Ecco quindi la separazione tra urbanistica (il reticolo di strade) e le
architetture (gli oggetti tutti uguali nelle loro relazioni spaziali e tutti
diversi nella loro forma per distinguersi) della città americana. Ecco la
contiguità di più funzioni l’una indifferente all’altra nella congestione
metropolitana o nel junkspace di Koolhaas. Ecco la stratificazione di
layers costruttivi, ognuno separato dall’altro e ognuno pronto a esse-
re sostituito senza influenzare l’insieme nel sistema edilizio a telaio.
Ecco la disgiunzione tra architettura e messaggio billboard nello strip
di Las Vegas. Tutto il mondo ha assorbito e rielaborato il modello
americano, articolandolo anche in declinazioni locali. Un esploratore
del paesaggio non può che cercare di rilevare la dialettica tra questi
modelli “generici” e le specifiche situazioni in cui essi si collocano.
Altro che Genius Loci, oggi si può parlare solo di Alienationem Loci!

DTF: Queste tue riflessioni rinforzano la mia impressione che Limboland


costituisca l’ennesimo tassello di un tuo più ampio “progetto di crisi”:
un progetto che innerva non solo la tua attività di saggista, ma anche
quella di architetto e critico d’architettura. Osservato attraverso questa
lente, il paesaggio si trasforma in uno strumento (un pretesto?) per
riflettere sulla società contemporanea, che emerge vigorosa, in tutta
la sua problematicità, in alcuni capitoli del libro. Forse la metafora che
meglio riassume la condizione giudicante del tuo sguardo è quella
del peep-show, cui fai più volte ricorso per rappresentare il tipo di
relazione che si instaura nella città contemporanea tra individuo e
collettività, tra dimensione privata (che è sempre la dimensione della
privacy) e pubblica, tra spazio interno ed esterno. Siamo forse diven-
tati tutti dei guardoni?

PV: Essere critici non significa necessariamente sposare la nozione


di crisi, quella la lascio volentieri a una certa critica filosofeggiante
(e ideologica) degli anni Settanta che si è poi inviluppata su se stessa
non riuscendo a relazionare il reale percepito con i condizionamenti
storico-sociali. È questo quello che a me interessa: il legame tra il
dato fisico, la percezione influenzata dai credi della società e il tra-
scorrere del tempo che modifica entrambi. Il mio non è un progetto
di crisi ma di responsabilità civile, il tentativo di ridare a ognuno di noi

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la facoltà critica di guardare, camminare, esplorare e confrontare quello
che si vede e quello che si sa. La dialettica tra dimensione privata e
spazio pubblico (il paesaggio) deve superare la condizione di voyeur
verso cui ci indirizza una società dello spettacolo basata solo sul con-
sumo del visivo. Se uno si trova nella condizione del peep-show deve
riequilibrare questo pseudo-potere ricordando i legami culturali e po-
litici che si annidano dietro a un presunto sguardo libero. Per questo,
relativizzare e guardare una seconda volta e in un altro modo sono
strategie di elaborazione del puro dato sensibile. Per questo scrivere
invece di figurare è una forma di resistenza all’iconocrazia imperante.

DTF: Per concludere, ti chiederei un’ultima riflessione sugli stili di


scrittura adottati in Limboland, e in particolare, sul passaggio dalle
articolate descrizioni dei territori americani alla crescente paratassi
del diario cinese, che in molte sue parti assume forme simili a quelle
del blog. Tra l’uno e l’altro viaggio, è necessario ricordarlo, si colloca la
tua fertile esperienza di contributor per «Arch’it»9, una delle prime
(e ancora oggi la più riconosciuta) riviste italiane su web dedicate
all’architettura, ma al di là di ciò, mi piacerebbe conoscere le ragioni
di questo cambio di registro.

PV: Il diario cinese è la raccolta di appunti di un cinquantenne sicuro


del suo giudizio e allenato a scrivere sul web con la sua immediatezza.
È inoltre legato a uno sguardo breve consumato nel corso di poche
settimane. Il diario americano raccoglie le riflessioni di un venticinque-
trentenne che cerca una scrittura controllata e rifinita per descrivere
un mondo nuovo che vive nel corso di sette anni della sua formazione.
Non ci potrebbero essere condizioni più diverse. Eppure uno ha fon-
dato l’altro e l’altro ha posto in prospettiva l’uno. Vedere insieme que-
sti periodi e modi diversi genera un corto circuito in cui sono artico-
lati gli stessi temi in modi diversi ma la sostanza, spero, non cambia.

DTF: Grazie!

9 Progetto editoriale diretto da Marco Brizzi, fondato nel 1995 e conclusosi nel
2011 (www.architettura.it). Pietro Valle, assieme a Elena Carlini, ha curato al suo
interno la rubrica Artland dal 2002 al 2011 (http://architettura.it/artland/)

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