Verso un’etnografia
del consumo culturale
sumo si trovano spesso a coincidere, sia nell’ambito dei prodotti materiali che
di quelli «intangibili». La famiglia contadina tradizionale si rivolge raramente
al mercato, e produce da sé molte delle cose che le servono. Certo, l’autosus-
sistenza non è mai totale: come abbiamo visto, non bisogna prendere troppo
sul serio il mito romantico di un folklore contadino autonomo e interamente
prodotto dal basso, espressione diretta di un collettivo e anonimo «spirito del
popolo». Tuttavia molti tratti culturali, incluse le forme espressive e artistiche,
erano prodotti e consumati all’interno della stessa comunità locale. I racconti
e le fiabe erano narrati e ascoltati nelle «veglie» – i momenti serali di riposo e
incontro delle famiglie; i canti erano eseguiti in feste o momenti ritualizzati, nei
quali artisti e pubblico non erano sempre nettamente distinti. Gli oggetti di cui
era popolata la vita quotidiana – dal cibo agli abiti agli utensili domestici – erano
in gran parte fabbricati autonomamente, o comunque da artigiani interni alla
comunità locale. Tutto ciò definiva una sfera della cultura popolare o subal-
terna, includente sia la produzione che il consumo, relativamente autonoma e
separata dalla sfera egemonica, sviluppata in altri spazi, da altri soggetti sociali,
per mezzo di strumenti completamente diversi.
Nei contesti industriali avanzati, i momenti di coincidenza tra produzione e
consumo si riducono drasticamente. Restano presenti in alcuni aspetti della vita
quotidiana, quelli che si potrebbero indicare sotto la generica etichetta del fai-
da-te (una sfera che è peraltro a sua volta dipendente dal mercato degli attrezzi
e delle materie prime). Ma la gran parte dei beni viene prodotta dall’industria e
distribuita ai consumatori attraverso il mercato. Ciò vale sia per quelli materiali
(cibo, abiti, oggetti domestici ecc.) sia per quelli intangibili, gestiti dall’industria
culturale tramite i mezzi di comunicazione di massa e le forme di riproduzione
tecnica delle arti espressive. Il riconoscimento delle differenze culturali (della
linea di frattura fra egemonico e subalterno) deve passare all’interno delle pra-
tiche di consumo di massa: non più in una sfera di produzione autonoma, ma
nelle modalità di accesso al mercato, nella scelta selettiva dei beni, nei modi di
usarli, di fruirne, di modificarli ed eventualmente condividerli e farli circolare.
Per questo è così importante per l’antropologia affrontare il campo del consumo.
Per farlo, tuttavia, dobbiamo ripartire da più lontano – da altri tempi e altre
discipline. Un intellettuale tedesco di padre ebreo, formato alla grande tradizione
filosofica continentale, è costretto dal nazismo a rifugiarsi prima in Inghilterra e
poi, nel 1937, negli Stati Uniti. Qui incontra la società dei consumi e l’industria
culturale in uno stadio assai più avanzato di quello europeo: modi di vita basati
su un’ampia disponibilità di tempo libero, dedicato al consumo di cinema, ra-
dio, musica leggera o jazz, rotocalchi e letteratura di genere. Apparentemente,
si tratta del trionfo della democrazia: la cultura, tradizionalmente riservata a
una ristretta élite, è disponibile per le masse grazie alle tecnologie mediali e al
mercato capitalistico. Ma di fatto, agli occhi di questo intellettuale, la cultura
che viene così diffusa è quanto di più distante si possa immaginare dalla grande
tradizione europea: ne è di fatto una grottesca caricatura, che con il pretesto
dell’ampia accessibilità svuota le forme di ogni contenuto. O meglio, conferisce
loro un significato affatto diverso. Al di là della leggerezza di superficie, la cultura
Verso un’etnografia del consumo culturale 141
con cui si riferisce alla musica popolare e ballabile diffusa negli Stati Uniti
negli anni ’40 e ’50) Adorno, che è anche musicologo, lo vede come puro im-
poverimento culturale: una musica elementare dal punto di vista compositivo,
basata su semplici moduli ripetuti ossessivamente. La standardizzazione delle
sue formule, sempre uguali a se stesse, è specchio dell’assenza di alternative
sul piano sociale, del conformismo e della rassegnazione rispetto allo stato
attuale delle cose. In altre parole, è lo specchio della repressione cui il sistema
sottopone gli individui. Mentre la vera arte, in particolare l’avanguardia, ha
sempre una valenza critica, la musica leggera e jazz giocano – del tutto indi-
pendentemente dalle intenzioni dei loro esecutori e ascoltatori – un ruolo di
copertura ideologica a un sistema in cui tutto si tiene [Adorno 1953; trad.
it. 1972, 115 ss.].
Queste posizioni di Adorno sono il paradigma di una serie di studi successivi
volti a mostrare le conseguenze alienanti e conformiste della cultura di massa.
Quest’ultima, nonostante le sue potenzialità educative e democratiche, produr-
rebbe di fatto impoverimento, assuefazione, falsa coscienza. Ad essa si applica
la stessa definizione che Marx dava della religione: oppio dei popoli. La sua
funzione è quella di creare «bolle di realtà» che impediscono ogni visione
critica e producono, per usare la celebre espressione di Herbert Marcuse,
un altro esponente della Scuola di Francoforte, persone «a una dimensione».
È un tipo di analisi variamente ripreso da molti autori, fino a giungere alle
odierne posizioni di Zygmunt Bauman e alla sua teoria della «società liquida».
Per Bauman il passaggio da una società di produttori a una di consumatori,
verificatosi nella fase tarda del capitalismo, rappresenta una vera e propria
mutazione antropologica. Le pratiche del consumo, sostenute da un mercato e
da un sistema mediale pervasivi, investono ogni momento e aspetto della vita
quotidiana: esse mediano il rapporto con il corpo, le relazioni sociali, la stessa
vita politica. Il loro effetto è quello di isolare gli individui e di spezzare le reti di
relazioni comunitarie che nella società «solida» sostenevano il sistema sociale.
L’agorà, vale a dire la sfera pubblica nella quale si definiscono gli obiettivi del
vivere comune, resta un deserto di rovine; la conversazione razionale che un
tempo governava la vita politica si riduce essa stessa a congerie di discorsi e
immagini pubblicitarie [cfr. fra gli altri Bauman 1999; 2007].
Non si può negare che simili approcci critici al consumo di massa colgano
aspetti importanti dei mutamenti sociali nella seconda metà del Novecento;
e che segnalino rischi reali di impoverimento culturale e di svuotamento
della vita politica e degli stessi sistemi democratici. Queste teorie difettano
però su un punto cruciale: non si interrogano sui significati che il consumo
culturale assume per i suoi praticanti. Adorno, ad esempio, non è minima-
mente interessato a capire in quali modi la gente ascolta la musica leggera o
legge gli oroscopi sui giornali. Dalle caratteristiche del prodotto (la ripetitiva
monotonia del jazz, l’irrazionalità dell’astrologia) inferisce i suoi effetti. Dà
per scontato che la coscienza dei fruitori sia passivamente e inesorabilmente
plasmata dall’industria culturale: e che dunque gli appassionati di jazz o i
patiti degli oroscopi non possano che essere soggetti impoveriti, alienati e
144 Capitolo 8
repressi. Anche Bauman basa la sua diagnosi della società liquida su quella
che potremmo chiamare una visione dall’esterno: analizza il flusso della
comunicazione globale (le sue fonti sono articoli di giornale, pubblicità,
programmi televisivi, siti web), ma non si preoccupa di verificare in che
modo essa è recepita da gruppi particolari di persone, e quali significati sono
costruiti attorno ad essa. Si tratta di un problema metodologico di cruciale
importanza, come vedremo tra breve.
Anche Umberto Eco usa la nozione di mito per dare conto della diffusione
della cultura di massa nell’immaginario contemporaneo. A questo tema dedica
Apocalittici e integrati, un libro uscito nel 1964 e decisamente pionieristico
nel panorama culturale italiano. Si tratta di una raccolta di saggi critici su
prodotti dell’industria culturale quali fumetti, letteratura di genere, cinema,
canzoni, televisione. Rispetto a Barthes (per non parlare di Adorno), Eco
esamina in modo assai più dettagliato tali prodotti: non si limita a prenderne
spunto, ma li tratta come farebbe con opere della cultura «alta», sottoponen-
doli ad accurate analisi strutturali. Interi capitoli sono dedicati ad esempio a
fumetti come Steve Canyon e Superman. È a proposito di quest’ultimo che
viene evocata appunto la funzione «mitica». I fumetti svolgerebbero oggi lo
stesso ruolo svolto un tempo (Eco viene da studi di filosofia medioevale) dai
repertori di simboli volti a tradurre in immagini o storie esemplari le verità di
una religione rivelata. L’iconografia delle cattedrali gotiche, ad esempio, può
essere letta come un processo di trasmissione verso il «basso» – per mezzo di
immagini – di concetti egemonici, tale da costruire una «universalità di sentire
e di vedere». Nella modernità desacralizzata, è la comunicazione di massa
che può «ricostituire su basi popolari questa universalità» [Eco 1964, 221].
Solo che per capire questi simboli ci vuole il semiologo. Cosa nasconde dunque
Superman? Eco ci propone una raffinatissima analisi delle strutture temporali
implicate dal fumetto, che cercano di conciliare l’immobilità del personaggio
mitico (per definizione sempre uguale a se stesso, la cui storia è stata narrata
una volta per tutte) con la storicità della narrativa romanzesca (alla quale il
fumetto appartiene). Ne risulta una serialità di storie che ricominciano per
così dire sempre dallo stesso punto, in cui i personaggi non invecchiano, non
si «consumano» con il trascorrere degli eventi. Eco lega questo aspetto all’idea
di deresponsabilizzazione etico-politica che le società a capitalismo avanzato
perseguono (ciò che si fa oggi non influenza ciò che accadrà domani), conclu-
dendo con la tesi di una funzione «pedagogica» che Superman svolgerebbe
rispetto a questo tipo di valori egemonici.
Naturalmente, questa pedagogia sta nel fumetto indipendentemente dalle
intenzioni dei suoi autori, nonché dalla percezione consapevole dei lettori,
che vi trovano solo una storia appassionante e divertente. Eco si rende ben
conto di questo punto, e in una pagina molto interessante raffronta il caso di
Superman con quello di produttori o esecutori di miti in altre epoche stori-
che. Il «primitivo» che esegue un rito o narra un mito sarebbe forse capace
di «riconoscere il nesso che collega il singolo gesto tradizionale con il corpus
generale delle credenze che la comunità professa»? E un maestro medioevale
impegnato a scolpire il portale di una cattedrale, avrebbe saputo collegare i
propri canoni stilistici a un complesso sapere teologico, a sua volta collegato a
certe concezioni della vita umana, dell’ordine politico e così via? Certamente
no; eppure «noi oggi vediamo nel suo gesto la manifestazione di un modello di
cultura unitario capace di reiterarsi in ogni minimo suo aspetto» [ibidem, 245].
In questi esempi, l’officiante del rito, lo scultore medioevale e i disegnatori di
Superman sono mediatori inconsapevoli di strutture culturali che solo «noi»
Verso un’etnografia del consumo culturale 147
cercano a loro volta di accedere agli stessi beni di prestigio, spingendo le classi
agiate a spostare costantemente i loro investimenti vistosi per differenziarsi
dai «nuovi arrivati». La logica emulativa finisce così per caratterizzare l’intero
campo del consumo di massa.
La ricostruzione da parte di Veblen di questi processi è assai schematica, e
per di più condotta nel quadro di un linguaggio evoluzionista che la teoria
sociale avrebbe di lì a poco abbandonato. Ciò gli ha attratto numerosissime
(e giustificate) critiche. Tuttavia, alcuni punti fissati dal suo libro restano di
cruciale importanza. In esso il consumo, lungi dal rappresentare il regno
dell’utilitarismo, dell’edonismo e dell’alienazione e chiusura in se stessi degli
individui – come sosterranno le teorie critiche – appare come un grande campo
di definizione delle relazioni sociali; campo dominato da regole «morali» più
che strettamente economiche. Spesso l’antropologia e la sociologia hanno
contrapposto il consumismo moderno, concepito come pura rincorsa utilitaria
ai beni, a istituzioni tradizionali quali il dono (cfr. cap. 11), volte a costruire e
rinsaldare legami sociali. Se seguiamo Veblen, le cose appaiono in modo molto
diverso: le moderne pratiche di consumo sembrano piuttosto riprendere e
inglobare le relazioni morali che nelle società «arcaiche» (per usare il termine
di Mauss) caratterizzavano il dono. Riprendono queste relazioni in un contesto
in cui la disponibilità di beni (sia materiali che immateriali) è moltiplicata dalla
produzione industriale, e in cui alle antiche rigidità degli status si è sostituito
una sorta di continuum dinamizzato dalla tensione verso la promozione sociale.
Si può dunque pensare che tutto il consumo è in qualche misura vistoso
e percorso da rapporti di emulazione. Il che non significa considerare il
consumatore come un soggetto calcolatore, che strumentalmente uniforma
i propri gusti, preferenze e desideri a ciò che più gli conviene in termini di
status. Al contrario il buon gusto, il savoir faire, le capacità da intenditore e
simili competenze culturali sono profondamente incorporati nei soggetti, fino
a diventare una loro seconda natura: e solo a questa condizione funzionano
come qualità distintive. Ce lo ricordano le costanti ironie verso figure come
quella del «borghese gentiluomo», che pretende di dedicarsi alle «nobili arti»
senza padroneggiarle abbastanza, non per profonda convinzione ma per una
superficiale questione di immagine: e ciò produce non prestigio ma il suo
contrario, cioè il ridicolo.
Proprio su questo punto si innesta la riflessione di Pierre Bourdieu (1930-
2002). In una delle sue opere più famose, La distinzione [1979], il grande
sociologo francese riprende i temi vebleniani all’interno di una più raffi-
nata cornice teorica. Che rapporti vi sono tra forme del consumo, classi e
costruzione sociale del gusto? In altre parole: come si può comprendere
sociologicamente il fenomeno del gusto, dell’apprezzamento estetico, delle
preferenze di consumo? Bourdieu introduce un importante concetto – quello
di habitus – proprio per dar conto della relazione tra la dimensione oggettiva
dell’appartenenza sociale e quella soggettiva del gusto. L’habitus consiste in
una serie di competenze, disposizioni, atteggiamenti che il soggetto incorpora
prevalentemente come risultato del processo di inculturazione – cioè per il
150 Capitolo 8
In altre parole, al di là della loro utilità pratica, i beni sono indicatori di ca-
tegorie culturali e oggetto di pratiche di tipo rituale. I riti sono «convenzioni
che tracciano definizioni collettive visibili», con l’intento di «contenere le
fluttuazioni dei significati»: essi si servono spesso di oggetti materiali, «e
quanto più costosi sono gli addobbi rituali, tanto più forte sarà l’intenzione di
fissare il significato per il futuro. In questa prospettiva i beni sono accessori
rituali: il consumo è un processo rituale la cui funzione primaria è di dare
un senso al flusso indistinto degli eventi» [ibidem, 73].
Ad esempio, il cibo serve indubbiamente per mangiare. Ma ci sono svariate
modalità culturali di sceglierlo e acquistarlo, di cucinarlo, presentarlo e ser-
virlo, di differenziare i cibi a seconda del tempo e del luogo in cui ci si trova,
di usarli per discriminare fra il feriale e il festivo, il domestico e il pubblico,
i parenti, gli amici e gli estranei, il raffinato e il volgare, l’aristocratico e il
popolare, la sicurezza e il rischio, il necessario e il superfluo, il morale e
l’immorale e così via. In riferimento a queste e a molte altre categorie sociali,
il consumo del cibo rappresenta un campo straordinariamente ricco di risorse
simboliche che si prestano alla pratica rituale, al fine «di rendere chiaro e
visibile un particolare insieme di giudizi nei fluidi processi di classificazione
delle persone e degli eventi» [ibidem, 75].
L’aspetto forse più importante nell’analisi di Douglas consiste nel consi-
derare il consumo un campo di relazioni morali: vale a dire, strettamente
legato ai sentimenti, ai valori e ai rapporti di potere che costituiscono il
legame sociale. Per capirne il significato non basta allora un’analisi semiotica
dell’oggetto – materiale o immateriale che sia –; occorre invece un’etnografia
154 Capitolo 8