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Marco Meneguzzo

Il capitale ignorante
Ovvero come l’ignoranza sta
cambiando l’arte
Il libro
Incultura, finanza e globalizzazione
stanno rapidamente spingendo i
linguaggi dell’arte in un cul-de-sac. Il
tramonto definitivo delle avanguardie e
l’erosione del potere intellettuale che le
puntellava, insieme all’immagine
dell’arte come status symbol, hanno
favorito l’ascesa di un collezionismo
che, sprovvisto di un’adeguata
conoscenza del proprio oggetto del
desiderio, ha tuttavia imposto nuove
regole del gioco e provocato un radicale
appiattimento del gusto. Se un tempo,
infatti, il collezionismo – che del gusto è
il frutto tangibile, la visualizzazione
plastica – era appannaggio di
un’aristocrazia colta e carismatica, in
grado di conferire legittimità e
autorevolezza alla battaglia delle idee,
oggi è alla ricerca soprattutto di
consenso, e tratta l’oggetto d’arte alla
stregua di un souvenir bell’e pronto cui
si chiede di essere riconoscibile quanto
l’immagine della Tour Eiffel, familiare
anche a chi a Parigi non ci è mai stato.
Guidato da conformismo e dotato di
ingenti capitali, sceglie operetrofeo con
l’unico scopo di testimoniare la sua
appartenenza non più a un’élite di
conoscitori, ma al club degli affluenti.
Dal canto suo, l’artista, perso di fatto il
ruolo antagonistico che lo teneva al
riparo dalle mode, non oppone più
resistenza a questo assetto
omologante. È costretto a inseguire il
successo economico e produce un’arte
“obbediente”, attenta ai diktat del
marketing e del gusto globalizzato, a
scapito di quell’autonomia che era stata
il suo vanto e la sua forza fino a pochi
decenni fa.
Polemico e pungente fin dal titolo,
questo agile saggio narra i cambiamenti
intervenuti nello spirito del tempo, nel
gusto del collezionismo, nel sistema di
diffusione dell’arte e in ultima istanza
nell’arte stessa, in accordo con i
mutamenti intercorsi negli ultimi
trentacinque anni anche in campo
sociale, geopolitico ed economico.
L’autore
Marco Meneguzzo (1954) è critico
d’arte, curatore indipendente e docente
all’Accademia di Belle Arti di Brera a
Milano, dove insegna Storia dell’arte
contemporanea e Museologia e
gestione dei sistemi espositivi. Nel
corso degli ultimi quindici anni ha
viaggiato a più riprese in Cina, India e
Russia per conoscere la situazione
degli artisti, del gusto e del sistema
dell’arte nei paesi emergenti,
continuando contemporaneamente ad
approfondire motivi e moventi della
storia dell’arte occidentale. Con Johan
& Levi ha pubblicato Breve storia della
globalizzazione in arte (2012).
Premessa

Due recenti ricordi personali.


Nella tarda primavera del 2017 mi
trovavo a Venezia e visitavo la
faraonica esposizione di Damien Hirst,
“Treasures from the Wreck of the
Unbelievable”: i commenti di numerosi
esperti, collezionisti e appassionati
d’arte erano quasi scandalizzati,
l’aggettivo che ricorreva con maggiore
enfasi era “kitsch”. Forse sarebbe stato
più corretto adottare altri termini, quali
trash o il più sofisticato camp, ma il
risultato non sarebbe cambiato. Del
resto, come si potrebbe definire di
primo acchito l’operazione di simulare il
ritrovamento di un’antica nave romana
che trasportava tesori d’arte provenienti
da tutte le parti del mondo verso la
capitale? In questa mostra venivano poi
mescolati, in una grandiosità che
soltanto film come Ben-Hur o Cleopatra
avrebbero potuto eguagliare, tutti i miti
più beceri, triti e ritriti dei B-movie, dalle
sfingi egizie alle divinità dell’Olimpo, da
Mickey Mouse alle illustrazioni fantasy
dove non mancano giovani donne
prosperose in abiti succinti che
maneggiano sciabole affilate. Dopo,
solo l’introduzione del truka e l’avvento
del digitale avrebbero trasformato
quella grandiosità costruita in virtualità
elettronica. Eppure Hirst è un uomo
troppo intelligente per aver investito
milioni di euro in un’operazione simile
con l’unico scopo di stupire, di far
parlare di sé, rilanciando, grazie
all’espediente dell’esagerazione, il
proprio brand. E allora in me è scattata
quella dietrologia che mi ha spinto a
ipotizzare quale fosse questo scopo.
Non avrà voluto creare una nuova
meraviglia – come in epoca barocca –
che soddisfi i palati più raffinati? Mi
sono dato molte risposte, seppure
parziali, ma la vera illuminazione l’ho
avuta qualche mese dopo.
Era autunno e questa volta mi
trovavo a Mosca. In occasione della
mostra che avevo curato di un’artista
italiana vicina alla Pop Art, sono stato
invitato a una cena di gala in casa di
Zurab Konstantinovič Cereteli, classe
1934, presidente dell’Accademia Russa
delle Arti dal 1997. Cereteli è non solo
l’autore del monumento a Pietro il
Grande, alto quasi come la Statua della
Libertà, eretto nel centro della città
dopo essere stato rifiutato, pochi anni
prima, come monumento a Cristoforo
Colombo in Salvador, ma è anche
l’autore di tutte le statue dei santi della
ricostruita chiesa del San Salvatore,
sempre a Mosca, e di quella a
grandezza naturale di Vladimir Putin in
divisa da judoka con una tigre
accoccolata ai piedi. La sua casa è
nientemeno che l’ex ambasciata
tedesca a Mosca, un edificio
guglielmino neogotico letteralmente
tappezzato dentro e fuori di opere
bronzee del proprietario, che all’interno
sono intervallate esclusivamente dallo
spazio per le foto in cui è ritratto
accanto a celebrities mondiali, da
Robert De Niro a Gina Lollobrigida, da
Donald Trump (giovane e vecchio) a
Dmitrij Medvedev, oltre all’immancabile
Putin. La grandezza, l’enfasi, la retorica
di queste sculture, di cui molti tra gli
ospiti più smaliziati sorridevano, non
avevano nulla da invidiare a quelle di
Hirst: vivevano di questo e non
diversamente da quelle.
Qual è dunque la differenza? Forse
l’ironia, che uno profonde a piene mani,
mentre l’altro non sa neppure cosa sia,
o la storia di Hirst, costellata di opere
davvero sorprendenti e dirompenti che
hanno segnato in maniera indelebile
l’arte recente. La dichiarata
consapevolezza di un’azione cambia
senso all’azione stessa ma, come
insegna l’Orinatoio di Marcel Duchamp,
si tratta di una consapevolezza fragile,
perché basta immagazzinarlo in un
deposito di sanitari e torna a essere
l’utile oggetto originario, ovvero
l’orinatoio standard; mentre per le opere
ritrovate di Hirst bisogna spendere
qualche milione di euro per possederne
una e così l’eventuale ironia di partenza
scompare davanti allo stupore per un
acquisto tanto oneroso e
apparentemente discutibile. In realtà,
l’impressione è che il gusto sia
profondamente cambiato, secondo
parametri e direzioni imprevedibili sino
a pochi anni fa.
Questi due sintomatici ricordi
sembrano suggerire che il gusto si sia
uniformato in alto e in basso, che non
esistano più fughe in avanti,
esplorazioni avanguardistiche, oppure
che le élite intellettuali non contino
quasi più nulla nella definizione del
gusto futuro, interamente demandato
alla massa degli utenti di immagini. Tale
massa non è più divisa per classi e
forse neppure per capacità economica
– nonostante la possibilità di investire
grandi somme sia determinante in
questo cambiamento –, ma è
semplicemente autorizzata dalla sua
stessa forza numerica a imporre il
proprio gusto, che nessuno pensa vada
educato e coltivato, perché viene
considerato una specie di istinto o di
profondo retaggio culturale di ognuno e
che qualcuno, tra i più fortunati
economicamente, può esibire nelle sue
collezioni.
Queste considerazioni, che oggi
sembrano quasi rappresentare il
buonsenso comune più che il luogo
comune sul gusto, sono abissalmente
lontane dal dibattito delle idee che nel
corso del XX secolo ha portato alla
definizione non tanto di un gusto nuovo,
quanto soprattutto di un’arte nuova.
Eppure nel giro di due o tre decenni, a
partire dagli anni ottanta, il sistema
dell’arte e il suo mondo sono cambiati a
tal punto che gli stessi addetti ai lavori
sono stati sorpresi e addirittura esclusi
dalla trasformazione radicale del
proprio ambiente.
Come è accaduto? Quali sono le
conseguenze sull’arte stessa? Queste
domande sono il frutto non tanto di
un’investigazione astratta, di una
constatazione storica su di un ambiente
esemplare della civiltà dell’immagine,
ma del sottile disagio esistenziale,
percepito in questi anni di militanza
critica, nel vivere trasformazioni sempre
più al di fuori del nostro controllo. E
poiché la comprensione degli eventi è
una forma di controllo, ecco che questo
testo potrebbe essere un parziale
antidoto a quella perdita. Per me
certamente lo è stato.
L’intenzione è quella di trasformare
una sensazione persistente in un’analisi
accertabile, svuotando il problema del
suo contenuto personale per trasferire
questa esperienza su un piano
collettivo, comune, storicamente
condivisibile. L’esposizione mira a
essere consequenziale nello
svolgimento dei capitoli, anche se
l’ipertestualità – in questo caso la
possibilità di scegliere l’ordine di lettura
tra i singoli capitoli – è ormai un
ingrediente naturale della saggistica. In
questo senso qualche ripetizione, certe
ricapitolazioni, alcuni rimandi sono
funzionali a questo tipo di approccio.
Il mondo dell’arte e il sistema che si è
costruito addosso sono una minima
parte rispetto alla mole della
comunicazione interpersonale e
interculturale globale, eppure
costituiscono un microcosmo
complesso e in rapida evoluzione.
L’analisi di tutte le componenti avrebbe
occupato ben altre pagine e soprattutto
avrebbe rischiato di avvicinare troppo lo
scritto a un saggio accademico, invece
di rimanere in equilibrio tra senso e
sensibilità. L’attenzione si è concentrata
quindi su uno dei soggetti di questo
mondo dell’arte più sensibile al
cambiamento, più socialmente uniforme
nei comportamenti qual è il
collezionista. Che è l’incarnazione del
gusto, la visualizzazione plastica dei
suoi cambiamenti, la presenza fisica in
campo di un elemento altrimenti
difficilmente afferrabile. Dunque,
l’analisi dei comportamenti del
collezionismo contemporaneo globale –
corredato da molti riferimenti storici e
geopolitici – ha costituito il metodo
pratico di raccolta dati per la definizione
dell’attuale modello di tendenza
estetica, così come si è configurato nel
nuovo millennio, perché questa
componente del sistema è di per sé la
più sensibile alle modifiche del gusto
stesso e la più immediata e disponibile
all’indagine. Si potrebbe obiettare che
ho affrontato il problema del
cambiamento in arte a partire dall’ultimo
elemento del sistema, ma non è così,
perché è proprio il gusto a determinare
oggi l’arte, e non viceversa. Di
conseguenza, chi determina il gusto
determina nel medio e lungo periodo
anche l’arte, che attualmente ha
perduto quello spirito antagonistico che
la rendeva un’enclave sicura contro
tutte le mode: ma con la
globalizzazione i ruoli sono stati
redistribuiti e riconsiderati nella loro
gerarchia, pur mantenendo
nominalmente le stesse definizioni di
prima.
Per questo, tornando ai due ricordi
iniziali, si moltiplicano gli indizi per cui
Hirst e Cereteli sembrano aver
compreso appieno lo spirito del tempo,
giungendo alle stesse conclusioni
operative da punti di partenza e da
strategie diametralmente opposti, e
divenendo così i “campioni” del
cambiamento in atto. Fondamentale per
entrambi sembra infatti l’azione di agire
sulla categoria del “popolare”. L’uno –
Cereteli – muovendo da schemi
premoderni, legati addirittura a teorie
sovietiche, zdanoviane, che hanno le
loro motivazioni ben radicate nella
massa; l’altro – Hirst – trasformando il
kitsch in glamour, facendo ricorso
all’immaginario narrativo postmoderno,
solleticando barlumi citazionistici
nascosti nella mente di ogni oligarca
che nella sua vita abbia visto almeno un
film di supereroi della Marvel o della DC
Comics. A questo proposito, la sintesi
tra i due l’ho percepita più di un anno
dopo, alla visione di Aquaman, fumetto
inventato nel 1941 e trasformato poi in
film, in cui il protagonista, re di
Atlantide, abita in palazzi sottomarini
che sembrano creati a quattro mani dai
nostri due artisti. Questi ultimi sono
diventati entrambi popolari e i loro
collezionisti sono potenzialmente gli
stessi, perché sostanzialmente
posseggono il medesimo gusto.
Souvenir del concetto
di gusto

Trattazione empirica del gusto – Superare la


soglia del souvenir, della banalità – Cenni
filosofici: gusto soggettivo, gusto oggettivo –
Gusto come spirito del tempo – Come si crea il
gusto? Gusto personale e gusto collettivo –
Gusto per il contemporaneo e gusto per il
passato – Il gusto nella modernità: dinamismo e
aggressività – Gerarchia dei ruoli culturali – Il
gusto delle classi dominanti – Concorrenza
critica come fondamento del gusto borghese – Il
gusto dell’Occidente: pretese universalistiche –
Inadeguatezza teorica
Che cos’è il gusto oggi, prima nella sua
accezione etimologica, poi storica e
addirittura cronachistica?
Perché non parlare semplicemente di
“souvenir” del concetto di gusto? Un
souvenir è un ricordino, è un oggetto
stereotipato, di scarsa importanza, che
racconta unicamente di qualcuno che è
andato in un luogo e ne ha riportato
una testimonianza, la cui caratteristica
è di essere conosciuta da tutti gli
interlocutori: da Parigi si torna con
l’immagine della Tour Eiffel o dell’Arc de
Triomphe, mentre quella del Louvre o
dell’Opéra non fa parte dell’immaginario
collettivo. Se si applicano gli stessi
princìpi del souvenir ai concetti e si
sostituiscono i posti visitati con le
competenze che crediamo di
possedere, ci si accorge che di questi
concetti tratteniamo nella memoria e
nella coscienza molto poco, perfino se
siamo di fronte a qualcosa che
supponiamo di conoscere
perfettamente. Così, se chiedessimo a
un turista di descrivere i monumenti di
Parigi, dove è appena stato,
probabilmente ne rammenterebbe
cinque o sei, a fronte dell’innumerevole
quantità di quelli esistenti e che ha
visitato. Allo stesso modo se si ponesse
una domanda a proposito del proprio
concetto di gusto, la risposta
rimanderebbe a un’immagine vaga
seppur presente, ridotta all’ampiezza di
un souvenir, di un ricordino tanto
conosciuto quanto accantonato.
Persino se si chiedesse a uno storico
dell’arte, antica o contemporanea, di
enumerare velocemente gli artisti del
XIV secolo, o quelli americani degli anni
sessanta, probabilmente cercherebbe
affannosamente nella mente qualche
nome che va oltre quello di Giotto e di
Simone Martini, pur conoscendone
moltissimi, mentre, nel caso
dell’ipotetico studioso del
contemporaneo, già ricordarne un paio
al di là di Andy Warhol, Roy
Lichtenstein e, forse, Donald Judd,
imporrebbe uno sforzo di memoria. Con
ciò si intende affermare che, fra le
miriadi di informazioni che teoricamente
possediamo, resistono solo quelle
maggiormente ripetute, e quindi
stereotipate, che ricorrono anche nella
nostra elaborazione, la quale ha
bisogno costantemente di sforzi
notevoli per superare la soglia del
comune, o, se si vuole, la soglia della
banalità, che costituisce il sostrato
culturale di ogni convinzione e di ogni
relazione sociale.
Il nostro attuale modo di conoscenza,
di cui i grandi sistemi cognitivi sono
soltanto un ricordo del passato, è
frammentario e aneddotico, e non
richiede molto di più di un souvenir per
classificarci tra le persone al corrente
dei fatti e per farci accettare nella tribù
di coloro che possiedono lo stesso
superficiale livello di conoscenza. Si
tratta di una caratteristica importante
che – applicata al sistema dell’arte –
percorrerà sottotraccia tutte queste
pagine, improntate alla constatazione
che il collezionismo contemporaneo,
inteso come forma di conoscenza e di
presa di coscienza del mondo e dei
suoi linguaggi, non richiede più nessun
tipo di approfondimento o addirittura ne
rifugge.
Qualche volta può succedere, anche
solo guardando la palla di vetro con la
neve che cade sulla Tour Eiffel, che
affiorino ricordi e sensazioni puramente
personali, legati a un momento, a
un’azione, a una situazione che
evidentemente ci ha colpito e viene
rielaborata dalla memoria, ben al di là
dello stereotipo insito nel viaggio a
Parigi, che di solito appartiene alla
categoria del souvenir. Qualcosa,
dunque, della nostra personalità e del
nostro vissuto rimane. Il ricordo
personale, sepolto magari sotto una
montagna di selfie tutti uguali, continua
a vivere in un’altra regione della mente
e costituisce un’azione volitiva,
un’elaborazione singolare: così, se si
applica per analogia questo seppur
labile “voler ricordare” ai concetti che
utilizziamo di solito in automatico
(ovvero senza pensare), allora qualche
considerazione appena più
approfondita sul concetto di gusto sarà
utile, almeno per il tempo di lettura di
questo volumetto.
La categoria del gusto coinvolge
sempre un soggetto e un oggetto in
varia misura e percentuale, tanto che
attribuire questa categoria al campo
della pura soggettività – del “mi piace!”
– o al contrario alla pura oggettività – “è
bello!” – non è più ragionevolmente
sostenuto da nessuno. Che il gusto
appartenga unicamente al soggetto
percipiente, ovvero a chi guarda e
giudica o, all’opposto, che sia insito
nell’oggetto percepito, il quale in questo
modo sollecita il soggetto a considerare
alcune caratteristiche proprie, è una tesi
ormai abbandonata e insostenibile. Si
deve trattare allora di una commistione
tra i due poli: il gusto diventa un fattore
sociale e non individuale. Questa
asserzione, che oggi non dovrebbe
trovare troppe obiezioni, non sarebbe
apparsa tanto scontata soltanto pochi
decenni fa, quando le varie teorie sul
concetto di gusto apparivano destinate
alla comprensione dell’individuo, ai moti
della sua percezione, oppure alle
caratteristiche intrinseche dell’oggetto,
escludendo quasi del tutto da ogni
ordine di giudizio l’aspetto sociale. Il
gusto era una questione personale,
quasi intima, che coinvolgeva gli aspetti
più segreti e psicologici della persona.
Al contrario, ora, il concetto di gusto
non può distaccarsi da quello di gruppo,
di società, di massa, di consumo.
Ovviamente, anche quando a metà del
XVII secolo è iniziato il dibattito serrato
su cosa fosse il gusto, esisteva una
componente sociale, e uno dei termini
del problema – benché non il principale
– era se il gusto individuale potesse
trovare riscontro nel sentire collettivo,
dove l’affermazione dell’individuo,
capace di guardare al mondo in
maniera autonoma e di interpretarlo
secondo una propria visione, costituiva
un tassello importante nella costruzione
dell’uomo moderno. Era la
dimostrazione della capacità, sia dal
lato razionale sia sentimentale, di
giudicare in piena libertà, secondo le
proprie convinzioni e spesso in
contrasto con il senso comune. Grazie
a questa interpretazione il gusto
diventava elemento trainante del
rinnovamento illuminista, e comunque
un fattore più vicino alla libertà
individuale che alla convenzione
sociale. Il gusto come indice di
autonomia, di diversità e di
rinnovamento, di volontà personale di
creare diversi modelli di visione del
mondo, per quanto costretti nella sfera
del senso e del sentimento, è stato
dunque uno dei motivi di ricchezza
interpretativa del nuovo, uno degli
elementi chiave della modernità e
dell’affermazione poliforme dell’arte del
Novecento, dopo il lungo periodo di
gestazione durato per tutto il secolo
precedente. E anche se nell’ansia
ottocentesca di allargamento dei limiti
dell’individuo al gusto si opponeva il
genio, il primo era comunque un
interlocutore del secondo, ne costituiva
la polarità inferiore e condivideva parte
della stessa natura: pur non essendo
due categorie ugualmente importanti e
apprezzabili, il gusto doveva per statuto
essere in grado di comprendere o
almeno di intravedere il genio. È su
questa falsariga che, anche senza
citare esempi strettamente legati alle
arti visive, sono sorte figure come lord
Brummel, Oscar Wilde o Gabriele
D’Annunzio, arbitres elegantiarum di
interi paesi e intere epoche, ed è in
questo flusso di idee e di sentimenti che
nasce il gusto per il nuovo e il gusto dei
collezionisti della modernità.
In questo contesto, il collezionista
funge da attivo amplificatore delle idee
e delle opere e partecipa alla battaglia
anche con il proprio esempio: scegliere
un’opera e un artista ha il suo peso
nella creazione di un gusto comune, il
quale si forma proprio a partire dai
modelli che vengono proposti. Bisogna
ricordare, comunque, che si tratta
sempre di piccoli numeri, di pubblico e
non di una tribù, e che questo gusto per
le espressioni artistiche più nuove e
differenziate coinvolge solo un’élite, in
cui la distanza tra collezionista e
pubblico è data semplicemente dalla
capacità economica di acquistare le
opere d’arte e non dal dibattito, dove lo
scambio intellettuale è paritario. Il gusto
delle élite intellettuali durante la
modernità, di conseguenza, deriva da
un insieme inscindibile di fattori, primi
fra tutti la varietà della proposta
disponibile non disgiunta da una sorta
di democrazia diretta e immediata che
favorisce il dibattito e il vaglio critico
delle scelte. Di fatto, l’abbondanza delle
tendenze artistiche sino al 1960 ha
consentito che diversità, ideali e
contrapposizioni feroci costituissero un
fattore di crescita grazie al confronto,
mentre i condizionamenti sociali,
politici, economici di quel periodo –
basti pensare all’intervento delle varie
dittature in campo culturale – non sono
mai riusciti a creare un consenso unico,
anzi, hanno favorito talora la resistenza
critica all’indottrinamento.
Il dibattito è stato fecondo anche per
una sorta di rispetto nei confronti del
ruolo sociale invalso in Occidente
almeno fino all’esordio degli anni
settanta del XX secolo. La massa si
disinteressava di queste discussioni
perché avevano un linguaggio molto più
alto e difficile di quanto si possa
immaginare, profondamente lontano dal
fenomeno odierno. Ciò che garantiva la
qualità del dibattito era il
riconoscimento delle qualità intellettuali
e culturali dei protagonisti: è questo il
“rispetto del ruolo” di cui sopra. Il lavoro
sulle idee era la premessa
fondamentale al lavoro sulle forme.
Il sistema della modernità, uscito
dalla Rivoluzione francese, aveva infatti
sostituito il privilegio della nascita con le
qualità sociali del merito, del lavoro,
dell’intelligenza e della cultura, in una
parola con le qualità borghesi, passate
poi nel bagaglio obbligatorio del
proletariato, il quale, secondo Marx ed
Engels, ne avrebbe espunto tutte le
ipocrisie, mantenendo tuttavia la qualità
in oggetto più pura, più luminosa,
ancora più applicabile alla nuova
società. Dall’altra parte il mito
dell’aristocrazia – il governo dei migliori,
non dei pochi o dei privilegiati –
appariva applicabile entro cerchie
ristrette di uguali, entro categorie
omogenee, come quella degli scienziati.
Perché dunque non doveva essere
possibile applicare il “governo dei
migliori” anche a una categoria più
vaga, seppure ristretta ed elitaria, come
quella degli appassionati d’arte?
Nessuno contestava la necessità della
conoscenza, dello studio,
dell’intelligenza, semmai si poteva
contestare la qualità di questi elementi
ma non la necessità di possederli per
poter disporre dell’autorevolezza
all’interno del gruppo. Tutti i più grandi
collezionisti d’arte contemporanea della
modernità obbediscono a questa
concezione meritocratica – ipocrita o
meno – della società, e soprattutto della
società dell’arte. Da questo punto di
vista, poco importava che il loro
ambiente e le loro collezioni
apparissero eccentrici e addirittura
bizzarri rispetto alle regole consolidate
del decoro, che è l’altra faccia del
“gusto consolidato”. In fondo, si trattava
sempre di una battaglia delle idee, in
cui il termine “avanguardia” riprendeva
l’originario significato bellico di chi,
spintosi ardimentosamente in avanti,
riconosceva per primo il nemico e ne
individuava i punti deboli per scardinare
l’intero schieramento. In altre parole,
qui è scarsamente importante sapere
se il nuovo gusto fosse al servizio
dell’establishment – sotto mentite
spoglie – o al contrario lottasse per una
società completamente rivoluzionata e
rivoluzionaria, mentre è fondamentale
sapere che il gusto, con il collezionismo
che ne consegue, aveva finalità
teleologiche, era cioè lo strumento per
l’affermazione di un’idea, di un modello,
di un futuro possibile, per cui valeva la
pena lottare in ogni campo e senza
quartiere, anche in quello minuscolo del
mondo dell’arte. Questo atteggiamento,
dunque, era il segno di una società
ispirata al progresso, attraverso la
mano armata del progetto.
È da indagare ancora quella che si
potrebbe definire la lotta tra gusti
diversi. Sinora si è mostrato come
potessero convivere
contemporaneamente nella modernità
gusti differenti, schierati decisamente
con questa o quella tendenza in
maniera analoga a quanto accadeva
per i movimenti artistici d’avanguardia.
Per esempio, Roberto Longhi che, in
qualità di critico-principe, in un certo
periodo contribuiva grandemente alla
creazione del gusto, esaltava Umberto
Boccioni, ma disprezzava sino
all’irrisione Giorgio de Chirico. Si tratta
di una situazione orizzontale in cui, su
uno stesso piano temporale, si
affrontano diverse gradazioni di gusto
tutte teoricamente alla pari. Il gusto è il
collante, il tessuto connettivo di un
insieme di idee gettate nell’agone, e in
questo caso il dibattito interno avviene
sul valore e sulla tenuta futura della
tendenza, dell’artista o dell’opera che si
sta sostenendo attraverso le
esposizioni, le collezioni, la difesa
critica, l’atteggiamento culturale, che
contribuiranno all’affermazione o al
primato. Tuttavia, anche nel
malaugurato caso che le proprie idee
non risultassero vincenti, esse
continueranno a vivere sottotraccia. Ma
esiste anche una condizione verticale,
dislocata su più piani temporali, in cui
convivono il nuovo gusto per la
contemporaneità e quello che abbiamo
già definito “gusto consolidato”, in una
vastissima gamma di sfumature. Solo
nella modernità e nei suoi prodromi
cultural-temporali essi possono
coesistere e dibattere per il primato,
proprio in virtù della grande varietà e
della coeva crescita di quel senso
positivo di individualità che aveva fatto
del gusto un emblema prima personale
che sociale. Al contrario, nel passato
questa condizione di coesistenza non
c’era. Procedendo per assurdo, non è
escluso che nel Rinascimento vi
fossero alcune corti “attardate” su
modelli tradizionali che si sentivano più
legate alla propria condizione
geografica, storica e culturale, ma
sicuramente in nessuna di queste il
principe si sarebbe sognato di
realizzare architetture – o anche solo il
proprio nuovo mobilio – “in stile”, ovvero
rifacendosi a epoche precedenti, come
invece accade ogni qualvolta si
percorrono le strade dei mobilieri della
Brianza, o si sente di favolosi ordini per
le residenze di qualche oligarca russo o
di qualche emiro.
Da questa duplice condizione del
gusto – che per comodità è stata
definita orizzontale e verticale –
nell’epoca della modernità ne deriva
una visione dinamica, in linea col
progetto globale del moderno e con
molte analogie con il concetto di
avanguardia. L’affermazione di un gusto
era sempre subordinata alla capacità di
rintuzzare critiche, di adeguarsi alle
novità, di essere flessibili e reattivi su
tutti i piani. In una frase, il gusto
nell’epoca della modernità è un
elemento propositivo e attivo della
modellizzazione del mondo.
Questo atteggiamento di concorrenza
critica ha contribuito all’egemonia
culturale dell’Occidente e della
borghesia al potere. Infatti, se
l’alternativa totalitaria proponeva un
modello unico da seguire, perché
ispirato appunto al totalitarismo – e, tra
l’altro, paradossalmente sempre legato
a modelli passatisti, retoricamente
classicisti –, appare immediatamente
chiaro come il fermento nato dal
confronto fra le tendenze diverse fosse
intellettualmente più proficuo ed
economicamente più interessante, dove
per economia si intenda la gestione
della società e del suo benessere.
Tuttavia, di fronte a queste
caratteristiche di grande dinamismo e
foriere di notevoli successi sul piano
dell’elaborazione teorica e delle sue
applicazioni pratiche (basti ricordare,
per esempio, il moltiplicarsi dell’apporto
culturale di critici e collezionisti tra gli
anni delle avanguardie storiche e gli
anni sessanta), si è commesso l’errore
di pensare che questa visione generale
del sistema della cultura e dell’arte
dovesse appartenere a tutte le culture
del pianeta, indiscriminatamente. Ciò è
avvenuto per la tendenza quasi
inevitabile di considerare la cultura
occidentale il naturale modello di
sviluppo per tutte le altre; di
conseguenza, per quanto concerne
quelle extraoccidentali, soltanto una
questione di tempo le separava dal
raggiungimento di questi modelli di vita.
Invece, l’arte fino a pochissimo tempo
fa è stata tutt’altro che l’espressione
capace di accomunare i popoli, per il
semplice motivo che – come noi la
intendiamo – è un linguaggio
prettamente occidentale. Solo la nostra
idea egemone, per cui tutti devono
adeguarsi al modello che proponiamo,
soprattutto se gli si attribuiscono per
statuto intenzioni universalistiche,
caratteristiche ecumeniche o
internazionaliste, o ancora globali, che
di fatto non ha, ha commesso questo
passo falso. Tutto ciò per ricordare che
storicamente il dibattito sull’arte – e di
conseguenza sul concetto di gusto –
elaborato almeno sino agli anni settanta
del secolo scorso è il prodotto culturale
dell’Occidente e non del resto del
mondo, rimasto sino ad allora – con
rarissime eccezioni – completamente
indifferente al problema. E ancora, che
le varie teorie sono sostanzialmente il
risultato del pensiero delle classi
dominanti, ovvero della borghesia,
anche quando pretende di parlare in
nome del proletariato, e che Pier Paolo
Pasolini è probabilmente l’ultimo
esponente di questo desiderio di
alterità, tipico proprio della borghesia.
Allo stesso tempo, per un senso
egemonico quasi naturale e intrinseco
all’elaborazione teorica della modernità,
l’equivoco della diffusione globale di
questi concetti è stato alimentato senza
ravvisare alcun tipo di forzatura
apparente, come se le cose non
potessero andare che così, secondo un
sillogismo che potrebbe suonare in
questo modo: poiché l’arte è
l’espressione più alta dell’umanità, deve
per forza riguardare l’origine, il nucleo
di ciò che definisce l’essere umano
nella sua essenza più intima, e questa
essenza viene prima di ogni
diversificazione culturale – che
ovviamente non è negata –, per cui, se
in Occidente si sono elaborati questi
concetti, non significa che siano solo
occidentali, ma semplicemente che qui
sono stati indagati per primi, e che
dunque sono applicabili non tanto a un
sistema di culture particolari, ma a tutta
l’umanità. E anche se il gusto non
avesse le stesse caratteristiche
universali, essendo piuttosto un
derivato dell’osservazione del mondo, e
non della sua creazione poetica,
tuttavia ha goduto di riflesso della
stessa erronea vocazione
universalistica, come se a uno sviluppo
artistico dovesse per forza
corrispondere un’unica “attitudine al
gusto”, secondo una visione
deterministica che oggi fa acqua da
tutte le parti.
Da questo fondamentale equivoco,
persino di natura terminologica, nasce
l’incapacità odierna di analizzare il
sistema dell’arte globale, che obbedisce
parzialmente a quegli assunti. In questo
sistema è proprio il gusto ad aver subìto
i mutamenti più evidenti, perché
maggiormente sensibile al
condizionamento sociale e culturale
che, almeno all’inizio, tocca in misura
minore la sfera della creazione
individuale, cioè quella dell’artista. Ma
per non restare su un piano troppo
concettuale e astratto, forse val la pena
di concludere questo “souvenir sul
concetto di gusto” con un paio di
domande che riguardano il sistema
dell’arte attuale, e che sono ben
presenti a tutti coloro che lo
frequentano, a qualsiasi categoria
appartengano: perché i collezionisti che
si ricordano come creatori del gusto e
come compagni di strada degli artisti
sono quelli cresciuti e formatisi al più
tardi negli anni settanta del XX secolo e
non dopo? Perché un uomo come
Charles Saatchi inaugura un nuovo
modo di collezionare, che forse non si
dovrebbe neppure definire tale? Il
dinamismo della collezione prevale
sulla conservazione e l’accumulo, ma
anche il conformismo prevale sulla
personalità: collezionare diventa allora
qualcosa di diverso, assume un volto
con molte parti ancora in ombra.
Vecchi aristocratici,
nuovi adepti

Gusto come manifestazione del potere: esempi


trasversali dall’antichità al XX secolo –
Collezionismo come manifestazione visibile del
gusto – Collezione e museo come educazione
al gusto (del popolo, dei tuoi pari, del mondo) –
Collezione come catalogo dell’esistente e quindi
come visione del mondo – I grandi collezionisti
americani tra Otto e Novecento: una nuova
generazione, prototipo del capitale ignorante? –
I linguaggi dell’arte si moltiplicano:
frammentazione e instabilità del gusto – Il
collezionista d’avanguardia: tipologie caratteriali
e regole per appartenervi
Non sarà inutile ricordare che il gusto è
anche una manifestazione di potere e
del potere: appartiene a una sorta di
potere persuasivo e non impositivo, alla
macchina del consenso non della
repressione, a un sistema che invita a
partecipare e non obbliga a farlo, né è
escludente. A rendere vincenti le
democrazie, durante la modernità, è il
senso della condivisione dei valori e
non la loro forza, su cui facevano leva i
totalitarismi. Ciò non toglie che
l’insieme di molte idee liberamente
condivise e sempre aggiornate crei
un’immagine del potere sicuramente più
forte e duratura di quella costruita su
una rivoluzione legata a un preciso
momento storico, e quindi destinata a
essere poco compresa e poco
condivisa dalle generazioni che non
hanno vissuto quel momento.
Dunque il gusto condiviso è un
tessuto connettivo fortissimo per la
società e per il modello socioculturale
che essa rappresenta. Purtroppo oggi i
parametri di giudizio della forza di una
società sono estremamente rozzi,
essendo praticamente tutti basati sulla
capacità economica e non, per
esempio, sulla qualità della vita o,
secondo una visione più sofisticata, sul
lifestyle. A ben pensarci, se davvero
dovessimo credere che è la forza
economica a creare il modello cui
uniformarsi, dovremmo sperare in uno
stile di vita tedesco o, peggio ancora,
cinese, cosa che risulterà difficile
almeno per i prossimi decenni! Invece,
solo la cultura americana ha lavorato
perché i suoi valori fossero il modello
condiviso da tutti e in tutte le fasce
sociali, comprese le élite, ben al di là
della semplice forza economica. Per
capire come funzioni l’industria del
consenso si citano sempre – e
giustamente – le produzioni
hollywoodiane, ma non è meno
importante ricordare che su ogni tavola
mediorientale – comprese quelle dei
terroristi – ogni giorno si trovano soft
drinks di derivazione o di diretta
produzione statunitense, e i nuovi
musei degli Emirati Arabi Uniti si
contendono le “zuppe Campbell” di
Andy Warhol, perché la cultura
americana costituisce la più completa
copertura di ogni momento della vita
quotidiana sul pianeta da parte di un
modello di vita.
Ma anche senza scomodare l’insieme
dei consumi di massa, ovviamente
legato alla creazione di un desiderio
collettivo per uno stile, e rimanendo
concentrati sull’analisi del sistema
dell’arte, il risultato più evidente
dell’esistenza di un gusto specifico è il
collezionismo, per cui parlarne significa
discutere del gusto che lo sottende. Allo
stesso tempo il termine “gusto” si
nasconde fra le pieghe del dibattito
sulla descrizione e sugli sviluppi della
pratica del collezionismo: l’effetto
tangibile e visibile di una causa
profonda a monte, più celata,
dimenticata, invisibile, ma anche il
motore in continua evoluzione della
condizione artistica che stiamo vivendo.
L’affermazione del gusto attraverso il
collezionismo, e le importanti variazioni
comportamentali e sociali che ne
derivano, non appartengono
unicamente alla nostra epoca: se si
guarda ai secoli passati, si ritrovano
impressionanti analogie con l’attualità. Il
circolo letterario protetto e finanziato,
nonché la collezione di statue greche di
Gaio Cilnio Mecenate, ricchissimo
possidente etrusco-romano, amico e
consigliere dell’imperatore Augusto,
non sono soltanto la dimostrazione
della sua predilezione per la cultura
greca, ma diventano l’effetto visibile di
un progetto politico che fa di Roma un
modello globale, capace di accettare e
di elaborare quanto di meglio provenga
dalle culture conquistate. È inoltre
l’effetto di una battaglia di idee tra la
tradizione austera della Roma
repubblicana e la vocazione imperiale e
imperialistica della nuova politica,
risoltasi con la vittoria di quest’ultima,
cui non furono estranei i fasti e la
ricchezza ostentati anche attraverso le
collezioni d’arte. Circa millecinquecento
anni dopo, non è un caso che Lorenzo il
Magnifico o i Gonzaga abbiano fatto del
modello rinascimentale il loro maggior
punto di forza (insieme alle banche)
nell’ambito della diplomazia europea,
che vedeva stati ben più potenti
riconoscerne il valore e, nel caso dei
Gonzaga, diventare gli acquirenti più
accaniti delle loro collezioni una volta
decaduta irrimediabilmente la dinastia;
senza affrontare l’argomento dei papi o
delle regole sull’arte della
Controriforma, perché in questo caso
l’aspetto simbolico-politico è diretto e
preponderante. Più vicino a noi, tra la
fine dell’Ottocento e la prima metà del
Novecento, una folta schiera di magnati
americani, sulla scia di John Pierpont
Morgan padre (1837-1913) e figlio
(1867-1943), arrivata in Europa inizia a
collezionare qualsiasi cosa, facendo la
fortuna dei musei statunitensi – il
Metropolitan di New York in primis,
fondato nel 1870 –, di molti storici
dell’arte del tempo – Bernard Berenson
su tutti –, ma soprattutto costoro
affermeranno con grande
determinazione la volontà di diventare i
nuovi “custodi delle memorie” di un
modello condiviso di cui si auspicava il
passaggio del testimone, a qualunque
costo. E quest’ultima frase va presa
anche letteralmente, e applicata ai
nostri giorni per altri paesi emergenti,
se si pensa a quale prezzo – anche
centuplicato rispetto alla richiesta
originaria per l’opera da acquisire – i
ricchi americani hanno trasferito negli
Stati Uniti capolavori europei e “croste”
terribili, manufatti di rilievo e paccottiglia
antica, seguiti probabilmente dai
sorrisetti ironici dei mercanti e dei
venditori, contenti di essersi sbarazzati
di quel che credevano di valore minore
e poco importante. A distanza di tempo,
questo gigantesco flusso di denaro,
questa sorta di mania collezionistica a
trecentosessanta gradi ha assunto
contorni molto diversi e meno
“macchiettistici”, rivelandosi una
manovra strategica di “trasferimento”
delle memorie e dei diritti su di esse al
di là dell’oceano, trasformando anche
culturalmente il mondo occidentale da
eurocentrico ad “atlantico”. In questo
senso il valore simbolico dell’acquisto
nel 1896 del Ratto d’Europa di Tiziano
di proprietà di lord Darnley da parte di
Isabella Stewart Gardner, consigliata da
Berenson, diventa davvero
paradigmatico di un’intenzione, di un
desiderio che alla base ha un modello
condiviso e un gusto simile.
Tutti questi esempi hanno in comune
almeno due caratteristiche proprie delle
società occidentali: una forte
responsabilizzazione dell’individuo nella
costruzione della comunità e la
necessità della condivisione dei valori.
Si tratta di elementi fondanti e
fondamentali, che hanno resistito per
secoli e che solo ora, forse, con la
contaminazione delle culture e
l’ibridazione dovuta alla globalizzazione
dei mercati, vengono messi in crisi. Ma
la condivisione del gusto, quella di cui si
sta storicamente parlando – e che
pensa di proiettarsi in questo contesto
globalizzato –, anche se suggerita o
addirittura calata dall’alto in realtà
deriva da un intento educativo, dalla
volontà di mostrare e di imporre modelli
virtuosi di interpretazione del mondo.
Del resto, i primi musei moderni, come
quello privato di Paolo Giovio nel XVI
secolo o la Pinacoteca Ambrosiana,
non nascondevano questo intento, ma
lo esaltavano (Federico Borromeo lo
aveva già teorizzato nel suo scritto
Musæum del 1625), e lo stesso
sarebbe avvenuto poco dopo, quando
la società civile inglese avrebbe
inaugurato per esempio la Royal
Academy (1768). Perché si apriva un
museo? Per educare più che per
conservare o produrre, e poco importa
che questa educazione arrivasse dallo
Stato (come per i musei francesi: prima
con il re, poi con l’imperatore e infine
con la Repubblica), dal partito (come
nei musei sovietici, cubani o cinesi)
oppure dalla società civile (come in tutti
i musei di derivazione anglosassone),
perché è l’intento ciò che conta. Il fine
educativo è alla base anche dei musei
dei grandi magnati americani che
avevano assorbito la cultura liberale
anglosassone. L’uomo di successo, il
tycoon che riempie il suo museo con
tutte le collezioni possibili provenienti
dall’Europa, restituisce alla società ciò
che essa stessa gli ha insegnato, e che
è riuscito a mettere a profitto, fornendo
al contempo un esempio di
modellizzazione totale della realtà
attraverso la sua capacità
imprenditoriale e il suo gusto, che è, e
deve essere, quello dell’intero contesto
sociale in cui vive. L’esistenza e
l’esibizione della collezione diventano
così strumenti di educazione a largo
raggio, rivolti ai propri pari, al popolo, al
mondo. È indubbio che la formazione di
una collezione, o di un museo, inneschi
un sistema di emulazione, mentre
l’educazione del popolo, pur
assumendo i toni di una sorta di
concessione, di una elargizione liberale,
riveste il ruolo di un sincero desiderio di
costruire una società armonica, grazie a
un gusto condiviso da tutte le classi, da
tutte le persone che in qualche modo si
vogliano elevare. L’esposizione al
mondo della collezione, infine, fa parte
di un innato spirito egemone che spinge
a proporre e a persuadere della validità
del proprio modello di vita. Il museo,
dunque, effetto quasi immediato
dell’esistenza di una collezione, è una
sorta di “catalogo dell’esistente”, anzi,
di quanto di meglio esista, e questo
nell’ambito di una visione ancora
unitaria dei valori del mondo (cosa che
per i musei d’arte antica, che
raccolgono opere fino alla fine del
Settecento, è ancora valida, in quasi
tutto il pianeta).
Ma se collezionare sembra essere
un’attitudine ancestrale e innata
all’essere umano, la consapevolezza
della forza che l’imposizione di un gusto
può avere sugli altri componenti della
società, e sulle altre società, è una
caratteristica abbastanza recente, ed è
figlia dell’accelerazione avvenuta in tal
senso tra Ottocento e Novecento. Che
papi e nobili possedessero una
collezione, proteggessero le arti era
assodato, e l’artista – cui pur si
riconosceva un ambito di libertà
creativa personale e un talento che
doveva essere lasciato libero di
esprimersi entro certi limiti – non era
lontano dal “cortegiano” così ben
delineato già da Baldassarre
Castiglione. Invece, il trionfo della
borghesia, combinato con la libertà
acquisita dall’artista durante il XIX
secolo e portata al suo compimento con
le avanguardie degli inizi del XX secolo,
ha immesso nel sistema dell’arte una
vastissima possibilità di scelta grazie
alla moltiplicazione dei codici
espressivi, ormai svincolati da ogni idea
di genere o di norma. Nasceva dunque
la concorrenza, che non era più una
competizione tra individui legata alla
maestria personale nell’interpretare un
dato codice (preferisco Leonardo o
Michelangelo? Domanda legittima, ma
che resta all’interno di un codice
espressivo unitario), ma era una visione
del mondo che automaticamente
escludeva tutte le altre dal proprio
orizzonte (la Metafisica o il Futurismo?
Chagall o Mondrian?). In questo clima
di grande fermento, l’azione del gusto
attraverso la collezione diventa
infinitamente più importante, quasi
decisiva, e il passo successivo alla
creazione delle grandi raccolte
tradizionali, per cui era necessario
trovare i soldi e qualche nobile
spiantato proprietario di un capolavoro
ricevuto in eredità, è stato quello di
occuparsi della contemporaneità,
schierandosi a favore di uno e
simultaneamente a scapito di un altro. I
protagonisti di questo scontro di idee
sono generalmente intellettuali raffinati,
affiancati da eccentrici conoscitori,
scapestrati viveur, quasi sempre pecore
nere di famiglie importanti, in grado di
sostenere e di pagare gli artisti, e
spesso provenienti dalla East Coast
degli Stati Uniti: la preparazione
dell’Armory Show del 1913 o la figura di
Gertrude Stein, come più tardi quella di
Peggy Guggenheim, sono indicative di
questa situazione. A costoro viene
richiesto non tanto di conoscere, di
essere acculturati, ma di vivere il
proprio tempo, e le virtù necessarie per
questo ruolo sono l’intuizione e
l’entusiasmo, che appartengono più al
carattere che all’intelletto. C’è bisogno
di combattenti, e non di studiosi, e
ancora una volta il termine
“avanguardia” riprende la sua
connotazione guerresca e
sostanzialmente vitalistica, rispetto
all’erudizione esangue di chi si occupa
del passato. E se anche queste due
anime convivono nello stesso periodo –
Pierpont Morgan figlio, collezionista di
antico, è praticamente coetaneo di
Gertrude Stein, musa della più estrema
contemporaneità –, è a quest’ultima che
vanno le simpatie della nostra epoca, e
sicuramente l’attenzione di questo
scritto. In altre parole, il sacrificio della
conoscenza storica e del passato è
ampiamente compensato dalla vitalità e
dalla grinta che i compagni di strada
degli artisti d’avanguardia del XX secolo
mostrano nel difendere le loro posizioni,
nell’attaccare chi non è d’accordo,
nell’impegnarsi a fondo per
l’affermazione di un modo di guardare
al mondo che certo non sarà più in
grado di costruirne una visione unitaria,
ma che consente almeno di
comprenderne molte istanze. Nasce in
questo momento storico la pluralità
della visione, la possibilità di accettare
più proposte, tutte valide, per
interpretare la realtà, di contro alla
confortevole visione unitaria… mentre è
ancora abbastanza lontana
l’estremizzazione di questa condizione
plurale che porterà alla frammentazione
e alla babele postmoderna. La
freschezza dello sguardo di questa
generazione di creatori del gusto –
senza nulla togliere alle vette raggiunte
da pensatori o storici d’arte del vecchio
continente, quali per esempio Paul
Valéry o Walter Benjamin – deve molto
a quella sorta di ingenuità di cui viene
tacciata la cultura americana, ma che
invece, in quel momento, immette
nuova linfa – e anche denaro – nel
dibattito sul modo di guardare alla
società e di affrontarla. Azzerare le
categorie di giudizio precedenti,
inventarne di nuove, non fare più
distinzioni tra cultura “alta” e “bassa”,
sono i necessari corollari del gusto che
consente di apprezzare quell’arte che
ha eliminato dal canto suo le categorie
espressive tradizionali.
Questo impedisce di considerare
quella generazione e quella società
come “ignoranti”, anche se la cronaca
del tempo e certi luoghi comuni
sottolineano la bizzarria e l’eccentricità
dei protagonisti piuttosto che la loro
dedizione, e attribuiscono agli
americani una certa superficialità di
giudizio. Le regole su cui era costituito il
gusto, la tradizione del collezionismo,
l’evoluzione del museo, erano ancora
quelle precedenti, dettate dall’approccio
aristocratico e borghese europeo, che
mirava a mantenere la supremazia
attraverso la conservazione della
memoria. Così, la creazione delle
grandi collezioni americane d’arte
antica non era altro che un
trasferimento geografico ed economico
di questa visione: il testimone
dell’economia stava passando in altre
mani, ma per quanto riguarda il gusto
non cambiava il modello, il progetto, il
futuro, che invece si adagiavano su
quello cui si andavano
economicamente sostituendo. Nessuno
poneva l’accento su una diversità di
approccio, sull’esigenza di costruire
invece di custodire, di creare e di
conservare soltanto. La passione per
l’arte contemporanea, che veniva
considerata una sorta di collezionismo
di serie B, era riservata a giovani
scapestrati della jeunesse dorée che,
da adulti, avrebbero forse capito e
puntato su valori sicuri. Allo stesso
modo nessuno, o quasi, avrebbe
scommesso sull’arte contemporanea
come volano del gusto prima, come
status symbol poi, e infine come
massimo grado dell’establishment.
Di più, a diversificare quell’accusa di
ignoranza e di superficialità dal nostro
concetto di “capitale ignorante”, c’è il
secondo termine del dibattito, vale a
dire il “capitale”. Quell’atteggiamento
pionieristico dei primi appassionati
d’arte contemporanea – almeno sino
alla metà del XX secolo – era legato
solo marginalmente a un’idea di
capitale e in maniera opposta a quanto
accade oggi: la disponibilità di denaro
(solitamente molto più ridotto rispetto a
quello di chi si occupava d’arte antica)
era una premessa e un collante
importante, ma destinato quasi sempre
alla consapevole estinzione da parte
del suo gestore. Pur vivendo
un’esistenza interessante, autonoma,
mondana, sotto i riflettori (non sempre
benevoli) della cronaca, questi
appassionati hanno sostanzialmente
consumato il capitale in favore della
loro visione, del loro sogno, ne hanno
fatto uno strumento per l’esaltazione
della loro vita, e allo stesso modo
nessuno ha mai sottolineato l’accumulo
o la moltiplicazione del denaro
attraverso la loro azione nel campo
dell’arte e degli artisti. In una vita spesa
per l’arte, l’aspetto economico, il
successo di mercato (molti di loro
avevano aperto delle gallerie) non solo
non erano importanti di fronte all’intero
svolgersi della loro attività, ma erano
addirittura sospetti. Da Alfred Stieglitz
con il suo Camera Work (dicono avesse
solo diciassette abbonati quando fu
costretto a chiudere la rivista, nel 1917),
a Filippo Tommaso Marinetti che aveva
sperperato la sua immensa ricchezza
riducendosi all’ultimo a chiedere
qualche aiuto finanziario a Mussolini in
persona, alla stessa Peggy
Guggenheim con la sua galleria Art of
This Century, fallimentare dal punto di
vista economico (ma non d’immagine),
la motivazione prevaleva sul successo
materiale, sull’onda della grande forza
ideale del concetto di avanguardia.
Per questo motivo, tutti gli
appassionati e i collezionisti di quel
tempo, anche senza essere così
determinati o intimamente coinvolti
come quei pionieri, hanno obbedito a
queste nuove regole, costituendo di
fatto – e sentendosene pienamente
parte – una specie di setta segreta, di
tribù, il cui codice di riconoscimento era
principalmente la passione smodata per
l’arte contemporanea, che la massa e i
loro stessi amici consideravano come
minimo eccentrica, se non addirittura
folle. Nella migliore delle definizioni, si
trattava di un club molto esclusivo, in
cui si entrava per motivi assolutamente
individuali e spesso psicologici, che non
avevano nulla a che fare con
l’ostentazione di un qualsiasi potere
economico. Al contrario di quanto
accadeva nelle epoche preborghesi, e
grazie anche alla marginalità dell’arte
contemporanea nella società
ottocentesca e di primo Novecento, non
era necessario disporre di ingenti
capitali – talvolta bastava anche un
minuscolo impegno economico – per
iscriversi al circolo.
La situazione non cambia sino agli
anni ottanta. All’epoca, i collezionisti di
contemporaneo assomigliavano agli
appassionati d’inizio secolo più di
quanto non assomiglieranno ai loro
emuli del decennio successivo. In
questo senso il gusto per l’arte
contemporanea che si doveva
affermare battagliando – oggi invece
viene dato per assodato – richiedeva
doti intellettuali e sentimentali molto
diverse da quelle che animavano i
cultori dell’arte antica (spesso
manifestate con reciproco disprezzo),
che rientravano comunque nel campo
dell’intelletto e del sentimento, prima di
ogni altra condizione. Chi vi partecipava
apparteneva a una setta trasversale, le
cui cerimonie di iniziazione vedevano
come centrale e indispensabile la
passione, la condivisione della vita degli
artisti – in misura variabile, ma
comunque sempre empatica –, lo
sguardo (o il fiuto, se si vuole) aperto
alla novità, l’attitudine avanguardistica
spinta fino alla polemica, e una
notevole combattività ideologica.
Pagherete caro
pagherete tutto

La svolta degli anni ottanta – Popolare e


glamour – Tempo libero e infotainment – Nuovi
esempi di arte popolare – Primi sintomi di
geopolitica dell’arte – Elementi di discontinuità
con il recente passato – Vecchie regole, nuove
economie – Una pericolosa euforia – Sintomi di
erosione del potere intellettuale

In questa narrazione esistono un prima


e un dopo storicamente determinati. Il
punto di svolta è costituito dagli anni
ottanta, quando qualcosa – anzi, molto
– è cambiato nel mondo dell’arte, che è
diventata oggetto d’attenzione da parte
del grosso pubblico mentre l’artista si è
trasformato in una specie di star. Tutto
sembra essere accaduto all’improvviso,
senza che nessuno ne avesse
percepito alcuna avvisaglia, e,
nonostante non sia andata proprio così,
la sensazione di una rivoluzione
inaspettata è ciò che ha pervaso quel
decennio. L’immediata conseguenza di
questa diversa attenzione per l’arte
contemporanea è stato il vertiginoso
aumento dei prezzi delle opere, e non
solo di quelle ormai consolidate –
Picasso, impressionisti eccetera –, ma
soprattutto di quelle realizzate o che
venivano create a ridosso di questi
stessi anni, i cui autori conquistavano le
prime pagine di riviste e rotocalchi a
grande tiratura. Tale aumento dei prezzi
non è stato provocato coscientemente
dal mondo dell’arte ma da attori esterni
che all’epoca erano alla ricerca di nuovi
campi di investimento. Dunque qual era
il motivo di tanta attenzione nei
confronti proprio dell’arte
contemporanea? Perché verso la fine
degli anni settanta e a cavallo degli
ottanta è diventata quasi un oggetto
“popolare”?
Il benessere del mondo occidentale,
oltre a essere il frutto di scelte
industriali ben precise, è anche una
scelta politica, una sorta di dispositivo
narrativo atto a sedurre ogni altra
cultura, ogni individuo che, vivendo
secondo un diverso modello di vita,
voglia cambiare il proprio status. Finché
il mondo è stato diviso in due blocchi
contrapposti – democrazie e
capitalismo da un lato, socialismo reale
e rigida programmazione economica
dall’altro –, l’immagine del benessere
ha costituito un’arma formidabile nelle
mani dell’Occidente, che ha dimostrato
tangibilmente come per il singolo
individuo il suo tipo di sviluppo fosse
quello preferibile. A metà degli anni
settanta il conflitto silenzioso tra i due
blocchi ha subìto un’accelerazione,
culminata negli anni ottanta con il crollo
del sistema sovietico, collasso tanto
repentino da non essere neppure
lontanamente previsto dai suoi stessi
promotori (Michail Gorbačëv in
Occidente è oggi considerato uno
statista di grande levatura, mentre nel
suo paese uno scriteriato avventurista),
e proprio quando sembrava che
l’Occidente marcasse qualche battuta
d’arresto – si ricordi la crisi del petrolio
del 1973 o la cocente sconfitta in
Vietnam –, il progressivo volgersi della
produzione verso beni immateriali, un
embrione di lifestyle totale e un
benessere individuale che rasentava
l’edonismo hanno rappresentato la
svolta vincente. Quello che Guy Debord
stigmatizzava come “simulacro” nel suo
fortunatissimo libro La società dello
spettacolo (1967) era diventata la
realtà, accettata e ricercata da tutti, e
benedetta da un costante incremento di
quel gap di prosperità basato su
desideri indotti e subito placati dalla
possibilità di soddisfarli, che separava il
blocco occidentale da quello orientale.
Infatti, quando nel primo il benessere
diffuso assurse a vette così alte da non
poter essere compensato da nessuna
promessa sul radioso futuro socialista
delle generazioni a venire, il gioco fu
vinto, insieme a una corsa tecnologica
che a Ovest aveva imboccato la strada
vincente.
La possibilità del superfluo, l’apoteosi
della sovrastruttura, la ricerca
dell’eccessivo diventavano il biglietto da
visita nei confronti dell’unico vero
nemico sulla faccia della terra.
Chiunque fosse intervenuto nel 1982, a
Berlino, all’inaugurazione della mostra
“Zeitgeist” al Gropius Bau, grande
edificio guglielmino che allora dava
direttamente sul muro, avrebbe avuto la
sensazione di essere immerso in
un’atmosfera surreale creata dal
contrasto insopportabile tra una
“società affluente” – luci sfavillanti,
grandi sculture, scalinate piene di
gente, sale multicolori – e il buio
assoluto, in quella specie di dark city
che era allora Berlino Est. Il fatto è che
non era cambiata la parte orientale
della città, ma l’altra; e se negli anni
cinquanta la qualità della vita non era
molto diversa nei vari settori
amministrati dai vincitori, trent’anni
dopo, agli inizi degli anni ottanta, le
Mercedes che sfrecciavano a tutta
velocità sul Kurfürstendamm,
prigioniere del muro che lo circondava,
corrodevano irrimediabilmente e
concettualmente le lamiere già di per sé
povere delle Trabant (tipica vettura
della Germania Est) dal motore a due
tempi. Tuttavia, era più l’elemento
immateriale della luce a decretare la
fine di quell’altro modello, che non il
confronto tecnologico: la luce delle sale
espositive, infatti, illuminava una
società che poteva finalmente
occuparsi dell’ozio, del tempo libero, di
cui anche l’arte con la sua sostanziale
“inutilità” fa parte.
Il livello di ricchezza materiale
raggiunto in Occidente durante gli anni
ottanta consentiva dunque di volgere i
desideri di massa verso il superfluo.
Apparentemente non esistono punti di
contatto tra l’apprezzamento dell’arte
contemporanea da parte di un pubblico
sempre più numeroso – anche se non
si può ancora parlare di “pubblico di
massa” – e la moda dei voli e viaggi low
cost verso mete esotiche, iniziata
proprio in quegli anni, ma di fatto
entrambi i fenomeni fanno parte dello
stesso andamento epocale. Una volta
raggiunto e superato ampiamente il
livello di sussistenza e di vita quotidiana
decorosa, il consumo si stava
indirizzando verso obiettivi più
sofisticati, rendendo ciò che nel passato
era appannaggio solo delle classi
privilegiate – come viaggiare o
genericamente “oziare”, magari
all’interno di un museo – alla portata di
(quasi) tutti. Di più, in questo modo si è
innescato un meccanismo di
incremento del desiderio di beni
immateriali, di tempo libero, che ha
raggiunto in breve dimensioni
gigantesche: i media spingono verso
l’entertainment sofisticato (qualcuno lo
chiama infotainment, un neologismo
nato dall’unione di “informazione” e
“intrattenimento”), trovando terreno
fertile presso un pubblico desideroso di
nuove frontiere. La novità di questo
desiderio ha in sé un tale potenziale di
sviluppo che non si esaurisce
rapidamente, e anzi continua ad
alimentarsi grazie al concetto di novità
insito nella creazione d’arte
contemporanea. Non solo infatti ci si
occupa della recente produzione d’arte,
ma questa continua a rinnovarsi,
fornendo nuovi motivi d’interesse al
pubblico: una volta innescato il
processo di richiamo, l’attrattiva
dell’arte contemporanea difficilmente si
esaurisce, esattamente come accade –
con altri numeri e altri pubblici – per il
campionato di calcio, il cui meccanismo
è sempre il medesimo mentre i giocatori
cambiano ogni volta.
Perché ciò diventi un fenomeno
popolare occorre tuttavia la
concomitanza di elementi diversi. Va
premesso che quando si utilizza in
questo contesto il termine “popolare” ci
si riferisce a un incremento
esponenziale di numeri piccoli, che
diventano significativi per la “qualità
sociale” degli individui che entrano in
gioco. In altre parole, se è vero che,
secondo quanto sostiene Maurizio
Cattelan, la sua notorietà non
eguaglierà mai quella di un terzino della
Sampdoria, è altrettanto vero che tra i
suoi estimatori ci sono molti collezionisti
disposti a pagare cifre considerevoli per
un suo lavoro. Dunque il pubblico
dell’arte è tutt’altro che low level; al
contrario, da un lato fa opinione perché
si tratta sempre di personaggi influenti
sulla scena e dall’altro incontra e crea
consenso anche presso coloro che si
limitano a partecipare a
un’inaugurazione, respirando il profumo
dell’élite intellettuale ed economica, e
sentendosi giustamente parte attiva del
sistema dell’arte, il quale non respinge
nessuno e simula una democrazia
dell’intelletto e della cultura che rende i
partecipanti al suo banchetto
apparentemente tutti uguali.
Di fatto, la fruizione dell’arte
contemporanea è praticamente gratuita,
perché si può trascorrere un giorno a
Londra o a New York girando per
gallerie senza spendere un soldo (a
patto di essere in quelle città), e la
conoscenza dei suoi protagonisti non
necessita di studi particolari, ma solo di
passione e di tempo, dato che tutto
avviene “in presa diretta”. Questa
condizione ha fatto sì che l’arte
contemporanea rispondesse
perfettamente a quanto la società
occidentale andava cercando in termini
di tempo libero evoluto, destinato a
generazioni infinitamente più informate
delle precedenti, ed è sempre per
questo che gli anni ottanta sono stati il
luogo ideale per la trasformazione del
sistema dell’arte contemporanea da
consorteria chiusa e di difficile
penetrazione a entertainment diffuso e
di moda.
Ma per entrare davvero nelle
motivazioni e nelle cause oggettive di
tale mutamento epocale (almeno per il
sistema dell’arte) bisogna cercare di
scomporre nei suoi elementi costituitivi
quello che sembra un fenomeno tanto
repentino quanto imprevedibile. Come è
possibile infatti passare dal ristretto club
di conoscitori qual era il collezionismo
degli anni settanta a una curiosità
diffusa e popolare nel breve volgere di
pochissimi anni? In fondo, certe
caratteristiche già citate come elementi
determinanti non appartengono
esclusivamente a questo decennio, ma
sono connaturate alla produzione e alla
circolazione dell’arte contemporanea
tout court: per esempio, la sua fruizione
gratuita risalente alle avanguardie del
XX secolo, se non prima, non è bastata
a renderla popolare proprio in quel
momento, così come la disponibilità di
mezzi economici da parte di “nuovi
ricchi” aveva indirizzato i loro surplus
finanziari ad altri beni (con poche
eccezioni). E dunque? Della maggiore
ricchezza della società e della sua
possibilità di orientarsi sempre più
verso il tempo libero si è appena
parlato, ma non è ancora abbastanza
per comprendere il cambiamento, che
invece matura per una serie di
circostanze concomitanti, di cui
nessuna è sufficiente, ma per cui tutte
sono necessarie.
Accanto a una maggior ricchezza
economica e di tempo, negli anni
ottanta si è assistito a un’accelerazione
globale del concetto di futuro, che ha
reso ogni manifestazione nei suoi
confronti più degna di attenzione e di
fiducia. Il futuro degli anni ottanta
vedeva grandi rivolgimenti politici, che
scioglievano la paura del conflitto
mondiale, insieme ai cambiamenti
comportamentali – iniziava l’era del
personal computer e, di lì a poco, della
comunicazione virtuale –, e questa
attesa si riverberava su tutto ciò con cui
quel futuro aveva a che fare, arte
compresa. Inoltre il senso di liberazione
dal lavoro tradizionalmente inteso,
l’impulso a creare nuovi campi
d’intervento, d’invenzione e di profitto,
aveva generato un sentimento di rifiuto
del passato e di speranza nel prossimo
futuro che concentrava in avanti tutte le
aspettative. Anche le idee alla base
della produzione artistica erano
cambiate rispetto ai pieni anni settanta,
fatti di concettualismo e di ribellione:
ora – cioè negli ottanta – sembrava che
la nuova era di prosperità, e di denaro
“facile”, avrebbe potuto cancellare ogni
contraddizione e conflitto contribuendo
alla costruzione di una società più
benestante e disponibile a una crescita
armoniosa di tutte le sue componenti,
per cui anche l’arte avrebbe trovato una
collocazione non fuori dal sistema, ma
coerente con esso. Infine, ma non
ultimo, le tendenze e gli stili che
nell’arte stavano esprimendo questa
nuova condizione risultavano di più
facile comprensione e adatti a un
pubblico vasto, persino maggiormente
inclini a giustificarne il gusto e ad
assecondarlo.
Non è un caso, infatti, che
l’aumentata popolarità del
contemporaneo sia coincisa con un’arte
più popolare, nel momento di minimo
conflitto politico e sociale in Occidente.
Se infatti si guarda ai fenomeni che in
quegli anni occupavano la scena
dell’arte, dagli Stati Uniti all’Italia, alla
Germania e al resto d’Europa, si ritrova
un sentimento condiviso, per quanto
declinato in maniere differenti, e
comunque accomunato da quel grande
fenomeno mondiale che è stato il
ritorno alla pittura, che ha avuto una
diffusione e un successo velocissimi.
Nel corso di pochi mesi un gruppo di
artisti, anzi, un gruppo di pittori quasi
sconosciuti cambiò il gusto e i modi del
sistema. Tutto era cominciato in Italia,
con la teorizzazione della
Transavanguardia da parte di Achille
Bonito Oliva, e con il suo quasi
impensabile successo presso alcune
gallerie nazionali e soprattutto presso
numerose gallerie svizzere e tedesche,
connesse economicamente alle
corrispondenti americane. I detrattori
della Transavanguardia – che in quegli
anni erano soprattutto italiani, secondo
la massima per cui nemo propheta in
patria – avevano visto in questo
autentico boom un’astuta operazione
costruita a tavolino per solleticare il
gusto deteriore di un più vasto pubblico,
alla ricerca di risultati economici. Se
così fosse stato, si sarebbero dovuti
attribuire al sistema dell’arte italiano, e
a poche gallerie – peraltro neppure le
più in vista prima di allora –, una
capacità di convincimento e un potere
di persuasione economico nei confronti
del sistema mondiale che sicuramente
non avevano; allo stesso modo non si
comprende come a distanza di
pochissimo tempo siano diventati
famosi e apprezzati gli artisti tedeschi,
europei e americani che si esprimevano
in maniera simile, usando lo strumento
della pittura, come accennato sopra.
Neuen Wilden tedeschi, graffitisti & Co.
statunitensi, solo per citare quelli che
furono accomunati in un gruppo o in
una tendenza con un nome definito,
divennero i protagonisti della scena
dell’arte, insieme agli italiani della
Transavanguardia o collegabili a essa,
per circa un decennio.
Ma non solo: persino gli artisti che da
lungo tempo utilizzavano lo stesso
linguaggio pittorico, e che non
appartenevano a quei gruppi perché di
una generazione diversa, furono
riscoperti e, per così dire, “riabilitati”
anche se impiegavano uno strumento
così tradizionale come la pittura che
sembrava essere stato spazzato via
dalle neoavanguardie del dopoguerra e
dai loro raffinati estimatori
(basterebbero i nomi di Georg Baselitz
in Germania o di Mario Schifano ed
Emilio Vedova in Italia per comprendere
plasticamente il fenomeno di cui si sta
parlando). Appare quindi assolutamente
inverosimile e risibile la teoria di un
“complotto” su scala mondiale attuata
da alcune gallerie italiane in fondo
periferiche.
Questa teoria era accreditata da
quasi tutti i collezionisti degli artisti non
figurativi delle epoche precedenti,
considerati tra l’altro come compagni di
strada. Fra le pieghe del dibattitto in
atto erano stati individuati alcuni
elementi di novità, senza però riuscire a
cogliere la visione d’insieme e, cosa
ancor più importante, l’ineluttabilità di
quel cambiamento che sarebbe andato
ben oltre la durata del successo della
Transavanguardia e dei suoi seguaci.
Si sta parlando di un gusto diverso per
l’arte, definito “deteriore”
semplicemente perché faceva leva su
elementi quali l’emotività, il piacere
immediato, un certo tipo di
sentimentalismo e una buona dose di
luoghi comuni, tutte caratteristiche che
si ritrovavano nella nuova pittura degli
anni ottanta. Da ciò ne conseguiva – o
ne era la causa? – un nuovo
collezionismo, reso evidente dal
successo economico della pittura, che
fino a quel momento era stata rigettata
e comprata da pochissimi perché
considerata di second’ordine. Infine, i
motivi economici che erano stati indicati
come causa spregevole di questo
preteso complotto mostravano
l’emersione di un flusso di denaro
disposto a riversarsi sull’arte
contemporanea, e di cui non si
sospettava l’entità. Che in molti
ritenessero questi elementi negativi e
non semplicemente dei dati di fatto, ha
impedito a lungo che si guardasse al
fenomeno come il risultato effettivo di
un mutamento storico del panorama
intellettuale e artistico, e se ne
discutesse – soprattutto in Italia – in
maniera ideologica e moralista.
Ma se tutto questo coinvolgeva il
sistema dell’arte e il suo mercato, come
si stava comportando il primo motore
del sistema, vale a dire l’artista?
Ovviamente non gli si poteva imputare
la colpa di esprimersi come preferiva,
nel nostro caso con la pittura figurativa
ed evocativa. Il primo dogma dell’arte in
epoca borghese, ovvero la sua
completa libertà d’espressione, doveva
essere rispettato, nonostante i tentativi
di gettare discredito su questa scelta
siano stati parecchi e,
paradossalmente, provenienti non tanto
dalla parte meno colta e preparata del
pubblico – come era avvenuto a partire
dagli impressionisti in poi di fronte a
ogni novità –, ma da quella più attenta e
preparata ad accogliere ogni estrema
innovazione. Basterebbe questa
riflessione per capire il modo in cui ci si
avviava al crepuscolo e alla rapida
sparizione del concetto di avanguardia,
considerando che la Transavanguardia
e gli altri dimostravano che poteva
sciogliersi in un apprezzamento più
vasto e quasi totale da parte del
pubblico, il quale non distingueva più
tra ciò che era avanti – cioè in
avanguardia – e ciò che seguiva o
restava indietro – la tradizione da
superare –, perché “tutto poteva
funzionare”, secondo l’oramai noto
aforisma della postmodernità.
A questo concetto fondamentale
facevano da corollari alcuni importanti
elementi, indizi significativi su quanto
sarebbe accaduto nei decenni
successivi in tema di globalizzazione e
di gusto. Il primo di questi indizi era il
passaggio epocale che sanciva la fine
dell’internazionalità del linguaggio
dell’arte e l’attenzione per le peculiarità
quasi folkloriche di singole tradizioni
artistiche, elemento che, sebbene
sembri in contrasto con l’idea di
globalizzazione, ne costituisce un
sintomo ben preciso. A questo
proposito può essere emblematico
ricordare le cause del successo della
già citata Transavanguardia come un
caso studio applicabile ad altre
esperienze simili. La Transavanguardia
ha, infatti, goduto non poco di alcune
congiunture storiche e di qualche luogo
comune. Tra gli aspetti storici favorevoli
c’è da annoverare quello di una nazione
e di una cultura che tra la fine degli anni
settanta e gli inizi degli ottanta avevano
saputo contenere e rintuzzare una
situazione di fortissimo conflitto
ideologico interno – come il terrorismo
di destra e le Brigate Rosse –, pur
trovandosi in uno scenario
internazionale che in quegli anni
vedeva l’Italia ancora in prima linea nei
confronti dell’“Impero del Male”
sovietico (così l’aveva definito il
presidente americano Ronald Reagan),
con i propri confini orientali a ridosso
della cosiddetta Cortina di ferro che
separava l’Occidente dal blocco
dell’Est. Era dunque naturale che un
territorio di confine, come quello italiano
– e parzialmente anche quello della
Germania Ovest, ancora divisa –,
venisse tenuto sotto osservazione e di
conseguenza sostenuto nell’ambito di
una strategia mondiale di egemonia,
soprattutto alla luce dei buoni risultati
che andava ottenendo in politica sociale
e produzione culturale. Di questa
attenzione più che benevola aveva
goduto anche l’arte, guardata con
grande curiosità e rispetto da entrambe
le sponde dell’Atlantico. In questo
contesto, le idee e la produzione
artistica della Transavanguardia
rispondevano esattamente anche a
un’altra funzione e percezione da parte
del pubblico internazionale. All’Italia
infatti si attribuiva – e si attribuisce
ancora oggi – il ruolo di culla e custode
della tradizione artistica soprattutto dal
punto di vista storico, e quando la
produzione contemporanea è arrivata a
rappresentare con un linguaggio attuale
questa percezione, il nuovo pubblico
dell’arte ha ritenuto che gli artisti italiani
fossero i più qualificati a farlo,
attribuendo loro un’eccellenza che gli
derivava dall’inevitabile possesso di
certe caratteristiche culturali. Tale
atteggiamento intellettuale – proprio dei
ceti elevati – non è tuttavia molto
lontano dal luogo comune che vede il
paese e gli italiani secondo gli stereotipi
del bel canto, della passione amorosa,
della pizza e del mandolino, a metà tra
Rigoletto e Cavalleria rusticana. Di
conseguenza la Transavanguardia non
sarebbe che l’equivalente “alto” di
questi stereotipi, e comunque il motivo
del primato attribuitole su scala
mondiale deriverebbe dalla percezione
diffusa che, per quanto riguardava la
storia della tradizione pittorica
occidentale e la sua riproposizione in
chiave contemporanea, nessuno fosse
più qualificato a farlo e nessuno lo
aveva proposto prima. Quasi allo
stesso modo, anche le altre esperienze
pittoriche figurative che allora avevano
conquistato la scena possiedono
caratteristiche non dissimili, fra cui gli
artisti tedeschi e il loro inestirpabile
romanticismo, che si traduce sulla tela
con modi espressionistici, o i graffitisti
americani che danno voce a un’arte
diversa, germinata autonomamente
rispetto ai percorsi ormai
istituzionalizzati delle neoavanguardie,
attraverso un linguaggio davvero
“popolare” e “di strada”.
Tutti questi esempi, assolutamente
coerenti tra di loro e suffragati dal
successo comune in quegli anni,
nascondono al loro interno almeno un
altro sintomo di quello che sarà di lì a
poco l’atteggiamento comune nei
confronti dell’arte ai tempi della
globalizzazione: un’attenzione speciale
alle minoranze culturali, con l’andare
del tempo sempre più spesso
coincidenti con le minoranze etniche.
L’arte di strada è quella
dell’emarginazione giovanile e negli
Stati Uniti questo interesse si è
manifestato insieme a una certa
attenzione nei confronti dell’arte dei
gruppi ispanici, culminato a metà del
1980 con lo spostamento di quasi tutte
le gallerie di punta da SOHO all’East
Village e ad Alphabet City, luoghi
degradati di Manhattan popolati per
l’appunto in prevalenza da ispanici. In
fondo anche l’arte italiana di quel
momento apparteneva alla minoranza
latina, con quella spagnola e francese,
che in epoche passate era stata la più
importante e riconosciuta del mondo, e
che oggi meritava attenzione in quanto
sentinella di un avamposto occidentale.
Iniziava così quel movimento di
interesse per le culture e le espressioni
artistiche situate ai confini del “pianeta
occidentale” o nelle aree di crisi politica,
o ancora nelle regioni in via di sviluppo,
fenomeno che diventerà macroscopico
tra la fine degli anni novanta e l’inizio
del nuovo millennio. Tale fenomeno non
era isolato perché fra la metà degli
ottanta e il decennio successivo,
durante il periodo della cosiddetta
glasnost e del seguente crollo del
sistema sovietico, l’attenzione era stata
spostata in modo preponderante sugli
artisti russi, a qualunque tendenza
appartenessero.
Rispetto ai decenni precedenti, e
massimamente agli anni settanta, la
percezione del fenomeno “arte” è
radicalmente cambiata. Al contrario di
quanto appariva allora, non è tanto la
forma dell’opera a provocare lo choc,
quanto il modo in cui veniva guardata,
compresa, apprezzata. A riprova di ciò,
basti pensare che, mentre quasi tutti gli
artisti e le opere di quel periodo di
svolta oggi non riescono più a godere
del favore del pubblico e a spuntare
nelle aste prezzi anche solo
lontanamente comparabili a quelli di
quel momento storico, l’atteggiamento
di galleristi e collezionisti adesso
corrisponde al comportamento adottato
o semplicemente vissuto dai
protagonisti degli anni ottanta. A fronte,
cioè, di un avvicendamento nelle
tendenze espressive, il comportamento
delle gallerie e soprattutto dei nuovi
collezionisti non è cambiato da allora,
ma si è per così dire radicalizzato,
accentuando enormemente il distacco
nei confronti del precedente
collezionismo, che aveva costruito
passo dopo passo le condizioni per la
diffusione dell’arte contemporanea,
vivendo e condividendo ogni novità
linguistica.
Lo sguardo storico-critico non si deve
quindi fare abbagliare dal fenomeno
formale della pittura, ma deve andare
oltre, e vedere cosa ha significato nel
campo più vasto del sistema dell’arte
mondiale. In questo senso il risultato
più duraturo è quello del cambiamento
d’indirizzo del collezionismo, anzi del
cambiamento per così dire fisiologico
del collezionista, il cui sintomo
principale è la disponibilità di somme
ingenti e la disinvoltura con cui vengono
spese per l’arte contemporanea.
All’inizio di questo nuovo corso il mondo
dell’arte era attraversato da un’euforia
mai provata prima. I galleristi e i
collezionisti apparivano la parte più
dinamica, una volta assodato che il
prodotto artistico era radicalmente
cambiato. L’aumento vertiginoso del
denaro immesso nel sistema da un lato
consentiva contatti e relazioni sempre
più numerosi e internazionali, dall’altro
costringeva a rilanciare sempre più
freneticamente sull’incremento di
relazioni e scambi. In altre parole, come
accade quando in un’azienda avviene
un aumento di capitale, per cui un
azionista deve aggiungere soldi
semplicemente per poter mantenere la
sua quota percentuale, così avveniva
per le gallerie e i collezionisti. Le prime,
per avvalorare il proprio range in
un’ipotetica classifica, hanno dovuto
investire sempre di più nella loro
attività, e lo stesso hanno dovuto fare i
secondi per poter acquistare con
costanza nuove opere. Naturalmente
questo meccanismo non è stato
immediatamente chiaro: per qualche
anno il sistema ha goduto di
un’imponente immissione di denaro,
con la convinzione fallace che ciò
avrebbe cambiato la propria economia
e il tenore di vita di artisti e galleristi,
senza però necessariamente modificare
la struttura interna dello stesso sistema
e le regole che lo guidavano. Nell’arco
di tre-quattro anni da parte delle gallerie
c’è stato più accumulo che investimento
di capitale. Si trattava semplicemente di
pagare un poco di più gli artisti di
successo e di far ricadere, moltiplicato,
questo aumento sui collezionisti. A loro
volta i vecchi collezionisti – già restii a
piegarsi al nuovo gusto e all’aumento
dei prezzi – avrebbero comprato
qualche opera di meno, ma sarebbero
stati ampiamente affiancati da nuovi
collezionisti, più disponibili ed
entusiasti, tendenzialmente molto più
ricchi e inclini a spendere senza farsi
troppe domande. Del resto, il nuovo
sistema era stato innescato proprio da
questi ultimi, che si erano affacciati al
mondo dell’arte alla ricerca di uno
status symbol esclusivo, riconosciuto e
divertente, che avrebbe permesso loro
di distinguersi anche dalla massa
sempre crescente di nuovi ricchi, e il
sistema dell’arte sembrava non
aspettare altro che la possibilità di
accontentarli in cambio di un cospicuo
introito di denaro, mai visto prima. In
questo modo, il peso effettivo dei
precedenti collezionisti è stato eroso
giorno dopo giorno in maniera prima
impercettibile, poi sempre più evidente,
con il risultato di essere considerati alla
stregua di certi presidenti emeriti di
aziende, ormai ai margini rispetto agli
amministratori delegati delle stesse.
Certo, il loro prestigio si sarebbe
formalmente mantenuto ancora a lungo,
fungendo da esempio per i nuovi
collezionisti. Come gli antichi dèi
ritiratisi nelle nebbie del mito, sarebbero
stati il simbolo di un passato fulgido ed
eroico, che non sarebbe tornato mai
più. Al contrario i galleristi e tutto
l’apparato economico del sistema a essi
connesso – per esempio le aste e le
fiere, che allora contavano infinitamente
di meno di oggi – si sarebbero
adoperati per gestire il ricambio del
collezionismo in maniera soffice e
indolore, aggiungendo ai vecchi i nuovi,
e realizzando così profitti maggiori dalla
diffusione e dal commercio delle opere
d’arte, senza peraltro pensare di dover
mettere in discussione la propria
struttura economica e mercantile.
Soltanto pochi galleristi al mondo si
stavano interrogando sul futuro,
chiedendosi cosa avrebbero dovuto
modificare di fronte alle trasformazioni
che il denaro dei nuovi collezionisti
avrebbe richiesto e alla lunga imposto
alle proprie strutture e alla propria
identità.
Il capitale ignorante

Condividere le collezioni con i propri simili – La


ricerca del consenso di massa – Lo strano
incontro tra il capitale e l’ignoranza –
Collezionare o possedere? – Identikit del nuovo
collezionista: creare dinastie o rivoluzioni
permanenti? – Un modello diverso: il consenso
fuori dell’Occidente

Sino alla fine degli anni settanta il


collezionista d’arte contemporanea
riservava la visione della propria
collezione a se stesso e alle persone
che riteneva in grado di comprendere
sia la qualità delle opere sia le
motivazioni della raccolta, oppure
rendeva quest’ultima pubblica,
attraverso donazioni o costituzioni di
musei ex novo, in modo da testimoniare
la sua munificenza (non esente da
qualche aiuto fiscale). Così facendo,
esprimeva anche riconoscenza nei
confronti della società che lo aveva
tanto favorito, cui si restituiva un segno
tangibile. Questo poteva avvenire
soltanto in un clima di condivisione di
un modello di sviluppo sociale, di cui
una collezione d’arte è anche una delle
più alte espressioni. In questo senso
tutte le raccolte pubbliche hanno avuto
un intento didattico ed educativo, sin
dal XVII secolo, e la prima necessità
manifesta era appunto la condivisione
dei modelli di rappresentazione del
mondo. Questa unità di visione si è
ovviamente frantumata nel corso del XX
secolo, sia per l’aumentare dei conflitti
sociali, sia soprattutto per la difficoltà di
comprendere e condividere i linguaggi
delle avanguardie artistiche da parte del
grande pubblico.
Il collezionista d’arte contemporanea
è così venuto a far parte anch’egli
dell’“avanguardia”, sentendosi partecipe
di un’avventura destinata solo a pochi.
Se fino agli anni cinquanta in Italia i
lasciti d’arte alle città erano una
consuetudine borghese ben accetta, in
anni successivi essi sono stati spesso
rifiutati dalla comunità se a essere
donate erano collezioni troppo
improntate a una contemporaneità
spinta. Sono ancora memorabili le
difficoltà frapposte a Giuseppe Panza di
Biumo – uno dei più importanti
collezionisti mondiali di arte ambientale
e minimal americana degli anni
sessanta e settanta – per la cessione
agevolata della sua collezione in Italia
(oggi gestita dal FAI, ma in versione
ridotta rispetto a quella esistente negli
anni ottanta, che è stata parzialmente
dispersa in vari musei europei e
americani). Scarsa lungimiranza è stata
manifestata da parte dello Stato quando
ha rifiutato la proposta di cessione della
collezione Jucker a fronte della
sospensione delle tasse di
successione, valutate in due miliardi di
lire agli inizi degli anni ottanta, e poi
acquisita dal Comune di Milano agli inizi
dei novanta per quarantasette miliardi.
Più che sottolineare la sordità delle
istituzioni, questi esempi sono volti a
evidenziare lo scollamento tra queste
ultime – trincerate dietro l’impossibilità
di far comprendere ai cittadini
l’importanza di certe opere – e i
collezionisti, sempre più
immedesimatisi in un’élite intellettuale
incompresa.
La fine delle avanguardie ha poi di
fatto travolto anche chi le collezionava
o, meglio, il collezionista che con la sua
azione a favore delle avanguardie in
fondo ne faceva parte. Questa sua
tendenza si è manifestata non perché
disdegnasse l’arte degli anni ottanta o
perché i prezzi delle opere fossero
lievitati sino a rendergli impossibile
l’acquisto (molti di loro, infatti, avevano
possibilità economiche non trascurabili),
quanto perché il suo ruolo era mutato
sia all’interno del sistema ristretto
dell’arte sia nei confronti della società in
senso lato. Pur mantenendo la stessa
definizione, la stessa terminologia e
apparentemente gli stessi
comportamenti e motivazioni, il nuovo
collezionista era completamente
diverso, una specie di “ultracorpo”
simile al prototipo originale cui si era
sostituito, formalmente uguale ma
sostanzialmente alieno.
La differenza fondamentale tra il
“prima” e il “dopo” del collezionista sta
nel consenso, richiesto, ricercato,
negato, rifiutato da parte della società.
Se è vero che quello delle
neoavanguardie non si curava del
consenso – e dalla comunità veniva
ricambiato con la stessa moneta –, il
collezionista uscito dagli anni ottanta
non solo è gratificato
dall’apprezzamento sociale, ma non ha
neppure bisogno di ricercarlo, tanto è
ormai connaturato alla sua condizione
intrinseca. A metà fra i due estremi
temporali, si è verificato il salto di
qualità da parte della società nella
percezione dell’arte contemporanea,
che è passata dall’essere un oggetto
misterioso e per pochi bizzarri
estimatori, a oggetto del desiderio,
esempio notevolissimo di status symbol
e di impiego intelligente del tempo
libero.
Perché parlare di “capitale ignorante”
a questo proposito? Perché in queste
due parole è condensata la
quintessenza dell’atteggiamento della
società nei confronti dell’arte
contemporanea. Di fatto, non si parla
solo di collezionismo – nei due termini
sopra citati non ce n’è neppure l’ombra
–, ma di capitale, vale a dire dello
strumento del collezionista e di tutti i
soggetti economici del sistema dell’arte,
cui si aggiunge un’aggettivazione
caratterizzante: “ignorante”. Lo
strumento che ha scardinato e
traghettato il mondo dell’arte verso
nuovi orizzonti ignora il proprio oggetto.
Ora bisogna rammentare che tutti i
soggetti del sistema dell’arte – artista,
critico, gallerista, museo, collezionista e
pubblico – sono in varia misura soggetti
economici, ma è in quel “in varia
misura” che si annida la differenza
rispetto a quanto accadeva prima. Da
quando, infatti, il sistema dell’arte è
stato gestito dalla borghesia e regolato
dal capitalismo ottocentesco, il ruolo di
ciascuna parte di questo ingranaggio si
è assestato trovando un equilibrio tra le
varie componenti senza ricorrere a
troppi cambiamenti. Era un gioco delle
parti in cui il fattore intellettuale
primeggiava e l’aspetto economico – a
torto o a ragione – costituiva un
corollario necessario al sostentamento
dell’intera struttura, di cui però si
discuteva pochissimo, quasi si trattasse
di un argomento scabroso e un po’
ignobile. Sicuramente, in questo
atteggiamento non mancavano accenti
di ipocrisia, né sono mancate
compravendite ingenti, così come certi
artisti e galleristi si sono arricchiti o
hanno accumulato capitali notevoli
grazie alle opere stivate “in magazzino”
(ovvero comprate a poco, a lungo
invendute e automaticamente rivalutate
dalla fama accresciuta dell’artista o
semplicemente dall’inflazione). Eppure
l’essenza del sistema era basata sulla
produzione e la passione per l’opera
d’arte. Nessuno avrebbe pensato al
contemporaneo come status symbol,
mentre tutti i giocatori in campo erano
coscienti e felici di partecipare a una
partita culturalmente importante, ma
destinata a essere vinta da pochi di
questi giocatori.
Quando l’arte contemporanea è
diventata invece un fenomeno più
diffuso, quasi popolare, e ha assunto il
ruolo di status symbol alla pari di una
Ferrari, uno yacht, un appartamento a
Park Avenue o di un figlio che studia
economia a Londra, i ruoli e i
comportamenti all’interno del sistema
dell’arte si sono radicalmente modificati
perché essa stessa è diventata un
oggetto diverso o, meglio, è diventata
altro in quanto è stata guardata con
occhi differenti. Uno status symbol è un
oggetto del desiderio, e proprio per
questo deve essere destinato a pochi,
ma conosciuto e ambito da tutti.
Applicata al sistema dell’arte, questa
semplice equazione è risultata
devastante per il concetto di
avanguardia e rovinosa per il vecchio
equilibrio tra le sue componenti. Ora, di
fronte al modello postmoderno di
interpretazione del mondo, con tutta
probabilità l’idea di avanguardia
sarebbe stata destinata all’oblio in poco
tempo, anche senza la trasformazione
“popolare” della percezione dell’arte
contemporanea, benché di sicuro
questo elemento abbia contribuito a
una fortissima accelerazione in tal
senso. Tuttavia, il fenomeno – che oggi
si potrebbe definire virale – avrebbe
inciso di per sé nel rivolgimento dei ruoli
e delle definizioni all’interno del
sistema. La trasformazione della
percezione dell’arte contemporanea in
status symbol ha comportato l’arrivo di
molto denaro, paragonabile a
un’inondazione susseguente alla rottura
di una diga. È stata la quantità di soldi
immessa in tempi brevissimi a
modificare la qualità del sistema stesso,
quando quest’ultimo si riteneva in grado
di poterla controllare. Si è visto anche
che il denaro proveniva da nuovi ricchi,
che si affacciavano in quel momento al
mondo dell’arte attratti dalla sua nuova
condizione, mentre va ricordato che i
due fattori – nascita, crescita e
consolidamento dello status symbol e
progressiva immissione di banconote –
non sono l’uno la conseguenza
dell’altro, ma il risultato di una relazione
biunivoca consequenziale all’innesco
del fenomeno che, una volta avviato e
in presenza di condizioni sempre più
favorevoli, non si è ancora fermato e
sembra inarrestabile.
Ma qual è l’identikit di chi possiede il
denaro fresco immesso nel mondo
dell’arte a partire dagli anni ottanta?
Obiettivamente, si fatica a definire
questo soggetto come “collezionista”,
visto che non è la voglia di collezionare
a contraddistinguerlo, quanto il fatto di
possedere molto denaro; ma è l’unica
fra le categorie classiche del sistema
dell’arte in cui lo si potrebbe inserire.
La voglia di possedere è
fondamentale se è il concetto dello
status symbol a fare da guida alla
passione. Del resto chi acquista una
Ferrari non per forza è un pilota
provetto, nonostante un’auto del genere
dovrebbe stimolare a migliorare le
proprie prestazioni al volante. Queste
due affermazioni si attagliano
perfettamente ai nuovi frequentatori del
sistema dell’arte: in pochi infatti
acquisiscono le conoscenze e i modi
del collezionista, inteso nella sua
accezione tradizionale, perché è
sufficiente avere un’opera d’arte per
essere riconosciuti come membri della
tribù a cui si aspira.
Il riconoscimento è però quello che
proviene dall’esterno, non interno al
sistema dell’arte: lo scopo principale di
chi agisce mosso dall’interesse per uno
status symbol è quello di essere
riconosciuto da tutti e per questi
soggetti è assolutamente insufficiente e
in fondo inutile essere considerati solo
entro i confini del ristretto sistema
dell’arte. Un personaggio come Roman
Abramovič, oligarca russo uscito dalle
nebbie che avvolgevano il suo paese
negli anni novanta, da un lato ha
comprato il Chelsea Football Club –
una delle squadre di calcio più note al
mondo –, dall’altro ha finanziato l’allora
fidanzata Dasha Zhukova nel costruire
una collezione e promuovere mostre
con gli artisti più conosciuti del
momento, coprendo così tutti i settori
della visibilità popolare, da quello
“basso” dello sport a quello “alto”
dell’arte. Tutti hanno stigmatizzato
questa operazione, vedendo in essa
l’aspetto apertamente strumentale e il
fine evidente del conseguimento della
popolarità e del consenso generali. È
indubbio, tuttavia, che questo tipo di
interventi (tanto nella sfera dell’arte
quanto nel football) abbia modificato
pesantemente gli equilibri interni in
maniera del tutto legittima e anzi
applaudita sia dai tifosi del club
londinese, che hanno visto militare nella
propria squadra degli autentici
fuoriclasse, sia da quella parte del
mondo dell’arte che ha incrementato a
dismisura i propri introiti e moltiplicato il
valore economico degli artisti scelti. Si
potrebbe obiettare che non sono poi
molti gli oligarchi interessati all’arte e
che un’operazione del genere assume il
carattere dell’eccezionalità, e come tale
non può rivoluzionare la struttura del
sistema, ma solo portarla per un
momento sotto i riflettori del pubblico,
eppure questa obiezione è smentita da
due considerazioni. La prima è che gli
oligarchi o comunque i tycoon disposti
ad agire in questo senso sono molti di
più di quanto non si immagini, la
seconda è che – almeno all’inizio di
questa rivoluzione – coloro che ne
avevano avuto l’intuizione e colto la
portata sono intervenuti sempre
secondo le proprie possibilità
economiche. Il movimento di denaro
indirizzato verso l’arte contemporanea
non si è infatti verificato solo ad alto
livello, ma indifferentemente dal
professionista al piccolo imprenditore,
dal calciatore alla moglie
dell’industriale. Tutti, a vario titolo, sono
stati attratti dalle potenzialità che l’arte
divenuta status symbol avrebbe
riversato su di loro, e poiché tali
potenzialità sono di varia natura e
trasversali rispetto ai settori delle
relazioni umane – dalla psicologia alla
sociologia all’economia – assai diverse
erano le motivazioni per buttarvisi
dentro, per giocare con l’arte
contemporanea, il cui mondo non
chiedeva altro che un’immissione di
soldi.
A questo proposito, va ricordato che
una delle caratteristiche del sistema del
contemporaneo è la capacità di
attrazione e di seduzione attraverso un
apprendistato minimo, quasi
inesistente. Infatti, se per poter parlare
di arte antica – come di qualsiasi altro
argomento – è necessaria una profonda
conoscenza della sua storia, e spesso
ci si confronta con appassionati
acculturati, al contrario discutere e
argomentare d’arte contemporanea
risulta infinitamente più facile, frutto di
una pratica semplice che non implica
nessuno studio, e quasi nessuna
preparazione. Da quando l’attenzione si
è spostata dall’arte vera e propria alla
sua diffusione e commercializzazione, è
sufficiente conoscere i valori delle aste,
le date, i nomi dei pochi artisti più in
vista, gli exploit economici dell’anno,
per ritenersi degli esperti ed essere
considerati tali da un insieme di altri
“collezionisti” con lo stesso grado di
comprensione dell’ambiente. Il sistema
dell’arte attuale consente cioè a chi vi si
avvicina di credere che una pratica di
due-tre mesi e l’apprendimento di
poche “parole d’ordine” siano sufficienti
per muoversi con disinvoltura al suo
interno, perché le motivazioni che
spingono l’interesse per questo
“comparto simbolico-produttivo” non
sono più dettate dall’amore per i
linguaggi complessi di interpretazione
del mondo, ma dal consenso sociale
alla propria passione. Di più, il nuovo
tipo di approvazione perseguita deve
essere immediata, basata su elementi
di conoscenza diretti, semplici e
condivisi senza essere discussi, perché
la condizione di status symbol impone
la superficialità per essere popolare. La
setta dei vecchi collezionisti, al
contrario, trovava la propria relativa
forza – in tempi difficili per l’arte
contemporanea – in quella specie di
segretezza, di senso geloso di
appartenenza e di esclusività che
rendeva faticoso l’approccio, e
costituiva da subito una selezione
naturale degli aspiranti. Si potrebbe
obiettare che una delle caratteristiche di
ogni status symbol sia l’idea di
esclusività, eppure al contempo
necessita di una condivisione popolare.
Un gallerista italiano, protagonista del
grande risveglio d’interesse per la
pittura negli anni ottanta, ricordava
come in quel momento gli amici e i
collezionisti si riunissero in galleria per
parlare d’arte, mentre ormai da qualche
anno ogni discussione si risolveva nel
confrontare i parametri di crescita
economica degli artisti e i loro
coefficienti di prezzo (cioè il rapporto
che lega la dimensione di un’opera al
suo costo).
A questo punto è ovvio che il denaro
e la propensione a spenderlo in quel
settore rappresentino la caratteristica
più importante, mentre è sempre meno
richiesta una conoscenza approfondita
dell’argomento. Per la verità, qualche
sacca di resistenza c’è ancora, ma si
tratta più di una resistenza di facciata
che di sostanza, fatta di parole e di
nostalgia e sussurrata a mezza voce,
perché nessuno ormai può permettersi
di escludere dal proprio orizzonte questi
nuovi interlocutori. Per fare un esempio,
il valore economico di un lavoro di Lucio
Fontana dall’inizio alla fine degli anni
ottanta è aumentato di sessanta volte,
passando dai cinque milioni di lire ai
trecento, e anche contando l’alto tasso
di inflazione di quegli anni è comunque
un incremento che non trova eguali in
nessun altro investimento. Per arrivare
a tanto, è stato necessario che l’arte
contemporanea riuscisse ad allargare la
propria base di consenso e a rinnovare
quasi del tutto i propri collezionisti. Il
loro ricambio generazionale può
apparire un elemento quasi naturale del
rinnovamento, ma non è così.
Innanzitutto, è quasi impossibile che la
passione del collezionismo si trasmetta
di padre in figlio, mentre è infinitamente
più probabile che le seconde
generazioni, cresciute all’ombra del
collezionismo vecchio stile, rifiutino
psicologicamente di continuare a
camminare sulle orme dei predecessori,
sia per il senso di esclusione affettiva
da quel mondo sia per la nuova
seduzione economica che li vede eredi
impensati di oggetti facilmente
trasformabili in liquidità, che
tendenzialmente si possono solo
alienare non potendo acquistarne altri.
Inoltre, la passione per il collezionismo
non ricade sotto quel tipo di ricambio o
di aumento oggettivo di beni o di
servizi, come per esempio il
moltiplicarsi del numero delle farmacie
a fronte dell’incremento della
popolazione in una città o in un
quartiere: il collezionismo è
infinitamente più aleatorio, e se anche
si ricordasse che rispecchia un’attività
umana ben radicata negli individui, non
è detto che certi tipi di collezionismo nel
corso del tempo non perdano di appeal,
come è accaduto per i francobolli o per
gli orologi Swatch, o anche in ultima
istanza per l’arte antica (per non parlare
degli arredamenti d’epoca, crollati a
livelli Ikea). Il ricambio, dunque, è
avvenuto solo in misura irrilevante in
ambito generazionale, intendendo con
questo il passaggio del testimone di
padre in figlio. Al contrario, l’afflusso è
stato massiccio da parte di absolute
beginners, i “principianti assoluti”, quasi
completamente digiuni di ogni nozione
relativa ai linguaggi artistici
contemporanei ma altrettanto decisi a
impadronirsi di un settore che offriva ai
propri frequentatori un’allure sociale
impensabile e, almeno all’inizio,
economicamente abbastanza
abbordabile.
Con quest’ultima notazione si intende
anticipare che dagli anni ottanta a oggi i
prezzi degli artisti sono lievitati in
maniera considerevole, fattore che
avrebbe dovuto scoraggiare e
oggettivamente impedire l’aumento
all’infinito del numero di nuovi
collezionisti. Se l’industriale può
reggere un incremento dei costi,
probabilmente il semplice professionista
no, a fronte – tra l’altro – di
un’imposizione fiscale sempre
maggiore. Ciò che è stato accertato
dalle statistiche empiriche sugli
acquirenti di opere d’arte condotte
presso le gallerie e le aste è che ogni
nuovo collezionista entrato nel gioco ha
escogitato e continua a escogitare di
tutto per restarvi – magari cambiando i
propri obiettivi d’acquisto e
accordandoli con la propria mutata
capacità di spesa –, e che soprattutto si
è allargata a dismisura la geografia dei
nuovi collezionisti.
Infatti, sempre dalla fine degli anni
ottanta, il modello occidentale di vita si
è esteso sino a inglobare l’intero
pianeta, con la sola eccezione
ideologica della Corea del Nord. Al
seguito di questa avanzata si è diffuso
anche il sistema dell’arte occidentale,
che ha conquistato prima l’ex Unione
Sovietica – dai primissimi anni novanta
–, poi la Cina – si ricordi la famosa
esortazione del 1979 dell’allora premier
Deng Xiaoping “Arricchitevi!”– e infine i
paesi arabi, per non parlare di India e
Iran dove esisteva già un embrione di
questo sistema, dovuto nel primo caso
all’amministrazione inglese, nel
secondo all’occidentalizzazione
precedente la Rivoluzione khomeinista.
È importante sottolineare che qui si
intende proprio il sistema dell’arte
occidentale e non l’arte, che è una
categoria presente in tutte le culture e
in tutti i paesi, indipendentemente dal
loro modello sociale, politico ed
economico. Nella Corea del Nord si
parla diffusamente di arte e la si porta
per esempio alle masse popolari, ma
certamente non è neppure
lontanamente consentito di pensare a
un sistema privato e autonomo di
diffusione della stessa. L’affacciarsi
sulla scena mondiale di economie
prima congelate in meccanismi
ideologici avulsi dal concetto di status
symbol, o isolate in ingranaggi
economici tanto elementari da impedire
ogni possibile attenzione per la
complessità culturale, sta
completamente stravolgendo i modelli
troppo statici, qual è in fondo il sistema
dell’arte. Ancora oggi ci si stupisce del
fatto che in Cina ci possano essere
circa cento milioni di milionari, ma
appare immediatamente evidente che
anche se solo una minima parte fosse
interessata al contemporaneo, il
mercato ne sarebbe stravolto, se non
altro per la quantità di nuovi
collezionisti. Se poi si moltiplica questa
attitudine per tutti i paesi emergenti o
emersi negli ultimi trent’anni – e sono
tanti! – si comprende come la geografia
economica della globalizzazione possa
influire pesantemente sul mercato
dell’arte internazionale. Si potrebbe
obiettare che l’interesse per l’arte
contemporanea, così come si è
configurato in Occidente tra XIX e XX
secolo in un’ipotetica scala di scelte,
gratificazioni e riconoscimenti sociali,
sia arrivato dopo aver soddisfatto tutti
gli altri tipi di status sociale e dopo una
lunga e difficile elaborazione personale
e culturale. Perciò, se si ripetesse lo
stesso meccanismo per i nuovi ricchi
dei paesi emergenti, questi ultimi si
dovrebbero interessare all’arte solo
dopo avere conquistato gli altri obiettivi
di crescita sociale: prima una bella
casa, belle auto, uno yacht, a seguire
acquisti o attività veramente popolari
(una squadra di calcio, di basket,
beneficenza), in seguito operazioni
quali la scalata ai media (giornali,
televisioni private), forse anche politica,
e poi – finalmente – arte. Tuttavia le
cose non stanno né vanno in
quest’ordine. Certe ricchezze sono
talmente ingenti e talmente nuove che
non esistono più scalate verso il
successo fatte di passi susseguenti e
scanditi per così dire in ordine di
difficoltà e di esclusività: tutto può
essere ottenuto istantaneamente. E non
si tratta neppure di maturazione
personale, perché di fatto la passione e
la conoscenza rivestono soltanto ruoli
marginali nella conquista della ribalta
mediatica. Anzi, l’affermazione della
propria personalità sulla scena
mondiale deve coprire tutti i campi
investiti dall’interesse popolare dei
media, così come deve essere
manifesta a tutte le categorie sociali. La
copertura deve essere totale per
garantire lo status di personaggio
pubblico, di oggetto di emulazione, di
emblema di successo, in una parola di
personaggio a tutto tondo. È come se
l’uomo vitruviano, l’uomo leonardesco,
si realizzasse appieno grazie allo
scadimento dei parametri di misura
della sua intelligenza e bellezza, ridotti
semplicemente alla ricchezza. Ovvero,
per raggiungere il risultato, essendo
tutti d’accordo, basta abbassare
l’asticella del salto.
Tra la metà e la fine dell’Ottocento, in
Francia e Inghilterra – e parzialmente
negli Stati Uniti – era accaduto
qualcosa di simile a questa sfrenata
passione per l’arte, tanto che Ernest
Feydeau – padre del più famoso
Georges, scrittore anche lui e
contemporaneamente agente di borsa –
scriveva nel 1869 sulla Revue
internationale de l’art et de la curiosité
che
il favore inaudito di cui da quarant’anni
godono i quadri ha prodotto qualche
risultato deplorevole. Ha servito più gli
interessi del mestiere che quelli dell’arte.
Lentamente si è abbandonato il culto
dell’arte pura, venerata per se stessa, a
favore della tentazione di far fortuna. […]
La cosa più grave in tutto questo, non solo
per l’arte ma anche per il pubblico, è che
alle aste e nelle botteghe dei mercanti le
stesse persone, agendo in virtù di queste
false idee, impongono prezzi insensati e
sono fermamente convinte di fare dei buoni
affari.

Sembrano frasi scritte per descrivere


l’attualità. Lo scenario appare essere lo
stesso, soltanto riportato a dimensioni
nazionali o al massimo continentali: un
lungo periodo di pace, contraddistinto
da uno sviluppo tecnologico
eccezionale, aveva consentito di
investire il surplus delle grandi
ricchezze prodotte da questa
congiuntura favorevole in “categorie
merceologiche” superflue, come l’arte
contemporanea. Tuttavia, questa
condizione allora era mitigata dal senso
e dalla gerarchia borghese dei valori
culturali, che forse potevano anche
essere sovrastrutturali – come diceva
Marx – o ipocriti, ma che comunque
intendevano distinguere non tanto il
vecchio dal nuovo, ma il bello dal
brutto, il giusto dallo sbagliato. La lotta
e l’affermazione delle avanguardie
storiche forse facevano parte, in ultima
analisi, di un gioco economico, ma è
invece sicuro che l’opposizione alle
avanguardie e al loro modo di
concepire il mondo è stata durissima, e
che in quel momento le diverse
posizioni ideali assunte di fronte al
fenomeno in esame avevano suscitato
intuizioni, riflessioni, pensieri, concetti,
teorie sull’arte, sul mondo dell’arte e sul
significato dell’arte nel mondo di portata
colossale, ben oltre il concetto di
mercato quale lo conosciamo, benché
allora muovesse i primi passi. Un
marxista direbbe che tutta quella
battaglia ideale non era che la
“sovrastruttura” concettuale costruita
sulla vera struttura del reale, di natura
meramente economica: una sorta di
ipocrisia borghese atta a nobilitare quel
che di fatto non era che una prova di
forza economica, una battaglia
combattuta per adeguare proprio quella
sovrastruttura ideale alle nuove
esigenze del capitalismo del XX secolo.
Tuttavia, oggi che il marxismo ha perso
ogni possibilità di realizzazione e si è
ritirato nel campo degli studi soltanto
accademici, e la “borghesia” non è più
una classe ma una sorta di stato
d’animo per lo più nostalgico, appare
paradossale come in certi settori ristretti
le sue tesi – non le soluzioni – si
rivelino sostanzialmente giuste e
suffragate dai fatti. Nel sistema
dell’arte, i consumatori attuali vanno
anche oltre le più schematiche analisi
marxiste, equiparando acriticamente il
valore al prezzo. Il motivo non è certo lo
svelamento e la denuncia dei
meccanismi economici dell’arte, che
porterebbe sostanzialmente a una
diffidenza nei confronti delle regole del
mercato – come è accaduto di recente
nei confronti di quello azionario –,
quanto piuttosto il contrario, vale a dire
l’accettazione incondizionata di queste
semplici regole, e il trasferimento del
piacere e dello status del collezionismo
dalle regioni e ragioni della cultura al
territorio indifferenziato ma misurabile
della ricchezza.
La rivolta
dell’apprendista

Il sistema di previsione del mondo dell’arte è


basato prevalentemente su dati occidentali –
L’irruzione di nuovi soggetti cambia
sostanzialmente il sistema – Analisi del sistema
consolidato e considerazioni sul cambiamento
in atto – “Quantità” e “qualità” – Il collezionista
come elemento più sensibile al mutamento nel
sistema – Imitazione dei grandi modelli
collezionistici o ribellione alle regole? –
Acquisizione delle competenze culturali – La
semplificazione del sistema cambia la qualità
delle competenze richieste – L’apprendista
collezionista diventa maestro – Esempi di
mondializzazione
L’analisi fatta nei capitoli precedenti ha
avuto come oggetto il modello
occidentale di sistema dell’arte, in
particolare la sua componente finale, il
collezionista, i cui pensieri e
atteggiamenti nei confronti del proprio
desiderio sono stati scrutati per rilevare
sommariamente i cambiamenti che
hanno investito le nuove leve di
collezionisti e in generale la nostra
percezione di quello contemporaneo.
Tuttavia, se si dovesse trasformare
questa narrazione storico-critica
secondo un sistema grafico composto
di ascisse e di ordinate, ci si
accorgerebbe di avere soltanto una
delle coordinate, quella relativa al
tempo. L’altra coordinata, quella dello
spazio, costituisce la vera novità della
condizione attuale.
Di fatto, le mutazioni sociali e culturali
all’interno del sistema occidentale
appaiono prevedibili e addirittura
scontate se confrontate con quelle
scatenate dall’irruzione di nuovi
collezionisti provenienti da aree del
pianeta fino a pochi anni fa considerate
irraggiungibili da questo tipo di
passione. La maggiore prevedibilità del
sistema, infatti, deriva innanzitutto dal
fatto che le analisi – compresa questa –
vengono compiute in ambito
occidentale da studiosi forgiati dal
pensiero occidentale, e dal fatto che di
questo sistema e della sua evoluzione
possediamo una mole di dati storici, un
pregresso cronologico e statistico
immenso, che consente di impostare
una storiografia uniforme. Al contrario,
l’assoluta mancanza di dati e di una
storia anche recente per quanto
riguarda il collezionismo di nuova
matrice sociale e geografica mette in
serie difficoltà chiunque si voglia
cimentare in qualche previsione. Se,
per quanto riguarda lo status sociale dei
nuovi collezionisti, si può azzardare a
leggere la presenza di uno sviluppo
simile a quello avvenuto nel corso di
tutto il XX secolo, con la variante di una
fortissima accelerazione nel passaggio
dei vari stadi di consapevolezza e di
gusto, ancora non sappiamo se sia
possibile applicare la stessa ipotesi di
sviluppo a chi si è avvicinato al
collezionismo d’arte contemporanea a
partire da un côté culturale e artistico
completamente diverso da quello
occidentale.
In altre parole, durante gli ultimi
vent’anni, che coincidono all’incirca con
l’avvento del nuovo millennio, la
capacità di previsione dello sviluppo di
qualsiasi disciplina, di qualsiasi settore
si è enormemente complicata per
l’irruzione di nuovi soggetti che solo
apparentemente sono uguali a quelli già
noti, ma che di fatto pensano,
progettano, desiderano in maniera
molto differente dai modelli occidentali.
Questa condizione ha comportato
infiniti travisamenti ed equivoci, e una
sostanziale sfiducia nella possibilità di
comprendere l’entità di tali cambiamenti
di fronte a definizioni e a categorie che
sembrano sempre le stesse.
Procedendo con ordine, occorre
analizzare il mutamento in atto nel
sistema occidentale dell’arte dovuto al
nuovo collezionismo nato negli anni
ottanta del XX secolo. L’errore
d’interpretazione più macroscopico,
tuttora non percepito come tale, è che
di fronte a un sistema collaudato non si
possa far altro che adeguarsi,
soprattutto se questo sistema gode
dell’approvazione di tutte le sue
componenti. Ora, il mondo dell’arte
sviluppatosi durante tutto il xx secolo, e
in modo particolare nel periodo
postbellico che ha definitivamente
collocato in posizione egemone il
collezionismo americano, aveva trovato
un proprio equilibrio che sembrava
garantire una lunga vita al sistema. Di
fatto, come in uno stato democratico
garantito nelle sue componenti dal
controllo di altri organi istituzionali,
questo sistema fino agli anni ottanta si
è retto sul rispetto dei ruoli. L’artista
passava al vaglio del gallerista e del
critico, che garantivano collezionista e
pubblico della qualità dell’opera, mentre
il museo ne decretava la consacrazione
dopo una disamina indipendente della
durata e della validità della proposta. Il
concetto di indipendenza di ogni singola
componente del sistema va preso in
senso lato. Sono note, infatti, alcune
alleanze tra le componenti per episodi
specifici, movimenti, tendenze; è la
cosiddetta “critica militante”, quando
cioè un critico raccoglie attorno a sé un
gruppo di artisti e cerca l’appoggio di
gallerie e di musei per veicolarli il più
rapidamente e radicalmente possibile
verso il pubblico, come è accaduto per
l’Espressionismo Astratto e Clement
Greenberg, il Nouveau Réalisme e
Pierre Restany, l’Arte Concettuale e
Seth Siegelaub, l’Arte Povera e
Germano Celant, la Transavanguardia
e Achille Bonito Oliva, senza
dimenticare i precedenti di Marinetti e il
Futurismo, o di Breton e il Surrealismo.
Tuttavia, anche in questi esempi, il
successo dell’operazione è dipeso dal
fatto che alla base c’era una ricerca
straordinariamente innovativa rispetto al
recente passato, sostenuta dalla
capacità critica di contestualizzare il
lavoro in senso culturalmente più
ampio, e unita a una volontà ferrea e
alla presunzione di “essere nel giusto” e
di “essere avanti” rispetto al resto dei
linguaggi vigenti: è il sistema
dell’avanguardia, che necessita di
crearsi dei nemici, di dividere il campo
di gioco in futuro e passato, e di
mostrare che il futuro è la squadra in
cui si sta giocando. Questo implica, tra
l’altro, un’unità d’intenti tra le
componenti del sistema e il rispetto
assoluto dei ruoli e delle gerarchie: su
tutto, poi, la consapevolezza del
primato della ricerca, che va di pari
passo con la considerazione massima
per la conoscenza, per quanto eclettica
e utopica questa possa essere. Dai
tempi delle avanguardie storiche, agli
inizi del XX secolo, alla fine della
modernità, attorno agli anni settanta-
ottanta dello stesso secolo, si è
assistito a un ininterrotto cammino per
l’affermazione di certi valori basati
sull’equilibrio tra novità e controllo, tra
invenzione e durata, tra negazione e
affermazione. All’interno del sistema la
parola chiave – non ci si stancherà mai
di ripeterlo – era proprio “equilibrio”, per
quanto strano possa apparire. Infatti, se
l’avanguardia nasceva per scardinare i
codici linguistici consolidati, aveva
bisogno di trovarne immediatamente
degli altri, sostitutivi dei primi, fino a
creare quel meccanismo ben oliato e
giunto al suo apice tra gli anni sessanta
e i settanta. Così la rottura dei codici
diventava una costante irrinunciabile
del sistema, il quale aveva costruito e
previsto le sue componenti in modo tale
da assorbire tranquillamente gli
apparenti scossoni, che di fatto ne
costituivano l’ossatura. Era una specie
di continua metamorfosi governata, una
sorta di rivoluzione permanente del
linguaggio: per fare un esempio, non
era come la bomba atomica, ma come
l’energia nucleare controllata,
inossidabile rispetto al cambiamento,
fulcro e motore dell’intero modello
sistematico. Che cosa è intervenuto,
dunque, perché questo sistema così
perfettamente funzionante collassasse
in così poco tempo?
Si è già visto come la “quantità” abbia
potuto mutare anche la “qualità”
dell’ingranaggio. Qui si aggiungono
alcuni corollari che cercano di entrare
anche in un territorio psicologico, oltre
che economico, considerato che il
sistema dell’arte è comunque tra i più
individualistici e soggetto a umori ed
emozioni, pur obbedendo in generale a
leggi economiche. Il bilanciamento tra i
ruoli attribuiti nel corso del tempo agli
elementi costitutivi del sistema dell’arte
assomiglia a quello degli organi
parlamentari, una similitudine valida
anche quando dall’aspetto virtuoso si
passa alla parziale degenerazione,
dovuta sostanzialmente all’ingerenza e
alla sovrapposizione degli organi di
controllo su quelli legislativi, e al
contemporaneo venir meno del rispetto
per le istituzioni e il progressivo
confidare nelle virtù del singolo
individuo, del deus ex machina. Nel
sistema parlamentare, per esempio, la
cosiddetta antipolitica (che non è più
soltanto una caratteristica italiana, ma
europea e anche americana) ha
indebolito enormemente le istituzioni
elettive, consegnando così molti degli
aspetti decisionali agli organismi che
prima erano deputati al controllo (come
la magistratura) e che ora si
sostituiscono a quelli elettivi cambiando
ruolo: pur mantenendo quasi tutte le
prerogative iniziali aumenta a dismisura
la propria influenza, sino a modificare le
regole del gioco democratico.
Fortunatamente, il sistema dell’arte non
incide in questo modo sulla vita delle
persone che ne sono estranee, ma
all’interno del suo sviluppo si riconosce
più di un’analogia con il deterioramento
della struttura della modernità, di cui
quello parlamentare sembra essere uno
degli esempi più macroscopici e
inquietanti. Anche nel mondo dell’arte,
per esempio, la percezione e il rispetto
dei valori ha subìto un cambio radicale,
tanto che l’equilibrio raggiunto verso gli
anni sessanta è stato irrimediabilmente
sconvolto dall’ascesa delle componenti
economiche, a scapito di quelle culturali
e intellettuali. Il colpo di grazia è stato
inferto proprio dall’immissione repentina
e massiccia di denaro all’interno del
sistema, che ha fatto sì che gli
organismi “di controllo” – prima di tutti la
critica, seguita dal potere del museo –
venissero sostanzialmente scalzati e
ridotti all’angolo, pur mantenendo
formalmente il prestigio derivato dal
lungo cammino durante il XX secolo.
Dopo la fine dell’avanguardia – con il
canto del cigno della Transavanguardia
nella prima metà degli anni ottanta – il
potere della cosiddetta critica militante
è andato scemando visibilmente e si è
affermata la nuova figura del curatore
che convive con il potere economico del
mondo dell’arte, ma vi si è anche
subordinato. Persino l’importanza
effettiva del museo è andata
indebolendosi, a causa dell’aumento
vertiginoso dei costi di ogni mostra
indipendente, della gestione delle
spese correnti, delle esigenze sempre
più pressanti di “fare audience” presso
un pubblico sempre meno acculturato e
sempre più numeroso. Al contrario,
come si diceva sopra, tutti le
componenti che hanno un’implicazione
economica hanno aumentato il loro
peso sino a mutare radicalmente gli
equilibri e il bilanciamento tra gallerie,
aste, fiere e il resto del sistema. E chi è
risultato completamente fuori controllo
rispetto a questo scenario è stato
proprio il nuovo collezionista.
Di tutti gli attori del mondo dell’arte è
proprio lui a essere cambiato
radicalmente, mentre il “pubblico”
costituisce un forte trait d’union con il
passato. Coloro che fruiscono dell’arte
moderna e contemporanea sono
aumentati in maniera esponenziale
rispetto anche solo agli anni settanta,
ma il loro atteggiamento non è mutato
come quello del collezionista, che di
fatto non sempre viene da quello stesso
bacino di utenza, come si potrebbe
credere. Il pubblico che non può
permettersi di comprare trova nella
conoscenza, nella frequentazione,
nell’assiduità la propria emancipazione,
il senso di appartenenza al mondo
glamour dell’arte contemporanea che si
presume dorato, e nel tentativo di “farsi
una cultura” non si discosta molto da
tutti gli altri pubblici che lo hanno
preceduto, i quali magari possedevano
soltanto una maggior formazione
ideologica. In altre parole, la volontà di
capire, seppure quantitativamente
aumentata, non provoca sconquassi, se
non come “brodo di coltura” in cui
cresce e prospera il senso dell’arte
contemporanea come segno di
riconoscimento. L’aumento del pubblico
generico, non pagante (o pagante
soltanto il biglietto delle grandi mostre
pubbliche) è uno degli elementi che
hanno trasformato l’arte da passione a
simbolo di affermazione sociale. A
riprova di quanto sia distante il pubblico
dal collezionista, basterà ricordare che,
mentre il primo tende a conoscere tutto,
a frequentare il più possibile gli
ambienti artistici e le mostre più varie, il
secondo si dirige rapidamente verso
ambienti ristrettissimi, poche gallerie di
fiducia, mostre selezionatissime,
appuntamenti con aste e fiere
prestigiose, nell’ansia di conquistarsi
un’esclusività che il pubblico generico in
fondo non cerca, sopperendo invece,
con la quantità delle proprie
frequentazioni, all’impossibilità di
appartenere alla cerchia privilegiata dei
compratori. Se il successo nel mondo
dell’arte si misurasse sull’audience, sul
numero, la fiera più importante
risulterebbe ARCO di Madrid, perché
raduna più di centomila visitatori ogni
anno, tant’è che durante le ultime
edizioni gli organizzatori hanno fatto di
tutto per scoraggiare questo afflusso
inutile, rincarando il prezzo del biglietto
e diminuendo drasticamente gli ingressi
a invito. Tornando al pubblico, qualcuno
potrebbe obiettare che prima degli anni
ottanta aveva un comportamento per
così dire esclusivo, come quello degli
attuali collezionisti di medio-alto livello,
frequentando soltanto poche gallerie di
tendenza e rigettando un generalismo
che riteneva senza scopo e dannoso.
La differenza è però sostanziale,
perché allora quell’atteggiamento era
dettato da motivi assolutamente
ideologici mentre ora si tratta di
marketing pubblicitario. Da un lato
dunque c’era il desiderio di sentirsi
parte di una neoavanguardia, compatta
nelle sue componenti diversificate –
artista, critico, galleria, pubblico per
così dire “militante” –, dall’altro si
assiste all’attuazione di una strategia
pubblicitaria basata su se stessi, con
comportamenti praticamente identici
per ogni ambito di visibilità pubblica
elitaria.
Affrontando invece la metamorfosi
del collezionista, la questione sul
tappeto riguarda le cause della
mancata imitazione dei grandi esempi
di collezionismo della modernità, che
era ancora attivo e apparentemente
riverito se non addirittura mitizzato nei
decenni in cui tutto cambiava. Il
collezionismo dei pochi aveva
conquistato sul campo i propri meriti, ed
era uscito vincitore dal confronto con il
pensiero tradizionale sull’arte, ma quasi
nessuno dei nuovi ha provato a
seguirne le orme, con qualche
eccezione, tra cui potremmo inserire i
primi anni d’attività di Charles Saatchi.
Ma quali sono le differenze, e perché si
sono manifestate in così breve tempo?
Quella più marcata è senz’altro
culturale. I primi collezionisti
conoscevano tutto, parlavano degli
artisti e dei movimenti come chi ne
aveva fatto parte, da posizioni diverse,
ma sempre con quel trasporto e quella
condivisione dell’attore, del soggetto
agente, in fondo dell’idealista che
comunque metteva alla prova la propria
intelligenza e la propria preparazione. I
cosiddetti nuovi collezionisti conoscono
il sistema e i suoi meccanismi molto più
delle motivazioni e delle tendenze
artistiche, sono infinitamente più globali
ma anche superficiali, e in realtà
ostentano un profondo disinteresse per
le ragioni ultime del fare arte, mentre
sono attentissimi al significato “social”.
Eppure, la tradizione del collezionismo
militante possedeva un’aura eroica che
tutti le riconoscono ancora ma che non
seguono, forse perché la ritengono da
un lato inarrivabile, dall’altro irripetibile.
Questa duplice impossibilità deriva
ovviamente da mutati presupposti
storici, e se anche l’ammirazione per i
pionieri del collezionismo d’arte
contemporanea assomiglia
all’ammirazione provata per gli antichi
durante l’Umanesimo (da cui la querelle
des anciens et des modernes), la nuova
condizione postmoderna della società
non consente più una vera e propria
imitazione. L’affermazione definitiva
delle posizioni e degli atteggiamenti
d’avanguardia, e la conseguente
sparizione di ogni forma di opposizione
non richiedono più alcun tipo di
schieramento ideologico, rendendo
appunto irripetibile il momento della
lotta per l’affermazione di certi valori e il
comportamento bellicoso e aggressivo
della militanza culturale. Non è più
richiesta nessuna lunga marcia per la
conquista del potere.
Oggi tutti cercano scorciatoie per il
successo, per il benessere, per
l’illuminazione spirituale, per cui la
resistenza, la convinzione fino alla
caparbietà sono piuttosto ostacoli che
condizioni essenziali al raggiungimento
dello scopo che ci si è prefisso. Inoltre
sembra che non sia assolutamente
necessario essere tenaci né
lungimiranti, perché è già a
disposizione il “tutto e subito” che
garantisce visibilità e successo. Non c’è
più nulla contro cui combattere, ogni
aspetto è stato risolto – per l’arte – in
un modello unico cui è semplice
uniformarsi. La scorciatoia è, ovunque,
il denaro. Così come si compra una
laurea o si entra a Stanford se si riesce
a pagare una retta astronomica, il lungo
percorso di maturazione accanto agli
artisti che forse un giorno si
affermeranno non è più necessario, e
probabilmente non è più neppure
possibile. La società contemporanea
esige velocità, non durata, e ripaga
altrettanto velocemente chi obbedisce a
queste nuove regole, salvo mantenere
nei confronti del vecchio atteggiamento
collezionistico quella finta reverenza
che si deve a qualche profeta di cui non
interessano più le parole, esattamente
come accade nelle università
americane dove si tengono corsi di
veteromarxismo con docenti
veteromarxisti, quasi fossero entrambi
oggetto di studio archeologico.
Dunque, il mutamento in direzione
del successo veloce trova davvero nel
denaro lo strumento più adatto, e non si
tratta di una considerazione moralistica,
ma di una constatazione. È
infinitamente più veloce guadagnare del
denaro – o possederlo già – che
costruirsi una solida formazione e
crearsi convinzioni ferme su un
linguaggio complesso come quello
dell’arte, a maggior ragione se il proprio
campo d’azione per diventare ricchi è
un altro. Cioè, se l’arte è diventata un
hobby costosissimo, ripagato con la
visibilità che solo altri status symbol
avrebbero dato un tempo, è ormai
difficilissimo per qualunque collezionista
– anche per il francese François
Pinault, che ne ha fatto quasi un brand
personale e che investe capitali ingenti
– dedicarvisi a tempo pieno, anche se
apparentemente l’attenzione per l’arte
contemporanea sembra essere – ed è il
gioco del marketing – l’unica
occupazione di tanti tycoon.
Certo, come accadeva in passato le
competenze si possono comprare. Nel
Rinascimento italiano, per esempio, la
figura del “cortegiano” costituiva il
supporto intellettuale per la costruzione
di grandi strutture allegoriche e
simboliche, con la conseguenza che su
questi sistemi si conformava la
produzione artistica del tempo; si
veniva così a stabilire un gioco di
concorrenza culturale la cui ricompensa
era il primato non solo linguistico e
artistico, ma anche politico sullo
scenario del mondo. Oggi, al contrario,
la competenza al servizio di chi non ce
l’ha non consiste nella capacità di
differenziarsi, ma nella perfetta
uniformità al modello vincente. Ciò
accade con i privati, ma anche con le
fondazioni, tanto che a un livello più alto
le due forme di collezionismo quasi si
confondono. Il singolo che intende
essere riconosciuto come “iscritto al
club” non può discostarsi troppo dai
dettami di quest’ultimo e dalle sue
scelte, mentre le fondazioni che spesso
per statuto devono investire in arte non
possono permettersi di sbagliare e
scelgono valori sicuri, cioè già dati,
accentuando in tal modo il conformismo
culturale in cui è avvolta l’arte
contemporanea, anche quando dichiara
(conformisticamente) intenzioni assai
bellicose contro il sistema, come nel
caso dell’edizione numero quattordici di
documenta (2017), divisa tra Kassel e
Atene. In questo caso si era cercato di
stabilire una sorta di risarcimento
culturale nei confronti della Grecia,
umiliata nel corso delle trattative
economiche di tre anni prima, e ora
“ripagata” dagli intellettuali e dai
curatori, pronti a dichiarare la loro
estraneità alla spietatezza
dell’egemonia economica e la loro
solidarietà costante nei confronti della
parte perdente, degli “ultimi”, attraverso
la scelta di un tema come “Learning
from Athens”, che suona assolutamente
ipocrita.
Queste ultime riflessioni sul
conformismo e sull’uniformità
potrebbero sembrare estranee
all’argomento del capitolo, dedicato alla
“rivolta” contro il vecchio collezionismo:
bisogna però andare oltre la superficie
per comprendere come anche queste
omologazioni appartengano allo stesso
trend di cambiamento, fin dalla
rivoluzione provocata dall’ingresso
massiccio di capitali nell’arte
contemporanea. È vero, per esempio,
che le competenze si possono
comperare, altrimenti non si
comprenderebbe il fiorire di tante
professioni, dall’art advisor all’art
consultant, dagli esperti delle case
d’asta – sempre più specializzati in
determinati aspetti disciplinari – al
curatore di singole collezioni, agli uffici
delle banche interamente dedicati alle
consulenze artistiche per clienti di
riguardo; ciononostante, il rapporto non
è più paritario. Nel Far West la pistola
Colt a ripetizione, in uso a partire dalla
seconda metà del XIX secolo, fu
chiamata The Equalizer, “la livellatrice”,
perché consentiva di avere la meglio su
chiunque altro, a patto di essere più
veloce, e non più forte, abile, esperto o
dotato di maggiori esperienze di vita e
di conoscenza dei luoghi: era
importante solo l’esercizio di quella
velocità livellatrice. Ecco, in una società
come la nostra, dove le competenze
sono aleatorie perché il denaro ha
livellato ogni differenza, si ha la
presunzione che le conoscenze siano
alla portata di chiunque, anche di chi vi
dedica del tempo trascurabile. Così, un
nouveau riche è assolutamente
convinto di poterle fare proprie, e solo
la ricerca di obiettivi migliori e più
remunerativi lo hanno distolto fino a
questo momento. Di più, il plauso
acritico nei confronti di chi ha raggiunto
il successo economico è tale che
questa convinzione sembra
comunemente accettata, soprattutto
perché ha come oggetto qualcosa che
chiunque crede di governare: la
capacità di distinguere il bello e il
nuovo, che oggi sono tornati a essere i
luoghi comuni per l’identificazione
dell’arte, e addirittura per la sua
definizione! Con queste convinzioni di
base, l’intellettuale che viene assoldato
per costruire una raccolta, o anche
semplicemente per consigliare questo o
quell’acquisto, non verrà mai
considerato all’altezza del committente,
così come non verrà mai ritenuto –
come nel Rinascimento – una
componente essenziale del sistema di
identificazione e di regolamentazione
del mondo, ma molto più
semplicemente un dipendente ben
remunerato e intercambiabile con un
altro perché l’ultima parola spetta
sempre al vertice della piramide. Si
potrebbe obiettare che sono stati il
principe rinascimentale o i vari pontefici
che commissionavano opere d’arte a
dire sempre l’ultima parola e non i loro
“cortegiani”, per quanto stimati. Eppure
rimane una considerazione opinabile
perché l’investimento culturale aveva
sfumature molto differenti dalle attuali. Il
rispetto dimostrato nei confronti dei
propri consiglieri un tempo è stato tale
per cui alcuni sono passati alla storia
forse più dei loro protettori, mentre oggi
quelle competenze non sono assolute
ma valide in quanto “appartengono a”,
“sono state sfruttate da” e sono
divenute “proprietà di”. Non solo non ci
si ricorda mai di chi ha organizzato o
costruito una collezione importante
negli ultimi vent’anni, ma la forza del
denaro ha talmente pervaso tutti i
settori della società che ci si ricorda
perfettamente di Steve Jobs o di Bill
Gates, ma nessuno conosce il nome
dell’inventore del microchip (per la
cronaca, il vicentino Federico Faggin,
classe 1941).
Questo atteggiamento deriva anche
dalla semplificazione estrema che il
sistema, scientemente e per necessità,
ha operato nei confronti della storia
dell’arte contemporanea in virtù delle
nuove regole non scritte, dettate dal
primato economico. Se il numero e il
novero degli artisti è in costante
aumento, la fama o anche solo il
riconoscimento sembra inversamente
proporzionale al loro numero: più sono
gli artisti e meno sono coloro che
raggiungono uno status riconosciuto
che, oggi, significa status economico.
Come è accaduto per le cosiddette
archistar (non più di una decina, che
sembrano costruire tutto in tutto il
mondo), il fenomeno della
radicalizzazione si è esteso anche agli
artisti. Quelle che vengono definite
grandi collezioni non sono distanti dai
composti chimici – una percentuale di
questo, un pizzico di quell’altro – con
pochi ingredienti tutti uguali, tanto che il
mondo della produzione artistica, così
come è considerato per esempio dalle
maggiori case d’asta, si aggira attorno a
cento nomi, quando gli artisti certificati
sono decine e decine di migliaia.
Ebbene, di questo bacino vastissimo, le
eccellenze economiche sono
pochissime, e non è possibile pensare
che sia la loro qualità – così
sideralmente lontana dagli altri – a
renderli tanto noti e costosi.
È, al contrario, il solito modo di
rendere elitario e prezioso un prodotto
che si dichiara intenzionalmente
“popolare”, potenzialmente destinato a
tutti e creato per tutti. Se coralmente
deve essere ammirato, pochi lo devono
possedere, nonostante siano
numericamente di più rispetto ai
decenni precedenti, grazie al mercato
globalizzato dei desideri e del lusso.
Questo andamento ha dunque prodotto
una frattura insanabile tra grandi e
piccoli collezionisti sulla base del
capitale investito. Se da un lato il
pacchetto di artisti da ammirare è lo
stesso, confezionato secondo regole
precise di affidabilità, presenza, cultura
di provenienza, contesto, moda, solo un
ristretto gruppo può veicolare il gusto e
dimostrare – attraverso l’acquisizione
del bene – di possederne anche le leve.
Questa convinzione contrasta con la
realtà, perché anche coloro che stanno
ai vertici della piramide – con le debite
eccezioni – sono sottomessi all’insieme
di circostanze che hanno determinato la
scelta di questi o di quegli artisti in
quanto facenti parte del gotha dell’arte.
Ed è qui che inizia la “rivolta
dell’apprendista”. Di fronte a certe
premesse, che sono state indicate in
modo analitico e di seguito ricapitolate
sinteticamente, la rottura del modello di
riferimento occidentale (o storicamente
accettato sinora) è vicina, perché tutte
le condizioni economiche, storiche e
psicologiche conducono al medesimo
risultato. Se il collezionismo non è più
esclusivamente appannaggio
dell’Occidente; se le competenze
culturali sono passate in secondo piano
e non sono ritenute necessarie; se ciò
che conta è la potenza economica e le
motivazioni sono dettate più dal
desiderio di apparire che da quello di
conoscere; se collezionare è diventato
parte di un più vasto discorso “politico”
volto all’affermazione in campo
internazionale di culture nuove e
giovanilmente “aggressive”; se il
collezionista si sente – e gli si fa
credere – di essere il vero protagonista
del mondo dell’arte, allora è quasi
automatico che venga colpito da una
sorta di delirio di onnipotenza e si
ritenga autosufficiente nelle scelte e
nella capacità di imporle a suon di
record di vendite e di acquisti.
Come nella disneyana
rappresentazione del poema sinfonico
di Paul Dukas – L’apprendista stregone
–, Mickey Mouse, dopo aver acquisito i
primi rudimenti dell’arte magica del
maestro, innesca un processo che non
riesce più a controllare, così la
tentazione del nuovo collezionista di
saltare subito alle conclusioni, evitando
tutto il lungo periodo di apprendistato
ritenuto superfluo, è fortissima, e
soprattutto appare incoraggiata dalla
distruzione operata nei confronti di quei
muri di contenimento culturali che
delimitavano il campo d’azione e
dettavano le regole. Ora queste
direttive sono ridotte a pochissimi
postulati di un nuovo linguaggio della
comunicazione, che stabilisce
equivalenze tra denaro e successo – e
fin qui potrebbe funzionare – ma anche
tra denaro e intelligenza e competenza
in tutti i campi: Silvio Berlusconi prima e
oggi Donald Trump, imprenditori di
successo, hanno basato la loro
richiesta di voto agli elettori proprio
sull’equivalenza tra capacità
imprenditoriale e conseguente capacità
di governo. Il successo in un campo
significa successo in tutti i campi, e
quindi abilità nel discernimento e nella
previsione; se applicato all’arte
contemporanea, ciò indica non solo che
chi è in grado di comprare è in grado di
scegliere (ovvio), ma che quelle scelte
sono certamente le migliori, perché chi
ha avuto successo in un determinato
settore “deve” essere riconosciuto
come leader anche negli altri ambiti
disciplinari. In sintesi, il nuovo
collezionista, esaltato dai media e dal
sistema dello status symbol, si
autoconvince del proprio gusto e si
ritiene in grado di dettarlo sulla base di
impressioni personali, di vicende
relative al proprio vissuto, di
suggerimenti estemporanei, della
propria potenza.
Questo processo di sostituzione non
avviene naturalmente in un giorno, ma
si può riassumere in due atteggiamenti
principali: la fuga in avanti del nuovo
collezionista e la scelta personale (e
talvolta singolarmente arbitraria). Del
primo, il sintomo più caratteristico è la
predilezione quasi esclusiva per tutte le
tendenze più difficili o più sperimentali;
del secondo, il tratto distintivo è il lancio
in grande stile di artisti poco conosciuti
se non nell’ambito familiare,
contestuale o nazionale del
collezionista. Il primo atteggiamento si
riscontra soprattutto nei luoghi e nelle
culture di antica tradizione storica,
spesso toccati dall’idea di avanguardia,
come potrebbe essere l’Occidente non
anglosassone, e ha a che fare con
quanto ricordato ripetutamente sulla
presunta inutilità di un sapere storico
sull’arte. Il sillogismo è semplice: se
l’arte contemporanea d’avanguardia è il
costante superamento delle tendenze
sorte appena prima, basterà conoscere
e apprezzarne l’ultima per dimostrare di
conoscere e di “aver digerito” anche
tutte le altre. Di fatto, in questo
ragionamento entrano in campo diversi
fattori del comune pensiero sulla realtà
d’oggi e sull’arte contemporanea che,
mixati insieme, forniscono un risultato,
se non proprio falso, almeno zeppo di
falle concettuali. Per esempio, si pensa
all’arte come a un oggetto tecnologico,
di cui l’ultima versione è sicuramente
migliore della precedente (negli anni
ottanta si parlava di “darwinismo
linguistico” proprio per indicare questo
falso concetto di un’arte che si evolve
continuamente, in una sorta di
progresso verso forme migliori); si
segue l’idea ormai obsoleta della fine
della storia così come era stata
teorizzata agli inizi degli anni novanta;
ci si conforma ai dettami dell’ultima
moda artistica, trasformandoli in scelte
personali di cui si deve ammirare il
coraggio. Tutto questo per giustificare –
e autogiustificare – la propria mancanza
di cultura storica e la ricerca di una
comoda scorciatoia per ottenere il
plauso generale, visto che ormai lo
scandalo dell’avanguardia degli inizi del
XX secolo non esiste più.
Ma gli esempi più eclatanti della
rivolta dell’apprendista si hanno nel
secondo caso, quando il gusto o il
piacere, oppure il desiderio di un
singolo o di un piccolo gruppo, nelle cui
mani si trova una disponibilità
economica ampia e non soggetta a
controlli, vengono esercitati per
affermare la propria presenza e la
propria futura autorevolezza nel
collezionismo internazionale,
investendo lavoro e capitale nel
successo di artisti altrimenti destinati a
rimanere in ambito locale. Si tratta di
esempi solitamente estranei o marginali
all’area occidentale, ma la
globalizzazione in atto e i capitali
impiegati impediscono di considerarli
alla stessa stregua di fenomeni
folkloristici. Un esempio lampante viene
dall’Azerbaigian, dove la famiglia
presidenziale Aliyev controlla in
maniera quasi assoluta la florida
produzione petrolifera e alcuni
rappresentanti politici sono
appassionatamente coinvolti
nell’affermazione dei valori artistici della
nazione. Sono ormai molte edizioni che
alla Biennale di Venezia il padiglione
azero e la sua pubblicità sono quasi
faraonici, mentre contemporaneamente
molte fonderie di Pietrasanta – luogo
rinomato nel mondo per la realizzazione
di sculture in marmo e in bronzo –
lavorano unicamente per artisti di quel
paese, che sembrano disporre di fondi
illimitati. La stessa azione di presenza,
magari sotto forme diverse, viene
esercitata su altre piazze dell’arte
contemporanea, come Parigi, o in tutte
le manifestazioni simili alla Biennale,
dove l’organizzazione e la sponsorship
sono ormai fondamentali al
funzionamento del grande “circo”. Ora,
il fenomeno azero può essere
considerato snobisticamente come un
tentativo persino maldestro di entrare
nel club, ma nessuno nel mondo
dell’arte si sogna di sottovalutare la
potenza economica che vi sta dietro, e
fare buon viso a cattivo gioco è
diventata la norma in casi come questo,
dove si presume ci sia molto da
guadagnare nel breve periodo, mentre
nel lungo, come sosteneva l’economista
John Maynard Keynes, saremo tutti
morti.
Il paradigma azero è solo uno degli
esempi di fondazioni, famiglie, magnati,
politici, che entrano nel mondo dell’arte
in maniera eclatante, ed è fortemente
visibile grazie alla strategia messa in
atto per essere un ponte ideale tra
paesi emergenti ed establishment
occidentale, ma il fermento in tal senso
è palpabile. Se si riesce a percepire
visivamente e plasticamente alcuni di
questi fenomeni solo quando si
rivolgono al mondo intero, al di fuori
della loro zona d’influenza regionale,
non bisogna dimenticare che quasi tutto
l’emisfero non occidentale sta cercando
di elaborare e consolidare la propria
presenza culturale artistica almeno a
livello nazionale, o continentale. Se
India e Turchia stanno subendo un
rallentamento evidente, Emirati Arabi
Uniti e soprattutto Cina continuano ad
agire per costruire un proprio sistema
dell’arte in grado di competere
internazionalmente. E lo stanno
facendo secondo le loro idee, le loro
strutture economiche e i loro desideri,
che solo formalmente assomigliano a
quelli consueti, stabilizzati nel corso del
XX secolo, ma che di fatto non solo
hanno sostituito il senso di un’élite
culturale con quello di una economica,
ma non tengono in nessun conto –
perché nelle loro culture non esiste – di
quel tessuto connettivo che sinora è
stato costituito dal consenso del più
vasto pubblico di appassionati, vale a
dire di quella classe media all’interno
della quale si trovavano gli spiriti più
liberi e indipendenti disposti a
combattere per le idee, non avendo
interessi diretti da difendere. È questo
gruppo che ha sofferto maggiormente
della nuova situazione.
Polarità pericolose

Una storia sociale dell’arte oggi? – Complessità


vs semplificazione – O troppo ricchi o troppo
poveri: fine della mediazione borghese -
Declino del collezionismo diffuso – La
frustrazione del collezionista borghese –
Contromisure possibili: condividere o subire le
nuove regole – Lo scenario extraoccidentale –
La polarizzazione accettata – Un sistema più
semplice

Quel che accade oggi nel sistema


dell’arte riflette quanto sta avvenendo
nella società in generale. Quando negli
anni settanta del xx secolo si
commentava la Storia sociale dell’arte
di Arnold Hauser (pubblicata in tedesco
nel 1951), che metteva in stretta
relazione fenomeni sociali e produzione
artistica, i critici più sottili ne
stigmatizzavano l’eccessivo
meccanicismo per cui a un tipo di
società sarebbe corrisposto un
determinato stile. Per suffragare questa
posizione facevano appello alla
complessità e alla diversificazione delle
strutture – anzi, delle sovrastrutture –
della società, dimostrando come non
fosse né automatico né possibile
identificare quale tipo di produzione
artistica si sarebbe realizzata e
attagliata alle diverse organizzazioni
sociali (oligarchia, aristocrazia,
dittatura, democrazia). Quelle critiche
molto sofisticate e documentate si
ergevano a difendere una parziale
autonomia dell’arte e della produzione
artistica, anche in virtù delle infinite
variabili che intervenivano a guidare il
gusto, le attitudini, le propensioni, le
attività individuali delle varie
componenti sociali. La complessità
sociale, in una frase, impediva ogni
schematismo interpretativo, e nello
stesso periodo potevano convivere
tranquillamente gli affreschi di Annibale
Carracci e le tele di Caravaggio.
Eppure, a riconsiderare adesso quel
tentativo di sistematizzazione della
realtà sociale e politica, si potrebbe
quasi dire che se non funzionava per la
storia dell’arte occidentale nel corso del
suo sviluppo diacronico, forse potrebbe
servire per capire le società odierne in
balia della globalizzazione. D’altronde,
ci siamo ritrovati a utilizzare in queste
pagine molte intuizioni marxiane che in
ambito di storia occidentale risultavano
obsolete, ma che in un contesto di
storia globale riacquistano una loro
validità. Il motivo per cui ciò è possibile
risiede in quella progressiva
semplificazione che sta interessando la
società globale, a dispetto di tutte le
previsioni di segno contrario e gli appelli
a preservare e a considerare ogni
differenza culturale come ricchezza del
pianeta. Da un lato, dunque, c’è la
teoria della complessità applicata ai
sistemi sociali (così come sosteneva
Edgar Morin nell’Introduzione al
pensiero complesso del 1990, o ancor
più nella Complexité humaine del
1994), in cui tutto è correlato, e che
risulta estremamente convincente nelle
sue analisi e anche nelle sue intuizioni,
dall’altro si scopre giorno dopo giorno –
sulla rete o leggendo i tweet dell’ultimo
presidente in carica – che politica e
sistemi sociali mondiali cercano
costantemente le soluzioni più semplici
possibili, delle scorciatoie operative
basate sul luogo comune e
sull’emozione immediata, che siano
spiegabili entro i duecentottanta
caratteri di un “cinguettio”. Dalla Prima
guerra del Golfo del 1991 a oggi, a
fronte dell’irruzione sulla scena di
culture e civiltà lontane da quella
occidentale, la risposta sociale e
politica sembra essere stata improntata
alla prova di forza sempre più
elementare, e la fine di questo processo
ancora non si vede. Si potrebbe
obiettare che un simile atteggiamento
operativo scaturisce proprio dal fatto
che ci si trova davanti a situazioni
completamente nuove e che la risposta
iniziale è necessariamente elementare,
prima di riuscire a elaborare pensieri
articolati sulla nuova situazione
infinitamente più complessa della
precedente. Tuttavia, sono quasi
trent’anni che il mondo sta vivendo
questi nuovi assetti, e le risposte non si
sono evolute nel senso dell’ampiezza
dell’intervento, ma semmai in senso
contrario.
Sembra che stia accadendo lo stesso
ai singoli elementi del sistema dell’arte
e alle loro relazioni. Come ogni piccola
banca oggi per sopravvivere non può
che consorziarsi con altre o essere
assorbita da istituti più grandi, pena la
riduzione del suo raggio d’azione a un
mero livello locale, allo stesso modo il
sistema dell’arte – che ha perduto il suo
precedente equilibrio e si è quasi
identificato con il mercato – non può
che affrontare la competizione
internazionale ricorrendo a numeri
sempre più alti, economie sempre più
dotate, scelte sempre meno coraggiose
ma consolidate.
A questo punto occorre considerare
da vicino alcuni aspetti macroscopici
che riguardano la categoria dei
collezionisti, non ancora analizzati ma
solo suggeriti.
Quel vasto bacino di protagonisti del
collezionismo, così come si era andato
costituendo nel corso del XX secolo a
mano a mano che l’arte contemporanea
sconfiggeva i pregiudizi sulla sua
comprensibilità, durata e marginalità,
non esiste più. Naturalmente, bisogna
intendersi bene sul fatto che ciò sia
accaduto e come, perché si potrebbe
ricordare, per esempio, che proprio
l’interesse glamorous per il
contemporaneo ha moltiplicato gli
appassionati e di conseguenza i
collezionisti, così come la moda
dell’arte nei paesi emergenti ha creato
addirittura nuovi mercati e quindi un
potenziale altissimo di nuovi
collezionisti. Di fatto, il loro numero è
aumentato in maniera esponenziale,
come dimostrano il moltiplicarsi di
piccole case d’asta e il fatturato globale
delle vendite. Ciò che invece risulta
sminuito è il modo in cui ci si sente
partecipi delle scelte e del gusto. Se
poco sopra si è parlato di “bacino di
protagonisti del collezionismo” e non di
“numero di collezionisti” è per rimarcare
la differenza tra l’essere da un lato
protagonisti di un’avventura e dall’altro
semplici “abitanti” della città dell’arte. In
altre parole, se si considera il sistema
dell’arte secondo le regole basate
unicamente sul profitto, si dovrebbe
affermare che quello odierno è il
periodo più felice per la diffusione del
contemporaneo; ma se invece si
dovesse dar retta al comune sentire
degli artisti e di quasi tutti i componenti
del sistema, bisognerebbe dichiarare il
contrario, che questi cioè sono anni di
insopportabile stagnazione, vivificati da
record di vendite ma non da creatività. Il
collezionismo, allora, nell’ambito
dell’intero sistema, è il campo
d’osservazione dove queste differenze
si percepiscono in maniera più
macroscopica, perché è il terreno in cui
economie ed emozioni si incontrano e
si scontrano più chiaramente.
Dunque, a partire dagli anni sessanta
ogni collezionista d’arte contemporanea
vedeva se stesso come protagonista di
una élite intellettuale, di una visione
“profetica” del futuro, di una lotta di idee
cui contribuiva con le proprie possibilità.
A partire dagli anni ottanta è stato
esautorato di tutto ciò e ridotto a
consumatore secondo le sue possibilità
economiche. D’altro canto, è il destino
di quella classe media che un tempo si
chiamava borghesia e che oggi sta
soffrendo per la perdita di prestigio, di
possibilità economiche, di identità.
Quella classe che Pier Paolo Pasolini
indicava come la più disponibile al
cambiamento e alle nuove idee, non
avendo eredità industriali o “pesanti” da
difendere e perpetuare. Di fatto, i
collezionisti più audaci ai tempi della
modernità si trovavano in questa classe
che, allora come oggi, forniva alla
società quasi tutti gli intellettuali di cui
necessitava. In questo scenario,
costruire una collezione significava
rendere plasticamente visibile un’idea,
uno stato d’animo, una dichiarazione
d’intenti, e avveniva non soltanto in
presenza di quelle poche collezioni
fortemente “mirate”, ma anche di fronte
a raccolte più generiche, perché la
scelta di occuparsi d’arte
contemporanea costituiva di per sé una
forte affermazione di novità. Al
contrario, oggi le collezioni sono quasi
tutte improntate a uno sconfortante
conformismo, perché la diversità e la
differenziazione non sono considerate
un’occasione di verifica e di discussione
delle proprie preferenze, ma sono
immediatamente bollate come
“sbagliate”, in quanto non rispondenti
agli standard di appartenenza a quella
specie di “club del gusto
contemporaneo” cui si è già fatto
riferimento.
Da qui quel senso di esclusione ma
anche di frustrazione per non sentirsi
più padroni delle proprie scelte, di non
contare più niente nella definizione dei
nuovi linguaggi nell’arte, ormai nelle
mani di altri gruppi più dotati di risorse
pecuniarie.
Come accade nella società in
generale, dove ormai l’unico strumento
di democrazia e di espressione minima
della propria volontà sembra essere
rimasto il voto, al collezionista che
voglia ancora avere un ruolo nel gioco è
concesso solo di seguire il gusto dettato
da altri, di vagheggiare un tempo
diverso – di solito passato –, o di
pensare di poter scoprire quell’artista
giovanissimo prima che venga assunto
nella ristretta cerchia delle gallerie e dei
poteri che lo renderanno una star
inarrivabile per ogni economia media.
Uno degli effetti è appunto
l’espulsione dalla “stanza dei bottoni” di
tutti quei collezionisti incapaci di far
fronte non tanto a una competenza
culturale, ma a una possibilità
economica, e poiché il “brodo di coltura”
della maggior parte di loro era nella
passione e dunque nella competenza,
questa vasta area di discussione, di
possibili scelte diversificate, di
attenzione ai localismi, di confronto tra
le produzioni artistiche, di possibilità
offerte a un cospicuo numero di artisti è
venuta meno, si è ridotta enormemente,
insieme alla capacità di incidere sul
sistema. Ciò è successo nel corso degli
ultimi trent’anni, in maniera coerente
con quanto è accaduto in tutti gli altri
settori delle società occidentali, e
ovviamente non è da imputare soltanto
allo sviluppo accelerato del nuovo
sistema dell’arte, ma anche – per
esempio – alla continua erosione della
capacità di acquisto della classe media,
nonché al suo progressivo ma costante
impoverimento culturale. È indubbio,
infatti, che oggi la classe media debba
fare i conti con problemi di relativa
sopravvivenza – non di base, ma di
mantenimento di status, come far
studiare i figli, affrontare l’allungamento
della vita con i relativi problemi sanitari,
contenere la caduta di prestigio sociale
investendo tutto il surplus di introiti in
queste attività –, ma è ancora più
sintomatico che proprio a partire dalla
fine degli anni ottanta il livello di
istruzione della classe media abbia
cominciato a regredire, tanto da far
preoccupare persino un presidente
americano come Ronald Reagan, che
alla fine del suo doppio mandato
ammoniva la nazione ricordando che
per la prima volta i padri erano più colti
e istruiti dei figli. Se a tutto questo si
aggiunge la consapevolezza di non
poter mai giocare ad armi pari con i
detentori dei poteri forti, si comprende
come la classe media si possa sentire
impotente, e come ogni sua azione sia
di contenimento, di retroguardia, di
salvataggio di quel poco di retaggio
rimasto. Applicato al sistema dell’arte e
al collezionismo medio, questo
sentimento si acuisce ancor di più, se
non altro perché in questo sistema non
esiste niente che assomigli al voto con
cui esprimere il proprio dissenso o la
propria frustrazione.
Così, di fronte a un aumento
esponenziale del denaro investito in
arte, si ha l’impressione – falsa in senso
globale e di numeri, vera come
percezione – che la quantità di
collezionisti sia diminuita, mentre è
stata incrementata la quantità di denaro
investita pro capite.
In questo senso, l’impoverimento
sostanziale del “collezionismo diffuso”
sembra una conseguenza inevitabile.
Poco sopra si è parlato di economie
sempre più dotate, di scelte sempre
meno coraggiose ma consolidate. Nel
dettaglio, il collezionismo dei singoli,
della classe media, che in certi paesi –
soprattutto europei – ha costituito
l’ossatura e la porzione maggiore delle
acquisizioni di opere d’arte, di fronte a
numeri sempre più alti si trova via via
eliminato dal gioco, per la semplice
ragione che l’economia del singolo non
regge più l’aumento esponenziale dei
valori d’acquisto delle opere, combinato
con le accresciute spese necessarie al
mantenimento del proprio “decoro” di
classe. Il singolo ha meno soldi da
investire nel superfluo – e l’arte si è
dichiaratamente spostata verso il
settore del lusso –, ha meno cultura per
desiderare di investire in quel tipo di
bene, e qualora avesse qualche
disponibilità da impiegare in arte,
sarebbe perfettamente conscio che la
sua scelta non avrebbe alcun peso
culturale, se non quello di un rientro
economico, ma di portata minima. Va
detto che all’inizio di questo processo di
esautorazione, la prospettiva appariva
molto diversa se non addirittura
particolarmente favorevole al
collezionista audace. Agli inizi degli
anni ottanta, quando si è innescato
questo meccanismo, chi avesse
acquistato coraggiosamente qualche
opera degli artisti italiani della
Transavanguardia o dei neoselvaggi
tedeschi, oppure dei graffitisti
americani, si sarebbe trovato solo pochi
anni più tardi con un autentico capitale,
rivalutato in pochissimo tempo, come
non era mai accaduto. Tuttavia, questa
congiuntura favorevole si è dimostrata
irripetibile, perché si trattava di un
momento di empatia tra il vecchio
sistema e il nuovo, accelerato e subito
internazionalizzato. Lo stesso pool che
si era coalizzato per lanciare questa
sorta di pittura emotiva e accattivante
probabilmente non si aspettava che
divenisse un moltiplicatore di economie
di tale portata; nessuna operazione
successiva in tal senso sarebbe infatti
sfuggita al controllo, come era
parzialmente accaduto in questo caso.
Già nel lancio della Young British Art, di
pochissimo successiva, e tuttora in
auge grazie all’appeal acquisito dalla
scena londinese negli ultimi vent’anni,
ogni dettaglio è stato pianificato con
attenzione, per ottenere risultati di
notorietà e di successo economico che
proiettassero immediatamente i giovani
protagonisti nell’empireo della fama,
mentre l’illusione di poter vivere una
stagione straordinaria di fermento, di
intelligenza intuitiva, di fortuna
economica alla portata di tutti, è rimasta
a lungo nell’immaginario del mondo
dell’arte. Al contrario, dagli anni
novanta e sino a oggi, l’accesso agli
artisti e alle opere destinati al successo
è stato proibitivo in termini di mercato
per chi non avesse grossi capitali alle
spalle, vanificando così la possibilità di
intuire, di fiutare la novità da parte di chi
non avesse fatto della propria raccolta
un autentico lavoro anziché una
passione. Dunque, la sensazione che
tutto sia stato già deciso porta il
collezionista medio a diversi
atteggiamenti, oscillanti tra la rinuncia e
l’accettazione. Il primo caso è purtroppo
quello più diffuso. Di fatto, alla
delusione per non poter materialmente
essere un fortunato “talent scout”,
gratificato anche dal ritorno economico
– aver pagato poco, ritrovandosi molto
–, si aggiungono altri fattori
apparentemente lontani dal sistema
dell’arte, come l’invecchiamento
generazionale di questo tipo di
collezionisti ed elementi dovuti al
fascino emanato da quel mondo, per
esempio l’aumento eccezionale del
numero degli artisti in attività, che rende
ancor più difficile l’individuazione di
valori relativamente duraturi. Il risultato
più comune è l’astensione dal
collezionare da parte di proprietari che
si accontentano di una raccolta
ancorata al ricordo del periodo più
fecondo. Il secondo caso –
l’accettazione del dato di fatto – mostra
numerose e interessanti sfaccettature.
L’atteggiamento più semplice è quello
dell’inseguimento dei valori e degli
artisti proposti dal grande mercato
attraverso l’acquisizione di opere
minori, e assomiglia molto a
un’operazione di merchandising
artistico che non fa che esaltare
l’inaccessibilità delle opere maggiori: le
edizioni numerate ma tirate in migliaia
di esemplari di artisti come Jeff Koons,
Damien Hirst, Maurizio Cattelan o
Takashi Murakami hanno fatto scuola.
Del resto, se ciò che conta è il brand
dell’artista, possedere anche un
multiplo di un autore sulla cresta
dell’onda illude il collezionista di
partecipare al grande gioco del
contemporaneo. Un terzo
atteggiamento è quello della riscoperta,
che accomuna collezionisti medi e
gallerie di portata medio-alta. Il
successo degli artisti degli anni
sessanta o settanta, attualmente
riscoperti e rivalutati, si deve al
desiderio di protagonismo del
collezionista, oltre all’esistenza di un
patrimonio fisico di opere a disposizione
e all’indubbia attenzione verso
tendenze, movimenti e artisti
ingiustamente dimenticati, ma presenti
in forze nella storia dell’arte recente.
Una conoscenza media della materia,
unita all’indiscutibile fascino che oggi
emanano le opere che sono riuscite a
superare la prova del tempo, costituisce
una base eccellente per operazioni di
apprendimento e diffusione che
possono produrre anche soddisfazione
economica. Per esempio, il
recentissimo interesse internazionale
per l’arte italiana degli anni sessanta e
settanta deriva anche dalla mancata
valorizzazione di quei periodi da parte
del sistema nazionale, dall’eccezionale
e riconoscibile qualità delle ricerche di
quegli anni e dalla disponibilità di
materiale vasto e differenziato. In
questo scenario di carattere storico il
collezionista attento può ancora essere
protagonista, e accaparrarsi opere che
si spera vengano notate in campo
internazionale (cosa relativamente
facile, visto il gioco ormai innescato da
qualche lustro). La condizione per il
successo di questo atteggiamento è
che le proprie scelte coincidano con
quelle di qualche economia forte,
rappresentata da gallerie in grado di
veicolarle in un ambito per sua natura
più robusto e visibile, ed ecco che il
problema dell’egemonia culturale di
certe aree geopolitiche si ripropone, per
cui anche le scelte vengono
condizionate dal gusto che dovrebbe
valere in quelle regioni. Ovviamente, se
queste zone – che coincidono sempre
con Londra e New York – possono
condizionare la riscoperta, la
rivalutazione o il revival di un periodo e
di artisti storici, a maggior ragione
potranno vincolare, controllare e
dominare le scelte contemporanee e
future, per cui anche nel collezionista
occidentale medio si instillerà il dubbio
che è impossibile contrastare questa
tendenza, che all’opposto varrà la pena
di assecondare con le proprie deboli
forze. Questo retropensiero introduce la
quarta e ultima possibilità che il
collezionista medio – conscio della
situazione, desideroso di collezionare e
dotato di un’ottima conoscenza di
quanto accade nella contemporaneità
artistica – può mettere in campo per
sentirsi ancora per un poco
protagonista: la fuga in avanti. Il mondo
dell’arte propone ogni anno
innumerevoli artisti nuovi e indirizza il
suo interesse soprattutto verso quelle
espressioni che testimoniano il disagio
del mondo: captare queste intenzioni
nell’attimo in cui vengono manifestate
consente di restare sulla cresta
dell’onda collezionando il nuovo, anzi il
nuovissimo di ogni stagione. Si tratta
allora di raccolte molto mirate che, con
tutta probabilità, dopo qualche anno
non conteranno molti artisti rimasti sulla
scena internazionale, ma che dal punto
di vista del riconoscimento pubblico
continueranno a essere molto
apprezzate, e da quello storico
costituiranno un vero e proprio “archivio
del gusto”. Per fare questo, l’impegno
del collezionista deve essere quasi
totale, deve diventare la sua
occupazione o la sua ossessione
principale, di contro a un risultato che
assomiglia più a una raccolta di
antropologia culturale contemporanea
che a una collezione d’arte.
Questa reazione alla progressiva
perdita di potere da parte del
collezionismo medio è comunque un
palliativo: la polarizzazione della
ricchezza, la disgregazione di quella
che un tempo si chiamava coscienza di
classe, l’incultura generale dominante,
per cui il senso umanistico di un sapere
globale viene meno in favore dei saperi
specialistici, consentono forse una
resistenza al trend complessivo, ma
difficilmente si può ipotizzare un
contrattacco. La possibilità di scegliere
si sta concentrando irrimediabilmente
nelle mani sempre meno numerose di
quei pochi in grado di alzare l’asticella
dei valori e degli investimenti,
esattamente come avviene
nell’economia generale.
Ma tutto questo riguarda la società e i
sistemi occidentali maturi, e non quelli
nuovi, che si sono affacciati sullo
scenario del mondo solo negli ultimi
due-tre decenni. In tutte le economie e
le culture emergenti, infatti, questo
problema di frustrazione, di sfiducia, di
rimpianto non esiste affatto, e non solo
perché si intravede un minimo aumento
del benessere per tutti, ma soprattutto
perché le condizioni di partenza sono
fondamentalmente diverse. Di fatto, non
esiste alcun senso di delusione perché
non è mai esistito un ceto medio in
grado di determinare, per esempio, le
decisioni di un governo, e tanto meno di
veicolare il gusto generale. Nei paesi in
via di sviluppo non ci si accorge di
questa pericolosa polarizzazione
semplicemente perché c’è sempre
stata, ed è da sempre la condizione in
cui hanno proliferato quelle culture. Si
tratta di situazioni accettate e vissute
naturalmente, forse retaggio di una
crescita che non ha mai contemplato il
concetto greco-giudaico di comunità e,
probabilmente, di responsabilità
individuale nei confronti della società.
Di più, oltre a vivere una condizione che
viene da lontano, dalla storia dei secoli
passati, anche la recentissima
globalizzazione in questi luoghi ha per
così dire “saltato” la fase della
modernità, così come è stata intesa in
Occidente, per svilupparsi
tranquillamente in una condizione
postmoderna. In questo modo lo
sviluppo di una società articolata
secondo una visione socialdemocratica,
o liberale, di progressiva distribuzione
della ricchezza – che ha caratterizzato
la modernità in Occidente – non si è
verificato, mentre si è giunti subito al
dominio di grandi monopoli, di
oligarchie, di élite politiche, di partiti
unici, di dinastie familiari, senza che
questo suscitasse ribellione né
perplessità. Inoltre, questa situazione di
commercio globale ha davvero
consentito un vistoso aumento del
benessere in quei paesi
extraoccidentali, e senza dover
ricorrere a quell’equivalenza falsa tra
capitalismo e democrazia, che forse ha
avuto una sua validità in un lungo
periodo di passaggio – il XIX e il XX
secolo –, ma che ora è smentita dai
fatti. Oggi si potrebbe dire che il
capitale si sviluppa meglio e più
rapidamente in una situazione non
concorrenziale: il PIL della Cina –
indirizzata ancor oggi dalle scelte del
Partito comunista – è lì a dimostrarlo. Si
potrebbe obiettare che a lungo andare
la mancanza di concorrenza e una
direzione economica e sociale pensata
a priori, per quanto flessibile, portino a
una stagnazione, ma i margini di
crescita (che in questo caso possono
anche non essere i “margini di
sviluppo”) sono ancora talmente ampi
da garantire decenni di continuità e
consenso, e contemporaneamente di
scarsissima riflessione o tanto meno
opposizione.
Così, in questo contesto
extraoccidentale ma ormai globalizzato
la polarizzazione della ricchezza è un
dato ancestrale, non il risultato di uno
sviluppo recente, per cui – venendo al
mondo dell’arte – è assolutamente
normale che il gusto di un determinato
collezionismo sia appannaggio di un
ceto sociale dichiaratamente
dominante, e che quella gran massa di
nuovi benestanti, che hanno barattato
un poco di benessere con la rinuncia a
incidere sulle scelte, non senta alcuna
necessità di combattere questa
situazione. È una sorta di patto
silenzioso, ma accettato di buon grado
da tutte le parti in causa, che non
coinvolge soltanto un aspetto marginale
come la cultura, ma tutti gli aspetti delle
società emergenti, con pochissime
differenze tra l’uno e gli altri. Se, per
esempio, il metodo con cui si attribuisce
la prerogativa di scelta è rigido e
rispettatissimo nei paesi arabi e in Cina
ma lo è meno in Iran o in India, ciò si
deve probabilmente all’influenza
britannica o americana in aree
geografiche avvezze da sempre allo
scambio commerciale, ugualmente la
Turchia rispecchia perfettamente le
oscillazioni politiche che ha vissuto nel
terzo millennio, dalle aperture più
coraggiose nei costumi sociali alle
chiusure più populiste. Comunque,
complessivamente si tratta di strutture
gerarchiche relativamente semplici, e
soprattutto non soggette a critiche
nonostante certe amplificazioni
mediatiche occidentali, come il
dissenso di Ai Weiwei in Cina o di
Shirin Neshat nei confronti del natio
Iran. Si tratta di una struttura gerarchica
che può dunque consentire un relativo
arricchimento di vasti strati della
popolazione e persino un certo grado di
acculturazione, in cambio di una
assoluta non interferenza nel campo
delle scelte strategiche, che vanno
dall’economia ai comportamenti
interpersonali, in questo aiutata da una
forma mentis antica, radicata
nell’atteggiamento di rispetto
dell’autorità costituita. È un sistema di
assoluta deresponsabilizzazione
dell’individuo, le cui scelte vengono
demandate all’autorità senza che ci si
senta defraudati di nulla.
È a questo sistema in fondo più
semplificato di quello democratico
occidentale che forse si possono riferire
certe considerazioni non tanto sulla
“storia sociale dell’arte”, quanto sulla
“storia sociale del sistema dell’arte”. Le
osservazioni che sono state lasciate un
po’ in sospeso all’inizio di questo
capitolo sull’applicabilità di certi
meccanismi interpretativi del rapporto
tra arte e società, in un sistema sociale
più semplice – qual è quello dei paesi
extraoccidentali – sembrano funzionare
bene, riducendosi addirittura a pochi
dati: i gruppi economicamente egemoni
dettano le regole in ogni aspetto della
vita sociale e culturale e, grazie alla
nuova ricchezza che ha sfiorato tutti i
ceti e alla struttura fortemente
gerarchica della società, non sono
soggetti a opposizione, per cui anche
l’arte diventa diretta espressione non
tanto di una classe sociale al potere,
ma finanche di singoli detentori della
potenza economica. Gli intellettuali di
tutto il mondo, che una volta erano la
punta di diamante della riflessione sulla
società, della trasformazione del
comportamento, dei linguaggi e del
gusto, oggi sono costretti all’angolo.
L’impero d’Occidente
cadrà ancora

Un paragone non peregrino con la tarda


antichità – Uguaglianze terminologiche,
diversità sostanziali – Alcuni equivoci
interpretativi – Fragilità dell’apparato
interpretativo del contemporaneo: la rivincita
sulle élite – Esempi storici recenti: ancora gli
anni ottanta – Tenere a bada l’altro – Il concetto
di flessibilità e disinvoltura nel sistema dell’arte
– La semplicità vincente di certe culture non
occidentali – Per la prima volta l’Occidente
subisce

Gli Stati Uniti, che tuttora detengono la


supremazia mondiale in moltissimi
campi d’azione, sono anche il luogo
d’elezione di tutti gli studi generali sulla
tarda antichità, cominciati proprio in
ambito anglosassone con la magistrale
opera di Edward Gibbon, Declino e
caduta dell’impero romano, che fu
pubblicata a partire dal 1776, anno
della Rivoluzione americana, sino al
1789, anno della Rivoluzione francese.
Forse ispirati dal fatto di sentirsi eredi di
quell’impero, storici inglesi e americani
di ogni tendenza politica hanno
indagato a fondo – e continuano a farlo
– le cause della decadenza di un
sistema e di una cultura egemoni, con
lo scopo naturalmente di imparare dal
passato così da evitare errori nel
presente, nonostante le differenze
sembrino abissali. Uno dei motivi del
declino di un sistema socioculturale è,
paradossalmente, il suo successo, il
quale spinge tutti all’imitazione o a
volerne partecipare, come è accaduto
con le cosiddette invasioni barbariche.
Queste non erano quasi mai invasioni
militari, ma semplicemente il tentativo di
massa di godere i benefici visibili
dell’essere “cittadini romani”, perseguito
travalicando i confini dell’Impero, come
accade oggi sulla rotta mediterranea
dei migranti o sul confine Stati Uniti-
Messico. Ciò portò all’ibridazione rapida
dei costumi, delle credenze, dei
comportamenti, delle strutture sociali e
della cultura. Si badi bene che furono la
velocità e l’imponenza del fenomeno a
condurre al collasso e non il fenomeno
stesso, che invece era stato uno dei
valori fondanti del successo: l’Impero
romano era una società multietnica
estremamente tollerante, così come lo
sono gli Stati Uniti, basata sulla
condivisione di pochi valori unificanti;
ma ciò che faceva e fa paura è
l’incontrollabilità del fenomeno, cioè
l’incapacità da parte della cultura
egemone di metabolizzare in tempo il
cambiamento e l’assunzione solo
parziale di certi valori, spesso non
disgiunta dal loro fraintendimento
sostanziale.
Così, se questo fenomeno viene
applicato in scala ridotta alla cultura e
ancora più ridotta all’arte, si intravedono
scenari che presentano alcune analogie
con quel primo storico declino
occidentale, e che forse ne
preconizzano il prossimo.
Fortunatamente, in ambito artistico la
radicalizzazione delle trasformazioni
non si manifesta mai sotto forma di
violenza fisica (mentre in quello più
ampio della cultura posizioni antitetiche
possono diventare conflitto violento)
perché, per statuto universalmente
accettato quasi da tutti, l’arte è
apparentemente non violenta, dato che
la bellezza – stereotipo fondante – è
antitetica alla brutalità.
Ma le condivisioni ideali non vanno
molto oltre e, anzi, è proprio la
terminologia a creare le insidie
maggiori, perché alla stessa parola che
si presume abbia lo stesso significato
ovunque differenti culture attribuiscono
invece significati diversi. Due esempi a
questo proposito possono essere
calzanti: riguardano entrambi
l’esperienza di chi scrive come docente
all’Accademia di Belle Arti di Brera.
Ecco il primo. Nel corso della mia
attività sono stato invitato in Cina per
selezionare alcuni studenti che
avrebbero potuto frequentare
l’Accademia milanese. Molti di loro
erano interessati ai corsi di design, e
per questo erano stati formulati test e
prove ad hoc, tenendo conto della loro
giovane età. A fronte di scarsissime
conoscenze specifiche di progettazione,
tutti in modo molto chiaro avevano
sintetizzato quale fosse per loro il
significato del termine “design”, ovvero
“qualsiasi artificio che, aggiunto a un
oggetto, sarebbe stato in grado di
renderlo più appetibile e, soprattutto,
più vendibile”. Per noi invece, educati
idealmente alla scuola del Bauhaus o
dei suoi antagonisti, l’essenza del
design è “la miglior risposta formale,
funzionale e/o simbolica a un’esigenza
tecnologica, culturale e/o innovativa”.
Ed ecco il secondo, solo
apparentemente differente dall’altro.
Sempre all’Accademia di Brera,
esistono svariati indirizzi di studio, tra
cui quelli “storici”: Pittura, Scultura,
Scenografia e Decorazione.
Quest’ultimo stava vivendo una cronica
crisi di “vocazioni” finché non sono
arrivati gli studenti cinesi, i quali
costituiscono la maggior parte dei suoi
iscritti.
Gli italiani e gli europei in generale
non ne sono particolarmente attratti
perché la materia è stata svuotata dei
suoi contenuti concettuali. Infatti,
inizialmente, in quanto strettamente
collegata all’architettura, o meglio
essendone una parte intrinseca, era il
banco di formazione dei migliori
architetti italiani almeno sino
all’istituzione del Politecnico nel
secondo decennio del XX secolo. Oggi
invece l’idea di decorazione non solo è
completamente avulsa da quella di
architettura, ma, qualora ne fosse
rimasta traccia, sarebbe anche
considerata in maniera negativa, un
sovrappiù, un orpello sostanzialmente
inutile, nonostante le fiammate
dell’architettura radicale o le esortazioni
postmoderniste di Robert Venturi a
“imparare da Las Vegas”.
Non formando più gli architetti, è
dunque rimasta un involucro a fatica
riempito dalle cosiddette arti applicate o
da una sorta di progettazione artistica
vicina all’industria, all’arredamento, al
decoro urbano, e per questo poco
chiara e soprattutto di dubbio prestigio
e utilità una volta conseguito il diploma.
Ma non è così per gli studenti cinesi
che si iscrivono in massa, non perché
abbiano un’idea confusa del corso, ma
proprio perché quella disciplina nella
loro cultura è di per sé importantissima
e sono convinti che apra sbocchi
lavorativi molto più sicuri e redditizi di
altri indirizzi di studio artistico. Questi
due esempi non evidenziano soltanto
un semplice scarto interpretativo, che si
può colmare una volta in possesso di
un buon vocabolario bilingue, ma una
vera e propria differenza culturale, ben
radicata e foriera di importanti sviluppi
nel futuro, forse non tutti desiderabili,
ma con cui sicuramente si dovranno
fare i conti, e non solo dal punto di vista
terminologico. Non si tratta, infatti, di
uniformare il significato dei termini allo
spirito del tempo (nelle sue magistrali
lezioni di “terminologia filosofica”
Theodor Adorno mostrava come certe
parole arrivassero a significare il
contrario di quanto assunto
inizialmente, per cui non esiste
un’interpretazione “originaria” e perciò
giusta, data una volta per tutte), quanto
piuttosto di trovare una lingua comune
all’interno dei vari retaggi culturali.
Adorno tuttavia, per tornare all’esempio
citato, considerava il mutamento del
significato dei termini attraverso la sola
variabile del tempo, perché la
terminologia era quella della filosofia
occidentale, accettata unanimemente in
questa parte del globo. Oggi invece il
mutamento dei termini non è solo
temporale, ma anche spaziale: la
stessa terminologia è impiegata
contemporaneamente con significati
diversi, perché nelle varie culture – cioè
nelle diverse aree geografiche – i
significati di una medesima parola
possono variare molto. A complicare la
situazione c’è poi il fatto che questa
possibile differenza non è ancora
percepita, perché viviamo nella
presunzione che i valori di base, indicati
con termini altrettanto basilari, siano gli
stessi, e che sostanzialmente
coincidano con quelli occidentali.
Purtroppo non è vero, e gli esempi
appena citati ne sono la dimostrazione:
i significati di “design” e di
“decorazione” per uno studente
europeo e un suo coetaneo cinese
sono fondamentalmente diversi, anche
se vengono usate le medesime parole.
Lo stesso vale per la definizione di arte,
dove per metà del mondo – il Medio
Oriente e l’Oriente cinese, l’India, il
Sudest asiatico e, parzialmente, il
Giappone – è tuttora valido il senso
originario del termine, così legato ai
concetti di “abilità tecnica”, “canone
rappresentativo”, “tradizione” e
“modello”, oltre che di “bellezza”. Va
ricordato, inoltre, che questi stessi
significati sono ancora molto diffusi in
Occidente presso la stragrande
maggioranza delle persone, e che solo
un ristretto gruppo elitario ha maturato
nuovi convincimenti, nuove relazioni,
attraverso il percorso concettualmente
difficile del contemporaneo e delle
avanguardie del XX secolo. Così, per
mantenere vivo e presente il significato
innovativo di “arte” come lo conoscono
gli studiosi, i frequentatori, gli
appassionati, i collezionisti, ovvero gli
addetti ai lavori, l’insieme dei concetti
affermatisi nella seconda metà del
secolo scorso è costantemente ribadito.
E questo grazie anche all’autorevolezza
e al prestigio attribuito alle élite che
hanno sempre cercato di contenere
ogni rigurgito di vecchie definizioni
proprio con la continua insistenza sul
concetto di “nuovo”, finché si sarebbe
trasformato in “tradizione del nuovo”.
Tra la fine degli anni cinquanta e gli
anni ottanta sembrava che questa
nuova tradizione fosse finalmente
divenuta patrimonio comune e
condiviso. Ma l’irruzione di nuove
culture, nuovi soggetti e nuovi capitali
sta dimostrando che ciò che sembrava
un dato acquisito è una costruzione
ideale ancora fragilissima, un equilibrio
concettuale che rischia di essere
travolto facilmente e velocemente
dall’impatto figurato di opinioni
espresse dalla massa di possibili
interlocutori che non solo non hanno più
rispetto delle élite, ma le considerano
addirittura loro antagonisti principali.
Questa massa, dal punto di vista
occidentale, è interna ed esterna.
Interna, perché si tratta di tutte quelle
fasce di persone non particolarmente
interessate, mediamente acculturate,
fondamentalmente legate ai vecchi
stereotipi che oggi sono stimolate
quotidianamente a fornire la loro
opinione, il loro contributo alla
democrazia mediatica; esterna perché
si tratta pure di tutti coloro che invece si
interessano a questo o quel linguaggio,
provenendo da culture diverse, e che
intendono partecipare a questa nuova
opportunità di crescita o di
emancipazione, arricchendola con i
valori della propria cultura, finalmente
affrancata – forse solo apparentemente
– dalla subordinazione alle culture
egemoni. L’alleanza non cercata, ma
effettiva, tra gli uni e gli altri sta
potentemente concorrendo allo
smantellamento di ciò che si riteneva
ormai acquisito rispetto ai valori di
interazione relazionale, alla definizione
dei linguaggi e dunque al territorio
linguistico comune entro cui costruire
una società più connessa e coesa.
Un sistema di valori relativamente
fragile e “nuovo” come quello dell’arte
contemporanea non può reggere di
fronte alle critiche e ai dubbi impliciti ed
espliciti interni ed esterni. Internamente
si è affermata anche una specie di
rivincita nei confronti delle élite
intellettuali che imponevano
interpretazioni e valori dall’alto di
un’autorevolezza che oggi appare
ingiustificata e ingiusta perché non più
riconoscibile. Per quanto riguarda la
percezione dell’arte, il fenomeno è
iniziato negli anni ottanta con il grande
ritorno della pittura figurativa e narrativa
sulla scena mondiale, in concomitanza
con la dissoluzione del concetto di
avanguardia. In quel periodo, di fronte
alla dirompente riscoperta della pittura,
che si credeva ormai relegata in un
angolo della storia dell’arte
contemporanea, tutti coloro che
dipingevano anche un singolo
mazzolino di fiori alla maniera dei pittori
della domenica si sono sentiti in diritto
di rivendicare a gran voce la propria
contemporaneità e l’appartenenza al
“primo mondo” dell’arte, oltre a
manifestare un malcelato spirito di
revanche nei confronti di chi non si era
accorto della loro genialità. Questa
sorta di rancore diffuso nei confronti
della critica d’arte, additata come
responsabile di tale esclusione, poteva
anche non essere del tutto immotivato,
ma da quel momento i valori consolidati
in decenni di avanguardia non hanno
costituito più il filtro a maglie strette per
ogni espressione creativa – e questo
probabilmente è stato un bene –,
lasciando però campo libero non tanto
a nuovi valori, ma alla loro assenza,
riempita da “strumenti” il cui utilizzo o
meno faceva da garante alla creatività.
In quel momento era sufficiente che si
usasse la pittura per essere presi in
considerazione e magari invitati a far
parte di prestigiose rassegne, pur di
recuperare lo smacco di non esser stati
capaci di riconoscerne la novità.
Si obietterà che questo
atteggiamento non era affatto assente
negli anni precedenti, nelle tendenze
“moderne” legate a media nuovi ed
eccentrici rispetto alla tradizione, come
il video (quante rassegne si sono
organizzate, il cui unico requisito era
quello di usarlo?) o qualsiasi altro
materiale che assomigliasse ai mezzi
del concettualismo o delle nuove
tecnologie. Eppure la situazione era
diversa; perché in quegli anni chi
manifestava la volontà di utilizzare
strumenti diversi doveva
necessariamente indirizzarsi, per
veicolarne la fruizione, verso il sistema
dell’arte accettandone regole e
modalità. In più, chi faceva arte con i
nuovi media solitamente proveniva da
un apprendistato tradizionale che aveva
abbandonato volutamente,
abbracciando lo sperimentalismo più
spinto. La consapevolezza di una
scelta, una direzione, un’appartenenza
e di un contesto comportava la
sostituzione dei vecchi valori con i nuovi
e la formulazione di nuove teorie
sull’arte e i suoi scopi, senza venir
meno al diktat che si trattasse sempre
di un mondo elitario, un’avanguardia del
pensiero e della sua concretizzazione
attraverso un linguaggio specialistico,
per quanto accessibile a chi avesse
voluto frequentarlo, studiarlo, farlo
proprio. Al contrario, la rivincita del
luogo comune dell’artista, del modello
superficiale di arte, che riesumava tutti
gli stereotipi quali spontaneità,
immediatezza, estro, freschezza,
ingenuità, ispirazione, follia, alla fine ha
fatto credere che la nozione di “arte” e
di “artista” non implicasse più elementi
di rigore e di ricerca, ma si sciogliesse
in un generico impulso alla portata di
tutti, che si poteva manifestare
facilmente, anche senza possedere
nessuna qualità tecnica o concettuale,
perché bastava l’emozione. Era una
rivoluzione (in senso etimologico: un
giro completo su se stessa) che
seguiva da presso la fine delle
avanguardie e il sorgere di quella
condizione postmoderna dove tutto può
funzionare. Purtroppo questo
sentimento diffuso non è stato
considerato come una condizione in cui
i modelli espressivi si moltiplicavano in
virtù del fatto che non era più possibile
definire cosa fosse “avanguardia” e
cosa “retroguardia”, e la cui
conseguenza poteva essere il confronto
positivo tra differenti idee, concetti e
manifestazioni concrete di tali modelli,
ma è stato percepito come “tutto è
uguale”, ha pari dignità e l’unico metro
di giudizio è il gusto personale.
Il risultato fu che anche la critica più
schierata in favore di nuove tendenze e
nuovi media vacillò – e non poco – sia
per una sorta di autodafé o, per usare
termini da materialismo storico, per la
feroce autocritica spinta fino al
nichilismo che decretava la fine della
propria funzione intellettuale, sia per il
contemporaneo attacco contro tutte le
élite intellettuali incapaci di riconoscere
la genialità espressiva nel dilettantismo
pittorico. Se “tutto è uguale”, viene
meno la funzione del giudizio
competente e riconosciuto come tale,
cioè della critica, e ogni cosa è
demandata a un generico
apprezzamento in cui entrano l’incultura
generale, il luogo comune sull’arte, la
facilità di comprensione dei soggetti e
dei modelli, la loro popolarità e, non
ultima, la loro più facile diffusione
commerciale, come effetto delle varie
concause. I filtri e gli ammortizzatori
culturali sono stati scardinati proprio a
partire da quegli anni, ma i sintomi dello
sgretolamento di quel sistema sono
stati nascosti e offuscati dallo
straripante impulso economico di cui il
mondo dell’arte ha beneficiato da allora
grazie all’afflusso di “capitale ignorante”
verso i suoi prodotti.
E se questa evoluzione è stata tutta
interna al mondo dell’arte
contemporanea occidentale, e si
sarebbe probabilmente verificata anche
se non fosse stata seguita dal
fenomeno della globalizzazione:
quest’ultima – venuta immediatamente
a ridosso – ne ha accelerato le
conseguenze e ingigantito gli effetti.
La globalizzazione dell’arte è iniziata
prima di quella industriale, che data
all’incirca dalla fine degli anni novanta,
quando la WTO (World Trade
Organization) decise che i dazi sulla
circolazione delle merci sarebbero stati
quasi del tutto eliminati. Gli esploratori
culturali agivano già da quando il blocco
Est-Ovest stava mostrando sintomi di
cedimento e di trasformazione dalla
metà degli anni ottanta. È da quel
momento che l’impulso a cercare nuovi
modelli espressivi al di fuori
dell’Occidente prende vigore, nella
certezza che di lì a poco il mondo si
sarebbe aperto a più serrate
comunicazioni e scambi, prima culturali
e poi economici, come di fatto è
avvenuto, sebbene non secondo le
ottimistiche modalità previste sulla
carta: la scoperta dell’universo sovietico
e russo, le indagini sulla produzione
artistica africana, la curiosità
nuovamente manifestata per molti artisti
sudamericani e ispanici, l’occhio
benevolo gettato sulle componenti
laiche della cultura turca, l’accoglienza
entusiasta di artisti coreani – subito
seguiti da notevoli capitali economici –
sono tutti indizi di una crescente
comunicazione interculturale, iniziata a
metà degli anni ottanta, proseguita per
tutti i novanta per poi diventare
manifesta e irreversibile a partire dal
nuovo millennio come uno degli aspetti
più evidenti della globalizzazione.
Tuttavia, non era stata prevista la
portata degli effetti collaterali di questo
interscambio culturale, che oggi sono
diventati gli effetti principali della
globalizzazione in arte.
Ma per non anticipare la conclusione,
meglio andare con ordine. L’attitudine
espressamente occidentale di cercare
spunti, idee, novità, al di fuori dei propri
confini culturali non è nuova. Basti
pensare al fenomeno del japonisme del
XIX secolo o della cosiddetta “arte
negra” agli inizi del successivo per
avere la visione plastica di come ci si
possa appropriare, anche
stravolgendoli, di modelli altrui per
rinvigorire il complesso concettuale
della cultura occidentale e nella
fattispecie della sua arte. Dopo quegli
apporti ormai lontani non si era visto
nessun movimento così vasto come
quello messo in atto a cavallo del nuovo
millennio: si è assistito a una corsa
spasmodica ad accaparrarsi l’ultimo
lembo di terra culturalmente vergine,
oppure la zona di crisi più crudelmente
colpita, per ricavare materiale
artisticamente “commovente”, cioè
capace di scuotere emotivamente lo
spettatore. Si noti, tra l’altro, che la
ricerca è stata centrata più sulla novità
del soggetto che sul modo di
presentarlo, come a dire che i mezzi
della comunicazione hanno ormai
esaurito la loro carica di novità, e sono
stati tutti accettati nel novero degli
strumenti canonici. La battaglia, durata
per quasi tutto il XX secolo, per evitare
che la discriminazione tra arte e non
arte ricadesse sull’uso di certi media è
vinta, con la conseguenza che si è
tornati a dare importanza al soggetto e
all’autore, molto più che al linguaggio. A
ogni modo, man mano che il mondo,
rimasto orfano di un modello alternativo
a quello occidentale, dilatava i suoi
confini o, meglio, li apriva l’interesse
dell’arte si spostava su quelle nuove
zone, a volte precedendo – di poco – la
presenza economica occidentale, altre
seguendola velocemente. L’intento era
quello di valutare come la diversità di
ogni nuova cultura toccata da questo
interesse contingente potesse fornire
rinnovati spunti alla cultura occidentale
e alla sua arte, preservando allo stesso
tempo, quasi come un documento
antropologico, quella stessa diversità in
pericolo di estinzione in quanto
testimonianza di una effettiva
correttezza politica nei confronti delle
minoranze o delle culture ritenute più
deboli. Eppure, già questo concetto in
sé positivo risente molto della
concezione egemone occidentale,
abituata in passato a contagiare ogni
altra cultura, nella certezza che la forza
di quella occidentale sarebbe stata di
modello per le altre, mentre di queste
avrebbe assorbito soltanto ciò che
riteneva utile a rafforzare i propri
canoni. Agli inizi degli anni novanta,
quando Francis Fukuyama, sulla scorta
del crollo del blocco sovietico, parlava
di fine della storia e si credeva che
l’unico modello possibile fosse quello
occidentale democratico, liberale e
capitalistico alla maniera statunitense,
la sensazione era che si stesse
assistendo a una nuova fase di
assimilazione delle culture.
Pareva cioè che quel modo di “fare la
spesa” nelle specificità altrui, con quel
briciolo di delicatezza formale dettato
dall’opportunità politica di fine secolo, si
sarebbe attuato su grande scala e nei
confronti di tutto il mondo, più o meno
con le stesse modalità del colonialismo
culturale del XIX secolo, semplicemente
ingentilite e attenuate nella forma. La
vittoria sul blocco sovietico legittimava
questa azione perché, se il modello
occidentale si era conquistato il primo
premio, doveva per forza risultare
anche il migliore, e non essendoci altri
modelli utili di riferimento sarebbe
diventato quello universale. In cambio,
le differenze fra le varie culture
sarebbero state tutelate in ambito locale
dall’ombrello protettivo della cultura
egemone globale, in una specie di
edizione rivisitata dell’esotismo
ottocentesco, ben studiata da autori
come Edward Said che la pone sotto la
definizione di “orientalismo”. Una
perfetta riedizione dell’Impero romano,
nell’epoca del suo massimo fulgore.
Le cose, però, non sono andate così.
Questa volta non si è riusciti a far
accettare e adottare univocamente il
modello vincente, e non solo per la
presenza di esempi eclatanti di
resistenza a questo progetto
globalizzante (esempi sorti soprattutto
in aree islamiche: la rivoluzione
khomeinista in Iran, l’invasione
dell’Afghanistan, la guerra Iran-Iraq, la
Prima guerra del Golfo eccetera), ma
soprattutto per la difficoltà di esportare
la complessità sociopolitica del sistema
occidentale semplicemente
sovrapponendola a modelli sociali e
comportamentali sideralmente lontani.
Nessuno può mettere in dubbio che
l’impalcatura occidentale del sistema
dell’arte si sia diffusa globalmente, ma
la vera domanda è quanto non sia
cambiata e stia cambiando
velocemente proprio perché adottata da
culture dove il concetto di arte e della
sua diffusione è tradizionalmente
diverso.
In altre parole, questo periodo storico
potrebbe essere l’avvisaglia di una
modifica radicale nei rapporti di
scambio delle idee tra Occidente e
resto del mondo. Se un tempo si era
abituati a qualche concessione alle
culture locali per meglio adattarle al
complesso sistema egemone, oggi
esiste il ragionevole dubbio che non
siano più sufficienti adattamenti e
concessioni formali, ma che l’entità
delle richieste soprattutto da parte delle
culture orientali – Cina in testa – possa
crescere fino a stravolgere
definitivamente il modello iniziale.
Sino a ora, infatti, le gallerie, le aste, i
musei, il collezionismo sembrano aver
ricalcato pedissequamente il modello
occidentale, ma di fatto non è così.
Quando sopra si parlava di differenze
terminologiche, per cui si attribuiscono
valori completamente diversi alle stesse
parole a seconda del contesto culturale,
il sistema dell’arte è quello in cui tali
diversità sono più marcate. Va detto
che si sta parlando della Cina e
dell’India, paesi in cui il mercato interno
è quasi vergine e virtualmente
fortissimo, connotato da una
produzione culturale molto radicata,
robusta e potenzialmente autonoma
rispetto a quella occidentale. Così,
prima di entrare nel merito delle scelte
artistiche converrà analizzare anche
superficialmente dove e per quali motivi
divergono questi sistemi
apparentemente uguali, che invece
mostrano una straordinaria disinvoltura
nel trattare la materia “arte”. Le gallerie,
come i musei o i gruppi di collezionisti,
sono estremamente veloci nell’agire,
nell’organizzare innumerevoli mostre –
che durano pochissimo –, nell’essere
svincolati da tendenze particolari, nel
costruire fenomeni commerciali in
tempo ridottissimo, nell’approfittare di
congiunture favorevoli, nel pensare al
profitto nel breve e brevissimo periodo
e nel realizzare collezioni unicamente
basate sulle previsioni di incremento
economico, perché sono favoriti non
solo dall’euforia della novità e dal
muoversi in un terreno vergine, ma
anche da questioni che trovano la loro
ragion d’essere più in profondità, nel
significato culturale del prodotto trattato.
Per costoro la disinvoltura con cui si
maneggia l’arte è un fattore intrinseco a
qualsiasi commercio. In Occidente,
invece, che l’arte sia un oggetto del
desiderio e che per questo diventi
“anche” una merce fa parte del gioco,
ma che sia “solo” merce è
un’affermazione sconvolgente.
Quest’ultimo atteggiamento si potrebbe
definire un ammortizzatore culturale e
serve a preservare quel residuo di
un’indispensabile aura simbolica.
Tuttavia, se questo concetto viene
intaccato contemporaneamente
dall’interno e dall’esterno della cultura
in cui vige, il risultato sarà che l’oggetto
d’arte si avvicinerà sempre di più
nell’immaginario collettivo a una merce
come tutte le altre. Ora, l’afflusso di
denaro, combinato a idee non così
riverenti nei confronti dell’arte dà come
risultato la perdita della sua aura
intellettuale e concettuale e l’aumento
simultaneo del suo valore di status
symbol legato semplicemente alla
ricchezza del collezionista o, meglio,
dell’acquirente. È quanto sta
accadendo in modo particolare in quel
segmento dominato dalle aste, che
sono diventate la vera misura del valore
dell’arte, oltre che del prezzo. In questo
settore la disinvoltura cui abbiamo già
accennato è stata applicata senza
esclusione di colpi ovunque nel mondo,
travolgendo ogni resistenza e
stravolgendo ogni concetto che non sia
legato alla traducibilità dell’opera in
denaro. Questa velocissima erosione di
ogni ammortizzatore culturale ha messo
in crisi le gallerie al di sotto di un
volume d’affari plurimilionario e ha
promosso la semplicità dei rapporti
legati al denaro e a null’altro. La
flessibilità, per esempio, che per secoli
è stata una delle caratteristiche vincenti
della cultura occidentale, oggi trova
concorrenti molto agguerriti e più
favoriti nella sua applicazione in Cina,
Corea del Sud e persino in India.
L’apprendimento dei sistemi di
commercializzazione di questa nuova
merce è infatti abbastanza immediato e
la loro efficacia è paradossalmente
aumentata grazie all’originaria
mancanza degli ammortizzatori culturali
che sopravvivono in Occidente. Allo
stesso modo in cui si comincia a
dubitare che il capitalismo postmoderno
si possa sviluppare solo in un sistema
liberale, visti i successi rapidissimi
dell’economia cinese avvenuti in un
sistema monopolistico e autocratico, in
arte la diffusione del suo oggetto si
costruisce forse meglio senza le
resistenze mentali legate al vecchio
concetto di merce speciale e non come
merce tout court. Così, tutto è più
veloce perché ci si è liberati delle
remore che ancora suggerivano cautela
nel trattare l’arte come una merce pura
e semplice. Anzi, se in Occidente
arrivare a questo punto significa
rinnegare quanto è stato maturato nel
corso dei secoli, non lo sarà in un
sistema globalizzato, dove si presume
che si moltiplicheranno gli investimenti
e le presenze di economie e culture
diverse.
Se anche per il più cinico dei
mercanti vecchio stampo sarà difficile
liberarsi di un retaggio culturale ben
radicato per adeguarsi ai tempi nuovi,
non lo sarà per un operatore
extraoccidentale, che non farà altro che
seguire i dettami dei propri codici
d’azione e delle proprie gerarchie di
valori.
Per costoro l’arte risponde a un’idea
di “decoro” sociale, ma anche per
questo non si eleva al di sopra delle
convenzioni. Perciò, la flessibilità delle
istituzioni mercantili risponderà soltanto
alla convenienza e alla convenzione
sociale, mentre verrà eliminato
dall’orizzonte del commercio dell’arte
ogni avvertimento morale, ogni limite
dettato da quello che un tempo era una
sorta di “statuto speciale” della merce-
arte. Tutto ciò sta già avvenendo,
mantenendo la facciata dell’istituzione e
ristrutturando metaforicamente tutta la
struttura del palazzo: l’esempio già
citato nei capitoli precedenti, per cui le
case d’asta maggiori sono diventate
giocatori attivi nel mercato e non
semplici “arbitri” o notai del desiderio e
del gusto del collezionismo, non è che
un sintomo evidente del cambiamento
in atto. Cambiamento tanto più
manifesto quanto più le definizioni date
alle strutture del sistema rimangono le
stesse. I re ostrogoti pensavano di
essere imperatori romani, e per molti
secoli dopo la caduta si continuava a
regnare e a legiferare in nome del
Sacro Romano Impero.
Il gusto che verrà.
Previsioni e profezie sul
futuro del sistema e
dell’arte

L’affermazione dell’arte contemporanea in


epoca moderna pone le basi del proprio declino
– Arte come sola “grande narrazione” in grado
di abitare la globalizzazione – La narrazione
dell’arte come finzione e come marketing – Il
mestiere dell’artista: finzione e realtà – Fine
dell’arte come modello etico e interpretativo
della realtà – Il cambiamento del gusto
introduce il cambiamento del significato dell’arte
– Il processo di “semplificazione” dell’arte e del
suo sistema – Lo sguardo indietro e lo sguardo
altrove del sistema – Troppa offerta, troppo
poca domanda – Le ragioni di un’“arte
obbediente” – Concorrenza e oligopolio – Che
fare?

Sino a questo punto le pagine si sono


dipanate per dimostrare e descrivere i
cambiamenti intervenuti nello spirito del
tempo, nel gusto del collezionismo, e di
conseguenza nel sistema di diffusione
dell’arte, in accordo parziale o totale
con i mutamenti intercorsi negli ultimi
trentacinque anni anche in campo
sociale, geopolitico e soprattutto
economico. Ma quanto affermato sinora
è prodromico a una questione ancora
più critica ed essenziale, ovvero il
mutamento radicale dell’arte stessa, e
non solo del suo contesto economico,
come conseguenza di tutti i
cambiamenti intervenuti nel suo bacino
percettivo.
Non si tratta di una constatazione da
poco, soprattutto se si pensa alla
vocazione carismatica che l’arte
contemporanea ha assunto durante la
modernità, e che ha mantenuto –
almeno formalmente – sino a oggi. Per
il pubblico l’affermazione di nuovi codici
di bellezza e di interpretazione del
mondo è stata una vera e propria
“rivelazione”, e il movimento iniziato con
le avanguardie storiche aveva prodotto
idee, concetti, ideologie e utopie che
apparivano inossidabili, punto di
partenza e al tempo stesso di non
ritorno, l’anno zero di una religione laica
da cui iniziare a datare sia la
contemporaneità sia la storia. Ma è
davvero possibile che un movimento
ideale così grandioso e pervasivo, così
convincente e ormai senza nemici, sia
destinato in breve tempo a trasformarsi
radicalmente in qualcosa che appare
ridotto rispetto alle grandi aspettative di
qualche decennio fa?
Sembra impossibile che il lascito
culturale dell’arte contemporanea in
Occidente, nata dalle avanguardie, si
stia sgretolando giorno dopo giorno,
apparentemente senza un motivo
preciso, e sicuramente non come
risultato del trionfo di un modello
culturale alternativo, ma semplicemente
perché non c’è più nulla contro cui
battersi, non c’è più un nemico, solo il
mutare delle circostanze.
Tuttavia, al contrario di altre grandi
narrazioni della modernità, lo statuto
dell’arte contemporanea – e tutto ciò
che le è cresciuto addosso – non è
stato negato e sostituito da uno statuto
differente, ma si è adeguato,
conservando però quelle categorie
auliche e nobili del suo periodo epico,
del suo momento militante. In altre
parole, l’arte è forse l’unica disciplina,
l’unico linguaggio di cui non si
riconosce ancora il cambiamento
radicale – come invece è accaduto per
la politica, la filosofia e in genere per
tutte le ideologie, con la sola eccezione,
forse, della religione –, e alla quale
nonostante tutto si attribuisce una
visione anticipatrice ed eroica, la cui
nostalgia è costantemente alimentata
dal sistema. È noto che le cosiddette
grandi narrazioni, che secondo Jean-
François Lyotard costituivano il cuore
della modernità, sono entrate in crisi
attorno agli anni settanta del XX secolo.
Giustizia, futuro, benessere, con tutto il
corollario di categorie quali verità,
bellezza, progresso, uguaglianza, sono
venuti meno e sono stati sostituiti da
parametri più accessibili. I grandi ideali
sono diventati i piccoli valori di
un’esistenza le cui prospettive non
vanno molto al di là della propria vita, e
si è così barattata la speranza in
qualcosa di grande con la certezza di
qualcosa. Solo l’uovo oggi…
L’unica grande narrazione che resiste
ancora è l’arte. E i motivi di questa
sopravvivenza sono molteplici. Intanto il
fatto che l’attenzione verso l’arte
contemporanea sta vivendo un
fenomeno di allargamento dall’élite che
la componeva sino a tre-quattro
decenni fa alle grandi masse di oggi,
per cui l’interesse, la curiosità, la
considerazione per l’acquisizione di un
nuovo territorio del tempo libero sono
tuttora in espansione, e si sa che ogni
nuova esplorazione ha bisogno di eroi e
di miti; per questo motivo l’arte
contemporanea gode del prestigio
quasi intatto di un tempo, e per di più su
una base geograficamente e
numericamente molto più vasta. Inoltre,
le notizie che provengono dal sistema
dell’arte mostrano un universo
luccicante, facile e accessibile: non
esistono studi preventivi, non si
richiedono talenti speciali, non si fa
nessuna fatica ad autodefinirsi “artisti”,
nessuno mette in dubbio questa
autocertificazione, e l’artista di
successo è gratificato da fama, onori e
denaro che diventano sempre più
grandi, a mano a mano che il pianeta si
apre all’arte contemporanea anche nei
luoghi che solo poco tempo fa
risultavano impenetrabili. A prima vista,
di fronte a un investimento iniziale quasi
pari a zero, le promesse appaiono
mirabolanti e i traguardi assai più facili
da raggiungere che in qualsiasi altro
lavoro. Non è un caso che le file degli
artisti si ingrossino sempre di più, e
questo non è solo il portato della
maggior disponibilità di tempo, o del
benessere diffuso, né tanto meno di un
aumento delle vocazioni. Si tratta di un
mondo disponibile, molto pubblicizzato,
apparentemente aperto e a carattere
spiccatamente individuale, di contro a
tutti gli altri sistemi che mostrano
immediatamente il loro lato
monopolistico e difficile da penetrare.
Persino il mondo dell’informatica, il più
dinamico di tutti, inizia a diventare un
terreno di scontro di forze economiche,
in cui l’idea geniale del singolo mira
oggi a farsi acquisire dai grandi brand
che non possono farsi sfuggire un
eventuale futuro competitore. L’arte,
invece, conserva l’aspetto individuale
perché la sua forza è per statuto quella
dell’individuo creatore: dietro ogni opera
ci deve essere una persona, con buona
pace delle utopie delle neoavanguardie
degli anni sessanta che predicavano
l’anonimato del gruppo, o delle teorie di
Walter Benjamin sulla “perdita
dell’aura”. Così, senza alcun filtro di
competenze “in entrata”, e senza alcun
dissuasore mediatico, ognuno si sente
autorizzato e quasi spinto a tentare
l’avventura.
Eppure, questa facilità nasconde
insidie notevoli. Anzi, non le nasconde
affatto, le evidenzia e le esalta,
promettendo ai singoli utenti, ai singoli
partecipanti, ai singoli “giocatori” un
possibile futuro di fama e ricchezza, a
patto di accaparrarsi uno dei pochissimi
posti disponibili nel gran circo
internazionale. In Italia nei decenni
scorsi era molto in voga il gioco del
lotto, basato su novanta numeri: si
vinceva – poco – azzeccando anche un
singolo numero estratto. Da una ventina
d’anni invece spopola il “superenalotto”
– negli Stati Uniti e in Gran Bretagna è
una forma di lotteria –, basato
anch’esso sull’estrazione di sei numeri
su novanta, ma dove il montepremi
collettivo aumenta costantemente se
nessuno indovina quella sestina; le cifre
in questo caso sono sempre
sbalorditive e le probabilità di vincere
infinitamente più ridotte rispetto al lotto.
Ciononostante, il pubblico ha
privilegiato il superenalotto, abbagliato
dal montepremi mastodontico ma quasi
impossibile da raggiungere. Una vincita
media non ha più nessun senso,
nonostante possa risolvere molti
problemi di sussistenza, perché ciò che
conta è il salto su un altro pianeta.
L’arte contemporanea, oggi, sembra
promettere qualcosa di simile. E poco
importa che il cammino per raggiungere
questo status sia notoriamente
difficilissimo. Prima della modernità
artistica i codici linguistici erano ferrei e
rispettatissimi anche da quegli artisti
che sarebbero diventati dei rivoluzionari
del linguaggio; la modernità, poi, ha
vinto la sua battaglia affermando altri
codici, più sfumati e più vasti dei primi,
ma che hanno determinato la
“tradizione del nuovo” dopo la vittoria
nella competizione sui linguaggi
precedenti. Oggi il confronto si è
trasferito totalmente dal linguaggio al
contesto, e l’affermazione non passa
più attraverso il rinnovamento del
primo, ma attraverso la conquista dei
contesti migliori, vale a dire della
galleria più potente, del risultato d’asta
più eclatante, dell’amicizia dei
collezionisti più in vista, che
costituiscono una sorta di comitato di
garanzia dell’artista. Qualcuno obietterà
che ciò è sempre avvenuto: se
Constantin Brancusi agli inizi del XX
secolo fosse rimasto nella natia
Romania, probabilmente non avremmo
mai sentito parlare di lui, anche se
avesse ideato e realizzato là le stesse
opere che ha fatto a Parigi. È vero, ma
non bisogna dimenticare che lo scultore
rumeno, insieme all’intuizione della
necessità di recarsi nel cuore della
produzione artistica, portava con sé
davvero un linguaggio nuovo, mentre
oggi sembra necessario portare con sé,
nel cuore dei luoghi dove si prendono le
decisioni riguardo all’arte, piuttosto un
linguaggio obbediente.
Così, l’artista che conosce
perfettamente le regole del gioco
continua invariabilmente a confidare
anche nel colpo di fortuna, nel caso,
nell’accadimento che lo faccia notare
all’interno della ristrettissima cerchia dei
personaggi che contano e che possono
fare la differenza in campo
internazionale. Quello che un tempo era
un sistema in cui vigeva ancora una
buona dose di anarchia positiva è
diventato oggi un organismo chiuso,
tanto strutturato da essere quasi
impermeabile a ogni innovazione reale.
Del resto, per ogni nuovo strumento,
ogni nuova disciplina, ogni nuovo
linguaggio sembra che il destino sia
quello di trasformarsi da elemento
libertario e liberatore in ingranaggio di
controllo. Nel ristretto mondo dell’arte –
per fare un esempio – è avvenuto con il
video degli anni settanta, le cui
premesse e promesse erano di
trasformarci in un emittente e in un
ricevente, senza l’intermediazione di
una struttura di broadcasting; a
distanza di pochissimi anni invece la
produzione e soprattutto la diffusione di
videoclip è diventata quasi impossibile
senza il sostegno economico di
strutture che in questo modo diventano
anche “controllori” di tutti gli aspetti del
prodotto. Su scala macroscopica e
globale è quanto sta accadendo al web,
rispetto al quale il senso di controllo
occulto e palese dell’utente è oggi
talmente percepito da diventare
l’argomento principale dell’informazione
e addirittura della comunicazione,
quando invece questi stessi strumenti
sino a pochissimo tempo fa erano
additati come protesi dell’assoluta
libertà individuale (ma la verità forse in
questo caso sta veramente nel mezzo).
Così, a dispetto dell’impostazione di
facciata, anche il sistema dell’arte del
nuovo millennio è un’“istituzione totale”
anche se non delimitata da barriere
fisiche come potrebbero essere i muri di
un carcere o di un ospedale
psichiatrico. Il volto umano dell’arte
nasconde dietro l’apparenza delle
dichiarazioni di principio e di poetica
una realtà strutturale e operativa
sempre più spietata e verticistica, in cui
i produttori – cioè gli artisti – che
riescono a piazzare la propria merce –
cioè le opere o il proprio modo di
essere – sono numericamente sempre
di meno, e non posseggono quasi più
quegli strumenti di controllo che per
statuto apparterrebbero loro, come il
tempo di realizzazione, la quantità e
infine la qualità della produzione. In
cambio di questo spossessamento
generale – Marx avrebbe parlato di
“alienazione” – ci sono fama, onori e
ricchezza planetari per pochissimi –
rispetto naturalmente al numero degli
artisti in attività – che occupano le
posizioni di vertice.
Ciononostante, il fascino dell’arte
contemporanea resiste ancora e, anzi,
appare in espansione, perché non ha
raggiunto ancora tutto il suo potenziale
pubblico sparso ai quattro angoli della
terra. E nei confronti dei suoi presunti
attori principali – gli artisti – riesce a
perpetuare il senso di un possibile
superamento trasversale delle classi
sociali e di una veloce scalata verso
posizioni di visibilità mediatica
difficilmente raggiungibili in altro modo,
e con una così scarsa richiesta di
competenze specifiche. Se, dunque,
l’arte contemporanea costituisce tuttora
una grande narrazione, visto
dall’interno oggi tutto il sistema è
sofferente, perché obbligato e
sollecitato oltremodo ad andare nella
direzione del profitto puro, senza
sperimentazione, al massimo con
qualche sussulto revivalistico di
riscoperta. Questo è vero anche per
artisti, galleristi, musei e operatori che
appartengono alla cerchia di chi si è
affermato e ha vissuto quel momento in
cui una specie di felicità intellettuale
poteva andare di pari passo con il
successo. È stato un breve periodo, un
attimo di magico equilibrio che ha
coinciso con la “fine della battaglia”, con
la percezione della vittoria dell’arte
contemporanea sui suoi detrattori, una
vittoria che però faceva intravedere per
la prima volta la possibilità della
realizzazione di un’utopia, l’utopia della
modernità. Di quella conquista sta
ancora vivendo la grande narrazione
dell’arte contemporanea, che per
funzionare deve essere condivisa e
promettere una felicità futura. Ma esiste
una terza condizione, anch’essa
essenziale, perché essa si possa
effettivamente definire “grande”, ed è
quella per cui deve essere pensata e
percepita in modo tale da poter influire
sulla realtà. Come la politica o la
scienza potessero in passato
condizionare la realtà è abbastanza
semplice da pensare, ma è altrettanto
semplice constatare che non è
avvenuto secondo le aspettative
collettive. Per quanto riguarda l’arte,
invece, la questione è più sfumata,
perché nel suo possibile intervento sulla
realtà gli obiettivi non sono così
chiaramente leggibili e valutabili come
nelle altre narrazioni. Agli occhi degli
abitanti occidentali del sistema dell’arte
questa vaghezza è ormai simile a una
nebbia che nasconde il fallimento, che
insabbia l’inganno e la mancata
promessa iniziale: l’arte
contemporanea, nonostante le
apparenze e le dichiarazioni, non
obbedisce più alla necessità del
“cambiare il mondo”. Il linguaggio
artistico – paradossalmente – è oggi
infinitamente più diffuso di quanto non
fosse nel XX secolo, ma ha rinunciato di
fatto ai grandi propositi della modernità.
E forse vi ha rinunciato non per
l’impossibilità di conseguirli, ma al
contrario per averli conseguiti, per aver
eliminato tutti i nemici e con essi ogni
possibile dissenso. Un paio di episodi
recenti possono essere esplicativi.
Nel 2012 e nel 2015 sono stati
acquistati da un trust di musei del Qatar
rispettivamente un quadro di Cézanne –
una variante dei Giocatori di carte – e
uno di Gauguin – Nafea faa ipoipo, cioè
“Quando ti sposi?” – per
duecentocinquanta e trecento milioni di
dollari. Se si pensa che questi autori
rappresentano con le loro opere la
quintessenza di un modello di vita, di
uno sviluppo delle idee, della libertà di
espressione che hanno fatto
dell’Occidente quello che è, e che gli
acquirenti – gli sceicchi di Doha –
rappresentano uno dei paesi
socialmente più refrattari al
cambiamento e, a detta di molti
osservatori, addirittura colluso con l’ISIS,
bisogna concludere che l’arte moderna,
e con lei la contemporanea, ha perso
ogni capacità di provocare un dissenso,
altrimenti questi acquisti avrebbero
significato qualcosa di eversivo in una
società così chiusa, oppure avrebbero
rappresentato un’azione politica, una
dimostrazione di potere nei confronti di
idee chiaramente osteggiate, che
comunque “si lasciano comprare” sotto
forma di opere d’arte. Al contrario, è
stata una costosa ma semplice
operazione pubblicitaria per attirare
turisti che un giorno fanno shopping e
l’altro visitano un museo, senza
chiedersi perché un Gauguin si trovi in
Qatar e se abbia senso in quel
contesto. Di fatto, se è il dissenso a
fornire la misura del dibattito e delle
nuove idee che si fanno strada, in un
ambiente socioculturale in cui tutti
accettano ogni cosa, la sensazione che
nulla incida su nulla è fortissima.
Allora, l’arte perché ha successo?
Perché è diventata il rito collettivo del
nuovo lifestyle, lo status symbol
accessibile a tutti nei primi gradini della
piramide che vede al proprio culmine,
oggi, una ridottissima cerchia di
rispettati illuminati, in grado di
possedere, acquistare e scambiare gli
oggetti del desiderio. Così, a fronte di
una narrazione di stampo ancora
eroico, la realtà dei fatti ha visto il
linguaggio artistico rinunciare alla sua
funzione critica, profetica e monitrice
della società, per abbracciare una
finalità diversa, più o meno vicina
all’intrattenimento, al tempo libero,
all’informazione.
Con tutta probabilità, la capacità
dell’arte contemporanea di suscitare
pensieri innovatori e progressisti
davvero efficaci nella realtà sociale è
stata fortemente sopravvalutata nel XX
secolo, eppure una delle motivazioni
fondamentali degli artisti, dei gruppi, dei
movimenti di quel periodo vi faceva
appello, e una “superiorità morale” che
l’arte d’avanguardia si attribuiva
derivava da questa dichiarazione di
intenti. Oggi il pubblico più accorto si
culla nella nostalgia di quella tensione
morale ripetendo una sorta di rito che
vede l’intero sistema spostarsi nelle
aree di crisi per testimoniare la propria
solidarietà morale attraverso opere,
mostre, dibattiti, che però non varcano
mai i confini del sistema stesso, per
quanto questo sia esteso: è diventato
autoreferente e dunque
sostanzialmente inefficace. Se a ciò
aggiungiamo che l’arte extraoccidentale
prende le mosse da uno statuto in cui i
valori progressisti non sono certo
essenziali, e che anche quando
dichiara di agire sulla loro falsariga ne
vive solo l’aspetto esteriore – ovvero il
rito –, si comprende appieno quale
frattura si sia aperta tra le parole e la
realtà, tra le dichiarazioni rituali e
l’evidenza fattuale: l’arte globale non è
più universale.
In questo scenario la disillusione di
chi ci credeva e ci crede comincia a
essere visibile. L’autoreferenzialità del
linguaggio artistico era già stata svelata
da Marcel Duchamp, un atto in quel
caso rivoluzionario che mostrava
l’ipocrisia e la falsità delle convenzioni
sociali, allargando a dismisura il campo
d’azione dell’arte. Oggi invece si assiste
a un nuovo svelamento
dell’autoreferenzialità, che non riguarda
tanto il linguaggio quanto il sistema
all’interno del quale si deve giocare – si
vedano per esempio le operazioni
concettuali di Damien Hirst o di
Maurizio Cattelan –, dichiarando da
subito che lo si conosce accettando
tutte le regole che, sole, ne perpetuano
l’esistenza.
Non si tratta più quindi di
cambiamento del gusto, ma del
significato attribuito all’arte e, di
conseguenza, di un cambiamento
politico – nel senso delle relazioni tra
individui sociali – che interessa il fare
arte e l’essere artisti: come cambierà
dunque la figura dell’artista nella
società? Come cambierà la forma
dell’arte?
La figura dell’artista, nell’immaginario
ancora tardoromantico e sentimentale
dell’Occidente, rappresenta l’essenza
della libertà, un individuo al quale la
società demanda un pensiero che può
esprimersi senza vincoli tanto da poter
essere addirittura antagonista ed
eversivo rispetto a quella stessa
società. Prerogativa teoricamente
ancora valida, ma con una tale serie di
varianti da vanificare e stravolgere
completamente questa caratteristica. Si
è osservato come la tendenza
semplificatrice e polarizzatrice che
stiamo vivendo non risparmi nessuno.
Da ciò consegue che la riconoscibilità
immediata di un artista è la qualità più
importante nel mondo dell’arte d’oggi,
che vive di semplificazioni sempre più
marcate, e quindi di sempre minor
capacità e volontà di diversificare, di
analizzare. Per fare un esempio
eclatante, basterà ricordare che
un’opera di Lucio Fontana con i “tagli”
sulla tela vale di più di una con i “buchi”,
che ha solitamente la stessa qualità
estetica ed è concettualmente identica,
e che per di più è stata realizzata con
un decennio di anticipo sull’altra, visto
che i primi buchi sono stati fatti nel
1947 e i primi tagli dieci anni dopo. E
questo accade perché i tagli sono
istantaneamente riconoscibili da
chiunque, anche dal collezionista o dal
pubblico più ignorante, mentre i buchi
sono meno conosciuti, e dunque
suscitano qualche perplessità in più.
Questo atteggiamento del mondo
dell’arte – e soprattutto dei collezionisti
– innesca una spirale perversa che
accentua in maniera irreversibile il
processo di semplificazione. La
domanda di lavori immediatamente
identificabili va aumentando a mano a
mano che aumentano i nuovi
collezionisti. Questa tendenza non è
mitigata dal fatto che, per alimentare
continuamente il mercato del lusso,
galleristi, critici, aste e istituzioni
cercano di recuperare artisti delle
medesime generazioni – soprattutto
passate, e oggi considerate
appartenenti a un periodo storico
appetibile e glamorous – per creare un
caso o una riscoperta che costituisce
per i collezionisti una costosa curiosità.
Gli aspiranti soci del club, in aumento
vertiginoso e generalmente molto
ignoranti, si avvicinano per prima cosa
agli artisti incontestabili, mentre solo un
gruppo minuscolo continua
nell’approccio sino a voler conoscere
anche tutti gli artisti magari grandissimi
ma di contorno. Questa seconda fase di
apprendimento richiede comunque un
briciolo di passione in più, ma è
assolutamente inutile per dichiarare al
mondo la propria appartenenza al
novero dei collezionisti globali, che
viene sancita dalla quantità di denaro
investito nell’operazione, a patto che
questo venga indirizzato verso le figure
canoniche già preconfezionate dal
mercato. A ogni modo, questo
meccanismo, per cui i capisaldi della
storia dell’arte contemporanea
diventano il fulcro di un gorgo che attira
verso di sé, e quindi verso il successo,
anche molti degli artisti che in un
determinato periodo storico erano loro
sodali e amici – nonostante la sua
evidente matrice economico-finanziaria
– non fa male alla conoscenza, e forse
contribuisce persino a incrementarla.
Il fenomeno del revival di certi
momenti artistici del recente passato
sta infatti animando il mercato dell’arte.
Dall’arte “esatta” degli anni sessanta
alla Pop dello stesso decennio ma
declinata fuori dagli Stati Uniti, all’“arte
ideologica” degli anni settanta, si
assiste a un fiorire di riscoperte, di
rivalutazioni, di nostalgie, che fanno
leva sull’aspetto mitopoietico del fare
artistico e talora su presunzioni storiche
prive di fondamento. Poco male: è
inevitabile e allo stesso tempo giusto
che la storia possa essere riveduta e
revisionata (termine pericoloso) ogni
due o tre generazioni, e a maggior
ragione la storia dell’arte, i cui princìpi
sarebbero per statuto quasi tutti “fuori
dalla storia”, e invece mantengono un
rapporto sempre contemporaneo con il
proprio linguaggio disciplinare. Se infatti
tutto dovesse corrispondere
storicamente al gusto dell’epoca in cui
le opere in questione sono state
realizzate, allora dovremmo ricordare –
per fare alcuni esempi squisitamente
italiani – che negli anni cinquanta e
sessanta Roberto Crippa era
infinitamente più apprezzato e quotato
di Fontana, e che, andando indietro nel
tempo, agli inizi del secolo scorso
un’opera del napoletano Antonio
Mancini valeva sul mercato molto di più
di una di Manet.
Tuttavia, questa condizione – di per
sé neutra e apparentemente scollegata
dall’attività e dai destini dell’arte dei
giovani e giovanissimi artisti – influenza
e rischia di limitare grandemente lo
sviluppo di nuove varianti linguistiche,
di attività sperimentali nel campo
dell’arte più giovane, perché nelle
scelte revivalistiche che ora dominano il
mercato l’asset è dato dal peso della
storia che garantisce la qualità di quelle
opere, di quegli artisti ora consacrati
anche dal mercato e così visibilmente
precursori rispetto alle generazioni
successive. Tutto questo sembrerebbe
contrastare con quanto già detto, dato
che si è fatto notare come la storia, e la
conoscenza storica, sia in fondo inutile
all’affermazione del nuovo detentore del
gusto, ma è anche vero che questa
storia fornita su di un piatto d’argento,
bell’e pronta, facile perché già scremata
e garantita dal sistema, risponde
perfettamente alla narrazione dell’arte e
dei suoi cultori, che in questo modo
riempiono agevolmente un tassello che
al tempo della modernità sarebbe
costato anni di frequentazioni e di studi,
per quanto non ortodossi. Per questo
motivo si guarda molto a ciò che sta
indietro e si è meno disposti nei
confronti dei giovani, ai quali per di più
non è concesso il tempo per maturare
in un ambiente relativamente protetto. Il
giovane artista viene costretto a tentare
da subito la strada dell’affermazione
totale e risolutiva, pena la ricerca
immediata di qualcun altro e lo scarto
definitivo, come se bastasse un solo
provino, in mezzo a quello di altre
migliaia di aspiranti attori, per decretare
il successo di un singolo e la vittoria di
un premio Oscar. È più conveniente
essere garantiti da qualcosa – la storia,
per esempio – o da qualcuno – un
gallerista famoso, un collezionista
opinion leader – che creare
autonomamente il proprio gusto, con il
rischio di non essere capiti e quindi non
accettati nel consesso della fratellanza
artistica.
Appare di conseguenza
comprensibile come lo spirito
rassicurante del revival spinga a
rifugiarsi nel passato recente. A questo
si deve aggiungere che tutte le culture
artistiche meno note, che si sono
affacciate al mondo dell’arte nel terzo
millennio in virtù della globalizzazione
culturale, sono impegnate in una sorta
di “costruzione ex novo” della propria
storia, che si deve tentare di far
conoscere per presentare un sistema
culturale completo e pronto per essere
immesso in quello globale. Ciò
comporta la presenza improvvisa non
solo di nuovi collezionisti, ma
soprattutto di nuovi artisti che vanno a
ingrossare le file di un esercito
numericamente inimmaginabile prima di
ora. L’esempio della Cina può essere
calzante: considerato che in Italia ci
sono circa cinquantamila artisti
certificati, se vigesse la stessa
percentuale tra la popolazione cinese,
allora in Cina ci sarebbero – e forse ci
saranno tra qualche anno – un milione
di artisti! Una quantità assolutamente
sproporzionata rispetto alla capacità di
assorbimento della componente
“distributiva”, vale a dire le gallerie, i
collezionisti, i musei, le aste, tutti
coloro, cioè, che oggi si potrebbero
definire “influencer di lusso”, con un
termine preso a prestito dalla
comunicazione via social. Si può
ribattere che parallelamente al numero
di artisti crescono anche le altre
componenti del sistema, che saranno
quindi in grado di consumare la
produzione più vasta, ma non è così. Lo
sviluppo proporzionale di questi
elementi, rispetto al numero degli artisti,
è notevole ma non omogeneo, dato che
la “verticizzazione” delle scelte
comporta che tutti cerchino di
accaparrarsi gli stessi nomi, le stesse
opere, contribuendo così alla
semplificazione, se non addirittura alla
desertificazione, dello scenario che
davvero conta e alla frustrazione della
gran massa degli altri. Si dirà che è un
processo inevitabile, e che questi
mutamenti ancora non dimostrano quel
che è stato affermato all’inizio del
capitolo, e cioè che il senso dell’arte sta
cambiando rapidamente, se non è già
cambiato del tutto. Di per sé, infatti,
l’aumento del numero degli artisti
testimonierebbe semmai della maggior
difficoltà di affermazione, di una lotta
più dura per emergere, ma non
necessariamente di una trasformazione
radicale dello statuto dell’arte.
Invece, lo abbiamo già detto, siamo
convinti che la quantità cambi anche la
qualità, insieme a tutti gli altri
mutamenti sistemici già in atto. Come la
quantità del denaro investito in arte ha
modificato prima i valori interni al
sistema e di seguito la sua percezione
esterna, così la quantità degli artisti ha
contribuito alla rottura del fragile
equilibrio su cui si reggeva tale sistema
valoriale. Se il problema del
reclutamento degli artisti, cioè del
giudizio sul loro lavoro, oggi è quasi
esclusivamente appannaggio delle
gallerie – o delle fondazioni che fanno
capo a un solo proprietario, come
quelle di François Pinault –, quando in
un tempo non troppo lontano era il
prodotto di una sinergia tra critico e
gallerista; se non esiste più la
possibilità per un artista di una lenta
maturazione e di una crescita graduale,
tanto che le sue possibilità di
affermazione sono di diventare subito
un fenomeno internazionale o di venire
riscoperto in tarda età nel corso di uno
dei vari revival; se la sua qualità si
misura su quella della galleria o della
fondazione che lo sceglie, e a sua volta
la qualità di queste si misura in base
alla loro determinazione e capacità di
investimento nel tempo; se tutto ciò si è
attuato, allora si comprenderà come
mai i parametri dell’equilibrio moderno
del sistema dell’arte siano saltati, e
come tutti quegli ammortizzatori
culturali, che talora consentivano
all’artista di prendere strade alternative
per trovare un posto riconosciuto nel
sistema, si stiano drasticamente
riducendo, e perché gli sia dato come
unico sbocco professionale quello di
essere scelto da uno dei ristretti gruppi
di potere in grado di decretare la sua
“esistenza in vita” nella società globale.
Da questo ideale certificato di garanzia
vengono quindi esclusi tutti i
protagonisti minori in grado di avere
ancora qualche residuo di credibilità
culturale in senso però locale, che
ancora esistono ma che non hanno più
alcuna rilevanza nel grande gioco. Del
resto, con un paragone calcistico, un
tempo erano i campionati nazionali a
focalizzare l’attenzione degli
appassionati, mentre oggi sono solo
propedeutici alla Champions League,
che è diventata il vero protagonista del
gioco del calcio, in Europa come in
America, con il suo equivalente della
Copa Libertadores.
Appare dunque chiarissimo come le
possibilità contrattuali degli artisti
attualmente sul mercato siano
ridottissime, e come il loro
atteggiamento nei confronti del sistema
non possa più essere quello
dell’orgogliosa libertà delle
avanguardie, o della bohème
tardottocentesca, e neppure quello
della ricerca di modelli alternativi di
diffusione, come era stato dichiarato tra
gli anni sessanta e settanta del secolo
scorso. Deve essere invece un
atteggiamento in realtà molto più
acquiescente, diplomatico e politico, per
nulla rivoluzionario ma neppure
blandamente innovativo, perché le
regole stabilite al di sopra dell’artista
non lo contemplano come attore, ma
come merce, come “materiale umano”,
senza possibilità di voto. Il risultato
immediatamente visibile è una sorta di
sudditanza nei confronti di chi si pensa
possa favorire l’avvicinamento
dell’artista al vertice del sistema e una
generale piaggeria dei nuovi proletari
intellettuali – coloro che possono agire
in termini di linguaggio e non di finanza
– nei confronti del potere economico
applicato all’arte, ma la conseguenza
peggiore potrebbe invece svilupparsi
nel medio termine, e far apparire questo
fastidioso atteggiamento da cortigiano
come qualcosa di folkloristico. Di fatto,
per poter essere selezionati a
partecipare al grande giro, bisogna
trovarsi nel posto giusto al momento
giusto e avere anche il prodotto giusto,
e se questo viene vagliato globalmente
da una cerchia sempre più ristretta di
selezionatori il rischio reale sarà quello
di un costante impoverimento del
ventaglio di proposte possibili, e di
converso un continuo inseguimento da
parte degli artisti di quel gusto che
possa garantire loro una visibilità
mondiale. In altre parole, l’artista
cercherà, anche inconsciamente, di
adeguare le proprie opere ai dettami del
gusto suggeriti – ma di fatto imposti –
dai pochi realmente in grado di renderli
famosi.
Di per sé, questo adeguamento a
codici linguistici riconoscibili e accettati
è ciò che accade nei periodi meno
innovativi della storia dell’arte, e in
questa nostra epoca è acuito dal fatto
che tutti gli artisti provenienti da culture
extraoccidentali non considerano la
ribellione al linguaggio vigente come
una priorità, perché il loro concetto di
arte non muove storicamente e
concettualmente da questa idea di
antagonismo, ma semmai dal contrario,
dalla creazione di un’armonia
universale, legata alla condivisione di
modelli stabiliti. In questo senso, per
una discreta parte degli artisti presenti
oggi sulla scena questo atteggiamento
non viene percepito come una
diminutio, ma come un semplice dato di
fatto, o addirittura come una norma
rispettata, mentre nell’ambito della
tradizione occidentale si tratta di una
frustrazione a volte insostenibile.
Dunque, un altro sintomo di incertezza
statutaria e sociale dell’artista si
aggiunge nel valutare le componenti del
sistema, facendo pensare in generale a
forti ripercussioni sul futuro dell’insieme
produzione/comunicazione dell’arte, in
cui la comunicazione diventa ancor più
preponderante, sino quasi a cancellare
la possibilità da parte degli artisti di
proporre qualcosa di nuovo, se questo
non riesce a superare le maglie di
controllo del gusto dei pochi reggenti,
dei pochi “proprietari” dei mezzi di
diffusione. In questo modo sembra
quasi configurarsi ciò che Marx aveva
analizzato a proposito della proprietà
degli strumenti di lavoro che, sfuggita
dalle mani dei produttori veri e propri,
dei prestatori d’opera, crea la dicotomia
tra capitale e lavoro. In questo caso
specifico, una versione più sottile
dell’alienazione della forza-lavoro
lascerebbe agli artisti tutte le possibilità
di produzione, compresi i mezzi di
produzione stessa del lavoro, ma di
fatto impedirebbe loro di diffondere il
prodotto, cioè le opere, lasciandole
inerti e invisibili all’interno della
metaforica “fabbrica”.
Di fatto, il grande evento cui stiamo
assistendo nel mondo dell’arte è la
progressiva scomparsa dell’azione
innovatrice della concorrenza. Se la
concorrenza scompare tra le varie
componenti del sistema dell’arte,
contemporaneamente scompare quella
all’interno del linguaggio artistico.
Concorrenza significa
essenzialmente confronto tra modelli
differenti, e in arte questo si esprime
attraverso linguaggi formali
diversamente codificati, cui addirittura il
singolo individuo/artista può apportare
significativi mutamenti e aggiunte.
Tuttavia, se di fronte a un’“offerta” che è
ancora abbastanza diversificata e
articolata la domanda è invece ridotta
nelle possibilità linguistiche, perché il
gusto dominante non è più soggetto ad
alcuna concorrenza ma si è
cristallizzato nelle scelte di quei pochi
che contano, il risultato nel medio-lungo
termine sarà inevitabilmente una sorta
di depressione nella produzione di
nuove proposte da parte degli artisti.
Sarà una specie di appiattimento del
gusto su posizioni linguistiche
sclerotizzate, meno disposte al
cambiamento, tanto abituate alla
consuetudine da far fatica a riconoscere
e ad accettare la novità, cui il sistema
non permetterà neppure di avvicinarsi
alle soglie dell’ipotetico “palazzo del
potere e della scelta”. Dalla parte
opposta, dalla parte della produzione,
degli artisti, si assisterà alla progressiva
espunzione della diversità e della
differenza, che non avranno neppure il
tempo per potersi affermare. Si
richiederà, infatti, un costante ricambio
di nomi e un apparente ricambio di
opere in una società sempre più
velocizzata e allo stesso tempo sempre
più standardizzata, che non consentirà
il confronto con linguaggi ed
espressioni troppo diversi dal gusto
corrente, bocciandoli irrimediabilmente
e dimenticandoli, in attesa della “nuova
collezione” che cambierà gli artisti ma
non i codici del loro linguaggio. Così gli
artisti, ridotti ai minimi termini in quanto
a potere contrattuale, non potranno far
altro che adeguare prima
impercettibilmente – poi in maniera
sempre più evidente – il proprio
linguaggio, che dovrà essere
immediatamente percepito come
contemporaneo, perché un eccesso di
novità linguistica non sarebbe
compatibile con la rozzezza dei codici
invalsi a partire dal terzo millennio, né
con la veloce sommarietà di percezione
imposta dal sistema.
Un’“arte obbediente” sarà dunque il
risultato finale di un sistema che ha
sostanzialmente trasformato una vivace
concorrenza in un oligopolio. Di sicuro
un sistema oligopolistico è alla fine più
stabile rispetto alla rivoluzione
permanente perseguita dalla
concorrenzialità, una stabilità che però
si paga in termini di novità linguistica,
che dovrebbe essere ancora una delle
caratteristiche basilari della disciplina,
seppure minata dall’intervento di altre
definizioni di “arte”, mutuate da concetti
extraeuropei, più inclini a non insistere
troppo sull’aspetto radicalmente
innovativo della produzione artistica.
Alcuni esempi sembrerebbero
contraddire questa affermazione: mai
come oggi l’arte si occupa del sociale,
degli ultimi, dei diseredati, e fra chi si
dedica a questi temi troviamo molti
artisti che provengono da modelli non
certo rivoluzionari, che non rinnegano la
propria tradizione e che però hanno
adottato questa nuova visione (il primo
nome che viene alla mente potrebbe
essere quello del cinese Ai Weiwei),
cosa che confuterebbe l’idea di un’arte
“obbediente”, e che invece riporta le
coscienze alla considerazione e alla
presa d’atto delle infamie del mondo.
Ma non si deve confondere la scelta di
certi temi con la libertà linguistica.
Anche un’arte socialmente e
politicamente impegnata può essere
obbediente. Anzi, l’analisi di come
questi temi vengano affrontati e portati
in primo piano potrebbe mostrare, per
esempio, come l’idea del politicamente
corretto rientri nei codici e nei soggetti
accettati, tanto più che l’appartenenza
di questi temi al comparto arte, invece
di accentuarne l’importanza, ne attenua
l’impatto presso il pubblico, anche
presso quello professionale, proprio
perché si tratta di un argomento e di
una tematica accettabile e addirittura
ben accetta, in quanto contribuisce a
mantenere viva la grande narrazione
dell’arte. Non è un caso che i codici con
cui ci si avvicina a questi argomenti si
assomiglino pericolosamente tra loro:
l’alterità a senso unico è una delle
manipolazioni più sottili della libertà.
Conclusioni: imprevisti
e probabilità

Tutte le pagine di questo volume sono


fortemente critiche nei confronti della
situazione che si è venuta a creare nel
sistema dell’arte attuale, per cui sembra
pleonastico domandarsi se si consideri
spiacevole questa condizione. Tuttavia,
è necessario farlo per cercare di
sfuggire a logiche nostalgiche, magari
dettate da un vago senso di rimpianto
per un tempo in cui si aveva la
sensazione di “contare di più”, di poter
incidere sensibilmente sull’arte e sul
suo mondo, anche da posizioni solo
intellettuali, non sostenute
necessariamente da potentati
economici. Ma chi non si trova in
questa condizione, e guarda all’arte da
quando è in vigore questo nuovo
atteggiamento, potrebbe accettare in
maniera acritica i nuovi statuti e i nuovi
codici di percezione e di
comportamento, senza sentirsi
defraudato di nulla, così come un
monaco del Medioevo, cioè
l’intellettuale per eccellenza di quel
periodo, guardava alla rozza Vergine
con il Bambino scolpita nella pietra che
aveva magari commissionato
all’artista/artigiano più abile del
momento, senza alcun rimpianto nei
confronti di una Venere ellenistica di
qualche secolo prima. Questo
comprensibile relativismo è però
accettabile sino a un certo punto,
perché in gioco c’è una trasformazione
radicale e duratura nel concetto stesso
di arte. Se si accetta che l’arte può
essere obbediente e che la diversità e
la battaglia delle idee vengono
penalizzate invece che esaltate, allora il
risultato sarà quello di decretare la fine
di un ciclo millenario, l’abbandono della
definizione tradizionale, la scomparsa –
o il fortissimo rallentamento –
dell’innovazione linguistica
abitualmente attribuita all’arte e il suo
definitivo passaggio nella più vasta
categoria dello “spettacolo”. Di fronte a
tali conseguenze si può essere scettici
e negare che le premesse analizzate
sinora portino a questi risultati, ma è
difficile pensare che anche il più cinico
dei mercanti d’arte o il più insensibile e
indifferente componente di un pubblico
qualsiasi dichiari il suo entusiasmo per
una condizione simile. Ma se allora si
può essere genericamente concordi nel
giudicare negativamente questa
condizione, è necessario chiedersi se vi
siano vie d’uscita, possibilità virtuose,
uno sviluppo futuro per cui correre ai
ripari, senza pensare che questo
scenario sia ineluttabile: probabilmente,
quando gli abitanti dell’Isola di Pasqua
abbatterono l’ultimo albero,
condannandosi all’estinzione, si resero
conto del mortale cul-de-sac in cui
avevano costretto la loro società, ma
ormai era troppo tardi.
Naturalmente, l’eventuale perdita di
importanza di un linguaggio non
equivale alla scomparsa materiale di
una società, ma si tratterebbe
comunque di una specie di “apocalisse
entropica”, dove, cioè, la fine non
giungerebbe come distruzione
terminale, ma come totale
acquietamento e adeguamento ai
canoni di un gusto sempre meno
avvezzo alla complessità. Tuttavia, di
fronte a un intero volume improntato al
“pessimismo della ragione” è il caso di
concludere con alcuni indizi che fanno
sperare non solo nell’“ottimismo della
volontà”, ma anche in un barlume di
“ottimismo della ragione”, che lascia
intravedere alcune possibilità di
sviluppo leggermente differenziate dal
blocco granitico di questo “Big Brother”
artistico.
Ipotizzare un ritorno alla situazione
precedente è assolutamente
impensabile, quasi ridicolo: una volta
spezzati gli equilibri e ricostruiti su altre
basi – non più la cultura, ma la potenza
–, è impossibile ricreare in vitro una
condizione che, tra l’altro, sarebbe
avversata da molti, per lo meno da
coloro che ritengono di guadagnare da
questo nuovo assetto. Nondimeno, è
necessario analizzare quegli elementi e
quelle azioni che potrebbero favorire
l’attuazione di questo proposito, o
comunque indirizzare a tal fine lo
sviluppo del nuovo sistema dell’arte.
Posto che quest’ultimo si è ormai
assestato su nuovi presupposti in cui il
fattore economico è preponderante,
quali potrebbero essere gli elementi che
potrebbero mitigare questo strapotere e
riportare in gioco la diversità della
produzione artistica e la dialettica tra le
parti?
Si è parlato di evidente oligopolio
all’interno del sistema dell’arte, tuttavia
è impossibile che si trasformi in un
monopolio: le differenze culturali e i
desideri di affermazione come
influencer globali del gusto prevedono
comunque una sorta di “senato” o, se si
vuole, un “club” ristretto ove tutti si
sentono alla pari e in grado di
competere con le stesse armi; dunque
la piramide del potere assomiglia più a
una piramide tronca, sul cui piano
superiore si posizionano quei pochi in
grado di decidere delle sorti di molti. Il
desiderio di far parte di questo club
attirerà nuovi soggetti, e anche se la
maggioranza di loro si adeguerà alle
regole, forse alcuni vorranno adottare
strategie diverse per ottenere più
velocemente risultati visibili, o per
affermare la loro nuova presenza in
cima. Tutto ciò ha sempre a che fare
con la condizione di status symbol
attribuito all’arte, ma all’interno di
questa grande categoria i modi per
rendere i singoli artisti o le opere status
symbol di alta gamma si possono
relativamente differenziare. Pensare di
eliminare dalla percezione attuale
dell’arte questo predicato, per far
ritornare l’opera a essere puramente e
intellettualmente un “processo di
pensiero visualizzato”, è altrettanto
impossibile come far ritornare l’intero
sistema al suo modello “moderno”, per
cui sarà comunque necessario adottare
una strategia che derivi dal marketing,
pena l’incomprensibilità e l’invisibilità
dell’azione intrapresa da parte del
sistema.
Si può decidere di andare incontro al
gusto corrente, ma si può anche
giocare alla sottrazione e all’esclusività,
alla gestione di un prodotto che sia
talmente elitario, e subito
dichiaratamente tanto esclusivo, da
provocare il desiderio indotto di essere
tra i pochi in grado di possederlo e di
capirlo. Per fare un paragone con la
moda, esistono grandi stilisti che
agiscono su scala industriale e devono
affermare immediatamente la loro
presenza con loghi sempre più grandi e
visibili, ma esistono anche stilisti più
riservati ed esclusivi, di nicchia, che
fanno in modo che il loro prodotto si
mimetizzi e sia visibile soltanto a coloro
che posseggono la chiave interpretativa
che gli consente di identificare il capo
indossato e li faccia sentire
appartenenti alla più esclusiva delle
tribù. Lo status symbol può dunque
essere per tutti come per una futura
élite, e se il prodotto di massa è quello
che permette di conseguire i risultati
economici e di diffusione maggiori, la
segretezza esclusiva del prodotto
elitario può essere quasi altrettanto
efficace. Non efficace dal punto di vista
economico e mercantile, ma della
presenza e conoscenza invece sì. In
Cina, per esempio, seguendo una
tradizione che assomiglia a quella della
nostra arte antica, la gestione e il
possesso esclusivo dell’intera
produzione di un artista sono una nota
di merito, e non, come potrebbe
apparire, la singolare fissazione di una
mente eccentrica o di un gruppo avulso
dalle relazioni ortodosse del mercato
dell’arte, tanto che uno degli aspetti
della “nuova frontiera” del commercio
dell’arte contempla proprio questo
rapporto di esclusività, da stipulare “a
monte” della fama dell’artista, cioè
prima che questo diventi estremamente
noto. Ciò detto, nonostante ancora una
volta la figura dell’artista appaia come
marginale nel gioco per la celebrità,
questa possibilità sarebbe una reazione
utile e favorevole alla differenziazione
dei prodotti culturali tangibili – le opere
d’arte –, e quindi alla sopravvivenza
degli artisti, dei loro linguaggi
differenziati, del confronto delle idee.
Infine, rimane anche la possibilità più
radicale, quella dell’affermazione di un
nuovo linguaggio artistico, che venga
considerato come tale da tutti, che
magari sfrutti le potenzialità
comunicative dei nuovi strumenti quali
Internet, la rete, i social eccetera.
Nonostante a oggi non si sia visto
ancora nulla di simile, questa resta
un’opzione sotto gli occhi di tutti, quasi
una grande speranza che, per quanto
riguarda l’arte, dovrà risolvere almeno
molti dubbi legati probabilmente alla
memetica e all’autorialità. L’argomento
occuperebbe molti altri volumi, per cui
qui si può solo accennare al problema:
memetica come unità culturali che si
autopropagano potrebbero essere
considerate le fake news, ma anche
tutte le immagini virali amate e
rielaborate a man a mano che si
diffondono, e questo potrebbe costituire
il repertorio cui i nuovi artisti
attingerebbero, innescando
contemporaneamente un meccanismo
di distruzione dell’autorialità definita (chi
è l’autore vero di un’immagine
elaborata infinite volte? Come si
potrebbe possedere?). È un’ipotesi
estrema, e probabilmente vi sono molti
stadi intermedi tra questo futuro e la
contemporaneità esistente. Anche in
questo caso, tuttavia, per sopravvivere
e guadagnare tempo da dedicare alla
propria affermazione in ambienti
significativi gli artisti dovranno mettere
in atto una strategia comportamentale e
produttiva simbiotica con il contesto in
cui operano, almeno fino a quando la
conquistata e consolidata notorietà non
consenta loro di liberarsi delle nuove
convenzioni e di fare i capricci.
Gli e-book di Johan & Levi

Biografie
Flaminio Gualdoni, Piero Manzoni,Vita
d’artista, ISBN 9788860102478
Catherine Grenier, Alberto Giacometti.
Biografia, ISBN 9788860102348
Elena Pontiggia, Arturo Martini. La vita
in figure, ISBN 9788860102331
Elena Pontiggia, Mario Sironi. La
grandezza dell’arte, le tragedie della
storia, ISBN 9788860102232
Enrico Baj, Automitobiografia, ISBN
9788860102225

Saggi d’arte
Simon Garfield, In miniatura. Perché le
cose piccole illuminano il mondo, ISBN
9788860102447
Philippe Costamagna, Avventure di un
occhio, ISBN 9788860102027
Il cinema degli architetti, a cura di
Vincenzo Trione, ISBN 9788860102034
Tommaso Trini, Mezzo secolo di arte
intera. Scritti 1964-2014, ISBN
9788860102041
Arthur C. Danto, Che cos’è l’arte, ISBN
9788860101976
Marco Meneguzzo, Breve storia della
globalizzazione in arte (e delle sue
conseguenze), ISBN 9788860101334

Non solo saggi


Carole Talon-Hugon, L’arte sotto
controllo. Nuova agenda sociale e
censure militanti, ISBN 9788860102454
Angelo Crespi, Costruito da dio. Perché
le chiese contemporanee sono brutte e
i musei sono diventati le nuove
cattedrali, ISBN 9788860102096
David Balzer, Curatori d’assalto.
L’irrefrenabile impulso alla curatela nel
mondo dell’arte e in tutto il resto, ISBN
9788860101983
Angelo Crespi, Ars Attack. Il bluff del
contemporaneo, ISBN 9788860101327

Parole e immagini
Nicholas Mirzoeff, Come vedere il
mondo. Un’introduzione alle immagini:
dall’autoritratto al selfie, dalle mappe ai
film (e altro ancora), ISBN
9788860102324
Bruno di Marino, Hard Media. La
pornografia nelle arti visive, nel cinema
e nel web, ISBN 9788860101396
Elio Grazioli, La collezione come forma
d’arte, ISBN 9788860101440
Marco Tonelli. Pino Pascali. Il libero
gioco della scultura, ISBN
9788860101501
Stefano Pirovano, Forma e
informazione. Nuove vie per l’astratto
nell’arte del terzo millennio, ISBN
9788860101372

Arti | Economia
Alessandro Monti, Il MAXXI a raggi X.
Indagine sulla gestione privata di un
museo pubblico, ISBN 9788860101549
I festival del cinema. Quando la cultura
rende, a cura di Mario Abis e Gianni
Canova, ISBN 9788860101402
Adriana Polveroni, Marianna Agliottone,
Il piacere dell’arte. Pratica e
fenomenologia del collezionismo
contemporaneo in Italia, ISBN
9788860101419

Il punto
Rinaldo Censi, Copie originali.
Iperrealismi tra pittura e cinema, ISBN
9788860101358
Marco Enrico Giacomelli, Di tutto un
pop. Un percorso fra arte e scrittura
nell’opera di Mike Kelley, ISBN
9788860101365
Michele Dantini, Macchina e stella. Tre
studi su arte, storia dell’arte e
clandestinità: Duchamp, Johns, Boetti,
ISBN 9788860101488
Ando Gilardi, La stupidità fotografica,
ISBN 9788860101457
Silvia Mazzucchelli, Oltre lo specchio.
Claude Cahun e la pulsione fotografica,
ISBN 9788860101495
Marco Belpoliti, Il segreto di Goya, ISBN
9788860101426
Massimo Minini, Kiefer e Feldmann.
Eroi e antieroi nell’arte tedesca
contemporanea, ISBN 9788860101433
Roberto Dulio, Un ritratto mondano.
Fotografie di Ghitta Carell, ISBN
9788860101518
Federico Ferrari, L’insieme vuoto. Per
una pragmatica dell’immagine, ISBN
9788860101471
Marco Meneguzzo, Arte programmata
cinquant’anni dopo, ISBN
9788860101310
Luca Scarlini, Andy Warhol superstar.
Schermi e specchi di un artista-opera,
ISBN 9788860101303
Clément Chéroux, L’immagine come
punto interrogativo o il valore estatico
del documento surrealista, ISBN
9788860101464
Marco Belpoliti, Camera straniera.
Alberto Giacometti e lo spazio, ISBN
9788860101341
© 2019 Johan & Levi Editore
www.johanandlevi.com

Progetto di copertina
Silvia Gherra

Collana
Non solo Saggi

ISBN 978-88-6010-250-8

Il presente volume è coperto da diritto d’autore


e nessuna parte di esso può essere riprodotta o
trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi
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