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CAPITOLO 8

Verso un’etnografia
del consumo culturale

Nel capitolo precedente, dedicato al folklore, ci siamo fermati di fronte


al problema dell’analisi antropologica della cultura di massa. Lo
riprendiamo adesso nella prospettiva delle teorie del consumo culturale.
Il capitolo non ha alcuna pretesa di esaurire un campo di studi in sé
sterminato, che sconfina in molte discipline diverse, dalla sociologia alla
semiologia, dall’economia alla storia culturale. Ciò che qui interessa è
mostrare la rilevanza di questo dibattito per l’antropologia, che invece
se ne è tenuta tradizionalmente lontana, ritenendo il consumo di massa
estraneo al proprio oggetto, in quanto pratica alienata e per così dire
anti-culturale. Partiremo dalle più classiche teorie critiche e semiologiche
dell’industria culturale, che cercano di scoprire i significati nascosti dei
suoi prodotti e interpretano il consumo di massa come modalità del
dominio nel tardo capitalismo. Proseguiremo presentando le prospettive
sociologiche e antropologiche, che scorgono nel consumo di massa un
grande campo di espressione di categorie culturali e identitarie e di
strategie di distinzione sociale. Saranno infine considerati gli approcci
etnografici, che si concentrano sulle pratiche del consumo più che
sull’analisi dei prodotti, riportando il problema della cultura popolare
all’interno di una socio-antropologia della vita quotidiana.

1.  LA TEORIA CRITICA


Dobbiamo partire da una considerazione: caratteristica cruciale delle società
industriali è la netta separazione tra sfera della produzione e sfera del consumo.
In contesti pre-industriali questa separazione esiste, ma è solo parziale: nel modo
di vita contadino, ad esempio, luoghi e soggetti della produzione e del con-
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sumo si trovano spesso a coincidere, sia nell’ambito dei prodotti materiali che
di quelli «intangibili». La famiglia contadina tradizionale si rivolge raramente
al mercato, e produce da sé molte delle cose che le servono. Certo, l’autosus-
sistenza non è mai totale: come abbiamo visto, non bisogna prendere troppo
sul serio il mito romantico di un folklore contadino autonomo e interamente
prodotto dal basso, espressione diretta di un collettivo e anonimo «spirito del
popolo». Tuttavia molti tratti culturali, incluse le forme espressive e artistiche,
erano prodotti e consumati all’interno della stessa comunità locale. I racconti
e le fiabe erano narrati e ascoltati nelle «veglie» – i momenti serali di riposo e
incontro delle famiglie; i canti erano eseguiti in feste o momenti ritualizzati, nei
quali artisti e pubblico non erano sempre nettamente distinti. Gli oggetti di cui
era popolata la vita quotidiana – dal cibo agli abiti agli utensili domestici – erano
in gran parte fabbricati autonomamente, o comunque da artigiani interni alla
comunità locale. Tutto ciò definiva una sfera della cultura popolare o subal-
terna, includente sia la produzione che il consumo, relativamente autonoma e
separata dalla sfera egemonica, sviluppata in altri spazi, da altri soggetti sociali,
per mezzo di strumenti completamente diversi.
Nei contesti industriali avanzati, i momenti di coincidenza tra produzione e
consumo si riducono drasticamente. Restano presenti in alcuni aspetti della vita
quotidiana, quelli che si potrebbero indicare sotto la generica etichetta del fai-
da-te (una sfera che è peraltro a sua volta dipendente dal mercato degli attrezzi
e delle materie prime). Ma la gran parte dei beni viene prodotta dall’industria e
distribuita ai consumatori attraverso il mercato. Ciò vale sia per quelli materiali
(cibo, abiti, oggetti domestici ecc.) sia per quelli intangibili, gestiti dall’industria
culturale tramite i mezzi di comunicazione di massa e le forme di riproduzione
tecnica delle arti espressive. Il riconoscimento delle differenze culturali (della
linea di frattura fra egemonico e subalterno) deve passare all’interno delle pra-
tiche di consumo di massa: non più in una sfera di produzione autonoma, ma
nelle modalità di accesso al mercato, nella scelta selettiva dei beni, nei modi di
usarli, di fruirne, di modificarli ed eventualmente condividerli e farli circolare.
Per questo è così importante per l’antropologia affrontare il campo del consumo.
Per farlo, tuttavia, dobbiamo ripartire da più lontano – da altri tempi e altre
discipline. Un intellettuale tedesco di padre ebreo, formato alla grande tradizione
filosofica continentale, è costretto dal nazismo a rifugiarsi prima in Inghilterra e
poi, nel 1937, negli Stati Uniti. Qui incontra la società dei consumi e l’industria
culturale in uno stadio assai più avanzato di quello europeo: modi di vita basati
su un’ampia disponibilità di tempo libero, dedicato al consumo di cinema, ra-
dio, musica leggera o jazz, rotocalchi e letteratura di genere. Apparentemente,
si tratta del trionfo della democrazia: la cultura, tradizionalmente riservata a
una ristretta élite, è disponibile per le masse grazie alle tecnologie mediali e al
mercato capitalistico. Ma di fatto, agli occhi di questo intellettuale, la cultura
che viene così diffusa è quanto di più distante si possa immaginare dalla grande
tradizione europea: ne è di fatto una grottesca caricatura, che con il pretesto
dell’ampia accessibilità svuota le forme di ogni contenuto. O meglio, conferisce
loro un significato affatto diverso. Al di là della leggerezza di superficie, la cultura
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di massa nasconde la stessa violenza del dominio economico e politico che la


produce. Il suo contenuto «reale» è l’assoggettamento totale dell’individuo al
sistema – raggiunto con mezzi più morbidi ma forse più efficaci di quel regime
totalitario da cui il filosofo era fuggito.
Il personaggio in questione è Theodor W. Adorno, esponente di spicco dell’I-
stituto per la Ricerca Sociale di Francoforte: un centro di studi di orientamento
marxista ma attento alle moderne scienze umane, come la psicoanalisi e la so-
ciologia, che diverrà poi noto con l’etichetta di Scuola di Francoforte. Rispetto
al marxismo classico, gli studiosi francofortesi erano interessati al modo in cui il
dominio del sistema capitalistico si insinua fino all’interno della sfera soggettiva.
Mentre nelle sue prime fasi il capitalismo esercita il potere attraverso strutture
coercitive esterne, nella fase più tarda del consumo di massa lo esercita influen-
zando e plasmando direttamente le coscienze degli individui. Ciò avviene per
mezzo di strumenti ideologici in grado di penetrare con ampiezza e profondità
grazie agli sviluppi delle tecnologie comunicative e alla stessa espansione del
mercato. Ebbene, dopo l’esperienza americana è proprio il consumo della
cultura di massa che appare ad Adorno il principale canale di diffusione di
una simile ideologia, che sotto la maschera del divertimento nasconderebbe
una grottesca pedagogia repressiva.
Ciò significa che una teoria critica della società può e deve studiare la cultura
popolare o di massa per metterne a nudo la «reale» natura di strumento del
dominio, per cogliere i meccanismi del suo funzionamento. L’originalità dell’ap-
proccio di Adorno consiste appunto nel non liquidare semplicemente la cultura
di massa come insieme di prodotti banali e futili, mettendola piuttosto sotto la
lente d’ingrandimento di un’analisi estetica e sociologica. In particolare, Adorno
si rende conto che i significati «nascosti» si celano nella struttura formale più
che negli espliciti contenuti; una struttura che si manifesta non tanto nei singoli
prodotti (un film, una canzone, un programma radiofonico o televisivo) ma nel
loro insieme, vale a dire nel sistema complessivo dell’industria culturale.
Durante gli anni della guerra Adorno scrive insieme a Max Horkheimer Dia-
lettica dell’illuminismo – libro che uscirà nel 1947 e diverrà molto famoso alla
fine degli anni ’60, esercitando fra l’altro una profonda influenza sui movimenti
di protesta sociale di quegli anni. «Illuminismo» è il nome che i due studiosi
danno al corso della civiltà occidentale: la sua dialettica è il paradosso per cui
la razionalità volta a liberare gli esseri umani dal dominio della natura finisce
– attraverso lo sviluppo del capitalismo industriale – per volgersi in una nuova
forma di dipendenza degli individui. Questi ultimi sono assoggettati nella società
di massa a un potere che neppure percepiscono, e la razionalità tecnica che
domina le loro vite sfocia in forme di esistenza irrazionali e vuote. Un capitolo
centrale del libro è dedicato appunto all’industria culturale: un lungo capitolo
che condensa argomenti destinati a riaffiorare costantemente, nei decenni suc-
cessivi, nella polemica degli intellettuali contro la cultura di massa.
Quest’ultima non viene sottoposta da Horkheimer e Adorno a un’analisi
empirica in senso stretto: la si dà per scontata, come parte del senso comune,
limitandosi ad allusivi riferimenti a un film, una canzone, un attore, un perso-
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naggio. Il lavoro critico consiste nel tentativo di penetrare il velo ideologico


o la sottile magia che essa tende, mostrandone i «veri» significati – l’orrore
dietro la leggerezza e il divertimento. Possiamo così sintetizzare alcuni dei
principali punti dell’argomentazione di Horkheimer e Adorno: a) le modalità
meccaniche e seriali di produzione svuotano la cultura di massa da ogni reale
tensione artistica ed estetica. Essa imita lo stile e l’organizzazione formale della
vera arte, ma lo fa in modo caricaturale, esprimendo una «barbarie estetica».
Inoltre, la grande varietà di oggetti che propone è illusoria, riducendosi di
fatto alla ripetizione di modelli sempre uguali; b) questi modelli, pur presen-
tandosi come guidati dallo spirito del tempo libero e del divertimento, di fatto
riproducono lo stesso ordine dell’ambito del lavoro e dell’organizzazione
economica («il divertimento è il prolungamento del lavoro sotto il tardo ca-
pitalismo»); sono cioè mimetici rispetto al tipo di potere economico e sociale
che li fonda; c) per questo, essi sono portatori di una ideologia intimamente
conservatrice: quest’ultima è radicata non tanto nel contenuto esplicito di film,
canzoni, programmi radio ecc., ma nella loro stessa forma e nei meccanismi
commerciali della loro circolazione; d) pretendendo di soddisfare le esigenze
del pubblico, l’industria culturale in effetti plasma, costruisce o si potrebbe
dire muta antropologicamente il suo pubblico. Sottoposto a una pressione
totalizzante che dà solo l’illusione di una maggiore libertà e autonomia, il
pubblico sembra reagire in modo passivo e inerte.
Su quest’ultimo punto Horkheimer e Adorno spendono parole molto forti:
l’industria culturale a loro parere costruisce e disciplina i modelli umani dei
consumatori, in un modo non tanto diverso da quanto fanno i regimi totalitari.
Come questi ultimi, l’industria culturale vuole abolire la libertà individuale
e il pensiero razionale. L’individuo si scioglie nella massa: le masse esaltate
dei fan del cinema o delle canzoni ricordano per i filosofi francofortesi quelle
altrettanto euforiche dei grandi raduni nell’Europa fascista. In entrambi i casi,
l’esaltazione nasconde la potenziale violenza verso chi non si adegua, dunque
l’impossibilità di autonomia individuale.
Nella sua produzione saggistica successiva, Adorno applicherà questo tipo di
analisi a casi specifici di cultura popolare. Fra l’altro si occuperà di musica jazz
e astrologia. Per quanto riguarda quest’ultima, Adorno la studia esaminando la
colonna degli oroscopi di un quotidiano americano. Vede in essa un esempio
clamoroso di «dialettica dell’illuminismo»: una vena di irrazionalità che si
innesta sulla razionalità dispiegata del capitalismo industriale. In particolare,
Adorno osserva come nell’idea della dipendenza dalle stelle si possa cogliere
il riflesso dell’esperienza sociale di dipendenza da un sistema economico e
politico astratto e impersonale. Affidandosi agli oroscopi, gli individui rinun-
ciano a una soggettività attiva; si rassegnano a un ruolo sociale puramente
passivo e alla riduzione della propria vita a una serie di stereotipi rispetto ai
quali nessuna reale novità o cambiamento è possibile. Questa «superstizione
di seconda mano», come Adorno [1972; trad. it. 1976, 140 ss.] la definisce,
è dunque a suo parere la più appropriata ideologia della repressione dell’in-
dividualità nelle condizioni del tardo capitalismo. In quanto al jazz (termine
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con cui si riferisce alla musica popolare e ballabile diffusa negli Stati Uniti
negli anni ’40 e ’50) Adorno, che è anche musicologo, lo vede come puro im-
poverimento culturale: una musica elementare dal punto di vista compositivo,
basata su semplici moduli ripetuti ossessivamente. La standardizzazione delle
sue formule, sempre uguali a se stesse, è specchio dell’assenza di alternative
sul piano sociale, del conformismo e della rassegnazione rispetto allo stato
attuale delle cose. In altre parole, è lo specchio della repressione cui il sistema
sottopone gli individui. Mentre la vera arte, in particolare l’avanguardia, ha
sempre una valenza critica, la musica leggera e jazz giocano – del tutto indi-
pendentemente dalle intenzioni dei loro esecutori e ascoltatori – un ruolo di
copertura ideologica a un sistema in cui tutto si tiene [Adorno 1953; trad.
it. 1972, 115 ss.].
Queste posizioni di Adorno sono il paradigma di una serie di studi successivi
volti a mostrare le conseguenze alienanti e conformiste della cultura di massa.
Quest’ultima, nonostante le sue potenzialità educative e democratiche, produr-
rebbe di fatto impoverimento, assuefazione, falsa coscienza. Ad essa si applica
la stessa definizione che Marx dava della religione: oppio dei popoli. La sua
funzione è quella di creare «bolle di realtà» che impediscono ogni visione
critica e producono, per usare la celebre espressione di Herbert Marcuse,
un altro esponente della Scuola di Francoforte, persone «a una dimensione».
È un tipo di analisi variamente ripreso da molti autori, fino a giungere alle
odierne posizioni di Zygmunt Bauman e alla sua teoria della «società liquida».
Per Bauman il passaggio da una società di produttori a una di consumatori,
verificatosi nella fase tarda del capitalismo, rappresenta una vera e propria
mutazione antropologica. Le pratiche del consumo, sostenute da un mercato e
da un sistema mediale pervasivi, investono ogni momento e aspetto della vita
quotidiana: esse mediano il rapporto con il corpo, le relazioni sociali, la stessa
vita politica. Il loro effetto è quello di isolare gli individui e di spezzare le reti di
relazioni comunitarie che nella società «solida» sostenevano il sistema sociale.
L’agorà, vale a dire la sfera pubblica nella quale si definiscono gli obiettivi del
vivere comune, resta un deserto di rovine; la conversazione razionale che un
tempo governava la vita politica si riduce essa stessa a congerie di discorsi e
immagini pubblicitarie [cfr. fra gli altri Bauman 1999; 2007].
Non si può negare che simili approcci critici al consumo di massa colgano
aspetti importanti dei mutamenti sociali nella seconda metà del Novecento;
e che segnalino rischi reali di impoverimento culturale e di svuotamento
della vita politica e degli stessi sistemi democratici. Queste teorie difettano
però su un punto cruciale: non si interrogano sui significati che il consumo
culturale assume per i suoi praticanti. Adorno, ad esempio, non è minima-
mente interessato a capire in quali modi la gente ascolta la musica leggera o
legge gli oroscopi sui giornali. Dalle caratteristiche del prodotto (la ripetitiva
monotonia del jazz, l’irrazionalità dell’astrologia) inferisce i suoi effetti. Dà
per scontato che la coscienza dei fruitori sia passivamente e inesorabilmente
plasmata dall’industria culturale: e che dunque gli appassionati di jazz o i
patiti degli oroscopi non possano che essere soggetti impoveriti, alienati e
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repressi. Anche Bauman basa la sua diagnosi della società liquida su quella
che potremmo chiamare una visione dall’esterno: analizza il flusso della
comunicazione globale (le sue fonti sono articoli di giornale, pubblicità,
programmi televisivi, siti web), ma non si preoccupa di verificare in che
modo essa è recepita da gruppi particolari di persone, e quali significati sono
costruiti attorno ad essa. Si tratta di un problema metodologico di cruciale
importanza, come vedremo tra breve.

2.  L’ANALISI SEMIOLOGICA


Prendiamo in considerazione altri indirizzi di studio che a partire dagli anni
’50 vanno ad affiancare la teoria critica nell’analisi dei prodotti culturali di
massa. Già in Adorno, come abbiamo osservato, si fa strada l’idea che capire
tali prodotti voglia dire scoprirne i «reali» e «profondi» significati, nascosti
dietro la superficie di una forma e di un contenuto leggeri e banali. Disvelare
il contenuto nascosto o cifrato è in effetti l’obiettivo che si pongono discipline
come la semiotica, la psicoanalisi e la critica letteraria di impianto strutturalista,
che negli anni ’60 e ’70 conoscono la loro massima fortuna.
La semiotica e la semiologia (due termini che assumiamo qui come sinonimi,
anche se le tradizioni d’uso presentano differenze) vengono comunemente
fatte risalire all’influenza filosofica di Charles S. Peirce e alle innovazioni
introdotte nel campo della linguistica da Ferdinand de Saussure: due studiosi
scomparsi alle soglie della prima guerra mondiale, che in modo diverso hanno
gettato le basi di una teoria generale dei segni e della comunicazione. Nella
seconda metà del Novecento, la semiotica si è sviluppata attraverso l’analisi
di vari aspetti della cultura in termini di sistemi di segni. Le arti, la cultura
materiale, le performance sociali e ogni altro fenomeno culturale possono
essere trattati come linguaggi di cui devono essere decifrati i significati, sia
quelli esplicitamente codificati da emittente e ricevente, sia quelli impliciti,
che non si manifestano cioè a un’analisi puramente denotativa.
Oltre a occuparsi di letteratura, arti visive e altre manifestazioni della
cultura «alta», la semiotica fin dall’inizio dà grande risalto all’analisi della
cultura popolare e di massa. Il cinema, i fumetti e la letteratura di genere o
di «evasione», la televisione, la moda, la musica pop, la pubblicità sono per
i semiologi grandi campi in cui esercitare l’analisi strutturale dei segni, alla
ricerca di significati connotativi nascosti sotto la superficie denotativa: allo
stesso modo in cui l’analisi semiologica o strutturale di un’opera d’arte può
rivelare in essa significati non necessariamente presenti nella consapevolezza
dello stesso autore. Ad esempio, la pubblicità si dimostra una forma di
comunicazione nella quale il significato connotativo prevale nettamente su
quello denotativo. Il contenuto esplicito del messaggio invita a comprare un
prodotto – un detersivo, un liquore, un’automobile – perché utile o di buona
qualità; il contenuto «latente», che si palesa nell’uso di immagini, simboli,
figure retoriche ecc., associa quel prodotto a significati culturali non esplici-
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tamente dichiarati, quali la ricchezza e lo status sociale, il desiderio erotico,


la purezza o la sicurezza e così via.
Roland Barthes e Umberto Eco sono probabilmente le due più importanti
figure della semiologia post-bellica. Entrambi si occupano prevalentemente di
critica artistico-letteraria, ma concedono ampio spazio all’analisi delle forme
della cultura popolare che emergono nella società europea fra anni ’50 e ’60;
anzi, la loro fama è legata proprio all’apertura di questo particolare campo
della critica, nel quale si può indifferentemente parlare di Joyce e dei fumetti,
di Picasso e dei telequiz, della filosofia scolastica e della fantascienza. Barthes
ha aperto questo campo d’indagine con un’opera uscita nel 1957, dal titolo
Mythologies (nella traduzione italiana Miti d’oggi). Si tratta di una raccolta
di brevi scritti dedicati ad aspetti della cultura di massa nella Francia degli
anni ’50: fra gli altri lo spettacolo del catch, una guida turistica, un modello
di auto (la Citroën DS), il Tour de France, una mostra di oggetti in plastica,
alimenti e specialità gastronomiche, la pubblicità dei prodotti per la pulizia
o per la bellezza, l’immaginario dei dischi volanti e così via. Tutti questi
tratti culturali hanno carattere «mitologico» perché al semplice «oggetto»
o «fatto» si sovrappone nel discorso pubblico e nel flusso mass mediale un
ordine di significazione ulteriore, che rimanda a dimensioni metastoriche e ha
in definitiva l’effetto di «naturalizzare» l’ordine sociale e culturale borghese.
Ad esempio, a proposito della corsa ciclistica del Tour de France, Barthes
analizza acutamente la retorica delle cronache giornalistiche, mostrando come
essa sia tutta volta a costruire un’immagine «epica» dell’evento. Come nei
testi omerici, la vicenda sportiva è agita da eroi caratterizzati da appellativi
e qualità specifiche, all’interno di una geografia esemplare e di una Natura
personificata, attraverso gesta guidate da una «energetica degli Spiriti», con
il costante rischio del sacrilegio (il doping, detto ai tempi «la bomba»). L’ana-
lisi semiologica consiste nel rendere esplicita la sovrapposizione di ordini di
significazione che negli articoli dei giornali sportivi resta implicita, nascosta
sotto una pretesa di denotazione, di puro racconto dei «fatti». Nell’evento
sportivo ci sarebbe secondo Barthes una messa in scena drammatica della mo-
rale che caratterizza la società «borghese» contemporanea. È questo carattere
«borghese» che accomuna i vari «miti» analizzati. Il mito serve a destorificare,
a rendere eterno uno stato di cose che è invece necessariamente storico. La
società contemporanea («borghese») esprime questa funzione non attraverso
dottrine dotate di valore sacrale, ma attraverso un diffuso immaginario che
appartiene alle sfere profane e «leggere» del tempo libero e del consumo
culturale. L’analisi semiologica consente di penetrare sotto quella apparente
leggerezza e banalità, per cogliere il «messaggio» strutturale che la cultura pop
contiene: in definitiva, le categorie morali su cui la società borghese o tardo-
capitalistica si fonda. Il semiologo che studia la cultura di massa non è tanto
diverso dall’antropologo che vuole rappresentare una società «altra»; deve
sfuggire all’effetto di familiarità banalizzante che quegli oggetti (i detersivi,
le canzonette, gli eventi sportivi e così via) implicano per chi ci vive dentro,
cogliendo le oggettive categorie culturali che li strutturano.
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Anche Umberto Eco usa la nozione di mito per dare conto della diffusione
della cultura di massa nell’immaginario contemporaneo. A questo tema dedica
Apocalittici e integrati, un libro uscito nel 1964 e decisamente pionieristico
nel panorama culturale italiano. Si tratta di una raccolta di saggi critici su
prodotti dell’industria culturale quali fumetti, letteratura di genere, cinema,
canzoni, televisione. Rispetto a Barthes (per non parlare di Adorno), Eco
esamina in modo assai più dettagliato tali prodotti: non si limita a prenderne
spunto, ma li tratta come farebbe con opere della cultura «alta», sottoponen-
doli ad accurate analisi strutturali. Interi capitoli sono dedicati ad esempio a
fumetti come Steve Canyon e Superman. È a proposito di quest’ultimo che
viene evocata appunto la funzione «mitica». I fumetti svolgerebbero oggi lo
stesso ruolo svolto un tempo (Eco viene da studi di filosofia medioevale) dai
repertori di simboli volti a tradurre in immagini o storie esemplari le verità di
una religione rivelata. L’iconografia delle cattedrali gotiche, ad esempio, può
essere letta come un processo di trasmissione verso il «basso» – per mezzo di
immagini – di concetti egemonici, tale da costruire una «universalità di sentire
e di vedere». Nella modernità desacralizzata, è la comunicazione di massa
che può «ricostituire su basi popolari questa universalità» [Eco 1964, 221].
Solo che per capire questi simboli ci vuole il semiologo. Cosa nasconde dunque
Superman? Eco ci propone una raffinatissima analisi delle strutture temporali
implicate dal fumetto, che cercano di conciliare l’immobilità del personaggio
mitico (per definizione sempre uguale a se stesso, la cui storia è stata narrata
una volta per tutte) con la storicità della narrativa romanzesca (alla quale il
fumetto appartiene). Ne risulta una serialità di storie che ricominciano per
così dire sempre dallo stesso punto, in cui i personaggi non invecchiano, non
si «consumano» con il trascorrere degli eventi. Eco lega questo aspetto all’idea
di deresponsabilizzazione etico-politica che le società a capitalismo avanzato
perseguono (ciò che si fa oggi non influenza ciò che accadrà domani), conclu-
dendo con la tesi di una funzione «pedagogica» che Superman svolgerebbe
rispetto a questo tipo di valori egemonici.
Naturalmente, questa pedagogia sta nel fumetto indipendentemente dalle
intenzioni dei suoi autori, nonché dalla percezione consapevole dei lettori,
che vi trovano solo una storia appassionante e divertente. Eco si rende ben
conto di questo punto, e in una pagina molto interessante raffronta il caso di
Superman con quello di produttori o esecutori di miti in altre epoche stori-
che. Il «primitivo» che esegue un rito o narra un mito sarebbe forse capace
di «riconoscere il nesso che collega il singolo gesto tradizionale con il corpus
generale delle credenze che la comunità professa»? E un maestro medioevale
impegnato a scolpire il portale di una cattedrale, avrebbe saputo collegare i
propri canoni stilistici a un complesso sapere teologico, a sua volta collegato a
certe concezioni della vita umana, dell’ordine politico e così via? Certamente
no; eppure «noi oggi vediamo nel suo gesto la manifestazione di un modello di
cultura unitario capace di reiterarsi in ogni minimo suo aspetto» [ibidem, 245].
In questi esempi, l’officiante del rito, lo scultore medioevale e i disegnatori di
Superman sono mediatori inconsapevoli di strutture culturali che solo «noi»
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(in quanto semiologi) possiamo cogliere nella loro oggettività.


Tocchiamo qui l’aspetto forse più affascinante dell’approccio semiologico e
strutturalista, ma al contempo il nucleo delle sue difficoltà. Possiamo infatti
chiederci: in che modo le strutture profonde del significato generano le
pratiche discorsive degli attori sociali, che pure ne sono inconsapevoli? Che
cosa media tra la soggettività degli autori e dei lettori di Superman e gli «og-
gettivi» significati di quella produzione culturale? Evidentemente c’è bisogno
di introdurre qui una qualche dimensione inconscia dello spirito umano.
Può trattarsi di una sorta di inconscio linguistico – quello che spiega come
possiamo parlare correttamente una lingua pur senza saperne formulare in
modo riflessivo le regole grammaticali, e che Claude Lévi-Strauss (cfr. cap. 5)
ha posto alla base dei fenomeni antropologici. Oppure di un inconscio di tipo
freudiano, in contatto con verità profonde (le ansie, le pulsioni, i conflitti) che
lascia vedere alla sua controparte cosciente nella forma di simboli criptati, che
solo l’esperto sa decifrare. In effetti la tentazione psicoanalitica è forte nella
cultura semiologica. Gli stessi Barthes ed Eco fanno ampio uso dei concetti di
inconscio, nevrosi e simili. In altri autori la fusione tra semiologia e psicoanalisi
è molto più forte e programmatica. È il caso ad esempio di Jean Baudrillard,
autore di alcuni fortunati studi sulla società consumistica, nella quale gli
oggetti si svincolerebbero dal valore d’uso per funzionare esclusivamente da
segni, creando una sorta di iperrealtà nella quale i consumatori sono confinati.
In teorie come queste la perdita del soggetto si consuma sino in fondo. Per
Baudrillard lo stesso soggetto umano nella cultura di massa diviene una pura
funzione del sistema semiotico dominante: un’entità talmente eterodiretta,
anzi essa stessa non reale, che coinvolgerla nella ricerca sociale sarebbe inutile
se non sviante [Baudrillard 1968; Sassatelli 2004, 111].

3.  STRATEGIE DELLA DISTINZIONE


Gli approcci semiologici sono basati quasi esclusivamente sull’analisi di testi
– letterari, giornalistici o di altro tipo. Essi decrittano i messaggi prima che
entrino in contatto con persone concrete e con gruppi sociali specifici. Non
interessa ciò che nel Tour de France, nella Guida Blu, nelle pubblicità dei
detersivi o nella Citroën DS vedono i consumatori, le persone che leggono quei
messaggi o usano quegli oggetti. Anche il lavoro di Eco consiste esclusivamente
nell’analisi di testi – come detto, la sua forza provocatoria consiste nel proporre
per i testi popolari analisi altrettanto raffinate e complesse di quelle applicate
alla grande arte e letteratura. Eco è però molto più consapevole del problema.
Sempre in Apocalittici e integrati, osserva che l’analisi semiologica o struttu-
rale non dovrebbe solo soffermarsi sulla forma del messaggio, ma prendere
in considerazione le «condizioni oggettive dell’emissione» (ad esempio, per i
fumetti, il fatto che escono come strisce quotidiane o settimanali su giornali
destinati a un certo pubblico ecc.); e soprattutto, «stabilito che questi messaggi
si rivolgono a una totalità di consumatori difficilmente riducibili a un modello
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unitario, stabilire per via empirica le differenti modalità di ricezione a seconda


della circostanza storica o sociologica, e delle differenziazioni del pubblico»
[Eco 1964, 22]. Qui è già esposto il programma di una ricerca empirica sulla
fruizione della cultura popolare. Una ricerca che Eco non praticherà, restando
più legato alla disciplina dell’analisi testuale (nonché della produzione di
romanzi di grande successo, com’è noto). È però importante che l’abbia
teorizzata come un aspetto imprescindibile dello studio della pop culture.
In questa direzione si sono appunto mossi altri indirizzi, che hanno affrontato
il consumo culturale non tanto come un insieme di messaggi da decifrare,
bensì come un sistema di pratiche di concreti attori sociali. La domanda
cruciale diviene: che cosa fanno quelle specifiche persone quando leggono
Superman, ascoltano musica jazz o scelgono detersivi al supermercato?
Possiamo cominciare a rispondere introducendo un aspetto del consumo
che non abbiamo ancora considerato. Gli approcci critici fin qui discussi
pensano all’industria culturale come a una forza omologante, che cancella
ogni differenza e rende le sue «vittime» tutte uguali, esemplari intercambiabili
di uomo-massa. Secondo alcuni sviluppi di queste teorie, da ciò risulterebbe
persino un azzeramento delle differenze fra classi sociali: nel senso che reste-
rebbe soltanto una ristretta élite che ha nelle mani i mezzi di comunicazione,
e una massa indifferenziata che ne è la passiva consumatrice. Eppure, almeno
in apparenza, ciò contrasta con un evidente aspetto delle pratiche di consumo:
per gli attori sociali, esse rappresentano un’arena privilegiata di espressione,
se non persino di produzione, di differenze sociali. Lontano dall’uniformare,
il consumo serve a distinguere.
Nella letteratura scientifica, questo aspetto è stato sottolineato alla fine
dell’Ottocento da uno dei pionieri della sociologia americana, Thornstein
Veblen, in un fortunato studio dal titolo La teoria della classe agiata [1899].
Il libro analizza le forme di «consumo vistoso» da parte delle classi domi-
nanti. Nella storia pre-industriale, i ceti superiori si distinguono evitando
occupazioni direttamente produttive. Guerrieri e sacerdoti si astengono da
ogni lavoro che abbia a che fare con la manipolazione della materia e con i
bisogni quotidiani; i nobili, che basano la loro ricchezza sulla proprietà della
terra, disprezzano le attività produttive e coltivano abilità, competenze e
passatempi il più possibile «inutili», basati sulla disponibilità di «tempo da
perdere». Con il capitalismo e il prevalere della borghesia, che invece basa
proprio sulle attività produttive il proprio potere, questo sistema si disgrega;
ma il principio che rende prestigiose le pratiche «inutili» continua a sussistere,
spostandosi sul piano dei consumi. I capitali accumulati attraverso l’industria
devono legittimarsi e conquistare «nobiltà» per mezzo, appunto, di consumi
vistosi nell’ambito del superfluo: acquisizione di beni di lusso e per quanto
possibile lontani dall’utilità pratica, legati alla presentazione pubblica di sé
(abiti, case, mezzi di trasporto ecc.) e ad attività nell’ambito del tempo libero,
dello sport, della cultura o delle «passioni». In una società mobile in cui le
distinzioni fra classi si fanno meno rigide e il desiderio di promozione sociale
gioca un ruolo cruciale, ciò innesca meccanismi di emulazione: le classi inferiori
Verso un’etnografia del consumo culturale 149

cercano a loro volta di accedere agli stessi beni di prestigio, spingendo le classi
agiate a spostare costantemente i loro investimenti vistosi per differenziarsi
dai «nuovi arrivati». La logica emulativa finisce così per caratterizzare l’intero
campo del consumo di massa.
La ricostruzione da parte di Veblen di questi processi è assai schematica, e
per di più condotta nel quadro di un linguaggio evoluzionista che la teoria
sociale avrebbe di lì a poco abbandonato. Ciò gli ha attratto numerosissime
(e giustificate) critiche. Tuttavia, alcuni punti fissati dal suo libro restano di
cruciale importanza. In esso il consumo, lungi dal rappresentare il regno
dell’utilitarismo, dell’edonismo e dell’alienazione e chiusura in se stessi degli
individui – come sosterranno le teorie critiche – appare come un grande campo
di definizione delle relazioni sociali; campo dominato da regole «morali» più
che strettamente economiche. Spesso l’antropologia e la sociologia hanno
contrapposto il consumismo moderno, concepito come pura rincorsa utilitaria
ai beni, a istituzioni tradizionali quali il dono (cfr. cap. 11), volte a costruire e
rinsaldare legami sociali. Se seguiamo Veblen, le cose appaiono in modo molto
diverso: le moderne pratiche di consumo sembrano piuttosto riprendere e
inglobare le relazioni morali che nelle società «arcaiche» (per usare il termine
di Mauss) caratterizzavano il dono. Riprendono queste relazioni in un contesto
in cui la disponibilità di beni (sia materiali che immateriali) è moltiplicata dalla
produzione industriale, e in cui alle antiche rigidità degli status si è sostituito
una sorta di continuum dinamizzato dalla tensione verso la promozione sociale.
Si può dunque pensare che tutto il consumo è in qualche misura vistoso
e percorso da rapporti di emulazione. Il che non significa considerare il
consumatore come un soggetto calcolatore, che strumentalmente uniforma
i propri gusti, preferenze e desideri a ciò che più gli conviene in termini di
status. Al contrario il buon gusto, il savoir faire, le capacità da intenditore e
simili competenze culturali sono profondamente incorporati nei soggetti, fino
a diventare una loro seconda natura: e solo a questa condizione funzionano
come qualità distintive. Ce lo ricordano le costanti ironie verso figure come
quella del «borghese gentiluomo», che pretende di dedicarsi alle «nobili arti»
senza padroneggiarle abbastanza, non per profonda convinzione ma per una
superficiale questione di immagine: e ciò produce non prestigio ma il suo
contrario, cioè il ridicolo.
Proprio su questo punto si innesta la riflessione di Pierre Bourdieu (1930-
2002). In una delle sue opere più famose, La distinzione [1979], il grande
sociologo francese riprende i temi vebleniani all’interno di una più raffi-
nata cornice teorica. Che rapporti vi sono tra forme del consumo, classi e
costruzione sociale del gusto? In altre parole: come si può comprendere
sociologicamente il fenomeno del gusto, dell’apprezzamento estetico, delle
preferenze di consumo? Bourdieu introduce un importante concetto – quello
di habitus – proprio per dar conto della relazione tra la dimensione oggettiva
dell’appartenenza sociale e quella soggettiva del gusto. L’habitus consiste in
una serie di competenze, disposizioni, atteggiamenti che il soggetto incorpora
prevalentemente come risultato del processo di inculturazione – cioè per il
150 Capitolo 8

fatto di nascere, crescere e venire educato in un certo ambiente sociale e cul-


turale. Fanno parte dell’habitus le tecniche del corpo (il modo di muoversi,
gesticolare, mangiare, vestirsi), le forme del parlare e del comunicare e le
abitudini linguistiche, tutto ciò che attiene al buon gusto, ai piaceri estetici,
alle competenze da «intenditori». In un passo spesso citato, Bourdieu definisce
l’habitus in termini di

sistemi di disposizioni durevoli e trasferibili, di strutture strutturate predisposte


a funzionare come strutture strutturanti, ovvero, al contempo, come principi
generatori e organizzatori delle pratiche e delle rappresentazioni che possono
essere oggettivamente adattate agli scopi senza supporre la visione cosciente
dei fini e la padronanza esplicita delle operazioni necessarie per raggiungerli, e
come obiettivamente «regolate» e «regolari» senza essere il prodotto docile di
quelle regole, e soprattutto collettivamente orchestrate senza essere il risultato
dell’azione organizzatrice di un maestro d’orchestra [Bourdieu 1980; trad. it.
1983, 88].

L’habitus è ereditato ed è relativamente stabile, si modifica cioè solo lentamente


e in modo sempre parziale. È dunque un oggettivo indicatore di status sociale,
anche se gli individui lo percepiscono come «naturale» predisposizione, come
una indiscussa guida alle pratiche sociali e ai giudizi estetici. Al concetto di
habitus si accompagna in Bourdieu una cartografia delle differenze sociali
basata sul possesso di due forme di capitale, quello economico e quello
culturale. Quest’ultimo include non solo il livello d’istruzione, ma anche e
soprattutto la cultura ereditata o trasmessa come habitus dal proprio gruppo
familiare e sociale. La combinazione delle due forme di capitale, pensate come
assi cartesiani che definiscono lo spazio sociale, dà luogo a quattro grandi
tipologie (naturalmente sfumate in una pluralità di possibili casi intermedi):

a)  ceti ad alto capitale economico ed alto capitale culturale, come la


grande borghesia con radicate tradizioni di vita da «classe agiata»;
b) ceti ad alto capitale economico ma basso capitale culturale, ad
esempio gli imprenditori che si sono arricchiti di recente e tradiscono
nell’habitus un’origine «bassa»: come il borghese gentiluomo di Mo-
lière, questi attori sociali hanno il problema di «convertire» il nuovo
capitale economico in capitale culturale e simbolico, e sono oggetto di
dileggio da parte di chi possiede più solide basi;
c)  ceti a basso capitale economico e basso capitale culturale, come i
contadini e gli operai (ceti «popolari» in senso stretto);
d)  ceti a basso capitale economico e alto capitale culturale, come gli
insegnanti e certi tipi di intellettuali (si pensi alla classica figura del
bohémien).

Ora, Bourdieu vede il consumo culturale come un campo definito da queste


posizioni, o meglio ancora da queste linee di tensione, nel quale i soggetti
(individui o gruppi) si muovono non solo in modi che rispecchiano la loro
Verso un’etnografia del consumo culturale 151

collocazione, ma perseguendo attivamente strategie di distinzione. Il gusto che


si esprime nelle scelte di consumo è dunque la materia prima di una «lotta» di
posizionamento che ha sempre in ultima analisi natura «politica» – ha a che
fare cioè con la distribuzione del potere. Diversamente da quanto sembrava a
Veblen, le strategie distintive sono per Bourdieu più demarcanti che emulative:
sono cioè rivolte più verso il basso che verso l’alto, nel tentativo di tracciare
linee di separazione rispetto a gruppi «inferiori» la cui possibile ascesa è vista
come inappropriata e minacciosa. «In materia di gusti [...] ogni determinazione
è negazione: e indubbiamente i gusti sono innanzitutto dei disgusti, fatti di
orrore o di intolleranza viscerale («fa vomitare») per gli altri gusti, cioè i gusti
degli altri» [Bourdieu 1979; trad. it. 1983, 56]. In particolare, c’è un principio
di vicinanza/lontananza strutturale che guida le contrapposizioni estetiche:
«le scelte estetiche esplicite si costituiscono spesso per contrapposizione alle
scelte dei gruppi più vicini nello spazio sociale» [ibidem, 60].
In La distinzione, Bourdieu discute i materiali di una ricerca sui consumi
culturali nella Francia degli anni ’60. L’aspetto forse più suggestivo del libro
sono i sociogrammi: cartografie in cui i più diversi oggetti del consumo tro-
vano un loro posto nello spazio cartesiano definito dai due tipi di capitale,
economico e culturale. Alimenti e tipi di automobili, pratiche di tempo libero,
divertimento e vacanze, preferenze in campo musicale, cinematografico e
letterario si ordinano in una gamma che va dalle scelte più «raffinate» a quelle
più «popolari»: in modo corrispondente, ceti sociali particolari possono essere
riconosciuti o definiti sulla base della preferenza per una porzione ben precisa
di consumi. Naturalmente, il quadro è reso più complesso da una molteplicità
di fattori, come le differenziazioni interne ai ceti (in termini di generazione,
genere e altre caratteristiche identitarie), e dal fatto che l’intero sistema è in
costante movimento: per cui il «significato» distintivo di un certo oggetto di
consumo non resta lo stesso con il passaggio del tempo. Anzi, l’economia e la
politica dei consumi sono guidate dalla logica della rapida obsolescenza e del
frenetico susseguirsi delle mode: ciò che è distintivo oggi sarà stigmatizzante,
«qualcosa di cui vergognarsi», domani.

4.  L’APPROCCIO ETNOGRAFICO


Vediamo adesso alcuni contributi all’analisi etnografica del consumo di
massa che vengono più specificamente dall’interno della tradizione antro-
pologica. Come già detto, questa disciplina si è accostata al tema con molta
difficoltà e timidezza, partendo da una vocazione per forme sociali che
appaiono come l’esatto contrario del sistema consumistico. Le società di
interesse antropologico, si è a lungo pensato, sono il regno del dono in con-
trapposizione al mercato, della produzione artigianale in contrapposizione
a quella industriale, di uno scambio armonico di dare e avere con il mondo
naturale in contrapposizione al rapporto predatorio e distruttivo implicato
dal consumo di massa. Ma abbiamo anche visto come, a partire dalla fase
152 Capitolo 8

della decolonizzazione, questa idea di autenticità premoderna si è svuotata


di contenuto – insieme all’illusione di una scienza in cui un indiscusso «noi»
studia un «loro» problematico. Le pratiche e le istituzioni delle moderne so-
cietà occidentali sono diventate oggetto legittimo della ricerca antropologica,
la cui peculiarità, semmai, è consistita nella tendenza a defamiliarizzare il
consueto e l’apparentemente ovvio. Cosa succede se guardiamo la «nostra»
quotidianità come se si trattasse di curiosi usi e costumi «altri»?
Tra i primi a considerare in quest’ottica il consumo di massa è stata Mary
Douglas, la grande studiosa inglese che ha tentato di coniugare lo struttura-
lismo di Lévi-Strauss con la tradizione dell’antropologia sociale britannica.
Fin dalle sue prime ricerche sul campo in Africa, Douglas si è interessata al
rapporto tra sistemi simbolici, pratiche rituali e caratteristiche dei sistemi
sociali. Diversamente dall’antropologia funzionalista classica, non si è ac-
contentata però di considerare riti e simboli come strumenti di coesione del
sistema sociale, o strategie per la protezione degli individui dall’insicurezza
e dall’ansia. Ne ha invece proposto una lettura cognitiva: riti e simboli
sono l’aspetto emergente di sistemi categoriali e classificatori socialmente
condivisi che ordinano l’esperienza del mondo, sia di quello naturale che
di quello sociale. Nel suo libro forse più famoso, Purezza e pericolo [1966],
Douglas ha interpretato il fenomeno del tabù (le forme di proibizione e
interdizione rituale) come un meccanismo culturale di protezione delle
«cosmologie» o classificazioni strutturali condivise, a loro volta legate a
un ordine e a una classificazione sociale. Non si tratta di un aspetto della
«mentalità primitiva», bensì di una funzione del pensiero razionale che
riguarda «noi» quanto «loro».
Nei suoi libri successivi Douglas ha appunto indagato le cosmologie sociali
delle moderne società industriali. Vedremo oltre (cap. 9) i suoi studi sugli usi
simbolico-rituali del corpo, considerato come una materia prima espressiva
in cui si plasmano le forme del controllo sociale. Più forte è il controllo del
gruppo sociale sugli individui, più strette e formalizzate saranno le regole
sulla gestione e la presentazione pubblica del corpo e sul suo uso nelle
relazioni interpersonali. Nello stile di vita borghese più classico i codici
simbolici sono molto rigidi e si ispirano a una versione severa di quella che
Douglas [1970] chiama regola della purezza – l’obbligo di «nascondere»
il corpo naturale e le sue funzioni organiche, affermando un modello di
individuo come «spirito disincarnato» e condannando gli scostamenti dalla
regola come intollerabili forme di devianza. Con l’affermarsi progressivo
dell’individualismo tardo-moderno il controllo diviene più elastico e si mol-
tiplicano le possibilità espressive. La presentazione pubblica del corpo resta
tuttavia centrale: non più dettata da norme inflessibili, essa diventa oggetto
di strategie di individui e gruppi che, scegliendo un particolare stile, rispec-
chiano e al tempo stesso costruiscono una specifica identità sociale. Portare i
capelli corti o lunghi, ostentare tatuaggi o piercing, vestire in modo elegante
o casual, con gonne corte o lunghe e così via non implica più condanne di
immoralità e stigmatizzazione, ma è rilevante nell’affermare appartenenza e
Verso un’etnografia del consumo culturale 153

distinzione, esattamente nel senso di Bourdieu. La storia delle mode e delle


culture giovanili nel secondo dopoguerra può essere letta in questa chiave,
come un costante gioco di mosse anticonformiste che vengono di volta in
volta riassorbite nell’ambito della «normalità».
Nel volume Il mondo delle cose, scritto insieme all’economista Byron
Isherwood, Douglas affronta in una chiave analoga il problema del consumo
di massa. Il suo bersaglio critico sono qui le teorie degli economisti (sia
neo-classici che marxisti), secondo i quali il comportamento di consumo
sarebbe guidato da una pura razionalità utilitaria (il desiderio di ottenere
benessere), oppure da sentimenti irrazionali come l’invidia, l’emulazione
o la propensione a farsi ingannare dalle astuzie di commercianti e pubbli-
citari. Il consumo è razionale, ma in un senso diverso: esso rappresenta
un complesso sistema culturale, vale a dire un campo in cui si costruisce
l’intelligibilità del mondo.

Il consumo è il campo in cui viene combattuta la battaglia per definire la


cultura e darle una forma. Invece di supporre che i beni siano necessari es-
senzialmente per la sussistenza e per l’esibizione competitiva, ipotizziamo che
siano necessari per rendere visibili e stabili le categorie della cultura [Douglas
e Isherwood 1979 ; trad. it. 1984, 64-66].

In altre parole, al di là della loro utilità pratica, i beni sono indicatori di ca-
tegorie culturali e oggetto di pratiche di tipo rituale. I riti sono «convenzioni
che tracciano definizioni collettive visibili», con l’intento di «contenere le
fluttuazioni dei significati»: essi si servono spesso di oggetti materiali, «e
quanto più costosi sono gli addobbi rituali, tanto più forte sarà l’intenzione di
fissare il significato per il futuro. In questa prospettiva i beni sono accessori
rituali: il consumo è un processo rituale la cui funzione primaria è di dare
un senso al flusso indistinto degli eventi» [ibidem, 73].
Ad esempio, il cibo serve indubbiamente per mangiare. Ma ci sono svariate
modalità culturali di sceglierlo e acquistarlo, di cucinarlo, presentarlo e ser-
virlo, di differenziare i cibi a seconda del tempo e del luogo in cui ci si trova,
di usarli per discriminare fra il feriale e il festivo, il domestico e il pubblico,
i parenti, gli amici e gli estranei, il raffinato e il volgare, l’aristocratico e il
popolare, la sicurezza e il rischio, il necessario e il superfluo, il morale e
l’immorale e così via. In riferimento a queste e a molte altre categorie sociali,
il consumo del cibo rappresenta un campo straordinariamente ricco di risorse
simboliche che si prestano alla pratica rituale, al fine «di rendere chiaro e
visibile un particolare insieme di giudizi nei fluidi processi di classificazione
delle persone e degli eventi» [ibidem, 75].
L’aspetto forse più importante nell’analisi di Douglas consiste nel consi-
derare il consumo un campo di relazioni morali: vale a dire, strettamente
legato ai sentimenti, ai valori e ai rapporti di potere che costituiscono il
legame sociale. Per capirne il significato non basta allora un’analisi semiotica
dell’oggetto – materiale o immateriale che sia –; occorre invece un’etnografia
154 Capitolo 8

capace di descrivere le pratiche di consumo dal punto di vista degli attori


sociali, cioè dei consumatori stessi. Occorre un metodo analogo a quello che
gli antropologi hanno applicato alle società «altre»: la ricerca sul campo e
l’osservazione partecipante, la capacità di vivere dall’interno quelle pratiche
insieme agli altri soggetti. Non sono stati molti gli antropologi che hanno
cercato di sviluppare questo progetto. Tra essi, si segnala per l’originalità
e la sistematicità l’opera di un altro studioso britannico, Daniel Miller, che
ha affrontato con un approccio etnografico molti aspetti del consumo di
beni materiali. In realtà, Miller ha fatto una cosa molto semplice: è andato
a vedere e ad ascoltare ciò che la gente fa e dice quando fa la spesa al su-
permercato, oppure quando arreda la propria casa. E ci ha messo di fronte
a una serie di significati che tutti noi (in quanto partecipanti al campo del
consumo) conosciamo benissimo, ma di cui siamo raramente consapevoli
perché dominati da una ideologia del consumo come attività futile, edoni-
stica, alienante e immorale.
Nel suo lavoro sulle modalità di acquisto e consumo in un quartiere di
Londra, Teoria dello shopping, Miller parte dalla constatazione che fare
la spesa è un atto d’amore. Le persone coinvolte, in particolare donne,
mogli e madri di famiglia, scelgono i prodotti e ne pianificano il consumo
(ad esempio i generi alimentari per la preparazione dei pasti) pensando ai
gusti, alle necessità, al benessere e alla gratificazione dei propri familiari,
o comunque di una cerchia di persone vicine con cui si condivide la quo-
tidianità. Siamo agli antipodi dell’individualismo utilitarista: spendere per
acquisire merci è essenzialmente un modo di nutrire sentimenti e legami
sociali primari, è un rituale di devozione familiare. Lo dimostra il fatto che
sovente chi fa la spesa usa «concedersi qualcosa», riservare a una propria
diretta gratificazione qualche piccolo «superfluo» lusso, ad esempio un
alimento prelibato pensato come «strappo alla regola». In questa eccezione
sta l’unico momento edonistico, l’unico spazio riservato a se stessi in una
pratica che rappresenta essenzialmente un rituale di devozione familiare
[Miller 1998; trad. it. 1998, 32].
La metafora religiosa è spesso usata anche dagli autori «apocalittici» per
descrivere il consumo: se ne parla come di un nuovo culto, di cui gli iper-
mercati rappresentano le nuove cattedrali [cfr. Ritzer 2004], per la loro
capacità di conquistare le coscienze e di funzionare da «oppio dei popoli»,
allontanando l’attenzione dalla «realtà». Miller parla invece di devozione
in senso del tutto diverso, ponendosi nella tradizione durkheimiana che
vede nella costituzione rituale del sacro e del trascendente la base del
legame sociale. Anche se utilizza un idioma secolarizzato, il consumo è
volto a costruire e rafforzare una trascendenza cui ci uniscono sentimenti
di «amore» – in modi non dissimili dalle pratiche sacrificali che in società
pre-secolarizzate costruiscono il rapporto con Dio attraverso il consumo
e la comunione di beni. La stessa ricerca del «risparmio», che caratterizza
la pratica dello shopping, non è mai puramente utilitaria. La sensazione di
aver «comprato bene» non ha a che fare né con la quantità di denaro speso
Verso un’etnografia del consumo culturale 155

né con l’utilità dei beni acquisiti. Si tratta piuttosto di un obiettivo morale,


un fine in sé più che un mezzo che serve a ottenere vantaggi di altro tipo.
Lo sanno bene i promotori delle «offerte speciali», del «prendi tre paghi
due», delle raccolte di punti e simili. E lo sappiamo anche noi consumatori
che, per quanto consapevoli del fatto che queste «offerte» ci portano a
spendere di più e ad acquistare cose non particolarmente necessarie e magari
nemmeno utili, ne approfittiamo sempre con qualche soddisfazione. Dire
che ci facciamo «ingannare» dalla pubblicità sarebbe assai riduttivo: il fatto
è appunto che cerchiamo nell’acquisto soddisfazione a obiettivi e desideri
diversi dalla pura utilità.
La linea teorica e di ricerca di cui Douglas e Miller (sia pure in modi di-
versi) sono rappresentativi si concentra soprattutto sul consumo di beni
materiali (si veda anche Miller [2008] per l’analisi delle culture materiali
domestiche); tuttavia molte delle loro acquisizioni si potrebbero facilmente
estendere anche al campo dei consumi intangibili, come i generi espressivi
dell’industria culturale.
Riepiloghiamo sinteticamente queste acquisizioni. Primo: per quanto prodotti
in modo seriale e distribuiti attraverso il mercato, i beni di consumo rappre-
sentano un ricco sistema semantico o «cosmologico», strutturato attorno alle
principali categorie culturali delle società contemporanee. Secondo: i compor-
tamenti di consumo, lontano dal risultare «alienati», utilitari e individualisti,
rappresentano un campo morale e hanno natura in ultima analisi rituale. In
altre parole, sono pratiche che costituiscono e «commentano» i legami sociali,
sia quelli primari (Miller) sia quelli gerarchici e di classe (Douglas, Bourdieu).
Terzo: i consumatori utilizzano in modo attivo e spesso creativo i beni, e non
sono solo le vittime passive delle strategie di marketing. In particolare, l’atto
del consumo consiste nel sottrarre al mercato determinate merci per portarle
in un ambito di valore e di significato personalizzato. Ad esempio, uscendo
dalle casse del supermercato ed entrando nelle case, i beni (alimentari, di arre-
damento ecc.) si deserializzano e sono collocati in contesti significativi diversi
da quelli della produzione e della vendita. Mentre la letteratura apocalittica
pensa che oggetti tutti uguali facciano diventare uguali anche le persone che li
consumano, qui si insiste su una singolarizzazione che fa diventare diversi gli
stessi oggetti seriali. Quarto: di conseguenza, l’attenzione del ricercatore passa
dall’analisi semiotica dell’oggetto (che pure resta importante) alla descrizione
delle modalità di fruizione e consumo da parte di specifici e concreti soggetti
sociali. Quinto: una tale descrizione deve avere carattere etnografico, cogliere
cioè le pratiche della quotidianità attraverso il rapporto diretto con gli attori
sociali e con il loro punto di vista.

5. I «CULTURAL STUDIES»


Su questi criteri di metodo, l’antropologia trova forti punti di convergenza
con quel filone di ricerche multidisciplinari che viene di solito denominato
156 Capitolo 8

Cultural studies. Si tratta di un’etichetta un po’ generica, affermatasi negli


ultimi decenni nell’accademia anglosassone a indicare l’attenzione per le
produzioni culturali contemporanee attraverso un approccio che tratta in
modo simmetrico l’alto e il basso, il colto e il popolare. I Cultural studies
hanno origine negli anni ’60, con la rilettura che alcuni studiosi come Ri-
chard Hoggart, Raymond Williams e Stuart Hall propongono delle teorie
marxiste sui rapporti fra struttura politico-economica e sovrastruttura
culturale, nonché delle nozioni gramsciane di egemonia e subalternità. Si
tratta di uno sviluppo e di una reazione al punto di vista espresso negli
anni immediatamente precedenti dalla teoria critica francofortese, che ab-
biamo già visto, e da filosofi marxisti come Louis Althusser. Questi ultimi
insistevano sulla capacità della cultura egemonica, diretta espressione delle
classi dominanti, di imporsi all’intero corpo sociale per mezzo di quelli che
Althusser chiamava «apparati ideologici dello Stato» – vale a dire istituzioni
come la scuola, la famiglia, la stampa e i media, che svolgono il compito
di portare all’interno delle coscienze dei «dominati» i rapporti di potere
disuguali su cui si fonda l’ordine sociale. L’ideologia, dunque, è il concetto
fondamentale che spiega il rapporto tra la dimensione «reale» del dominio
e i fenomeni culturali, educativi e comunicativi. Essa rispecchia e al tempo
stesso maschera e sostiene i dominanti rapporti di forza, popolando il mondo
dei significati di «spettri del potere». Combinate con l’approccio semiotico
(e talvolta con uno psicoanalitico, specie nella versione «linguistica» della
psicoanalisi proposta da Jacques Lacan), queste teorie portavano a una
lettura dei «testi» della cultura di massa a caccia di implicite configurazioni
ideologiche; e cercavano di mostrare in che misura il lettore fosse costruito
dai testi stessi, vale a dire come i lettori reali fossero plasmati a immagine e
somiglianza del «lettore preferito» inscritto all’interno del testo.
Pur restando in una prospettiva marxista, Stuart Hall prende le distanze
proprio su questo punto. È vero che i messaggi massmediali sono codificati
– per usare un linguaggio semiotico – in termini egemonici, e che come tutti
i testi implicano un lettore ideale o preferito. Tuttavia (come accennato nel
cap. precedente) codifica e decodifica non sono necessariamente simme-
triche: il lettore reale non vedrà per forza nel messaggio le stesse cose che
dovrebbe vedervi il lettore preferito. I contesti socio-culturali della fruizione
dei beni dell’industria culturale sono diversi dai contesti della produzione:
il che fa emergere, in modo esplicito o implicito, interpretazioni e significati
difformi. Si apre dunque nel momento della fruizione una differenza che si
articola sull’asse egemonia-subalternità (si veda la discussione di Gramsci
nel cap. 7). I gruppi subalterni accedono alla cultura all’interno di condi-
zioni dettate dalle classi dominanti: questo non significa però che ne siano
passivamente e integralmente determinati. Vi sono spazi di autonomia e
di «resistenza» che si aprono quando i contenuti o le forme egemoniche
trascorrono nell’ambito del subalterno. Più che in pratiche di produzione
esplicitamente alternative, questi spazi si aprono nel momento del consumo.
Non essendo determinati rigidamente dalla natura dei prodotti fruiti, li si
Verso un’etnografia del consumo culturale 157

può studiare solo etnograficamente, cioè andando a coglierli in azione in


specifici e concreti contesti sociali.
La nozione di subalternità che Hall e i Cultural studies impiegano sviluppa
quella gramsciana ma se ne differenzia per alcuni aspetti. Ciò che definisce
l’egemonico e il subalterno è la posizione dei soggetti rispetto non solo al
modo di produzione (contadini vs agrari, operai vs capitalisti), ma anche
ad altri tipi di differenze e disuguaglianze: in particolare quelle di genere,
quelle di generazione, quelle etniche. L’oppressione maschile sulla donna e
quella coloniale e post-coloniale non sembrano semplicemente derivazioni
del fondamentale dominio di classe, e costituiscono in modo autonomo
rapporti di subalternità. Lo stesso vale in parte per i giovani, che nelle mo-
derne società occidentali stanno al centro delle strategie del mercato e del
consumo ma sono di solito privi di diretto potere economico e politico: una
sia pur provvisoria subalternità che conduce alla costituzione di movimenti
subculturali, uno dei fenomeni che più suscitano l’attenzione dei Cultural
studies. Hall tenta di ridefinire il rapporto egemonico-subalterno nei termini
di una contrapposizione tra «la gente» e «il blocco di potere»: intendendo
con ciò che si tratta di configurazioni mobili e variabili più che di ceti de-
finiti una volta per tutte. La linea di frattura si articola in modi complessi
nel corpo sociale; si può dire persino che attraversa le singole soggettività,
cioè che in ciascuno di noi l’egemonico e il subalterno coesistono in una
peculiare tensione.
Sono questi gli assunti caratterizzanti i Cultural studies, che li differenziano
anche da posizioni come quelle di Bourdieu o Douglas – le quali non pon-
gono particolarmente l’accento sul ruolo attivo del momento subalterno,
quando non ne negano esplicitamente la possibilità. Maggiori sono le
convergenze con un altro teorico francese, Michel De Certeau: studioso
eclettico che in alcuni suoi lavori sulla vita quotidiana ha suggerito di inda-
gare il rapporto egemonico-subalterno nel campo del consumo in termini
di azione «tattica». La tattica, come nel significato militare e politico del
termine, si contrappone alla strategia. La strategia è un corso d’azione
programmato, volto a raggiungere obiettivi prefissati in modo chiaro, so-
stenuto istituzionalmente e perseguito con consapevolezza e sistematicità
sulla base di risorse messe appositamente a disposizione. La tattica consiste
invece in corsi d’azione frammentari e contingenti, che tentano di adattarsi
a situazioni del momento sulla base delle risorse volta per volta disponibili.
Ad esempio, l’organizzazione viaria di una città è di solito frutto di scelte
strategiche, di una programmazione di ampio respiro, condotta dall’alto e in
modo centralizzato, che tenta di adeguare la realtà a un modello razionale.
Ma il modo di spostarsi concretamente all’interno della città richiede costanti
riaggiustamenti tattici decisi «dal basso», in modo occasionale e decentrato:
ci sono ostacoli da aggirare, scorciatoie da prendere, percorsi alternativi da
esplorare a seconda della situazione del traffico e così via (un punto su cui
torneremo nel cap. 13). Ebbene, De Certeau pensa al consumo come a una
serie di mosse tattiche volte a rendere «abitabili» beni (materiali o imma-
158 Capitolo 8

teriali) prodotti sul piano strategico. È facile, a questo punto, associare la


strategia alla cultura egemonica e pensare invece la tattica come modalità
dominante di quella subalterna. Ed è in questa chiave che nell’ambito dei
Cultural studies viene riletta l’intera tematica gramsciana e il concetto di
popular [Fiske 1989].

6.  TELEVISIONE E SUBCULTURE


Queste premesse teoriche aprono un potenzialmente sterminato campo di
ricerca empirica. Non basta analizzare i «messaggi» e scoprirne i significati
nascosti: si tratta di andare a vedere che cosa ne fa la gente, cioè studiare etno-
graficamente i modi di fruizione della cultura di massa in particolari ambienti
sociali. È con questo obiettivo che Hoggart fonda nel 1964 presso l’Università
di Birmingham il Centre for Contemporary Cultural Studies (CCCS), un isti-
tuto di ricerca che sarà successivamente diretto da Hall, diventando nucleo
propulsivo di questo movimento intellettuale. Fra gli altri temi di ricerca, il
CCCS dedica particolare attenzione a due campi: la fruizione dei programmi
televisivi e le subculture giovanili. La televisione appare fin dall’inizio cruciale
banco di prova della teoria della decodifica asimmetrica. Uno dei primi studi
del CCCS riguarda Nationwide, un programma di commenti alle notizie del
giorno trasmesso dalla BBC dalla fine degli anni ’60 fino ai primi anni ’80.
David Morley e Charlotte Brunsdon, i coordinatori della ricerca, avevano
sottoposto alla visione del programma gruppi di persone con diverse espe-
rienze lavorative, gradi di istruzione e provenienza sociale, cercando di capire
come ciascun gruppo interpretava il «messaggio», cioè la visione ideologica
di questa trasmissione. Essi intendevano verificare la tesi di Hall, che aveva
distinto tre possibili «letture» connesse alla posizione sociale del pubblico:
una lettura conforme al «codice dominante», una «oppositiva», che dalla
fruizione di un prodotto culturale trae messaggi esplicitamente contrari
all’ideologia egemonica, e infine una lettura «negoziata», che «riconosce la
legittimità delle definizioni egemoniche ma al tempo stesso, ad un livello più
ristretto, situazionale, opera ammettendo eccezioni alla regola» [Hall; cit. in
Moores 1993; trad. it. 1998, 38].
La ricerca su Nationwide confermò ovviamente il nesso tra «letture» e ap-
partenenza sociale, ma in modi assai più complicati di quanto la tripartizione
conforme-oppositivo-negoziato potesse suggerire. La reazione e l’inter-
pretazione delle news e dei commenti politici appariva sempre mediata da
«posizioni discorsive», legate alla classe ma anche a molteplici altri fattori,
ad esempio le appartenenze politiche o sindacali, la generazione e l’influsso
di subculture etniche o giovanili e così via. Più che il dato oggettivo della
«classe», sembrava rilevante la decisione di gruppi e individui di collocarsi
all’interno di tradizioni discorsive e di particolari stili di vita.
Il problema della lettura delle notizie e dei fatti politici appariva – ed oggi
lo è ancor più – importante per comprendere la natura delle democrazie
Verso un’etnografia del consumo culturale 159

contemporanee: in quanto elementi cruciali nella formazione dell’opinione


pubblica, i media possono costruire o distruggere il consenso. Occorre capire
in che misura essi possono imporre certe opinioni e dunque certe scelte di
voto, come una campagna pubblicitaria può «imporre» certe preferenze di
consumo. La volontà popolare, nucleo della concezione classica della demo-
crazia, ha a che fare molto da vicino con il problema della cultura popolare.
Nel filone di studi che stiamo esaminando si fa strada progressivamente l’idea
che la stessa lettura (conforme o oppositiva) delle news e dei discorsi politici
sia strettamente intrecciata con i più generali atteggiamenti verso il consumo
culturale, con gli stili di vita e i posizionamenti distintivi. I problemi posti
da Bourdieu e Douglas, dunque, si riverberano anche sul piano della lettura
del discorso politico egemone dei media. Ciò può spiegare l’apparente pa-
rodosso – oggi molto evidente ma già presente nelle ricerche di Morley – di
letture «conformi» diffuse nei ceti più bassi, e di interpretazioni negoziate o
apertamente oppositive che caratterizzano invece ceti medio-alti impegnati
in strategie distintive e attenti dunque a non lasciarsi risucchiare nel punto
di vista del «popolo».
Ciò spinge il gruppo dei Cultural studies a focalizzare in modo diverso la
ricerca. Prima di tutto, come lo stesso Morley sostiene con forza, occorre
studiare la fruizione della TV nei «contesti naturali» in cui essa avviene,
come la famiglia e la casa. In secondo luogo, l’attenzione si rivolge sempre
più ai programmi di intrattenimento ed «evasione», nei quali si coglie una
problematica politica non minore che nei notiziari. I generi «femminili» della
televisione, come le soap operas attraggono sempre più l’attenzione etnografica.
Com’è ben noto, le soap operas (o telenovelas, nelle versioni di produzione
latino-americana) sono narrazioni seriali trasmesse quotidianamente a orari
fissi, che propongono intrecci di tipo prevalentemente sentimentale e si svilup-
pano per centinaia e talvolta migliaia di puntate. Al successo che incontrano
tra il pubblico femminile (in specie dei ceti popolari) fa riscontro l’ironia e il
disprezzo del pubblico colto e degli intellettuali. Questi ultimi non riescono
proprio a capire come si possa essere attratti da un prodotto di così scarsa
qualità cinematografica, incredibilmente ripetitivo e banale nei dialoghi e
nelle situazioni proposte, e persino grottesco e ridicolo nei colpi di scena che
sostengono la trama (Mary è innamorata di Harry, che si scopre essere figlio
segreto di Susan, la quale è innamorata del fratello di Mary, che odia Harry
per motivi di lavoro e ha una storia nascosta con Jane, ecc.). Nell’ottica di chi
le disprezza, le soap operas sono un chiaro esempio dell’instupidimento che la
cultura di massa e in specie la televisione provoca nel suo pubblico. È possibile,
invece, cogliere etnograficamente il punto di vista delle appassionate seguaci?
Fra i lavori che hanno tentato questa linea di indagine, una particolare no-
torietà ha avuto il libro Watching Dallas, pubblicato nel 1985 da Ien Ang e
dedicato alle spettatrici olandesi di una soap americana molto in voga all’inizio
di quel decennio – «Dallas», appunto. Per la verità, non si tratta di una vera
e propria etnografia. L’autrice si è limitata a raccogliere una corrispondenza
scritta con alcune decine di lettrici di una rivista femminile che erano appas-
160 Capitolo 8

sionate del programma e cercavano di spiegare perché. Le loro ragioni sono


sostanzialmente di due tipi. Da un lato, si riferiscono al piacere che la visione
suscita e alle emozioni che evoca – emozioni avvertite come vicine alla quoti-
dianità, a situazioni di vita reale –; dall’altro, si difendono dalle accuse di kitsch
e superficialità che vengono dai critici della cultura di massa. La categoria di
«realismo», esplicitamente usata da alcune spettatrici, può apparire un po’
strana in riferimento alle esagerazioni romanzesche delle soap. Ang [1985;
trad. it. 2013, 41 ss.] la rilegge in termini di «realismo emozionale»: vale a
dire, un realismo che si manifesta sul piano connotativo più che su quello
denotativo. Oltre la sua superficie (incredibili vicende di amore e affari in un
contesto sociale elitario e lontanissimo dall’esperienza del pubblico), «Dallas»
propone un modello drammatico, una «struttura tragica di sentimenti» che le
spettatrici possono immediatamente riconoscere e collegare alla propria vita.
In questo senso, è comprensibile la percezione – apparentemente assurda – che
la soap parli «della vita reale». Siamo naturalmente nel bel mezzo di quella che
Bourdieu, come abbiamo visto, definisce estetica popolare: realismo, facile
sentimentalismo, collegamento con la vita reale. Le spettatrici sanno bene
quanto tutto ciò sia lontano dai modelli della cultura «legittima»: sanno bene
del disprezzo che quest’ultima esprime verso la televisione e le soap in parti-
colare, e questo porta al secondo tipo di argomenti presenti nelle loro lettere
a Ian Ang: la difesa, attraverso varie strategie (o sarebbe meglio dire tattiche),
rispetto al discorso dei critici della cultura di massa. Ci troviamo qui di fronte
a un curioso paradosso. La produzione e la diffusione della soap opera avviene
certamente a un livello egemonico: e i critici della cultura di massa, quando la
attaccano come volgare, insulsa, conservatrice e alienante, si muovono su un
piano antiegemonico. E tuttavia i soggetti sociali più subalterni, donne delle
classi popolari con un capitale culturale medio-basso, difendono il piacere
e la legittimità di fruire del prodotto mediale contro quella che avvertono
come un’egemonia culturale maschile-intellettuale. Il che mostra quanto sia
complesso e mobile il rapporto egemonia-subalternità nelle società di massa
contemporanee. L’atteggiamento «populista» [McGuigan 1992] può rap-
presentare un supporto all’egemonia dell’industria culturale e dei dominanti
interessi economici – i quali si rendono ben conto di questo, sviluppando il
populismo come specifica strategia pubblicitaria e politica. D’altra parte, il
discorso critico e anti-egemonico caratterizza i ceti intermedi e può assumere
il senso di una elitaria strategia di distinzione nei confronti dei ceti popolari
– segnati da scarso capitale culturale e dalla «volgarità» degli stili di vita.
In definitiva, da questi studi emerge l’immagine di un pubblico non così
passivo e «alienato», capace di letture selettive, ironiche e antiegemoniche.
Capace, soprattutto, di integrare le risorse della comunicazione televisiva in
una propria sfera culturale che resta autonoma e creativa, legata all’esperienza
quotidiana e all’appartenenza sociale. Lo stesso vale per gli studi sulle subcul-
ture – quegli insiemi di mode, stili estetici ed esistenziali, linguaggi che si sono
diffusi nella seconda metà del Novecento tra segmenti della popolazione gio-
vanile. Stili dalle forti implicazioni identitarie e distintive, basati soprattutto
Verso un’etnografia del consumo culturale 161

su peculiari scelte di consumo: modi di vestire e di presentare pubblicamente


il corpo, passione per un genere musicale, uso di slang e linguaggi gergali,
particolari attività «rituali». Dagli esistenzialisti e dalla beat generation ai mod
e ai rocker, poi agli hippy e ai punk, al rasta e all’hip hop, al goth e al dark:
movimenti diversi, talvolta contrassegnati da peculiarità etniche o sociali,
con vari gradi di trasgressività e di visibilità pubblica, spesso strutturalmente
contrapposti. Per Hall e colleghi le subculture rappresentano una risposta
all’esperienza sociale dei giovani dei ceti medi e subalterni. Tale esperienza è
diversa da quella dei loro genitori, poiché implica il rapporto con diverse isti-
tuzioni egemoniche (la scuola e l’industria del divertimento, in primo luogo),
ma è nondimeno plasmata dalla situazione di classe. Le pratiche subculturali
sono fortemente dipendenti dal mercato e dall’industria culturale, che esse
però usano e riplasmano in modi creativi, i quali si configurano come «rituali
di resistenza». Questa espressione dà il titolo a un celebre libro prodotto dal
gruppo dei CCCS negli anni ’70, dedicato alle subculture giovanili inglesi
[Hall e Jefferson 1975], nel quale sono analizzati movimenti come i teddy boy,
i mod, gli skinhead, le comuni, i rasta, e aspetti specifici trasversali a diverse
subculture come il significato della moda, dell’uso di droghe, delle passioni
musicali, di oggetti particolari come le moto e gli scooter, e anche di pratiche
più elusive come il «non fare niente». Questo volume ha segnato un decisivo
spartiacque tra una sociologia che si occupava dei gruppi giovanili e delle loro
pratiche trasgressive in termini di devianza e criminalità e uno studio centrato
invece sul concetto di popular, interessato al consumo di moda e musica e ai
riti di identificazione collettiva come alla materia prima su cui si esercitano
le dinamiche di differenziazione sociale, le aspirazioni egemoniche come le
resistenze antiegemoniche.
Dalla fondazione del CCCS ad oggi il campo dei Cultural studies si è enor-
memente ampliato, estendendosi a una grande varietà di fenomeni e finendo
per rappresentare un terreno d’incontro tra impianti disciplinari diversi – la
sociologia e l’antropologia, ma anche la storia sociale, la critica letteraria,
la semiologia, la storia delle arti e dello spettacolo. Si può dire persino che
i Cultural studies sono diventati «di moda» – tanto da produrre qualche
confusione riguardo il loro statuto epistemologico. In particolare, nei lavori
che si presentano sotto tale etichetta si perde talvolta quel legame con la
ricerca etnografica che invece, come ho cercato di mostrare, è fin dall’inizio
un suo tratto caratterizzante. In ogni caso, si tratta di un campo di studi i cui
obiettivi e metodi sono assai vicini – talvolta difficilmente distinguibili – da
quelli di un’antropologia della vita quotidiana e dei processi culturali nella
società contemporanea.

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