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STORIA DELL’ARTE CONTEMPORANEA

Prof. Roberto Cresti

05/02/2020
Articolo letto sulla stampa: in America, nell’Università di Yale, si sta discutendo se mantenere
l’insegnamento della storia dell’arte del Rinascimento, in quanto non risponderebbe più alle esigenze della
storia contemporanea. Chi conosce bene il Rinascimento, sa che c’è qualcosa che non torna: si assegna
all’arte una modalità, un’intenzione non propria dell’arte, ma di un periodo, che ha posto le premesse per
sviluppi plurisecolari, ma che in realtà porta in sé una precarietà e preferibilità costitutive di ogni stile e
epoca. La storia è vita, o lo è stata, e noi la dobbiamo studiare in quanto espressione della vita. Viviamo nel
cambiamento, e il fatto che oggi ci siano più identità (Alessandria antica - 6 identità) ci fa capire che c’è
comunque una dimensione instabile della vita (“phanta rei” di Eraclito). Dell’arte rinascimentale si sono
presi concetti relativi a un tempo, a un periodo, senza guardare la vita; e il relativismo è saggezza, ma
esistono più visuali. È saggio capire che il valore, l’identità, l’opinione sono varie, cosa che ci conduce a una
condizione di apertura alla vita. Quando ci sono delle alterità, queste ci portano a conoscere valori nascosti.

Vale la pena cercare, la cosa importante è non pensare di avere verità. “Veritas filia temporis”, ma la verità
è anche varietà. E ciò vale anche per la storia dell’arte, non esistono verità assolute, c’è un senso di
complessità.

Antonio Banfi, grande filosofo tra le due guerre. “La norma deve balzare dalla vita stessa con una coscienza
continuamente ripresa.”: la norma è soggetta a una trasformazione a contatto con la vita, e così anche
l’arte a contatto con la vita è soggetta a continua trasformazione.

Il punto importante è non ancorarsi a un’idea di bellezza di cui l’arte è espressione, l’arte è MEDIAZIONE DI
TANTE BELLEZZE, porta con sé nei secoli una complessità di valori e di bellezze. L’arte fa in modo di far
coabitare i fatti, poi ognuno studierà ciò verso cui sente desiderio (-> relativismo), condividendo tutti i punti
di vista che vuole. Ogni epoca ha i suoi valori, ideali e idee di bellezza.

 Possiamo accostarci all’arte in modo diverso, ossia cercando di comprendere se essa costituisca
effettivamente una modalità della vita, del nostro pensiero, che si costruisce dal basso, dai nostri
desideri e dalle nostre istanze e idee di molti giorni?

Si doveva accettare qualsiasi cosa un tempo, ma la domanda ora è: che cosa hanno in comune coloro che si
occupano d’arte? Allora si cerca, si leggono libri. Sono importanti i libri che si rileggono, non quelli che si
leggono.

Nietzsche: “Siate orgogliosi, lenti lettori.”.

Punto fondamentale è cercare in un testo, in un’immagine un’istanza di vita, un’esigenza, un motivo


antropologico. Se avessi cercato solo la bellezza, se avessi visto solo quella data cosa, non avrei compreso,
non avrei capito, ci sono tante tante cose che con pazienza si manifestano a noi.

La bellezza è passiva, è questo il fatto: è una ‘ielofania’, una cosa che appare e di cui io fruisco, che non
richiede nulla, si rivela e in tal modo è la quintessenza della pigrizia. Io devo voler capire, e la comprensione
delle cose non è di questo tipo, è una cosa che nasce dal movimento di volontà di capire.

Denis Diderot, fondatore dell’“Encyclopédie”. “Bellezza: trovo bello ciò che genera in me e fuori di me dei
rapporti.”. Ciò che chiamiamo ‘bellezza’, per non essere frainteso deve essere inteso come qualcosa che
crea relazioni, diverso dalla dimensione statica e distante che viene verso di me e mi illumina di immenso.
La bellezza è un insieme di rapporti generati dalla forma dell’arte, e i capolavori sono quelli che creano
un’infinità di rapporti, non vivono da soli. Il capolavoro è ciò che stimola, che fa vedere una cosa, e un’altra.
La storia dell’arte è un insieme di relazioni, di rapporti di cose e forme, nel divenire della vita. Ci sono tre
nomi nel contesto della cultura del Novecento, che possono aiutare a comprendere il significato dell’arte in
termini antropologici: Bergson, Jung, Heidegger. Altra chiave fondamentale è oscura, ci arriveremo poi.

HENRI BERGSON (Parigi, 1859 -Parigi, 1941).

Filosofo, uno degli ultimi saggi del Novecento, forse anche dell’Occidente, la sua filosofia è una scrittura,
non è un sistema chiuso (Nietzsche). Era parente di Proust, ha un modo proprio di vedere la scrittura nei
libri, una mente speculativa di prim’ordine con una formazione classica. Era ebreo. Abbiamo l’esercito
tedesco dal 25 luglio 1940, non si sottrasse a quel terribile destino, ha in questo modo sentito la vita nei
suoi chiari-scuri. Era interessato al contatto diretto tra Io e vita, senza schermi. I tre filosofi fanno i conti
con il primo Romanticismo tedesco (Schlegel, romanticismo dell’“Athenaeum”, i circoli dei ‘primi
romantici’). Bergson si è anche dedicato a Fichte (tema dell’io), il Romanticismo è sentito come tema
decisivo, di svolta, nel quale si è tentato disperatamente di riunire il pensiero alla vita.

Friedrich Schlegel (“Athenaeum”, 1798-1800, sei fascicoli fondamentali). “Non si può dire di essere filosofi,
perché esserlo significa cessare di divenirlo.” - Essere significa divenire, c’è un’ascendenza eraclitea, per un
pensiero è di continua rivoluzione, di essere dentro la vita e di accorciarne i tempi, è un pensiero legato
alla vita, e per i romantici è l’ARTE il pensiero che consente il legame con la vita. Se si è scrittori romantici,
si scrivono libri che sono per esempio raccolte di lettere (Goethe, “I dolori del giovane Werther” -
narrazione sublimata di un fatto di cronaca - anni ‘70 del Settecento). C’è tutto un movimento nella
seconda metà del Settecento che porta a questo, l’idea di un ritrovato legame con la vita, e il frutto più
maturo per noi è LEOPARDI, con l’idea del poeta di entrare nello spirito della lingua (F. Flora: “Il più libero
poeta italiano in numeri perfetti” - uso del metro stabilito della nostra poesia, ma anche rinuncia in gran
parte alla rima, idea di parola che risuoni umana all’orecchio); era una delle letture favorite di Nietzsche, in
quanto abbiamo un legame oscuro, inquieto con la vita (senso di crisi). La metamorfosi successiva rispetto
al romanticismo, negli anni ’30 e ‘40, è il REALISMO, la necessità di entrare in contatto con la vita,
necessità romantica che perde la mistica, la concezione medievale, la mentalità romantica ha bisogno del
contatto con la vita. C’è un’istanza di vita e di realtà nel realismo che è propria del romanticismo.
L’attitudine romantica è poi ripresa nel Novecento dai tre filosofi.

La questione fondamentale è però anche - entrando nel contesto antropologico dell’arte - stabilire perché
a un certo momento, per alcuni filosofi, pittori, poeti e scrittori, si sente la necessità di ACCOSTARSI ALLA
VITA. Si vuole qualcosa o quando la si sente perduta, o quando si sente il pericolo di perderla. Non
casualmente la vicenda romantica e quella pre-romantica iniziano ai tempi della Rivoluzione Industriale
(seconda metà del Settecento - nascita del macchinismo moderno, la visione del mondo è tutta ridotta
all’economico, si costringe il reale all’interno dei processi produttivi), è qui che nasce il bisogno
dell’INFINITO, è questo il tempo della MEMORIA. Nei tempi in cui si comincia già a parlare in Inghilterra di
un inglese standard, esce il primo Dizionario di inglese prodotto da S. Jhonson nel 1755, in
contemporanea con l’uscita dell’”Encyclopédie”, e anche contemporanee sono le grammatiche inglesi.
Come mai a un certo punto i poeti romantici in certi casi alimentano i legami con i dialetti? Ciò avviene
soprattutto nel parlato (Keats - “Cookery School”), in contrapposizione a un inglese normativo
(Wordsworth, Coleridge, “Lyrical Ballads” - Vecchio marinaio che porta con sé caratteristiche di
nomadismo, follia, contrapposte alla concezione di standard, di definizione, di economia e mercato, vicini
più all’eccentrico), ci sono istanze fondamentali dello sviluppo di un pensiero non chiuso in categorie
standard (pittura - paesaggismo romantico, istanze nei paesaggi infinti di Turner).

Friedrich Schelling (anni ‘20 dell’Ottocento). “Abbiamo mangiato molto più di quanto possiamo digerire.”.
Necessità di qualcosa che liberi, che non chiuda, idea di qualcosa di anti-economico, indispensabile
all’essere umano (Marcuse - Se diventa solo economico è “un uomo a una dimensione”, quella pratica).
Allora ecco un punto importante in termini antropologici, l’arte che cerca sempre di correre all’opposto
dei valori prevalenti in una certa epoca.

Jung. Arte come “movimento enanziodromico” (= dal greco, “corsa nell’opposto”). E allora qui
antropologicamente è possibile fare un’ipotesi: i grandi movimenti artistici e sommovimenti sono molto
spesso ‘movimenti verso l’opposto’, come se gli artisti volessero risarcire l’umanità in un certo tempo di
ciò che ad essa è stato tolto. Se usiamo questo elemento ipotetico pensiamo che la pittura di Piero della
Francesca abbia un implicito naturalismo (es. “Madonna del parto” - Presenza forma umana tipica della
pittura del primo Rinascimento, in opposizione alla metafisica medievale, c’è senso della trascendenza,
all’idea che fosse importante soltanto l’invisibile; anche il Medioevo è pieno di elementi naturalistici, ma
nel Quattrocento maturano in termini diversi - marchigiano con doppio linguaggio, Gentile Da Fabriano).
All’inizio del Rinascimento c’è un movimento verso il reale, il mondo, si vuole far vedere ciò che si può
anche toccare, ci si allontana dall’astratto (Masaccio - idea del corpo e della fisicità - da Tarantello a
Brunelleschi, dolore e pathos verso la vita). Dato essenziale è che tutta un’epoca, il Quattrocento in
particolare, muove contro l’astrattezza (astrattismo Medievale che ha una dimensione strepitosa, non va
comunque buttato, tanta tradizione medievale persiste in parallelo nel movimento rinascimentale, ci sono
tendenze e movimenti, non c’è prevaricazione): nella pittura rinascimentale c’è questa dimensione
naturalistica, è un dato di fatto, è un progresso, un dato che si fonda e prende forma, ma è un movimento
enanziodromico rispetto alla dimensione astratta.

Differenza tra guglia gotica e cupola di Brunelleschi. La prima ha bisogno di salire, si lascia in maniera
smaterializzata la terra alle spalle; la seconda sale solo se si allarga. L’idea è quella di aumentare il corpo
della conoscenza, e fino a Raffaello si matura l’idea di una cupola che sovrasta tutti i filosofi. Abbiamo un
bisogno di natura, di espansione: il Medioevo parla con una voce, l’Umanesimo con più. E se vado
indietro? Il Simbolismo che domina per secoli il Medioevo si oppone al Paganesimo, alla dimensione
carnale che si oppone alla concezione ellenistica e classica. Anche il Medioevo è stato un movimento
enanziodromico, ha avuto bisogno di trascendenza, che quando non è stata più sentita favorevole, ha
consentito il ritorno a modelli. Così nel Rinascimento abbiamo la ripresa dei modelli classici, si ritorna a
un modello che risulta conveniente nel presente.

Termine “moderno”. È sempre l’arte a guidare questo movimento. Il primo a utilizzare il termine
“moderno” è stato Cassiodoro, alla corte di Teodorico, per dire che si sarebbe dovuta creare
un’architettura nuova all’altezza dell’antica. Qui il termine ha in sé “modo” (= “ora, attuale, presente”) e
“modalità” (= “forma”) -> Necessità di stare nel tempo presente ma anche di dare al tempo stesso una
forma, che sia al tempo stesso compatibile con la memoria (il contrario di nuovo). Il nuovo esclude ciò che
è vecchio, mentre il “moderno” tende ad essere una RIVOLUZIONE CONSERVATRICE; c’è una riforma, si
sente la necessità di qualcosa che manca. Questo qualcosa non è mai la stessa cosa. Bisogna comprendere
quali siano le esigenze che stanno all’origine delle arti dei diversi tempi, in questo modo creo RAPPORTI,
RELAZIONI, e non ho bisogno di stabilire una gerarchia.

Motto Mediceo. “Festina lente” -> “Affrettati lentamente”.

Allora il ROMANTICISMO è stata una reazione enanziodromica di un’apertura in termini indeterminati e


infiniti di un mondo che l’economia tendeva a ridurre soltanto, appunto, alla dimensione economica e
produttiva, senza demonizzare l’una ed esaltare l’altra. L’arte si racchiude in quella dimensione
fondamentale che è stata la RIVOLUZIONE DELL’INDUSTRIA D’OCCIDENTE.

Dinamiche enanziodromiche del Romanticismo. Bergson si forma in ambito positivista, durante la Seconda
Rivoluzione Industriale, scrive nel 1889 “Il saggio sui dati immediati della coscienza”, il modo di rivolgersi
direttamente alla realtà senza filtri. Il tema verrà poi sviluppato nel 1896 ne “Materia e memoria”, con il
tema della memoria rapportato all’esistente. Nel 1899 poi scrive un saggio, “Il riso”, che sembra
apparentemente trattare il tema del comico, poi ripreso da Pirandello (“Saggio sull’umorismo”, dove lo
stesso è definito come ‘sentimento del contrario’ = tema del contrario rapportato all’arte - messo in
discussione il legame tra forma e vita). C’è l’idea di una fuggevolezza, di un divenire del quale bisogna
essere accorti; compare la dimensione di ‘dividuo’ e ‘individuo’. Sono temi emergenti in Bergson.

H. Bergson, “Il riso”, 1899. La natura umana è composta di due impulsi fondamentali: l’impulso
ECONOMICO - che tende a eliminare tutto il superfluo -, e l’impulso PRATICO - quello che vorrebbe che
per un oggetto ci fosse un nome, una definizione -; diventa una gabbia terribile se pensiamo che questa
quotidianità sia l’unico elemento ad appartenere alla natura (mondo attuale: mondo formato, ma privo di
forma). L’economia distrugge il rapporto tra vita e cultura, lo banalizza; ci dev’essere un ordine nella
metodologia di apprendimento, ma dev’essere l’inizio e non il fine. Così di fronte a tanto finito nasce la
necessità di infinito. Bergson ragiona in questo saggio che si vive secondo una tendenza, la norma chiusa,
il bisogno dell’essere umano di togliere tutto il superfluo, impoverendo però qualsiasi cosa. Se da un lato
questo è un impulso (no dogmatismo, registra la tendenza, ma non la assolutizza, in quanto non ci
sarebbero più vie d’uscita - siamo dentro un meccanismo), allora la natura lo porta altrove. Questa
semplificazione, la dimensione economica, diventa l’ente attraverso cui noi vediamo il reale, ma in questo
modo noi non siamo in contatto con il reale, siamo in una dimensione virtuale. Il punto è che l’altra
tendenza dell’io è al contrario quella di DISTRARSI rispetto al mondo chiuso e quadrettato dell’economia.
Questi uomini sono gli ARTISTI, “distratti” per antonomasia, che riescono ‘a sollevare il velo
dell’apparenza e riescono a tornare in contatto con il divenire della vita’, vedono la complessità oltre la
semplificazione. È una DISTRAZIONE ENANZIODROMICA, per cui io cerco nuove espressioni di realtà, non
consuete, per rendere il mondo più ampio (modello del “Mito della caverna” di Platone).

Il personaggio che si libera dalle catene esce, ma se uscisse quando il sole è allo zenit rimarrebbe accecato;
prima infatti lui vede la luce dalle stelle riflesse su uno specchio d’acqua, poi assiste all’alba gradualmente.
Non è una rivoluzione, ma una graduale riforma dell’oscurità attraverso il tema della luce. Si accorge
dell’esistenza della luce sulla Terra, e vuole tornare dagli altri uomini e far loro capire che si stanno
sbagliando. Rientrando, gli dolgono gli occhi di fronte al ritorno all’oscurità (processo umano di contro
gradualità). Uccidono colui che enanziodromicamente manifestava una realtà diversa da quella. Il pratico,
l’utile, l’essenziale, toglie la ricchezza della realtà, e gli artisti sono coloro che usciti dalla caverna fanno
vedere un mondo infinitamente più ampio e vario. Ciò può avvenire anche coltivando alcuni sensi
secondo Bergson. È difficile che il dono sia proprio di tutti i sensi di una sola persona; Bergson definisce
anche i generi, le tante possibilità di sollevare questo lembo, di uscire dalla caverna. Nell’insieme si tratta di
dati di carattere artistico, in quanto l’artista è colui capace di rendere il mondo più grande, più vasto.
Questo instaura un legame, c’è una dimensione accrescitiva nell’arte, che consente il respiro, l’estensione
dell’identità della nostra vita. È una dimensione saggia, l’aver riconosciuto che il contatto con la vita può
essere ripreso rimuovendo chiusure, cesure, elementi che ci potrebbero a passare dove tutti sono già
passati. L’artista che non vuole essere compreso non esiste: il loro desiderio è sempre di condividere con gli
altri la propria opera. Se l’artista è in grado di esprimere ciò che a un tempo manca, egli diventa collettivo,
trova la strada perché anche gli altri escano dalla caverna.

G. Caproni, poesia “Ritorno”. “Sono tornato là dove non ero mai stato.” - L’artista è colui che ci fa tornare
dove non siamo mai stati, è in grado di rivelare l’elemento che manca. L’artista è come un buon amante,
colui che ci rivela una parte di noi che non conoscevamo. Se è in grado di farmi comprendere una parte di
me, un desiderio inespresso, è un buon amante. Non c’è solo la capacità di stupire, ma soprattutto quella
di meravigliare, e anche di farci sentire a casa nostra. Ci rendiamo conto che non abbiamo bisogno di
spacciatori di bellezza, ma abbiamo bisogno di capire qual è il sentiero che ci fa vedere quella parte di noi
che ci mancava. Il punto fondamentale è allora sollevare quel velo, ritrovare quell’elemento comune che
appartiene a tutti, l’“inconscio collettivo” di Jung. È così l’elemento dell’IRONIA di cui parla Bergson è
questa capacità di ritornare in contatto con la vita, di ristendere le cose.
Ci sono delle necessità che si ripropongono sempre, delle utilità, la cosiddetta ‘lectio facilior’. Non solo gli
oggetti esterni, ma anche l’interiorità tende ad essere mortificata in una dimensione che è soltanto
definitoria. Manchiamo così a noi stessi, perché c’è sempre una regola o una definizione. Bisogna
sollecitare ogni singolo a cercare quel che manca, a interessarsi di ciò che ha scelto, non a vedere
l’impresa come qualcosa di materiale.

Goethe. “L’inventare è la fine del ricercare.”. Dopo aver confrontato e ricercato io devo immaginare, lo
posso fare. Se non lo faccio divento tutt’uno con la materia, non faccio altro che replicare un cliché. Allora
la soggettività diventa fondamentale, diventa l’elemento fluido per antonomasia. Non siamo neppure noi
stessi, per paura di dire “io”. Sono le anime distaccate le più immerse nella vita.

 “Opera d’arte totale” di Wagner.

L’arte riuscirebbe a cogliere anche i più impercettibili moti della vita interiore, espulsi in quanto personali.

F. Schiller, in una serie di lettere sull’educazione dell’uomo. “Solo nella pluralità delle sue manifestazioni l’io
permanente diventa un fenomeno a sé stesso.”. L’artista cerca un centro di gravità permanente che non sia
peraltro non solo individuale, ma attraverso cui gli altri posano tornare dove non erano mai stati. C’è
grande entusiasmo e meraviglia.

06/02/2020
Significato distrazione.

BERGSON.

È stato il primo alleato che ci ha dato la prima chiave per aprire lo scrigno dell’arte.

Ci sono alcuni uomini che hanno la facoltà di distrarsi, di non aderire propriamente al presente, quelli che
riescono a guardare in un’altra direzione, una dimensione più ricca, ampia e infinita. Questi uomini sono gli
artisti, ed è da questa forma di distrazione che riconosciamo come l’arte a volte sia stata associata alla
follia. Esempio importante fu Vincent Van Gogh, il quale vive per tutto l’arco della sua vita una forte
separazione tra uomo e artista; scopriremo che anche nelle crisi forti ha saputo mantenere una grande
lucidità. Magari l’uomo era disturbato, ma l’artista rimaneva straordinario.

Es. immagine Omero poeta cieco – cecità come metafora, inteso come guardare in modo diverso (non
vedente = distratto in modo radicale). Platone, dialogo “Fedro” - la poesia è una mania, ci fa vedere le cose
in maniera diversa: Fedro parla presso l’Ilisso con Socrate, il secondo è velato, si copre il capo (sapiente,
filosofo, in pieno sole ha un velo che gli consente di vedere al di là della luce). Ci sono individui che a un
certo punto non aderiscono ai modelli che hanno avuto nella loro vita, si DISTRAGGONO. È una
caratteristica prettamente umana.

 José Ortega y Gasset, filosofo spagnolo del ‘900. Nel suo saggio, Gasset illustra la foca come
animale che non può distrarsi, deve aderire costantemente al proprio habitat, o rischia di essere
mangiata dall’orso polare.

Uomo e donna sono fatti per distrarsi. Fuori c’è Pan che fa impazzire i pastori con tutte quante le ninfe.
<- ??????

 Albrecht Durer, opera “Melencolia I”. Meriggio – momento di malinconia, orario più favorevole alla
distrazione.
 Miguel de Cervantes Saavedra, “Don Chisciotte della Mancia”. Don Chisciotte non vede mai la sua
realtà, si distrae costantemente nei suoi sogni ‘obulis apertis’.
L’artista sa anche focalizzare la propria attenzione. A volte ci si può distrarre dalla propria epoca nonostante
il divieto della propria realtà (distrazione = non fare ciò che si deve – Leonardo dissezionava cadaveri di
sconosciuti).

A volte ci si può distrarre anche dissezionando un cadavere clandestinamente come faceva Leonardo. La
distrazione è anche il fare quello che non si deve.

Pinocchio è il distratto per antonomasia. Attraverso le proprie distrazioni si trasforma da legno in essere
umano. Sono una serie di distrazioni a volte anche fastidiose, a volte anche dolorose. Ogni forma di
distrazione è un andare verso la vita.

Le distrazioni possono dunque essere anche dolorose: nessuno ti garantisce che vai nella direzione giusta,
non ci sono pregiudizi che vengono prima della partenza (viaggiatore = distratto per antonomasia, si distrae
dal proprio paese d’origine).

 Slancio vitale

Frase di Bergson. “Sollevare il velo delle convenzioni e tornare a contatto diretto con il mondo della vita”. A
contatto con quel mondo dove c’è continuamente uno ‘slancio vitale’ che trasforma continuamente le cose.
Nella realtà non c’è niente che sta fermo. L’unica differenza è la velocità di trasformazione, di mutamento.
Usava il termine francese ‘mouvement’, letteralmente ‘movente’ ma inteso come ‘ciò che smuove’: tutto
quello che sembra stare in realtà sta perché si muove in termini più lenti di quello che ci appare invece il
movimento vero e proprio.

Leopardi, “Ginestra”. “Muove e par che stia.”. Muoversi porta a un rinnovato e rinnovante contatto con la
vita.

Testo di Bergson. Bergson dice a proposito dei vari generi di distrazione attraverso l’arte “Uno si volgerà ai
colori alle forme e attraverso le forme e i colori vedrà trasparire la vita interna delle cose che la farà
penetrare a poco a poco nella nostra percezione che all’inizio ne rimarrà sconcertata.”. Si crea una sorta di
arricchimento della percezione, data dalla maggior visione delle cose. “Per un momento almeno egli si
distaccherà dai pregiudizi di colori e di forme che si interponevano fra i nostri occhi e la realtà realizzando la
più alta ambizione dell’arte che è quella di rivelarci la natura.”. La natura intesa non come natura
apparente, il vero movimento della natura è un qualche cosa che non coincide con le forme così come
appaiono. “Altri si ripiegheranno piuttosto su sé stessi sotto le mille azioni nascenti che lasciano trasparire
un sentimento dietro la parola banale e sociale che esprime e ricopre uno stato d’animo individuale. Essi
andranno a cercare il sentimento e lo stato d’animo puro.”. Si ha a che vedere con una comunicazione più
profonda di quella che non si ha nel linguaggio quotidiano, “{…} che induce a tentare lo stesso sforzo su noi
stessi”, senza distrazione, “{…} si adopereranno a farci vedere qualcosa di quello che avranno veduto.”.
Come quello che era uscito dalla caverna di Platone e voleva tornare a dire che la realtà non era quella
apparente delle ombre: c’è uno sforzo nel voler far vedere quello che si è visto. “{…} con accomodamenti
ritmici di parole le quali giungeranno a formare una nuova organizzazione e ad animarsi di una vita
originale.”. Questo è il modo di far vedere le cose, di comunicare attraverso il linguaggio delle parole. “Essi
diranno e ci suggeriranno cose che il linguaggio non pareva fatto per esprimere.”. Un poeta usa un
linguaggio in modo tale che esso non pareva fatto per esprimere. “Altri scaveranno più profondamente
ancora sotto quelle gioie e tristezze che si possono a rigore tradurre in parole, coglieranno qualcosa che
non ha più nulla in comune con la parola, certi ritmi di vita e di respiro che nell’uomo sono più interiori
degli stesi suoi sentimenti più intimi {…}”. Si va oltre i contenuti, in tutte le arti, c’è un cogliere qualcosa che
è più profondo dell’interiorità, ‘un’interiorità dell’interiorità’, “Cioè la legge vivente variabile per ogni uomo
della sua depressione ed esaltazione, dei suoi rimpianti e delle sue speranze, accentuando questa musica
essi la imporranno alla nostra attenzione, e ci indurranno a scuotere nelle nostre regioni profonde qualcosa
che attendeva l’istante in cui vibrare. Sono tornato dove non ero mai stato.”. Si impone questo ritmo anche
all’attenzione del fruitore. Si attendeva ciò che doveva essere detto, e che il pittore e l’artista in generale
esprimono.

Noi non abbiamo un’educazione all’inconscio: Jung suggeriva di tenere un diario dell’inconscio, lui ci
risponde sempre, ma magari non immediatamente. C’è tanto in comune con il vaticino, con la pizia, un
universo che confligge con un mondo dove esiste solo una regola. È un senso di profondo che va affrontato.
Una compassione che va oltre il dolore. Spesso l’arte ha legame con questi sentimenti che vanno oltre i
sentimenti comuni, sono visioni complesse solitamente rimosse, spostate perché non dobbiamo avere
contatto con questa profondità.

Le tecniche comunicative del tempo hanno intercettato la distrazione; ma è una falsa distrazione, è un
modo per non farci distrarre, per essere sempre in comunicazione. La distrazione diventa una forma di
revoca di quella profondità, tutto è sparato in orizzontale.

Se vogliamo essere noi stessi, dobbiamo essere capaci di distrarci dalla nostra stessa distrazione. Quando
siamo nel presente, usando solo la coscienza e la presenza, non vediamo tanta parte di noi stessi. Va
eliminato tutto ciò che si mostra realtà, e che cela la realtà stessa.

Il legame tra realismo e idealismo dell’arte è sorto da un equivoco su questo punto. Bisogna essere realisti
quando si rappresenta il mondo, come realisti distratti o come idealisti? “Il realismo è nell’opera quando
l’idealismo è nell’anima.”. L’arte mostra nel reale una realtà più profonda dell’ideale. È importante la
trasfusione dell’ideale nel reale. È una formula d’oro. “Soltanto grazie all’idealità si riprende contatto con la
realtà.”.

 Ernst Junger. “I sogni non si infrangono contro la realtà, ma contro la nostra incapacità di
continuare a sognare con forza sufficiente.”. C’è il tema del sogno che deve diventare reale, ma se
non c’è l’ideale non c’è il reale, né il linguaggio attraverso cui posso mostrare agli altri quell’ideale.

CARL GUSTAV JUNG (1875-1961).

Com’è possibile che la distrazione, l’uscita dalla caverna, mi porti in un luogo comune a quello degli altri che
non sono stati distratti? Cosa c’è di comune? Esiste non solo una comunità umana in termini consci, ma
anche in termini inconsci. Noi non condividiamo solo la coscienza, ma anche l’inconscio. Non potrei
percepire quella profondità se io non avessi qualcosa in comune con quella profondità: come con l’artista,
dobbiamo postulare un dato condiviso profondo, una MEMORIA COLLETTIVA.

Jung fu fondatore della PSICOLOGIA ANALITICA, si confrontò con Bergson. Nasce in Svizzera nel 1875 da un
pastore protestante, muore nel 1961. Era medico e ha sempre reclamato la sua formazione di naturalista,
percependo un senso della natura più profondo, confrontandosi con i Romantici: uno era Goethe, l’altro era
Nietzsche. Diceva di essersi formato sul “Faust” e su “Così parlò Zarathustra”. Conosce la cultura
occidentale, vi ha scavato dentro come un archeologo, portando fuori quel fondo comune, esprimibile con
il termine di ‘INCONSCIO COLLETTIVO’. Si è formato sulle ricerche di Freud, nelle quali si è riconosciuto
(rapporto padre-figlio). Il legame è stato di una profondità eccezionale (“Interpretazione dei sogni” – tema
dell’inconscio, molto gettonato, Freud come banco di prova), e il risultato è stato scandaloso. Sembrava
davvero distrarsi rispetto ai canoni tradizionali, parlando della figura del ‘bambino’ e dal tema della
sessualità in questa figura (Italo Svevo, “La coscienza di Zeno”).

Bambino ‘pervertito’ <- “Dioniso bambino” di Socrate

<- Eros figlio di Poros e Penìa

L’ipotesi di Freud è che ci fosse la formazione dell’individuo a partire dall’infanzia, da cui dipende tutta la
vita. Lo psicoanalista tende a riportare l’uomo adulto a una condizione di possibilità, a una situazione che
forse aveva rimosso in quanto fanciullo. Ma c’è un limite: il mio essere va a determinarsi a partire dalla
nascita, è l’esperienza personale a determinarmi.

Anche Jung è partito da ciò. Nel 1909, mentre è con Freud nel Transatlantico verso gli Stato Uniti, avviene
qualcosa di speciale tra i due (Jung, “Sogni, ricordi, riflessioni” - materiale autobiografico, tenuto nascosto,
ci teneva a conservare la sua mansione da medico). Il limite tra razionale e irrazionale è labile. Prima di
arrivare davanti Manhattan era avvenuto un fattaccio, e Freud dice a Jung: “Loro non sanno ma gli stiamo
portando la peste”.

Secondo Jung noi sogniamo in maniera reale nella nostra vita solo due o tre volte, come segni decisivi,
nonostante l’intensa attività onirica, spesso però condizionata alla veglia (es. Plotino, che affermava di aver
raggiunto l’estasi suprema solo un paio di volte nella vita). C’è n’è stato uno in particolare, decisivo, sul
Transatlantico. I due si alzano, e ogni giorno ognuno racconta all’altro, in quanto medici, i propri sogni.
Quando tocca a Jung, dice di averne fatto uno molto particolare: era nella casa di suo padre (Jung era figlio
di un pastore protestante), scopre una scala che dice di non aver mai visto, questa scendeva un muro,
portandolo in una stanza rococò, stile passato rispetto alla sua epoca (al piano di sotto si trova in un
ambiente risalente al secolo precedente la sua nascita). Ancora un’altra botola, con uno stile
rinascimentale, simile alla Firenze di Piero della Francesca, dove si trovava la casa di Nicolò Nicolini; un’altra
botola ancora in stile medievale; e ancora una villa romana. Si è accorto poi di poter scendere ancora di più,
fino a una grotta, con due ossa poggiate a terra, e due teschi appoggiati su due pietre. Freud gli dice che lui
è innamorato della cognata (cosa vera, l’amore inconfessato verso la sorella della moglie), cosa da cui Jung
rimase turbato, in quanto il sogno lo aveva portato a una dinamica privata di Jung. La cosa importante è che
Freud aveva riportato tutto il sogno ad una dinamica individuale di Jung, come se il tutto nascesse da lui.

Jung stesso diceva invece che la memoria che lui portava fin dalla preistoria, lui non l’aveva mai vissuta, era
una MEMORIA GENETICA, INNATA, presente negli umani come un’esperienza avuta ancor prima di venire al
mondo, una memoria PREISTORICA, PRENATALE, ORIGINARIA, comune a tutti. Composta di forme e forze
caotiche che tutti abbiamo in noi, che non derivano dalla nostra esperienza, ma che la determinano in
forma di INFLUENZA INCONSCIA. Ciò implica che la libido non sia legata solo alla sessualità, ma sia una sorta
di forza universale che lega tutti i miti. L’errore di Freud, secondo Jung, è aver creato una mitologia con un
solo mito, quello di Edipo. Jung presenta una serie di miti (“Sapere è ricordare”, Socrate – l’ipotesi è che
l’anima troni sempre nel mondo delle Idee comune a tutti, che quindi ottenga una memoria oscura ma
collettiva, di cui noi siamo portatori genetici). La nostra memoria è solo apparenza di una memoria più
profonda, innata. Se io mi distraggo, vado a contatto con una profondità, con una memoria che è in realtà
comune a tutti. È un’attesa di scoperta di un qualcosa che non è di un singolo, di un’individualità, ma fa leva
alla memoria comune. Jung ha passato tutta la vita tentando di definire quelle forme, la possibilità di essere
capiti nasceva dalla resistenza di questo terreno comune, fatto sostanzialmente di immagini. L’io ha una
dimensione stratificata, porta a una pluralità di memorie, un ascensore che scende a tutti i piani, come nel
sogno di Jung. Deve scegliere, individuare cosa gli manca, in quanto l’io si individua solo dall’assenza, solo a
partire dal capire cosa manca <- sentimento privazione, mancanza, devo farlo per non ricevere da altri la
mia identità. Ma quest’assenza è allora anche qualcosa che manca agli altri, e sulla base degli archetipi
collettivi io dovrò attivare quel piano che manca anche agli altri, e allora anche quando gli altri
comprenderanno qual lavoro, comprenderanno quella profondità che sta dietro.

In una stanza dove l’aria è viziata: se qualcuno apre la finestra, tutti prendono l’aria fresca, tutti respirano in
quanto dotati di polmoni. Così come l’artista, che ha deciso di essere colui che condivide quell’esperienza.
Questo è l’allargamento dell’infinito: ogni artista è una finestra, Jung chiama il movimento
ENANTIODROMICO, che crea un’estensione, un ampio respiro, e ciò che respiriamo diventa bene comune.

“Psicologia analitica e arte poetica”, 1930, saggio. L’inconscio individuale costituisce un dato relativamente
personale; l’inconscio collettivo è una possibilità, che noi ereditiamo dal passato in atti, nella memoria.
“Non esistono rappresentazioni innate, ma possibilità innate di rappresentazioni”, che si rivelano solo
compiendo un atto fruibile, percepibile, visibile. Noi non possiamo costruire il modello collettivo
dell’immagine primordiale se non per mezzo di deduzioni per esperienza compiuta. Perciò solo quando
respiriamo, siamo consapevoli davvero dei nostri polmoni. Si parla di esperienze passate, primitive, ma non
sono quantitative: bisogna comprendere la facoltà della memoria, per cui ognuno comprende quello che
può. Importa la facoltà di TRAMMEMORAZIONE (??), la possibilità di ricordare un’immagine che io rendo
presente. Il modo in cui le immagini si formino è fonte di grandi dibattiti, ma anche questo genere di
riflessione porta alla questione di fondo di una memoria comune. Abbiamo dentro di noi una molteplicità di
esperienze comuni, che ogni epoca fa emergere con il proprio linguaggio.

Domanda di una ragazza. Se questa memoria è di tipo quantitativo significa che i popoli precedenti,
primitivi ne hanno quantitativamente di meno? Se sì, come si riflette? Qual è la posizione che abbiamo
nell’arte? Non esiste una quantità, ma parliamo di esperienze remote. Vediamo i graffiti della grotta di
Lascaux, gli uomini di quei tempi. Pensiamo alla Venere d’Urbino. L’inconscio è la possibilità di ricordare
un’immagine. Ognuno ricorda quello che può. Anche in quegli uomini antichi esisteva un fondo precedente.
Su come queste immagini si formano, esistono tante ipotesi. Chi associa la formazione dell’immagine ai
movimenti elementari che facciamo in maniera innata. Il triangolo isoscele, simbolo di elevazione, è il
momento in cui smettiamo di gattonare e ci reggiamo sulle nostre gambe. Andare verso l’alto implica una
figura geometrica. Queste sono varianti di posizione. È positivo passare dal buio verso la luce. Abbiamo
tante esperienze comuni.

Ogni visione con l’archetipo, con quell’insieme di immagini profonde, custodisce un tentativo di dare forma
alle immagini, come la ‘grande madre’, ‘il fanciullo’, non in maniera dogmatica o gerarchica - puntava sulla
sua esperienza di medico. Importante l’esempio di immagine di ‘un sole con tre narici’, rivelato da un
artigiano, che lo stesso Jung ricorda da un viaggio in Messico fatto vent’anni prima. C’era un punto in
comune tra l’artigiano e la cultura americana. È simbolo proprio della cultura mesoamericana; come anche
la piramide Egizia, che è concezione anche delle culture mesoamericane <- la piramide non è stata portata,
ma era già dentro - emblema della luce proprio delle civiltà solari - in quanto movimento/forma
dell’inconscio collettivo - associazione tra civiltà lontane dello spazio, e a volte anche nel tempo.

L’ARCHETIPO è una possibilità di ordine, di narrazione, che ha un fondo comune, una possibilità comune.
Arriviamo al fondo quando percepiamo qualcosa di commovente, che agisce perché “sprigiona in noi una
voce più potente della nostra, che afferma e domina”, è arrivato dalla sua dimensione individuale a
individuare ciò che mancava, ha innalzato dal suo destino personale il destino dell’umanità. L’ARTE è allora,
secondo Nietzsche, soccorritrice, curatrice, fa entrare ciò che manca, da ciò che manca. È TERAPEUTICA. Il
processo creativo consiste in un’animazione inconscia dell’archetipo, dal suo sviluppo fino alla realizzazione
della cosa compiuta. Dalla profondità traggo ciò che ci vuole.

In ciò sta l’importanza SOCIALE dell’arte, la solitudine diventa comunità, se l’artista ‘ha messo in moto le
magie giuste’, è una magia profonda dello spirito della sua epoca. Ha finalità EDUCATIVA, dà ciò che manca,
“fa affiorare le forme che più gli difettano”. L’ENANTIODROMIA come risarcimento, cura, “volgendo le
spalle all’insoddisfazione del presente, l’io si distrae concependo l’immagine che può compensare nel modo
più efficace la mancanza, l’imperfezione che si vive nell’unilateralità dei valori di un certo presente.”. La
rammemorazione è sempre in ciò che manca oggi, una volta che in un tempo si sia riconosciuto che esso è
nel tempo mancante di elementi essenziali per la nostra respirazione.

Jung parla dell’educazione implicita portata dall’artista, che non è fatta di precetti, ma fa fare esperienza di
ciò che manca. Non si parla di orientamenti, in quanto questi significano ‘esclusione’.

Il punto essenziale è la capacità di “portare il marginale da centro”, la sua forza è la DISTRAZIONE, la


possibilità di tenersi lontano dalle linee correnti per seguire il desiderio nostalgico. La nostalgia porta a una
separazione, a un desiderio, fa fare un viaggio di ritorno, “nello scoprire ciò di cui gli altri senza saperlo
sentivano la mancanza.”. L’arte costituisce un complesso di AUTOREGOLAZIONE, di risarcimento: hanno
curato un eccesso, risarcito un presente di ciò che nel presente mancava. L’artista è un UOMO/DONNA
COLLETTIVO/A. L’esigenza psichica della collettività si adempie nell’artista, che ha fatto quello che sentiva
indispensabile, e ha reso gli uomini libera di associarsi all’immagine che è più congeniale al singolo. Come si
scopre dal singolo l’opera che deve essere compiuta?

 Rainer Maria Rilke, “Lettere a un giovane poeta”. Rapporto epistolare con


Kappus, giovane scrittore che gli manda dei sonetti e gli chiede un giudizio.
Rilke chiede: “Ne puoi fare a meno? Sono buoni se non ne puoi fare a
meno.”. È giusto quello di cui noi non possiamo fare a meno, se è per noi
imprescindibile, se viene riconosciuto un elemento di necessità. Succede
poi che per qualcuno la necessità è condivisa, perché non era solo sua ma
anzi era attesa, era consona a un orizzonte di attesa.
 William Wordsworth, “I grandi poeti sono quelli che fondano il gusto sulla
base dal quale vengono giudicati.”. Istituiscono una forma che hanno
prodotto in quanto forma che anche gli altri comprendono.
 Vasilij Vasil'evič Kandinskij, “L’arte è madre delle nostre azioni.”. L’arte ci
ha portato da un fatto individuale a una dimensione collettiva. Come si fa a
raggiungere questa dimensione individuale?

Carl Gustav Jung, “Il Libro Rosso”. Sorta di terapia del lutto di Jung di fronte alla separazione dal proprio
‘padre’ Freud. Si compone di immagini straordinarie, da cui lentamente emergono anche dei personaggi. È
un confronto per tredici anni con lo ‘SPIRITO DEL PROFONDO’, ci sono delle confessioni incredibili, una sfida
a entrare nell’inconscio, nelle stanze del sogno.

“Lettera rivolta all’anima”, uno dei primi documenti de “Il Libro Rosso”. Leggere le dispense.

“Anima mia, con te voglio andare ed elevarmi alla mia solitudine.”. L’anima in questa lettera risponde
(modello: “Zaratustra”), e il senso di fare anima è di aprirsi verso una dimensione non posseduta, una sorta
di viaggio senza fine, una sorta di superamento dei limiti della rammemorazione, che va nel profondo.

Arriviamo alla terza chiave, la concezione di “Notte del mondo” di Heidegger.

07/02/2020
Il realismo è nell’opera quanto il realismo è nell’anima. Si è andato in cerca di ciò che era espresso
idealmente e lo si è andato a esprimere realmente (espressione archetipo <- maggior comprensione
rapporto realismo-idealismo); l’artista è colui che fa apparire il profondo, l’inconscio, in superficie, l’opera
parla in profondità alla superficie.

Francis Bacon, fondatore scienza moderna: “I veri antichi siamo noi”. Abbiamo molta più coscienza e
memoria degli antichi, abbiamo una memoria molto più vasta del passato stesso. Pensiamo a quanto
passato gli uomini del Medioevo potevano avere. I Romani guardavano i Greci, e un po’ gli Etruschi. Siamo
noi i veri antichi. Disponiamo di un patrimonio di immagini infinitamente più vaste. Ad oggi arriviamo ad
osservare l’origine della nostra galassia, siamo noi gli antichi, se antico è colui che ha memoria. Disponiamo
di un patrimonio di immagini estremamente più vasto. Il tema della rammemorazione è molto moderno,
anche se la memoria c’è anche nel pittore di quelle grotte di Lascaux dove viene rappresentata la caccia, c’è
l’immagine di qualcosa che viene portato in presenza a partire da una mancanza (enantiodromia),
l’operazione è la medesima.
L’arte cerca sempre di risarcire ciò che le manca in un’epoca. Forse all’epoca mancava la carne. Ogni epoca
cerca ‘il bisonte che le manca’. Il figlio di Dio, pensiamo, è la personificazione dell’assenza. Questo
procedimento lo troviamo sempre. È un processo immaginativo che troviamo diverso e uguale in un’epoca.
Gli archetipi sono da immaginare come possibilità, più come forze che come forme. Ogni archetipo ha due
facce, due opposti.

Un esempio importante portato da Jung è quello della GRANDE MADRE, che ha due facce (anche nella
mitologia antica): AFRODITE, la dea della bellezza, è URANICA – spirituale, celeste, e PANDEMIA - terrena.
Nell’arco dei due opposti si muovono tutte le immagini femminili. Ha parlato anche dell’archetipo del
VECCHIO, anche lui dotato di due facce: è PUER e SENEX (“LAO TSE”). Ovidio narra il mito di Tagete, dio
etrusco, un fanciullo generato da una zolla di terra, che visse giusto le ore necessarie per insegnare agli
Etruschi l’arte di predire il futuro. È quindi un archetipo in movimento tra fanciullo e vecchio. Anche qui si
ha modo di comprendere la forza tra presente e passato, c’è una circolarità ermeneutica, il ‘PUER ETERNO’,
l’ETERNO FANCIULLO (James Hillman, “Puer aeternus”, Adelphi). Un po’ come Prometeo, il tempo a venire,
e Epimeteo, il tempo avvenuto. Sono soprattutto MOVIMENTI.

Jung diceva anche - nella “Lettera all’anima” - che “chi possiede l’immagine del mondo, possiede solo la
metà del mondo”. E se il villaggio globale fosse solo una parte e non la totalità? L’immagine assente del
mondo siamo noi, vivere significa ampliare l’immagine che noi abbiamo di noi stessi, ‘fare anima’ significa
liberarsi dei limiti della grotta, e l’apertura dell’anima è tradotta in forma. Questo è il compito dell’arte. Il
tema è la proposizione di un’immagine enantiodromica come dilatazione di un’immagine che ci è data. Si
esce dal villaggio globale quando si postula la globalità dei villaggi. Per questo “chi possiede l’immagine del
mondo, possiede solo la metà del mondo”.

Si chiama “Libro Rosso” perché si basa sull’ALCHIMIA: la prima fase è la NIGREDO - l’esfoliazione di tutto il
superfluo, è l’atteggiamento psicologico di chi toglie tutto il non necessario, è una fase distruttiva, si arriva
alla calcificazione, è il ‘bruciare dell’anima dentro l’altanor (?)’, il nostro io, ricoperto dalle scorie delle
abitudini e delle imposizioni; una volta che si comprende di cosa non si può fare a meno, si comprende ciò
che non è necessario. Poi c’è l’ALBEDO - risultanza dell’opera al nero, quando sono nudo e debole, la
risultanza di ciò che ha portato progressivamente a identificarmi, la ‘nuova nascita’, il rinnovo e il ritorno
all’infanzia come stato di possibilità (Baudelaire); è come se dal senex, appesantito da tutto quello che gli è
stato messo addosso, fosse nato il puer, che vede la necessità di regredire a uno stato di possibilità; si può
tornare a questo stato di possibilità solo se si è stati vecchi.
?: “L’uomo moderno è come un Adamo che sappia di avere una storia”. Adamo è senza storia. L’uomo
moderno in realtà sa di essere senza storia in quanto si è liberato di tutto ciò che la storia ha imposto, ed è
andato a scegliere tutto ciò che desiderava. Ci si spoglia per tornare a uno stato di potenzialità.
Poi abbiamo ‘l’opera al rosso’, la RUBEDO, la trasformazione dell’elemento interiore debole in una forma,
dare forma all’Albedo. È necessaria una fiamma, dall’IDEALITÀ del bianco alla REALTÀ del rosso. Jung ha
fatto un’individuazione di sé attraverso le immagini. Il rapporto tra bianco e rosso è lo stesso che passa da
ideale a reale. L’essere a metà tra i due poli implica l’essere a metà tra le due condizioni: la possibilità di
trasformare l’inconscio collettivo, ideale, in una forma latente, reale, di ciò che mancava, di cui si era in
attesa. Questo unisce la capacità di distrazione con l’enantiodromia, e la capacità di arrivare al profondo
dell’archetipo.

Nietzsche, “Ci vuole un gran caos interiore per comprendere una stella danzante.”. L’energia che muove
tutto è l’immaginazione.
MARTIN HEIDEGGER (1889-1976)
Il discorso va calato in una situazione storica. Che tipo di risarcimento l’arte è in grado di produrre, e
perché? Tratteremo in maniera approfondita un secolo, dal 1851 al 1950, cercando di comprendere il
movimento enantiodromico dell’arte. L’opera di Heidegger è stata pubblicata nel 1950, ci dà coscienza del
processo interno.
È uno dei grandi filosofi del ‘900, vissuto tra il 1889 e il 1976. Fu una figura carismatica con un pensiero
difficile da raccogliere in sintesi; nutrì un grande amore per la conoscenza. Fu un professore universitario, e
tra gli allievi ebbe Hannah Arendt, la grande filosofa ebrea emigrata poi negli Stati Uniti. Il suo capolavoro è
“Essere e tempo” (1927), libro ostico dove egli ha raccolto categorie interpretative dell’essere umano e
della realtà molto sottili. È incompiuto, “{…} sono finite le parole”, come se quello che restasse da dire fosse
indicibile. Il cantiere è aperto. Una delle categorie è il ‘DASEIN’, l’ESSERE, in quanto noi facciamo filosofia a
partire dalla nostra condizione contingente; di conseguenza compare anche il tema dell’esistenzialismo.
Compare anche il concetto di ANGOSCIA (Kierkegaard). C’è una dimensione critica della filosofia rispetto a
sé stessa. Ci sono i temi dell’analitica esistenziale. È stata definita come un ‘clima’, un modo di pensare, una
frequenza, un’aura, più che un sistema di filosofia.

Il tono di scrittura ha una dimensione fondamentale (Bergson vinse il Nobel della Letteratura), per tutti e
tre i filosofi: la scrittura consente di fare esperienza del pensiero, la forma non è dissociata al contenuto.
Heidegger fu aderente al Nazismo, ci sarà poi un distacco che porterà a una posizione molto problematica,
che lo porterà ai margini. Il ‘senso della crisi’, esistenziale, lo ha probabilmente indotto a cercare una cura
alla malattia, Hitler, come qualcosa di cui non si potesse parlare (dichiara riguardo l’incompiutezza del suo
capolavoro “{…} sono finite le parole”). Molto spesso gli uomini del ‘900 erano ‘terapia’, guide, guarigioni da
tutte le incertezze. C’è una caduta, ma poi anche una ripresa, attraverso la distruzione tutto cambia
(Seconda Guerra mondiale). C’è l’indicibile, qualcosa che non si poteva scrivere. Allora è necessario
qualcosa di sottile, che dia senso e orientamento all’esserci, e lui lo scopre nel linguaggio dei poeti antichi e
moderni, e soprattutto nel saggio riconosce nel Romanticismo un momento decisivo. Un momento nel
quale si è configurata una situazione di mancanza dovuta allo sviluppo della tecnica e dell’industria, come
elemento che accresceva il potere del possesso, venendo a cancellare l’altra metà del mondo, l’uomo nella
sua complessità (riferimento fondamentale: Friedrich Holderlin).

“A cosa servono i poeti nel tempo della povertà”, tratto dalla raccolta “Sentieri interrotti”, saggio, 1950,
Heidegger. Soprattutto nel tempo della povertà e della privazione, ne ‘La notte del mondo’, dove si
potrebbe vedere ciò che è accaduto nel mondo molto prima, ma soprattutto nel mezzo secolo precedente
(Holderlin, “Pane e vino”), si cerca il motivo esistenziale che guida gli artisti nel secolo e mezzo di cui parla
Heidegger. È interessante che questo saggio faccia parte di una raccolta, “Sentieri interrotti” (letteralmente
sarebbe “Sentieri del legno”, perché il filosofo aveva un rapporto privilegiato con la Selva Nera, dove spesso
si raccoglieva in meditazione e andava a scrivere opere di filosofia). Ai tempi amava lavorare la terra
assieme agli agricoltori, e spesso nelle sue opere usa anche il dialetto. Il termine è usato dai boscaioli, e i
sentieri portano dal mezzo del bosco al punto in cui c’è la catasta di legno. Il sentiero finisce, ma il bosco
continua. Come si arriva alla fine? Anche “Essere e tempo” ha portato lì, ma con la POESIA si può andare
oltre, in un mondo di cose che non sono più date per immagini, ma che si presentano come un ‘trapassare
della luce nel bosco tra le fronde degli alberi’, movimento che impedisce di vedere cosa c’è di là ma che dà
modo e necessità di andare a vedere oltre. Come si ritrova il senso, come si va oltre, dopo la distruzione
della madre patria? Questo è il tema di riflessione moderna, trovare un altro modo per pensare e vivere.

Il saggio inizia con tre puntini, che introducono i versi di “Pane e vino” di Holderlin. C’è subito un tema: a
cosa servono i poeti nel tempo in cui sembra che non ci sia più niente che abbia valore, nel ‘tempo della
povertà, della privazione, della mancanza’? Che cosa hanno a che fare i poeti con questa mancanza? Come
si devono comportare e agire? La parola ‘tempo’ allude all’epoca di cui oggi facciamo ancora parte, dal
Romanticismo fino a metà del Novecento. Si è realizzato nella storia un oscuramento progressivo di tutto
ciò che è divino, l’oscuramento del senso originario dell’essere, un’età ultima più lontana da quella
originaria. Allora compare la riflessione sull’Occidente - derivazione dal latino ‘occido’, ‘ciò che muore’, in
tedesco ‘la terra del crepuscolo, che si oscura’, la riflessone sulla cultura occidentale che ha visto un
oscuramento e arriva al suo massimo con la povertà, il distacco. Ha avuto inizio la fine del giorno degli dei.
Poi questa oscurità diventa così grande che non c’è stata più traccia del divino nel mondo, questo si è
consumato. La mancanza è totale, non c’è privazione o trascendenza, il mondo è diventato “immagine del
mondo”.

Da quando i tre - Ercole, Dioniso e Cristo - hanno lasciato il mondo, “la sera del tempo mondano va verso la
notte”, il divino si è allontanato dall’essere percepito (Giambattista Vico, passaggio alle tre età). Ogni strada
che porta all’origine non è più quella che porta laggiù, la registrazione della povertà è la mancanza. Senza
Cristo non c’è più salvezza, la sua mancanza nega la persistenza di un atteggiamento cristiano verso Dio da
parte dei singoli e dalle chiese (tragedia Chiesa contemporanea, sembra non esistere più, ma forse esiste
ancora, e proprio perché esiste non ha più la sua immagine <- oscuramento di una cosa così visibile, siamo
al buio). È veramente l’immagine della Chiesa della povertà, se rinuncia a sé stessa in termini di potere.
Siamo letteralmente al buio. Si è spento lo splendore di Cristo nella Chiesa universale. Il ‘tempo della notte
del mondo’ è il ‘tempo della povertà’: la vera povertà ci rende incoscienti di ciò che ci manca.
Agostino Arrivabene, dipinto. POVERTÀ - dipinto del villaggio globale, la vera povertà è totalmente
illuminata, è l’immagine del mondo attraverso le telecomunicazioni. Sperimentiamo l’assenza del mondo
come assenza della vera notte. La mancanza nel tempo di povertà è il massimo di presenza, di utile, di
pratico, illude di afferrare un sapere che non è lì. Manca così ogni fondamento del mondo che si pensa che
fondi, la mancanza di fondamento o ‘abisso’, il fondamento è ‘il terreno su cui radicarsi e stare’. La
privazione – la mancanza di fondamento - va sentita fino in fondo, ma perché si abbia ‘il rovesciamento, la
svolta’, è necessario ce qualcuno arrivi all’abisso, arriva alla totale privazione di libertà, di fondamento.

Nel tempo della povertà il viaggio è opposto, è una discesa fin dove non c’è più luce. Tutte le epoche
cambiano. Noi oggi dobbiamo distrarci dall’essere distratti, è necessario non tanto che qualcuno esca della
caverna, ma che arrivi alla fine della caverna (Nietzsche, “Così parlò Zarathustra” - la morte di Dio è intesa
non come morte del divino, ma come avvento dell’epoca dell’uomo, come nuova scintilla del divino).
Heidegger spiega che la svolta dell’epoca non avviene perché irrompe un nuovo Dio, o perché il vecchio
esce fuori dal suo nascondimento: in che luogo potrebbe insediarsi se gli uomini non avessero preparato un
soggiorno? “Gli dei prima ritornano al tempo giusto cioè solo se gli uomini per quanto li concerne abbiano
condotto al tempo giusto e in modo giusto.”. Nel buio qualcuno deve preparare questa nuova venuta,
creare i presupposti perché l’ideale si trasformi nel reale, perché il presente torni ad essere presente con
l’archetipo giusto, compiendo la svolta nel modo giusto. C’è responsabilità enorme da parte degli uomini e
delle donne del presente. Se non prendiamo noi la responsabilità di una ‘rinascita del mondo’, l’oscurità si
afferma sempre più. C’è un problema nel preparare il ritorno della natura alla natura. La responsabilità che
viene arriva solo dopo aver preso la consapevolezza di essere in una situazione senza ritorno, se non la ho
mi cullo in una posizione nella quale penso che qualcosa possa accadere indipendentemente da me.

Allora Holderlin parla di MNEMOSINE, la dea della MEMORIA, madre delle Muse, di cui fa un’ode. Il punto
essenziale è questo: chi si prende oggi la responsabilità del buio, deve viverlo fino in fondo; solo chi ha
questo coraggio può premurarsi di una svolta, cosicché ‘la notte vada verso la mezzanotte’, l’eclissi
dell’immagine del mondo supera il mondo come immagine. C’è qualcosa di riservato agli artisti, che più di
tutti sentono l’assenza. {…} Non ci scandalizza più nulla, siamo ‘assuefatti dal terrore’, in una forma di
apatia. Nella mancanza c’è però una rivelazione: l‘unica trascendenza è in me, nessuno me la può dare.

Eraclito, “L’uomo solo nella notte accede un lume a sé stesso.”. Troviamo la luce solo quando ci siamo
soddisfatti e sbarazzati della Nigredo, siamo arrivati all’Albedo, ora possiamo arrivare all’anima rossa
(Rubedo). L’unica alleata è la memoria, non intesa come ‘conoscenza di una tradizione’, ma come memoria
profonda, come nostro ‘inconscio collettivo’ (Jung). Ciò ci rende ‘infiniti nella dimensione dell’infinito’,
produce la spinta alla rammemorazione. L’oscurità è ciò che ritiene il possibile, ciò che ci può salvare è
contenuto in ciò che ci danna. Solo se vivo l’oscurità come privazione sento la possibilità di ritrovare ciò che
mi sta a cuore. Heidegger nel suo pensiero parla di ‘pensiero del cuore’. Si percepisce quel sentire come
necessario, proprio perché ci manca tutto (Daniel Defoe, “Robinson Crusoe”). L’indicazione è di ‘essere
privativi’ per poter poi ‘essere assertivi’.
Friedrich Holderlin, “L’inno ai Titani”. Non sappiamo cosa si può nascondere nelle cose più banali. L’essere
tutti nel fondo significa essere tutti nel presente, non si può avere pregiudizio nei confronti di nulla. Vanno
cercati i segni, i piccoli segni, quelli del divino e dell’abisso che si hanno in sé. I segni sono per il poeta ‘le
tracce degli dei fuggiti’. I poeti nel tempo della povertà sono “erranti come i sacerdoti di Dioniso, in una
notte buia e tremenda che diventa santa”. L’erranza è una continua distrazione, le cose si saldano, è una
continua ricerca attraverso tanti errori, la condizione per proseguire il viaggio. L’elemento dell’etere per il
ritorno degli dei è il sacro.

Eugenio Montale, “Locuta Lutetia”. “Non so dove andasse, non so cosa fosse, ma a volte il genio è un colpo
di tosse.”. Nell’epoca della privazione anche un colpo di tosse è geniale, una cosa minima, ed è questa la
scommessa, una ricerca.

Ecco perché il poeta nell’assenza canta il sacro. Quanto gioca la razionalità in questo processo? Molto, dal
punto di vista critico, c’è un riconoscimento di ciò che non è necessario. ‘Critica’ e ‘crisi’ vengono da ‘krino’,
entrambi si riferiscono a un momento di giudizio, nel decidere cosa tenere e cosa no, la critica in quanto
tale viene prima della poesia, l’intelletto viene prima della lirica, bisogna cercare di capire quanto è ancora
possibile, solo in questo modo ritrovo il sentimento, solo essendo vecchi si ridiventa giovani. Devo avere
quanti più punti per potere trascegliere, l’artista lo deve fare perché vive in un mondo troppo pieno, troppo
povero. La riflessione è la Nigredo, indispensabile, ma che non deve essere fine a sé stessa.

 T. S. Eliot, “The Waste Land”.

Il poeta sente la necessità, perché il poeta che lo stesso Heidegger cita come continuatore di Holderlin è
Rainer Maria Rilke, “Elegie duinesi”, testi diversi ma con punti di consonanza. I poeti devono “poetare
l’essenza stessa della poesia”, andare al fondo di ciò che la poesia esprime in libera indipendenza dal
contenuto. Bisogna imparare a udire, interrogare, leggere, comprendere ciò che i poeti dicono, se non
vogliamo vivere inconsapevolmente “l’età che nasconde l’essere che lo custodisce”, calcolando il tempo nel
senso materiale.

Importante è allora il rapporto tra il dandy e il poeta: il dandy sarà un critico, il poeta no. La conoscenza
porta all’ignoranza. Solo attraverso la più larga conoscenza senza scrupoli, con elementi nobili o ignobili, si
arriva a quella scintilla che va effettivamente oltre l’aspetto culturale. Ci vuole un elemento di questo tipo.
Se l’ignoranza è guadagnata non è incompatibile con la conoscenza. Spesso l’ignoranza viene spacciata per
conoscenza. L’artista non deve aver fatto la critica di sé stesso.

?, “Ognuno va tanto più lontano se va soltanto laddove può andare sulla strada che gli è stata assegnata.”.
La scommessa è individuare sé stessi, ciò di cui non si può fare a meno, la scommessa è cercare sé stessi,
indipendentemente da tutto, la capacità di dire ‘io’ in maniera convinta. È l’estremo dell’individuo, essere
solo sé stessi. “Sempre sussiste una misura a tutti comune {…}” - l’inconscio collettivo - “{…} tuttavia viene
assegnato a ognuno qualcosa di proprio, ognuno sovviene e giunge fin dove può, trova la propria misura.” -
che ognuno misura secondo le proprie possibilità. È una dimensione biografica, un qualcosa che va vissuto e
va trovato fino in fondo, arrivare alla propria casa e fare la propria luce, cosa che avviene solo se si è arrivati
fino in fondo.
Ricostruiremo la genesi dell’Impressionismo e del destino individuale. Non posso essere salvato da
nessuno, se non da me stesso. Devo trovare i sacramenti a me adeguati. Altra lettura su povertà del tempo.
I poeti devono poetare l’essenza stessa della poesia - andare al fondo di ciò che la poesia esprime al di là
del proprio contenuto. Si ritorna alla libera associazione di cui parlava Jung, a quel ritmo di cui parlava
Bergson. Quando questo succede è da presumersi l’esistenza di un mondo poetico conveniente al destino
dell’epoca. I pittori devono trovare le immagini giuste di quest’epoca. I musicisti la stessa cosa. Dobbiamo
imparare a udire ciò che dicono questi poeti. Legge - domina povertà. Essere solo sé stessi. Sussiste sempre
una misura a tutti comune.
Dipinto di Agostino.
12/02/2020
Arte dalla metà dell’800 alla metà del ‘900.

Bergson. Distrazione – ritorno a contatto con la vita, lo “slancio vitale” di Bergson, molteplicità del vivente,
sensibilità moltiplicata, vivificazione dei sensi, si lasciano da parte i dogmi; ci immergiamo interiormente
nella nostra realtà, quella indefinita (doppio atto di riconciliazione, con il mondo esterno e con l’interiorità).
Compito degli artisti è rinnovare questa circolazione. Jung avrebbe parlato di “fare anima”, distrarsi molto
in profondità.

Jung. La seconda chiave è il possibile parallelo con il mito della caverna: l’artista come Socrate che si libera
delle apparenze, esce dalla caverna e si vuole liberare. Sollevando il lembo delle attitudini e delle abitudini,
lo fa per sé e per gli altri. Abbiamo la riproposizione in chiave moderna di questo mito. Quella che è la
caverna può essere chiamata “mondo moderno”, dato dovuto a questioni di carattere economico. Abbiamo
anche introdotto l’inconscio collettivo, per dire come esista al di fuori della caverna un territorio immenso e
collettivo, la MEMORIA COMUNE: una produzione che non è solo mia, ma che nell’essere profonda è una
corda pizzicata nell’anima di tutti, l’idea di ARCHETIPO DELL’INCONSCIO COLLETTIVO. Ogni isola è un
archetipo, come il ‘puer-senex’ (“Eros” platonico ne “Il Simposio”), la ‘grande madre’. Nella ricerca di
archetipi noi abbiamo anche riconosciuto l’IO nella sua mobilità (sogno a proposito della separazione da
Freud): c’è un inconscio e un pre inconscio collettivo e innato, e l’artista è colui capace di vivere in
profondità quel pre inconscio e di riproporlo nella realtà. Le esperienze profonde si veicolano solo in forme
apparentemente superficiali, attraverso le maschere. Resta ciò che produce il riempimento di un vuoto,
colma la mancanza. La profondità va portata su una scena reale.

La conoscenza è un intralcio a questo tipo di espressione? Bergson diceva di dover essere idealisti ma anche
realisti – non nel rifarsi al reale, non è possibile una spontaneità assoluta – c’è sempre un modo di
inventare con le tecniche, e in questo nell’essere umano c’è una grande volontà. Tutto ciò che è cultura non
è che uno strumento che favorisce l’espressione. È forse più importante pensare di riuscire a restare
spontanei, piuttosto che non esserlo. Si è creato un codice, che va conosciuto, e che poi può essere
modificato e adattato nella realtà, e la modifica è legata alla volontà.

G. Bruno, “Ci sono tante poesie quanti sono i poeti.”. Il dato essenziale è che prima o poi quello che ha
raggiunto la profondità degli archetipi venga riconosciuto, e allora “sono tornato là dove non ero mai stato”
(Caproni). Jung ci ha aiutato a vedere un riferimento alla storia non in senso astratto, ma dati con i quali
possiamo dialogare {…}. Ci ha anche parlato di ENANZIODROMIA, una corsa nell’opposto per sanare
quell’idea di stantia, e che esclude l’idea di progresso. Ci indica la libertà dell’arte ma anche il modo in cui in
un certo tempo si è vissuta quella libertà. È una dimensione fondamentale per raggiungere quel livello
archetipico.

“Al tempo la sua arte, all’arte la sua libertà.”

Heidegger. Saggio “E perché i poeti”, povertà che si produce nel progresso e nello sviluppo della libertà. Il
tempo della povertà è quello che non sa di essere povero, è il tempo della pienezza materiale, dove
“l’immagine del mondo è diventata mondo”. La globalizzazione è l’immagine del mondo, che non ha punti
di uscita. È il tempo della “notte”, dell’oscurità, più c’è luce artificiale più ignoro la luce reale, ignoro che la
realtà è tutta illuminata. Tocca così agli uomini arrivare fino in fondo. La notte che era “notte del mondo”,
per chi vi si aggira al buio, diventa ‘tutto ritenente’: se non ho la luce non ho quel che mi manca, ciò che
manca lo dà Mnemosine, una memoria profonda, un’arte quasi, che scatta solo se non ho più nulla da
ricordare intorno a me. Ognuno deve trovare la propria misura, al fondo di qualsiasi individuo c’è una
dimensione comune.
“Sentieri interrotti”. I poeti sono coloro che devono creare un sentiero nuovo, che sarà percorso da tutti,
ma che potrà essere tracciato solo se saranno percorsi i primi (dipinti di Agostino Arrivabene).

Ciò che determina l’eclissi è la RIVOLUZIONE INDUSTRIALE (600-700), che crea la povertà e la nozione di
progresso, la progressiva rimozione del passato. Si guarda soltanto alle “magnifiche sorti e progressive”: c’è
una visione polemica verso il tempo di Leopardi stesso, un fenomeno che può essere assimilato alla morte,
come se questa si riconoscesse nella Moda (“Dialogo della Moda e della Morte”, “Le operette morali”,
Leopardi). Abbiamo l’oscuramento, la perdita, una mancanza. Cosa manca all’arte di cui ci occupiamo?
Dobbiamo capire l’assente. Con l’idea di progresso tutto ciò che veniva prima viene progressivamente
rimosso, perché non è più utile, e l’arte mette in atto ciò che non torna, che viene inserito in un passato
remoto, perché non ritorna.

Viene tolto ciò che viene considerato ‘inutilità (anche la memoria), può essere al massimo analizzato,
perché il progresso è tale da escluderne il bisogno, perché la mentalità è basata sulla selezione, è un
movimento che parte dal 1751 (data presa in considerazione perché si è ricostruito che in quell’anno i
cotonifici inglesi diedero un profitto di un terzo più alto rispetto all’investito). È consentito un guadagno che
dà la possibilità di un investimento sempre maggiore. Tutta la cultura europea poi va verso l’essenziale,
verso il pratico: due grandi potenze sono l’Inghilterra e la Francia. Sono due lati che da una arte prendono
le forme dell’industria, dell’economia, della fabbrica, dall’altra “la raison”, la ragione (pubblicazione de
“L’Encyclopédie”, 1751 – possibilità di dare una forma a tutto). È una fase di restrizione pratica o teorica per
cui era nata già nel 1642 la prima rivoluzione guidata dal Parlamento inglese, che diventa non più la
rappresentanza dei grandi del regno, ma anche dei grandi dell’economia. In Francia si ha la rivoluzione della
borghesia solo nel 1789. Entrambi i fenomeni portano a una dimensione più formale, per cui la modernità
nasce come restrizione, a partire dal fatto che le rivoluzioni sono portate avanti da una minoranza, spesso
da una sola classe sociale, che porta avanti le sue volontà. Si istituiscono dei modelli di convivenza di stati
moderni fondati su forme collettive, che tendono a restringere la realtà. L’idea è che dopo quelle svolte
politiche, di tutto il passato non c’era bisogno (es. Museo del Louvre – specchio dell’ideale rivoluzionario,
toglie di mezzo la memoria per elaborare la nuova ideologia + presenza di nuovi piccoli musei che
mantengono la restante tipologia di arte, diversa da quella geometrica; tutta la Parigi del tempo è stata
fatta secondo il Louvre, tutto ne prende le forme). Così nasce gradualmente la protesta romantica, e poi il
neoclassicismo. Abbiamo così un movimento enanziodromico, la proclamazione di una forma per cui in
seguito si sente la necessità di uscire da quella dimensione (Romanticismo – idea legata al tempo, alla
rovina, al presente; Neoclassicismo – guarda il passato).

Crystal Palace, 1851. Festeggiamento di un secolo di Rivoluzione Industriale, prima grande esposizione
internazionale dell’industria, “The Great Exhibition”. L’Inghilterra è la culla di questa nuova mentalità; tutto
è cominciato dalla cittadina di Derby, per la costruzione della ruota del mulino ad acqua, nelle officine della
“Moulin Road” (non è più indispensabile l’energia umana, che viene soppiantata da quella idrica). La
stanchezza lascia il posto a un’energia inesauribile. È un clima che si crea in Inghilterra, legata al senso di
iniziativa personale, particolare, dove tutta la classe media si pone all’opera, a partire da Defoe, nel suo
“Viaggio e inchiesta dell’intera Inghilterra”: è la libera iniziativa, per cui una classe non rappresentata può
effettivamente prendere la guida. Si cercano dappertutto elementi tecnici per aumentare la produzione. Di
qui la mentalità scientifica dà luogo a una gran quantità di esperimenti, per cui la natura deve essere
sfruttata fino in fondo. La natura è riportata all’interno di uno schema di carattere pratico, tutto è riportato
dentro. È sbalorditivo vedere come il processo abbia portato dentro di sé tutto ciò che era legato
all’economia: tutto è fatto soltanto per essere utile, in maniera economica. La dimensione umana diventa
così essenzialmente produttiva, nasce il SISTEMA DI FABBRICA (“factory villages”). Ciò aumenta a dismisura
il potenziale economico dell’azione, e ciò è alla base del colonialismo (conquista territori per generare
nuovi mercati). Nel giro di pochi decenni gli inglesi diventano padroni del mondo grazie alla TECNICA, a cui
si unisce la necessità dell’informazione. Si avvia un grande sviluppo della stampa, anche di quella periodica,
e nasce un nuovo stile di vita; l’Inghilterra è la culla del giornalismo, della ‘review’, nata da Defoe (“Review
of French Affaires”), ma è anche importante ricordare il periodico “The Spectator” per esempio. Si crea un
costume, un modo di essere, per cui tutti devono essere al pari con questo sviluppo. È scritto in inglese
“STANDARD”, nasce questo concetto anche con l’uscita del primo dizionario standard di S. Johnson
(“Birmingham Journal”, 1732). Abbiamo anche lo sviluppo dei trasporti, prima con le chiatte sui fiumi e poi
sulle rotaie, con la FERROVIA, e gli sviluppi tecnici daranno il via ai grandi viadotti. Importante anche il
BATTELLO A VAPORE, altra applicazione della macchina per cui la ruota del mulino viene adattata ad essere
ruota del battello. Le città diventano luoghi in cui l’industria si rampica e dove la maggior parte delle
persone viene impiegata come operai. Gli inglesi hanno un ‘know how’ che pochi hanno. Tanto che nel
1850 il British Empire è enorme, la società vittoriana è quella dell’industria. Nasce così il nostro mondo. Gli
inglesi avevano già l’India, la “perla dell’Impero”, per cui diventano la prima grande potenza coloniale. È
l’Impero Britannico il primo a svilupparsi attraverso la rivoluzione industriale. E oggi gli stessi inglesi partono
per nuove frontiere, con la Brexit, nel tentativo di tornare alla loro mentalità industriale. Cosa ne facevano
del passato? Contava soltanto la dimensione pratica, nuova ed economica.

Allora nel 1851 gli inglesi celebrano il loro primato sulla civiltà occidentale. Dopo il Congresso di Vienna del
1815, l’unico nemico di Napoleone, quello di sempre, è quello britannico, è il duca di Wellington: ossia la
regola economica che batte quella politica di Bonaparte, nella Battaglia di Waterloo (1815). L’epoca della
Restaurazione vede come modello di fondo quello BORGHESE INGLESE. Tra il 1800 e il 1851 ci sono state
altre rivoluzioni, come quella in Francia del 1830, quando vengono defenestrati i restaurati borboni e il re
Luigi d’Orleans {…} (rivoluzione della bancocrazia, tentativo di modernizzazione del paese francese sulla
base del modello inglese); nel 1848-49 abbiamo l’ultima grande rivoluzione politica, avuta dappertutto
tranne che in Inghilterra (in Francia si crea una repubblica, con rappresentate Luigi Napoleone -> plebiscito
-> Secondo Impero, con Napoleone III imperatore). Sono tutte forze, che si spingono secondo il modello
britannico, ma tutto fallisce. Gli unici che hanno fatto affari con tutti sono gli inglesi. Anche i rivoluzionari
del 48-49 scelgono l’economia come forma di risarcimento che non si è attuata. Tutte le nazioni si allineano
al modello britannico, e nel 1851 (tarda primavera, per 6 mesi) gli inglesi festeggiano il loro trionfo epocale,
con il “Crystal Palace”. È un evento epocale nel processo della tecnica, avviene l’esposizione di tutti i
prodotti, il trionfo della tecnica nella patria della tecnica. Siamo in una dimensione di incandescenza, dove il
senso maggiore è il senso del PRATICO. Il palazzo fu costruito in poco tempo da un ingegnere progettista di
serre, Joseph Paxton, che propose l’uso della lastra standard di vetro - primo edificio in prefabbricato, che
sembra non modificare nulla, ma in realtà modifica tutta, fa sì che l’immagine dell’industria e la realtà non
si distinguano, l’immagine diventa reale in quanto non le manca nulla.

 Testo critico, “La società della trasparenza”.

Il villaggio globale non è che un ‘Crystal Palace globale’, un’immagine della realtà che si identifica con la
realtà stessa: la tecnica da immagine al mondo, e non c’è altro mondo al di fuori della tecnica. La
trasparenza è fredda, significa che le cose sono definite, non c’è mancanza (“Notte del mondo”). L’artificiale
diventa naturale, e allora gli uomini, le donne e la soggettività? Bergson non aveva visto male, nella
necessità di distrazione degli artisti; nel mondo vedono una trasparenza, ma non loro stessi, non l’io. Il
passato è superfluo, non serve più.

C. Cipolla, economista – Rottura della continuità tra il 1750 e il 1850; a metà dell’800 “il passato non è più
solo passato, è morto”. Di qui nasce l’UOMO A UNA DIMENSIONE, il produttore, l’operaio e il consumatore.
Tutto ciò che sta nel ‘letto di Procuste’ è conservato nelle teche, chiuso, perché non torni più. {…}

Per il Crystal Palace abbiamo tre milioni di biglietti venduti, con il quale nasce il turismo di massa, è un
embrione del consumismo turistico. Vengono fondati in tutto il mondo delle testate che riferivano ciò che
più era di moda al Crystal Palace, così nasce la MODA (sistema univoco, la stampa ha la funzione di
riflettere ciò che avveniva a Londra). C’erano le feste, una dimensione quasi euforica, la
spettacolarizzazione, si va verso una ‘società di massa’. Si è però ancora nel mondo borghese, c’è una bella
fetta di esclusi, ma nasce l’embrione del mercato internazionale borghese. È la prima grande vetrina
dell’industria. È il primo ‘non luogo’, la cui presenza è così totale da escludere qualsiasi assenza. Tema
fondamentale è la FOLLA: è la ‘società delle folle’, dove tutto si mescola, e tutto è il contrario di tutto, è
cosmopolita, una dimensione nuova e sbalorditiva. La folla entrerà nell’arte, come soggetto non comune ad
altro se non a sé stesso (es. “London Times” {…}).

Altro dato importante è l’INFORMAZIONE.

Cosa si poteva comprare all’interno del Crystal Palace? Abbiamo uno sviluppo tecnico straordinario (calesse
-> Ferrari). È una novità incredibile rispetto al secolo scorso. La tecnica va ad aderire anche alle necessità
quotidiane. Siamo in una fase aurorale, si andava pian piano verso quel sistema. Inizia la produzione a
stampo, che consente una grande velocità. Vengono finanziate le università, il sapere si aggancia alla
produzione. C’è un asse fondamentale che passa dall’Inghilterra agli Stati Uniti, dove c’è uno sviluppo
tecnico anche superiore rispetto all’Europa. Nel 1848 il dottor W. G. Morton realizza l’anestesia totale,
stessi anni in cui il dottor Morse inventa il telegrafo (1840). Le velocità delle comunicazioni porta al fatto
che ogni cosa è legata all’altra. Vengono creati canali nei Monti Appalachi, per portare una nave dall’altra
parte delle montagne. L’Occidente diventa il mondo della tecnica. Tutte le risorse tecniche vengono
applicate agli oggetti. In questo tempo si salta anche la diacronia degli stili, il danaro dava la possibilità di
procurarsi qualsiasi oggetto. Uno stile non è più un modo di vivere, ma STATUS SYMBOL. Molti dicono che
in questo momento è finita la storia dell’arte. Compaiono le nuove gerarchie dell’economia, del possesso e
del capitale. Il Crystal Palace appare come uno strano edificio che sembra la reggia antica di Versailles,
modello dell’Ancien Régime, ma anche una fabbrica; un mondo che porta dentro il contrario di tutto. Cosa
è rimasto al Romantico? ‘Sbatte contro il vetro dell’apparenza, non vede’.

13/02/2020
C. D. Friedrich, “Viandante sul mare di nebbia”, 1818. È interessante perché qualifica un’epoca, e ci serve
per tarare le questioni trattate ieri (Rivoluzione Industriale, Crystal Palace, ecc.). Il periodo, nella storia
europea e occidentale, ingloba l’epoca Romantica e Neoclassica. Il Romanticismo è da considerare come
elemento di sintesi di ideali che si erano in realtà già sviluppati. In Germania nel 1798 esce l“Athenaeum”
degli Schlegel, una rivista di sei numeri tra il 1798 e il 1800, pubblicati tra Dresda e Berlino, i cui editori sono
i fratelli Schlegel, e nel gruppo compaiono anche Novalis, Fichte, i giovani Romantici insomma. A questo fa
riscontro in Inghilterra la pubblicazione, nello stesso anno, delle “Lyrical Ballads” di W. Wordsworth e S. T.
Coleridge (1798).

L’età Romantica inizia nel 1798, comincia con una protesta in Inghilterra contro le restrizioni della
Rivoluzione Industriale. Appena prima il paesaggismo di Turner e Constable interpreta un bisogno di infinito
che tende a superare il limite del sistema di fabbrica, e di tutto ciò che questo comportava in termini di
restrizioni e di limiti di natura (enclosures, waste lands, ecc.), ma anche in termini di attività umana, sempre
più ricondotta nei ritmi meccanici dell’industria. Allora l’enanziodromia di cui ci parla Jung è un fatto reale o
no? Nel più industrializzato dei paesi troviamo uno slancio verso l’illimitato: più si afferma una mentalità
economica pratica e restrittiva, più nelle arti abbiamo un risarcimento di carattere infinito. Più complessa è
la questione della Francia, perché gli artisti aderiscono all’ideologia Napoleonica (J. L. David pittore
dell’Impero, che abita dentro al Louvre, il pittore ufficiale di Napoleone – forme geometriche ->
rispecchiamento dettami razionali Impero Napoleonico). È però con gli eccessi di Napoleone che anche in
Francia si afferma una pittura nuova – T. Géricault, “La zattera della Medusa”, 1819, e ancora prima “I feriti
sul campo di battaglia” (dimensione enanziodromica: si tratta di anonimi soldati soggetti a ferite, a dolore,
per cui l’elemento umano emerge in maniera nuova, schiacciando la razionalità grandiosa dell’Impero - non
abbiamo più la rappresentazione di Napoleone). È come se si volesse cercare la realtà senza filtri, e il tema
della realtà è quello che si impone per gli eventi che si verificano in Europa in quel tempo (fra ‘700 e ‘800), e
il Romanticismo già in parte li recepisce.

 W. Wordsworth, Seconda Edizione delle “Lyrical Ballads”. “La poesia non deve parlare la lingua
degli angeli ma la lingua degli uomini” - esigenza che si correla alla vita, e che vuole fuggire tutte le
costrizioni, comprese le convenzioni accademiche della poesia. Nelle poesie di W. Wordsworth ci
sono proprio gli umili, e addirittura chi non ha possesso delle proprie facoltà mentali, perché
l’umano è anche questo.
 S. T. Coleridge, “The Rime of the Ancient Mariner”. La questione è forse legata più a una corsa
verso l’infinito, per cui vengono descritti viaggi introno al mondo, al fine di legare il reale al
fantastico.

Ci sono strane connessioni tra ideale e reale, tra il fantastico e l’osservazione del reale, siamo sempre in un
piano che tende a eccedere in qualsiasi limite. Nel Romanticismo c’è una forte istanza REALISTICA, che si
sposa spesso alla NATURA in termini di campagna, distretto dei laghi, dei monti, dei mari, non della città,
non dei luoghi dove si stava covando un radicale cambiamento di vita e quindi di valori. A contatto con gli
elementi moderni, con l’industria, il Romanticismo si dimostra debole: ha bisogno di ‘salire in cima alla
montagna’ (Friedrich, “Viandante sul mare di nebbia”) è ‘l’anima bella’ di Hegel che non vuole
compromettersi con la realtà Il Romanticismo per vedere intorno a sé ‘resta sulla soglia’, vuole la realtà ma
al contempo non regge al contatto con una realtà reale, ha anzi bisogno di idealizzarla, vuole vedere
l’infinito. Difficile, ma non impossibile. Finché si rimane ‘in cima alla montagna’, non c’è possibilità che le
cose mutino.

Allora bisognerà ‘scendere da quella montagna’. C’è allora un tema fondamentale, su cui vale la pena
riflettere, e riguarda moti aspetti della cultura dell’800, l’idea del TRAMONTO, di ciò che stava in alto nel
suo scendere verso il basso. Un grande contemplatore del tramonto è Zaratustra, santo che è stato con la
sua aquila a contemplare il sole, lo elogia e gli dice “Cosa saresti se tu non avessi qualcuno per cui
splendere?”; allora ‘anche Zaratustra deve aver qualcuno per cui splendere’. Siamo ormai quasi alla fine del
secolo, ci interessa la metafora: per poter risarcire l’umanità di ciò che l’industria sempre più sottraeva, non
si poteva rimanere lassù, il bisogno era quello di ENTRARE VERAMENTE IN CONTATTO CON LA REALTÀ
BRUTTA, con l’impoetico, il precario e le difficoltà.

 W. Reich, “Scegli sempre il difficile”. La scelta è difficile, come la discesa e la riuscita. La discesa è
dolorosa, rischiosa, ti mette al buio, perché si sta espandendo la “notte del mondo”, che veniva ad
essere la notte santa per coloro che erano discesi proprio nell’abisso, nella notte che si rivelava
‘santa nella sua bruttezza’, nella sua alterità. È l’altro, l’ignoto, il mancante, vissuto come tale, e non
anestetizzato credendo che nel tempo non manchi nulla.

Nella prima metà del XIX secolo, dall’inizio dell’epoca Romantica al 1851 dobbiamo vedere il processo di
discesa di alcuni ideali romantici nella realtà. Proviamo a dare una partizione a questi decenni: quando
finisce il Romanticismo? Più che una data, che non può esistere in quanto è difficile da stabilire, possiamo
provare a misurare le spinte realiste che maturano all’interno del Romanticismo, il confine che ci interessa
anche pittoricamente fa sì che le istanze romantiche si trasformino in istanze realiste. Abbiamo l’affermarsi
di queste istanze realistiche alla fine del decennio 40 del XIX secolo, dal 1845 in poi. Si affievolisce la
dimensione romantica (esclusiva, marginale, sublime), subentra una dinamica realista, proprio la realtà. Tra
Romanticismo e Naturalismo c’è il REALISMO, con il nome importante di Honoré de Balzac, scrittore che si
occupa della realtà per come è. Corrispondente inglese di Balzac è Charles Dickens, con una famosa opera,
di poco successiva al Crystal Palace, “Hard Times”. Tutto è soggetto al terribile movimento di queste
macchine industriali, che sembrano teste di elefanti ma sono in realtà pompe idriche, dove tutto è
geometrico e in bianco e nero. Il personaggio che inneggia alla neutralità, alla geometria, alla distanza dalla
fantasia per avvicinarsi alla cruda realtà, il professore che in “Hard Times” entra nella scuola, soffocando le
volontà degli studenti, è Hector Horeau (?), colui che aveva commissionato il Crystal Palace a Paxton.

 H. de Balzac, “La Comédie humaine”. C’è tutta una serie di corrispondenze, ma ciò che ora è
importante è il dato reale, la realtà nuda e cruda. È una commedia iperumana, un insieme di oltre
2.209 personaggi, ritratti ciascuno diverso dall’altro -> realismo.

La realtà si impone come luogo di verifica di ciò che possiamo essere in quel tempo. Il nostro lavoro parte
dallo svanire del Romanticismo verso il Realismo, tendenza che si può osservare in maniera specifica
proprio nelle nazioni più progredite in senso moderno, e in maniera particolare in Inghilterra e in Francia. È
la nostra soglia, esattamente l’opposto di questa immagine, che ci immerge nella realtà, compiuta da uno
dei più importanti pittori europei dell’800, Gustave Courbet. Nasce in Francia, a Ornans, nella contea.

 G. Courbet, “Funerale a Ornans”. Segnale importante, immediato: “dipingo a partire da me”,


dall’esperienza diretta. Mentre l’uomo romantico era ‘in cima alla montagna’, non solo la montagna
diventa orizzontale, ma assistiamo anche a una moltiplicazione di soggetti, a un complesso di
psicologie, e dai volti si possono dedurre fatti di carattere caratteriale -> conferimento di un’identità
individuale al funerale. È un classico del Realismo.

“Il Realista dipinge il treno, il Verista lo prende.”. C’è un dinamismo nella rappresentazione che comporta
una maggior partecipazione. Ancora in Courbet, nonostante la molteplicità, c’è ancora il tentativo di
realizzazione di un’immagine che abbia un carattere un po’ improprio e ‘fotografico’. Dichiara che il pittore
può dipingere solo ciò che vede, la fantasia dev’essere dimenticata dall’arte.

 “Il Realismo”, saggio di Linda Nochlin. Ricostruzione delle vicende di passaggio, nella prima metà e
oltre il secolo.

All’inizio Courbet dipinge autoritratti, è ancora un romantico, ama la natura e la rappresenta, ha


rappresentato il mondo circostante in maniera idilliaca, poi comincia a sentire il bisogno di rappresentare la
realtà.

Courbet, “Gli spaccapietre”. Più interessante vedere ciò che non si vede piuttosto che ciò che si vede. Le
due figure sono ‘gli ultimi degli ultimi’, i poveri, gli umili, quasi non si riesce a intravedere il cielo -> il non
vedere l’esterno garantisce il senso della realtà, che non propriamente le due figure. Connota anche la
mancanza di volto, a dire che potrebbero essere tutti in quella condizione, anche questo è un dato
importante.

Courbet, “Funerale a Ornans”. Qui Courbet sposa l’idea di poter rappresentare la realtà così; lo dipinge
durante la Great Exhibition di Londra. Questo ci fa capire che in Courbet c’è un bisogno di far ‘trasparire’,
come se l’artista fosse un mezzo per far apparire la realtà com’è, sembra che ci sia una specie di revoca del
proprio io. Non c’è un autoritratto, ma la società che prende il posto della figura unica che abbiamo visto in
Friedrich. È un modo di ‘uscire da sé’, per far vedere la comédie humaine. Ce la fa vedere ancora secondo
degli schemi, da una parte ci sono le donne, e sono riconoscibili a destra, al centro abbiamo i notabili del
paese, a sinistra abbaiamo in rosso i magistrati e più in là il clero (spaccato della società). È un dipinto di
grandi dimensioni, esposto alla “Museo d’Orsay”, fece scandalo perché le grandi tele erano destinate a
quadri storici o sacri, mai a soggetti così bassi.

Altra cosa importante è che non si sa chi sia morto, tanto che la bara c’è ma non si vede, è coperta da un
drappo. Il morto nel funerale è decentrato, e al centro di tutto c’è una buca, e un uomo con delle calze dal
colore stridente, non consono ad un funerale. Vuole colpire così, con questi termini. Ci sono poi diverse
altre questioni, e tutto è preso in un terribile vuoto, anche il cielo è vuoto, l’unica figura che si innalza è
quella del Cristo Crocifisso, posto ad una sorta di incalcolabile distanza dal cielo. C’è anche però in fondo
una parallela incarnazione della pittura, letteralmente discesa nella materia. Courbet accresce il vocabolario
di forme della pittura, proprio perché rappresenta la realtà, e in quanto la fissa ha bisogno di un numero
maggiore di colori. Il realista aumenta sempre il dizionario; nel descrivere la realtà non ne rimane così
soggetto, la usa ma nel volerla rappresentare aumenta il mezzo espressivo, ci deve mettere dell’io; e il
colore, per aderire alla materia, lentamente diventa più che materia. Il Realismo porta sempre dentro di sé
l’opposto, ma proprio perché scende inizia a poter risalire – Courbet, mausoleo del Realismo francese, ha
anche stimolato l’evoluzione della pittura in senso non realista. Adesso siamo nel pieno di una poetica
realista realizzata seppur traboccante rispetto ai propri limiti, nel voler rappresentare le cose come sono.

Gustave COURBET (1819-1877) nasce a Ornans nel 1819, e morirà nel 1877. Ci sono attorno a lui le figure di
una civiltà letteraria ed artistica che animano il Realismo non solo come tendenza pittorica o artistica, ma
come vera e propria civiltà (civiltà de Realismo - Honoré de Balzac, 1799-1850). Nel 1850 esce l’edizione più
completa de “La Comédie humaine”, che consta di 137 scritti fondati su 2.209 personaggi, una sorta di
‘encyclopédie humaine’. Tra i grandi classici di questa cultura c’è Victor Hugo (1802-1885) – figura
centralissima nella cultura francese dell’800, l’uomo che ci fa vedere il passaggio dal Romanticismo a
istanze realiste fino al simbolismo, artista molto completo (“I Miserabili” usciti solo nel 1862, dopo circa
vent’anni di elaborazione). Ancora in Francia Champfleury – critico, scrive un celebre saggio e fa uscire a
Parigi un periodico fondamentale, entrambi sono intitolati “Il Realismo”. Poi i fratelli de Goncourt (Edmond,
1822-1896; Jules, 1830-1870), i primi a fare una grande collezione di dagherrotipi e di fotografie della realtà
Parigina – entra nel discorso di rappresentazione della realtà la dagherrotipia. Un motto realista è “Bisogna
essere del proprio tempo”, bisogna abitare il proprio tempo, guardarsi intorno e fare esperienza delle cose.
Altra figura fondamentale è Gustave Flaubert, con la “Madame Bovary” e “L’éducation sentimentale”,
romanzi in cui noi vediamo cose inenarrabili, come lo scatenamento delle passioni erotiche, la libertà della
donna. Abbiamo poi Èmile Zola (1840-1902) in un tempo successivo – maturazione dalle istanze realiste a
quelle veriste.

C’era sempre un bisogno di prendere parte, partecipare essere attivi nella Parigi del tempo. Courbet era
innamorato del viaggio, era un isolato, si rappresentava come un ‘buon selvaggio’, un po’ alla Rousseau.
Spesso si esprimeva con polemica verso i valori costruiti. La stessa buca, centrale ne suo “Funerale a
Ornans”, va a spiegare che oltre quella non è possibile rappresentare nulla. Anche nel “L’origine del
mondo”, l’opposto della fossa: come tutti siamo passati di qui, tutti passeremo di là. Ciò che si dipinge è
l’intervallo, una fedeltà di Courbet alla vita per come appare. È bene dare l’idea di inizio, di trasformazione,
quindi della solitudine romantica in una società d’uomini, trasformazione da quell’esclusivo punto di vista
di chi sta in cima alla montagna in un punto di vista comune, e anche attraversamento della ‘commedia
umana’ guardando il prossimo negli occhi.

Qui ancora non è grande, ma è una piccola folla, nuova caratteristica di questi anni. Sono anni di forte crisi,
una ‘crisi delle arti’, il non sapere cosa rappresentare e come rappresentarlo. Con tutta questa tribolazione
si arriva poi a un’iper tribolazione che sarà un secolo più tardi. Il malessere è dato dal sopraggiungere del
nuovo, della tecnica, e ci sono varie reazioni (es. Leopardi, “Dialogo della Moda e della Morte”). Forse la
crisi è dovuta all’incapacità di riuscire a dare un’immagine al nostro tempo.

Storia di Francia. {…} MANCA! La bancocrazia - periodo di monarchia liberale - dura fino al 1848, quando
viene rovesciato Luigi Filippo e la Francia diventa una repubblica. Nel 1849 Luigi Napoleone viene eletto
presidente della repubblica, e con il colpo di stato ad apertura di nuovo decennio comincerà il Secondo
Impero con Napoleone III. Il decennio che ci interessa è quello del Realismo: dalla fine degli anni 40 (1830-
1848), la fase di Luigi Filippo, con Courbet. Varcata la metà del secolo abbiamo il Secondo Impero di
Napoleone III, quindi le istanze realiste si consolidano quando la Francia torna ad essere un impero. Anche
le rivoluzioni hanno insieme carattere romantico e realista, anche qui c’è questa dimensione partecipativa
che però viene poi ricollocata con la nuova Restaurazione dentro quella dimensione economica/pratica che
tutti condividono. La Francia era un paese ancora fortemente agricolo, salvo alcune zone; Parigi poco oltre
la metà del secolo avrà quasi un milione di abitanti, l’altra importante città e capitale della modernità è
Londra. Altra capitale della modernità è New York, con l’importante figura di Edgar Allan Poe (1809-1849),
decisiva anche nel contesto pittorico francese. Appartiene alla prima metà dell’800, pubblica negli anni 40
un racconto-saggio formidabile, “L’uomo della folla” - discorso della folla che entra nei temi della
letteratura e anche della pittura.

“Un’allegoria moderna, o anche L’atelier dell’artista”, Courbet, 1855. Data importante perché la Seconda
Esposizione Internazionale dell’Industria si tiene a Parigi - cadenza di quattro anni nelle più grandi città. Nel
1855 Parigi vanta anche un primato rispetto a Londra, ossia il fatto che era stato costruito all’interno di
edifici al centro di Parigi un grande padiglione dedicato esclusivamente alle macchine (1851-1855). Nel
1855 Courbet allestisce anche a Parigi il suo “Padiglione del Realismo”. Quindi il Realismo è visibile come
stile pittorico proprio quando a Parigi si tiene la Seconda Esposizione Internazionale dell’Industria; era stata
voluta da Napoleone III perché reclamava di essere ‘modernizzatore della Francia’, quindi quell’Esposizione
era una sorta di vanto e anche una grande ‘vetrina interazionale’.

È un dipinto di grandi dimensioni, al Museo d’Orsay si trova di fronte al “Funerale a Ornans”, come se
fossero in un certo senso lo specchio dei tempi. Ci sono una serie di cose particolari: Courbet si rappresenta
al centro dell’opera mentre dipinge un paesaggio - di natura romantica, dietro c’è un uomo nudo torturato
nella posizione del cavalletto. Ha ai piedi un teschio, sembra quasi un crocifisso, anche se più basso di
quello del “Funerale a Ornans”, non risulta però ben visibile. C’è allora una specie di denuncia, come se
Courbet ci stesse dicendo che chi dipinge i paesaggi idilliaci lo fa senza veder la realtà vera; è una
dimensione RIFLESSIVA, una forma di AUTO-CRITICA, quasi a interrogarsi sul proprio fare. Parallelamente
dipinge altri aspetti della realtà, dipinge sulla sinistra una piccola folla, forse figure della sua famiglia,
abitanti di Ornans, anche miserabili e accattoni. Le fonti sono molto vaste, anche se lui ci vuole far credere il
contrario: ha potuto vedere la grande pittura fiamminga del Quattrocento e Cinquecento in Belgio, poi
quella Olandese del Seicento; anche qu emergono centre istanze realiste. Alcune figure sembrano risalire
alle peculiarità della pittura di Goya. Ci vuole far vedere tutto ciò che sta accadendo in termini quotidiani:
sono cose che non colpiscono subito, ma sono messe fuori posizione rispetto alla concezione accademica
dell’arte. La realtà è presa nell’attimo, in una dimensione transitoria; c’è il tema della temporalità, altro
dato che si evidenzia sempre nei termini della vita umana. Abbiamo poi alle spalle di Courbet una figura di
donna, una ninfa fuori tempo, una figura classica con i piedi sul pavimento, un ideale divenuto reale. Ci
sono poi personaggi reali, uno spaccato della parte intellettualmente più alta della società. Poi il bambino
che osserva il pittore, qualcosa di pietistico, una denuncia di carattere sociale, si denota l’impegno politico e
civile. Abbiamo poi il gatto che gioca con la coda ritta, è al centro, nonostante sembri un elemento
marginale. Poi c’è una figura decisiva, che non a caso sta su un margine, BAUDELAIRE, che ha in mano un
libro, sta leggendo. È il più distratto di tutti, così tanto che nella realtà legge qualcosa che non è lì, sembra
avere in un certo senso più memoria e sta non a caso sul limite estremo dell’opera.

Courbet e Baudelaire si conoscevano realmente, il secondo condivideva il realismo di Balzac, nei primi
tempi suo maestro di vita, soprattutto nel prendere contatto con le cose. Abbiamo un grande maestro del
realismo che rappresenta un poeta che ha molto guardato la vita, soprattutto quella di Parigi, ma che ha
anche suggerito l’idea che perché la realtà sia reale, è necessario ci sia anche quel qualcosa di più di quello
che appare. C’è così la possibilità di un passo in una direzione diversa, rispetto al vedere le cose come sono.
Ancora, siamo in un luogo al chiuso, un insieme sostanzialmente organizzato, dove le figure sono un po’
‘messe ad arte’, secondo le volontà di Courbet; non è ancora uscito ‘en plain air’. Non è un dipinto
concluso, dà elementi su cui riflettere, ma la somma la troviamo noi (altezza artistica e intellettuale, critica).
Ciò che dipinge non è la realtà, è un dipinto ‘multidimensionale’, abbiamo gli elementi riflessivi mescolati a
quelli espressivi. È uno ‘Zibaldone’, un insieme di cose da cui possono venire delle conclusioni, un’opera
aperta che rappresenta un infinito riflessivo. C’è un senso di crisi della rappresentazione, non più
accademismo e romanticismo, non si ha ancora il realismo, si aprono delle prospettive che hanno bisogno
di essere completate in vario modo. Siamo nella direzione giusta, il realismo ci si è osto come mezzo ma
non come fine.

Risulta indispensabile introdurre allora la figura di BAUDELAIRE. “I fiori del male” come metafora, ‘i fiori
dell’altro, del brutto, di ciò di cui non si deve parlare o che non si deve vedere’. È una riflessione su ciò che
la letteratura non aveva ancora in sé, su quella realtà che non era ancora stata registrata. C’è un esplicito
realismo anche in questo.

Versi di Baudelaire, che avrebbero dovuto far parte del suo libro “I fiori del male”. È un elogio delle
dissonanze, anche dal punto di vista formale. Abbiamo la notte che arriva, e il tramonto del sole Romantico.
Chi cerca il passato corre verso qualche cosa che risulta inafferrabile: cercare l’elemento romantico, se non
come tramonto, oscuramento, significa non arrivare a cogliere questo dio che si nasconde. Bisogna avere
l’idea di trovarsi a un certo punto al buio: chi sta cercando ancora una luce in questo tempo dove la luce
non esiste più, è destinato a non trovarla. Il Romanticismo è finito, il sole è venuto meno, non c’è più
possibilità di stare in cima alla montagna. Allora “ho visto tutto”, la realtà si è esaudita, i raggi del sole sono
venuti meno, non si ha più relazione con il divino, e io seguo invano la tecnica. La tecnica, l’industria
inarrestabile, stabilisce il suo regno. Il vero cercatore è colui consapevole di aver perduto qualsiasi
possibilità di non essere lì. C’è un senso di angoscia, la necessità muove l’uomo, è patita da dentro. L’unica
cosa che è rimasta sono ‘il rospo e la lumaca’, l’unico momento in cui percepisco qualcosa che, nella sua
ripugnanza, mi prede, mi interessa. L’idea implicita è il bisogno di occuparsi della realtà, bisogna entrare nel
Crystal Palace. Bisogna mettersi a contatto con quella molteplicità, con ‘il tutto ritenente’, il moderno, ciò
che si è generato con la Rivoluzione Industriale

Motto di Baudelaire, “L’artista deve entrare nella folla come in un enorme serbatoio di elettricità, deve
diventare lo sposo della folla”. L’artista moderno è colui che non si nega nulla, ma anzi che si apre a tutti i
tipi di esperienza. È completamente svincolato da qualsiasi tipo di ombra, ha perduto tutte le certezze ed è
ora un errante, un camminatore, un vagabondo. Il tramonto del sole Romantico allude quindi alla
possibilità di una specie di alba contemporanea al tramonto esterno, un’alba che non è più da fuori, ma
viene da dentro, abbiamo un cambiamento di prospettiva. Mentre prima il mondo era visibile e le cose
erano date, ora quel tempo è finito, perché ora “l’uomo solo nella notte accende una lampada” (Eraclito).
Allora Baudelaire dice che il Romanticismo è forse la forma più alta di modernità, e dice anche che hanno
sbagliato a cercarlo fuori, come fosse un atteggiamento, in realtà era dentro. Lo spirito romantico vero è
quello di sposare la realtà, interrogarla e creare relazioni tra cose che non erano state considerate, nella
realtà della propria esperienza. Solo qui il piede tocca, il toccare è un modo di sostenersi. Primo punto è
APRIRSI ALLA REALTÀ.

Courbet aveva prima rappresentato Baudelaire mentre era intento a leggere, è ciò vuol dire molto, in
quanto “alleata di coloro che erano nella Santa Notte è Mnemosine” (Hiddeger), la madre della Muse. Si ha
bisogno della memoria, come deposito di tesori, scrigno che va chiamato in causa a contatto con la realtà.
Ho bisogno di riuscire a coniugare ciò che so con ciò che vivo, cercare nuove forme attraverso la negazione
di quelle più prossime per rispristinare quelle antiche.

Mentre declina il sole esterno nasce un sole interno, un IO NUOVO, tutto inclusivo, diverso da quello
esclusivo dei Romantici. È l’io nuovo dei Moderni veri, dove espressione, soggettività e umanità vengono
conferiti a ciò che pare non esserne provvisto. È una scommessa, a cui devo essere disponibile, attraverso
due vie: viaggiando molto, e conoscendo tutto ciò che è possibile conoscere senza pregiudizi, mettendomi a
contatto con ‘il tutto ritenente’. Ai Romantici mancava la vera relazione con il reale, questo nuovo io pone
alla luce parti nuove.

È un dato di metodo, che nella visione di Baudelaire entra, gioca nella poesia, ma vale anche nelle arti
figurative. In lui poesia e critica si annullano, l’una diventa l’altra. Lui stesso teorizza una prosa mobilissima,
capace di coniugare cose tra loro lontane, associazioni affascinanti, nell’essere ‘sinceri senza essere
patetici’. Fu anche grande giornalista; riforma la prosa giornalistica, soprattutto anche il linguaggio
essenziale del giornalismo nel senso poetico, è un RIVOLUZIONARIO CONSERVATORE. Ha bisogno
innanzitutto di mostrare in pittura la realtà, e questo qualcuno è Courbet, ben consapevole che Baudelaire
portava dentro di sé molto più di ciò che rappresentava, la memoria, la poesia. Tramonto e alba diventano
complementari.

L’animale totemico di Baudelaire è il gatto, sintesi delle contraddizioni, mette in comunicazione ciò che non
può essere messo in comunicazione.

BAUDELAIRE. Nasce a Parigi il 9 aprile 1821, e muore nel 1867. Nasce da una famiglia borghese, il padre era
addirittura a capo degli uffici amministrativi del senato, era un alto burocrate. Studierà nel Collegio Reale di
Lione nel 1833; era un formidabile latinista, vincerà premi di versificazione latina. È un dato importante in
quanto spiega lo sposalizio tra istanza realista e la cultura del passato – come il gatto, Baudelaire è sintesi
degli opposti, antico e reale sono legati inscindibilmente. È un punto che ci consente di comprendere
meglio la posizione di ‘intellettuale distratto’ affibbiatagli da Courbet. È un uomo non facile, c’è una
condizione di disagio psicologico nella volontà di famiglia di fargli conseguire studi giuridici; si iscrive nel
1840 alla facoltà di giurisprudenza, comincerà a vivere in maniera dissoluta (convivenza con prostituta
ebrea – apertura diretta verso uomini e donne). Lo manderanno a fare un viaggio ‘disintossicante’ in
Oriente.

14/02/2020
Saggi di critica di Baudelaire. {…}

Baudelaire è uno dei grandi autori dell’800, forse quello che ha più intuito anche l’arte che non è riuscito a
vedere. La data della sua morte (1867) precorre le mostre impressioniste dal 1864 in poi; è stato amico di
Courbet (rappresentazione ne “L’atelier dell’artista”, 1855), ma anche del più giovane Manet; Baudelaire
costituisce una specie di anello infra generazionale. Non bisogna considerare le varie correnti artistiche e di
pensiero come separate tra loro, queste convivevano; lo sfondo di scambio più frequente erano i caffè
parigini, luoghi frequentati dalla folla, che garantiscono un avvicinamento dell’intellettuale/artista alla
società (mentalità di Courbet). C’è una certa mescolanza, e ciò spiega l’evoluzione della società – nuovi
valori modernità.

Baudelaire come RIVOLUZIONARIO CONSERVATORE, ha l’idea di poter essere sempre ‘un Prometeo ed
Epimeteo’, ha intuito il corso dell’arte in un tempo che non avrebbe visto di persona (1867 – il decennio del
‘60 è quello della formazione delle istanze Impressioniste, del Pre Impressionismo).

Abbiamo il viaggio disintossicante in Oriente, con destinazione Calcutta, ma a mezza via ritorna indietro. Il
viaggio è comunque per lui realtà e metafora: ‘homo viator’ (poesia di Baudelaire che invita al viaggio – ci
vuole portare là, vuole essere raggiunto dal lettore, in quel luogo dove tutto è lusso, calma e volontà). Ci
sono in lui elementi di carattere esotico, che porta quasi fino al cuore di Parigi (legame con prostituta ebrea
– carattere di alterità). Il punto essenziale è quindi la COMMISTIONE TRA LE COSE, l’idea del viaggio
metropolitano, per cui la folla è ‘l’acqua umana in cui si naviga’, quindi nonostante non concluda il viaggio
non recede all’idea di essere ‘inadatto, sradicato’, distante, ‘attratto verso l’altro’, senza limiti verso la
propria esperienza.

‘Esperienza’ – dal greco ‘peras’, ‘limite’, ‘esperienza’ significa ‘muovere dal limite’, il limite è la propria
identità, la cultura; Baudelaire va verso questa dimensione indeterminata, “scegliendo sempre il difficile”
(Richte).
Anche nella sua poesia l’istanza tradizionale si collega a quella innovativa, nel lessico soprattutto, mettendo
insieme tutti i generi (stessa cosa fatta dai suoi amici pittori). Dal Romanticismo in poi assistiamo a un
superamento di tutti i generi, vengono meno i due grandi poteri, la nobiltà e il clero (crisi della
committenza), nell’arte, che viene ora coordinata dal notaio, dall’avvocato (-> nuove esigenze). I nuovi
venuti, i borghesi, vogliono lo specchio del mondo in cui vivono, e gli artisti tentano di venire incontro a
questi cambiamenti. Il linguaggio viene elaborato in modo più vitale e meno formale. L’opera d’arte
dev’essere così una SINFONIA (idea romantica), che porta in sé l’idea che tutti i generi vengano a creare una
sintesi formale. La sinfonia per antonomasia è il romanzo, la prosa, formula che riesce a mettere insieme
tutto; la scrittura pian piano evolve, si fa più morbida, mobile (Wordsworth, “Lyrical Ballads” – il poeta non
deve parlare la lingua degli angeli, deve acquisire quanto più materiale può).

Baudelaire è l’esito di questa sintesi, sogna una prosa poetica, che possa raccogliere “tutti gli urti e le
stimolazioni delle grandi città”, e in poesia riporta questo materiale composito in una struttura di
versificazione che spesso è viceversa rigida, classica. Rinnova la sostanza della poesia immettendola nelle
forme classiche, o anche trasgredendo quelle forme con qualche infrazione. È importante allora il lavoro di
sintesi, di riforma, di ripresa, in vista della composizione dell’opera d’arte. In Baudelaire soprattutto
abbiamo l’affermazione della DIMENSIONE CRITICA - dimensione di riflessione dell’artista/autore sul
proprio fare - che in Baudelaire è una riflessione sulla poesia (scrittura che analizza ciò che fa in termini
poetici, ma è anche un rivolgimento verso le arti, perché gli artisti comprendano loro stessi e le motivazioni
che li portano ad essere tali). Baudelaire inaugura così una CRITICA NON GIUDICANTE. Il critico rimane colui
che stabilisce se un determinato autore dovesse esistere o non esistere, dando un giudizio di valore; in
Baudelaire, che comunque esprime la propria opinione, si capisce che c’è un senso di collaborazione, di
dialogo, che abolisce le categorie di giudice e giudicato (comparsa senso di collaborazione e di amicizia).

Di qui l’importanza degli scritti di Baudelaire sull’arte. Abbiamo un volume, “Scritti sull’arte”, curato da Ezio
Raimondi e Giuseppe Guglielmi, con editore Einaudi.

Baudelaire, “I fiori del male”. È la raccolta di Baudelaire per antonomasia, ma insieme a questo esistono i
poemi in prosa, riflesso di quel discorso di trovare lo strumento del mistico che prenda dentro di sé tutto,
anche al di là dei limiti della poesia. Ricompare la prosodia, in fondo al ‘ritmo del ritmo’, alla ricerca dello
spirito della lingua al di là delle forme; abbiamo una scansione fondamentale della lingua in ogni lingua.
Nella nostra lingua c’è un ritmo all’origine dell’endecasillabo, e in tutte le lingue c’è un ‘ritmo nel ritmo’, (T.
S. Eliot parla di ‘mind of the language’, ‘lo spirito della lingua’ – “Tradizione e talento individuale”, incluso
nella raccolta “The secret wood”: saggio che spiega la prosodia di Baudelaire). L’esperienza del profondo
della lingua, del ritmo profondo, pone l’arte non solo nel piano del ritmo esteriore, ma anche nel piano di
ricerca da parte del distratto del luogo nel quale non era mai stato. Bisogna allora considerare l’opera di
Baudelaire da tutte le facce: se da un lato riversa questa mescolanza di materiali lessicali nel verso,
dall’altro dovrà anche trasporlo nell’articolo di giornale. Le due cose sembrano appartenere a valori
opposti: il verso è scritto per rimanere in eterno, il giornale è quotidiano, invece le due cose si tengono
(figura di POETA-GIORNALISTA, come lo era stato il suo maestro ideale, EDGAR ALLAN POE). Diceva di
recitare tre preghiere tutte le sere: una per sia madre, una per sé stesso, e una per l’anima di Edgar Allan
Poe, americano che non ha mai conosciuto ma che ha tradotto e introdotto nella cultura europea. Nel
contesto americano Poe fu giornalista, critico e poeta, e i suoi “Racconti” sono una specie di sintesi
straordinaria tra tutti i generi.

‘The man of the crowd’ – tema importante, ampliamento e diffusione< Baudelaire era molto legato a
questo tema, che emerge molto in Europa ma anche in città lontane importante, come New York.

Abbiamo la morte del padre, lo strano rapporto con il patrigno militare, un rapporto di ‘odi et amo’, come
fu quello con le donne – voleva la prostituta e l’angelo (assimilazione al gatto – dimensione erotica spiccata
nella figura della donna). Fu cattolicissimo, e pose sempre insieme le dimensioni di erotismo e pentimento.
Costantino Kavafis. Grande poeta greco del ‘900, fu il primo maestro di Filippo Tommaso Marinetti e di
Giuseppe Ungaretti. Diceva che nella strada dove abitava ad Alessandria d’Egitto c’erano tre cose
fondamentali: la sua casa, il bordello per soli uomini e la chiesa nella quale si andava a pentire. Per
Baudelaire è la stessa cosa, e di qui anche l’idea di mettere insieme gli opposti: la donna ‘prostituta
demoniaca’ e ‘angelo’, cosa piaciuta alle donne in quanto le toglieva dalla sola condizione di essere madri,
sorelle, sante. A volte da Baudelaire sono viste con timore, a volte con disprezzo, in quanto rivelano volti
nascosti per molto tempo; emerge nella figura della donna l’idea di male, una molteplicità di volti. La donna
diventa l’amante, subentra la polisessualità femminile, subentra l’interesse per gli amori sadici (“I fiori del
male”, dialogo a letto tra due amanti donne). Ci si muove dai valori stabiliti, si rivelano novità proprie del
mondo circostante.

Per quanto riguarda la vita, abbiamo i rapporti sempre tesi con la famiglia, in particolare quelli con la madre
e con il patrigno, che sono valsi i tanti saggi psicanalitici. Entrerà nella sua vita anche un tutore, in seguito
alla dissipazione di denaro di cui era entrato in possesso, dopo che la madre lo aveva fatto interdire (<.
Tensioni tipiche romanzi ‘800). Importante che negli anni tra il 1843 e il 1844 la frequentazione dei fumatori
di hashish ed oppio. Nella letteratura abbiamo la comparsa del tema del doppio, come mio doppio, ossia
l’altro, sia come doppio appartenente all’altro sesso. Importanti da citare sono Wilde, “Il ritratto di Dorian
Gray”, Stevenson, “Lo strano caso del dottor Jekyll e signor Hyde”, e Huysmans, “À rebours”. Altro
baudelairiano alla lontana nella letteratura russa è Goncarov, “Oblomov”: anche qui c’è una dimensione di
strana partecipazione, sono tutti personaggi in contraddizione con loro stessi. Ma Baudelaire è il primo ad
incarnare queste contraddizioni, diventa un paradigma per gli altri, la sua vita è un’orgia di contraddizioni,
ed è fertile proprio per questo. Nel contesto parigino Baudelaire incontra Théophile Gautier, al quale sarà
dedicato poi il suo capolavoro, “I fiori del male”, poi Victor Hugo, ma i due non si piacciono, sono spiriti
opposti (al tempo è massimo esponente della coscienza politica, quando il presidente della repubblica Luigi
Napoleone si trasforma in Napoleone III, Hugo andrà in esilio e vi rimarrà fino alla caduta dell’Impero, nel
1870 – temperamento non condiviso), poi Sainte-Beuve.

Il rapporto con l’arte viene inaugurato con la sua attenzione che lo porta alla collaborazione con i pittori e
gli artisti in generale nel 1845, proprio con la recensione del “Salon”. Si tratta della tipica esposizione
parigina, antichissima, in origine il “cortile del Louvre”, dove venivano esposti i dipinti e le sculture che poi i
nobili, il clero, poi il re stesso di Francia passavano in rassegna, e su indicazione dei pittori commissionavano
le opere; era una sorta di vetrina nel quale si faceva il successo o la fame, era necessario un filtro di accesso
delle opere all’esposizione, secondo un sistema che andrà poi in crisi. Il sistema viene istituito da Luigi XIV, il
Re Sole, si inaugurava il 25 agosto, giorno di San Luigi.

Per quel che riguarda le recensioni del Salon, è necessario menzionare Denis Diderot, inauguratore della
CRITICA D’ARTE MODERNA, che scriveva per un giornale parigino, “Corrispondenza Letteraria”, le
recensioni del Salon; la rivista aveva anche un’edizione scritta a mano, ricevuta dai grandi d’Europa. Cosa
interessante è che Diderot, non potendo riproporre le immagini, si arrangiava nella loro descrizione,
fondando così uno stile critico, del quale Baudelaire era molto consapevole, modello per gli altri critici. Il
Salon ha un suo sviluppo, si decentrerà poi, verrà organizzato in modi e con sedi diverse; da un lato resterà
luogo di esposizione di pittori importanti, dall’altro sarà luogo di esposizione delle eccezioni che
confermano la regola. Al tempo del Secondo Impero l’imperatore concede che sia fondato il “Salon des
Refusés”, il “Salon dei Rifiutati”, di coloro che erano stati rifiutati dal Salon ufficiale: un po’ come se si
volesse creare l’accademia e insieme l’anti accademia. Anche questo segnala che i tempi stanno
cambiando, non abbiamo più solo la fruizione dell’arte in modo accademico, legato alle istituzioni della
monarchia, ma l’arte diventa modo di fruire di quelle opere che i critici non hanno considerato degne di
entrare tra quelle immortali. Così la recensione di Baudelaire ha dentro di sé tante memorie, e così è anche
importante ricordare la critica d’arte inaugurata da Diderot.
Ancora nel 1846 un’altra importante recensione del Salon, nella quale compare un’esaltazione di Delacroix,
inquieto per antonomasia e pittore romantico per eccellenza secondo Baudelaire, aveva tanti elementi in
comune con lui. È anche l’anno nel quale abbiamo l’annuncio della raccolta di versi di Baudelaire, “I fiori del
male”. Nello stesso anno abbiamo in Francia le barricate (1848), e anche qui Baudelaire è in prima linea, si
batte per il nuovo (Romantici: in gioventù di estrema sinistra, e si arriva all’estrema destra nel corso della
vecchiaia). In quel momento Baudelaire è per la rivoluzione, e intanto porta anche a compimento le prime
traduzioni da Edgar Allan Poe, la prima è “Rivelazione mesmerica” – strana vicenda di sopravvivenza
dell’anima in un corpo morto, aspetti inquietanti e macabri, strisciante spiritismo; è un corpo mantenuto in
vita per opera dell’anima, grazie da una serie di procedimenti scientifici. Nel 1849 Baudelaire si allontana da
Parigi, va a Lione e conosce Courbet, ecco perché poi verrà rappresentato nell’opera dell’artista nel 1855
(“L’atelier dell’artista”). Nel 1852 esce il suo saggio su Edgar Allan Poe, “Edgar Allan Poe, la sua vita e le sue
opere”, poi nel 1853 traduce “Il corpo” – tema dell’amore perduto, della morte. Dal 1854 inizia la
pubblicazione delle “Storie straordinarie” di Poe, nel 1855 fa uscire 18 poesie nella rivista “Dei due mondi”
con titolo “I fiori del male” (c’è un annuncio nel 46, e in seguito la pubblicazione nel 55 delle 18 poesie). La
prima edizione dell’opera è del 1857 e c’è subito il processo e il sequestro per oscenità da parte del
pubblico ministero Ernest Pinard, lo stesso che aveva ottenuto la condanna di “Madame Bovary”, era
specializzato nella censura. Altre opere che vengono accantonate sono “Donne diaboliche”.

Poi nel 1859 compare un’altra recensione del Salon, con tante considerazioni anche di carattere teorico
sull’arte. Un punto importante, che ha a che vedere con l’acquisizione della folla, è che Baudelaire dice che
tutti hanno personalità tranne il poeta, perché il poeta può assumere ogni sembianza che ritiene adeguata
(Pirandello, “Uno nessuno centomila”). Il poeta ha la libertà di assunzione di tutto, tutto per lui è vacante,
può assumere tutte le caratteristiche che vuole, può incarnare qualsiasi modello, diventare qualsiasi cosa.
Non si ha più paura di entrare a contatto con le cose, il Romanticismo lassù sulla montagna è finito, e al
buio il poeta può accendere una lampada a sé stesso, è libero di decidere, di rischiare, di andare verso
quello che sente come mancante. Importante è allora il discorso dell’IMPERSONALITÀ: nelle lettere di John
Keats si teorizza il ‘poeta come vuoto’, che può assumere tutte le caratteristiche, dotato di “negative
ability” - facoltà di negare sé stesso per affermarsi attraverso una maschera, un altro. Il modello è William
Shakespeare, il cui teatro ha una straordinaria ‘saramanga’ di maschere, è il modello dei modelli. Nel teatro
abbiamo l’emersione del mondo antico, della dimensione del fantastico, le vicende storiche recenti e non:
di tutto ciò Shakespeare è tutti e nessuno, è proprio questa l’idea ripresa dai Romantici.

August Wilhelm von Schlegel, che compare nel contesto dell’“Athenaeum”, tiene corsi universitari su di
lui, lo rimette in ‘augere’ rispetto a un periodo di eclissi, in Shakespeare c’è questa visione di io molteplice
che prende dentro tutto. Baudelaire riprende questa idea di IMPERSONALITÀ PERSONALE, in francese
“personne”, “nessuno”, l’essere nessuno inteso come possibilità di essere tutti. Questo è forse uno dei
punti più interessanti del pensiero critico di Baudelaire su sé stesso e sugli altri: ci dice che uomo e donna
non sono ‘individui’, indivisibili, ma ‘dividui’, divisibili, portano in sé contraddizioni che una sola identità in
qualche misura rimuove, quindi abbiamo ‘l’altro nel proprio’.

Nel 1861 esce la seconda edizione de “I fiori del male”, e nello stesso anno Richard Wagner va a Parigi ed
esegue alcune sue composizioni, sfruttando anche lo strumento del canto, e immediatamente Baudelaire
intuisce la grandezza di questo musicista, che rivede tutto il romanticismo dello spirito tedesco e l’idea
dell’‘opera d’arte totale’. La musica Wagneriana è vista come elemento che connette questioni diverse tra
loro, è una musica che si prolunga estenuante per lirismi e per dissonanze (negli stessi anni nacque la
“Rivista Wagneriana”); allora l’essenza della musica diventa capace di connettere tutte le maschere che
l’artista può formare. Il punto essenziale è che con lo spirito della musica si entra in profondità, anche nella
pittura, si ottiene la MUSICALIZZAZIONE di tutti i generi, in quanto la musica è la meno mimetica e la meno
imitativa di tutte le arti, attraverso cui si privilegia nel linguaggio il ritmo, il puro accordo e l’accordo tra
colori.
Nel 1863 Baudelaire pubblica “Il pittore della vita moderna”, sintesi del suo pensiero. Lo pubblica in tre
puntate su “Le Figarò”, pertanto comincia come se si trattasse di un articolo. Cosa importante per il
giornalista, nonché ovvia, è tentare di creare un interesse perché il lettore lo legga; c’è quindi un libero
mercato, ci sono più giornali – necessita di una scrittura che comporti una selezione da parte del pubblico.
Oggi siamo arrivati alla parodia di questo, si inventano notizie perché si leggano le cose, ma qui c’è un
problema di misure, non si può in questo rinunciare alla complessità solo perché alcuni operano
malamente.

La modernità, da “modus”, è la ‘ricerca di un equilibrio’, anche nelle condizioni meno facili o più
pregiudicate, La scommessa è quella di riuscire a stare in equilibrio dove è più difficile stare: più le prove
sono ardue, più è necessario essere padroni di sé stesso per poterle sostenere. È più importante il concetto
di ‘moderno’ che non il concetto di ‘nuovo’, anche se la parola che chiude “I fiori del male” è il ‘nuovo’,
l’inedito, ciò che non è stato ancora esperito. L’elemento importante però attraverso questo nuovo è la
conferma di una dimensione antica, le due cose sono correlate, non c’è novità che escluda ci che l’ha
preceduta. In questo il risarcimento è anche un risarcimento in proporzione alla memoria.

L’aggettivo ‘moderno’ è molto antico, compare per la prima volta con Aurelio Cassiodoro sotto il regno di
Teodorico. Questo lo impiega in ambito architettonico, volendo creare uno stile all’altezza della Roma
imperiale nel regno romano-barbarico: “{…} così da erigere opere antiche e insieme rivestire quelle nuove
di un antico splendore {…}”. L’antico e il nuovo sono insieme, vogliamo ‘innalzare edifici moderni senza
creare danno a quelli vecchi’. È il modello Baudelairiano, per cui il tema del ‘moderno’ è antico. Altra
intuizione geniale di Baudelaire è che ogni epoca ha avuto la sua modernità: se si ha questo contemperare
con l’opposto, l’antico al nuovo, significa che ogni epoca è stata in grado di esprimere con consapevolezza
questa mediazione, ogni epoca ha la sua modernità, la sua capacità DI STARE IN PIEDI ATTRAVERSO LA
CRISI, IL CONFRONTO CON L’ALTRO.

Primo punto allora è che il moderno è uno schema, una logica, che si può verificare e riproporre in tutta la
storia d’Occidente dove la storia è fiorita con particolare fortuna e intensità, e questo è anche un modo per
riflettere su come bisogna comportarsi in termini di immagini: per esempio la rappresentazione dei costumi
contemporanei, parlando propriamente di abiti, senza far sì che il soggetto deve essere vestito con abiti
antichi per essere bello, o portando solo corazza ed elmo. La rappresentazione stessa di costumi quindi, per
esempio, risulta un dato importante, in quanto ogni epoca modera ha rappresentato i propri costumi.
Nessun costume antiquario esce dalla propria dimensione classicista o neo-classicista. Questo è un
suggerimento prezioso che Nietzsche, la dimensione di modernità si sposa con il concetto Nietzschiano di
‘attualità’. Nella sua seconda “Considerazione inattuale”, “Dell’utilità e del danno della storia della vita”,
afferma circa la storia stessa tre modi di intendere la storia: la storia monumentale - quella che vede
soltanto i monumenti, e nega la realtà vera della storia, la storia umana; la storia antiquaria – privilegio
dato al passato, in quanto soltanto questo è degno di essere conosciuto, solo il passato ha valore (tipica
mentalità antiquaria, già denunciata da Baudelaire); la storia concepita in senso critico - parola che deriva
dal greco “krino”, “giudico”, una storia come interpretazione della storia, come continua riscrittura della
storia.

Il concetto di riscrittura della storia ha significato di reinterpretare la storia alla luce delle esigenze del
presente. Il grande storico svizzero dell’800 Jacob Burckhardt diceva che chi scrive storia non scrive che
‘l’esito di ciò che un’epoca trova interessante in quelle che l’hanno preceduta’, per cui ogni epoca scrive la
propria storia. Una VISIONE CRITICA DELLA STORIA significa una storia nella quale io trascelgo il mio
passato, in fondo lo creo, e così creandolo lo rendo presente (Marguerite Yourcenar - imperatore Adriano
come miglior caso di reinterpretazione della storia, in quanto il presente rivela degli aspetti del passato che
non si conoscevano).
C’è un limite a questa reinterpretazione? Non c’è il rischio di traviare la verità storica? C’è il rischio di
traviare la verità storica, va messo in conto, ma ci si augura che lo storico sia responsabile. La responsabilità
andrebbe dimostrata dall’opera stessa, non c’è possibilità altra. C’è anche un elemento fattuale, ma
l’oggettività più noi studiamo un evento o un periodo storico, più sfuma, allora bisogna essere capace di
rendere giustizia anche al limite della nostra interpretazione, non assolutizzarla, non stravolgere.

T. S. Eliot, nel suo saggio “Tradizione e talento individuale”, cita: “Non è solo il passato che determina il
presente, ma è anche il presente che determina il passato.”. Questo non è reale in assoluto né in un verso
né nell’altro: c’è sempre una specie di dialettica tra i due poli di presente e passato, ma è importante per
noi accostarci al passato con rispetto – dimensione arbitraria di Yourcenar verso l’operato dell’imperatore
Adriano, trent’anni di lavoro sulle fonti; la massima di Goethe è, “L’inventare è la fine del ricercare”, è un
fatto che non mette al riparo dall’errore, in quanto l’errore si corregge, se tutto è fatto in buona fede. La
costruzione di storia-tradizione diventa pertanto qualcosa di relativo, al quale ognuno porta il suo
contributo; c’è una dimensione moderna in termini di misura che va cercata, non tanto lo stravolgimento
ma l’allargamento di un punto di vista, su un fatto. Quando io scrivo qualcosa mi offro alla critica del
lettore, ci dev’essere il giusto atteggiamento anche da parte di chi legge, nel porsi e nell’aderire
criticamente a quello che si legge, in questo senso bisogna essere sempre disponibili a rileggere.

Storici antiquari: Toesca, Venturi, Burckhardt - “La civiltà del Rinascimento in Italia”; “L’età di Costantino Il
Grande”.

Punto fondamentale è allora che la bellezza non è rappresentabile in sé stessa: se è vero che ogni epoca ha
creato la propria modernità, significa che ha coniugato l’idea di bellezza eterna irrappresentabile al proprio
tempo, ha creato la propria bellezza. Baudelaire dice in termini ironici che ogni epoca fa il proprio ‘gateau’,
l’importante è capire qual è il modo per farlo. Siamo in un’epoca in cui ci sono molti cuochi e pochi modi di
saper cucinare. Se il cuoco è un mezzo e non un fine, l’idea non è male, bisogna saper cucinare con molti
ingredienti. Nella modernità pura si tratterà di trovare la misura del tempo presente, difficile in quanto
sembrano aver punti di riferimento, in quanto vive in un’epoca che sembra aver abolito il passato.

Testo di Baudelaire. Baudelaire dice allora che è questa un’ottima occasione e opportunità per stabilire una
TEORIA STORICA E RAZIONALE DEL BELLO, ciò scredita chiunque venga a dire di conoscere la bellezza. Torna
l’idea di Diderot di ‘bello’ come ‘qualcosa che crea relazioni’, in me e fuori di me. “{…} Il bello è sempre
composto di due elementi, anche se l’impressione che produce è unica, nonostante la varietà della
composizione. Il bello è fatto di un elemento eterno e invariabile, e di un elemento finito e circostanziale,
che sarà se si vuole insieme l’epoca, la moda, la morale, la passione. {…}”. Punto fondamentale è il
PRESENTE: senza il secondo elemento, il primo sarebbe “indigeribile”, non adatto alla natura umana.
L’elemento permanente è invisibile, perché è visibile solo attraverso quello storico. Si sente anche qui
odore di archetipi, ma come diceva Jung, ogni archetipo è visibile solo attraverso l’espressione del presente.
Non è possibile parlare di bellezza in sé stessa, la bellezza ha sempre un carattere storico, relativo.

Primo punto è che la dimensione storica è relativa e molteplice della forma e della bellezza. Dopo aver fatto
questa premessa di riforma, Baudelaire parla di un “abbozzo di costumi” (“Il pittore della vita moderna” -
idea di saggio sociologico, di ‘comédie humaine’), cita la “La Comédie humaine” di Balzac come riferimento.
La differenza è che Baudelaire, al contrario di Balzac, non prende come riferimento 2.900 casi umani, ma
istituisce dei modelli comuni, come ‘il dandy’, ‘la donna’, ‘il militare’, cerca una sintesi, degli elementi
archetipici, dei ‘tipi’ psicologici e umani (una ‘commedia umana sintetizzata’). Di tutti questi modelli
‘l’artista della vita moderna’ è quello che li incarna tutti, è da riferirsi a quel CONSTANTIN GUYS, che era
pittore in carne e ossa, del tempo di Baudelaire.

Constantin Guys (1802-1892). Pittore del tempo di Baudelaire, si era affermato come acquarellista e pittore,
illustratore, lavorava per alcune riviste e mandava i suoi reportages da alcuni teatri di guerra, come quella
di Crimea - sorta di fotoreporter, cosa che colpiva Baudelaire, era un uomo di molteplici esperienze, che
viveva a contatto con la metropoli, viaggiatore ‘metropolitano’ quotidiano, curioso di tutto, in possesso di
una grande memoria dell’arte – elemento portante della tradizione, passato che torna sempre, prova
incarnata: ha conoscenza della tradizione e si rapporta con il nuovo, è questo il succo del concetto di
modernità. Non cita Manet, vero pittore moderno, forse per invidia dell’amico. C’erano dei problemi, forse
di carattere personale, ma il vero ‘pittore della vita moderna’ è Edouard Manet.

Nella erranza del viaggio della quotidianità emergono dei nuclei che Baudelaire pone in termini teorici: per
poter essere ‘artisti della vita moderna’ bisogna essere ‘uomini di mondo’, uomini a contatto con il mondo
intero. La mondanità è intesa come pensiero planetario, l’artista è un viaggiatore che entra a contatto con
realtà diverse dalle sue, è cosmopolita. Il modello è René de Chateaubriand (1768-1848), classico del
romanticismo francese, il primo e più acuto interprete dell’esotismo. Durante la Rivoluzione Francese, per
evitare di perdere la testa, passa sette anni negli Stati Uniti ancora non tali a contatto con le tribù indiane. Il
modello della favola di “Pocahontas” è scritto dallo stesso Chateaubriand, e intitolato “Atala” (1801), parla
dell’amore tra un europeo e una principessa indiana.

Chateaubriand, “Genio del Cristianesimo”. La ‘comédie humaine’ di Chateaubriand, in cui gli aspetti teorici
si legano alla narrativa, e in lui, a lungo ambasciatore di Francia, troviamo queste venature cosmopolite,
legate da un lato al contatto con gli indiani d’America (“Le avventure dell’ultimo Abenceragio”: storia degli
ultimi re molesti di Spagna, costrizione dell’ultimo re Abenceragio all’esilio in Egitto con la Reconquista
spagnola - aspetti di esotismo, si trovano nella cultura francese ripresa da Baudelaire).

Come modello abbiamo la prosa di Diderot, ma come immaginario da un lato l’aspetto sociale de “La
Comédie humaine” di Balzac, dall’altro il romanticismo di Chateaubriand, con il “Genio del Cristianesimo” e
in particolare questi temi cosmopoliti. In queste modalità c’è memoria, il tentativo di trovare la possibilità
di essere secondo quel modello ma nel proprio tempo, non in modo anacronistico o antiquato. Riprendo di
quel modello quello che manca, che sento necessario (movimento enantiodromico). Il movimento
enantiodromico è anche politico, spesso ha aspetti anche curiosi, non sempre porta da aspetti in un certo
qual modo encomiabili. Non si può negare che questo movimento faccia parte dell’animo umano, è un
elemento profondo, un movimento che va misurato e governato.

Nel caso di Baudelaire, la prima esigenza del movimento enantiodromico è l’apertura, il cosmopolitismo
anche se nell’arco della sua vita ornerà a forme opposte. Importante è trovare punti di equilibrio, si tratta di
una sfida. La prima di queste esperienze è offrirsi al COSMOPOLITISMO, che diventa legame metaforico con
la folla come elemento portatore della molteplicità.

 PITTORE DELLA VITA MODERNA:


1. Uomo di mondo – cosmopolita
2. Uomo della folla
3. … e fanciullo

La terza condizione sarà “… e fanciullo”. Per quanto riguarda le precedenti condizioni di cosmopolitismo e
di uomo della folla, Baudelaire, che definisce l’artista “cittadino spirituale dell’universo”, introduce subito
dopo, parlando di Guys, “la più vigorosa penna della nostra epoca”. Tratta di un quadro parlando di uno
scrittore, Edgar Allan Poe, ‘uomo delle folle’, il più grande scrittore/’pittore attraverso la scrittura’.

Racconto di Baudelaire. Il racconto di Poe comincia con un personaggio che è a sedere in un caffè, vicino
alla vetrina, e vede passare sul marciapiede la folla. Spesso Poe spacciava la sua New York alternativamente
per Parigi o Londra, per rendere accattivanti i suoi racconti. La dimensione di mistero e di terrore de “I
racconti del terrore” di Poe era fatto proprio per attrarre il pubblico, era un artificio straordinario. Si tratta
di fonti romantiche e antiche per attrarre l’attenzione del lettore. Era un umo molto razionale, che lavorava
sul rapporto causa-effetto dei suoi racconti per attrarre alla lettura (“La razionalità dello scrivere versi” –
spiegare il non spiegabile, come si fa a scrivere versi; esiste la possibilità di una tecnica da usare, per
stimolare l’attenzione del lettore). Importante il personaggio importante di August Dupin, modello poi del
futuro Sherlock Holmes di A. C. Doyle, che risolve tre casi in contesto parigini. Modello di Poe era Daniel
Defoe, primo grande giornalista, inventa il “Review”. Questa dimensione di stupore è per esempio dei tre
casi risolti da Dupin, il primo “I delitti della Rue Morgue”, il secondo “Il mistero di Marie Roget”, il terzo “La
lettera rubata”. Il massimo di evidenza diventa il massimo di nascondimento, sono giochi di intelligenza per
i lettori. È anche alle volte una ‘commedia degli errori’, un saper lavorare sul potere delle parole, forse fino
al punto di creare fake news. Il genere giornalistico è di Defoe perché nel “Robinson Crusoe” si racconta
che, quando Robinson, cercando del latte, si avvicina a delle caprette, queste se ne vanno. Pensa allora di
prenderle dall’alto, per poterle così mungere, e questo avviene in quanto lo sguardo delle caprette è rivolto
verso il basso. Peccato sia errato, ma fa pensare che chi legge pensa di avere la chiave. È un procedimento
che funziona ma non funziona, questo è il potere della narrazione, ma la modernità ha appunto spesso
questo rischio, il rischio della storia scritta senza oggettività, è il prendersi la responsabilità di un
rinnovamento, un’enfatizzazione eccessiva dei mezzi. Quando cita l’uomo delle folle, Baudelaire cita
proprio questa dimensione di letteratura, e racconta il discorso della capacità di Poe di attrarre l’attenzione.
Il racconto di Poe viene considerato uno dei primi casi di sociologia letteraria, tutti i passanti vengono
descritti nei minimi termini e anche nei loro tic, una forma di verismo più che di realismo. Questa
dimensione di passaggio della folla è quella che comincia da attrarre quello che sta dentro, oltre il vetro,
che è un convalescente.

19/02/2020
Lettura de “Il pittore della vita moderna” di Charles Baudelaire. Questo ci serve per immetterci
nell’Impressionismo, lavoreremo sul legame Baudelaire-Manet. “Il pittore della vita moderna” è dedicato a
Constantin Guys (lui è un acquerellista) ed è un testo che ci fa vedere le esigenze da cui è nata la pittura
Impressionista. La prima cosa che si può notare è la forte individualità che ispira il testo: Heidegger incitava
ad arrivare alla fine dell’abisso (trovare cioè sé stesso) e accendere il lume nella notte - come diceva anche
Eraclito. La dimensione dell’individualità risulta dunque centrale, sia per quel che riguarda Baudelaire,
testimone della vita della metropoli, sia per Constantin Guys, sia per noi per quel che riguarda Edouard
Manet.
Introduzione del “convalescente”. Il termine ‘convalescente’ viene riferito a Edgar Allan Poe, specie di
doppio di Baudelaire al quale ispirare la sua opera. Si diceva che la sera Baudelaire prima di andare a
dormire dicesse una preghiera anche per l’anima di Poe. Lo definisce ‘la maggior penna del suo tempo’, ma
anche ‘il maggior pittore’, come se Poe avesse caratteristiche simili a quelle dell’artista. Abbiamo parlato
dell’ARTISTA come uomo a contatto con tutti i tipi di cultura, civiltà, stili, senza pregiudizi. L’artista è anche
‘uomo delle folle’, cioè uomo della folla, capace di entrare in contatto con la molteplicità che la dimensione
metropolitana offre - viaggiatore cosmopolita. La folla è quella del Crystal Palace, la folla della modernità,
dell’industrializzazione (la folla coincide anche con il grande rischio di perdersi, ma è anche l’unica soluzione
per ritrovarsi).
Edgar Allan Poe, “The man of the crowd”, 1840. Pubblicato vent’anni prima de “Il pittore della vita
moderna” (1863), fu pubblicato in quattro puntate su “Le Figaro”, un quotidiano parigino, il ‘giornale delle
folle’ - tematica del divenire e della modernità. La folla è la molteplicità. Il convalescente funge da
metafora, è colui che è stato sul punto di perdere completamente sé stesso, come se ad un certo punto
fosse già arrivato in fondo all’abisso - era sul punto di non poter avere relazioni con nulla. Arrivato alla
Nigredo, comincia ad avere bisogno di tutto, vuole ricordare tutto, vuole che tutto entri in lui,
indipendentemente dalle gerarchie e dai valori: diventa un ‘assetato di vita’. Il tema della convalescenza è
un po’ il senso del tramonto, per cui sono disceso dalla mia identità, sono arrivato in fondo ed è scattata
una scintilla, che non gli ha fatto perdere sé stesso, ma lo ha portato con ansia nei confronti di tutta la
realtà.
È proprio nell’oscurità che compare Mnemosine, la rammemorazione, cercata come qualcosa di necessario,
quel qualcosa di mancante che va trovato nella pienezza di ciò che c’è introno a sé, bisogna andarlo a
prendere nella realtà circostante. Nel racconto si descrive un locale in cui un uomo sta guardando da un
tavolino attraverso una vetrina e vede da dentro la folla che passa fuori, ha una visione della ‘comédie
humaine’ - folla composta da ogni tipo di essere umano, come se vedesse fuori il ‘funerale a Ornans’, sente
il bisogno di questa realtà, ed è attratto senza un motivo da una delle figure, che sente il bisogno di seguire.
Esce dal caffè, ‘supera il vetro’ (Crystal Palace – non c’è più separazione, bisogna abolire la trasparenza
delle cose) e si butta nella folla, attratto da questa figura che non vedrà mai in faccia. Questo procedimento
diventa per Baudelaire un vero e proprio metodo.
Charles Baudelaire, “L’uomo si deve buttare nella folla come un immenso serbatoio di elettricità.”. Bisogna
andare verso la realtà, nel racconto di Poe non c’è fine, è un work in progress, un’opera aperta. Compare il
concetto di CURIOSITÀ: il pittore della vita moderna deve interessarsi di tutto. L’artista che è sempre nello
stato del convalescente, che ha ansia della vita, è lo stesso stato proprio di Constantin Guys. Egli è uomo
delle folle, come lo deve essere il pittore della vita moderna. “Ora la convalescenza è come un ritorno verso
l’infanzia.” Quando si esce dalla convalescenza si vive uno strano stato d’animo, come un’infanzia nascosta
che va riportata verso la luce. Tornare a uno stato d’infanzia significa ritrovare uno stato di interesse, come il
bambino che gioca con tutto e fa esperienza di tutto quanto. È come se il massimo del progresso, cioè la
metropoli, mi immettesse in una situazione primitiva. L‘interesse che il pittore della vita moderna sente nei
confronti del mondo che lo circonda è come l’interesse che il primitivo Adamo sentiva nei confronti del
paradiso terrestre: non conoscendo niente si interessava a tutto. È un MODUS VIVENDI e un MODUS
OPERANDI.

Il discorso, il distacco attraverso la curiosità e lo stupore fa rivedere il mondo come l’abitudine non
consentiva più di vedere. Siamo nel mondo in bianco e nero, riportato al meccanismo della produzione e
dell’industria, c’è un movimento enantiodromico per cui alla regola, alla mancanza di colore, alla ripetizione
della società nel tempo si sostituiscono lo stupore, la meraviglia, l’opposto: è una corsa dell’opposto,
ENANTIODROMICA.

Si reagisce mettendo tutto insieme, le differenze vengo abolite, c’è principio di continuità. L’arte diventa
misura di sé, non imitazione propria, è una possibilità di essere tutto. Compare la dimensione musicale,
come dinamica irrefrenabile, propria anche nei movimenti del bambino. C’è un’analisi di carattere
ANTROPOLOGICO, una società che elogia separazione e ordine; io vado dove queste cose non ci sono,
abolisco le differenze e trovo il PRINCIPIO DI CONTINUITÀ. I pensieri vanno lasciati liberi di fluire, di legarsi
per mezzo di associazioni, si sbloccano dalla forma economica. Qui il senso dell’INFANZIA.

 “Infanzia”, da “infans”, letteralmente “che non parla”, perché potenzialmente può parlare tutte le
lingue: se torno in una condizione di ‘infans’ attraverso lo stupore perduto posso immaginare di
parlare tutte le lingue, si può ritornare a una DIMENSIONE DI POTENZA. Questo ritorno non è un
ritorno debole, perché c’è la consapevolezza che si possono assumere tutte le forme. L’artista come
tale non ha identità, perché può assumere tutte le identità che vuole.
Il fanciullo vive sempre “in novità”, in una situazione di stimolo, è sempre “ebbro”. L’ebrezza dionisiaca che
non è mai una perdita completa di sé, l’ebrezza va governata, non deve governare: essere ebbri significa
essere nel tiaso dionisiaco, ma mantenendo un ordine (comunicazione ordine-disordine). Allora la vera
ISPIRAZONE è la capacità di assorbire la realtà esterna secondo impressioni. L’ispirazione moderna “ha un
qualche rapporto con l’indigestione”, per cui bisogna essere pieni di tutto per poter essere artisti, perché
più realtà ho esperito, più analogie colgo, più metto in luce le cose. Poi a un certo momento arrivava
“l’immagine che ti appare sotto le palpebre” (Marguerite Yourcenar). Il PRIMITIVO MODERNO viene dopo la
cultura, ha esperito tutto ciò che poteva, è arrivato a un punto in cui, nel rischio di perdersi, ha visto tutto
improvvisamente con occhi nuovi, secondo la sua infanzia ritrovata, ha ritrovato tutto ciò che cercava
attraverso la volontà.
 “Il genio non è che infanzia ritrovata con la volontà”.
“L’infanzia è dotata per esprimersi di organi virili e dello spirito analitico che gli permette di ordinare un
cumolo di materiali involontariamente ammassati.”. Ricompare il senex-puer, come uomo che sa ma è
anche riuscito a lasciarsi quel peso alle spalle per prendere solo ciò che gli è necessario. Significa anche
passato-presente. Egli può “{…} riordinare il cumulo di materiali involontariamente ammassati.”, è una
libertà a posteriori che una volta guadagnata può essere approcciata su tutto. La libertà diviene anche
contatto con la storia, in quanto tutto può essere congiunto dall’artista.
(Per esempio nel momento in cui io ho studiato la storia dell’arte e sono rimasto sempre in contatto con il
museo e con la pinacoteca e quindi mi sono congestionato in tutte quelle visioni arriva un certo momento
nel quale io, dopo questo ammasso di cose che ho dentro intuisco quali sono per me le immagini che tra
loro comunicano e quindi i divento anche uno storico dell’arte, cioè mi fermo come l’io di Jung che si
muoveva tra i piani . Io metto insieme le cose che non sono state messe insieme. Tutte le mie epoche sono
le mie epoche se in queste epoche io trovo qualcosa di me stesso. Tutte le epoche possono essere
congiunte tra loro per creare l’immagine che io percepisco come quella assente nel mio tempo.)

 Viaggio - memoria - memoria - viaggio: il VIAGGIO e la MEMORIA danno ESPERIENZA.


Artificio e natura risultano complementari: la natura non esiste senza trucco, il trucco non esiste senza
l’aspetto naturale. {…} La figura potrebbe essere anche quella di E. Delacroix, ma ciò ci fa capire che per
Baudelaire il pittore è pittore da sempre, fin dall’infanzia, ma ha bisogno dello stupore di bambino per poter
essere pittore della vita moderna. Guys e Manet per Baudelaire devono essere considerati ‘eterni
convalescenti’. Guys in particolare è “UOMO-FANCIULLO”, puer-senex, dimensione circolare tra le due cose
sempre unite, per cui “nessun aspetto della vita ha perduto la sua primitiva vivacità”.
Chi ritrova questa infanzia con la volontà diventa sincero senza essere ridicolo. Esempio importante è
Umberto Saba, puer-senex di per sé, un poeta che è sempre sincero senza essere mai ridicolo. La nostra
classe sociale è il nostro modo di pensare, non sono degli stati economici. È il modo di pensare che in realtà
ci dà identità, e la nostra classe sociale è il nostro modo di pensare. Baudelaire fa riferimento a
un’aristocrazia che è un ‘essere superiore’ a livello interiore, non sociale. Le classi sociali sono modi di
pensare, non stati economici. La conquista del regno dei cieli - per Baudelaire molto terreno - è una
condizione nella quale non ho più bisogno della ricchezza, di ubbidire a un modello, c’è una trasformazione,
un divenire ciò che si è, il modo di pensare ci dà identità. Baudelaire ci dice cose utili alla vita, ma è un
punto importante da sottolineare, come ci si trasforma in sé stessi.
La folla è il dominio dell’artista, come il cielo dell’uccello, come il mare del pesce. Il concetto di ‘aretè’, di
‘virtù’ greco, è “fare in meglio ciò di cui in potenza si è dotati”; la virtù moderna è la capacità di confondersi
con tutto. Esplicito la mia virtù nel momento in cui sono continuamente in contatto con tutte le cose. La
folla diventa casa, domicilio, “il fuggitivo, l’infinito” l’opposto del mondo industriale, “essere fuori di casa e
non per tanto sentirsi in casa propria”, essere di casa dappertutto. L’interlocuzione è un metodo
antichissimo, il confronto con l’altro, e la volgarità è negarsi nel confronto con l’altro. Non bisogna arrivare
al punto di perdersi, bisogna che qualcosa di mio permanga.
Gli “spiriti” di cui parla sono da riferirsi al DANDY - gentiluomo di origine inglese, l’uomo di gusto sofisticato
- ma è lui il “pittore della vita moderna”? Baudelaire dice di no. Il dandy è la condizione per cui a un certo
punto, dopo l’indigestione e dopo tutti i viaggi, scatti la scintilla da cui scaturisce il poeta, il pittore, l’artista.
Il dandy è un mezzo, non un fine, perché il dandy è troppo “freddo”, mentre quel contatto con le cose a un
certo punto deve dare quella scintilla che mi fa trovare ciò di cui ho bisogno. Il Decadentismo diventa
mezzo, non fine. È un periodo dove si avevano le comunicazioni più importanti della terra. Con Baudelaire
siamo in un mondo neo-alessandrino in cui ‘decadenza’ significa realtà: mentre tutto quanto comunica io
cerco quei collegamenti, anche all’interno di quei processi che possono apparire degenerativi in senso
materiale e in senso morale, ma che sono comunque quelle esperienze che mi conducono al mio centro.
Quindi il cercare di ritrovare le condizioni fondamentali.
Charles Baudelaire, “Estetica”. “L’osservatore è un principe che serva ovunque il suo incognito.”. L’amatore
della sua vita fa della gente la sua come l’amatore del bel senso compone la sua famiglia con tutte le
bellezze trovate, trovabili e introvabili, come l’amatore dei quadri vive in una società incantata con sogni
dipinti su tela. L’innamorato della vita universale, presente, passato e anche futuro entra nella folla come in
un immenso serbatoio di elettricità. Lo si può paragonare ad uno specchio altrettanto immenso, quanto
questa folla.”. Tutto quanto è un io insaziabile del non io. A Fichte va riconosciuto l’aver trovato l’oscurità
dentro l’io che non si conosce, che lo pone al di là di sé stesso. L’INCONSCIO è parte integrante dell’io.
Altro tema emerge con “l’io affamato (= stupito, interessato, curioso) del non io”. L’espressione di questo
legame diventa immagini più vive della vita stessa. Abbiamo qui un qualcosa del saggio di Bergson, “Il riso”.
Il dandy contempla i paesaggi della grande città, paesaggi di pietra, caratterizzati dalla nebbia o illuminati
dai raggi del sole, ammira i magnifici cocchi, l’eleganza dei passanti, la destrezza dei valletti, l’andatura delle
donne flessuose, i fanciulli felici di vivere e di essere vestiti, in una parola TUTTA LA VITA. Anche ad una
distanza enorme l’occhio d’aquila del dandy ha già notato tutto (l’occhio d’aquila sarebbe l’occhio di Guys).
“Tutto entra alla rinfusa in lui {…} ed ecco che la sua anima vive con quell’anima che vive come un
reggimento {…}”. La molteplicità è vista come apparato militare. È sera, arriva la luce artificiale che prende il
posto della luce naturale. Guys è l’ultimo ad andarsene dove brilla la luce. Pochi uomini sono dotati della
facoltà di vedere e sono ancora meno quelli che posseggono la potenza di esprimere e vedere. Ora il pittore
ha tutta la memoria di ciò che ha esperito, vivifica e congiunge tutto ciò che ha finora osservato. L’opera è
risultato di una “percezione infantile, cioè di una percezione acuta, magica, a forza di ingenuità”. Quella di
Baudelaire è una cura della trasparenza, è un modo per abolire il vetro ed entrare in contatto con la vita: ha
dato un metodo di cui nessuno è più riuscito a fare a meno, per cui è bene conoscerlo.
 “Il pittore della vita moderna”, III-IV paragrafo.
III Paragrafo, “La modernità”. “Oltre quel piacere fuggitivo, egli cerca quella data cosa che gli consentirà di
cercare la modernità.”. Si cerca un’immagine adeguata ad esprimere il proprio tempo. LA MODERNITÀ È IL
TRANSITORIO, IL FUGGITIVO, IL CONTINGENTE, LA METÀ DELL’ARTE DI CUI L’ALTRA METÀ è l’eterno
immutabile, è cioè fissare nell’immagine la transitorietà. Affinché ogni modernità sia degna di diventare
antichità, bisogna essere capaci di estrarre dalla modernità, dall’industria, la bellezza misteriosa che la vita
umana mette involontariamente. A questo si dedica in particolare Constantin Guys: essere capaci di
estrarre dalla modernità quello che sia degno di diventare antico.
IV Paragrafo, “Arte mnemonica”. Mnemosine “figlia del cielo e della terra”, è tutti gli opposti. È possibile
usare le nostre tre chiavi per leggere “Il pittore della vita moderna”: LA MEMORIA DEVE AIUTARMI PER
TROVARE L’IMMAGINE DEL MIO TEMPO, siamo alla consegna che Baudelaire lascia agli artisti del proprio
tempo, questo movimento di ricerca. L’impressione è la risposta della pittura alla modernità.
Metafora di MOLTEPLICITÀ.
 Metafora di Dante. “Renovatus in novam infantiam”, a cui non sembra essere mancato nulla in
termini di esperienza.
 Shakespeare.
 “Faust”, Goethe.
 Ovidio.

La vicenda umana di Baudelaire dopo il 1863, anno di pubblicazione del suo saggio, è breve, morirà nel
1867, e progressivamente viene considerato modello dagli stessi poeti francesi (Stéphane Mallarmé, Paul
Verlaine - modello di ‘poeti maledetti’). Nel 1866 perde l’uso della parola, e muore un anno dopo a Parigi. È
la sintesi di un percorso, artistico e umano. Non ha modo d veder la prima mostra di Impressionisti del
1874. Ha un legame con Mallarmé nel 1858, e proprio il suo saggio costituisce anche una specie di breviario
alla formazione dell’opera di Manet, della stagione impressionista. Non esporrà mai con gli Impressionisti,
ma ne è il grande pioniere.
 INZIO STORIA DELL’ARTE
EDUARD MANET (Parigi, 1832-Parigi, 1883).

 “Musica alle Tuileries”, 1862.

Manet ha completamente seguito Baudelaire, c’è un clima, un ambiente pienamente condiviso, anche nel
loro rapporto un po’ conflittuale. Era più giovane di Baudelaire, ha sulla carta tutte le fortune, nasce a Parigi
nel 1832 da una famiglia ricca e colta, studia in un ottimo liceo, è presto a contatto con l’arte ma è un
irrequieto: volevano diventasse marinaio, e affronterà un periodo di vita da marinaio. Nel 1849 si imbarca
su un battello a vapore e arriva a Rio de Janeiro, bisognoso di andare “oltre i confini”. È un dandy fin
dall’inizio, e rientrato dal viaggio persuade i familiari della sua vocazione di pittore, tanto che gli dicono che
per perseguire questa carriera deve formarsi presso un’accademia, quella di Thomas Couture, celebre
pittore ma molto accademico, tradizionale.

A Parigi vi era l’Accademia delle Belle Arti, ma anche molte accademie private, di pittori che avevano
esposto ai salons e si erano fatti conoscere. Gli allievi delle accademie stavano in stanzoni con i loro
strumenti e lavoravano spesso da soli e riproducevano dei modelli che venivano dati loro, il maestro ogni
tanto passava e controllava. Era un modo di creare un ambiente, e Manet spesso litiga con gli assistenti e
con Couture, fa una pittura a cui non è interessato. Nel 1856 lascia l’accademia di Couture e si mette a
viaggiare, va in Olanda, a Vienna, a Monaco di Baviera, a Firenze e Roma, fa una gran “indigestione”,
soprattutto a Venezia. Fa copie di molte opere, come la copia della “Venere di Urbino” di Tiziano, a Firenze,
per la quale lavora pazientemente. Nessuno può insegnargli meglio di sé stesso verso quelle opere. Nasce
anche qui un occhio d’aquila, verso i capolavori e la pittura. Sono mesi di una grande indigestione. Esegue
copie anche di Tintoretto per la scuola veneta, il cui colore sarà per lui oggetto di grande interesse;
importante anche il pittore spagnolo Diego Velazquez. Studia su riproduzioni a stampa, come Goya, altro
pittore spagnolo del ‘700/800 (“La Maya Desnuda” - ripresa tradizione del nudo classico, nata con Tiziano),
ha già l’idea di un grande nudo. Comincia a cercarlo per esclusione, guardando gli altri e cercando di tradurli
in un grande nudo del suo tempo. È molto interessato a Courbet e al suo uso del colore, a Eugène Delacroix,
a Honoré Daumier. Più vedi, più capisci cosa le cose hanno in comune, attraverso la memoria. È una
meditazione di carattere critico: il pittore è un dandy che oserà con più o meno distacco verso i modelli che
compongono la storia dell’arte. Osserva anche Raffaello, soprattutto “Il giudizio di Paride” (1516). Manet
vive anche un’importante infatuazione verso l’esotico, cosa che colpirà molto anche la sua vicenda
familiare. Si sentiva un pittore classico dei salons, con l’intenzione di rinnovare la grande pittura.

Il pittore è una sorta di dandy, infatti osserva con più o meno distacco, ma con interesse i modelli della
pittura che compongono la storia dell’arte.

A metà del XIX secolo la Francia aveva stretto legami commerciali con il Giappone, e arrivano questi
elementi esotici che si uniscono a quel gusto per la Cina, che esisteva già da tempo (XVII secolo). Il tema
dell’esotico si scandisce in cinesismo e giapponismo: in quel tipo di pittura, quella della ‘scuola del mondo
fluttuante’, si percepiva qualcosa di interessante, era una pittura senza finestra prospettica, si dipingeva a
volte quasi per campiture, con procedimenti astratti, e si tratta di un contributo importante. Manet è
‘uomo di mondo’: dopo la prima fase di esotismo arriveranno maschere africane, pittura americana, e a
Parigi si trova questo mondo complesso. Nella sua vita entrano anche diverse vicende familiari più o meno
gradevoli, come quella dei romanzi. Frequenta Berthe Morisot, prima pittrice donna, con un
combattutissimo amore, che poi sposa il fratello. C’è il bel mondo della borghesia del tempo. Mette incinta
la propria maestra di pianoforte, era un uomo inquieto.

Maureen Gibbon, “Rosso Parigi”. Racconto amore di Manet per Victorine Meurent, modello dell’”Olympia”
amante, amica e modella. C’è anche un forte sodalizio intellettuale, divenne pittrice affermata. Il sodalizio,
un ‘legame pericoloso’ ma vivificante, intreccia vita e opera di Manet, c’è molto tema dell’io, spesso di
sovrappongono; compare anche il tema dell’io affamato del non io (identificazione + messa alla prova,
artisticamente e umanamente). È una ricerca che tenta sempre di portare all’equilibrio, tra la spinta al novo
e la memoria accumulata. Meurent è il volto dell’“Olympia” ed è altri volti che troviamo nella produzione di
Manet. Lei è l’amante-amica di Manet. Si pensava fosse morta suicida, lei divenne una pittrice affermata.

Edouard Manet, “Musica alle Tuileries”. Nel 1862 Manet espone a una galleria parigina
“Musica alle Tuileries”, che ci consente di vedere ciò che ha fatto progressivamente, e il dipinto
porta dentro di sé una sorta di ‘dichiarazione di poetica’. È un dipinto della folla, che va sposata
dal ‘pittore moderno’, per cui la scelta del soggetto indica il voler essere ‘uomo della folla’,
anche se lo fa a modo suo: si veste da sposo e lo fa qui. Di lui non va dimenticata l’ironia. Il suo
dipinto è un esercizio, in quanto la folla si ripete all’infinito, è innumerevole, un’omeopatia, c’è
quasi il rischio di perdere il genere del dipinto. È un romanzo, una sinfonia, come rimanda il
titolo. Siamo in centro a Parigi, la scena è inquadrata e definita in una localizzazione molto
evidente. Ci sono volti significativi: da una parte ci sono i volti di coloro che sono i personaggi
più importanti del tempo, gli intellettuali inseriti da Courbet ne “L’atelier dell’artista”.
Compaiono Jacques Offenbach (musicista, la musica entra dentro), poi Jules Champfleury -
teorico del realismo - e molti altri. C’è poi uno strano profilo senza volto, ed è Baudelaire. Altri
letterati entrano, e poi appare qualcuno, Edgar Allan Poe. Dichiara tutto quello che c’è ne “Il
pittore della vita moderna” (“Figaro”, 26 novembre 1863).

Ci sono tante corrispondenze con il saggio, Manet sta esprimendo con la pittura i principi de “Il
pittore della vita moderna”. È come se trovassimo una specie di traduzione, è atto e critica,
arte costruita con la critica, una riflessione sull’arte per cui il modo supera la dimensione
culturale o teorica, è una realtà. È un rifacimento de “L’atelier dell’artista” di Courbet all’aria
aperta, stando dentro, tanto che lo stesso Manet non è centrale, e i suoi amici artisti sono nella
folla, non sono da parte. Tutto si è mescolato il fondamento dell’operazione vivifica, e il
fondamento è il REALISMO. Come se avesse potenziato attraverso un colore più vivo e più
forte, una dilatazione all’infinito. C’è quindi una sintonia, in Manet c’è molto di più, si è fatto un
passo in là, ma vedremo come in realtà però, affamato di folla, stia in lui una memoria
importante -> “Il giudizio di Paride”, Marcantonio Raimondi.

20/02/2020

Edouard Manet. Elemento della folla dominante, artista che si avvicina alla vita per riuscire a
fare quell’operazione di fissazione del fuggitivo dell’eterno, si è arrivati al ‘gateau’. In
quest’opera compare una dimensione critica-ironica, data anche dalla presenza di Poe. Lo stile
è di CONTATTO CON LA VITA e formalizzazione di quel contatto. Tutte le impressioni che
vediamo in Manet sono derivate dall’osservazione e dalla rielaborazione del vero. Non esiste
impressionismo che non sia anche espressionismo: è un recepire che non è mai il recepire di
un obbiettivo fotografico – al suo tempo non era in grado di recepire i colori, ma si tratta di un
mescolare la percezione alla memoria, all’immaginazione. Di fronte a ciò noi siamo in grado di
dire dio, di parlare di percezione, rammemorazione, ecc.

In un tempo che vede prevalere la dimensione oggettiva, industriale, in qualche modo legata
alle rivoluzioni della tecnica noi abbiamo invece la capacità, in particolare in MANET, di dire ‘io’,
il riferire di fatto tutto: presente, passato, percezione e rammemorazione, visione e revisione.
Manet applica il metodo che BAUDELAIRE ci ha descritto sul “Pittore della vita moderna”.
Manet è il pittore della vita moderna.

Manet era frequentatore di pinacoteche e musei; in lui c’è la memoria di questo “Concerto campestre” di
Tiziano (1508-1510): la visione del nudo rinascimentale come elemento essenziale, stimolo, cercando di
capirne, di conoscerne la luce moderna, di istituire un legame con il tempo presente. Il problema
fondamentale è che il movimento enantiodromico, dato dal bisogno di ricordare, di rendere la tradizione
presente non in modo accademico, secondo gli stilemi convenzionali, ma come qualcosa di vivente. Il primo
risarcimento che si cerca è proprio quello della MEMORIA. Troviamo dal 1850 in su un’ARTE DELLA
MEMORIA, e troveremo sempre più memoria a misura che l’industria imponga sé stessa alla vita collettiva:
tanto più si impone l’idea del progresso e la mentalità industriale, tanto più gli artisti impongono il bisogno
di memoria del passato, che viene rivisitato. Un passato che non ha carattere antiquato o monumentale, ma
che ha sempre carattere CRITICO, una revisione del passato per vedere cosa di questo si possa
effettivamente far rivivere nel presente.

 Senso arte: LOTTA PER LA MEMORIA, in un tempo che vorrebbe o dimenticare tutto, o porre tutto
in antiquario - porre il passato solo all’interno dei musei o delle pinacoteche -> Istanza essenziale:
CONTINUITÀ DIACRONICA DELL’ARTE.

L’arte contemporanea è davvero contemporanea a tutte le epoche. Il bisogno di riportare l’immagine del
“Concerto campestre”, questa necessità si deve misurare con alcuni strumenti tecnici che sono quelli del
presente. La memoria deve riscontrarsi con alcuni strumenti del presente (es. dagherrotipo).

Il riproporre la memoria nel presente va misurato con strumenti tecnici. Come posso farlo, quando ho il
dagherrotipo - possibilità di riproduzione del reale in quanto reale? Con questo abbiamo l’abolizione quasi
dell’artista. Da un lato c’è la separazione dal passato come problema di carattere culturale e c’è la
concorrenza della dagherrotipia nella rappresentazione della realtà. Se la dagherrotipia ci impone la sua
presenza, va estratto ciò che vi è stato messo INVOLONTARIAMENTE (Baudelaire). A metà ‘800 la
dagherrotipia è già piuttosto sviluppata: il dagherrotipo può imitare dei modelli in modo eccezionale, una
sorta di trasparenza nella quale la realtà si manifesta da sola attraverso un’immagine.

La prima produzione fotosensibile risale al 1802; la prima immagine fotografica era stata ottenuta nel 1816
da un francese, Joseph Nicéphore Niépce. Aveva utilizzato su un foglio di carta sensibilizzato dal cloruro
d’argento il riflesso di ciò che si vedeva fuori dalla sua finestra, come forma di impressione di un elemento
luminoso sulla lastra. La più antica esistente oggi risale al 1826: abbiamo la cosiddetta camera oscura, con
obiettivo di lente B convessa, dotata di un diaframma per la messa a fuoco (<- prima macchina rudimentale
- ELIOGRAFIA). Poi Niépce incontra Luis Daguerre, e nel 1829 viene fondata una società per lo sviluppo delle
tecniche fotografiche (Daguerre darà il nome alla ‘dagherrotipia’ come sviluppo della eliografia). Nel 1839 il
fisico Francois Arago presenta all’Accademia delle Scienze di Parigi il brevetto di Daguerre, con il nome di
‘dagherrotipia’, e da lì vengono fatti esperimenti di miglioramento di questo strumento. Addirittura nella
seconda metà degli anni ‘40 si hanno degli strumenti che consentono di avere l’immagine con pose non
particolarmente prolungate, grazie al perfezionamento ad opera di F. Claudet. Nel 1852 i fratelli Alinari
fondano a Firenze una ditta per la replicazione fotografica dei monumenti d’Italia - “Archivio Alinari”.

Il sistema della dagherrotipia sembra mettere fuori gioco la pittura - necessità di trasformare la realtà in ciò
che è implicito nel mezzo tecnico. Allora cosa c’è di nascosto della macchina fotografica, che io posso usare
per rinnovare la pittura? Devo trasformare l’oggettivo del mezzo tecnico in soggettivo nella pittura. Il pittore
della vita moderna si misura su due punti: 1) la cancellazione della memoria, che invece vuole recuperare,
2) e questo mezzo trasparente che sembra imporre la realtà come misura di sé stessa. In questo eccesso di
realtà però si nasconde qualcosa che deve essere trasformato soggettivamente. Così dice Baudelaire,
bisogna rendere implicita la dagherrotipia. Baudelaire diceva che “la macchina poteva essere un mezzo, ma
diceva guai se diventa un fine”.

Siamo nella vicenda della pittura veneta, c’è bisogno di sposare la memoria alla trasparenza - riportare
l’immagine passata la presente.

Edouard Manet, “Colazione sull’erba”. Opera che con grande scandalo viene esposta al “Salon des Refusés”
nel 1863, scandalosa sia per la sua immediatezza, sia per il suo elemento essenziale: una donna nuda - la
modella è Victorine Meurent, l’amica-amante di Manet - tra due uomini vestiti. È un nudo diverso e lontano
dai canoni classici, diverso da quello accademico rispettoso dei principi classici di purezza e bellezza: è un
nudo che determina allusione, ambiguità nel rapporto tra lei e i due uomini. C’è anche un elemento
curioso: la donna si rivolge a un quarto personaggio, che guarda direttamente in faccia, e questo è lo
spettatore. Il primo spettatore è Manet, poi tutti quelli che guardano l’opera. Questa si blocca nell’essenza
di una fotografia, trasformando la memoria antica in un evento presente. La temporalità emerge in maniera
evidente, e più la guardiamo più capiamo che c’è anche il caso, nella figura del cestino rovesciato. Sembra
essere un dettaglio irrilevante, ma secondo i principi accademici e canonici non si poteva fare un cestino
rovesciato perché se doveva essere una natura morta doveva essere messo in posa, doveva essere posto
vicino ad una statuetta, doveva avere delle caratteristiche di gradevolezza. Non poteva essere rovesciato,
era inconcepibile che fosse così, perché questo significava che l’immagine si spostava sul casuale, sul
transitorio, su ciò che in realtà non è fisso. Strana è anche la barca sullo sfondo, non si vede subito.

La profondità aumenta a misura che noi ci concentriamo sulle parti del dipinto, perché ci sono diversi punti
di profondità ottenuti con la tecnica del chiaro-scuro, ma non secondo i conosciuti principi di prospettiva.
L’opera è dipinta a grandi chiazze, o campiture; l’impressione è un di qualcosa di casuale, soggetto al
cambiamento. C’è una DIMENSIONE TEMPORALE, per cui io vedo l’attimo, l’istante che sta trascorrendo.
Vediamo quindi una pittura portata alla dimensione della quotidianità; arriva una quarta figura, che guarda
<- immediatezza. Il pittore deve interpretare l’immediatezza di un dagherrotipo, con la pittura: qualcosa di
vivo, che suggerisca le peculiarità dell’istante, senza scrupoli formali. Capiamo cosa significa ‘guardare e
ricordare’ conoscendo i precedenti: Manet li rivede e li riporta sotto i suoi occhi, inserendoli nel quotidiano,
nel presente.

Quindi MEMORIA ed ESPERIENZA sono gli elementi essenziali: la capacità di privare il dagherrotipo della sua
implicita immediatezza per ricreare lo stile dell’arte, per ridarle vivacità. Questo è l’equivalente del
dagherrotipo pornografico, il cosiddetto DAGHERROTIPO SAFFICO - la rappresentazione della sessualità
nella maniera più diretta. Questa dimensione diretta, bassa, attiva una memoria, consente di arrivare in
fondo all’abisso, l’immagine vive da sé. Ho perso la memoria nel nudo accademico, perché sono arrivato a
contatto addirittura con il dagherrotipo pornografico che mi dà una scena molto vera ed immediata. Bisogna
essere a contatto con questa immediatezza, il rischio è quello di perdersi solo in questa contemplazione, ma
anche qui scatta la memoria.

Edouard Manet, “Olympia”, 1863 (130x190cm). Abbiamo la memoria della “Venere di Urbino” di Tiziano,
che diventa in un certo senso elemento che serve a ‘miscelare’, a riformare, cosicché il legame dell’antico a
contatto con il vero ridia vita a un’ideale classico - che è quello di questa ragazza, Victorine Meurent -
portato all’interno di un bordello. Qui anche - esposizione nel 1865 al Salon di Parigi - lo scandalo è
assoluto. Se leggiamo le recensioni dei critici, questi dicono che la ragazza è sporca e malata, e la mano
appoggiata in grembo sembra un rospo. In più è insopportabile l’ammiccamento ai genitali femminili.
Incredibile che il gatto abbia la coda ritta, l’ironia tra l’altro è proprio insita in questo animale. È proprio in
questo contesto che queste cose risultano insopportabili; in più il cliente aveva donato i fiori che sembrano
mostrati alla stessa interessata. La donna inoltre guarda lo spettatore, come se si trovasse in un bordello: ci
sono quindi anche elementi legati direttamente all’apparire di questa forma che hanno sconcertato il
pubblico. Ci sono da un lato le reazioni di un pubblico retrivo, poi c’è chi comincia a vedere una novità.
Questo era tutto ciò che mancava, e da ora in poi “Olympia” diventa modello dell’arte Occidentale, per
come è realizzata e per il legame con il passato per quell’antico che torna ad essere presente in quanto ha
proprio ‘quello che mancava’ (“Torno dove non ero mai stato”). Questa è forse più grande rivoluzione delle
arti del secolo, Manet diventa principe della modernità, iniziatore di un linguaggio dove la tradizione si
sposa con il presente: nessun accademismo, nessun realismo, io posso dipingere tutto quello che voglio se
ho trovato il mio centro di gravità permanente. Ho la dagherrotipia intesa come immediatezza, come
elemento che mi fa vedere immediatamente il reale. Abbiamo una sintesi della pittura da Tiziano a Manet,
con tanti assemblamenti - serie di intervalli e di altre possibilità inseriti nell’opera.

Il nostro punto di inizio è proprio qui. In questo dipinto è molto violento il contrasto tra il bianco delle
lenzuola e il colore scuro delle pareti; ci si ricollega a quel discorso di dipingere a campiture, quindi in
questo contesto c’è una ricerca estremamente sofisticata sui colori così come c’è una ricerca altrettanto
sofisticata sulle forme, si riescono a seguire una quantità di elementi. Qui Manet ha dipinto tutte le pieghe,
poi anche il volto che è sicuramente quello di Victorine Meurent, ma è un volto anche stranamente
presente-assente, come se vivesse in una dimensione quasi meditativa, sembra guardare e non guardare,
proprio come avviene probabilmente ad una prostituta. Anche la persona di colore che viene rappresentata
è un elemento importante. Manet quando era agli Uffizi fiorentini ha copiato la Venere di Tiziano. Manet
nei suoi viaggi di formazione ha copiato moltissimi artisti e queste copie esistono ancora.

Marcantonio Raimondi, “Il giudizio di Paride”, da un disegno di Raffaello (29x44cm). Le figure sono
perfettamente sovrapponibili all’opera “Colazione sull’erba” di Manet (2x2.60m). Il gesto è quello, come la
posizione, abbiamo l’incisione di Raffaello unita al dagherrotipo. L’unica differenza è la grandezza dei
dipinti: si potrebbe pensare che la cosa sia stata fatta in maniera ironica. In questi dipinti si può rivedere
anche Adamo nel “Giudizio universale” di Michelangelo, Cappella Sistina, Roma). Non ci può essere caso,
risulta impossibile dipingere la “Colazione sull’erba” se prima non si conosce l’incisione di Raimondi.
Comprendiamo che qui è come se attraverso la realtà, con la memoria, avessimo una resurrezione
immaginativa - il passato, riconosciuto, rivive attraverso il presente e attraverso il linguaggio del presente.
Manet estrae l’immediatezza dal dagherrotipo e la trasforma in pittura.

Altri elementi che compongono il dipinto “Colazione sull’erba” di Manet sono Victorine Meurent, il che ci
dà uno squarcio della biografia di Manet, per cui la figura è proiezione naturale data da esperienza 8una
donna in carne e ossa), e tra le memorie il “Concerto campestre” di Tiziano, le “Grandi bagnanti” (1852) di
Courbet per i colori, non tanto per le anatomie (lezione del realismo fondamentale, c’è una traccia), poi la
“Canestra di frutta” di Caravaggio (emblema del Realismo). Quanti passaggi, quante infrazioni, è tutto
insieme (<- discorso di Baudelaire su Constantin Guys).

Nell’“Olympia” (130x190cm) risultano importanti i due protagonisti, a sottolineare l’autenticità biografica e


il legame empatico tra Manet e Meurent, e la tipologia del dagherrotipo. Da stampe Manet ha fatto anche
copie della “Maya desnuda” di Francisco Goya - cromatismo, “La grande odalisca” di Jean-Auguste-
Dominique Ingres, 1814 (massimo allievo di Dalì) - sensualità. “La razza” (1725) di Jean Baptiste Simeon
Chardin, è una natura morta dove compare il gatto con la coda ritta, ripreso nell’“Olympia”. Da Delacroix,
“Le donne di Algeri nelle loro stanze”, viene ripresa la figura della donna di colore. Si potrebbe mettere la
“Paolina Bonaparte” di Canova … è quindi l’intera tradizione a mettere a punto l’opera di Manet. Nello
stesso Salon parigino Manet inserisce, accanto all’“Olympia”, un “Cristo deriso”, suscitando grande
scandalo. Tradizione vuole che il volto sia quello di un fabbro che conosceva, ma si pensa di più sia lo stesso
volto di Manet, deriso dalla critica. Si affiancano due temi diversi, l’elemento religioso viene accostato al
bordello: un senso dominante di ribellione, caratterizzata da ironia, un altro scandalo. E ciò diventa un
autentico metodo.

Edouard Manet, “Ritratto di Emile Zola”, 1868. Manet lo dedica al giovane scrittore che aveva preso
posizione decisamente a favore dell’“Olympia”, ma anche qui troviamo un’esplicita dichiarazione di
poetica. Il giovane Zola aveva preso posizione a suo favore, era amico di Manet, che gli dedica il ritratto, è
uno scrittore Realista - è come se vedessimo la realtà nominata attraverso uni scrittore che faceva della
realtà il proprio oggetto. Alle spalle si trovano una quantità di libri, di cui un catalogo di Manet; si tratta di
un ricollegamento alla memoria, posto in una strana posizione. Zola qui è reale, ma anche distratto, come
se qui più che il ritratto di Zola fosse Manet a fare il ritratto sé stesso; infatti sullo sfondo si trova una serie
di immagini come l’“Olympia”, e alle sue spalle la stampa di un celebre dipinto di Velasquez, “Dioniso”. E
poi, dovendo essere l’artista moderno cosmopolita, una stampa giapponese di Kitagawa Utamaro
(“Accademia del mondo fluttuante”), ripresa anche da un separé (esotismo) (<- apertura a tutte le forme
d’arte).

 Artista: uomo delle folle, cosmopolita e fanciullo.

È un dipinto che risulta da un lato ritratto, dall’altra dichiarazione di poetica. L’io può ricordare epoche
anche remotissime, sempre grazie alla sua mobilità: una volta arrivata a questa fase, si può allora rimontare
anche più indietro. C’è sempre la dimensione del viaggio reale.

Dopo lo scandalo dell’“Olympia”, abbiamo la graduale accettazione del linguaggio di Manet al punto che nel
1881, in una Francia diversa da quella dell’Impero Napoleonico, distrutto nel 1860 dai Prussiani (Terza
Repubblica), viene conferita a Manet la “Legion d’onore”. L’“Olympia” verrà acquistata dallo stato francese,
e diverrà l’opera più rappresentativa del XIX secolo. Ma Manet aveva un problema molto forte di diabete, fa
una fine repentina, muore nel 1883. Diventa riferimento essenziale. Diverrà autore Verista.

Edouard Manet, “Il bar delle Folies-Bergère”, 1881. Quadro decisivo, sembra di essere nel locale della folla
parigina, nel Crystal Palace, e all’improvviso il caos e perfino gli oggetti di consumo - le bottiglie di
champagne, le bottiglie di birra, le cose più effimere sono diventati oggetti preziosi. Manet ha poeticizzato
tutto quello che poteva essere di consumo, di questo dipinto si nutriranno tutti fino a Warhol. La famosa
zuppa Campbell è figlia delle bottiglie di champagne del dipinto - gli oggetti vengono ripresi come elementi
essenziali. Qui c’è qualcosa impossibile. Compare qualcosa di ‘impossibile’, ovvero la schiena della ragazza:
c’è un volto che ci dà le spalle, noi non lo vediamo in quanto c’è un vetro, uno specchio dall’altra parte nel
quale la ragazza si riflette. La libertà di composizione è straordinaria, come se si potessero sintetizzare due
punti di vista: quello frontale e la direttrice in obliquo, da sinistra verso destra – lo sguardo dell’osservatore
sintetizza quello che non è possibile perché l’artista è libero di comporre l’immagine come crede. L’artista
crea un’armonia che appare naturale, ma è completamente artificiale. Manet fa una citazione del Crystal
Palace nella banale disposizione degli oggetti che si trovavano dentro al palazzo di vetro. Qui la folla ha un
ruolo fondamentale. In questo dipinto si sente il Can Can di Jacques Offenbach, che egli inserisce in una
realtà caricata di figure mitologiche, nella sua opera “Orfeo all’inferno”. Qui il Can Can diventa invece la
musica delle ballerine. E ancora, Manet cita le lontane “Las Meninas” di Diego Velasquez (1756): qui sullo
sfondo compare uno specchio, che riflette il re e la regina; l’immagine andrebbe vista con uno specchio di
spalle per vedere la profondità della scena - è lo stesso procedimento che Manet adopera nella sua opera. È
lo stesso procedimento adoperato per questa figura: sempre si riporta una memoria al tempo presente;
comincia un dialogo fondamentale tra il Crystal Palace, la modernità, e il passato, come risarcimento. E così
ogni artista diventa storico dell’arte. La notte va così ‘verso la mezzanotte’: la stessa dimensione cromatica
fa sì che noi solleviamo la realtà dalla sua dimensione nuda e cruda e si trova il poetico. Con Manet si
aboliscono le differenze, tutto diventa un grande gioco, una dimensione di infrazione dove l’io è sovrano, e
non c’è distanza tra ciò che è volgare e ciò che non lo è. Una RESURREZIONE IMMAGINATIVA molto
graduale, che giungerà fino all’astrazione.

Sono questi tutti gli elementi che fanno parte dell’IMPRESSIONISMO, movimento che anche con Degas si
imprimerà nella scena europea e francese dal 1874, con la prima Mostra degli Impressionisti, sempre con la
possibilità di riformulare la realtà da dentro, e creare un elemento necessario per tutti.
 1874 - qui si ha la prima mostra dei pittori impressionisti.

EDGAR DEGAS (1834-1917). Il ‘fratello quasi gemello’ di Manet. Parigino, siamo in presenza di un rampollo
di famiglia ricca (il padre di Degas era banchiere). Fu più regolare negli studi, nella Scuola di Belle Arti di
Parigi. Fece un viaggio importante nel 1854 a Napoli, e un soggiorno a Firenze presso il barone Bellelli,
parente di Degas (famiglia in parte italiana). La permanenza a Firenze gli consente la frequentazione degli
Uffizi e delle grandi gallerie d’arte. Degas ebbe contatti anche con Piero della Francesca; andò ad Arezzo per
vedere le “Storie della Vera Croce” - c’è un forte legame con la tradizione Rinascimentale. Nel 1865
incontra Manet al Café Guerbois di Parigi, e da quell’anno anche Degas intensifica il legame con la vita
moderna, con la metropoli e con la modernità (modello Baudelairiano).

È un grande disegnatore, uno dei massimi d’Occidente, a pieno contatto con la vita e con la folla. Dal 1872
frequenta gli ambienti dell’Opéra di Parigi, ed esprime un forte interesse per la musica e per la danza.
Importante saggio su Degas è quello di Paul Valéry, “Degas danza disegno”: Valéry vede nella sua mano che
disegna una dimensione musicale, l’equivalente di una ballerina che danza. Valéry compone anche un
saggio sull’ “Olympia”, dove compare il gioco del “Manet manet”, “Manet resta”, come espressione di vita
moderna. Nel 1874 fa un viaggio in America, negli Stati Uniti, e proprio in quell’anno partecipa alla prima
Mostra di Impressionisti con dieci opere. Degas sperimenta anche la scultura, e dal 90 viaggia in Italia,
Spagna, Marocco (cosmopolita + maestro).

Edgar Degas, “La bevitrice d’assenzio”, 1876. Qui siamo a contatto con i bassifondi di Parigi; l’assenzio era
un liquore venduto a basso prezzo, e per molti serviva per tacitare i morsi della fame, quando si alzava il
prezzo del pane - stordimento per non sentire la necessità di mangiare, Degas ci dice che si parla di tempi
difficili. C’è lo sguardo assente della donna, e i volti somigliano più a maschere che non propriamente a dei
volti. Anche l’uomo con la pipa somiglia più a un personaggio preistorico: viene ripreso l’essere umano nei
suoi aspetti meno emblematici e ideali, la sua immagine è legata alla precarietà della vita. I tavoli di marmo
sembrano stare su da soli, perché in realtà ciò che li regge è la pittura: la libertà di composizione conta e
pesa al di sopra del senso di verosimiglianza. È come se attraverso il linguaggio realista noi concepissimo
anche certe dimensioni eteree, proprie delle stampe giapponesi – questa assenza di peso si colloca
apparentemente in un linguaggio irrealista, ma in realtà ci sono degli ‘errori’ di carattere prospettico. Il
senso generale è quello della composizione, non della riflessione del soggetto - abbiamo di fatto una
trasformazione del realismo in soggettivismo della realtà, in un’impressione.

Edgar Degas, “Il mercato del cotone a New Orleans”, 1873. È un dipinto di ispirazione commerciale, ci sono
termini mimetici. Importante la dilatazione dello spazio, deformato - il muro sembra procedere molto più in
là delle figure. La prospettiva è strana, non è quella centrale, sembra aver colto certe prospettive
manieriste. Si percepisce un allungamento dello spazio, mentale quasi, e l’immagine sembra vista dall’alto.
Sembra ci siano degli errori di carattere prospettico. Ciò ci fa capire come la dagherrotipia interferisca con il
linguaggio Impressionista: si ha la possibilità di inquadrare la realtà da un punto di vista diverso da quello
centrale (mobilità del punto di vista). Della fotografia si prende questa ‘libertà di inquadratura’, si ha
mobilità e grande avvicinamento al soggetto. La fotografia a sua volta è ‘un altro rospo che deve essere
baciato’: ne devo cogliere questa libertà, ma la rappresentazione che dò di quella libertà è poi la mia, dal
momento che penso di inquadrare il soggetto dall’alto. Si ha una estrema mobilità della rappresentazione
del soggetto stesso.

Edgar Degas, “La lezione di danza”, 1873-1875. Abbiamo la ripresa de “Las Meninas” di Diego Velasquez, con
altri elementi: sembra di vedere un piano sequenza, cioè si ha l’impressione di vedere le ballerine muoversi.
Compare il gusto di cogliere l’istante, per esempio nella ragazza che si gratta la schiena, posizione
impoetica. Si tratta di posizioni non emblematiche, ma che vanno fissate così. Ci sono corrispondenze
cromatiche fondamentali (veder, giallo, rosso, blu), rime lontane che si sentono, e che ampliano questo
spazio, in una dimensione morbida, che fluisce. Compare l’esterno, che taglia lo sguardo e fa aumentare la
profondità, conferendo all’opera una dimensione infinita. Si ha l’idea di addensamento, il far vedere la vita,
anche in particolari che sembrano insignificanti ma che giovano un ruolo importante sull’equilibrio – si vede
il cagnolino, oppure compaiono cose poco importanti, per esempio l’innaffiatoio. Sono elementi
insignificanti, ma essenziali, decisivi per l’equilibrio dell’opera nel suo insieme. Tutto è sullo stesso piano in
termini formali. Si tratta di pieghe di istanti, serve grande maestria. Ci sono elementi essenziali.

Byung-Chul Han, “La società della trasparenza”. Pagine del libro. La trasparenza e l’univocità sarebbero la
fine dell’eros e quindi la pornografia. C’è sempre un forte erotismo negli Impressionisti, perché c’è sempre
una dimensione di contatto con la vita, l’erotismo è in tutte le forme che la vita ha. Cita Georg Simmel, per il
bisogno di essere opachi, non finiti e non determinati, in quanto la trasparenza abolisce l’attrattiva di tutte
le cose, e consente alla fantasia di intesservi tutte le sue possibilità. La realtà è realtà e basta. Le persone ci
devono essere offerte nella forma della indistinzione. Tutta la pittura degli Impressionisti è una pittura della
forma e della forza, anche dove la folla non c’è. La folla, se rappresentata in maniera indistinta, diventa
‘ciurma omeopatica’, porta dentro l’oscurità e il possibile. “La fantasia è essenziale all’economia del piacere
{…}”, anche la sottrazione ha significato di mancata rappresentazione delle cose in maniera finita
(reticenza). Non si è ancora capaci di creare quest’arte, c’è un’ipotesi di carattere antropologico, di legame
alla vita, abbiamo avuto modo di entrare nella trasparenza per trovarne una nuova via ed è questo il senso
dell’infinito, il punto decisivo. {…}

 “Quel piacere nietzschiano che anela nell’eternità inizia a mezzanotte.”. Si supera la mezzanotte e
si va verso la luce, e la dimensione interiore per far centro in sé stessi è un’alba. L’io prende forza e
immaginativamente si rappresenta in un’altra maniera. {…} Da su si sposa la realtà, con la ripresa di
Friedrich e il contatto con l’orizzontalità del mondo moderno.

{…}

21/02/2020
 Peter Sloterdijk, “Dopo Dio”. È una raccolta di saggi scritti con tono provocatorio da Sloterdijk,
maestro di Byung-Chul Han. Il titolo “Dopo Dio” fa riferimento al lavoro sul tempo che viene dopo
l’uomo, la cultura ‘post Crystal Palace’ - Manet come centro di gravità permanente, dall’io
romantico di Friedrich, all’uomo che guarda alla finestra di Gustave Caillebotte.
- Fondazione MAST, Bologna. Mostra “Anthropocene”. Si lavora sull’idea che noi viviamo nell’epoca
dell’uomo, altro discorso del ‘dopo Dio’ - dato che aumenta le nostre responsabilità individuali nei
confronti del nostro prossimo, della natura e via discorrendo, non va visto come catastrofe.
 Adam Gopnik, “A Thousand Small Sanities”, rivista “New York”. Gopnik è un ebreo di New York. La
“New York” è una rivista su liberalismo, che da noi è connotazione ideologica, in America è legato a
una civiltà di correttezza e di buoni rapporti. È il racconto di coloro che hanno avuto una vita
rapportata al liberalismo, e tra i vari Gopnik nomina Manet (rapporto con Victorine Meurent).
Interessante che tra la fine degli anni ‘50 e i primi del ‘60 del XIX secolo si siano sviluppati nel
mondo Occidentale dei germi liberali di dignità del singolo individuo, di diritti politici e di
uguaglianza di diritti tra uomo e donna; è un’epoca di grandi cambiamenti. Nel 1859 Charles Darwin
pubblica “L’origine delle specie”, Emile Zola il suo saggio sulla libertà, e tra 1861 e 1864 abbiamo la
guerra civile negli Stati Uniti, che porta alla liberazione dalla schiavitù. In Italia negli stessi anni, in
particolare nel 1861, si ha la proclamazione del Regno d’Italia. Non è una rivoluzione in assoluto, è
una lenta riforma (linguaggio di gradualità, equilibri). Si tratta di questioni che fanno ancora parte
del nostro tempo, un tema serio.

Gli artisti che compongono il gruppo Impressionista saranno una cinquantina di ‘small sanities’, ‘piccole
saggezze’, dotate di strategie individuali, per cui ognuno sarà sé stesso, e arriverà dopo può. Théophile
Gautier, amico di Edgar Degas - che nella “Musica alle Tuileries” è un uomo massiccio con la barba che si
trova vicino a Baudelaire - diceva: “Oggi non ci sono più conflitti tra scuole, non ci sono le cose nuove e le
cose vecchie: ciascuno è il proprio dio e il proprio sacerdote {…}”, sottolineando la DIMENSIONE
INDIVIDUALE e quella LIBERALE, perché diventa una dimensione nella quale l’io cresce, ognuno è diverso
dal suo prossimo e qui si instaura il vero senso della cultura. Si rifiuta ogni tipo di omologazione, di brutalità
e di prevaricazione. Il Neoliberismo in cui oggi siamo naufragati è l’opposto del Liberismo, diventa ‘Crystal
Palace’. Gli elementi del Liberismo sono testimonianze di saggezza, di vita e di misura; il saggio spiega le
differenze tra destra e sinistra. È un cantiere, un fatto che ci fa capire che nell’arte noi riflettiamo, per cui il
rapporto con il passato è sempre di carattere critico (si trasceglie ciò che serve -> sintesi).

Teorici del multiculturalismo:

 Homi K. Bhabha, “I luoghi della cultura”. Classico della sociologia. Si affronta tutto lo sviluppo della
società, di trasformazione della lingua.
 Arjun Appadurai, “Modernità in polvere”. Confronto con il tema della modernità.

- Cosmopolitismo, apertura verso altre culture.


- Contatto con la folla.
- Fanciullo - Smaterializzazione, capacità di saper giocare.

Sono tutte forme di NEO-ROMANTICISMO, dove si è perso il gotico e il favoloso ma è rimasto l’aspetto
dell’IO. Attraverso i sistemi della critica e dell’immaginazione, nel ricreare tutti quei rapporti con la memoria
che non vivevano con la realtà.

(In Edouard Manet, “Ritratto di Emile Zola”, abbiamo un’altra dichiarazione di poetica: nello sfondo ci sono
delle immagini che si possono confrontare con i piani della casa di Karl Gustav Jung. L’artista della vita
moderna è colui che si muove fra i piani della memoria a partire dalle realtà. Si può rivedere il discorso di
Baudelaire su come l’artista della vita moderna è un uomo di mondo. Qui vediamo una forte influenza della
cultura giapponese, in particolare Utamaro. Utamaro è uno dei grandi maestri della “Scuola del mondo
fluttuante”. L’uomo moderno deve essere aperto a nuove culture, deve essere a contatto con la folla, deve
essere fanciullo per stupirsi di fronte anche agli elementi meno rilevanti. Manet era più vecchio di Degas.
Degas ha una vita più lunga rispetto a Manet. La fotografia è vista come possibilità di variare il punto di vista
sulla realtà e capacità di ricostruire la realtà. Qui ritroviamo il tema dell’io, quindi il tramonto del sole
romantico diventa una ripresa del Romanticismo da dentro attraverso i sistemi dell’intelligenza,
dell’immaginazione, ecc. al fine di ricreare tutti quei rapporti che un tempo nel Romanticismo erano solo ‘in
cima alla montagna’ e quindi non includevano la realtà.

Il caffè Ruppigal si trova a Parigi, qui si incontravano Courbet, Manet, Monet, Renoir.)

Gustave Caillebotte “Man on a Balcony, Boulevard Haussmann”. Discesa dell’io romantico che diventa io
moderno, in rapporto con la città e con la metropoli. C’è ora la possibilità di andare oltre l’equilibrio creato
da Edgar Degas e Edouard Manet, ampliando le forme e creando nuovo colore.

L’IMPRESSIONISMO. Realizzando questo movimento in due parole, si fa riferimento alla luce e alla pittura
all’aria aperta (“en plein air”). Gli artisti Impressionisti sono in grado di percepire il dato di natura e
trasformarlo in qualcosa che va ben oltre questa, enfatizzando sul colore, cosa che non sarebbe possibile se
non fossero consapevoli delle loro capacità sulla tavolozza. È una scelta vivificante nei confronti della
pittura e anche del mondo contemporaneo, ma a volte corrisponde anche alla necessità di dipingere quadri
destinati all’esposizione in ambienti piccoli e male illuminati (la luce non è come la conosciamo oggi - resa
dell’opera adatta al suo tempo). Strana è la fruizione delle opere Impressioniste in grandi ambienti, dato
che quelle che si conoscono sono in dimensioni ridotte. Importante che il modello degli Impressionisti è la
PITTURA OLANDESE del ‘600 - soprattutto il paesaggismo e la natura morta, una pittura propria dei valori
borghesi, dotata di decoro. In qualche modo la riduzione è già in atto. Autori importanti sono Fermier (es.
“La ragazza conturbante”), Roisdal - arte olandese del ‘600, arte borghese.

La Francia degli anni ‘70 è proprio la Francia dell’Impressionismo, questo è un fatto importante per capire
anche l’ambiente in cui l’Impressionismo si produce, matura e vive la sua ripresa. Il clima è quello della
Terza Repubblica. Nel 1870 Napoleone III dichiara guerra al regno di Prussia condotto da Ottone di Bismark
e i francesi vengono sbaragliati il 02/09/1870 nella battaglia di Sedan. L’imperatore è fatto prigioniero e
abdica, il paese è nel caos. I Prussiani invadono il territorio francese, arrivano anche a minacciare Parigi, e
nella città si forma “La Comune”. Intanto il governo si è trasferito nel sud e lì Leon Gambetta fondò la Terza
Repubblica (1870), che dura fino alla caduta di Francia nel giugno del 1940. La Prima Repubblica era stata la
repubblica dei Giacobini, la Seconda Repubblica era stata quella del ‘48. La Terza Repubblica era quella del
1870, che dura in realtà fino alla caduta della Francia del giugno del 1940, cioè quando comincia la Seconda
Guerra Mondiale. Poi abbiamo la Quarta Repubblica del periodo di Vichy fino al 1945. Nel 1944 si ha la
liberazione di Parigi e si ha la nascita della Quarta Repubblica. Oggi siamo, dopo il ritorno al potere negli
anni ‘60 del maresciallo De Gaulle, alla Quinta Repubblica. Ma il tempo di cui ci occupiamo è quello
dell’impressionismo, quello della Terza Repubblica ed è quel momento in cui la Francia va incontro ad una
svolta irreversibile: il paese che aveva dato per secoli all’Europa l’immagine della monarchia quasi mitica,
diventa una repubblica e non sarà più una monarchia.

E cambiano ora gli ordini di valori: in un mondo retto dai nobili, dal clero e dall’imperatore è chiaro che i
valori sono legati alla gloria, all’eroismo; se tutto questo crolla i valori diventano dei valori più “terra terra”,
sono proprio i valori borghesi, sono i valori di un mondo che vive attraverso il rapporto con il mercato e
l’economia di scambio, quindi è chiaro che questo si riflette anche nella pittura. La pittura perde
completamente qualsiasi dimensione retorica e celebrativa, in qualche modo legata all’eterno assoluto, e
diventa una pittura del transitorio, del movimento, della folla.

Gli impressionisti sono proprio parte di questo movimento e di questa folla. Verrà istituita una cooperativa
di pittori e incisori e anche di scultori che si proporrà direttamente al pubblico senza passare attraverso il
filtro monarchico dei Salon (istituiti da Re Sole). C ‘è una specie di decentramento, avremo otto mostre
impressioniste dal 1874 al 1886. La prima mostra viene fatta nell’atelier del fotografo Nadar, nella Via dei
Cappuccini, in un luogo aperto al pubblico, si trattava di un’impresa commerciale in cui ci si andava a fare
un ritratto. Poi le altre mostre avranno sedi diverse, non clamorosamente conosciute, e in questo è come se
fossero proprio coloro che scendono nella folla i veri pittori, si propongono nel mercato attraverso la libera
iniziativa, senza committenze nobili o filtri. C’è forte disorientamento, mi rivolgo direttamente al pubblico
senza tutela da autorità, OGNUNO RIPROPONE SÉ STESSO (incremento dato individualità - luce
nell’oscurità). C’è allora anche il cambiamento sociale, un mondo molto più moderno; si crea un mercato
che è anche mercato d’arte (Goupille lavora nelle case d’arte, avrà come commesso Van Gogh). Ciò aveva
avuto un suo precedente anche a metà del ‘600, si deve capire e intendere la qualità della pittura in quanto
pittura, il saper trascegliere (trasformazione pratica del modo in cui l’arte si rapporta alla folla).

Cos’hanno allora in comune questi pittori? E quali sono le loro differenze?

Monet, “Carnevale al Boulevard des Capucines”.

 Baudelaire, saggio del 1889, “Lo spleen”. Spiega come le cose si mettano tutte insieme, come
possano fluire. Abbiamo una prima parte di prose, s’intitola “Il cattivo vetraio” - tara dell’epoca,
compiacimento; fanno cose di cui non si aspettavano di essere protagonisti, la prosa pone il
problema del perché a volte si agisca di impulso; ciò che ci aiuta a interpretare la vicenda
Impressionista è il parlare di Baudelaire di sé stesso.
Parla di “atmosfera parigina greve e sporca”; girano i vetrai, che giravano con queste lastre sulle spalle, e lui
esorta uno a salire, dopo averlo urtato con il suo grido. Arrivato a un sesto piano (palazzo ricco), dopo
molte scale, di fronte alle quali fatica a salire con la lastra, Baudelaire allora chiede se egli ha vetri di colore,
“i vetri che fanno vedere la mia vita in bello”. Lo spinge giù per le scale, borbottante. Il “cattivo vetraio” è
colui che ha solo vetri trasparenti; dietro di lui si cela il pittore, che deve saper usare i vetri colorati, della
sua memoria e percezione intensificata della natura.

- ‘Buon vetraio’ = pittore moderno;

Il punto fondamentale è ‘colorare il vetro’, rompere il vetro per abolire la trasparenza. Il pittore è buon
vetraio, come tutti gli Impressionisti. La realtà va rianimata, va fatta riavvicinare alla natura. Il pittore è
COLLETTIVO, rianimativo, dà colore al suo mondo. “La vita in bello” ci fa sottolineare un altro fatto (W.
Stevens, “Il nobile cavaliere e l’uso delle parole”): “Il poeta è quello che deve aiutare gli altri a vivere”, è
chiamato a migliorare la vita altrui, a vivificare la vita per mezzo del colore nella pittura.

Abbiamo Monet, Degas, Pissarò e Renoir; la triade dell’Impressionismo è costituita da Monet, Pissarò e
Renoir. Ma la partecipazione alle mostre Impressioniste è molto più vasta. Importanti sono De Nittis e
Zandomeri. Un movimento che porta caratteri cosmopoliti, porta dentro di sé il mondo occidentale, è una
grande onda che da Parigi si trasforma nel linguaggio principale della pittura euro-americana. Forte è la
presenza di donne pittrici, con Morrissot. Siamo in un nuovo clima, scompare la dimensione collaborativa.
Che genere di pittori sono? Sono “pittori della vita moderna”, si accostano alla folla, hanno attenzione per
Naturalismo e Realismo, guardando alla pittura del colore Romantico. Importante per Monet è la visione a
Londra delle opere di Turner, per Pissarò quelle di Constable.

E. MONET (Parigi, 1840-1926). Passa l’adolescenza a “Le Avre”, il più brutto porto della Francia, quello da
cui si partiva per l’Atlantico; da Marsiglia si salpava invece per l’Oriente. È proprio questo porto che
diventerà soggetto della tela di Monet, “Impressione: sole che sorge”. È la città dove si forma, all’inizio è
specializzato in caricature (ansia di acquisire tutti i generi), riflessione su oggetto immediata, attraverso
l’uso di artifici. A circa vent’anni, nel 1859, vede a Parigi dipinti di origine Romantica (Francia:
“Bardbisognèe” - ritrovamento di pittori che dipingevano a contatto con la natura, paesaggisti - Rousseau,
De la Pegna): c’è grande attenzione per il COLORISMO DEI ROMANTICI. Per quel che riguarda la vita
Parigina, dal ‘59 si stabilisce a Parigi, e si trova a contatto con la Bracerìe dei Martiri, dove si riunivano i
Realisti, cosa che comporta un contatto con Courbet, e dove poi conoscerà anche Manet. Viene notato
come artista, spesso non aveva soldi per comprarsi il colore (credito di colori presso i commercianti, che poi
si facevano pagare con le opere – finanziamento pittura). I progressi della chimica consentono di avere
colori sintetici già molto smaglianti, come il blu e il giallo, tanto che si possono già trattare alcune opere con
rilievi chimici. Anche la tecnica può essere trasformata in poesia -> la dimensione di PROGRESSO si
trasforma in POESIA. Si può studiare la storia dell’Impressionismo attraverso la CHIMICA. Nel ‘65 espone al
Salon Parigino e frequenta il caffè Guerbois. Importante il 1870, perché quando c’è la guerra tra
Napoleone III e i Prussiani, Renoir parte per il fronte, e molti non torneranno; Monet scapperà a Londra, e
conoscerà le opere di paesaggisti inglesi (anche Pissarò).

Da un lato la REALTÀ, riformulata, dall’altro il ROMANTICISMO. Diventa anche pittore di un collezionista


importante del tempo, P. Durand-Ruelle. Tornato a Parigi, in grave crisi anche politica, incontra altri giovani
che sono nelle sue condizioni, ma non hanno più istituzioni pubbliche dove poter sistemare e mostrare il
proprio lavoro. Allora gli incontri da causali si trasformano in amicizie, come quello con un pittore da
Limoge, P. A. Renoir (1841-1919); nasce un sodalizio. Sono pittori del colore, che non cessano mai di
frequentare il Louvre e la sua galleria, il legame con il passato è fondamentale; lì si potevano vedere i pittori
Olandesi del ‘600 e quelli Francesi del ‘700. C’è sempre qualcosa di nuovo e intensificato della realtà, ma
c’è sempre anche il rapporto con la tradizione. Monet voleva essere un “puro occhio che guarda”, tra la
natura esterna che suggeriva e lo stesso colore. Le impressioni vengono contraddette e riformulate da
ESPRESSIONI, è un’arte dell’io, non è fotografica (Impressionismo-Espressionismo). Molti Impressionisti
usano la fotografia come mezzo, come materiale da riformulare, c’è grande LIBERTÀ D’ESPRESSIONE.
Anche il modo in cui Monet dipinge il “Carnevale”, sembra quasi di avere un colpo transitorio, abbiamo una
folla stereotipata, data anche dalla grande maestria dei colori, il giallo e il blu che danno la nota dominante.
Ci sono elementi che sono pari, è stato dipinto undici anni dopo “La musica a le Toulerie” di Manet. La folla
si è trasformata, è presa nel suo elemento generale e non in quelli particolari; prendere la via da un punto
di vista così inusuale, è un rinnovare il genere del paesaggio, attraverso per esempio la VEDUTA. Da
menzionare la tradizione veneta Settecentesca, ma ci sono tante cose che andrebbero riprese. È tutto
legato, il linguaggio non nasce mai da solo.

L’artista moderno è in primo luogo un CRITICO, un ‘buon vetraio’ in termini cromatici e caratteriali. Nel
1873 si costituisce la “Società anonima cooperativa di artisti pittori, scultori e incisori”, l’Impressionismo a
gruppo, aperto, ognuno porta il suo in una dimensione orizzontale, partecipata. Pissarò era il più anziano
(1830-1903), sarà anche il ‘grande papà’ di Van Gogh (1853), tutore dello stesso. Si trova sempre una
calcificazione umana, debutto nell’Atelier di Nadar nella prima mostra Impressionista del 1874, dopo
almeno quindici anni di preparazione. C’è tanto che prepara a questa svolta, è una ‘scuola’, un fronte molto
composito. Già nella prima mostra abbiamo Cezanne (“La casa dell’impiccato”), Degas, Morrisot, e tanti
altri, come Sisley. Nell’ultima mostra, l’ottava, dell’86, ci sono artisti che guideranno il Post-Impressionismo,
come Gauguin; ogni anno c’erano sedi diverse, in un NOMADISMO METROPOLITANO.

Monet, topos della “Colazione sull’erba” di Manet. Enfasi su cromatismo, ci sono fatti evidenti che non si
vedono. Le foglie non sono che pennellate, il vero punto di appoggio è la tela, il lavoro di sfumatura su verdi
e gialli, l’avere una quantità di TONI INTERMEDI, di sfumature (scomposizione in valori frazionari).
Importate anche il chiaro-scuro, l’enfasi e la dilatazione, tutto al fine dello studio attento dei rapporti
cromatici. Lavora anche sull’asimmetria, nella creazione di dislivello riempito attraverso il colore. Eppure a
impronta sembra di essere sempre stati lì, ma ciò che vediamo in realtà è molto più pittura che non una
scena di genere. Il contenuto, la realtà è un pretesto, che va rielaborato.

10° Lezione del corso di “Storia dell’Arte Contemporanea” - “Il pittore della vita quotidiana”.
Argomento - Impressionismo, non solo come fenomeno pittorico, ma anche nelle sue ragioni storiche.
L’arte va vista come un documento storico, ci sono aspetti straordinari in termini di simboli, di significati
sottili che i critici si passano nell’arco di secoli. Ma c’è anche un’importante dimensione storica, una sorta di
solida base della quale bisogna tener conto.

L’impressionismo

- Aspetto equivoco ed erroneo - Legare l’Impressionismo alla natura.

- Dimensione storica - Anche qui bisogna tener conto delle date: propriamente parliamo di
Impressionismo per 8 mostre. La prima mostra si tiene nel 1874 nell’atelier del fotografo Nadar e l’ultima
nel 1886. Questi propriamente sono gli anni dell’Impressionismo, dal 74 all’86. È interessante ricostruire ciò
che c’è prima del 1874, data capitale e opuscolo di storia dell’arte.

- Elemento essenziale - Quando si pensa all’Impressionismo si pensa al colore, si pensa alla


dimensione empatica, all’immediatezza - In questo senso va benissimo legarlo alla natura.

Intorno all’esperienza dei pittori impressionisti che natura e che storia si trova?

Abbiamo una data di partenza che è prima del 1874 e si stabilisce nel 1851.
1851 - Data particolare perché segna l’organizzazione della Prima Mostra Internazionale dell’Industria, il
Crystal Palace, che si tenne a Londra in Hyde Park con la costruzione di un enorme edificio trasparente
edificato a tempo di record - in 6 mesi - da un costruttore di serre il cui nome era Joseph Paxton, usando la
lastra di vetro standard imposta sul mercato inglese. Ci si vanta di non aver toccato un filo d’erba, qui gli
alberi erano rimasti dentro, una specie di non luogo. È un luogo che è al limite fra il visibile e l’invisibile,
tuttavia le cose che si vedevano erano molto visibili.

Gli inglesi hanno scelto il 1851 per due ragioni fondamentali:

- Storia Economica di Cambridge - Nel 1751, un secolo esatto prima, si registra il primo accumulo di
capitale delle industrie inglesi del cotone, con un saggio di profitto superiore al un terzo dell’investito -
Comincia il Capitalismo nel 1751, comincia la Rivoluzione Industriale. Dobbiamo tener conto che nel 1851 la
Rivoluzione Industriale ha 100 anni, è un fattore importante di cui tener conto.

Charles Dickens - “Hard Times”, 1854 - Romanzo è ambientato a Coketown, cioè in realtà in un luogo di
estrazione di materie prime e di lavorazione delle stesse.

“Coketown era una città di mattoni rossi, o meglio di mattoni che sarebbero stati rossi se il fumo e la cenere
lo avessero consentito. Era invece una città di un rosso e di un nero innaturale come la faccia dipinta di un
selvaggio, una città piena di macchinari e di alte ciminiere, dalle quali uscivano senza tregua interminabili
serpenti di fumo che si snodavano nell’aria senza mai sciogliere le loro spire. C’era un canale di acque nere,
un fiume violaceo di tinture mal odoranti e vasti agglomerati di edifici pieni di finestre scossi per tutto il
giorno da un frastuono e da un tremito incessante, dove degli stantuffi delle macchine a vapore si alzavano
e si abbassavano monotoni come teste di elefanti in preda ad una malinconica follia. C’erano parecchie
grandi strade tutte uguali e un numero di viuzze abitate da persone anche esse uguali che entravano e
uscivano alla stessa ora con il medesimo scalpiccio, sul medesimo selciato, per recarsi a svolgere il
medesimo lavoro e per quale oggi era identico a ieri a domani e ogni anno la replica di quello passato e di
quello a venire. Non c’era nulla a Coketown che non ricordasse la severa disciplina del lavoro. In città tutte
le insegne pubbliche erano dipinte con gli stessi caratteri bianchi e neri, la prigione avrebbe potuto essere
l’ospedale, l’ospedale la prigione, il municipio, l’una o l’altra indifferentemente, oppure tutti e due insieme
o qualcosa altro visto che nessun particolare architettonico ne indicava il contrario. Solo fatti c’erano fra
l’ospedale in cui si nasceva e il cimitero, mentre tutto quello che non si poteva valutare in cifre, né si poteva
comprare al prezzo più basso per rivenderlo al più alto, non esisteva e non sarebbe mai esistito nei secoli. E
così sia.”

Questa si potrebbe dire un’istantanea formidabile di ciò che già la Rivoluzione Industriale era stata. Ma il
fenomeno non era soltanto inglese, era un fenomeno che si stava espandendo in tutto il mondo. Il modello
industriale diventa modello dell’Occidente.

1848 - Il Dottor Morton ha già eseguito a Chicago la prima operazione in anestesia totale con risveglio del
paziente. Il fatto ci dice - anche con il telegrafo di Morse - nel nuovo mondo abbiamo la prima culla di una
grande potenza industriale, su quell’asse atlantico che comincia quando gli inglesi e gli americani fanno la
pace il 25/12/1820.

Espansione del modello industriale.

L’Inghilterra era il cuore della Rivoluzione Industriale. Derby era il cuore del cuore, luogo nel quale qualcuno
aveva a un certo punto avuto l’idea di attaccare alla ruota del mulino della Mille Road un telaio meccanico.
Da lì si aveva avuta la gran fiammata per cui di fatto l’energia non era più soltanto umana. Un’escalation da
ricostruire in termini antropologici.
Il punto essenziale è che se la vita fino ad un certo punto era stata un carciofo, dalla metà del 700 fino alla
metà dell’800 tante foglie erano state tolte, tante realtà erano state rimosse: il lavoro e i fatti erano il punto
essenziale.

In questa situazione avviene qualcosa di curioso: è anche l’epoca della Rivoluzione politica (1789), il periodo
napoleonico e le fiammate rivoluzionarie in Francia (1830), la monarchia Orleanista, le Barricate, il ‘49 e il
’48 italiano. E poi comincia un tempo strano in cui tutti gli ideali politici sono falliti: la borghesia fallisce la
propria rivoluzione politica, e quando si fallisce politicamente si cerca di fare dei soldi per consolarsi. E
l’Europa comincia a investire tutto nell’economia.

C’è un’escalation per cui gli inglesi erano i leader, al di là delle ideologie. Il ‘48 e il ‘49 ci sono stati in tutta
Europa, tranne in Inghilterra, perché lì non c’era rivoluzione da fare.

Gli inglesi celebrano a Londra nella capitale di quella città-mondo - come l’aveva descritta Cattaneo dopo
una visita -, celebrano l’industria di cui sono i leader. E la celebrano in questa maniera strana, che è data dal
palazzo di cristallo che viene costruito su Hyde Park, nel centro di Londra, sopra ad un giardino. Sei mesi, un
tempo straordinario, costruito con elementi tramite i quali gli inglesi dominavano il mercato: la lastra, le
leghe.

Confronto con una basilica antica, la Reggia di Versailles e una fabbrica - Sintesi del “luogo che non c’è”. Il
palazzo di cristallo non è che non c’è: la trasparenza fa sì che la realtà sia l’immagine del mondo. Non c’è
nessuna immaginazione, ma c’è semplicemente la fotografia della realtà, allora la dagherrotipia, e prima
ancora l’eliografia. Da dentro il Crystal Palace si vedeva Londra, cioè l’esterno che ora è il vero interno,
perché fuori stava accadendo ciò che all’interno si celebrava, cioè l’industria dava i suoi prodotti con la
creazione di un insieme di strutture, di comunicazioni di vario tipo, che investiva l’intera nazione e,
attraverso l’Inghilterra, l’intero mondo occidentale. Quindi una sorta di cuore - si potrebbe dire - essenziale.
Qui sono presenti gli stands, gli spazi di tutte le nazioni del mondo in cui in qualche maniera c’era una
produzione industriale, in gran parte legate all’impero britannico. È la prima globalizzazione, il primo
momento nel quale si hanno queste presenze. Il Crystal Palace è durato 25 settimane, un’affluenza record.

È il primo momento in cui si sperimentano i viaggi organizzati, cioè il turismo, perché dalle colonie inglesi e
da altri luoghi affluivano migliaia di persone.

A rovescio vennero fondati in tutto il mondo i giornali, Italia compresa, che all’unisono con ciò che avveniva
dentro il Crystal Palace pubblicavano ciò che si considerava all’avanguardia, la moda, i modelli e tutto
quello che in un certo qual modo rendeva la merce appetibile, quindi aperta alla fruizione della merce
stessa sui mercati.

È anche un momento in cui le telecomunicazioni, le comunicazioni a distanza, cominciano a prendere piede


e anche qui secondo i principi che però sono quelli di Coketown, cioè un essenziale bianco e nero, qualche
cosa che toglie l’anima alle cose, agli oggetti, che riduce e riporta tutto secondo misure. L’idea è quella di
una riduzione del mondo, guai a parlare di immaginazione, che è evidentemente ciò che in quel tempo non
serviva ai fatti (Dickens, 1854).

Il Crystal Palace fu poi smontato e ricostruito alla periferia di Londra, dove è rimasto fino al 1937, quando
viene distrutto da un incendio.

Mole del Palace - Specie di sogno, qualcosa di incredibile: dentro al Palace c’erano gli alberi (industria che si
unisce, che prende la natura). Tutto viene avvolto dalla trasparenza, che altro non è se non l’industria. In
questo momento l’immagine del mondo e il mondo sono la stessa cosa.

Due passi nel Place - Nel Palace se si avevano soldi si poteva comprare anche un treno. Nel Palace c’era la
prima cucina a gas, la prima cucina economica del 1851. Ci sono oggetti realizzati per la prima volta on
stampi industriali, c’è quindi in questo periodo una distruzione dell’artigianato, si ha una produzione
seriale. Si hanno grandi progressi anche della chimica.

Insomma è tutto un mondo che trasforma la realtà e che poi si riverbera sugli oggetti. La gente andava e si
ritrovava in uno spazio in cui in certi momenti c’era una vera e propria indigestione di forme, tutto è il
contrario di tutto, ci sono tutti gli stili possibili. Il mercato in realtà dà e prende in termini di anima: dà
molto in termini di oggetti e impone senza apparire - del resto l’edificio era trasparente - dimensione
straordinaria e annichilente.

Anche il fatto che la folla potesse transitare in momenti diversi. Il tema essenziale era quello della folla. La
folla è una folla che gremisce questi luoghi, dentro e fuori; a volte si incuriosisce per le vetrine, che fa una
sorta shopping, ma è anche una massa, perché qui è legittimo parlare di società di massa. Si comincia a
parlare di folla come la caratteristica essenziale, folla che produce e folla che consuma, e queste sono le
questioni che si correlano a uno straordinario bisogno di realtà. Anche i pittori vogliono corrispondere a
questo bisogno.

Courbet - “L’atelier dell’artista”, 1855 -> Anno nel quale la successiva edizione dell’esposizione
internazionale dell’industria si tiene a Parigi. C’è una sorta di passaggio tra l’Inghilterra e la Francia. Bisogno
di realtà - Courbet è un romantico e qui possiamo subito dire una cosa: questo sviluppo dell’industria
cancella quel movimento rivoluzionario, interiore e esteriore, che era stato il Romanticismo. È come se l’io
dei romantici in qualche modo fosse una mosca che si andasse a schiacciare sulla superficie trasparente del
Crystal Palace. Jaquette (?) parla con disprezzo proprio dei “giovani arrembanti” che vogliono fare i soldi.

Percy Bysshe Shelley - “Ode del vento dell’Ovest”, 1820.

“Ammettiamolo, abbiamo fatto indigestione. Le merci nel 1820 ci hanno completamente occupato
l’anima”. Ora l’idea dell’“essere occupati” ed espropriati da una realtà invadente è proprio ciò che mette
fine completamente alla fase romantica. La cultura romantica “muore dentro al Crystal Palace”.

A pensare a farla rinascere, Courbet diceva: “Il pittore deve dipingere solo quello che vede con gli occhi”.
Ciò che non si vede con gli occhi non è possibile dipingerlo, la realtà si impone come elemento essenziale.
Ne “L’atelier dell’artista” a sinistra ci sono reietti, emarginati, a destra intellettuali. A destra ancora c’è
Baudelaire, amico di Courbet che sta leggendo un libro. Sarà Baudelaire a trovare la chiave essenziale per
attraversare il Crystal Palace.

“Il pittore della vita moderna”. Baudelaire riesce in questa sorta di magia, o di prodigio, in un libretto “Il
pittore della vita modera”. Qui non manca niente, si tratta di una specie di miracolo, un articolo che
Baudelaire aveva pensato di pubblicare e aveva forse scritto già nel 1859, e che esce nel 1863. Si tratta di
una data importante.

Roberto Calasso, “La Folie Baudelaire”.

Baudelaire è un parigino, nato nel 1821, muore nel 1867. Lo sappiamo, autore dei famosi “Fiori del male” -
ma è anche un uomo del suo tempo. Vive nella folla, conosce la folla parigina. Visita l’esposizione parigina
che si tiene a Parigi nel 1855, contemporaneamente all’esposizione universale. È un uomo del suo tempo,
che tuttavia dice: “Il Romanticismo è la forma più alta di bellezza moderna, ma si è sbagliato a cercarlo fuori
nel mondo: il Romanticismo è dentro.”. Cosa vuol dire che “il Romanticismo è dentro”? Baudelaire, forse lo
sappiamo, scrive una poesia molto nota che s’intitola “Corrispondenze”. Le corrispondenze sono le
analogie. L’idea di Baudelaire è che l’io romantico all’interno del poeta, all’interno dell’artista si debba
mettere alla prova, a contatto con tutto ciò che è impoetico o addirittura considerato negativo.
“Tramonto del sole romantico” - Baudelaire esalta la bellezza del sole che sorge, dicendo di averlo guardato
tutto il giorno. Poi però la sera c’è questo ultimo raggio, l’astro tramonta definitivamente, e noi ci troviamo
col piede che inciampa “in fredde lumache e rospi”.

Baudelaire comincia a riflettere se per caso la bellezza nel tempo moderno non sia proprio nascosta nelle
lumache e nei rospi. Come se si separasse dal potere dell’io romantico andando in cerca di qualcosa di
pericoloso, per cui l’artista di oggi è “un io affamato di non io”. Per cercarmi mi devo cercare nell’altro. Per
cercare la poesia del tempo devo cercare ciò che non è mai stato messo nella poesia. Per cercare l’arte del
mio tempo devo cercare nell’arte dove non è mai stato messo.

In un certo senso è una presa di posizione contro il romanticismo sentimentale. Si tratta di una sorta di
esercizio spirituale, una forma di tantrismo, per cui devo avere il coraggio di baciare i rospi e le lumache
perché quelli sono i principi e le principesse future. Il realismo e i fatti vanno benissimo. L’artista deve
essere a contatto con la realtà e deve essere a contatto con la realtà dominante dentro e fuori dal Palace,
con la folla. Il primo punto è questo: l’artista per Baudelaire deve essere a contatto con la folla. Deve
sposare la folla. L’artista deve entrare nella folla come un immenso serbatoio di elettricità.

Pensava ad Edgar Allan Poe. Baudelaire diceva tre preghiere: una per sua madre, una per la sua anima e
una per l’anima Edgar Allan Poe.

Poe nasce nel 1809 e muore nel 1849. Baudelaire fa appena in tempo a tradurlo in francese, ma non l’ha
mai conosciuto. La suggestione è talmente grande che ne “Il pittore della vita moderna” si menziona il tema
dell’uomo nella folla.

Edgar Allan Poe, “The Man of the Crowd” - Racconta che un convalescente, uno che stava per morire,
tornato al mondo se ne stava dentro un caffè. E in questo caffè guarda attraverso un vetro, come nel
Crystal Palace, guarda la folla che passa su un marciapiede. L’artista convalescente dentro un bar è per
forza un romantico, che ha corso il pericolo di vita - cioè si è ammalato -, ma è riuscito a superare la vita e,
come tutti i convalescenti, è assetato di vita. È questa la metafora alla quale ricorre. Quando ci riprendiamo
dall’influenza abbiamo uno stato di regressione infantile, siamo come delle spugne.

L’opera di Poe è il primo documento della moderna sociologia della folla. Descrive minutamene tutti quelli
che passano. Chi sta lì dentro vede un qualcuno, una persona anziana che lo invita ad uscire dal vetro che lo
divideva e a inserirsi nel flusso della folla. “Bisogna, a contatto con la folla, scoprire di nuovo lo stupore, la
meraviglia” dice Baudelaire. Bisogna iniziare a stupirsi delle cose che abbiamo giudicato malamente, in
modo affrettato. Bisogna portare la nostra attenzione su tutto. Ciò che mi mette in crisi, ma mi induce
anche a fare una esperienza nuova. L’io è affamato del non io. Aprirsi ai rospi e alle lumache, al brutto e al
male.

Il poeta e l’artista devono scendere per strada, a contatto diretto con la realtà. Questa è la terapia per
uscire dal Pace e dall’idea che tutto sia chiuso in un’immagine. L’immaginazione va ricercata nel vero.
Bisogna però cautelarsi, in quanto andando in strada si corre un rischio, quel che avviene mi può in qualche
modo cancellare. C’è allora una sorta di educazione sentimentale, che consiste nel farsi un’educazione
straordinaria prima di quell’esperienza della folla.

In primo luogo bisogna lavorare sulla memoria e sulla tradizione. Solo così, immaginazione del nuovo
attraverso il vero e rammemorazione della tradizione, si può cercare di ritrovare un nuovo equilibrio.

Qui sarebbe interessante anche considerare in termine “moderno”. Chanclet (?) ha dedicato a questo
termine un saggio molto bello, lo riporta a “modus”, “ciò che ha equilibrio”, ciò che è dato secondo una
misura. Quindi con una cultura e una memoria io devo cercare di dare una misura all’infinito smisurato
della folla, del mondo intorno a me.
Baudelaire dice che bisogna tornare a stupirsi delle cose, e aggiunge: “Il genio non è che l’infanzia ritrovata
con la volontà.”. Un motto bellissimo, rimette in discussione ciò che si è studiato alla luce dell’esperienza.
C’è l’archetipo junghiano del puer e del senex, per cui i due sono estremi dello stesso movimento.

Tesi dell’economista Cipolla - L’idea è soprattutto questa: di fronte al mondo industriale, che aveva
separato il presente dal passato - il Palace era una cesura con l’idea di progresso dell’Europa precedente -,
l’artista dev’essere capace di rammemorare. Anche questo è un modo per ragionare sul proprio tempo, un
qualcosa che Baudelaire invita a fare agli artisti del proprio tempo.

Dal 1858 Baudelaire ha un amico che gli fa uno schizzo e si chiama Eduard Manet. Dal ‘58 in avanti,
Baudelaire pubblica il suo libretto nel ’63, anno nel quale viene esposto nel Salon di Parigi il dipinto di
Manet, “Le petite déjeuner sur l'herbe”.

Vengono esposti nuovi principi baudelairiani. Presente e passato per vincere insieme la modernità senza
limiti. Pensiamo alla differenza tra la folla che alla fine è una folla messa all’interno dell’atelier di un’artista
che la dipinge - “L’atelier dell’artista”, e la folla della “Musica alla Tuileries”. Questo è il serbatoio
dell’elettricità, nel quale il pittore della vita moderna si deve immergere.

Passa questo modello operativo da Baudelaire ai più giovani artisti, dove questi sono più deliberatamente
grandi artisti ed espositori di gallerie, eseguono copie straordinarie al Louvre, o anche agli Uffizi. Sono
grandi viaggiatori della realtà, figli della borghesia parigina, hanno soldi e possono quindi viaggiare. Sono
anche frequentatori di musei, hanno una straordinaria memoria. Si offrono quindi alla realtà nel modo più
vasto.

Eduard Manet, “Le petite déjeuner sur l'herbe”. Ecco la folla dipinta da Manet negli anni ‘60. Ho inserito
anche “Il concerto campestre” di Tiziano e Giorgione per dare l’idea della memoria. Pensiamo alla memoria
di Manet e pensiamo alla dagherrotipia, la riproduzione delle cose come sono. Ecco la mediazione
straordinaria fra memoria e immaginazione di una realtà con figure vestite con gli abiti del tempo e con
questa dimensione che fece scandalo appunto della ragazza nuda che guarda in faccia a qualcuno - dato
che conta. Anche questo è un dato che conta naturalmente. Come se vedessimo una sorta di universo, di
cui l’immediatezza. Attraverso Baudelaire i rospi e le lumache erano per un pittore la fotografia, aboliva
l’idea dell’autore. Avremmo dei pittori che assomigliano a dei fotografi.

Baudelaire dice che la fotografia è utilissima se è un mezzo, è un disastro se è un fine. Questi artisti
percepiscono che l’elemento reale, il più scandaloso - la ragazza che guarda direttamente in faccia - era la
direzione da seguire. Solo quel contatto con il vero senza veli poteva dar luogo ad una rammemorazione
della tradizione che rimettesse il moderno in asse con la memoria. Questo è il punto essenziale.

Pensiamo ad un dagherrotipo sul serio - amori saffici -, un filmino pornografico, e poi mettiamo insieme la
“Venere di Urbino” di Tiziano. Agitiamoci, leggiamo Ovidio, Orazio, tutto ciò che serve “a fare indigestione”.
Dice Baudelaire: “Dò all’indigestione la funzione che prima aveva l’immaginazione”. Non ci può essere
ispirazione moderna senza indigestione. Bisogna mescolare tutte le esperienze, tutto ciò che si ha avuto, e
viene fuori l’“Olympia”. È un’opera del ’63 che viene esposta nel ’65 perché lui per tante ragioni ha paura.
C’è una memoria molto profonda. Mettiamo sullo sfondo la “Venere” di Tiziano e il dagherrotipo visto.

Vogliamo dire la “Maya desnuda” di Goya, o la “Paolina borghese” di Canova? E ancora, quella donna di
colore, che richiama “Le donne di Algeri” di Delacroix. La figura di Delacroix è girata ma ha la stessa
funzione. Si vede un gatto con la coda ritta, citazione dell’amatissimo “La razza” di Chardin. Il gatto
dell’Olimpia ha il pelo ispido.

Questo insieme è anche la realtà dagherrotipica della ragazza che guarda negli occhi il cliente. Ciò che non
si dovrebbe vedere. Questi erano rospi e lumache, una realtà quasi ripugnante. Il cliente per eccesso di zelo
ha voluto portare i fiori. La Mostra di Venezia fu inaugurata con la “Venere di Urbino” di Tiziano e con
l’“Olympia” di Manet. È possibile rammemorare da Tiziano in avanti.

L’arte contemporanea è quell’arte nella quale da Piero della Francesca in poi all’artista sono presenti tutte
le epoche, e di queste lui fa quello che crede. Questo è il punto essenziale, ed è tanto più significato nel
momento in cui il Crystal Palace taglia la storia in un prima e in un dopo, l’artista risarcisce l’umanità di ciò
che l’industria gli ha tolto.

Questa memoria implica la memoria del colore in Manet. Quando dipingo non solo dipingo il soggetto, ma
anche la memoria del colore che ho visto. Ho concretamente la memoria dell’arte, è lo stesso discorso della
contemporaneità che dicevamo. Ma ho visto anche il mio tempo. Quindi dipingo il mio tempo attraverso
quella memoria. È il dato essenziale in termini di memoria e in termini di arte e in termini di civiltà.

“Ritratto di Emile Zola”, Eduard Manet, 1876. Lassù c’è una dichiarazione di poetica. Le stampe giapponesi
sono giunte in Francia ed hanno lasciato un segno, diciamo. Il gusto delle cineserie esisteva in Europa già da
due secoli, ma entrano anche le giapponeserie e l’arte giapponese. Di fianco c’è l’“Olympia”, come a dirci
che si tratta di una matriosca. Dietro l’“Olympia” ci sono i “Burracios” di Velasquez.

Come diceva Oscar Wilde “Un cadavere in casa è causalità, due è distrazione.”. voglio osservare la duplicità,
questa dimensione. Un grande scrittore della realtà, Emile Zola, parla di realtà più memoria.

“Il bar delle Folies-Bergère”, Eduard Manet. Ecco la folla fatta di lumache e rospi. Lo specchio che avrebbe
dato soltanto l’immagine del mondo uno ad uno è diventato infinito. Ho una rifrazione sballata in quello
specchio, quell’immagine dell’avventore con la tuba è in realtà riflesso senna essere nell’immagine vera e
propria. Vi è proprio uno sfondamento che avviene nell’io. Avviene nell’io di chi dipinge e insieme nell’io di
chi guarda. Il pittore fa il mondo più vasto del Crystal Palace, trova la memoria adatta al suo tempo.

Non siamo capaci, nei nostri tempi, di produrre un’arte conservatrice, diamo sangue alla memoria. L’arte si
conserva all’università, a scuola, nelle accademie. Vi è un dato essenziale di civiltà, di formazione, non di
informazione. L’elemento essenziale è l’inizio, nel quale vedo l’impressione che si mescola alla memoria.

L’Impressionismo non è mai un impressionismo puro, ma è sempre una forma di espressionismo. Il sole, il
rospo, la lumaca incontra una densa memoria che lo riformula. Il pittore Impressionista guarda il mondo
volendo essere un puro occhio ma il puro occhio non guardo il mondo, ma la tavolozza. Ed è lì il rapporto
tra ciò che io so di quella tavolozza e la memoria della mia arte che io riesco a modernizzare il mondo.

Non vi è una lezione di carattere naturale; l’Impressionismo è l’idea di un artificio bilanciato. Il trucco è tale
da non essere visibile, ed è il più bello, rende più grande l’immagine a ci si applica. L’idea è di una
rivoluzione che porta l’antico nel moderno.

Frase di Baudelaire tratta da “Il pittore della vita moderna”: “Vi è stata una modernità per ogni pittore
antico. Perché ogni modernità acquisti il diritto di diventare antichità, occorre che ne sia tratta fuori la
bellezza misteriosa che ne immette inconsapevolmente la vita umana.”. Estrarre quindi ci che vi è
involontariamente custodito, ma che se io non ho la pazienza di “baciare” non verrà mai fuori.

Velasquez viene osto a contatto con un altro importante pittore che prepara negli anni ’60 la vicenda
impressionista, Degas. “Las Meninas” di Velasquez, dove scopro la fonte di Manet (“Il bar delle Folies-
Bergère”). In fondo ci sono il re e la regina che guardano, sempre con l’idea che gli artisti parlino il
linguaggio dei compari, e attualizzino questa dimensione. Anche ne “La lezione di danza” di Degas deriva
dal “Ritratto dell'infanta María Teresa di Spagna” di Velasquez.

La memoria si riattiva. Degas come Manet, viaggiatore di grandi musei. “Il mercato di cotone a New
Orleans” - Nel 1874 Degas va in America e visita l’industria di cotone dal 1871. Avvicinamento a “La
stangata”. Manet muore nell’1883, Degas morirà nel 1917. Manet non ha mai partecipato alle mostre
impressioniste, si sentiva un pittore da Salon.

Friedrich, “Il viandante sul mare di nebbia” - Manifesto della pittura romantica in Germania ed è quell’io
che era andato a finire contro il vetro del Crystal Palace. Abbiamo la nuova Atene, luogo dove si
incontravano gli artisti. Caillebotte sembra riprodurre la stessa immagine sulla realtà nuova della metropoli.
Come il gatto, animale totemico di Baudelaire, che può passare da tutte le parti, esce dalla finestra, a
rappresentazione degli opposti e della loro connessione. Il gatto è animale del caldo e del freddo.

Siamo al “Boulevard des Capucines” con Monet negli anni ’70. Il linguaggio del colore e della memoria si è
ormai radicato. Lo adottano Manet, Renoir, Pisarro. La citazione della memoria avviene spesso per colore
che per simboli, ma c’è sempre la dimensione essenziale del pittore della vita moderna. L’io impressionista
è un io romantico e moderno insieme, un romanticismo moderno, dove l’io si rende autonomo alla realtà a
cui sa di poter dare un colore quando questa era grigia e incolore (Dickens, “Hard Times”).

In un altro scritto di Baudelaire si parla del “cattivo vetraio”. Baudelaire è in casa e sente il vetraio che urla,
osservandolo dal vetro in un certo senso. Lo chiama e questo sale la scala con tutti i vetri che gli pesano. Il
vetro è da ricollegare al Crystal Palace. Baudelaire gli dice “Vigliacco, non hai neanche un vetro colorato”. E
lo caccia, e quando fu in strada gli lanciò un vaso di fiori.

L’esito fu come se un palazzo di cristallo andasse in frantumi. Ciò ci segnala la consapevolezza dell’insieme,
comprendiamo cosa l’Impressionismo abbia rappresentato in tutti i termini e in tutti i contesti, nella ripresa
di un cammino che l’industria avrebbe voluto tagliare ma che gli artisti hanno riannodato nel presente.

11° Lezione del corso di “Storia dell’Arte Contemporanea” - “Impressioni quotidiane”.


Inserire lezione di Elena “Impressioni quotidiane - Lezione di Elena”.

12° Lezione del corso di “Storia dell’Arte Contemporanea” - “Oltre l’Impressionismo”.


Abbiamo visto Manet come padre a tutti gli effetti dell’Impressionismo, a mai nelle mostre Impressioniste
vere e proprie. Presente ancora Degas, e in seguito gli Impressionisti un po’ ‘da etichetta’- Monet, Renoir,
Camille Pissarro, ecc. Tutta questa vicenda ha una sua dinamica interna, le ricerche dei singoli vanno
talvolta in direzioni differenti.

L’Impressionismo infatti non è una scuola, è una tendenza che ciascun interpreta individualmente - idea
dell’individuo come elemento essenziale, in questo senso ciascuno è libero di guardare, di osservare, di
avere visioni, perché alla fine il punto è proprio questo: quando io scopro per esempio che la natura è fatta
di luce, che anche la mia pittura può essere fatta di luce, che osservando la luce nel corso della giornata ci
sono infinte sfumature, e queste sfumature io le riproduco sulla mia tavolozza, poi magari può darsi che a
un certo punto io cominci a pensare che forse esiste il colore indipendentemente dagli oggetti da cui io lo
traggo, cioè dalle cose che io osservo del mondo. Posso cominciare a pensare appunto che la tavolozza sia il
‘punto di vista’ dal quale io posso riformulare, inventare la realtà.

Se tengo presente questo fatto, allora “oltre l’Impressionismo” significa proprio la capacità di aver assunto
gli strumenti della pittura da parte ovviamente degli artisti - adesso noi stiamo nell’ambito della pittura, ma
ci sono anche gli scultori (es. Auguste Rodin), si tratta essenzialmente di uno sviluppo che è uno sviluppo
immaginativo. Ciò che segue l’Impressionismo, se guardiamo nei libri d’arte, è il Simbolismo.
Il Simbolismo ha proprio un manifesto, pubblicato da Jean MOREAS nel 1886 - anno dell’ultima mostra degli
Impressionisti - su “Le Figaro”. C’è tra l’altro una specie di passaggio di testimone: ci sono già degli artisti -
che in parte sono forse già dei Simbolisti - che espongono nell’ultima mostra degli Impressionisti dell’86.
Questo fenomeno vale per molti, ma un caso emblematico è Auredon (??), ma c’è già quella specie di
strana tecnica che è il PUNTINISMO di Georges Seurat all’ultima mostra Impressionista. C’è quindi
un’evoluzione, anche nell’arte niente finisce. “Oltre l’Impressionismo” significa dunque che il colore che gli
Impressionisti avevano desunto dalla natura e dalla memoria procede autonomamente in una dimensione
immaginativa che è però anche questa in contatto con la storia.

Prima di cominciare con questa fase dell’“Oltre” c’è una cosa che è necessario vedere ancora. Non è
completo il nostro carosello della vicenda francese degli anni ’70-’80 dell’Ottocento se non vediamo molto
velocemente Camille Pissarro, “Hermitage a Pontoise”.

 Camille Pissarro, “Hermitage a Pontoise”.

Camille Pissarro, “Hermitage a Pontoise”. Questo paesaggio solido, Camille Pissarro in particolare è ‘l’artista
solido’, l’artista che riprende più Constable che non Turner tra i Romantici, che ama Jean-Baptiste Camille
Corot. Abbiamo visto la scorsa volta il primo dipinto di Camille Pissarro, che è stato eseguito
contemporaneamente agli ultimi dipinti di Jean-Baptiste Camille Corot. L’amico di realtà di Camille Pissarro
era Paul Cezanne, probabilmente l’artista che ha più innovato proprio l’arte.

PAUL CEZANNE (Aix-en-Provence, 1839-1906).

Paul CEZANNE. Paul Cezanne è riuscito a stabilire definitivamente che la partita tra il pittore e il mondo la
vince il pittore se sta dentro di sé, se è quindi capace di assorbire la realtà ed è capace di riformularla con
grande libertà, senza perdere però contatto con la natura. È una specie di strana quadratura con il cerchio,
tanto che da Cezanne verrà poi il Cubismo. Si tratta di riuscire a creare una struttura plastica, una struttura
costruita sostanzialmente di volumi realizzati con la tecnica del chiaro-scuro, come questa “Natura morta
con caffettiera” dei primi anni ’70.

 Paul Cezanne. “Natura morta con caffettiera”.

Paul Cezanne, “Natura morta con caffettiera”. Si tratta di forme che ambiscono ad avere una sorta di
geometria, e che però hanno anche un aspetto, come se quegli oggetti fossero una piramide, un cubo un
cilindro. Qui c’è un’idea di poter guardare la realtà e di poterla riprodurre. Qui c’è Cezanne che solidifica,
questo è il dato essenziale.

 Paul Cezanne, “Casa dell’impiccato”.

Paul Cezanne, “Casa dell’impiccato”. Dipinto esposto alla prima mostra degli Impressionisti, Cezanne è più
solido di Camille Pissarro. È strano come un’artista che decida di dipingere un paesaggio così si metta così
basso, significa che i volumi dei tetti gli interessano molto di più che non la prospettiva dell’orizzonte.
Lavora proprio sulle forme, si impossessa di quelle, e lascia soltanto in termini molto larvati la prospettiva.

È un lavoro incessante che Cezanne conduce, e che lo porta in certi casi, come in questo paesaggio, a
condividere gli aspetti cromatici dell’Impressionismo. Ma nelle sue lettere scrive a qualcuno: “Ho dipinto e
ho esposto con gli Impressionisti”, senza inserirsi in questa tendenza come Impressionista vero e proprio.
Perché la sua idea di pittura è molto solida, come se io guardassi ossessivamente una testa, una mela, un
paesaggio, e ne estraessi/astraessi il motivo ideale che m viene suggerito dalla mente. Sulla base di quello
rielaboro questo stesso motivo, lo riassocio con libertà. È quello che in termini molto diversi, però con una
curiosa affinità, fa Antoni Gaudì.

 Ferrara. Mostra “La rosa di fuoco”. Parla della Barcellona di Antoni Gaudì e di Pablo Picasso, cosa
molto interessante. Vanno pensate le forme naturalissime delle pere di Antoni Gaudì, che egli ha
preso e ha rimontato con assoluta libertà. Il proprietario de “La Pedrera” era proprio il proprietario
di Cave di pietra, come se si volesse dare prerogativa al proprietario. Non ha nulla a che fare con le
cave di pietra, ma se io mi avvicino capisco che c’è questo legame con la natura. Anche la “Sagrada
Familia” è stata fatta così, con tutti i materiali delle regioni vicine a Barcellona. E oltretutto c’è
proprio un’assunzione all’interno di questa forma: la “Sagrada Familia” assomiglia alla Sagrada
Familia. Sicuramente c’è la memoria della cattedrale gotica, dell’arco gotico, ma quando vado a
vedere com’è realizzata non è più ciò che la memoria riporta, ma sono tutte le forme ingigantite
che Gaudì è riuscito a ricostruire da dentro.

Insomma l’idea è questa: c’è una specie di IDEALISMO REALISTICO, per cui Cezanne dà idea alla realtà
andando per esempio a dipingere il “Golfo di Marsiglia da l’Estaque”.

 Paul Cezanne, “Golfo di Marsiglia da l’Estaque”.

Paul Cezanne, “Golfo di Marsiglia da l’Estaque”. Tanti sono andati a vedere da che angolazione Cezanne
avesse dipinto il Golfo di Marsiglia, per catturane la luce. È diventato un punto di riferimento. C’è
un’orrenda spianata di container ai piedi di questo paese, ma dal quadro si può comprendere come la
natura sia riportata a una forma, Cezanne aveva questa idea del motivo.

 Disegni di Osvaldo Licini. Epigono di Cezanne. Le “Amalassunte” per esempio è possibile veder il
motivo dei Monti Sibillini o degli Appennini, o delle colline marchigiane che scendono
parallelamente al mare, che in Licini diventano semplicemente delle linee che non rifanno la collina,
ma sono le linee della collina che Licini sviluppa liberamente. Punto essenziale di Licini e del suo
amico Giorgio Morandi era appunto Cezanne.

Si può dire allora che ci sono proprio dei modelli che Cezanne ha dato importanti anche ad artisti di tempi
successivi. Ancora rupi e colli in Provenza, c’è un’idea forte di geometria che viene di nuovo immessa nella
natura. Sembra venir fuori la geometria Euclidea attraverso queste pietre. Cezanne inoltre era nato a Aix-
en-Provence nel 1839, morirà di polmonite a causa di un dipinto fatto sotto la pioggia nel 1906. Nelle
lettere dice: “Non so che cosa voglio”, ed in realtà era proprio così. Cezanne non aveva un modello definito,
per cui costruiva liberamente le cose finché non gli pareva potessero stare in piedi, o a malapena in piedi.
Quindi è un continuo movimento l’opera Cezanniana, un ‘Impressionismo di volumi’ a cui si accompagna la
tecnica del chiaro-scuro.

Il suo amico Emile Zola lo descrive come un ‘genio abortito’, erano stati a scuola insieme, poi si erano
trasferiti a Parigi, dove Zola aveva avuto molto successo, mentre Cezanne no, non subito. Joris-Karl
Huysmans lo chiamava ‘l’uomo dalle retine malate’, perché non si capiva come un pittore non potesse
guardare la realtà. Cezanne invece la guardava, al punto di saperla ricreare da dentro, ed è questo
l’elemento essenziale.

 Paul Cezanne, “Donna con caffettiera”.

Paul Cezanne, “Donna con caffettiera”. Tanto da infischiarsene a un certo punto della legge della gravità:
nessuno si spiega come la caffettiera del dipinto stia in equilibrio sul quel ripiano scivolato, né tantomeno la
tazzina. Se si va a cercare la prospettiva, lì è completamente sbagliata, l’angolo del tavolo è così basso da
sembrare uno scivolo - eppure stanno su quelle bottiglie, le stesse di Giorgio Morandi, nate proprio dal
contatto con l’opera di Cezanne.

 Paul Cezanne, “Grandi bagnanti”.


 Paul Cezanne, “Altopiano con la montagna S. Vittoria”.

Paul Cezanne, “Grandi bagnanti” + “Altopiano con la montagna S. Vittoria”. Ancora l’ossessione della
geometra: nel tema delle “Grandi bagnanti” rientra il triangolo, nella dimensione triangolare delle palme
per esempio. E ancora la sua amata montagna Santa Vittoria - l’Appennino, il ‘monte San Vicino’ di
Cezanne, o la “Sibilla” di Osvaldo Licini, è sempre la stessa cosa - che addirittura diventa qualcosa che non è
più neanche definibile perché ci sono delle pennellate concepite un po’ come un intreccio palme, come
strane fibre vegetali, come una specie di ventaglio, è tutto costruito su una base che implica uno ‘stare in
quella dimensione’.

 Due anni fa a Milano è stata fatta una bellissima mostra a Palazzo Reale, “I luoghi di Cezanne”.
Isolare il motivo di pittura era per li essenziale, i motivi diventavano delle cifre da poter essere
riproposte in tanti altri modi.

Questo è importantissimo perché Cezanne fin dall’inizio è ‘oltre l’Impressionismo’, lavora con una
dimensione che viene da dentro. È l’artista che con Claude Monet - in una via d’astrazione che va verso il
puro colore - vive una via di astrazione che va verso la pura forma, come poi Pablo Picasso, Piet Mondrian,
che andranno verso la pura geometria, ma comunque in un certo senso tutti vengono da qui, dal
superamento della dimensione Impressionista.

“CRYSTAL PALACE” 2.0 – La Seconda Rivoluzione Industriale.

La cosa interessante è come la tecnica abbia continuato nel suo processo durante il XIX secolo, molto al di
là del Crystal Palace. Tutto per noi cominciava dalla fine dell’io romantico, che diventava io moderno -
esprimendo il bisogno di stare dentro la folla, di rinnovare la memoria a contatto con la realtà. Che
rapporto c’è allora tra la fine dell’Impressionismo e l’inizio del Post Impressionismo? Dal 1876 - la prima
mostra Impressionista è del 1874 - gli storici dicono che da quella data segna l’inizio in Italia della crisi della
Destra Storica. Comincia con le elezioni del ’76, con De Pretis, una nuova vicenda, l’inizio della Sinistra
Storica.

Nell’Occidente inizia dal 1876 in su la Seconda Rivoluzione Industriale, come ‘un Crystal Place moltiplicato
per 1000’, e il nostro mondo è nato proprio da lì, con lo sviluppo straordinario delle ferrovie - che c‘erano
già dalla metà dell’Ottocento, ma diventano mezzo essenziale di comunicazione - e della cantieristica.
Dapprima di questo tempo gli inglesi hanno l’elica - per cui non hanno più bisogno del vento per far
camminare i velieri, e di conseguenza commerciare, si celebra con l’elica il libero mercato, con la ragione
che le merci arriveranno sicuramente prima con l’elica di quelle di restanti paesi. C’è questo aspetto che va
ricordato. Gli spagnoli nei primi anni ‘80 sono i primi ad aver fatto un dirigibile a pedali, per cui anche l’aria
comincia ad essere conquistata. Il Crystal Place ‘si alza’ da questo punto di vista. Importantissimo anche
citare il grande Thomas Alva Edison, qui compare tutta la dimensione progettuale-fantascientifica della
multinazionale, la cui sede era comunque nell’America del Nord. Altra cosa fondamentale la Dinamo: novità
degli anni ’80 è la lampadina, già tre o quattro quartieri di New York nel 1883-84 sono completamente
illuminati. La differenza è importantissima, non solo dal mondo di prima, ma ad esempio anche
dall’illuminazione a gas. Arriveranno anche gli ingranaggi, i meccanismi, in realtà prima ancora il lingotto: la
fabbrica automobilistica della Fiat è la primissima dell’Ottocento. E ancora la costruzione della Tour Eiffel: in
cima alla torre si trovano due manichini di cera, uno rappresentante Edison, e l’altro l’ingegnere Eiffel.
Anche qui c’è una dimensione che è quella dell’epoca: le straordinarie stazioni a Londra, il motore a scoppio
- inizio Novecento, il telefono, Meucci e il monopolio Bell. Sono tutte cose che riguardano gli ultimi
vent’anni dell’Ottocento. Poi ancora il telegrafo di Marconi, poi la prima macchina da scrivere fatta con un
solo tasto - seguiranno la Underwood Typewriter Company e le altre grandi fabbriche. Le cartiere, le
rotative messe insieme alle prime, esistevano già in Inghilterra dalla fine degli anni ’40 dell’Ottocento, ma si
estenderanno. E il 5 marzo 1876 compare la prima copia del “Corriere della Sera”. Si ha anche
l’intensificazione della stampa. Pensiamo agli artisti, a coloro che dovevano dare la prima immagine del
mondo, abbiamo una mucca di Segantini insieme a un Turner. Poi ancora gli effetti speciali, con Molier.

Il meccanismo è questo: siamo molto dentro il Novecento, ma le premesse sono negli ultimi vent’anni
dell’Ottocento. E soprattutto il problema essenziale che tutto sembra replicabile fotograficamente - lo
avevamo visto con la dagherrotipia al tempo del Crystal Palace, ci sono stati grandi sviluppi. Lo sviluppo
dell’Impressionismo e del Post Impressionismo è una REAZIONE IMMAGINATIVA a questo eccesso di
invadenza che la tecnica porta dentro la vita della società e dei singoli. E come se a un certo punto la
tecnica, la meccanizzazione, mi costringesse, mi chiudesse, come se il mondo diventasse “a una dimensione
sola” (Marcuse), quella meccanica, quella comunicativa più semplificata possibile. E ancora tutta una serie
di altri elementi che psicologicamente tendono a ridurre la realtà dentro uno schema, quello economico,
industriale che non ha bisogno di niente che non sia utile alla produzione e al guadagno. Questo è
la0’nadamento della società industriale, e guarda caso proprio alla fine dell’Ottocento ritroviamo lo
sviluppo, attraverso l’Impressionismo e poi il Simbolismo, dell’IMMAGNAZIONE, in termini che in certi casi
sembrano essere proprio sfrenati, o come diceva Jung enanziodromici - dati dalla ‘corsa nell’opposto’. Il che
significa che quanto più mi stringono, tanto più io cerco di liberarmi, quanto più mi dicono che le cose
devono essere in un certo modo, tanto più le devo mettere in un latro, quanto più le cose devono essere in
bianco e nero, tanto più come il ‘cattivo vetraio’ di Baudelaire io cercherò di far apparire il colore. Quanto
più mi chiuderanno in una dimensione massificata, riproduttiva e meccanica, tanto più io cercherò di
imporre la mia persona, il mio io.

Tutto quello che viene attraverso l’Impressionismo è la dimensione di questo IO forte, che quasi in certi
momenti sembra sfidare la società del tempo. Gli artisti giocano questa partita, ma in modi diversi.

GEORGES SEURAT (1859-1891).

Georges SEURAT. Artista che gioca con la scienza, grande francese, farà in tempo ad esporre nell’ultima
mostra degli Impressionisti la sua “Una domenica pomeriggio sull’isola della Grande-Jatte”. Visse una vita
brevissima (1859-1891).

 Georges Seurat, “Una domenica pomeriggio sull’isola della Grande-Jatte”.


 Georges Seurat, “Foresta di Barbizon”.

È uno straordinario sperimentatore di tecniche: nasce in una poetica che è Impressionista (Georges Seurat,
“Foresta di Barbizon”), dipingendo luoghi non lontani da Parigi en plein air, poi però il nostro pittore della
vita moderna più guarda la realtà, più si rende conto che ci sono degli elementi che si possono recuperare
dalla tradizione. Gli piace da un lato pensare agli artisti che, al contrario degli Impressionisti, tendono a una
forma più pura possibile (incontro con Piero della Francesca). Di questi tempi c’è l’interesse di Seurat verso
le teorie dell’ottica, e in maniera particolare alle teorie di un matematico che aveva cercato di applicare le
teorie matematiche all’ottica, Michel Eugène Chevreul, che darà una serie di spunti a Seurat.

 Georges Seurat, “Bagnanti ad Asnières”.

Georges Seurat, “Bagnanti ad Asnières”. Cosa curiosa intanto è che quell’immagine si modifica così, e questi
“Bagnanti ad Asnières” sono una specie di stranissimo dialogo con Piero della Francesca (Piero della
Francesca, “Storie della Vera Croce”). Un artista che è nel pieno della vita moderna sente il bisogno di
ricordare un’epoca lontana come quella del Rinascimento, che evidentemente gli consente un ordine, una
sovranità sulla propria immagine, che evidentemente l’Impressionismo correva talvolta il rischio di perdere.
Curiosa anche la geometria che si trova dietro questi bagnanti, che sono straordinariamente ordinati: una
mentalità che passa dal puro colore e ritorna alla forma.

 Georges Seurat, “La Luzerne, Saint-Denis”.

Georges Seurat, “La Luzerne, Saint-Denis”. Sempre con questi campi - siamo a Saint-Denis, fuori dalla città,
qui si trova molto Gustav Klimt, soprattutto nell’accostamento verde-oro, come se si mettesse insieme il
naturale e l’artificiale. Baudelaire non ha mancato mai di dirci delle cose giuste, parlava del naturale come
artificiale, e viceversa, quindi qui continua ancora uno sviluppo del pittore della vita moderna.
Georges Seurat, “Una domenica pomeriggio sull’isola della Grande-Jatte”. Seurat prende da Chevreul l’idea
di poter prendere un colore fondamentale - un rosso, un giallo - e attorno a questo organizzare dei colori
complementari. Questo è ciò che porta il nostro Seurat a dipingere in questo modo. C’è indubbiamente la
memoria, delle regate di Monet, della “Colazione sull’erba” di Manet, me comunque compare un nuovo
linguaggio. Sembra esserci l’elemento della scienza rimesso nella poesia, e qualcuno ha parlato di una
ripresa, una memoria dei geroglifici del Louvre. Un critico scandalizzato dell’86 parla del dipinto dicendo
che “sembrano degli Assiri coperti da nugoli di insetti”, perché questo modo di dipingere a tocchi e con
questo gioco di colori alimentava un’idea tipo di ‘televisione rotta’, che una volta faceva la neve. Marshall
McLuhan - guru dei media - parla di Seurat come di un precursore della televisione, cioè della visione che
sarà della televisione. L’idea però è che ci possa essere in qualcuno un’intuizione dell’immagine che si
realizzerà poi attraverso la tecnica successiva.

 Henri Rousseau, “Il Doganiere”.


 Henri de Toulouse-Lautrec, “Al circo Fernando”.
 Piero della Francesca, “Madonna del parto”.

Qui siamo già oltre l’Impressionismo, c’è un genere di pittura che si costruisce su principi diversi - viene di
certo da lì, a livello di contesto. La stessa Grande-Jatte è un isolotto dove le persone andavano a passare la
loro domenica pomeriggio. C’è quindi comunque un’idea di presa del vero, però poi una rielaborazione di
questo vero in questi termini. In questa Grande-Jatte ognuno ha la propria montagna di Santa Vittoria -
come Cezanne aveva la sua montagna Saint-Victoire, Seurat aveva la sua Grande-Jatte. Qui c’è un aspetto
interessante: Seurat dipinge anche la cornice, in quanto anche questa deve essere presa nel gioco dei
complementari e l’immagine si deve allargare quanto più possibile. La cornice non deve delimitare, ma
deve aprire. C’è un gioco affascinante tra interno ed esterno, sembra un cinema, come se la Grande-Jatte
fosse proiettata in un interno dove poi ci sono delle persone “reali” - idea di un mondo claustrofobico. Ma è
anche un mondo infantile - immagini di cappellini appoggiati, di ombrellini e scarpine, si riprende Henri
Rousseau, “Il Doganiere”. C’è quindi anche la dimensione del gioco, in quanto ci vuole in qualche modo
anche il senso del gioco. Ancora abbiamo Henri de Toulouse-Lautrec, “Al circo Fernando”, dove compare un
filo sospeso a mezza altezza, e ancora una ballerina in una posizione pericolosa. Di queste immagini si
ricorderanno i Futuristi, e compare ancora Piero della Francesca, proprio in quella figura che sta aprendo il
sipario, ripresa in Piero della Francesca, “Madonna del parto”. Ci sono quindi altri elementi ripresi e ricalati,
sempre per quel gioco della memoria suddetto, in quanto c’è sempre questa memoria del passato che
ritorna.

HENRI DE TOULOUSE-LAUTREC (1864-1901).

 Henri de Toulouse-Lautrec, “Ritratto di van Gogh”.

Henri DE TOULOUSE-LAUTREC. A questo punto questo è ripreso da Vincent VAN GOGH, siamo nel 1887, ma
chi lo ritrae così è un grandissimo artista che viene dopo l’Impressionismo, Henri de Toulouse-Lautrec, ne
Henri de Toulouse-Lautrec, “Ritratto di van Gogh”. È un’opera del 1887, quando Van Gogh si trova nel suo
soggiorno parigino. I tempi cambiano, l’artista diventa CARTELLONISTA; esempio importante è Aristide
Bruant, un cantante che aveva un proprio locale, all’inizio cantava a “Le Chat Noir”, poi avrebbe rifatto tutto
il suo repertorio usando le parole della gente, cioè quello che in Parigi era l’antica tradizione del linguaggio
demotico popolare, l’argot. Questo stesso modo di parare la lingua popolare dev’essere stato lo stesso di
Henri de Toulouse-Lautrec: alle sue spalle ci sono l’“Olympia” di Manet, e tutte quelle figure che però
Lautrec prende in modo ancora più “dialettale”. A partire dal gesto, dalla dimensione della quotidianità.

Era stato colpito da una forte menomazione alle gambe, per cui avendo i femori rotti aveva una statura
molto bassa. Era discendente da una più antica famiglia di Francia, appartenente a una pura nobiltà, che
però amava mescolarsi con i bassi fondi di Parigi.
 Henri de Toulouse-Lautrec, “Al Salon di rue des Moulins”.
 Henri de Toulouse-Lautrec, “Al Moulin Rouge”, 1892.

Henri de Toulouse-Lautrec, “Al Salon di rue des Moulins”, “Al Moulin Rouge”. Questa è l’idea di un Lautrec
quasi ‘cinematograficamente’ vicino alla realtà – nei due dipinti, agli ambienti delle prostitute e ai locali
notturni. Vive trentasette anni (1864-1901), e di questi due dipinti molti sostengono che quel signore al
centro dipinto un po’ come un orango sia il padre di Lautrec, con il quale non c’erano forse rapporti idilliaci.
Importante anche la metamorfosi dei volti, diventati quasi maschere - tramutazione di Impressionismo in
Espressionismo. L’interno sembra quasi sbilenco, anche se volutamente - sembra che tutto sia ripreso con
una telecamera mobile, si ha una diversa presa della realtà. Lautrec diventa l’equivalente di quella
macchina da presa che si muove, che non è più ferma, che non ha più bisogno di un teatro fisso - ricompare
il tema del movimento, che implica il vedere e percepire distrattamente le cose, c’è un bisogno di
impratichirsi e di impossessarsi della pittura senza atelier, senza bisogno di mettere la realtà in posa, e
questo è proprio un lascito Impressionista.

 Henri de Toulouse-Lautrec, “La toilette”, 1896.

Da chi prende questo aspetto Lautrec? Da Edgar DEGAS, per esempio ne “Il mercato del cotone a New
Orleans”, di certo uno dei primi che ha cominciato a parlare del linguaggio Impressionista, e ha aperto
questi scorci che poi sono anche fotografici, quindi c’è qui anche una rielaborazione della fotografia. Un
esempio di presa della realtà da diverse angolazioni, manifestando anche un po’ la maliziosità di infilarsi tra
le pieghe, sotto le soglie delle porte per vedere cosa c’è dietro - Egon Schiele (1890-1918). Il dipinto di
Lautrec era del 1896, non c’è dubbio su chi ha guardato chi, questo è il linguaggio di Lautrec che arriva al
Novecento e oltre, benché egli muoia soltanto nel 1901.

VINCENT VAN GOGH (1853-1890).

Vincent VAN GOGH. È un altro uomo che vive trentasette anni in tutto. Morirà suicida, o forse omicida.
Olandese, inizialmente avrebbe voluto fare il pastore d’anime come suo padre, cosa che non riuscirà a fare,
per cui lo mandano a fare l’equivalente del diacono in fase di prova nelle zone minerarie del Belgio. Lui
immediatamente fraternizza con gli scioperati, per cui gli viene tolta la delega. Poi si impiegherà da Goupil,
un importante mercate d’arte, poi lo troviamo anche a Londra, a Parigi, a occuparsi di queste faccende di
carattere mercantile. Non ci sia spetta così Van Gogh se lo si guarda da vicino i base a quel mito. All’inizio
non vi corrisponde, ed è curioso anche come sia arrivato alla pittura, insomma è una lenta maturazione,
dove però resta sempre il dato religioso, la dimensione votiva.

 Vincent van Gogh, “I mangiatori di patate”, 1885.

Vincent van Gogh, “I mangiatori di patate”. La dimensione votiva rimane intanto verso i poveri, e il dipinto è
un po’ considerato come la soglia d’inizio della sua attività artistica. Vi è arrivato attraverso le amicizie,
qualche amico pittore gli consiglia di prendere qualche lezione di disegno - questo tra Bruxelles e Anversa,
poi ci sarà la questione di Parigi - ma sostanzialmente sempre da solo guardando la realtà, quella degli umili
- minatori, contadini con cu amava mescolarsi. Quindi il vero ‘mangiatore di patate’ è lui qui, che si esprime
attraverso la pittura in maniera piuttosto spontanea e immediata, come se si fosse a sedere in mezzo a
questi contadini. Sono eredi di Gustave Courbet, “Gli spaccapietre”, e soprattutto di Jean-Francois Millet,
“L’Angelus” - Millet era un grande realista che van Gogh amava molto.

Più gli artisti si staccano dal mondo naturale che vedono, più hanno bisogno però della gravità del non vola
via di quel mondo. In van Gogh c’è proprio un interesse per il reale e per i realisti, gli piacciono inizialmente,
ne vede le riproduzioni, o comunque ha la possibilità di visitare gallerie, soprattutto a Parigi. Quindi Jean-
Francois Millet, Gustave Courbet, i realisti, in parte Eugène Delacroix, ma insomma in realtà macina tutta da
dentro. Fa tanti esercizi di fronte a Rembrandt, olandese come lui. È una persona molto colta, aspetto che
non sembra poter rientrare nel mito del folle. Forse Vincent van Gogh era folle, ma l’artista no, perché
malgrado le vicissitudini dell’uomo, dall’85 al 90 - morì il 29 luglio 1890 - lui matura come artista: tutto van
Gogh nasce in quattro anni e nove mesi. E tra l’altro quello che conosciamo di più è relativo all’ultimo anno
e mezzo: una specie di fuoco pirotecnico. In questa sua dimensione c’è tutto un prima, anche in termini
culturali, piuttosto interessante: scriveva benissimo in francese - cosa che denota un’intelligenza
particolare, portò sempre a lezione i quattro volumi di lettere - in gran parte indirizzati al fratello Theo, che
tra l’altro apre una galleria a Parigi. Il punto di approdo è essenziale, dopo tante peregrinazioni intorno
all’arte: decisosi a fare l’artista proprio a Parigi, è sostanzialmente nel periodo compreso tra l’85 e l’87 che
abbiamo un van Gogh che si trasferisce e vuole fare il pittore.

 Vincent van Gogh, “Natura morta con Bibbia”.

Vincent van Gogh, “Natura morta con Bibbia”. Un po’ a ricordare come eravamo, quello che avrebbe voluto
fare nella vita.

 Vincent van Gogh, “Autoritratto”, 1886.

Vincent van Gogh, “Autoritratto”. Ritratto molto normale, non abbiamo idea del suo poi, del fatto che si
sarebbe tagliato un orecchio – aspetti che arrivano in un secondo momento. Si ritrae come un borghese.

 Vincent van Gogh, “Martin pescatore”

Vincent van Gogh, “Martin pescatore”. Interessanti le inserzioni e gli aspetti ripresi dalle stampe
giapponesi, e anche dal cinesismo. Vige quindi l’orientalismo, nel mettere insieme questo piccolo Martin
pescatore, rilanciando quell’idea di vita che egli sentiva in sé: un po’ nomade, un po’ libera - come questo
uccellino che vive tra l’aria e l’acqua, come un animale totemico.

 Vincent van Gogh, “Donna al Cafè Le Tambourin”

Poi il contatto con la realtà, in questa donna che riprende Edgar Degas, “L’assenzio” in maniera piuttosto
evidente. Questa donna che si trova al Cafè Le Tambourin - siamo nella fase del van Gogh che abbiamo
visto ritratto da Toulouse-Lautrec, nell’anno 1887.

 ?
 ?

Ancora qui, in una fase che sembra riprendere tanti elementi da Claude Monet - dipinto particolare,
compaiono i ponti ad Anier, stesso luogo dove era andato a dipingere i pani ad Anier.

 ?

Ecco che qui comincia qualche cosa di particolare: questa è una specie di lampadina che si accende, una
lampadina interiorizzata, compaiono qui degli aspetti affascinanti sulla questione, cioè sembra di vedere
improvvisamente una specie di stregone, uno sciamano, osservando quel volto irradiato di energia, sembra
un sasso buttato nello stagno. Interno ed esterno sono dipinti allo stesso modo, c’è un’idea di irradiare.
Questo perché van Gogh aveva proprio quest’idea di giovare agli altri illuminando la realtà a partire da sé
stesso con il colore. La sua fede si trasforma da fede nell’invisibile - in una dimensione prettamente
ortodossa nel senso della predicazione - a una sorta di predicazione laica attraverso il colore. La sua buona
novella è quindi data dal COLORE, l’idea è quella di far sì che tutto a partire dal proprio io possa colorarsi. Ci
sono qui rapporti addirittura con le miniature Medievali, quindi non pensiamo sempre alla solita questione
del visionario, è sempre frutto di una serie di elementi tratti o dallo studio o dalla realtà. Questi sono gli
elementi importanti, sta proprio cambiando il mondo.

- Vincent van Gogh, “Ritratto di père Tanguy”.


Vincent van Gogh, “Ritratto di père Tanguy”. Questo signore qui era un commerciante di colori a Parigi, il
suo negozio riforniva i pittori di colore. Lui dava i colori a credito, perché poi gli artisti Impressionisti lo
pagavano con le tele, ed è stato il primo mercate degli Impressionisti. È stato un uomo molto buono, che
ottenne probabilmente anche una grande fortuna, e fu anche un grande collezionista di stampe, di quel
“mondo fluttuante” giapponese. Qui van Gogh fa lo stesso che fa ne Edouard Manet, “Ritratto di Emile
Zola”, dove alle spalle c’erano l’“Olympia” e le stampe giapponesi. È uno sviluppo, un contro omaggio.

 “Sogni”, Akira Kurosawa. Si tratta di un film contro omaggio a van Gogh, in cui per una delle prime
volte è stato usato il computer ‘al rovescio’: un regista americano si è prestato a creare un omino
che passasse all’interno dei dipinti di van Gogh. Siamo ai primi anni ’90.
- Vincent van Gogh, “Limitare di un campo di grano”.

Quindi da notare il rapporto Oriente-Occidente, in quanto l’artista - lo abbiamo detto con Baudelaire -
dev’essere “uomo di mondo”, cosmopolita, quindi continua tra l’altro questa dimensione infra culturale,
come anche ne Vincent van Gogh, “Limitare di un campo di grano” per esempio.

C’è poi il trasferimento ad Arles e la voglia di creare una scuola nel sud della Francia, alla quale avrebbe
voluto che partecipasse anche Paul Gauguin – che aveva conosciuto a Parigi. Paul Gauguin vi andrà
effettivamente negli ultimi mesi dell’88, poi ci sarà la catastrofe, le liti, tutta una storia difficile, e dolorosa.
Forse van Gogh cercava un padre, ma Paul Gauguin non era di certo una persona comprensiva di fronte a
un malato. La tragedia effettiva comincerà a dicembre, quando van Gogh si taglierà l’orecchio e lo porterà
alla sua prostituta preferita. La popolazione di Arles lo vorrà far internare, e van Gogh se ne va. Insomma
l’idea che van Gogh aveva avuto di creare una scuola a sud della Francia fallisce. È stranissimo che in questo
periodo tremendo - dove ci sarà anche un ricovero in un ospedale - egli continua a lavorare, producendo un
capolavoro dopo l’altro. Come si diceva dunque, forse l’uomo era pazzo ma l’artista no.

- Vincent van Gogh, “Girasoli”.

Vincent van Gogh, “Girasoli”. Insomma qual è l’evoluzione? È nell’andare a rappresentarsi, a far vedere il
senso più profondo dell’io, in modo diretto. E questi girasoli sono quasi un autoritratto, che circondano
Caravaggio, “Canestra di frutta”, e tutto ciò che viene dopo - si parla di artisti che hanno rappresentato la
natura attraverso il tempo, in momenti diversi, costituisce un modo di far vedere la propria biografia, come
se fosse rischiarata da dentro. Ne “Girasoli” intanto c’è il nome sul vaso - questo è più che evidente, in più
ci sono girasoli nel pieno vigore della loro fioritura, altri invece sono privi di petali. E come se si vedesse in
questo senso anche una proiezione della vita, della caducità insieme dell’infinito movimento della vita e
della morte. Questo è l’aspetto interessante.

- Vincent van Gogh, “Il caffè di notte”, 1888.

Vincent van Gogh, “Il caffè di notte”. E sempre qui è importante notare come batte in breccia la luce
artificiale, è più luminoso della luce artificiale. Sono sempre opere del 1888.

- ?

Vincet van Gogh, ?. Importante questo dipinto perché è una specie di trade d’union tra Jean-Francois
Millet, “Il seminatore”, e Edvard Munch, “L’urlo”, che viene proprio da qui. Interessante come parli da un
lato il linguaggio del realismo - evidenti le stampe giapponesi, l’albero di Monet - e dall’altro il linguaggio
della pittura a venire, gli Espressionisti guarderanno a questo van Gogh e a queste alterazioni dei colori
naturali - si vede l’azzurro nel campo, poi anche in altri elementi. Da notare che sembra come
un’immaginazione a occhi aperti.

- Vincent van Gogh, “La vigna rossa”, 1888.


Vincent van Gogh, “La vigna rossa”. Primo dipinto ad essere venduto, ci sono tanti artisti che
successivamente si sono rifatti a questo dipinto. Strano che dipinga gli alberi ma non il treno, ma è ben
visibile il fumo della locomotiva ci sono elementi comunque stranamente immaginativi che ricordano anche
la tecnica.

- Vincent van Gogh, “La camera di Vincent ad Arles”, 1888.

Vincent van Gogh, “La camera di Vincent ad Arles”. Dipinge sempre sé stesso attraverso gli oggetti che usa
per vivere - il letto dove dorme, la sedia su cui si siede. Per esempio in un altro dipinto compare la pipa
appoggiata sulla sedia, anche questa un’altra cosa importante. Insomma si tratta di oggetti che fanno parte
del suo io. A proposito del discorso di prima, mi individuo non nella massa, non nella ripetitività, ma
nell’eccezionalità che non ha bisogno di essere roboante, ma è umile, è la mia, quindi sono io che mi
presento umanamente agli altri senza nessun velo. È un modo per illuminare la loro camera - Egon Schiele
rifarà la propria camera a modo suo prendendola proprio da qui. Quindi anche questa è una lezione che
altri poi verranno ad apprendere.

- Vincent van Gogh, “Notte stellata”.

Vincent van Gogh, “Notte stellata”. Riassunto della sua attività artistica. Tante memorie, di cui spesso non si
tiene presente - compresa quella di Caspar David Friedrich, questo per dire che il nostro van Gogh è un
artista che ha tanto guardato, anche alle sue spalle - anche all’Ottocento che quasi immediatamente lo
precedeva. Anche qui elementi altamente visionari, il sole-luna, quindi anche tanti aspetti simbolici che
sicuramente vanno appunto sottolineati.

Qui siamo già oltre la crisi perché il nostro van Gogh ritornerà a Parigi dove Theo lo accoglie, insieme a
Pissarro, e gli mette a disposizione un amico medico a Auvers-sur-Oise - località nella quale poi van Gogh si
trasferisce a lavorare intensamente e da dove il 27 di luglio 1890 lui torna a casa - già stava in una pensione
- con questo colpo alla pancia. Non si sa se si sia sparato o sia stato sparato, l’incredibile è un’agonia nel
dolore che si prolunga fino al giorno dopo, dove van Gogh sta a sedere come una specie di fachiro sul
proprio letto fumando la pipa, e a un certo punto si stende nel letto, mette la pipa sul comodino e muore. È
una vicenda straordinaria, arriveranno poi gli amici che riempiranno quella specie di pensione di girasoli e
di tutti i dipinti che aveva eseguito. Ci sarà questo grande trionfo di sarcofago della pittura, che è forse
quello che proprio il nostro van Gogh voleva per sé.

PAUL GAUGUIN ().

 Paul Gauguin, “Autoritratto”.

Paul Gauguin, “Autoritratto”. Abbiamo parlato della questione di Gauguin - cosa che andrebbe ampliata -
che abbiamo trovato mentre si ritrae anche lui come Edouard Manet, “Ritratto di Emile Zola”, e al posto
dell’“Olympia” c’è un’olympia di colore. In realtà questa è la sposa quattordicenne che questo borghese
parigino - che ha il viaggio fin nelle vene – ha avuto come compagna quando si è trasferito a Tahiti. La
mamma è peruviana - in un certo senso è nato in viaggio anche metaforicamente - mentre il padre era
francese.

 “Noah Noah”. In tahitiano significa “fragranza”. È il resoconto della vita di Gauguin a Tahiti. C’è
questa idea della fragranza per cui siamo andati a cercare un mondo fuori dall’Europa, ma
portandosi sempre nel tascapane le fotografie dei luoghi dove Gauguin non era stato e portandosi
sempre la fotografia dell’“Olympia” di Edouard Manet - in un certo qual modo è l’idolo moderno,
per cui tutto comincia da lì. C’è una vicenda curiosa raccontata nel suo resoconto che riguarda il
nostro Gauguin con l’“Olympia”.
Il primo viaggio che fa Gauguin risale al suo primo anno di età - il padre è un giornalista avversario di
Napoleone III, e quando Luigi Napoleone diventa presidente della repubblica scappa dalla Francia, fugge in
Perù e nel farlo muore. La famiglia riesce comunque ad arrivare a destinazione, a Lima, e allora Gauguin
vivrà per un periodo con i nonni. Poi torna in Francia, frequenta le scuole in Francia in quanto è parigino di
nascita. Questo fatto è curioso: è un pittore della vita moderna che fa dei viaggi lunghissimi. C’è un secondo
viaggio, Gauguin vuole diventare marinaio professionista e capitano, ma non ce la fa. Nel 1865 fa un altro
viaggio da Le Havre - Claude Monet, “Impression, soleil levant”, rappresenta una soglia ideale, da lì
partivano le navi per l’America dei Sud. Nel 1870 combatte nella guerra Franco-Prussiana in marina. Si
rende conto che la vita a Parigi non gli piace, nonostante si sposi e abbia dei figli - tenta di vivere da
borghese, ma a un certo punto decide di andarsene. Va allora a scavare il Canale di Panama, dove fomenta
gli operai contro i datori di lavoro e naturalmente viene cacciato. Allora ripara in Martinica, e anche qui
cominciano ad esserci nuovi stimoli e nuovi elementi.

Non è inizialmente un pittore, ma in realtà uno scultore, ed è soprattutto ’un artista della domenica’ - non
ha fatto studi regolari in ambito artistico. Gli piace fare prima di tutto il collezionista - bazzica un po’ negli
ambienti Impressionisti, ma sarà presente nelle ultime mostre Impressioniste inizialmente come scultore.
Poi gli piace la terracotta e si impratichisce con la terracotta, finché non gli viene l’idea - pianterà la moglie
e i figli, li riporterà a Copenaghen perché la moglie era originaria della Danimarca - di partire perché decide
che l’arte è la sua vita, in un certo senso è come se togliesse di mezzo tutto quello che era stato prima al
punto di voler essere artista. Partecipa alle ultime mostre Impressioniste e poi crea anche una ‘scuola’ -
approda in Bretagna insieme a Maurice Denis, Emile Bernard, ad altri artisti che si erano un po’ separati
dalla Parigi troppo moderna, e tendevano a tornare ad una memoria dell’Europa e della Francia
premoderna, quindi per esempio al Medioevo. Anche qui c’è una specie di esotismo, che è una fuoriuscita
più ne tempo che non nello spazio - ma le due sono piuttosto parallele - che porta Gauguin ad alcune strane
opere.

 Paul Gauguin, “Vegetazione tropicale”.

Paul Gauguin, “Vegetazione tropicale”. Questa è una vegetazione tropicale - memorie dei viaggi tra Panama
e le isole meravigliose nelle quali era stato.

 Paul Gauguin, “Contadine bretoni”.

Paul Gauguin, “Contadine bretoni”. Poi il rientro a Pont-Aven è in questo strano mettere insieme il
linguaggio del realismo, le contadine.

 Paul Gauguin, “La visione dopo il sermone”.

Paul Gauguin, “La visione dopo il sermone”. In realtà ancora qualcosa delle stampe giapponesi è presente,
poi lo sfondo che evoca il combattimento di Giacobbe con l’angelo - una strana forse schizofrenia, da un
lato c’è l’idea dell’angelo e dall’altro quella dell’uomo che vuole diventare l’angelo ma ancora non ci riesce,
una visione appunto dopo il sermone in un contesto che viene dal realismo ma con questo sfondo rosso è
ormai ben oltre il linguaggio realista.

 Paul Gauguin, “Natura morta con tre cagnolini”.

Paul Gauguin, “Natura morta con tre cagnolini”. Ancora in questa natura morta con i cagnolini c’è tanto
Paul Cezanne, ci sono le stampe e un forte bisogno di realtà.

 Paul Gauguin, “Van Gogh mentre dipinge i girasoli”.

Paul Gauguin, “Van Gogh mentre dipinge i girasoli”. Questa è forse l’opera che ha fatto più impazzire van
Gogh; al “Museo van Gogh” di Amsterdam è possibile trovare quest’opera di Gauguin, in quanto leggenda
vuole che van Gogh sia impazzito dopo aver visto quest’opera di Gauguin che lo aveva ritratto così, matto.
C’è una specie di corto circuito qui, di ‘odi et amo’.

 Paul Gauguin, “Autoritratto”.

Paul Gauguin, “Autoritratto”. Ancora ritornano le questioni sempre legate tra l’altro alle imitazioni belle
sulle vetrate gotiche, sull’arte medievale, quindi una sorta di antinaturalismo - sembra di vedere un
pezzettino di una vetrata, dove ci sia una figura inscritta all’interno di una circonferenza, come se fossero
due luoghi diversi - limite immaginativo.

 Paul Gauguin, “Il Cristo giallo”.

Paul Gauguin, “Il Cristo giallo”. Qui si ritorna a un primitivismo medievale - ben visibile nella figura del Cristo
giallo, che diventa anche elemento autobiografico, ed è del 1889. Notate che se c’è Cristo in croce in primo
piano, c’è dietro un omino che fugge, sta varcando il muro, e è proprio Gauguin che se ne va. È come aver
superato completamente una fase della propria vita ed essersi messi in viaggio – da notare come sono
curiosi i colori usati.

 Paul Gauguin, “La perdita della verginità”.

Paul Gauguin, “La perdita della verginità”. Gauguin farà tra l’altro una sua “Olympia”, una vera e propria
copia - intanto era stata acquisita dallo stato quando Edouard Manet era morto. È una ragazza che resta
vittima di questa volpe - che è Gauguin. Era una sartina che poi pare non abbia più voluto né vedere né
sentir parlare di Gauguin. L’“Olympia” rappresenta la grande memoria.

 Paul Gauguin, “Donna tahitiana con fiore”.

Paul Gauguin, “Donna tahitiana con fiore”. Quando arriva a Tahiti per la prima volta nel 1891, una sera si
trasferisce un po’ lontano dall’insediamento europeo, vuol vivere in una capanna - dopo incontrerà questa
ragazzina di quattordici anni. Ha una vicina, e riceve una visita, è una bella donna a cui lui mostra delle
fotografie, delle fotografie di storia dell’arte tra cui l’“Olympia” di Edouard Manet. Questa donna sua vicina
sembrerebbe dire “Che bella donna, è vostra moglie?”. Allora questo aspetto dell’essere il marito
dell’“Olympia” è evidente che è un po’ un gioco, vuol dire una qualche cosa comunque. E lui dice di aver
sorriso, e lei tornata nella sua capanna ritorna con un fiore, lo stesso che l’“Olympia” ha dietro l’orecchio.
Gauguin dice di averla ritratta così, chiamandola “Donna tahitiana con fiore”. C’è quindi ancora un aspetto
di tradizione dell’arte europea persino a Tahiti.

 Paul Gauguin, “Paesaggi tahitiani”.

Paul Gauguin, “Paesaggi tahitiani”. Nei suoi paesaggi Tahitiani i colori risultano estremamente alterati.

 ?

Paul Gauguin, ?. Ricompare il tema dell’“Olympia” - questa è l’amante e la compagna di Gauguin, che viene
ritratta così. Il modello è sempre quello.

E ancora, quando nel 1893 ritorna, si ritrasferisce a Pont-Aven in Bretagna. La cosa curiosa è che quando è a
Tahiti dipinge dei paesaggi bretoni e quando è in Bretagna dipinge dei paesaggi tahitiani. Per cui ecco che
l’io diventa l’elemento essenziale che mette insieme tutte queste differenze sempre di più, attraverso il
cosmopolitismo radicale.

 Paul Gauguin, “La nascita di Cristo figlio dell’uomo”.

Paul Gauguin, “La nascita di Cristo figlio dell’uomo”. E questa è proprio la sua “Olympia”. C’è anche una
specie di strano sincretismo fra tutte le religioni che compare tra l’altro in maniera più forte qui. C’è la
ripresa del tema delle vetrate gotiche attraverso queste zone di colore. Quante memorie possiamo
ritrovare qui.

 Paul Gauguin, “Il grande Buddha”.

Paul Gauguin, “Il grande Buddha”. Ci sarà per altro nel 1895 un secondo viaggio senza ritorno a Tahiti.
Gauguin non muore a Tahiti, ma oltre, perché cerca sempre di andare al di là dell’Europa. Poi trova questi
luoghi sperduti, spesso abitati da persone con le quali viene in conflitto - autorità coloniali, autorità
religiose, ecc. C’è tutto un problema, come se continuamente andasse oltre, oltre, oltre. Compare il tema
de “L’ultima cena” di Leonardo da Vinci, dove lui stesso compare sullo sfondo forse in funzione di Giuda o di
Cristo. Compare anche il grande Buddha - idea di tanti elementi culturali, di tanti linguaggi messi insieme.

L’ultimo lunghissimo viaggio riporta anche questo una memoria profonda. Compaiono le Isole Marchesi
(Polinesia), saranno l’ultima meta del viaggio. Gauguin muore nel 1903, senza esser più ritornato in Francia,
divenuto un mito. Da notare che Tahiti lì è nella zona un po’ più vicina alla Nuova Zelanda, mentre Gauguin
va verso un limite estremo - nessun artista si è spinto così lontano quanto il nostro Gauguin. Anche qui un
altro modello eccezionale, di libertà immaginativa, culturale, di vita, che però nasce proprio dall’esperienza
Impressionista, poi ripresa e riformulata secondo delle esigenze sempre nuove.

ODILON REDON (1840-1916).

 Odilon Redon, “Paul Gauguin” (?).


 Odilon Redon, “Hommage A Goya” (?).

Odilon Redon, “Paul Gauguin”. Odilon Redon fu un grande incisore, fece in tempo a partecipare alle ultime
mostre Impressioniste; si prende gioco della tecnica - il dirigibile degli spagnoli qui diventa un occhio - crea
un gioco dentro e fuori della tecnica. Inizialmente è illustratore di Edgar Allan Poe e incisore, amante del
grande Francisco Goya.

Era nato nello stesso anno di Claude Monet, ma parla un linguaggio completamente diverso: subentra il
fantastico, è un linguaggio che tende a inglobare anche la lezione del grandissimo Gustave Moreau, e
quindi Odilon Redon diventa quadratura del cerchio tra quella che è l’esperienza Impressionista e il
Romanticismo e il Classicismo nell’esperienza di Gustave Moreau. In questo strano modo di rappresentare
c’è tradizione e innovazione insieme.

 Odilon Redon, “Pegaso”.


 Odilon Redon, “Testa di Orfeo”.

Odilon Redon, “Pegaso”, “Testa di Orfeo”. Ancora il tema di pegaso, l’idea di lanciarsi con il cavallo alato nel
mondo dei colori, elemento essenziale di Odilon Redon. Come se l’artista - la “Testa di Orfeo” è un omaggio
alla “Testa di Orfeo” e alla “Fanciulla tracia” di Gustave Moreau - guardasse tutto con gli occhi chiusi e a
partire dalla sua testa, appoggiata sulla lira - strumento che sembra suonato mentalmente e non più con
l’occhio che guarda la realtà.

Proprio per questo ecco l’immaginazione: come quando chiudiamo gli occhi vediamo i fosfemi - quelle
immagini che si creano continuamente l’una nell’altra. Il punto essenziale è proprio questo, e anche in
Redon avremo quest’idea del viaggio. Siamo partiti da un porto che era quello di Le Havre, quindi abbiamo
l’idea della barca e questo andare verso un universo che è fatto di colore.

A questo punto è cambiato tutto, ma in modo coerente, potremmo vedere questo sviluppo: mentre la
tecnica stringe, l’arte riapre; mentre il mondo si chiude in questa dimensione, gli artisti fanno all’arte
questo dono senza ricominciare un viaggio che poi è un viaggio anche a benefici della tecnica, perché punto
essenziale è anche riuscire a creare l’equilibrio - e non solo l’opposizione - con il mondo della tecnica e
anche con il mondo della scienza.
“La tecnica noi la possiamo frenare, migliorare, se non abbiamo la tecnica noi finiamo come l’Isis. Questo è
un fatto che ci dobbiamo ricordare.” <- Io non ho capito.

13° Lezione del corso di “Storia dell’Arte Contemporanea”.


Con questo quarto file completo le prime due serie di Power Point.

L’ultimo pittore che abbiamo sentito trattare è stato Odilon Redon. La sua matrice simbolista è spesso
messa a contatto con le vicende del testo - es. “L’occhio mongolfiera”, concepito per illustrare un racconto
di Poe, “The Unparalleled Adventure of One Hans Pfaall", diventa una parodia del dirigibile, quindi quasi
una presa in giro, una dimensione ironica della tecnica. Questa idea di alleggerimento ironico della realtà si
può vedere anche in un’altra opera, “Omaggio a Goya”, con questa testa volante del pittore spagnolo, che
è anche una dichiarazione di poetica. È stato un pittore che ha fatto volare il colore, ha creato
alleggerimenti pittorici straordinari, paradossali, con un rapporto con gli effetti speciali del cinema di
Molière, e ha fatto anche entrare la dimensione della memoria dell’antico, fin dai miti classici. La
dimensione simbolica è intensamente cromatica, e apre una nuova direzione, presente anche all’ultima
mostra impressionista. Un uomo che pur essendo senz’altro inscrivibile nel contesto de simbolismo puro,
ha avuto contatti anche con il versante impressionista, con il versante dell’impressionismo-sintetismo. È un
trait d’union, una figura che fa da ponte tra le due dimensioni dell’arte francese post-impressionista e
simbolista.

In questa dimensione abbiamo altri casi, entrati in sintonia con questo modo di vedere e di vedersi:

- O. Redon, “Orfeo” - Orfeo con gli occhi chiusi, tramanda un’idea di immaginazione prevalente
rispetto all’idea di osservazione del fatto reale.

Questa è la ragione per la quale ci introduciamo a un pittore che è stato Henri Rousseau, detto “Il
Doganiere”, presenta una pittura dai caratteri molto particolari. Sembra in un certo senso esser il gioco di
un bambino. Pochi come Rousseau sono riusciti a incarnare quel principio baudelairiano che non è che
l’infanzia ritrovato con la volontà. lui non è stato un pittore professionista, viene chiamato così perché ha
dipinto quando ha potuto, e ha cominciato a dipingere intensamente quando aveva 42 anni. Siccome era
nato a Parigi nel 1856, ha cominciato ormai alla fine del secolo.

- H. Rousseau - “L’incantatrice di serpenti”;


- H. Rousseau - “Quartetto felice”.

I suoi modelli sono stati Gauguin, con il suo esotismo e tutto ciò he vi è dietro - stampe giapponesi,
suggestioni provenienti da un Oriente spesso mitico, idea del viaggio. La cosa curiosa è che, mentre
Gauguin si è spinto fino alle estreme latitudini del mondo, oltre l’Europa, Rousseau è sempre stato a Parigi.
La sua è una vera e propria immaginazione di questi luoghi esotici a occhi chiusi. Se da un lato c’è la fonte
gauguiniana, nel “Quartetto felice”, questi personaggi lievi molti in un momento di danza, sembrano
derivare da quello che poi è stato il vero pittore Simbolista per antonomasia, primo rappresentante,
Gustave Moreau. Queste figure danzanti riflettono Moreau, attento osservatore della pittura
impressionista, lo si vede dalle chiome degli alberi. Ha creato un linguaggio aurorale, ha fatto vedere come
la pittura potesse riiniziare da sé, è stato metaforicamente un fanciullo nell’ambito artistico che ha
suggerito l’infanzia a tanti nuovi artisti, tra cui Kandinsky e Carrà. Importante la leggerezza delle figure nel
“Quartetto felice”, la figura maschile con un flauto, quella femminile con la ghirlanda di fiori, poi il bambino,
e un cane. C’è qualcosa di immediato, una dimensione di SIMBOLISMO INCANTATO, un tempo sospeso, un
ricominciamento dopo tutto.
Bontempelli diceva che l’artista è “come un Adamo che sappia di avere una storia”. Un processo
contraddittorio, ma è questo il significato: lo stupore che ricomincia da capo. Al Doganiere-Rousseau ha
dedicato molta attenzione un artista e pittore italiano, Ardengo Soffici, uno dei protagonisti della scena
culturale italiana dei primi tre decenni del ‘900. Questo aveva conosciuto Rousseau a Parigi, e nel 1910 -
anno di morte di Rousseau - ha scritto un articolo su “La Voce”, che si intitola “Henri Rousseau Il
Doganiere”, nel quale parla di questo personaggio al tempo ancora poco noto, come di qualcuno che gli
aveva ricordato “Il mondo incantato” di Paolo Uccello. Dopo questo accostamento scrive anche: “Avendo
cominciato la sua carriera di artista a 42 anni, questo singolare pittore non ha mai avuto la possibilità di
acquistare quella scioltezza di mano che permette di fissare velocemente sulla tela un’ombra fuggitiva di
bellezza, onde la sua pittura tradisce sempre lo stento e il travaglio di una lenta e penosa elaborazione e
realizzazione. Ma siccome il contenuto è, come ognun sa o dovrebbe sapere, inscindibile dalla forma, e le
affezioni dello spirito trovano sempre il modo più adatto per manifestarsi, avviene che questa
impacciatezza e questa inarticolatezza di forme sono appunto i caratteri che meglio si confanda a un’arte
che non vuole se non tradurre l’emozione atonica di un uomo del popolo. {…}”. Ecco l’emozione, il senso
puro, l’idea di far apparire qualche cosa che è misura di sé stessa, che non si riferisce ad altro, come
potrebbe essere appunto l’emozione. E continua “{…} E anzitutto i colori, quantunque ottenuti
bizzarramente, egli stende sulla tela i suoi toni uno alla volta, prima, per esempio tutti i verdi, poi tutti i
rossi, poi tutti i celesti, … sono raffinati e magnifici. {…}”. Ecco, colori raffinati e magnifici, le piante, i cieli
ecc. hanno colori di una dolcezza e ricchezza inaudita. Poi basta guardare i suoi gruppi familiari: uno, le sue
scene di vita, le sue nature, i morti e i paesaggi. “{…} Per sentire con quale acuta ancorché bonaria e
simpatica penetrazione egli abbia intuito la vita nelle anime stesse dei suoi modelli.”. Ecco quindi in questo
senso è proprio l’idea di tornare a una forma di stupore nei confronti della vita, di entusiasmo in senso
letterale.

Ora, dopo aver visto Il Doganiere, troviamo il richiamo alla questione delle due vie simboliste,
Impressionista-sintetista, riconducibile al realismo visionario e/o empatico, e quella Simbolista, che
abbiamo visto influire sulla pittura di Redon e di Rousseau Il Doganiere. Perché si sono fatti influenzare dalla
corrente simbolista? Entrambi sono pittori che traggono tanto dall’autentico autore del Simbolismo,
Gustave Moreau.

GUSTAVE MOREAU (1826-1898).

Pittore simbolista per antonomasia. A Moreau si riferiscono i critici che sposano la tesi simbolista, e la
presente anche Jean Moreas, quando nel 1886 scrive, pubblicandolo su “Le Figaro”, il suo Manifesto del
Simbolismo. Viene pubblicato il 18/09/1886, e lì Moreas scrive, dopo aver parlato delle corrispondenze
baudelairiane, a proposito dell’arte simbolista: “Nemica della didattica, delle declamazioni, del falso
sensibilismo, della descrizione oggettiva, la poesia simbolista cerca di rivestire l’idea di una forma sensibile,
che però non si porrebbe come scopo a sé stessa, ma che pur servendo ad esprimere l’idea resterebbe
soggetto. L’idea dal canto suo non deve affatto lasciarsi scuotere prima dei sontuosi paludamenti delle
analogie esterne, carattere essenziale dell’arte simbolista, essendo (?) fino alla concezione dell’idea in sé.
Così in quest’arte le immagini della natura, le azioni degli esseri umani, tutti i fenomeni concreti non
potrebbero trovare manifestazione, trattandosi di apparenze sensibili destinate a rappresentare invece le
loro finalità esoteriche con le loro idee primordiali.”. Chiaramente si tratta di un passaggio piuttosto
complesso. Interessante è che il nucleo concettuale di Moreas è che l’artista parte da un’idea, deve
“rivestire i panni giusti”, a partire dai paludamenti, dalle analogie esterne lui dice, ma tutto è subordinato
quindi all’espressione di questa dimensione invisibile. Credo che non ci sia miglior viatico, introduzione, alla
sua opera.

La sezione dedicata a Moreau si apre con un dipinto, “San Giorgio e il drago”, di Vincenzo Carpaccio, perché
Moreau lo ha riprodotto e lo ha tenuto con sé nella casa che egli ha abitato tutta la vita, a Parigi. Oggi è il
Museo Moreau, con l’allestimento che è stato curato in ogni dettaglio dall’artista stesso. Perché la casa,
questo luogo incantato che ha alle pareti solo dipinti di Moreau? È un museo che lui ha concepito
esclusivamente per tramandare la propria opera; in cima alla scala a chiocciola si trova proprio l’atelier di
Moreau. Viveva e lavorava nella casa, come in un involucro, come se fosse aperta a 360°, esteriormente e
interiormente. Per permettersi questa casa doveva appartenere a una classe sociale elevata: è stato figlio di
quella borghesia dorata da cui erano venuti Manet e Degas. Anche lui ha avuto la possibilità di ricevere una
istruzione di altissimo livello. La sua famiglia era facoltosa, il padre era architetto, la madre proveniente da
una ricca famiglia borghese. Il padre era bibliofilo, per cui Moreau ha la possibilità di entrare in diretto
contatto con i classici quando è ancora giovane, ha familiarità con la tradizione culturale, e il padre era
anche artista. Come se gli mettessero le mani in pasta. Quando dà prova di sé come disegnatore, come
ragazzino che pratica la pittura, ecco che nel 1846 entra alla Scuola di Belle Arti. Sviluppano anche la sua
attività prima a scuola, poi in autonomia per vocazione, nel 1852 il padre gli compra una casa a Parigi, al n.
14 della rue de La Rochefoucauld, che è proprio quella delle foto. Una casa dove fino da quel momento
Moreau lavora; vi rimarrà tutta la vita, ma prima di stabilirsi in questo domicilio “dorato” al centro della sua
vita ci sono ancora degli episodi.

Nel 1857 parte per un viaggio di studio in Italia, a Roma frequenta gli artisti francesi intorno a villa Medici,
ha la possibilità di fare indigestione, o meglio di congestionarsi di una gran quantità di memorie artistiche.
Nel 1858 è sempre in Italia da ormai un anno, va a Firenze e incontra Degas; i due si apprezzano nella
diversità. Si reca a Milano e va anche a Venezia, dove incontra le opere di Vittore Carpaccio, tra cui quel
“San Giorgio e il drago” di cui eseguirà una copia. Che cosa vede nel Carpaccio che lo suggestiona?
Carpaccio era un pittore stabilitosi prevalentemente a Venezia, a dipinto vicende - come il Circolo di
Sant’Orsola - che non si erano svolte a Venezia ma che lui ambienta nella città lagunare. Una sorta di
microcosmo dal quale osservare tutto ciò che c’è introno, un’idea che Moreau si porta dentro e che
trasferisce nella sua casa, una sorta di laguna aperta a 360° su tutto ciò che vi è intorno.

Prima di tornare in Francia, nel 1859 a Roma, poi visita Napoli, l’arte pompeiana ed ercolanea. Ai primi anni
’60 eccolo come artista ufficiale che si afferma al Salon, nel ’65 riceve addirittura una medagli per alcuni
suoi dipinti. Ha già cominciato ad elaborare uno stile che diventerà in un certo senso inconfondibile,
liberissimo, nei quali i riferimenti a miti sono sempre fatti in una dimensione non illustrativa, ma
interpretativa, nel tentativo di correlare le cose alle altre. Questo sforzo, questa creazione di una
dimensione in cui tutto comunica con tutto, si vede apparire chiaramente nel suo dipinto “L’apparizione”
del 1876.

- G. Moreau, “L’apparizione”, 1876.

Questo dipinto è diventato in un certo senso il simbolo della pittura di Moreau. È un episodio che viene
narrato in due Vangeli, quello di Marco e quello di Matteo, e riguarda il legame diabolico che si istituisce tra
la giovanissima Salomè ed Erode. C’è tutta una storia dietro: la vicenda è che Salomè aveva sedotto il re
grazie ad una danza - rappresentata anche attraverso il corpo di una giovane fanciulla -, e il re la desiderava
moltissimo. Mentre danza, Erode chiede a Salomè di esprimere il suo desiderio, lui l’avrebbe esaudito.
Salomè era figlia di Erodiade, che ce l’aveva con Giovanni Battista; la madre dice a Salomè di chiedere a
Erode la testa del Battista su un vassoio. Noi nel dipinto vediamo apparire il martire Giovanni Battista con la
testa staccata dal corpo. La cosa importante al di là dell’episodio, che ha importanza relativa, è il modo in
cui la testa sanguini, l’importanza del sangue e della luce, e il modo in cui Salomè si fermi con questa testa
che sanguini, e con il braccio teso istituisca una sorta di rapporto per il quale la testa sanguina - l’elemento
carnale si spiritualizza, quello spirituale si incarna, in una sorta di strano equilibrio che si raggiunge,
estremo.

Lo stesso Moreau si autoritrae sullo sfondo nei panni di Erode, come se fosse lui a guardare ciò che avviene
nella sua opera. Qui l’idea dell’equilibrio, che Moreau ci fa vedere in questo modo, adoperando certi
paludamenti, certi simboli e certe situazioni tali che lui possa creare in modo visibile ciò che io percepisco in
modo invisibile. L’equilibrio è questa danza degli opposti, questo tendersi la mano. Questa è una
dichiarazione di poetica, è lo stesso Moreau che guarda questa visione, questa apparizione, la fa propria e
la guarda. Ne è critico e ne è anche interprete.

Questo carattere equilibrato, mobile, sintetico di Moreau è stato ricavato e rilevato da Joris-Karl
Huysmans, nella sua opera “À rebours”, il cui protagonista è detto possedere sue opere di Moreau: una
Salomè in un’altra versione, e appunto “L’Apparizione”. A proposito di quest’ultima Huysmans parla di
“un’idea di antichità sospesa nel tempo”, nella volontà di Moreau di prescindere dal tempo, di non
precisare né tradizione, né paese, né epoca. Di qui l’importanza relativa di un episodio tratto dal Vangelo,
“collocando Salomè al centro di quell’insolito palazzo, di un certo stile grandioso, parandolo di vesti
sontuose e chimeriche”. In realtà è tutto parato di vesti sontuose e chimeriche in questa dimensione di
equilibrio con straordinario lirismo e con straordinaria efficacia dal punto di vista prettamente tecnico.
Anche le strutture architettoniche hanno la loro pregiata bellezza, nei quadri sono rievocate memorie
gotiche.

- G. Moreau, “Gli unicorni”.

Nel quadro compaiono delle donne, da un lato la ripresa di una Maga Circe, o di una dea Iside. Ancora
sull’altro lato l’idea del nudo, una donna simbolo e carne, anche se è meno teso il rapporto tra i due di
quanto non lo sia ne “L’Apparizione”.

- G. Moreau, “Dalila”.

Altro bellissimo copro femminile è rappresentato nella “Dalila”. Guardando questi corpi femminili, e poi il
“Quartetto femminile” del Doganiere Rousseau si trovano dei punti di passaggio. Mentre se si guardano
“L’Apparizione” e i dipinti successivi si trovano elementi propri di Odilon Redon. Redon e Rousseau sono
due figli entrambi di Moreau.

- G. Moreau, “Orfeo e il centauro”.

Ben visibile è il tema dell’androginia. Moreau ebbe un rapporto lunghissimo con una donna, che fu sua
amica e compagna e ispiratrice, Alexandrine Dureux, ci ricorda il legame di Manet con Victorine Meurent,
modella dell’“Olympia”. Qui il legame tra opposti diventa legame tra maschile e femminile. Il poeta-artista -
non sappiamo bene che sesso abbia, se sia uomo o donna, le due cose sembrano legate - è portato a spalla
da un mezzo uomo-messo centauro - anche qui ancora gli opposti - e sbuca dietro il braccio di Orfeo la lira,
strumento a corde, simbolo di un’armonia universale. Quando Orfeo suonava la lira infatti rabboniva le
belve e anche il mare in tempesta. Di qui ancora l’idea del lirismo dell’arte, lo ritroviamo anche ne “Il poeta
arabo”.

- G. Moreau, “Il poeta arabo”.

Qui c’è un flirt con la Persia antica, con degli gli orizzonti che si spingono in ambienti esotici fino all’India.
Anche qui si parla di una cultura europea che sempre si rifà all’ellenismo, che qui si mostra come
simbolismo puro che porta dentro di sé tante matrici culturali.

14° Lezione del corso di “Storia dell’Arte Contemporanea”.

Ci avviamo a chiudere il discorso sulla seconda metà dell’Ottocento, trattando di due artisti che hanno
molto influito sulla pittura delle Avanguardie Novecentesche. Mi riferisco a Edvard Munch e James Ensor.
Si tratta di un passaggio importante, “da giorno alla notte”, lo possiamo notare dai primi due dipinti di
Munch.

- E. Munch, “Primavera sulla via Karl Johan”, 1890.


Il primo sembra più o meno rientrare nei canoni dell’Impressionismo, anche se questi sono corretti e
deformati in maniera più post-Impressionista, secondo i suoi gusti.

- E. Munch, “Sera sulla via Karl Johan”, 1892.

Nel secondo, successivo di due anni, si nota già l’entrare in una dimensione. Possiamo dire notturna, ma
dove è notte è da intendere una sorta di permanenza di oscurità, non è una notte atmosferica, ma si
prolunga come un crepuscolo anche la folla - usata come soglia per entrare nel “Pittore della vita moderna”
di Baudelaire, per cui il pittore deve immergersi nella folla come in un immenso serbatoio di elettricità, la
folla come forma di energia -, nel dipinto la proporzione si sia separata, è diventata una folla di morti, di
creature postume, sembrano “lemuri”, figure fantasmatiche. Il contesto è difficile da considerarsi in termini
schiettamente naturali - la luce intensa proveniente dalle case, il cielo azzurro -; è sera, eppure è ancora
giorno, una dimensione di malattia.

Il dato sottolineato è la piccola e unica figura sulla destra che va controcorrente. La forza, l’energia che il
pittore trae dalla realtà, è come se fosse rovesciata, tende a ribaltare completamente il rapporto con la
realtà. Come se la realtà cominciasse dal pittore stesso, senza alcun tipo di subordinazione o di totale
immedesimazione, ma piuttosto una partecipazione determinata dalla volontà di aderire o di distaccarsi. È
proprio l’io moderno in questo momento che si è reso ancora più autonomo.

Un grande pittore che costruisce progressivamente uno stile che poi diventa inconfondibile. Era norvegese,
si era formato in una scuola romantico-realista, con forti ideali di carattere socialista - dimensione
comunitaria -, dati anche i tempi in Norvegia. Era nato nel 1863, aveva conquistato la sua indipendenza
nazionale, la Norvegia si doveva costruire come nazione, erano mezzi per costruire un’identità nazionale.
Fino a un certo momento sente anche il suo ruolo di tipo sociale e di tipo politico. Poi - dopo aver compiuto
alcuni viaggi a Parigi dal 1885, che lo porteranno poi in Italia e a sud della Francia, e in un primo momento
in Germania - la strada lo porta a quei presupposti nuovi, soprattutto dopo il viaggio a Parigi. Parigi aveva
significato tantissimo soprattutto dal punto di vista del rapporto con la pittura: da un lato si era accostato
all’Impressionismo - anno precedente all’ultima mostra sull’Impressionismo -, anche se già in una fase di
trasformazione, e provenendo da una cultura romantico-realista si era accostato a Daumier, a quel realismo
già rivisitato con elementi di interiorità. Poi aveva percepito questi elementi anche in Manet, Degas,
Lautrec, con una dimensione empatica. Poi il contatto con la pittura di Van Gogh e Gauguin, che cambia i
suoi valori, da una dimensione sociale passa ad una dimensione di individualismo, con un rapporto di “odi
et amo” con la pittura moderna.

Ciò è ravvisabile nel momento in cui si dipinge nella via Karl Johan, tra la folla e al contempo contro la folla.
Una strana figura che lavora dentro un mondo moderno in un altro mondo, percependo una serie di
elementi che vengono da un’interiorità molto turbata. In questo senso si può dire sia stato un pittore
esistenzialista o pre-esistenzialista - la dimensione della vita, le inquietudini della vita diventano
l’elemento essenziale con il quale vedere il mondo esterno.

Non presto - perché gli scritti di Soren Kirkegaard ebbero diffusione soprattutto alla fine del secolo - quando
egli lesse “Aut-Aut” dello scrittore danese – affinità per la provenienza -, nel leggerlo si rivide in lui, nella
tematica della morte, del timore, dell’incertezza nella concezione primordiale. È una forma di modernità
nella quale l’individuo è continuamente messo in discussine da ciò che si porta dentro, dai fatti biografici
che magari a un certo punto esplodono con virulenza - terribili lutti portati dietro, che hanno iscurito la sua
esistenza. In questo suo vagare in Europa faceva sempre rientro in Norvegia in una città costiera.

- E. Munch, “Malinconia”, 1893.

Si autoritrae su questa costa norvegese nel dipinto “Malinconia” del 1893. La figura è nella posizione della
malinconia, dove il malinconico è colui che si regge la testa e sembra guardare il vuoto, in una dimensione
di natura che sembra essere dipinta da un lato come se fosse dipinta da Van Gogh o da Gauguin, in una
specie di sintetismo. Sintetismo che però ha colori molto acidi, che non risente di nessun tipo di solarità e di
esotismo. È uno spirto nordico, cupo, una malinconia che parte da un rovello di carattere forse religioso - il
protestantesimo, con la sua idea di predestinazione, con il fatto di non poter far nulla nella vita per poter
modificare il proprio destino.

Insomma ci sono questi dati che fanno parte in profondità della poetica muchiana, che diventa quella della
morte nella vita e della vita nella morte, temi di carattere neo-romantico. Il suo modo di concepire la
pittura è in realtà un modo estremamente dinamico, perché confrontandosi con tutte le esperienze
impressioniste e post-impressioniste ricava un linguaggio che davvero è altamente innovativo, come se
fosse riuscito a portare la pittura nella sua misura. È un io moderno che riesce a trovare la misura in sé
stesso, anche se è una misura dolorosa. È importante ricordare però che Munch diceva: “Il dolore è stato il
vento che ha gonfiato le mie vele.”. Quindi comunque con il dolore, l’inquietudine, il senso di morte ha
imparato sempre a coabitare. Quindi la sua posizione controcorrente diventa molto produttiva, sia da un
punto di vista pittorico - ha dipinto molto, ha illustrato e lavorato per molte riviste. Essendo stato spesso a
Parigi, Berlino, Monaco di Baviera, ha cominciato a creare legami con queste capitali europee, e
l’avvicinamento al linguaggio impressionista e post-impressionista, con quello che sarà poi l’Impressionismo
vero e proprio in Germania, lo si deve proprio a lui. È un uomo solitario che però riesce a trovare il bandolo
della matassa per il rinnovamento della pittura, rinnovamento che esplode nel suo famoso “L’urlo” del
1893.

- E. Munch, “L’urlo”, 1893.

Per quel che riguarda le sue filiazioni, il dipinto assomiglia come posizione e impostazione ai contadini di
Van Gogh, e anche i minatori di Meunier. Anche in Munch permane qualcosa di realista, una dimensione di
realtà, totalmente passata allo specchio dell’interiorità, deformata. Quintessenza dell’angoscia, dell’ansia,
anche dello spaesamento in apparenza, “L’urlo” di Munch è composto di tutte linee - anche quella del volto
di Munch stesso - sono in sintonia con l’introno. Si sente una categoria tipicamente romantica, sviluppata
da Schopenhauer, il “dolore del mondo”. Sentirlo significa compatire il mondo, “sentire insieme” il mondo,
una sintonia disperata. Le linee, gli andamenti fanno pensare a quelle stesse vele gonfiate dal vento del
dolore, tramite del suo viaggio. Da un lato c’è l’ansia, dall’altro una grande forza espressiva. Si vede un
cambiamento dal Post-Impressionismo verso l’Espressionismo. Il realismo empatico è la categoria che ci
serve per andare a parlare delle Avanguardie, riconducibili all’Espressionismo.

Vediamo gli altri dipinti, in sintonia con questa poetica. È presente un forte riferimento all’antico: vi è un
genere non solo nordico, ma associato a una cultura legata a una sorta di predestinazione, la danza
macabra. Tipicamente medievale, spesso vedeva nelle chiese dipinto una sorta di strana concatenazione
tra i potenti locali e la morte, come in un “memento mori”. Questo tema è portato nella modernità con il
tema della predestinazione, dell’ansia e della morte.

- E. Munch, “La danza della vita”, 1899-1900.

Siamo ormai arrivati al Novecento, come se fosse una specie di danza macabra moderna. È apprezzata la
presenza di tracce familiari impressioniste: una trasformazione completa dell’Impressionismo. Strano a
vedersi sullo sfondo questo riflesso di una luna o di un sole nel mare, una strana figura simbolica - forse un
angelo o qualcosa che viene dall’invisibile. Insomma permane un’oscillazione verso il Simbolismo, riportato
sempre a contatto molto crudo con la realtà.

- E. Munch, “Pubertà”, 1893.

Alle volte lo si vede anche con un’opera precedente, “Pubertà”. Una fanciulla che ha di fianco una strana
presenza, un fantasma o qualcosa che deriva da lei, minacciosa o che forse si separa da lei, presenza del
visibile e dell’invisibile con un’inquietudine fondamentale. Lo sguardo è fisso, c’è un’implicita critica sociale,
le simpatie socialiste iniziali rimaste, l’idea di alcune figure di uomini che tendono a sopraffare le fanciulle
con le quali danzano (come nella precedente opera). C’è questo tema di critica sociale, una specie di
contrapposizione alla morale borghese.

- E. Munch, “Madonna”, 1893-1894.

Lo stesso la scandalosa rappresentazione di una Madonna. Anche qui una critica formidabile e grandiosa
dei simboli religiosi. Qualche cosa di desolato e di entusiastico, per andare nella direzione di una
demolizione, se vogliamo anche di una ripresa di sé a volte distruggendo e deformando il mondo. Una
grande trasformazione che trapasserà ben presto nell’Espressionismo del mondo proprio.

La permanenza di Munch a Berlino e in Germania fa capire come mai lì siano nati i gruppi espressionistici
che spesso si sono ispirati a Munch. È ormai un vento che tira e cambia la cultura, che si percepisce anche
in altri paesi europei particolarmente ricchi tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, come il Belgio.

In Belgio troviamo James Ensor, di cui ricordiamo il “Parasole”, ispirato agli ombrellini impressionisti, anche
se si tratta più di espressione del soggetto. Anche lui ha origine impressionista e diventa poi espressionista.
Anche lui entra in collisione con quella società borghese nella quale era nato, ma verso la quale aveva uno
spirito critico radicale, probabilmente perché vedeva in una società fondata sul benessere e sulla ricchezza
molti altri valori che venivano oscurati.

- J. Ensor, “Parasole”;
- J. Ensor, “Lo scheletro pittore”.

Ne “Lo scheletro pittore” si capisce benissimo che implicitamente critica anche l’arte e l’artista, e si illude di
poter stare nel suo atelier e non fa altro che dipingere in basso delle maschere inquietanti, o è egli stesso
che è morto. Una critica che non sembra quasi avere neppure un esito, ma diventa una sorta di autocritica
permanente e un processo di involuzione dal punto di vista del sentire il proprio ruolo come marginale e la
propria vita destinata a spegnersi. Ciò non significa che non sia capace di darci degli squarci di straordinaria
vivacità.

- J. Ensor, “Entrata di Cristo a Bruxelles”, 1888.

Uno squarcio di vita luttuoso, un’apoteosi della folla in un latro modo: come la folla di Munch, una folla
molto più di morti che di vivi, una folla di maschere piuttosto che effettivamente una folla festante, la quale
dovrebbe essere quella che accoglie Cristo a Bruxelles. C’è anche uno striscione che dice “Viva il
Socialismo”, quindi anche delle posizioni strane, politicamente scorrette sotto tutti i punti di vista.

Si tratta di un artista che sembra essere sempre in contrapposizione con tutto e contrario a tutto. Proprio
per questo fa sviluppare la pittura in maniera straordinariamente vivace, con soprattutto questo lavoro
sulle maschere, che influirà moltissimo sulla pittura dell’Espressionismo. Quindi Munch ed Ensor come
padri spirituali e collaboratori diretti di pittori o di gruppi che poi prenderanno piena parte al movimento
dell’Espressionismo del XX secolo.

In questo modo chiudiamo la nostra rassegna sulla pittura. Abbiamo cominciato dall’Ottocento con
Courbet, ora siamo arrivati al Realismo e lo abbiamo trasformato in tante cose. L’io ha preso sempre più
campo, abbiamo visto crearsi una specie di evoluzione. Tuto parte dall’io, nel bene e nel male.

Ultima questione è ciò che si può trarre dal primo discorso di Zarathustra, che si trova nel libro di Nietzsche
“Così parlò Zarathustra”. Nietzsche parla della metamorfosi dello spirito secondo tre livelli, ed è possibile
utilizzare questi tre livelli di metamorfosi per riassumere le cose che abbiamo visto a partire dal Realismo.
Leggendo questo libro, che ha uno stile elevato e oracolare, queste tre metamorfosi - LEGGERE TESTO
COMPLETO NEI DOCUMENTI.
Friedrich Nietzsche - “Così parlò Zarathustra” (1886) - Documento.

“Tre metamorfosi {…} propria saggezza?”.

La prima metamorfosi ci consente di vedere bene Courbet e il Realismo. Nietzsche entra qui anche in
questioni che non sono strettamente di carattere estetico, ma anche di carattere morale ed etico. C’è
sempre in lui una posizione altalenante, ma in ogni caso ci fa vedere proprio questo bisogno dell’uomo-
cammello di caricarsi in spalla la realtà. Se lo dicessimo con Courbet, dovremmo ripetere che il pittore può
dipingere “solo quello che vede con gli occhi”. Gli occhi sono il suo cammello, il peso della realtà che si
porta, quello che è chiamato a mettere dentro la sua pittura.

Seguono tutti interrogativi che vengono uno dietro l’altro, che vengono a inquietare la posizione del
realista.

“{…} Oppure è: {…} caldi rospi?”.

Qui non si può non sentire un legame con il tramonto del sole romantico e con i rospi e le lumache di
Baudelaire. C’è qui un invito ad accostarsi alla realtà. È come se qui sentissimo, rifatto in un certo modo, a
distanza di tempo, lo stesso discorso che Baudelaire faceva del “tramonto del sole romantico”.

“{…} Oppure è: {…} nel proprio deserto.”.

Anche qui viene un po’ in mente il gran “deserto d’uomini” di cui parlava Baudelaire. Anche qui c’è un
discorso che riguarda il legame con la realtà. Ed è questo il terreno della seconda metamorfosi.

“{…} Qui cerca {…} Così parla il drago.”.

Qui c’è qualcosa di affine alle metamorfosi che troviamo ne “Il pittore della vita moderna”. A un certo
punto la partecipazione alla realtà induce il ruggito anche di chi non vuole essere più soltanto al centro
della realtà. Lo spirito del leone gli dice “io voglio”, e il grande drago - che è la realtà - gli dice ancora “tu
devi”. C’è un tema fondamentale: il braccio di ferro tra “io voglio” e “tu devi” che significa però che l’uomo-
leone - identificato con Manet - l’Impressionista, vuole sfidare la realtà ma non sa ancora come farne a
meno. Vediamo un’evoluzione, l’io moderno che diventa sempre più autonomo.

Come se noi lentamente vedessimo adombrare tutte le vicende di sviluppo di autonomia dell’io moderno
che abbiamo visto nell’astrazione cromatica di Monet, nell’astrazione volumetrica di Cezanne, nelle stesse
dinamiche all’interno del Realismo visionario e/o empatico, sorrette proprio da una spinta che l’io stesso dà
secondo prospettive operative, che sono le une diverse dalle altre.

Il tema della realtà in fondo però finisce per imporsi quasi sempre, eppure abbiamo ? fortissimi per andare
oltre. E questo “oltre” è forse ciò che adombrano i dipinti estremi di Van Gogh, di Gauguin, in generale tutti
i dipinti che cercano di mettere al centro l’operatività dell’io con mezzi sempre più indipendenti dalla
riproduzione della realtà. Ciascuno lo può fare come crede, c’è un’istanza simbolista - il partire dalle idee
per dare forma alle cose, c’è una specie di convergenza da un lato del Post-Impressionismo, e dall’altro
delle istanze che sono interne al Post-Simbolismo. C’è una convergenza operativa nel rendere l’io sempre
più autonomo.

Poi concorrono a questa autonomia anche il linguaggio di Munch e quello di Ensor, linguaggi con i quali l’io
magari in maniera violenta e turbata si pone in rapporto con una realtà che tende a prevalere sulla realtà
stessa.

“{…} Fratelli {…} occorre il leone.”.


Il leone è in grado di darsi i mezzi per poter essere sempre più autonomo nella rappresentazione della
realtà. La rapina, il tentare di imporsi alla realtà, di strappare alla realtà qualcosa che però il leone non
riesce ancora a strappare completamente.

“[…} Ma ditemi fratelli {…} il leone fanciullo -.”.

Ecco la terza metamorfosi. E come Baudelaire aveva detto, “il genio non è che l’infanzia ritrovata con la
volontà”. Il tema baudelairiano è stato coì intuito molti decenni prima, almeno vent’anni prima. Il tema del
fanciullo come luogo di ricominciamento di tutto, di rammemorazione di tutto. È questo cha fa andare la
notte del mondo verso la mezzanotte: ritrovare l’archetipo giusto, distrarsi nella giusta direzione, in fondo
fa fare quel gioco che fa sì che “il perduto per il mondo conquista per sé il suo mondo”, e lo conquista
anche per gli altri. Conquista un mondo che è fatto dell’archetipo e degli archetipi che mancano alla realtà
presente.

Ultima cosa, un riassunto fatto per immagini: dal Romanticismo al Realismo all’Impressionismo, poi
astrazioni, Realismo visionario e/o empatico, e d’altra parte il Simbolismo, che approda - lo vediamo da
Moreau - a un linguaggio che viene detto direttamente del Romanticismo. Componiamo concettualmente e
diacronicamente uno schema che ci servirà poi per appoggiarci sopra le Avanguardie del Novecento.

15° Lezione del corso di “Storia dell’Arte Contemporanea”.


È il tempo delle Avanguardie storiche, i primi anni del XX secolo. Apriamo con una citazione di Baudelaire:
“Della vaporizzazione e della centralizzazione dell’Io, tutto è lì.”. Questo sarà l’elemento conduttore per lo
studio delle varie Avanguardie, che sono un momento di vera e propria vaporizzazione e centralizzazione
dell’io. Sono un ulteriore sviluppo del metodo “Olympia”, del sistema di Manet - costruito sulla scorta dei
vari indirizzi teorici di Baudelaire -, che si sviluppano poi con l’Impressionismo e il Post-Impressionismo, e
con figure a cavallo tra Ottocento e Novecento quali Monet o Ensor.

Importante il tema del fanciullo, il fanciullo baudelairiano - “il genio non è che l’infanzia ritrovata con la
volontà” -, che anche Nietzsche metteva a culmine delle tre metamorfosi dello spirito, rappresentato dello
stato di potenzialità dell’io moderno. Contrasta la figura del fanciullo, quindi l’io moderno, con
l’unilateralità del tempo, con il predominio assoluto della tecnica e dello scientismo, e con la volontà di
separarsi dal passato dell’umanità. L’io moderno, con movimento enantiodromico, risarcisce il tempo
presente di ciò che adesso manca. Infatti, dopo la citazione di Baudelaire, viene la citazione dalla parabola
delle tre metamorfosi del “Così parlò Zarathustra”: “il fanciullo è oblio e nuovo inizio... una ruota ruotante
da sola... il perduto per il mondo conquista per sé il suo mondo”. Ecco la tematica del conquistare per sé
stessi il nostro mondo: far quindi un lavoro interiore, a contatto con la realtà esterna.

Le Avanguardie artistiche a inizio XX secolo sono tutti fanciulli. In continuità con il secolo precedente, sono
espressioni dell’io moderno, o comunque sono delle “distrazioni” (Bergson) radicali che attivano archetipi
dell’“inconscio collettivo” (Jung) - archetipi di movimento, di memoria, di una sorta di erotismo che vuole
rimettere in luce i legami tra la mente e il corpo, al fine di uscire da una dimensione esclusivamente astratta
e intellettuale -, movimento/risarcimento che crea delle zone di luce nella “notte del mondo” (Heidegger).

Importante la memoria a fondamento di qualsiasi risarcimento, per cui prendiamo una citazione dalla “Gaia
scienza” di Nietzsche: “In che modo meraviglioso e nuovo e insieme tremendo mi sentivo posto con la
coscienza davanti all’esistenza tutta! Ho scoperto per me che l’antica umanità e animalità, perfino tutto il
tempo dei primordi, continua dentro di me a meditare, a poetare, a amare, a trarre delle sue conclusioni...
e che anch’io, l’“uomo della conoscenza” (= filosofo), danzo la mia danza”. Ecco il senso della danza, il senso
del movimento interiore ed esteriore. Questo movimento crea delle “corrispondenze” (Baudelaire) tra
epoche storiche (autori dell’Ottocento), profondi legami ance fra le culture di tutti i continenti, in
opposizione alla civiltà europea che privilegiava ancora criteri diacronici darwiniani basati sull’idea di
progresso, di selezione naturale.

L’arte si fa sempre più contemporanea, sempre più recupera tutto ciò che sincronicamente o
diacronicamente la civiltà europea aveva espunto da sé, mettendo soltanto dentro luoghi come i musei,
dove i reperti esposti non potevano più tornare nel tempo presente.

- H. Matisse, “La danza”.

Idea di questo movimento delle Avanguardie. L’interpretazione giusta per avere un’idea delle Avanguardie
è quella di non dividerle al loro intero - malgrado la diversità dei linguaggi - ma di vederle soprattutto come
delle essenze unite da un movimento solidale, dall’affermazione dell’io. Ecco che questo dipinto costituisce
una sorta di “soglia”, ci dà un’idea di queste Avanguardie che danzando, dandosi una mano le une con le
altre.

Il termine “Avanguardia” viene anch’esso da Baudelaire, e significherebbe “avanguardia di un esercito”,


quel reparto che muove prima del grosso dell’esercito, preparandone la strada. In questo caso non c’è
niente di militarista, ma c’è l’idea che il movimento della cultura, dell’immaginazione, delle masse umane
sempre più coinvolte nella civiltà industriale possa prendere anche un indirizzo immaginativo, una forza di
risarcimento che dal lavoro di pochi, dell’Avanguardia, diventi patrimonio di molti, di tutti. Ritorniamo al
discorso del “tornare là dove non eravamo mai stati”, per cui l’Avanguardia ha una ricaduta con chi sta alle
spalle di questa stessa, con l’dea che il linguaggio che si parla è uno che precorre quello che poi tutti
potranno parlare.

Questo è l’elemento essenziale, e di solito si fa un errore nel pensare che il linguaggio delle Avanguardie sia
qualcosa di criptico, di cervellotico e di non comprensibile. Si sono spesso staccate proprio da
dall’Ottocento, ed è come se iniziassero nel Novecento da un punto che quasi sembra non avere radici nel
tempo, e invece non è così. C’è una grande continuità e socialità delle Avanguardie, nel loro essere
elementi ed espressioni che precorrono delle modalità di pensiero, di vita, di sentimento che poi
diverranno collettive.

Avanguardie - Schema chiaro sulle origini dal XIX secolo, a partire da categorie già elaborate. Così si può
significare il discendere delle Avanguardie. Ci sono forti punti di collegamento tra Settecento e Ottocento, e
le date relative a ogni movimento di Avanguardia.

Henri Matisse (1869-1954).

Primo grande “vecchio fanciullo”, “puer-senex”. Figura centralissima per quanto riguarda tutte le arti del
Novecento insieme a Pablo Picasso, altra colonna della pittura del XX secolo. È stato un uomo che ha
sicuramente pensato all’arte prima come tecnica della quale bisogna appropriarsi. Ha studiato, oltre alla
pittura, anche la scultura, si è applicato alla decorazione, ha voluto studiare il mosaico - ha voluto studiare
tutti i linguaggi artistici. Prima di essere un rande artista, è stato un critico dell’arte. È riuscito a trasformare
la conoscenza, la dimensione del passato, in presente, ha trovato lo stupore nei confronti della vita e
dell’arte (tema baudelairiano).

Ha prima acquisito gli strumenti tecnici, era nato nel 1869, ad apertura del Novecento è un uomo già
maturo. Aveva studiato giurisprudenza poi si era indirizzato alle arti, e tra il 1891-92 aveva studiato presso
all’École nationale supérieure des beaux-arts di Parigi, aveva avuto proprio come maestro Moreau. Mentre
lavorava nell’atelier di Moreau, a Parigi si è però anche impratichito alla scultura, al mosaico e alle arti
decorative. Poiché era un po’ più in età di certi suoi compagni di studi, ed era anche capace di interloquire,
Matisse è poi diventato punto di riferimento di un gruppo che, dal 1905 - dopo un’esposizione famosa al
Salon d’Automne - prenderà il nome di “Les fauves”, “Le belve”.
Questo epiteto viene dato dal critico di passaggio, che ne parla in termini quasi dubitativi. Questi artisti
giovani usavano il colore in maniera molto chiara, molti vivace, molto evidente. Insomma l’effetto che essi
producevano sullo spettatore è quello di sconcerto, di qui l’idea de “Le belve”. Allora la parola è rimasta
“Les fauves”, “Le belve”, e si resta stupiti, perché a partire dallo stesso Matisse la dimensione che sembra
molto selvaggia risulta essere in realtà molto più contenuta e pensata. Lo stesso Matisse lavora con
intensità sui colori, ma cerca sempre di instaurare degli equilibri. È stato un uomo che ha dedicato tutta la
sua vita a creare dei bilanciamenti tra opposti.

- H. Matisse, “Ritratto di A. Derain”, 1905;


- H. Matisse, “Ritratto con la linea verde”, 1905.

Troviamo una specie di sintesi, una ricerca, che da un lato inizia a contatto con l’Impressionismo - si occupò
molto di Manet -, ma poi fu anche un assiduo critico accostato al Post-Impressionismo, di cui ha cercato di
capire le dinamiche di sviluppo estetico, l’intensificazione dell’autonomia dell’arte, del colore e delle forme.
Tuto ciò sotto molti punti di vista, si è occupato del puntinismo di Seurat, della pittura di Gauguin, di Munch
e di Cézanne. Non ci sono scrupoli, tutto può essere usato, messo insieme e sintetizzato. Si parla di una
chiave analitico-espressiva, con la quale esprime il proprio soggetto usando il tema cezanniano dei
“motivi”, scomponendo il soggetto in parti - come si vede nei volti dei ritratti -, giocano anche con i colori
complementari.

Da un lato mantiene il senso della natura, dall’altro lo riporta come il suo maestro Moreau gli aveva
insegnato. È l’idea quella a cui l’artista continua a guardare e a cui subordina le parti del lavoro. Viene fuori
un grande vitalismo, che però è anche vitalismo che tenta di darsi una disciplina. Da un lato Matisse lavora
sul colore, dall’altro cerca l’equilibrio tra le forme e i colori.

- H. Matisse, “Lusso, calma e voluttà”, 1904.

Si tratta di una citazione molto nota di Baudelaire, un invito al viaggio. È un dipinto di sintesi eccezionale
montato in modo didascalico. Si tratta di una “Le Déjeuner sur l'herbe” di Manet, un punto di partenza
dell’Impressionismo, tanto rielaborato da tutti i pittori successivi. Ancora compare “L’Apparizione” di
Moreau e la sua libertà compositiva, cioè l’idea che appunto viene prima di tutto. Poi la tecnica puntinista
ne “Una domenica pomeriggio sull'isola della Grande-Jatte” di Seurat, i rifacimenti del puntinismo che
sono stati fatti da Signac, anche con l’intervento del ricordo delle tessere del mosaico, che si vede
chiaramente nel dipinto di Matisse. Matisse rielabora sempre il proprio soggetto attraverso una riflessione
critica, congiunge anche elementi diversi tra loro. Poi anche l’astrazione volumetrica di Cézanne nelle figure
dei nudi e nell’anatomia dei corpi. Nel 1899 Matisse aveva comprato una tela, le “Tre Bagnanti” di
Cézanne, molto simile alle “Cinque Bagnanti” del PowerPoint. In basso ancora l’empatia cromatica di
Gauguin, elementi di convergenza con l’idea di allestire un teatro dove l’artista diventa protagonista e
anche spettatore - c’è un vaglio critico.

Se inoltre osserviamo il dipinto di Matisse e “L’Apparizione” di Moreau, vedremo che la figura di Moreau -
che nel secondo dipinto compare nei panni di Erode -, corrisponde alla figura in basso a sinistra - che è
Matisse stesso -, proprio a indicare un’idea di continuità nel “vedere la pittura che si sta facendo”. Ecco
allora il tema dell’artista-critico che diventa poeta proprio su quella base.

Nella lunga e vasta, straordinaria ricerca di Matisse entra poi un contatto diretto con le grandi suggestioni -
a proposito del discorso enanziodromico del ritorno al passato - con la cultura mediterranea. Si era
innamorato dell’arte cicladica, l’arte preclassica delle Isole Cicladi - 1500 a.C.: terremoto che distrusse le
isole di Santorini -, arte definita con una carnalità “apollinea” - definita con il principio delfico del “Niente di
troppo” -, viene riportata da Matisse nel tempo presente in due dipinti.

- H. Matisse, “La danza”, 1910;


- H. Matisse, “La musica”, 1910.

Entrambi nel 1910, qui si colgono delle analogie con l’arte cicladica e in particolare con il “Suonatore”
risalente al 2000 a.C. In più c’è anche l’idea del vaso, per cui l’idea della danza e le figure vascolari ricordano
le figure sui vasi attici neri a figure rosse. Nel dipinto di Matisse il vaso è diventato trasparente, una sorta di
metafora che serve a mettere insieme tutte le cose. Di qui la citazione del vaso per questa straordinaria
capacità sintetica di Matisse, questa dimensione musicale, fisica e mentale, troviamo un altro dipinto.

- H. Matisse, “La stanza rossa”, 1910.

Questa stanza rossa sembra proprio una sintesi di tutte le memorie matissiane. Intanto si vede benissimo la
leggerezza, in quanto tutti questi oggetti sono appoggiati su un tavolo del quale è molto difficile trovare il
punto di spigolo. È forte in questo anche Cézanne, ma i colori sono anche quelli di Gauguin. Se si guarda
fuori dalla finestra si vedono quelle chiome di alberi che pur essendo bianche - colori scelti da Gauguin ne
“Il Cristo giallo” - ricordano proprio i colori del paesaggio. La figuretta di donna sulla destra ha un’aria molto
cezanniana, ed è anche posta di profilo - riferimento a Seurat. Infine da notare anche la decorazione della
tovaglia, e la decorazione sullo sfondo fatta in modo da rendere tutto ancora più lieve, ancora più leggero.

Il tema della danza è esposto e interpretato attraverso questo modo leggerissimo di comporre il dipinto.
Ormai anche la dimensione fauvista, benché ci sia stata in Matisse, è orami svanita, evaporata in una danza
antigravitazionale di oggetti e di corpi. Anche questo va ricordato con la capacità di fissare un istante, un
momento, è come se la quotidianità impressionista - l’aver scelto soggetti e oggetti della vita quotidiana -
fosse proprio proiettata appunto, quasi si trattasse della decorazione di un vaso attico. Ecco ancora
presente e passato che sono messi insieme, una grande lezione di pittura e di cultura.

Sono insieme a Matisse altri pittori di un nucleo abbastanza nutrito, tra cui André Derain, un altro grande
pittore francese. In un primo momento si era dedicato a uno studio inteso delle opere di Van Gogh. Si erano
tenute a Parigi delle retrospettive dal 1901 al 1905, sempre associate ai Salon, per cui anche il linguaggio di
Van Gogh circolava tra i giovani pittori. Derain andrà verso uno sviluppo simile al classicismo di Matisse, ed
era stato un fautore del legame con Van Gogh.

- A. Derain, “Il ponte di Westminster”, 1906.

Ricorda “La vigna rossa” di Van Gogh del 1888.

- A. Derain, “Tre figure in un prato”, 1906-07.

Questo dipingere per motivi anche i corpi, questa scomposizione ha fatto pensare ad alcuni che ci fosse in
Derain una capacità di precorrere il linguaggio cubista. Questo ci interessa fino a un certo punto, in quanto
artisti giovani si trovavano a lavorare insieme e i tentativi che facevano avevano a volte un esito imprevisto.
È il caso di ricordare che in Derain ci sia una ricerca che si confronta con la pittura subito precedente. Anche
lui possiamo trovare riferimenti a Gauguin, Cézanne, Toulouse-Lautrec. Quest’ultimo è un nome
importante per quel che riguarda “Les fauves”.

- M. Derain, “Donna con la camicia”, 1905.

Ricorda un veloce, rapido schizzo di “Da sola” di Toulouse-Lautrec, 1896. Si tratta di un clima
particolarmente affine.

- M. Vlaminck, “Ponte a Chatou”, 1905;


- K. Van Dongen, “Donna dagli occhi azzurri”, 1908.

Ancora nel contesto de “Les fauves” il nome del belga Maurice Vlaminck, dipinge alla Van Gogh, e insieme
a lui l’olandese Kees van Dongen, che con “Donna dagli occhi azzurri” sta pienamente nello stile fauvista,
ma anche con dei tratti importanti di carattere espressionista. Quest perché tra il gruppo parigino e quello
che stava accadendo in alcune città della Germania (Monaco di Baveria, Dresda, Berlino) vi furono dei
contatti. Va ricordato che in Germania c’era già la grande presenza di Munch. Piano piano vedremo
sintetizzarsi i due fronti, francese e tedesco. Altri due nomi sono A. Marquet e R. Dufy.

Il fauvismo è la faccia francese dell’Espressionismo. È una pittura che nasce da dentro, un movimento
ampio e intenso dell’io, critico ed espressivo insieme che prende da una modulazione dal maestro e
apripista Matisse, ma anche da Derain, Vlaminck e van Dongen.

16° Lezione del corso di “Storia dell’Arte Contemporanea”.


La faccia contemporanea di questa forte ripresa vitalistica nell’arte espressiva, “selvaggia” o fauvista è
l’Espressionismo. Le culle sono state diverse: la prima la città di Dresda, la “Firenze del Nord”, dove si viene
a formare già indicativamente dal 1902 un gruppo che prenderà il nome di “Die Brücke”, “Il ponte”. È un
gruppo di giovani artisti, studenti all’Università o all’Accademia di Belle Arti di Dresda, città ricchissima di
pinacoteche e di musei, luogo culturalmente rilevante. È stata la città a lungo frequentata dai primi
romantici, quelli del gruppo dell’“Atheneaum”, in questo senso in una sorta di continuità a distanza di circa
un secolo con gli espressionisti - gli stessi hanno elementi derivati dalla corrente romantica: lo slancio vitale,
il rapporto cromatura, il tema fondamentale dell’io.

Nel nome del gruppo vi è un riferimento diretto a Nietzsche, in un passo del suo “Così parlò Zarathustra”:
“Quel che è grande nell’uomo è che egli è un ponte e non una meta”, per cui l’uomo è un “gogo” di
trasformazione, di metamorfosi e di ricominciamento (tematica del fanciullo che ritorna, la girandola che
muove da sé stessa - Nietzsche). L’intendimento dei giovani che vivono a Dresda e che poi si trasferiranno
nel 1909-10 a Berlino è proprio quello di ritrovare una capacità di espressione diretta di sé stessi in aperta
polemica con il clima culturale tedesco e con la società tedesca, il Secondo Reich tedesco, dedito allo
sviluppo scientifico, economico e tecnico. In questo troviamo un’opposizione fortissima ai canoni della
società ispirata al Positivismo, all’industria e alla scienza.

Protagonisti della vicenda sono all’inizio Ernst Ludwig Kirchner (1880-1938), il leader di questo
raggruppamento, è all’inizio studente di architettura, incontra poi altri studenti quali Erich Heckel (1883-
1970) e Karl Schmidt-Rottluff (1884-1976). Insieme a questi amici - sono più o meno tutti nati in anni vicini -
iniziano a mettersi in sintonia con le ricerche espressioniste o pre-espressioniste che erano già state
condotte da Munch, Van Gogh e Gauguin. Sono loro i punti di riferimento essenziali, insieme allo sviluppo
immediato di uno studio sul nudo femminile, che in senso antiaccademico privilegi il vitalismo della figura,
e anche la dimensione empatica, espressiva, interiore. In queste ricerche entrerà anche un interesse per il
passato, in particolare per il Medioevo e per la scultura lignea.

Il progetto del “Die Brucke” appare una ripresa di quello della scuola di “Pont-Aven”, di quegli artisti che
poi avevano fatto un pensiero costante a una Francia premoderna. Si vedono elementi interessanti in alcuni
dipinti di Kirchner.

- E.L. Kirchner, “Marcella”, 1909.

Fa pensare a Munch, ma anche a Toulouse-Lautrec.

- Id., Donna coi girasoli, 1906.

Didascalia che rinvia a Van Gogh, anche se la donna in primo piano ha quasi un’aria cezanniana. Ma sono i
girasoli la cosa importante.

- Id., Donne che si lavano, 1908-09.

Le donne sembrano quasi donne tahitiane, come quelle di Gauguin.


Dentro a questi rimandi importante è anche la scultura medievale lignea, e un legame con il legno come
nelle xilografie, tecniche che consentono di stampare, di scavare su una superficie lignea da inchiostrare
per avere una stampa. È qualcosa che viene dal passato, ripresa di elementi che fanno parte della memoria
che si vuole riportare in primo piano.

Importante la Germania come nazione altamente industrializzata, in cui naturalezza, individualità ed


espressività erano in realtà soppiantate dai valori della scienza e della tecnica. Quindi proprio questo, con
movimento enanziodromico, porta a una poetica neopositivista proprio con il “Die Brucke”. Lo si vede con i
dipinti, ispirati a soggiorni sulle rive del Mare del Nord, dove gli artisti menzionati si recavano a dipingere
come se si trattasse di una ritrovata Tahiti.

- E.L. Kirchner, “Fattoria a Fehmarn”, 1912.

Si sente un’aria cezanniana, van goghiana e una senz’altro presa da Munch. Una sintesi insomma.

- K. Schmidt-Rottluff, “Barche da pesca”, 1913.

Qui c’è una congiunzione tra Gauguin e Cézanne.

- O. Müller, “Coppia sulla spiaggia”, 1914.

Anche Otto Müller è stato un pittore che si è unito al gruppo del “Die Brucke”, era un po’ più vecchi degli
altri, ed è il pittore dell’esotismo europeo, rappresentato dagli zingari e dalle fanciulle zingare che ha
dipinto in tante occasioni.

In questo senso non va dimenticato che c’è sempre una dimensione moderna, una mediazione di carattere
critico e culturale.

- E.L. Kirchner, “Ragazza negra sdraiata”, 1910.

Ci troviamo di fronte a un’ennesima “Olympia”, che si rafforza attraverso una gran serie di corrispondenze,
di elementi che vengono portati dalle immagini. Lo stesso Kirchner scrive parlando si sé in terza persona:
“Kirchner, a Dresda, ... al Museo Etnografico trovò analogie con la propria opera nella scultura negra e nei
legni intagliati del Pacifico”. Prima l’interesse per la scultura lignea del Medioevo tedesco, poi per la
scultura lignea africana, o i legni intagliati del Pacifico. C’è sempre bisogno di trovare legami ad ampio
spettro, dando ovviamente a questi legami un pathos forte. Nel dipinto è chiaro, ed entra anche una sorta
di ironia che non è altro che forma di erotismo, lo si vede anche nel contrasto dei colori.

- E. Nolde, “Maschere e dalie”, 1919.

Altro artista che ha fatto parte del gruppo è Emil Nolde. Questo dipinto presenta delle maschere che
sembrano proprio riprendere quelle di Ensor. C’è anche in questo un legame con il grande pittore belga,
fonte al quale alcuni pittori del gruppo hanno guardato.

Dopo alcune mostre tenute a Dresda dal 1906, il trasferimento del gruppo a Berlino e la confluenza con la
rivista “Der Sturm”, “L’Assalto”. Comincia a uscire nell’ambito artistico il suo fondatore, H. Walden, come
promotore e direttore di mostre. Essendo la città ricca di industrie e attività, stare in quel mercato era
anche una possibilità di sopravvivere di più. Il trasferimento dalla culturale Dresda alla ricca Berlino appare
come un mettersi alla prova nella folla, nella modernità. Anche la città di Berlino diventa uno senario che
va riformato e rivisto da dentro.

- E.L. Kirchner, “Riva degli Angeli (Berlino)”, 1912.

Da proprio conto con questo dipinto, che rappresenta il centro di Berlino. È una città un po’ strana, sorge su
un arcipelago dalla confluenza di due fiumi, Sprea e Havel. È una città molto ricca d’acqua e anche
contornata da molti parchi. Uno strano luogo in cui forse gli espressionisti hanno visto un legame tra natura
e industria, una sintesi in termini vitalistici.

L’Espressionismo è stato un movimento che ha interessato la cultura tedesca nel suo complesso, non è
stato solo un movimento nell’ambito della pittura. C’è stata un’architettura espressionista con il grande E.
Mandelshon e con B. Taut, nel teatro con G. Hauptmann e F. Wedekin, nella musica con G. Mahler, nella
poesia con G. Heym, G. Trakl e G. Benn. Sono proprio questi nomi che fanno parte di un movimento
complessivo della cultura tedesca nel quale è entrato in queste istanze vitalistiche e di recupero delle
dimensioni profonde dell’io il cinema. L’Espressionismo tra le Avanguardie è la prima ad avere anche
questo nuovo linguaggio, la cinematografia e in questo contesto noi troviamo il famoso “Gabinetto del dr.
Caligari” di R. Wiene, che a tutti gli effetti sta nell’ambito della poetica espressionista. La vicenda di strane
questioni del profondo cui si legano le memorie di “Frankenstein”, del romanzo gotico e di altri aspetti di
Realismo, che costituisce un momento di collaborazione perché alcuni pittori lavorarono sul set
cinematografico dipingendo alcune scene dello spettacolo.

Possiamo associare il termine “divisione del mondo” all’Espressionismo. Tra i “Documenti” troviamo un
saggio di Kasimir Edschmid che parla dell’Espressionismo nella letteratura in una maniera talmente chiara
da potersi applicare anche alla pittura. Tra l’altro ricostruisce un itinerario che nasce dal Romanticismo al
tempo presente. Il “Die Brucke” è stata quindi un’esperienza decisiva nel contesto della letteratura
europea, e ancor di più in quella tedesca. L’Espressionismo ha poi avuto delle versioni in Belgio, Olanda, nei
paesi scandinavi e nell’area slava. È stato un vero e proprio movimento enanziodromico di riappropriazione
del vitalismo, anche alle volte di un certo irrazionalismo, che serve a far venire fuori quelle parti dell’essere
umano che non possono essere né rese né riportate soltanto nella logica dell’economico, dell’utile.

In questo movimento vediamo una sorta di analogia, anche se con strumenti linguistici diversi, nell’opera di
Pablo Picasso. Di fatto è l’altro grande esponente del Novecento, colonna del suo linguaggio. In lui va visto
un affermarsi dell’io moderno in una sorta di zenit operativo. Si è trattato di un esempio di pittura
multiforme, cerca di influire un poco sulle scelte che gli artisti hanno fatto non soltanto ad apertura del
Novecento, ma nell’intero secolo.

Quella di Picasso è una sorta di solarità che irradia, come quella della sua nativa Spagna. Era nato a Malaga
il 23/10/1881, la sua arte si irradia in una miriade di forme. Per usare una metafora che renda la miriade di
forme si possono usare le losanghe che compongono il costume di Arlecchino: Arlecchino è stata una
maschera che Picasso ha scelto fin da ragazzo, in una sorta di proiezione del proprio io.

Ebbe una formazione precocissima: il padre era un insegnate di arte, che seguì a lungo in giro per la Spagna,
dove veniva trasferito in vari luoghi per svolgere il suo mestiere. C’è stato quindi un contatto diretto fra il
giovane Picasso e tutta la memoria e il folklore della Spagna, che rimarrà in profondità. Per la familiarità
così precoce con l’arte Picasso si impossessò di tutte le tecniche possibili, è stato un grande virtuoso, una
specie di Mozart nell’ambito della pittura. Le cose più importanti le ha già dipinte quando aveva 13/14 anni.
Vive un bisogno di rapportarsi con la pittura in una forma di continua sperimentazione.

In Picasso si trovano in profondità l memorie, non solo nella Spagna ma anche nella grande pittura spagnola
da Velasquez a Goya, e anche l’assorbimento di tutta la vicenda pittorica che si è sviluppata dal
Romanticismo al Post-Impressionismo. Picasso è un simbolo dell’intero XIX secolo. Questi elementi e queste
convergenze si ritrovano nella sua produzione nel cosiddetto “periodo blu”, dall’apertura del Novecento
(1901) al 1905: sono gli anni in cui Picasso, dopo una lunga peregrinazione per la Spagna, si trasferisce a
Parigi. Questo “periodo blu” ci mostra queste sintesi.

- P. Picasso, “La vita”, 1903.

Si percepisce uno straordinario senso dell’umanità, altro aspetto della pittura di Picasso.
Dopo il “periodo blu” interviene il cosiddetto “periodo rosa”, dal 1905 al 1906. Parigino, è un periodo nel
quale Picasso ha familiarizzato con la città e ha assimilato tutto ciò che gli poteva offrire.

- P. Picasso, “Famiglia di saltimbanchi”, 1905.

È il dipinto culmine del “periodo rosa”. Importante perché è come se Picasso ci mostrasse una specie di
linea evolutiva: si va dallo scimpanzé - figura del Realismo, che rappresenta la natura così com’è - alla
riformulazione della vita attraverso la dimensione materna, il rapport madre-figlio. Sono tutte figure che
potrebbero essere scomposte in varie memorie, ma la cosa più importante è il padre, la paternità di
Arlecchino.

Arlecchino ha una specie di strano sguardo nei confronti di questo bambino: forse vede sé stesso in questo
bambino, ma soprattutto vede la multiformità. E questa multiformità ce l’ha nel suo stesso abito, nella sua
maschera: in questo dipinto ha una gorgiera, in altri dipinti ha anche il costume a losanghe. Ecco, in questa
gorgiera e nel costume a losanghe ci sia la multiformità del puer e la memoria del senex. Così l’io di
Picasso è composto in questo modo, come se fossero tante sfaccettature di tante memorie che si legano le
une con le altre. Però lo sguardo del padre s potrebbe dire quasi superiore a quello soltanto di carattere
naturale. Adombra una sorta di facoltà generatrice a quella della natura, è una sottospecie di io che sa
essere natura ma sa essere anche forma, sa essere presente ma sa anche essere passato, sa essere stasi ma
sa anche essere movimento.

In questo modo si muove Picasso, e lentamente tutte le sue memorie trovano un contatto, un rapporto,
diventano tante corrispondenze. Questa sovranità dell’io, questa capacità di trovare corrispondenze, di
essere sempre in fondo capace “non tanto di cercare, ma di trovare degli equilibri” si proietta nel dipinto di
svolta sia dell’opera di Picasso, sia dell’intero Novecento, “Les demoiselles d’Avignon”, del 1907.

- P. Picasso, “Les demoiselles d’Avignon”, 1907.

Viene proposto insieme a un “Autoritratto” di Picasso nello studio di Parigi. Anche qui l’energia fisica, un
dipinto nel quale ritroviamo una serie di memorie messe insieme. È un dipinto di sintesi, e tra le tante cose
che si possono ritrovare, dal punto di vista stilistico, le memorie della Spagna e in maniera particolare di
Barcellona. Dei pittori catalani primitivi del XII secolo sono stati messi in rapporto con le due figure di
fanciulle centrali del dipinto, in quanto si trova un’affinità stilistica evidente.

Insieme a questi Picasso mette anche le maschere africane, che aveva visto anche in fotografia e che
rimandano a certe maschere dipinte da Gauguin. Altro elemento importante da ricordare in termini di
ripresa e di astrazione volumetrica l’opera di Cézanne, “Le grandi bagnanti”. Proprio nel 1906 a Parigi vi era
stata una grande retrospettiva di Cézanne.

Tante memorie, si potrebbe aggiungere un’altra memoria, in lato a sinistra del dipinto vi è una mano che
sembra non appartenere a nessuno sembra una citazione delle fucilazioni de “Il 3 maggio 1808” di Goya
(1914), una memoria tipicamente spagnola. Tutto è insieme, ed è da notare anche la multiformità di punti
di vista che troviamo in questo dipinto, il discorso cezanniano che troviamo all’estremo. È l’astrazione
volumetrica di Cézanne, condotta a un livello di libertà assoluta, tanto che di una figura in basso a destra
posso vedere il corpo, la schiena - è una donna seduta che dà le spalle -, e appoggiata sulle spalle una
maschera, come se la testa della donna fosse al rovescio.

Questo punto, questo momento è del tutto essenziale, in quanto significa che viene completamente
infranta la gabbia, la finestra prospettica, saltano le proporzioni e le time proporzioni di carattere naturale
tra l’occhio e la realtà. Qui è la mente che ricostruisce completamente lo stesso campo visivo, crea nuove
sintesi plastiche, crea l’aumento della superficie plastica di un corpo, di cui io posso addirittura vedere le
facce opposte. Non potrei mai farlo ovviamente da un punto di vista naturale, invece Picasso crea questa
sintesi, così che il dipinto diventa un oggetto della mente e per la mente. Aumenta la superficie plastica
della rappresentabilità contemporanea di un oggetto. Si istituiscono dei piani all’interno di ogni oggetto, e
nello spazio esterno, che possono essere scomposti e ricomposti: l’idea è quella di una fisarmonica prima
chiusa e poi aperta.

- P. Picasso, “Fisarmonicista”, 1911.

Questa grande libertà la vediamo nella scomposizione di piani che ormai ha completamente superato il
bisogno di rappresentare a figura.

- P. Picasso, “Donna con ventaglio”, 1908.

Questo dipinto, rispetto al “Fisarmonicista”, ne è in un certo senso il trait d’union con “Les demoiselles
d’Avignon”. Là si ha la prima rottura di piani, nella “Donna con ventaglio” la scomposizione - da notare la
differenza che c’è nel livello di spalle per esempio, e il non sapere se la donna è seduta o i piedi. La libertà è
una libertà costruttiva totale, che poi Picasso sviluppa in questo “Fisarmonicista” liberandosi
completamente dalla necessità di rendere in maniera naturale o naturalisticamente il proprio oggetto. Così
tutto diventa possibile.

- P. Picasso, “Violino, bicchiere, pipa e calamaio”, 1912.

Dopo aver scomposto anche un ritratto - in quanto vi è una pipa che sembra retta da qualcuno; la figura
non è più visibile, ma viene scomposta in una quantità di piani - estendendo questa possibilità di costruire il
dipinto in tutti i modi, Picasso comincia a ingegnarsi anche con materiali che non sono propriamente quelli
della pittura. Dialoga con la realtà, si inventa la tecnica del collage, usando e prendendo oggetti dal mondo
esterno - per esempio, con i giornali di ritaglio crea una sorta di sintesi. È come se il costume di Arlecchino
avesse tante nuove losanghe prese direttamente dalla realtà, e Picasso ne è così consapevole da aver
addirittura poi concepito un nuovo dipinto.

- P. Picasso, “Natura morta con sedia impagliata”, 1912.

La sedia è una vera e propria sedia impagliata, anche se Picasso l’ha ricostruita apposta per avere questo
dipinto. Il quadro sembra essere come un oggetto e l’oggetto può diventare un quadro, quindi in questo c’è
una dimensione continua di sovrapposizione tra piani ed esperienza.

Di qui l’inizio del Cubismo, il cui senso è il metodo scompositivo, la scomposizione e la ricomposizione delle
cose. Ha avuto una prima fase di carattere analitico, dove Picasso ha mostrato quei giochi di piani, e poi è
diventato sempre più sintetico, sempre più si è liberato dalla sudditanza rispetto a un soggetto ed è stato in
grado di ricostruire formalmente tutto ciò che immaginativamente era in grado di progettare e costruire. Si
è occupato anche di scultura, ha proiettato questa sua libertà in maniera straordinaria su tanti altri
linguaggi. Con lui ci sono stati altri grandi pittori: il suo amico e “compagno d’armi” dei primi momenti del
Cubismo, Georges Braque, il quale è molto vicino anche formalmente alla pittura di Picasso.

Nei dipinti di Braque si riconosce però una concentrazione più dimessa, un maggiore intimismo, per cui è
più raccolto e portato a percorrere lentamente gli accostamenti che in Picasso sono più spericolati.

- G. Braque, “Natura morta con fruttiera”, 1908-09;


- G. Braque, “Valse”, 1912.

Riprende il dipinto “Violino, bicchiere, pipa e calamaio” di Picasso. Importante anche l’idea della musica, il
valzer e il violino, un po’ come se queste forme fossero messe sul pentagramma suonato dalla mente.
Anche qui c’è un processo di astrazione molto concreto, ci sono poi ancora aspetti di carattere materiale
molto tangibile.
In questa dimensione spesso ambigua entra un terzo artista, Fernand Léger, che ha fatto parte della triade
sacra del Cubismo agli inizi. Aveva fatto studi di architettura ed era quindi anche un progettista, ha lavorato
sulla poetica cubista con molta libertà anche messa in rapporto alle ricerche dei Futuristi italiani.

- F. Léger, “Soldato con pipa”, 1914.

Troviamo un Cubismo un po’ strano, ironicamente si parla di “forma di tubismo”. In ogni caso è un
linguaggio specifico e interessante, che ha anche un legame con le Avanguardie successive.

Per ultimo voglio parlarvi di Guillaume Apollinaire, grande poeta e critico, amico di Picasso, autore di un
saggio dedicato al Cubismo inserito nei “Documenti”, dove si danno anche certi principi del Cubismo. Si
crea con Picasso, Braque, Léger e Apollinaire un gruppo molto solido che domina nell’ambito parigino delle
ricerche, nell’ambito della pittura e che si impone come punto di riferimento obbligato, anche se poi
naturalmente ci saranno tanti altri rivoli del Cubismo, che prenderanno tanti altri orientamenti e creeranno
sintesi con tante altre Avanguardie.

17° Lezione del corso di “Storia dell’Arte Contemporanea” .


Oggi parliamo di un altro importantissimo movimento di Avanguardia, il Futurismo, che si sviluppa più
propriamente in Italia. Ma prima è necessaria una breve premessa sullo sviluppo della pittura italiana nel
corso dell’Ottocento, del XIX secolo.

Noi siamo giunti un po’ in ritardo nel parlare il linguaggio della modernità rispetto alla Francia per esempio.
Questo perché nel corso dell’Ottocento noi nella nostra pittura troviamo importante e veicolante il
principio di verità, un’istanza realista che si palesa a cominciare dai primi decenni del XIX secolo, e che ha
una sua fase importante di affermazione nella napoletana Scuola di Posillipo, in quella dei Fratelli Palizzi,
che sono esempi nei quali il vero e la rappresentazione della natura hanno un’importanza notevole. Queste
istanze di carattere realistico si trasferiscono in maniera particolare a Firenze, in Toscana quindi, e dopo il
1855 trovano una loro riformulazione importante nella cosiddetta toscana Scuola dei Macchiaioli, fiorita
intorno al Caffè Michelangelo di Firenze nel 1855.

Gli esponenti sono Giovanni Fattori, Silvestro Lega e Telemaco Signorini: importanti pittori - non solo
nell’ambito italiano, alcuni anche di livello europeo - che seguono alcuni ideali di Courbet e di Corot, e
progressivamente in una sorta di libero contrappunto con l’Impressionismo, danno al vero un’elevanza
straordinaria. Poi c’è una sorta di continuazione di una scuola italiana - che si rapporta sempre al vero - con
il Post Impressionismo, in cui si ritrovano anche elementi interessanti riguardo l’osservazione e l’invenzione
della natura, come se il principio di verità potesse essere riformulato in termini artistici più sofisticati.

Per quel che riguarda l’Italia, c’è stato un movimento artistico importante, il Divisionismo, corrente
sviluppatasi soprattutto nell’ultimo decennio del XIX secolo fra Milano e Roma, che riprende proprio istanze
post impressioniste di ricreazione del principio di verità su basi che sono più complesse di quanto non sia
solo l’osservazione del mondo. Ne sono protagonisti Giuseppe Pellizza da Volpedo, autore del “Quarto
Stato”, e altri quali Angelo Morbelli, Giovanni Segantini, Plinio Nomellini, che hanno proprio impresso la
svolta fortemente immaginativa alla realtà giovandosi di vari strumenti tecnici, tra cui anche il pointillisme
di Seurat e certe deformazioni di Millet e di Daumier. Il puntinismo di Seurat viene rielaborato dai pittori
divisionisti attraverso la stesura di fibre parallele in cui vengono scomposti i colori, per cui si ha anche il
gioco dei colori complementari, spesso la scomposizione e anche l’uso dei colori primari. Quindi uno strano
modo di rappresentare il vero attraverso degli strumenti che in realtà sono anche analitici, sembrano
strumenti di carattere scientifico. È un’immaginazione moderna, come se finalmente anche attraverso il
linguaggio del vero si arrivasse alla vita moderna, a tutte le suggestioni che la vita moderna ha comportato.
I divisionisti hanno spesso prodotto tele di grandi dimensioni, con effetti che ricordano in qualche misura
proprio “Una domenica pomeriggio sull'isola della Grande-Jatte” di Seurat, e anche certe suggestioni
realiste ma completamente rielaborate quelle di Millet e di Daumier. Il realismo è più sviluppato anche
nell’indipendenza creativa del pittore e anche nella pittura francese.

Per questo i divisionisti riesco ad arrivare a certi effetti di realismo visionario o empatico di importante
valenza, dandosi a una riformulazione del vero che sarà ripresa come punto di partenza dai futuristi. Non è
un caso che i circoli futuristi più importanti siano fioriti proprio a Milano e a Roma, le due capitali del
Divisionismo. Il Divisionismo appare quindi come antefatto del Futurismo italiano, e il cambiamento di
prospettiva della rappresentazione della vita lo si può avere a partire dalla messa a confronto del “Sole” di
G. Pellizza da Volpedo e la “Lampada ad arco” di G. Balla. Si capisce che ormai si è usciti dalla
rappresentazione del reale e si è fatto in continuità, attraverso la tecnica divisionista ricreata su una
dimensione di invenzione assolutamente soggettiva. Qui il tema dell’io subentra come punto di partenza a
mondo, quindi l’invenzione subentra alla rappresentazione della natura. Questo il punto essenziale del
Futurismo.

Da ricordare anche la trasformazione in senso moderno dell’arte italiana dovuto a fatti non solo legati alle
art, ma va soprattutto riportato lo sviluppo industriale che il nostro paese ha avuto nei primissimi anni del
XX secolo fino allo scoppio della Grande Guerra (1914 - Entrata in campo dell’Italia nel 1915). Dal 1903 al
1914 abbiamo l’Italia Giolittiana, c’è un forte sviluppo dell’industria sotto la grande ala protettrice di
Giovanni Giolitti. Un momento in cui l’Italia cambia: resta ancora in gran parte un paese agricolo, ma si
vengono a sviluppare le strutture industriali essenzialmente al Nord - latifondi, fabbriche, cantieri, porti -,
soprattutto nel grande Triangolo Industriale (Torino, Genova, Milano). Questo cambiamento è anche un
cambiamento della vita quotidiana, in quanto vengono costruite nuove infrastrutture - strade, ferrovie,
canali - per favorire la circolazione delle merci e il commercio. Si riforma e si intensifica la vendita al
dettaglio: cambiano i consumi e i costumi, il sistema della moda, si ha uno sviluppo anche culturale secondo
i novi canoni della modernità - quotidiani, riviste, libri, pubblicazioni di vaio tipo. Si crea un mercato della
stampa e si intensifica la fruizione dell’arte: aumentano i teatri, i luoghi di intrattenimento, gli spazi
espositivi, le arti. Ci si prepara ad avere una nuova organizzazione secondo i principi di domanda e offerta:
ciò significa creare un sistema della moda e del gusto collettivo.

Si ha anche un cambiamento dei valori estetici e culturali, si esce dalla torre d’avorio nella quale sembrava
che il bello finora fosse stato tenuto e ci si apre all’incontro con la folla. Qui la metafora di un incontro
serrato, continuo, da pittore della vita moderna, tra la cultura e quella società che il sociologo Gustave Le
Bon definiva la “società delle folle”. Qui il tema baudelairiano che ritroviamo, il tema della folla.

Folla non significa solo la folla delle strade, ma società che vive di grandi numeri per quel che riguarda la
produzione, il consumo, le comunicazioni di massa. Si sta creando una nuova condizione che influirà molto
su tutte le forme di espressione poetiche e artistiche, e il primo a capirlo è Filippo Tommaso Marinetti.
Marinetti è nato ad Alessandria d’Egitto nel 1876, ha frequentato le Scuole dei Gesuiti - scuole in francese,
aveva familiarità on la lingua ed era bilingue -, aveva un atteggiamento di carattere cosmopolita, era nato
nello stesso luogo di Ungaretti, e la città era luogo di grande scambio tra culture europee. Maturo, si
stabilisce in Italia, era appartenente a una famiglia ricca, e pensa che la cultura posa essere un affare,
un’impresa. Era un bravo poeta, viveva declamando i propri veri e quelli altrui, aveva una produzione anche
in lingua francese. Guardando i meccanismi della modernità, soggiornando nelle metropoli europee e negli
Stati Uniti, capisce che il nuovo artista può svolgere una nuova funzione di indirizzo sociale, può
condizionare il gusto e i consumi di massa, può porsi alla guida di qualsiasi trasformazione culturale.

Il fondamento per tradurre questa idea in pratica lo trova ne “il pittore della vita moderna”, punto di
riferimento così vicino alla cultura d’oltralpe, francese. Unisce gli ideali baudelairiani legati alla folla - intesa
come società - mettendoli insieme ad altro: dà una sua curiosa interpretazione del fanciullo nietzschiano,
vedendovi una sorta di punto di congiunzione tra la cultura umanistica tradizionale e quella delle macchine,
per creare nuovi simboli e rapporti. Questa svolta lo porta a polemizzare con alcuni simboli che erano
diventati un po’ obsoleti, i simboli di quel romanticismo deteriore che si appagava dei chiari di luna e dei
sentimenti buoni e struggenti. Marinetti dirà di voler “uccidere quel chiaro di luna”, uscire da quella cultura
sentimentale e romantica, volendo significare di separarsi da una cultura che non aveva fatto i conti fino in
fondo con la modernità.

Per fare i conti con la modernità lancia il Manifesto del Futurismo. È uscito in edizioni precedenti al 1909, la
data di uscita è il 20/02/1909 su “Le Figaro”, dove Baudelaire aveva pubblicato “Il pittore della vita
moderna”, Moreat aveva pubblicato il “Manifesto del Simbolismo”. Marinetti si pone nella nobile fila di
espressione della modernità. Aveva già pubblicato in italiano questo testo su giornali minori. L’entrata sulla
scena internazionale sancisce nel 1909 la nascita del Futurismo. Il Manifesto tesse l’elogio della scienza,
della tecnica, della velocità, e di ogni dinamismo meccanico, ma anche della lotta per l’esistenza, dello
sport, dei record e dei viaggi. La modernità diventa una specie di modello di cui la macchina è l’essenza,
l’automobile che secondo Marinetti era più bella addirittura della “Nike di Samotracia”.

In questo una riforma estetica radicale. Sa di dover parlare in modo estremo per farsi sentire, e talvolta
eccede, però gli intenti sono meditati, ed essendo un uomo ricco, l’arte poteva diventare una buona forma
di investimento economico. Serviva anche un linguaggio che Marinetti non padroneggiava, ma che sentiva
importante nel contesto della “società delle folle”, cioè le immagini. Si dà da fare per radure la sua creatura
intellettuale, cioè il Futurismo, anche in pittura, nelle arti plastiche e nella grafica. Aveva tanti rapporti per
la sua posizione, e senza dimenticare anche gli altri linguaggi - la musica, il teatro, l’architettura -, si
concentra sulla pittura nell’ambiente divisionista milanese e in quello romano.

Dopo vari incontri, e una selezione quasi naturale, ci sono cinque pittori che si dicono disponibili a formare
l’autentico “Manifesto dei pittori futuristi”. Questo manifesto viene pubblicato l’8/03/1910 sulla rivista
“Poesia”, di cui Marinetti era fondatore e produttore. Questi magnifici cinque erano Umberto Boccioni,
Carlo Carrà, Gino Severini, Giacomo Balla e Luigi Russolo. I primi pittori, sono tutti pittori che avevano già
avuto un’esperienza nell’ambito del Divisionismo. Nel “Manifesto dei pittori futuristi” del 1910 - che
troviamo tra i “Documenti” insieme al “Manifesto del Futurismo” di Marinetti - si leggono delle conclusioni
dette “recise” (slide 33). Emerge un propulsivo di ribellamento, e fondamentale risulta essere il punto 8:
“Rendere e magnificare la vita odierna, incessantemente e tumultuosamente trasformata dalla scienza
vittoriosa.”. Allora qui c’è un tentativo di superare la modernità attraverso un’iper-modernità. L’elemento
enanziodromico del Futurismo è proprio quello di tornare - non per difetto, ma per eccesso - padroni della
realtà, impossessarsi soggettivamente di quell’oggetto meccanico che sta diventando il mondo. In questo
vediamo un’affermazione forte dell’io moderno; è uno strano movimento enanziodromico - bisogna capire
cosa si intende quando si parla di “futuro” -, ma è soprattutto una riscossa della soggettività contro
l’oggettività di un mondo eccessivamente strutturato nel contesto dell’industria.

Qui il gioco è molto rischioso, baudelairiano, di “rospi e lumache”, con il quale bisogna confrontarsi,
sapendo che in questi “rospi e lumache” stanno i principi di un nuovo mondo che si sta realizzando.

Umberto Boccioni è uno dei promotori essenziali del Futurismo. Dalla natura, concepita come modello, alla
forma, concepita come invenzione - l’io da forma alla natura.

- U. Boccioni, “Officine a Porta Romana”, 1908.

Dipinto ancora divisionista, dove possiamo vedere ancora la dimensione dei colori: a destra, dove ci sono le
ombre, si vedono benissimo i colori primari del rosso e del blu e del giallo; l’erba risulta divisa. Si tratta di
fibre e non di puntini, come nel caso di Seurat: i colori sono tutti scomposti, ma a colpo d’occhio generale
sono composti. C’è anche un latro messaggio di carattere contenutistico: qui siamo a Milano, culla del
progresso industriale italiano, di fronte a Porta Romana, tra le fabbriche si nota come la città diventi cornice
della natura. La forma sorge e tiene dentro di sé l’equilibrio naturale, con la trasformazione della luce che
abbiamo visto tra Da Volpedo e Baldi. Boccioni arriva inoltre a una sottigliezza intellettuale che consiste nel
dipingere anche la luce: sembra ci siano dei fili di pioggia sulla destra, ma in realtà si tratta di un modo di far
vedere la luce. Nella concezione futurista tutto è luce e materia-luce, tutto si muove e tutto è un unico
impulso, un unico divenire di cui l’artista è parte ed è promotore.

- U. Boccioni, “Autoritratto”, 1908.

Era un uomo molto impetuoso, nato nel 1882, avrà proprio a Milano e a Roma la scena del so lavoro e della
sua affermazione. Nell’autoritratto lui stesso è tra le case, in una situazione dove la natura sembra non
esserci più, sembra sia rimasta soltanto la forma.

- U. Boccioni, “La città che sale”, 1911.

Una sorta di manifesto del Futurismo esplicitato. Abbiamo la forza travolgente del cavallo, l’impulso che si
trasforma in costruzione, l’energia, e nel mentre abbiamo questo divenire che travolge gli uomini in basso,
e abbiamo la città che si innalza. È una sorta di movimento in orizzontale e in verticale, tutto viene preso
all’interno del movimento convulso. Così si “uccide il chiaro di luna”, tutte le romanticherie e tutte le cose
che in un certo senso sono diventate obsolete.

A questo punto la riforma attraverso l’estetica della macchina, nel movimento, Boccioni ripassa tutte le
questioni affrontate nella pittura negli ultimi decenni.

- U. Boccioni, “La risata”, 1911.

Riformula l’Impressionismo nei suoi movimenti meccanici. Troviamo una riformula delle istanze
impressioniste, come ne “Il bar delle Folies-Bergère”.

- U. Boccioni, “Gli addii”, 1911.

Dinamizza e aumenta la superficie plastica, aumento prodotto dai pittori cubisti, rendendo simultanei più
punti di vista. Nell’asse centrale, sulla destra, è possibile vedere il numero “6943”, che è quello stesso della
locomotiva che viene verso sinistra (v. immagine). Poco sotto quel numero, sulla sinistra, si trova una punta
di triangolo, che è la punta di un altro treno che viene verso destra (v. immagine). Infine il fumaiolo
centrale, appena sopra il numero “6943”, è un treno che sta venendo verso di noi (v. immagine). È la
scomposizione cubista fatta attraverso una forma di dinamismo. Un’estensione in senso dinamico
dell’aumento della superficie plastica dei pittori cubisti.

Ciò non basta a Boccioni, il suo impulso lo portava talmente verso la realtà da voler poi intraprendere
addirittura la via della scultura, per intraprendere lo spazio reale.

- U. Boccioni, “Forme uniche nella continuità dello spazio”, 1913.

Costituiscono quella scultura che abbiamo sulla monetina da 20 centesimi. Costituisce una sintesi di
superfici concave e convesse, come se ci fosse un movimento rappresentato in sé stesso. Anche qui sembra
il corpo umano che si trasforma nel suo stesso movimento, vengono aboliti gli elementi di spazialità tra ciò
che sta fermo e ciò che si muove, tutto si muove insieme. La parte alta non è una testa, al massimo è l’inizio
di una testa: ciò che conta è il movimento, come se noi vedessimo i muscoli stessi di questo corpo.
Fondamentale è il legame con lo sfondo, il tema dell’interno e dell’esterno di un movimento, in una
dimensione chiaramente non più solo di carattere naturalistico, ma è una “quarta dimensione”, o una
dimensione nella quale c’è una fisica differente, quasi paradossale, materiale e immateriale insieme. Di qui
l’accostamento ai dirigibili (v. immagine), grandi forme plastiche che erano in grado di sostenersi nell’arai.
L’io diventa quindi padrone di sé, anche al di là della forza di gravità, è un io che ha la capacità di ricreare
tutto quanto secondo il proprio arbitrio, la propria invenzione, la tensione continua a trasformare ciò di cui
posso avere il dominio.

- U. Boccioni, “Cavallo+Cavaliere+Case”, 1914.

Scultura polimaterica, sintesi di cavallo, cavaliere e case. Anche qui la strana forma sembra sostenersi quasi
da sola, se ci si mettono quattro ruote sembra venir fuori una Smart, perché in realtà anche l’automobile, la
macchina come noi la conosciamo, non è che proiezione di queste idee futuriste. È una scultura
polimaterica che si muove in una sua dimensione di velocità tra il cielo e la terra. Forse tra le follie futuriste
ce ne sono però alcune che sono in realtà trasdotte in oggetti che fanno parte della nostra vita.

Questo dato importante è qualcosa che noi ritroviamo anche nella poetica futurista, come viene poi
interpretata da altri pittori oltre a Boccioni. Entra anche Carlo Carrà, un altro dei cinque firmatari del
“Manifesto Futurista”. È sato un artista molto attento al mestiere, il cui spirito avanguardista si è proprio
legato a un culto minuzioso della tradizione. Sarà tra i sostenitori del bombardamento di Venezia e della
distruzione di musei, ma in realtà questo suo modo di porsi al passato è un modo di opporsi a una
concezione del passato scontata, a dei modi di vedere il passato diventati obsoleti. È un modo per poter
liberare il passato, e qui il Futurismo rivela una faccia nuova: non è soltanto porsi verso il futuro, ma è
anche, attraverso questa incandescenza operativa, saper recuperare del passato ò che è ancora valido.

Nei pittori futuristi ci sono quindi degli elementi che sembrano contradditori ma che sono in realtà di
complemento l’uno all’altro. Tornando indietro e vedendo quelle “Forme uniche nella continuità dello
spazio”, somigliano proprio alla “Nike di Samotracia” alla quale Marinetti aveva preferito l’automobile.
Anche quindi nel Futurismo ci sono diverse prospettive di carattere operativo.

Carrà riscoprirà la tradizione attraverso il Futurismo, e uno dei suoi principi era anche quello di riuscire a
coinvolgere lo spettatore, a riportarlo al centro dell’opera. Questo per lui si legava ai grandi affreschi
rinascimentali, di ci troviamo il risultato ne “I funerali dell’anarchico Galli” (1912).

- C. Carrà, “I funerali dell’anarchico Galli”, 1912.

Sembra di essere presente sembra ci sia un coinvolgimento, una presenza dello spettatore nella vicenda,
come se fosse un passo dentro nella realtà.

- C. Carrà, “Ciò che mi ha detto il tram”, 1912.

Nelle opere di Carrà c’è sempre una gran rifinitura. Si nota il tentativo di mantenere una stabilità classica,
una sorta di classicismo a contatto con il vero, con la modernità. Non è un caso che proprio questa
inclinazione abbia portato Carrà a trasformarsi da pittore futurista ad alfiere della pittura metafisica.

- C. Carrà, “Donna al balcone”, 1912;


- C. Carrà, “Galleria di Milano”, 1912.

La capacità di esprimere questo ideale plastico permane. Anche qui si nota la moltiplicazione dei piani, la
superficie plastica tipica dei cubisti, e una composizione elastica, stabile e dinamica. C’è un nuovo
classicismo, per cui i futuristi, che vorranno trovare un loro spazio rispetto ai cubisti, diranno proprio di
avere questa capacità di riuscire a dare una plastica del movimento e non soltanto una dimensione stabile,
quindi una dimensione un po’ astraente come in certe opere di cubisti (Picasso).

Ancora, oltre a queste due opere, troviamo qualche altro esponente dell’avanguardia futurista. Gino
Severini, pittore di grandissima qualità, anche lui firmatario del “Manifesto del Futurismo” del 1910.

- G. Severini, “Boulevard”, 1911.


Compare il tema della folla. C’è un preziosismo straordinario. Si trasferisce a Parigi alla ricerca di un
linguaggio che sia lirico, incantato appunto, ma sempre a contatto con la vita moderna. Severini, essendosi
stabilito a Parigi già nei primi del secolo, diventerà anche il tramite per un famoso “sbarco dei futuristi” nel
1912, occasione nella quale viene scattata una famosa foto (inizio del PowerPoint “Capitali d’Industria”).
Nella foto, sui marciapiedi ci sono Marinetti e gli esponenti del Futurismo, dalla sinistra Russo, Carrà,
Marinetti, Boccioni e Severini; manca soltanto l’ultimo, Giacomo Balla.

Giacomo Balla è il pittore più anziano nel contesto del Futurismo, quello più scafato e navigato. Aveva già
avuto un’intensa militanza nell’ambito del Divisionismo. Era piemontese di origine, ma lavorano si sarebbe
poi fermato a Roma, frequentando il futurismo romano.

- G. Balla, “Mercurio passa davanti al Sole”, 1914;


- G. Balla, “Mani del violinista”, 1912;
- G. Balla, “Volo di rondini”, 1913;
- G. Balla, “Canto patriottico”, 1915.

Compaiono elementi cinetici. L’ultimo, in estrema sintesi e con riferimenti ancora liberty.

- G. Balla, “Compenetrazione iridescente”, 1912.

Balla aveva una sua mentalità analitica, quindi dipinge anche delle sequenze cromatiche. Mette quindi
sempre insieme un insieme di linguaggi, con finalità multiple.

Tra l’altro Balla lancerà con Fortunato Del Piero un manifesto, “La ricostruzione futurista dell’universo”, si
prodigherà molto anche nell’ambito delle arti applicate: dipingerà stoffe, farà sculture per decorazioni
interne plastiche, progetterà mobili. Si tratta di un Futurismo che vuole essere parte della realtà. Questo
ideale sinestetico, che prende dentro tutte le forme di percezione, dal greco “aisthesis”, cioè “percezione
sensibile”, quindi tutte le percezioni, tutti i sensi rappresentati nell’arte.

- L. Russolo, “Intonarumori”, 1912.

Si trova anche in questo Luigi Russolo, il meno noto tra i pittori futuristi, che sviluppò la sua attività anche
con questo “Intonarumori”, una macchina infernale che produceva questi primi suoni che non ci sono in
natura. È il primo sintetizzatore, un modo per ampliare la superficie plastica dell’udito. In un latro
linguaggio ritorna quella dimensione di aumento del plasticismo che si trova nei cubisti come nei futuristi.

- C. Carrà, “Manifestazione interventista”, 1915.

Ritroviamo questo stesso ideale anche nel collage prende a prestito dai cubisti, ma che poi in realtà riversa
nella sua opera. Sopra ci sono proprio delle scritte, si sentono proprio i rumori di questa manifestazione.
Quindi un collage verbo-visivo che amplia proprio qui il linguaggio dell’arte futurista.

18° Lezione del corso di “Storia dell’Arte Contemporanea”.


Dunque il Futurismo risulta essere un’avanguardia multiforme. La pratica futurista dell’arte investe molti
generi e linguaggi, e ha un carattere specifico nel contesto delle avanguardie del primo Novecento, che è il
coinvolgimento della società nella partica dell’arte. È quindi un’avanguardia di carattere sociale,
progettuale. Per riassumere la questione, il pittore della vita moderna si trasforma nel Futurismo in senso
intersoggettivo. Il pittore della vita moderna diventa la società stessa nel suo insieme. Ecco perché questa
società va rinforzata, aggiornata e trasformata nei suoi gusti, nelle sue pratiche, nei suoi fini.

La ragione dei tanti manifesti futuristi, conseguiti al “Manifesto dei pittori futuristi”, che hanno davvero
riguardato tutti i meccanismi della comunicazione. Ci saranno un manifesto della fotografia futurista, che
farà Anton Giulio Bragaglia, manifesti fatti da Enrico Prampolini, e un manifesto importante
dell’architettura futurista, che raccoglie tutti gli altri. In fondo l’architettura è l’arte fondamentale per la
società, ed è stato Antonio Sant’Elia nel 1814 a pubblicare in varie sedi, ma principalmente nella rivista
“Lacerba”. Qui compaiono i progetti di Antonio Sant’Elia (v. immagini), quale la città nuova, questa stazione
che in realtà mete insieme treni, centrali elettriche, e dietro l’ipotesi di una pista di decollo, come fosse un
aeroporto. Siamo in anticipo sui tempi per quel che riguarda il volo, ma comunque l’idea è quella di mezzi di
trasporto che si intersecano gli uni con gli altri. Nel progetto sulla destra, quello della città nuova, l’idea
della città multipiano: più sedi, più reti stradali, qualcosa che è oggi realizzabile. Si vede anche qui un
aumento della superficie plastica, un dinamismo di piani che qui sono piani stradali. Tutto lo spazio viene
aperto, animato, scomposto e ricomposto secondo un modello prefigurato che è quello della “Città che
sale” di Boccioni.

- “Capitani d’industria” - U. Boccioni, “Caricatura di una serata futurista”, 1911.

La società come pittore della vita moderna nelle sue funzioni, questa idea stava già nel modo in cui i
futuristi si rapportavano al loro pubblico. Qu si notano tutti gli esponenti del Futurismo che sembrano quasi
fare una danza tribale, ognuno declama i propri versi e dietro un’orchestra. Il pubblico si scandalizzava.
C’era anche il lancio di ortaggi, un conflitto di ortaggi tra i futuristi e la Repubblica. Questo fatto
apparentemente solo goliardico sembra in realtà un modo per annunciare l’interattività dell’opera d’arte.
L’opera d’arte non sta ferma, non è chiusa, non è sopra un piedistallo. Il pubblico è parte integrante
dell’opera, e l’opera va verso il pubblico; si parla quasi di una sorta di architettura antropologica
fondamentale, che viene poi sviluppata nell’architettura futurista.

Questo legame con la società lo si rileva tra l’altro anche in termini storici per il fatto che il Futurismo fu
congiunto alla nascita di due movimenti politici opposti: in Italia il Fascismo - Marinetti entrò nei Fasci d
combattimento fondati a Mussolini a Milano nel 1919 -, e lo stesso fu influenzato dalle tesi futuriste circa la
questione del popolo, della società, che diventa protagonista e padrona della propria storia. Il primo a
parlare dell’Impero Romano fu proprio Marinetti, come modello che verrà poi ripreso dal Fascismo stesso,
come progetto. Quel popolo viene da “Il pittore della vita moderna”, riformato come volevano Marinetti e i
futuristi.

Il Futurismo interagì poi con il Bolscevismo, ecco perché anche qui vi fu un’avanguardia futurista che in
realtà prese spunto da alcuni passaggi del manifesto di Marinetti, ma che fu poi in realtà sviluppato in alto
modo e senza più un legame con il Futurismo italiano, anzi in Russia si parla di “incubo Futurismo” e di
altro. Per l’idea era anche lì quella di riformare la società in senso rivoluzionario. La matrice sociale del
Futurismo venne poi interpretata in modi addirittura opposti: in chiave rivoluzionaria-conservatrice nel
Fascismo, rivoluzionaria-innovatrice nel Bolscevismo russo.

Qui va sottolineato ancora il moto enanziodromico del Futurismo come opposizione a un’iper-modernità
dell’esistenza, e anche quel voler distruggere il passato diventerà un modo di liberare la memoria da un
passato obbligatorio, da un’idea di tradizione del tutto accademica, irrigidita.

Nel contesto del Futurismo italiano vi è un contesto che si conosce poco, una sorta di “futurismo nel
futurismo” che si è dato nella città di Firenze - le capitali sono state Milano, con la rivista “Poesia”, con
Boccioni, Carrà, Russolo, e Roma, con Balla. Le due capitali inziali sono queste, la terza è Firenze, con un suo
Futurismo speciale, creato da Giovanni Papini e Ardengo Soffici, che danno vita alla rivista “Lacerba”. Il
titolo rimanda a “lacerbo”, il “cumulo delle cose”, porta dentro di sé una quantità di cose. Pratica la teoria
baudelairiana della “congestione” per poter arrivare poi alla creazione tipica di corrispondenze che facciano
digerire gli elementi interiorizzati, in modo da trovare nuove forme. C’è una dimensione inclusiva ne
“Lacerba”, che viene promossa da Papini e Soffici. Il primo era un letterato, il secondo un letterato e un
pittore, sia l’uno sia l’altro, con il concorso di un altro toscano, Aldo Palazzeschi, a un certo punto dopo aver
aderito al Futurismo si staccheranno dal Futurismo marinettiano o “Marinettismo”, al quale opporranno un
loro Futurismo.

Ciò compare nel 1915 nella rivista “Lacerba”, con una polemica interna al Futurismo. Il cambiamento
consiste nello spostare il dinamismo meccanico, cinetico, basato sul movimento fisico, in una dimensione
interiore “in interiore homine”. Ciò significa cogliere che una velocità possa essere anche psichica, non solo
fisica. Cò significa fare ricorso alla memoria, avere la libertà di attingere alla memoria indipendentemente
dal tipo di passato che si vuole considerare come la tradizione. La tradizione non è mai data, il vero
tradizionalista è un anti-tradizionalista, riforma costantemente la tradizione. I “lacerbiani” Papini, Soffici e
Palazzeschi sostengono proprio questo. Verranno a dire che il passato non esiste, ma non nel senso che non
esista, quanto piuttosto che il passato è il passato che noi ci costruiamo. È evidente che è anche l’avvenire
che noi ci costruiamo attraverso la scelta di questo passato.

Per l’artista questo è fondamentale, può trovare nel passato gli stimoli che gli servono per agire nel
presente e quindi verso il futuro. Questo è il dato: la macchina cambia in un ragionamento di simultaneità,
di forme percepite contemporaneamente, e questo significava in Firenze fare i conti con la tradizione
rinascimentale, cioè poter sentire quel passato come un presente, poter riportarsi ai grandi modelli
rinascimentali traendone gli elementi essenziali per il presente. Di qui la possibilità di poter raggiungere
tutte le epoche sentendole come contemporanee. Giuseppe Ungaretti diceva che c’era stata una “scuola
della Lacerba” in questo senso, di questo metodo, della contemporaneità, della prossimità, dell’anti-
accademismo.

Rapporto con questo gruppo radicato - e in particolare con Soffici - lo avrà un critico, Roberto Longhi, che si
occuperà di rinnovare la tradizione e in particolare la stessa forma della storia dell’arte italiana,
avvicinandosi alle opere, rileggendole, trovando in queste gli estremi di valore, non di distanza e di
celebrazione di forme di bellezza, ma proprio il loro dato ancora attivo nel presente. Quindi proprio la
presenza nella memoria, nel tempo, nella vita in continuo rinnovamento.

È proprio interessante il fatto che, da quella polemica che si consuma nella rivista e vede questi artisti
opporsi al Futurismo tutto meccanico di Marinetti, a quella lentamente aderiranno due fondatori storici del
Futurismo, Carlo Carrà e Gino Severini. Questi verranno proprio a sposare la concezione “lacerbiana” del
passato come qualcosa che viene completamente ricreato. Carrà era di sua natura già un classicista, un
uomo che cecava la forma classica della macchina. Così lentamente Carrà verrà a riconsiderare la
tradizione, uscirà dal Futurismo trattando di Giotto, di Paolo Uccello, dicendo che quelle forme di pittura
non erano affatto finite, non erano affatto confinate nel passato, ma che egli le sentiva in sé, come dei
modelli fertilissimi che potevano essere riportati fino al presente. Questo Futurismo trasforma così la
velocità meccanica in una velocità psichica.

Questa idea avrà la capacità di influire fortemente sulla pittura attraverso la Grande Guerra e nel periodo
dopo la guerra. C’è quindi anche questo Futurismo fiorentino importante. Troviamo una serie di immagini
montate in maniera didascalica: la “Nike di Samotracia” in rapportato alle “Forme uniche nella continuità
dello spazio” di Boccini. Sulla destra “I funerali dell’anarchico Galli” di Carrà, messi in contatto con la
“Battaglia di San Romano” di P. Uccello, che tra l’altro era uno dei suoi modelli. Compare anche un numero
della rivista fiorentina “Lacerba”, che esce dal 1913 al 1915. Carrà si stacca dal futurismo meccanico, come
anche Gino Severini.

- G. Severini, “M.me S.”, 1915.

Madame S. sarebbe Madame Severini, che sarebbe l’amatissima moglie di Severini dipinta in una
dimensione cubo-futurista.

- G. Severini, “Maternità”, 1916.


Il pittore è lo stesso del primo dipinto, anche se non sembra. Lo capiamo dalla velocità psichica, sembra
quasi citare alcuni modelli della pittura toscana del Quattrocento. In questo senso sembra esserci un
movimento di contemporaneità, possiamo capire che cosa ha significato il Futurismo e non è un caso
trovare sulla sinistra una delle prime opere di Roberto Longhi, grande storico dell’arte, pubblicata per la
libreria della “Voce” a Firenze nel 1914, “Scultura Futurista Boccioni”. È proprio un punto fondamentale,
l’interpretazione di quel futurismo mentale, di quella dimensione psichica che metteva a contatto tra loro le
forme anche nella tradizione.

Da ricordare che è interessante come anche nella remota Russia si possano vedere i segni di un Futurismo
che torna al passato. Importanti sono Vladimir Majakovskij, grande poeta, artista visivo, pittore e grafico, e
Kasimir Malevič, altro grande esponente pittore dell’avanguardia russa di provenienza futurista.

- V. Majakovskij, “Mistero buffo”, 1918.

Testo teatrale che ha queste immagini di sua mano.

- K. Malevič, “Donna con secchi”, 1912.

Rapporto con la tradizione delle icone.

Importante anche il grandissimo A. Rublëv, che fa la “Trinità”, opera del 1911, anche questa è stata la
contemporaneità del Futurismo, interessantissimo il movimento di avanguardia.

Per completare questo quadro, iniziato dallo scoppio della Grande Guerra fino ai primi anni del
Dopoguerra, bisogna ricordare anche un’altra opera.

- “Almanacco del Cavaliere Azzurro”, 1912.

Questo clima riassume un versante particolare dell’Espressionismo tedesco, che fiorisce non a Berlino o a
Dresda, ma a Monaco di Baviera. Qui troviamo radicata quest’altra avanguardia, che ha come grande padre
un russo, Vasilij Kandinskij.

Vasilij Kandinskij era nato a Mosca nel 1866, ha avuto una fase nella quale non pensava di dedicarsi
all’arte, ma agli studi di diritto, poi a un certo punto è stato come folgorato, fulminato, e avrebbe deciso di
darsi alle arti, unico modo in cui lui poteva esprimere sé stesso. Era tra l’altro di famiglia ricca, aveva potuto
soggiornare a Parigi, aveva visto le opere dei fauves era stato a Berlino e aveva visto anche i circoli
espressionisti, si era già contaminato di questi nuovi linguaggi.

- V. Kandinskij, “Il cavaliere azzurro”, 1903.

Però qui ci sono dei fatti che ci interessano anche dal punto di vista diacronico. Allora, per quel che riguarda
il “Cavaliere Azzurro”, il colore azzurro Kandinskij lo porta deliberatamente, lo dichiara così essere
“l’interno delle chiese ortodosse russe, il velo celeste della grande Sofia celeste, della madre del Cristo, che
attraverso quel colore si manifesta come luce”. Quindi l’idea dell’azzurro è già una suggestione di carattere
metafisico: lega il colore alla Sofia celeste. Questa è già un’indicazione, che indica come per Kandinskij il
rapporto con l’arte sia un rapporto moto complesso, quasi metafisico.

Poi però sente in questa dimensione tradizionale - come quella della chiesa ortodossa russa - come un
qualcosa che viene dalle opere di Wagner, dalla “Cavalleria spirituale”: il cavaliere errante che cerca il vaso
della saggezza, della sapienza. Questo elemento si attiva in Kandinskij proprio per aver sentito delle opere
di Wagner, in particolare il “Lohengrin” - storia del cavaliere del Graal - lui dice di averlo sentito a Mosca nel
1895, proprio quando gli era capitato di vedere una mostra dei “Pagliai” di Monet. L’astrazione cromatica
dei “Pagliai di Monet fa vedere a Kandinskij una vita del colore, dei riflessi azzurri che sono anche i riflessi
dei colori fondamentali che usava Monet, che gli fanno risuonare i colori delle chiese ortodosse, come se ci
fosse una specie di trasformazione del simbolo della Sofia cosmica e della luce de Cristo nei colori primari. È
come se lentamente si mettessero insieme le cose, e l’artista diventerà il cavaliere di quell’azzurro, il
cercatore, colui che tenta di dare forma a questi colori.

Questa sintesi gli ha consentito di conoscere nella pittura non solo un modo per realizzare sé stesso, ma
anche la sua anima. Si trasferisce a Monaco di Baviera agli sgoccioli dell’Ottocento e qui comincia a
elaborare una visione dell’arte che poi darà in forma compiuta nel saggio “Dello spirituale nell’arte”
(1911). Qui comincia a interagire con il clima di carattere espressionista, ma ne riprende proprio gli estremi
intermedi, un Romanticismo che non ha assolutamente niente di sentimentale, ma che rivede e riconsidera
le teorie per esempio di Goethe sui colori - l’esistenza dei colori che sono al di là della natura. Usare i colori
significa quindi qui straformare sé stessi attraverso il colore stesso in una sorta di metamorfosi interiore,
che rende l’artista indipendente da qualsiasi stato di natura, da qualsiasi dato esterno.

È una specie di astrazione dove noi vediamo l’io moderno “farsi azzurro”, farsi centro di gravità
permanente, autonomia permanente, autonomia operativa, il senso spirituale in cui Kandinskij trasforma
l’io moderno. Su questi principi Kandinskij comincia a praticare un’arte che fonda sul concetto di
improvvisazione, mutuando il termine dalla musica con opere nelle quali il riferimento al mondo esterno è
progressivamente rimosso. L’idea è quella di chi entra nell’acqua del mare: entra dalla spiaggia, cammina
sul fondo - c’è ancora un contatto con la realtà -, ma poi più l’artista procede verso l’alto mare più deve, per
non annegare, perdere il contatto con il fondo e imparare a nuotare, cioè essere libero. Questa dimensione
per Kandinskij è il colore, il puro colore. Questo è il dato essenziale, si può dipingere attraverso il puro
colore.

Si assiste a una metamorfosi nelle opere di Kandinskij.

- V. Kandinskij, “Il cavaliere azzurro”, 1903;


- V. Kandinskij, “Nei dintorni della città”, 1908;
- V. Kandinskij, “Pentecoste”, 1910;

Si ha una trasformazione impressionista, ma sempre più autonoma. Nella “Pentecoste” (1910) compaiono
addirittura simboli di carattere religioso, il cavaliere porta una spada che sembra una croce, un
cristianesimo mistico, e alle spalle sembra di vedere delle mura, si assiste a una trasformazione della
memoria e della realtà.

- V. Kandinskij, “Improvvisazione V”, 1911.

Si arriva a un’opera compiutamente e assolutamente astratta. Tuttavia non c’è in Kandinskij niente di
casuale, egli ha conosciuto, letto e apprezzato l’insegnamento dell’antroposofo Rudolf Steiner, che proprio
in Monaco di Baviera aveva uno dei maggiori luoghi di predicazione. Steiner è una figura decisiva anche per
la formazione di Kandinskij, proprio perché Steiner teorizzava il colore come fondamento cosmico. È
proprio come se i colori fossero le energie essenziali da cui il cosmo è stato e viene continuamente creato, il
corpo umano stesso è fatto di questi colori fondamentali. La riflessione sui colori si fa sempre più pura e
autonoma. Steiner riportava addirittura i colori alla creazione di corpi che vengono dalle più alte entità
dell’universo, create sui pianeti del sistema solare.

Interessante questo edificio, il “Goetheanum”, che sorgeva a Dornach, vicino a Basilea. Si chiama così in
onore di Goethe, che Steiner vedeva come profeta di una nuova concezione dell’universo, e che aveva
all’interno una specie di sala della creazione dove appunto si trova una teoria di colonne corrispondenti ai
pianeti del sistema solare. Si comincia da Saturno, Sole, Luna, Terra - sulla Terra si aggiunge un principio
energetico, che è l’Io - poi si riparte per Giove, Venere e Vulcano. Come se ci fosse in questo una trafila
cosmica. Sulla Terra in particolare Steiner dava una sua lettura del Cristianesimo, la discesa di Cristo faceva
sì che nell’anima dell’uomo si accendesse una facoltà espressiva che proprio nel colore aveva la capacità di
trasformare sé stessa e il mondo, in modo da poter procedere in senso sempre più spirituale. Questo
secondo Steiner era l’io, quindi l’esercizio del colore era proprio un esercizio di trasformazione, di
metamorfosi di sé stessi.

L’idea fondamentale, questa dimensione cosmica del colore, questi involucri di corpi che vengono creati e
che diventano proprio la sostanza stessa di cui noi siamo composti, questa idea viene sposata in pino da
Kandinskij, che tra l’latro pubblica proprio l’“Almanacco del Cavaliere Azzurro” (1912). Dopo aver
pubblicato il saggio “Dello spirituale nell’arte” (1911), questa nuova edizione, fatta insieme all’amico e
pittore Franz Marc, e anche con August Macke e Paul Klee - tutti e tre sono pittori -, in questo noi
ritroviamo di fatto una filosofia del colore che in gran parte è presa proprio da Steiner. Siamo nel 1912, lo
stesso anno nel quale Steiner dà l’annuncio di quella che lui chiamava “Antroposofia”, ovvero questa
concezione cosmica dei corpi, dell’uomo e del sistema solare. È una dimensione nettamente metafisica, un
punto di apoteosi dell’io moderno, che ci interessa perché ribadisce una certa forma di sincretismo, in
quanto ci sono dentro tante matrici culturali, quel carattere ellenistico che la cultura europea ha fra
Ottocento e Novecento.

Ne “Il cavaliere azzurro” di Kandinskij noi troviamo proprio la sintesi tra tutte le Avanguardie: l’idea in fondo
era che, come Steiner riuniva nell’essere umano questi involucri di corpi diversi e di colori diversi,
Kandinskij riunisce nella sua teoria dell’arte ciò che hanno fatto i fauves, i primi Impressionisti, i Cubisti, i
Futuristi, come se tutto nell’insieme costituisse la conoscenza dell’arte, la “sophia” celeste per cui l’io
moderno, il cavaliere diventa di fatto anche punto di sintesi.

- V. Kandinskij, “Diluvio”, 1914.

Qui allora il grande potere creativo è espresso da Kandinskij.

Negli stessi termini ha lavorato anche con l’idea di tornare a un’infanzia produttiva, mistica, di carattere
spirituale, anche Franz Marc, grande pittore.

- F. Marc, “Tre cavalli”, 1911;


- F. Marc, “Due gatti”, 1912.

I colori sono vivi, straordinaria, una favola moderna. Ma viene in mente Baudelaire che dice che “il genio
non è che l’infanzia ritrovata con la volontà”, insomma sono trasformazioni di distrazioni dal mondo per far
apparire un mondo più vero, un mondo tratto dagli archetipi, in cui noi troviamo una sintesi. Tra l’altro in
Marc si trova la pittura di Gauguin, il fauvismo, l’Espressionismo, il Cubismo e il Futurismo stesso, in una
dimensione sempre più astratta.

- F. Marc, “Combattimento di forme”, 1914.

Ancora insieme a Marc mettiamo Paul Klee, altro eccezionale protagonista de “Il cavaliere azzurro”,
possiede una leggerezza eccezionale nella quale noi ritroviamo un ragguaglio cubista, elementi fauvisti, ma
alleggeriti in senso musicale. Tra l’altro Klee faceva anche il musicista di professione, quindi l’idea della
musica noi la troviamo qui, in un linguaggio che sembra essere esser quello di un fanciullo, un “puer
aeternus”, ma molto al corrente con tutte le innovazioni cui l’arte era andata incontro.

- P. Klee, “Senza titolo”, 1914;


- P. Klee, “Davanti alle porte di Kairouan”, 1914;
- P. Klee, “Avviso alle navi”, 1917.

Nel primo sembra di vedere un quadro cubista, ma costruito in un altro modo. Nel secondo sembra esserci
qualcosa della scansione futurista: queste dimensioni particolari, e anche una grandissima passione per le
culture non europee, in particolare per quella islamica. Klee andò nel 1914 insieme a August Macke, suo
amico e a sua volta artista, in Tunisia. Purtroppo, dopo il ritorno in Germania - Klee non ne venne toccato
perché svizzero - Macke, a seguito dell’inizio della Grande guerra, fu richiamato alle armi e morì al fronte
nei primi mesi del conflitto, nell’estate del 1914.

È qui che andiamo verso la metamorfosi, verso una nuova trasformazione: avremo purtroppo delle perdite
tragiche, la Grande Guerra porterà alla morte di Marc (1916), e anche Boccioni e Sant’Elia. È una specie di
tracollo di questo grande impulso che le Avanguardie avevano avuto a cominciare dall’inizio del secolo, è
come se ci fosse una specie di duro risveglio. Per quel che riguarda le perdite umane, va aggiunta quella di
Apollinaire, gravemente ferito alla testa, morì per l’influenza spagnola del 1918.

Questo è il bilancio generale: Fauvismo, Espressionismo, Cubismo, Futurismo e Cavaliere azzurro. Una
grande intensificazione dell’io moderno fino a far apparire un principio cosmico con il Cavaliere azzurro e
con Kandinskij, fino a una progressiva autonomia dei singoli artisti che già avevano dato luogo a una
contaminazione per i linguaggi d’avanguardia.

Da ricordare la data del 1912: la data di pubblicazione de ”Il cavaliere azzurro”, ma anche la data in cui le
Avanguardie cominciano a contaminarsi tra loro. Sono più importanti i singoli, per cui i singoli possono
usare tutti i linguaggi delle Avanguardie. Ciò avviene in uno strano gruppo che a Parigi nel 1912 tiene una
propria mostra e si chiama “Section d’Or” (“Sezione Aurea”), dove troviamo dei pittori come Jean
Metzinger, Robert Delaunay, Marcel Duchamp e Francis Picabia, che operano contemporaneamente tuti i
linguaggi che sono loro disponibili. Questa tendenza, questa dimensione operativa larga sarà proprio quella
con la quale l’io moderno cercherà di affrontare la terribile nuova “notte del mondo” che dovrà
attraversare e che è costituita dalla Grande Guerra.

In maniera particolare troveremo durante la guerra il formarsi di altri gruppi, il Dada a Zurigo, la Metafisica
a Ferrara, che daranno poi un impulso all’arte che avrà dovuto fare i conti con i nuovi “rospi e lumache” che
la storia ha prodotto proprio nel corso della Prima Guerra Mondiale con la terribile strage. Lì si è mostrato il
“volto ippocratico”, mortifero della tecnica sulla terra della nostra “notte del mondo”. Comincerà una
nuova storia attraverso quella distruzione.

18° Lezione del corso di “Storia dell’Arte Contemporanea”.


Due movimenti sono connessi di fatto nell’ambito delle arti alla Guerra: il Dada e la Metafisica. Va aggiunto
anche il movimento “De Stijl”, “Lo stile”, che si crea in Olanda. È bene parlare di questi movimenti sullo
sfondo delle terribili perdite umane avute durante la Grande Guerra. Si è trattato di un “terribile risveglio”
dopo la Belle Epoque, dopo l’epoca del progresso. Forse non tutti gli storici sono concordi sul conto delle
vittime: si va dagli 8 milioni e mezzo ai 10. Ci sono stati fronti dove la perdita del documenti - come quello
russo - non ha consentito di fare correttamente i conti, come anche in altre zone del mondo. Resta che si è
trattato di una catastrofe assoluta, nella civiltà europea e occidentale che aveva inteso dare il proprio volto,
nel corso del XIX secolo, al mondo intero.

Resta una civiltà che si trova sfigurata da questa catastrofe che essa stessa ha prodotto. Si può riassumere il
tutto in una frase di un saggio di Walter Benjamin: “Una generazione che era andata ancora a scuola con il
traina-cavalli, tornava dal fronte ritrovando come unica cosa intatta l‘azzurro del cielo sopra le case”.
Questo valeva per i vincitori come per i vinti. C’erano state delle catastrofi particolari in alcuni paesi,
cambiamenti di regime politico - come per esempio la Rivoluzione Russa e la caduta del regime millenario
degli zar, la deposizione dello zar e della famiglia dei Romanov, la creazione di una nuova entità politica e
statale che sarà l’Unione Sovietica -. Nel corso della guerra e nell’immediato dopo guerra avevano ceduto
anche altri imperi di grade carisma e di lunga data, come quello degli Asburgo d’Austria, il Secondo Reich
tedesco, il Kaiser diveniva anti-capo tra il 1918-1919. Ma il 1918 non è solo l’anno di fine della guerra, ma
l’anno di fine di un certo aspetto che l’Europa e l’Occidente avevano avuto per scoli.
Perdita di punti di orientamento, di valori, un senso generale di “tramonto della civiltà occidentale”,
citando una famosa opera di Oswald Spengler, “Il tramonto dell’Occidente”, di cui la prima parte esce
proprio nel 1918. Anche un senso di precarietà, per ci le cose che sembravano eterne mostravano di essere
mortali, di essere soggette al tempo. Paul Valéry scrive a riguardo “Noi, le civiltà, abbiamo scoperto di
essere mortali e constatiamo ora che l’abisso della storia è abbastanza grande per tutti”. Questa la
coscienza, che si sviluppa nel corso della Guerra, e che produce di fatto già nel contesto della guerra delle
risposte, dei moti enanziodromici nel contesto delle arti, che sono anche proprio prospettive differenziate
di attività dell’io moderno.

Ecco allora il “De Stijl” in Olanda, il “Dada” a Zurigo, la “Metafisica” a Ferrara, sono proprio espressioni di
una nuova dimensione operativa dell’io moderno, che risente in realtà di quella tendenza intra-
avanguardista - di contaminazione tra i diversi linguaggi delle Avanguardie - ad opera di un io che si esprime
spesso con grandi individualità, le quali usano i mezzi di cui sentono il bisogno. Questi movimenti sono
quindi espressioni di un’attività intensificata di carattere molto individuale dell’io moderno.

In questo senso è citato un passaggio di un saggio di Gottfried Benn, “L’io moderno” - definizione di “io
moderno” mutuata da questo poeta tedesco -, dove Benn parla di una sorta di “Espressionismo radicale” -
nel senso di “condizione psicologica” che fa sì che tutto derivi dall’espressione si sé, dall’interno,
dall’interiorità. Benn dice che c’è in corso, anche durante la guerra, una sorta di “Espressionismo letterale”
- cioè un moto di affermazione dell’io, forse per le distruzioni in atto, per il senso di crollo -, e in modo
speciale dice che a seguito di questa pressione materiale-oggettiva, esercitata dalla guerra e dalle pressioni
esterne, “l’Io forma in se stesso, un tratto dopo l’altro, quell’idea di soggetto secondo la quale tutto il
mondo esterno gli è dato in forma di esperienza interiore”. Questo è il fatto fondamentale: una sorta di
proiezione della progettualità, in qualsiasi forma, a partire dal profondo di sé. Questo è l’io che si propone,
in maniera enanziodormica, di superare insieme degli ostacoli che la guerra poneva.

Schema che prolunga quello della volta precedente. Qui abbiamo una prosecuzione: a sinistra, in alto, dove
c’è scritto “Astrattismo”, si vede scendere una freccia con scritto “1914” - inizio della guerra -, e sotto una
strana figura, una specie di ovale, con delle figure geometriche, dove sotto c’è scritto “De Stijl”, con la data
1917.

Il movimento “De Stijl” è una sorta di filiazione da un lato della poetica Astrattistica - come noi l’avevamo
trovata ne “Il cavaliere azzurro”, con la sua progettualità di carattere spirituale -, ma è anche la somma di
altri elementi che abbiamo visto: si troverà per esempio in “De Stijl”, nel gruppo, una particolare adozione
del linguaggio cubista, della scomposizione cubista. Del futurismo troviamo soprattutto l’idea dell’arte che
deve assumere un carattere sociali, alcuni elementi mutuati dai progetti di Sant’Elia riguardo l’architettura,
e anche un certo espressionismo di origine che ha preso parte della formazione di alcuni di questi artisti che
hanno composto il gruppo olandese come Piet Mondrian. Ecco quindi questo gruppo di sintesi tra linguaggi
delle Avanguardie subito precedenti.

La figura di riferimento per parlare di questo gruppo - “De Stijl” -> “Lo Stile” -> la forma - è Piet Mondrian.
Piet Mondrian fu un pittore olandese che lavorò in modo originalissimo, associando i linguaggi delle varie
Avanguardie moderne. Apre il paragrafo dedicato a Mondrian una frase di Gottfried Benn, “... ti sei salvato
in grate /che nulla è più in grado di aprire”: che cosa significa? Come se in un certo senso la forma fosse un
punto di arrivo e di purificazione, nel lasciarsi alle spalle ciò che non è più necessario. E in Mondrian
compare proprio un mito antichissimo, quello della geometria, della struttura geometrica, il mito del
mondo delle Idee di Platone posto oltre il mondo sensibile. Una sorta di vocazione proprio, la metafisica,
che è anche un modo per lasciarsi alle spalle quelle parti di sé cadute, non utili, riguadagnando soltanto
quelle eterne. Ritorna la questione di Baudelaire nel “ritrovare l’eterno nel transitorio”, privilegiando
fortemente il tema dell’eterno, della geometria che sta oltre la natura, e però è anche il fondamento
essenziale della natura stessa.
- P. Mondrian, “Autoritratto”, 1918;
- P. Mondrian, “Composizione ovale”, 1914.

Mondrian era nato nel 1879 in Olanda, un uomo maturo nel tempo della guerra che lo aiutò a disfarsi di
tutto il superfluo. Era figlio di un pastore calvinista, quindi c’è un po’ sempre il punto di vista di quella
religione. Il Calvinismo esprimeva un forte sospetto nei confronti delle immagini, che sono in quel credo
religioso di solito spoglie, prive di decorazioni all’interno, per privilegiare una dimensione di povertà come
apertura nell’oltremondo. Questa idea si è trasformata proprio nella vocazione di cercare una stabilità
metafisica al di là delle apparenze. Questo può già avere a che fare con la guerra, nel vedere tutto soggetto
alla distruzione: ecco quindi una reazione enanziodromica ancor più radicalizzata, alla ricerca della stabilità.

Nella vicenda di Mondrian entra una preparazione all’arte che ha risentito delle vicende delle Avanguardie.
È stato inizialmente un pittore che in Olanda ha aderito al fauvismo, quindi a una dimensione
espressionista, che però si legava ai fondamenti dell’Espressionismo stesso: per esempio Van Gogh era
olandese come Mondrian, a Munch - grande padre a inizio Novecento. Ma ancora sempre la libertà che è
caratteristica dell’io moderno man mano che si sviluppa il Novecento, l’interesse per l’astrazione cromatica
di Monet e per quella volumetrica di Cézanne. È come se in questo modo di concepire l’arte Mondrian
oscillasse tra gli opposti: da un lato la dimensione dei Girasoli” di Van Gogh - l’elemento impressionista ed
espressionista - e “Casa con la crepa” di Cézanne - tendenza a mostrare le geometrie.

- P. Mondrian, “Mulino al sole”, 1908.

Qui possiamo trovare una sintesi tra i “Girasoli” di Van Gogh e “Casa con la crepa” di Cézanne, con una
grande semplificazione cromatica, per cui troviamo i colori primari dell’azzurro, il rosso e il giallo.

In questo contesto, in questo suo cantiere di carattere interiore ebbe fondamentale importanza un viaggio
a Parigi e l’incontro con il Cubismo nel 1912. Fu un impulso interiore a sviluppare una pittura costituita di
pure forme, in una vocazione metafisica che dalla religione calvinista era passata di fatto a produrre un
nuovo interesse per la filosofia e per l’antroposofia. Abbiamo visto l’antroposofia di Steiner e la dimensione
metafisica dell’io, che nel contesto de “Il cavaliere azzurro” aveva portato Kandinskij e Marc a pensare di
vedere l’opera d’are con una seconda vista, come se le forme che l’artista produce non fossero le forme di
questo mondo ma fossero piuttosto l’essenza di questo mondo, una realtà posta al di là del mondo stesso.
Tra l’altro ci si è a lungo chiesti quali fossero i legami di Mondrian con Steiner, espressa con una lettera di
ringraziamento del primo al secondo per la diffusione dei suoi principi e dei suoi valori. Ci sarebbe stato
quindi un legame diretto tra i due.

- P. Mondrian, “Evoluzione”, 1910-11;


- P. Mondrian, “Mulino al sole”, 1908.

Il senso è quindi quello di un’evoluzione interiore che porta a vedere le cose con una seconda vista. Sono
tre strane figure sintetiche, sembra quasi di vedere qualcosa dei dipinti visti in precedenza, come se ci fosse
una specie di evoluzione di un lino olandese del quale è rimasto soltanto il corpo. Al posto delle pale sono
apparse stelle di colore diverso, e anche questa è una forma di stilizzazione: il corpo stesso ha preso i osto
della costruzione del “Mulino al sole”, come a far apparire “quello che sta”. Il movimento è quello delle
pale, ma dietro c’è un edificio che regge. L’edificio è lo stesso che regge questo corpo femminile: a destra e
a sinistra ha gli occhi chiusi, al centro ha gli occhi aperti. Alle spalle di questa strana figura c’è l’oro, il colore
della luce pura forse. Di qui l’andare verso la purezza, verso la decantazione di tutto ciò che è superfluo.

Questo è proprio il modo nel quale Mondrian ragiona. Mondrian tratta così ogni soggetto cercandone i
“motivi fondamentali”, come aveva fatto Cézanne in realtà, con un linguaggio che diventa sempre più
geometrico e privilegio di aspetti dell’eterno.
Si è applicato molto, tra le forme che lo hanno interessato, all’albero, no dei suoi temi prediletti. Meditando
sull’albero, cercando l’eterno dell’albero, lo ha un po’ spogliato di tutto il superfluo, riducendolo alla
verticalità del fusto e all’orizzontalità delal chioma, trovano proprio una croce tra l’alto e il basso. Come se
fosse una specie di centro di tutti i punti cardinali, e questo è il dato essenziale. Guardare le cose per
arrivare all’essenziale. Al rovescio potrei pensare dalla croce di tornare all’albero, come se la croce fosse
l’essenza dell’albero. È come se avessi visto l’eterno nel transitorio, riuscendo a cogliere quell’elemento
permanente che cambia, come avviene quando io penso ai colori primari, il giallo, il blu e il rosso, che sono
all’origine di tutti gli altri. Quando arrivo all’essenza del colore, dovrò arrivare ai colori primari.

In questo senso è una specie di “iper-cubismo”: porta la progettualità cubista, la scomposizione e


l’aumento della superficie plastica a un neo-plasticismo. Crea un a nuova forma con un carattere tutto
metafisico e stabile. Abbiamo parlato di Platone come punto essenziale, che parla di una “seconda
navigazione”, intesa come navigazione in verticale, che sale e va verso il mondo delle idee. Quella di
Mondrian è una “seconda navigazione”, che va verso il mondo delle Idee, verso ciò che non muta e non
cambia. Però, una volta che si è arrivati a mettere a fuoco l’esistenza di questo fondamento eterno delle
cose, ecco che io posso pensare di usare quello stesso fondamento per ridare una forma più stabile alla
realtà stessa. È come se da un lato arrivassi a questo massimo di astrazione, dall’altro pensassi però di
potere - proprio perché sono arrivato alle chiavi con le quali è costruita la realtà - agire in modo da costruire
un’altra realtà più stabile di quella soltanto naturale.

In questo senso uno sbocco fondamentale era senz’altro costituito dall’idea che il Neoclassicismo potesse
diventare - sensibilità che ci riporta al futurismo - un linguaggio capace di ricostruire una casa dell’umanità
più stabile, basata su principi non soggetti a distruzione. Insomma, far venire fuori dalla catastrofe della
guerra qualcosa di semplice e ricostruito, in modo che gli omini potessero riconciliarsi gli uni con gli altri,
ritrovando anche la possibilità di costruire e di ricostruire il loro mondo al di là della guerra. È questo punto,
il possedere le forme fondamentali per ricostruire la realtà, che fa sì che da un incontro con un altro pittore
e architetto olandese, Theo van Doesburg, Mondrian aderisca al gruppo olandese nel 1917, che darà vita
alla rivista “De Stijl”. Abbiamo un Neoclassicismo orientato ad espandersi nell’ambito dell’architettura, e
questo è fondamentale perché noi siamo nel tempo della società delle folle. Queste folle si stavano
reciprocamente distruggendo al fronte, ma è chiaro che ci sarebbe stata una fase successiva alla guerra
nella quale le stesse folle avrebbero poi dovuto nuovamente coabitare, ricostruire dopo la distruzione. C’è
quindi un grande progetto di ricostruzione sociale, uno stile completamente nuovo che consenta proprio
questo nuovo coabitare degli uomini.

Nel PowerPoint successivo abbiamo un’illustrazione dello sviluppo di Mondrian che lo conduce all’adesione
del gruppo “De Stijl”. Nel manifesto del “De Stijl” del 1917 si legge: “La guerra distrugge il mondo antico,
con il suo contenuto: il predominio individuale in ogni campo. / La nuova arte ha rivelato il contenuto della
nuova coscienza del tempo: un rapporto simmetrico fra universale e individuale. / La nuova coscienza del
tempo è pronta ad attuarsi in tutto, anche nella vita esteriore”. Qui si parla di un iper-io, un io metafisico, e
così essenziale da porsi quasi al di là degli individui, ma sono poi gli individui che normalmente lo attivano. Il
punto che troviamo poi in questo manifesto è un’interpretazione quasi paradossale della guerra, perché nel
contrasto, nella guerra, c’era una sorta di rimescolamento, seppur di carattere distruttivo, che sarebbe poi
proseguito nel tempo di pace. Bisognava trasformare quella guerra perpetua in una pace perpetua, e dare
al mondo che era orami finito, il mondo di prima, il mondo degli imperi, dell’Europa, della Belle Epoque,
una nuova forma.

C’è una specie di utopia anche riformatrice degli uomini di “De Stijl”, con l’idea di una scelta che vada oltre
le scelte individuali degli artisti, un “super-stile” di carattere individuale, di natura geometrica e
matematica, che potesse essere universalmente praticato. Una vera e propria progettualità di carattere
architettonico.
Sono proprio questi i progetti fatti da altri aderenti del gruppo.

- T. van Doesburg, “Composizione 9”, 1918.

Mondrian condivideva con lui questa ricerca delle forme essenziali.

- G.T. Rietweld, “Poltrona rosso-blu”, 1918.

A proposito di essenzialità, in questa poltrona si ritrova l’idea di riformare un mobile, dandole l’essenzialità
costitutiva. Tutto il superfluo è stato tolto, ne viene fuori un progetto architettonico.

- J.P. Oud, “Café de Unie”, Rotterdam, 1925.

Si tratta del progetto per un caffè di Rotterdam. Fa vedere questo luogo di raccolta delle persone in
maniera estremamente essenziale.

- La rivista, n. 1, 1917.

Compaiono inoltre i frontespizi della rivista “De Stijl”.

- G. Vantogerloo, “Composizione”, 1917-18.

Queste sono tutte idee, proporzioni, riflessioni appunto, che faranno sì che poi si passai a una progettualità
architettonica nuova. Di Rietweld abbiamo mostrato la “Poltrona rosso-blu”.

- G.T. Rietweld, “Casa Schröder”, Utrecht (NL), 1924.

Molto vicino, se non uno sviluppo in profondità delle ricerche di Mondrian, che erano arrivate a questo
plasticismo essenziale. Ora l’edilizia della ricostruzione dopo la guerra avrebbe dovuto basarsi su moduli
attentamente proporzionati. Un singolo edificio con quelli circostanti dietro, e la stessa cosa sarebbe
dovuta avvenire per un quartiere, una città. Ecco come l’artista si trasforma in architetto, urbanista, deve
avere una coscienza sociale, deve riuscire a dare a tutti ciò di cui essi hanno bisogno. È un’utopia
prettamente democratica quella del gruppo “De Stijl”, che tra l’altro ispira molto l’avanguardia russa,
attraverso la distruzione della rivoluzione. C’è chi penserà, tra questi architetti russi, di poter ricostruire
secondo questi principi geometrici - geometrici-democratici -, e questa idea si svilupperà anche in Germania
dopo la catastrofe della caduta del Secondo Reich con la formazione del “Bauhaus”, che di fatto riprende lo
stesso progetto di riforma estetica e sociale del “De Stijl”.

È come se nel “De Stijl” ci fosse una sorta di mito del ritorno della “Nuova Atlantide”, in un’opera di
Francesco Bacone del XVII secolo. Si parla di un’utopia di questa “Nuova Atlantide”, che è un’isola in cui gli
uomini vivono in pace e tutto è governato secondo principi di carattere matematico-geometrico. Tutto è
quindi costruito secondo giuste proporzioni. Un’idea che aveva poi animato le province dell’Olanda nel XVII
secolo, un seme gettato da lontano che “De Stijl” riprende nel momento della crisi delal civiltà europea,
proponendo di fatto una riforma del mondo occidentale nel senso dell’uguaglianza.

Mondrian non diventerà solo pittore, ma anche teorico di quest’ideale, e lui stesso progetterà mobili,
muoverà in una dimensione in cui la pittura diventava oggetto, spazio - e stessa cosa facevano gli altri del
“De Stijl” -, addirittura progettando delle case, dei quartieri, delle vere e proprie città. Mondrian sarà
sempre legato a questa svolta del neo-plasticismo, continuerà a lavorare influenzando moto la pittura
europea dopo la guerra, trasferendosi a Parigi. Lo ritroveremo molti anni più tardi a New York, in un
approdo alla “Nuova Atlantide” - la cittadina alla foce dell’Hudson, New York -, dove poi lo stesso Mondrian
si spegnerà. E come s quel luogo, così lontano, fosse realizzazione dei progetti di “De Stijl”.

19° Lezione del corso di “Storia dell’Arte Contemporanea”.


Mentre gli uomini del “De Stijl” immaginavano la ricostruzione dell’Europa dopo la catastrofe, si forma a
Zurigo, nella Svizzera neutrale, in una specie di occhio del ciclone - quel paese non era entrato nella Grande
Guerra, viveva in una situazione di sospensione rispetto alle vicende dei confini a nord e a est -, si forma un
gruppo che muove principi del tutto opposti rispetto a quelli del “De Stijl”.

Il movimento DADA palesa il suo progetto - non un progetto, un ideale di riforma della cultura europea in
senso radicale -, la volontà di portare la cultura europea stessa al massimo grado di istruzione. Strano, è un
movimento, un’avanguardia che nasce quasi da una contraddizione interna. Nel suo contesto troviamo
un’adozione di alcuni principi e pratiche futuriste. Troveremo delle serate ai quali i dadaisti si rapportano a
un pubblico, e in questo senso una paradossale socialità, ma tutto è volto al negativo. Abbiamo una
dimensione radicalmente iconoclasta, qualcosa che risente profondamente della distruzione alla quale la
civiltà europea stava andando incontro, non per opporsi ad essa, ma per volerla assecondare fino alle
estreme conseguenze.

C’è qualcosa di incredibilmente primitivo in DADA. Il nome stesso ovviamente un significato: “neo-
plasticismo” significava “nuova forma”, “Futurismo” significava “futuro”, “Espressionismo” “espressone”,
“Cavaliere azzurro” “slancio verso la celeste sophia”. “DADA” invece non significa niente, una situazione che
sembra riprendere l’azione elementare del bambino che dice “mamma”. È un suono elementare,
primordiale, che però viene sentito proprio alla fine di tutto, quasi alla fine del mondo. Si ha l’assunzione
della coscienza di una crisi in atto, che ovviamente la guerra continuava a rendere sempre più tragica e
drammatica.

È ovvio che tra questi milioni di uomini in lotta tra loro c’erano anche quelli che nei rispettivi paesi si erano
rifiutati di vestire l’uniforme, di andare al fronte, di uccidere e di essere uccisi, coloro che erano stati
costretti a lasciare il proprio paese per non essere poi arrestati, incarcerati, e poi andati obbligatoriamente
al fronte. Zurigo diventa un luogo di raccolta di gure di apolidi, di sradicati che non solo non hanno più
un’identità, ma non hanno più neanche niente da perdere. Quando si tratta di artisti, ecco che abbiamo dei
reduci di tutte le avanguardie precedenti, come se giungessero a Zurigo dopo la fine di quelle avanguardie
stesse, naufragate o fatte naufragare da quella distruzione che la guerra aveva innescato.

Chi arriva animato da uno strano proposito di distruzione operativa è il tedesco Hugo Ball, uno scrittore e
autore tedesco il quale fonda il Cabaret Voltaire. La fondazione di questo Cabaret Voltaire nel 1916
corrisponde di fatto alla creazione di un ritrovo dove si organizzavano delle strane serate, condotte da Ball
stesso e da altri suoi amici, i quali avevano le caratteristiche di apolidi, reduci, e appartenenti a tanti altri
gruppi di avanguardie. Si sente in Ball e negli altri suoi collaboratori un elemento fortemente gratuito, di chi
non sembra avere più niente da perdere. C’è implicitamente anche all’interno del Cabaret Voltaire
un’opposizione a 360° rispetto a tutto ciò che stava accadendo in Europa. Anche in queste serate sembra in
certi casi d rivedere quelle futuriste.

- M. Janco, “Il Cabaret Voltaire”, 1916.

Marcel Janco ea un pittore di origine impressionista, che poi era passato anche al cubismo. Da notare anche
questo linguaggio composito, appartenente un po’ a tutte le avanguardie. Però l’idea qui è che neppure si
sia di fronte a una vera provocazione, che desti le proteste del pubblico, ma in una strana sospensione nella
quale la dimensione del senso è perduta. Tutto è sospeso in una sorta di non senso che riflette il non senso
dei milioni di uomini obbligati al fronte. Nella paradossale estraneità c’è una sorta di riflesso e di
partecipazione a quello che avveniva.

- H. Ball sulla scena del Cabaret Voltaire.

Vestito in maniera strana, sembra un pezzo futurista o cubista, senza però che ci sia dimensione
propositiva. Di qui da notare la gratuità del fatto.
La pratica dadaista ha proprio questi caratteri espressivi-inespressivi. In queste serate (v. immagini slide
15), oltre a questa dimensione, si trovano anche persone che partecipavano alle serate facendo cumuli di
stracci, o mettendo cataste di sedie. Riguardo l’elemento performativo e lo spettacolo, c’erano anche delle
recitazioni di poesia o di test narrativi, che erano da parte di altri partecipanti a questo gruppo. Da ricordare
il nobile rumeno Tristan Tzara, il quale arriva anche lui a Zurigo e partecipa al “Cabaret Voltaire”, che con
un altro compagno del tempo, il tedesco Richard Huelsenbeck, percuotevano un tamburo, “ballavano e
grugnivano come orsi”, o recitavano filastrocche di suoni o di pseudo-parole senza senso. Si tende quindi
verso lo zero, si va verso l’annullamento di tutto.

Una ripresa delle parole “indibertà” di Marinetti, tolte a quel senso di dinamismo che volevano avere.
Distruggere tutto ciò che è possibile distruggere, il punto per cui Tzara arriverà a dire che “chi è in DADA,
dev’essere contro DADA”, perché fondamentalmente non c’è in questo la possibilità di proporre qualche
cosa. Il vero dadaista è contro DADA. Una situazione paradossale ed estrema. A Zurigo inoltre esisteva una
Galleria DADA, gestita da Sophie Taeuber, in cui si potevano vedere le opere prodotte dalle capitali
europee dell’avanguardia. Tutti i quadri in tutti gli stili possibili, sena che ci fosse una scelta, perché anche la
scelta sarebbe stato troppo in quel contesto di sospensione totale. C’erano però degli artisti che
esasperavano le contaminazioni intra-avanguardiste, come Hans Arp o Raoul Hausman o Kurt Schwitters. I
quali per esempio utilizzavano anche materiali di scarto tratti dalla spazzatura. Allora qui c’è anche un
legame tra il dadaismo e il cubismo, come nei collages di Picasso, l’assunzione di Picasso nella sedia
impagliata d’idea di quadro che diventa oggetto e di oggetto che può diventare quadro. Qui appunto siamo
a una sorta di sperimentazione che tende a produrre una sorta di “grado zero” dell’opera, di azzeramento.

Ora è un errore però vedere in quest’esperienze annichiliste così estreme qualcosa di effettivamente solo
distruttivo. Dietro questi processi così radicali gira spesso proprio una ricerca di carattere quasi religioso,
spirituale, come se quelle distruzioni fossero in realtà un modo per arrivare fino a un punto nel quale non si
poteva più distruggere nulla. Qui compare un altro elemento importante nel dadaismo: c’è una specie di
centro nascosto dietro queste distruzioni, un’essenza che non può essere abolita. C’è un io che in
profondità si rivela oltre queste distruzioni stesse.

- H. Arp, “Ritratto di Tristan Tzara”, 1916.

Sopra troviamo scritto un motto buddista: “Mostrami che volto avevi prima di nascere...”. Ecco, il dadaista
in definitiva cerca proprio il suo vero volto, cerca l’essenza che è un’essenza immobile, quasi uno stato di
Nirvana, di “risvegliato in vita”, che consente proprio di potersi distanziare dalla realtà, di acquisire un
orientamento opposto, un ritorno alla realtà. Ma per poter tornare alla realtà bisogna tronare quasi a uno
zero, quasi a perdere completamente se stesi. È questo ciò che si percepisce, questa dimensione profonda
di soglia nella distruzione, fra il visibile e l’invisibile.

- H. Arp, “Trousse d’un Da”, 1920-21.

Significa “L’astuccio di un Dadaista”, una strana icona fatta con dei legni di scarto, presi direttamente da
una discarica e curiosamente colorati con i colori primari, fondamentali: il giallo, il rosso e il blu. È una
specie di semplificazione di carattere anche paradossalmente geometrico - lo è almeno o sfondo - che ci fa
pensare che esista una dimensione stranamente costruttiva in questa distruzione. Ora è un’idea, come se
l’icona sacra potesse in un certo senso trasformarsi in queste forme di scarto, in queste forme marginali che
tuttavia non perdono un certo loro valore di trascendenza.

- R. Hausman, “Testa”, 1912-20.

Anche qui una specie di strano agglomerato di elementi cubisti e futuristi, ma sembra senza né capo né
coda. Non c’è né un principio perfettamente razionale né uno assolutamente dinamico.

- K. Schwitters, “Lo psichiatra”, 1919.


Realizzato con materiali di scarto. Schwitters arriverà ad impiegare fino a questo processo i biglietti del
treno e del tram usati, relegando nei collages addirittura i mozziconi di sigaretta. È permanente quindi da
un lato la demolizione, dall’altro però anche il fatto che lentamente si senta il bisogno di ricostruire.

Si potrebbe in questo senso parlare di un gioco, di qualcosa di gratuito, ma invece i dadaisti prendono
molto sul serio questo processo. Finita la guerra Ball si ritirerà in una valle alpina, occupandosi di mistici
cristiani. Alcuni come lo stesso Tzara si occuperanno di pratiche di carattere esoterico. Troviamo quindi
proprio questa dimensione spirituale, questo io appunto che riemerge attraverso queste distruzioni. DADA
è quindi tutt’altro che un movimento trascurabile, è un movimento si potrebbe dire che costituisce un
punto di arrivo e insieme un punto di inizio. Tra l’altro questa sua posizione di antagonismo e anche i
rapporti internazionali che ci furono tra Zurigo e il resto d’Europa daranno sì che DADA dopo a guerra abbia
una forte espansione, soprattutto in un paese come la Germania. A Berlino soprattutto assume il carattere
di una sorta di corrosivo linguaggio che polemizza contro tutto ciò che è avvenuto a seguito della guerra.

Lentamente anche il dadaismo cercherà in qualche modo di assumere delle forme operative. Ma è
importante che quella domanda, “Mostrami che volto avevi prima di nascere...”, venga anche presa come
una sorta di purificazione dell’opera d’arte e nel suo senso. Vedremo in realtà come, attraverso la
negazione dadaista, riemergeranno gli elementi che addirittura andranno a investire la stessa pittura.

Durante il periodo di Zurigo, nelle serate appunto al “Cabaret Voltaire”, venivano anche diffuse delle riviste,
spesso erano anche solo dei fogli, e queste venivano portate in giro per l’Europa. Vi fu anche una lenta m
progressiva conoscenza del dadaismo nei paesi attorno alla Svizzera, paesi impegnati nella guerra. Alla fine
della guerra alcuni dadaisti, ma non pochi, porteranno questo strano e paradossale linguaggio in giro per
l’Europa. In questo si cita il nostro solito Baudelaire con il fatto che “il genio non è che l’infanzia ritrovata
con la volontà”, perché in fondo anche DADA - che corrisponde all’azione del bambino, a suoni elementari -
è un modo per riportarsi alle origini, ritrovare una sorta di genialità infantile a posteriore.

“Infanzia” viene da “infans”, cioè “che non parla”. Il dadaista è “infans”, cioè “che non parla”, nel senso che
distrugge, e ambisce attraverso questa distruzione a ricostruire un proprio discorso, una propria possibilità
di riproporsi al mondo. DADA è in questo uno specchio della vicenda bellica, della distanza creatasi da certi
ragguardi intellettuali e il mondo politico che aveva prodotto la guerra stessa. Da questa distanza noi però
vedremo progressivamente un ritorno. Non potrebbe esserci niente di più opposto rispetto al “De Stijl”, ma
anche qui noi troviamo nell’essenza un io profondissimo, che in definitiva ha bisogno poi di immaginarsi in
una dimensione ricostruttiva.

Ultima cosa del dadaismo è il fatto che non esita un manifesto DADA nel tempo in cui DADA nasce, tra il
1916 e il 1918, la fine della guerra. È proprio nel 1918 che Tzara scrive un manifesto a posteriori (v.
“Documenti”), che è per altro tutto tranne che un progetto, è il negativo di un manifesto. Per la questione
che ci interessa dal punto di vista della progettualità che ritroveremo, il dato più importante è che Tzara
teorizza in questa dimensione distruttiva dell’arte, in tutte le sue forme, delle forme di automatismo nella
costruzione dell’opera, di libera associazione di parti. Verrà poi a raccontare che per fare una poesia
dadaista si può prendere un articolo di giornale, ritagliare le parole, metterle in un sacchetto e estrarle a
caso, incollarle, così sarà creato il testo dadaista. Questo, che sembra un gioco di carattere goliardico, in
realtà aziona ipoteticamente ancora queste corrispondenze del caso - tentativi di creare attraverso la
casualità delle forme fortemente riprese dai Surrealisti, che derivano proprio dalle vicende del dadaismo.

Così contemporaneamente alla progettualità di carattere ricostruttivo ci siano nel corso della guerra delle
fortificazioni dell’io che poi dovranno cercare degli strumenti per esprimersi, per cercare quella stessa
distruzione che avevano voluto magari produrre fino in fondo per fortificarsi e poter tornare a contatto con
la realtà.
20° Lezione del corso di “Storia dell’Arte Contemporanea”.
Strani opposti, “De Stijl” e “DADA”, arrivano a un punto in cui noi troviamo una specie di strana
convergenza: in maniera diversa tutti e due arrivano a una dimensione profonda dell’io che si stacca dalla
realtà. La differenza: nel “De Stijl” il distacco arriva fino al contatto con le forme geometriche, quindi con un
universo che è dotato di una sua forma eterna che nel progetto della rivista del gruppo implicava un ritorno
del mondo attraverso un’architettura espressa con quelle proporzioni e con quelle forme geometrico-
matematiche, che appunto ricreasse la realtà. “DADA” non ha un approdo del genere: arriva in una
situazione, una sospensione di vuoto buddista, ma non meno è o costituisce una sorta di coscienza che l’io
ha indipendentemente dal mondo. Si tratta anche qui di una trasformazione dell’io moderno con una
possibilità di ritorno verso al realtà che assumerà forme diverse da quelle di “De Stijl”. Come nel “De Stijl” la
pressione della guerra produceva ciò che si è detto, così nel “DADA” produceva questa dimensione
essenziale.

In questo abbiamo la terza opzione, che si manifesta nel corso della guerra, la pittura “Metafisica”. Cito
“Cerco un centro di gravità permanente…” di Franco Battiato, che a sua volta cita l’esoterismo di
Ouspensky. L’idea è proprio quella di cercare un centro di gravità permanente, che nel caso di “De Stijl” era
geometrico, nel caso di “DADA” vuoto e buddista. Tornando allo schema proposto c’è scritto “Futurismo”,
con la freccia che segue con la scritta “Lacerba”, e ancora con la scritta “La Voce”. La freccia blu scende e si
arriva all’ovale di “Metafisica”. Si può dire per quel che riguarda lo sviluppo dei linguaggi delle Avanguardie
in nuove forme intra-avanguardistiche che ciò che chiamiamo pittura “Metafisica” si ha una strana e
fondamentale filiazione al Futurismo, soprattutto per quel che riguardo l’opera di Carlo Carrà.

Entriamo e cerchiamo di comprendere come si giunge a questo ovale. Troviamo una frase scritta da Carrà
nel 1918: “Sento che non sono io nel tempo, ma che è il tempo che è in me...”.

- C. Carrà, “L’ovale delle apparizioni”, 1918.

Questo è un elemento fondamentale, l’idea di un tempo sospeso, nel quale troviamo forme sospese che
sembrano citare elementi di carattere storico. Troviamo una specie di manichino, che sembra rifarsi
all’uomo meccanico futurista, e anche altre forme: il pesce, l’angelo con la palla e la racchetta da tennis,
che sembra una statua classica, e sullo sfondo una costruzione un po’ strana, una casa popolare, che ha
però una memoria molto antica, sembra riportarci alle origini della pittura italiana, con certe forme
giottesche o pregiottesche. Troviamo ancora sulla sinistra una sorta di antenna per le trasmissioni.
Insomma sono oggetti, simboli, elementi, che in qualche maniera costituiscono uno scenario di questo
centro di gravità. Come si arriva dal Futurismo a “L’ovale della apparizioni” di Carrà?

Per comprendere la specificità dell’arte italiana nel contesto della Grande Guerra è indispensabile tenere
presente due svolte che si sono verificate l’una prima e l’altra dopo l’entrata del nostro paese in guerra. La
prima svolta si è verificata nella primavera del 1915, quando Papini, Soffici e Palazzeschi firmarono un
articoletto intitolato “Futurismo e Marinettismo”. Questo articolo uscì sulla rivista fiorentina “Lacerba”
fondata da Papini e Soffici: in quell’articolo i tre si staccavano dalle tesi di Marinetti, fondatore del
movimento, sostenendo che Marinetti stesso disponeva di una tecnica nuova, la “macchina”, ma non di una
nuova coscienza di quella tecnica. Che cosa volevano dire? Fondamentalmente l’idea di Marinetti era solo
un’idea di carattere materiale, che la macchina era soltanto veramente la macchina che si poteva guidare
con il volante.

L’idea che l’avvento di quello strumento e delle macchine in generale creassero un distacco completo dal
passato, come per altro il nostro Marinetti aveva dichiarato. Il gruppo fiorentino di questi “Futuristi” che
animavano la rivista “Lacerba” pensava che si potesse trasformare la macchina “comprendendo qual era il
mito nascosto dentro la macchina”. Questo mito nascosto dentro la macchina non era la furia che portava a
staccare definitivamente il presente e il futuro dal passato, al contrario la macchina era proprio fatta da un
insieme di parti e di ingranaggi che venivano accostati gli uni agli altri, cosicché l’idea che viene lentamente
proposta da questi “Futuristi” fiorentini è proprio quella che nella macchina si celi un “senso di sintesi di
parti”, e che questo “senso di sintesi di parti” fosse un modello nel quale potessero corrispondersi
contemporaneamente passato, presente e futuro.

Il tempo andava “ricostruito” in questa dimensione “di macchina”, come se si trattasse di tante parti che
componevano appunto un unico ingranaggio, un unico movimento. I fiorentini sostenevano infatti che era
l’io, e non la macchina, a produrre la vera “velocità futurista”. Nella velocità c’era, come se questa fosse
soltanto un’apparenza, un’essenza, e questa velocità era la velocità vera della mente, la mente che poteva
ricordare tutte le epoche del passato rendendole presente. Poteva fare esattamente l’opposto di quanto
avrebbe voluto fare Marinetti, che desiderava staccare il presente dal passato per creare il futuro. Il futuro
sarebbe stato al contrario una ripresa di tutti i movimenti del passato e della memoria. Quindi non una
velocità di carattere cinetico, ma una velocità di carattere psichico. Questo in una città come Firenze era
evidentemente rivolto al recupero della tradizione italiana, che nel grande capoluogo toscano aveva il
motore essenziale.

Non si trattava più di muoversi a una velocità materiale, ma soprattutto a una velocità di carattere psichico.
È questa la trasformazione essenziale. Siamo sempre al discorso di Baudelaire “affinché ogni modernità sia
degna di divenire antichità è necessario che la bellezza misteriosa che la vita umana vi mette
involontariamente ne sia stata estratta”. Se questo è il principio, è evidente che l’elemento nascosto, cioè
“la bellezza misteriosa” nascosta nella macchina è proprio una velocità che non è soltanto materiale, non
soltanto cinetica. Ciò che bisogna fare è estrarre la vera velocità dalla macchina, che è l’elemento che
renderà classico il moderno.

La svolta fiorentina futurista è davvero fondamentale in questo senso: distacco dal “Marinettismo”,
chiamato così in maniera dispregiativa il “Futurismo” fondato da Marinetti, e creazione di un vero
Futurismo non più fondato al macchinismo letterale di Marinetti stesso. Questa posizione interessò molto
Carrà, che viceversa era stato uno dei cinque firmatari del “Manifesto del Futurismo” del 1910, ma abbiamo
visto sempre come in Carrà vi fosse sempre - e anche in altri, come Boccioni, Severini - un dialogo in
profondità con la tradizione, come abbiamo visto nel legame con la “Battagli di San Romano” di P. Uccello,
oppure la “Nike di Samotracia” in rapporto alle “Forme uniche nella continuità dello spazio” di Boccioni. Qui
gli elementi di corrispondenza tra le forme, qui il vero Futurismo, la vera velocità, il saper percorrere la
storia, il tempo.

Carrà allora stacca progressivamente dalle posizioni milanesi di Marietti, e va verso le posizioni dei
fiorentini. Ecco che se la prima svolta era stato l’articolo del 1915 a firma Papini, Soffici, Palazzeschi, la
seconda svolta è costituita proprio da due articoli scritti da Carrà, dopo la separazione da Marinetti, sulla
rivista fiorentina “La Voce”. Non era più la rivista diretta da Giuseppe Prezzolini, a questo era subentrato
Giuseppe De Robertis - c’erano stati dei dissidi nel contesto della redazione de “La Voce”, e Prezzolini era
andato a Roma ad aprire un’altra voce, che si chiamava “La Voce Gialla”, cioè la voce politica. A Firenze
c’era invece “La Voce Bianca”, così era stata cambiata la veste grafica diretta dal critico De Robertis, allora
molto giovane.

Era un uomo di grande acume e di grande capacità di lettura delle forme, anche al di là delle letterature e
delle etichette, ospitò su “La Voce” del 1916 due articoli di Carlo Carrà: “Parlata su Giotto” e “Paolo Uccello
costruttore”. È come se Carrà improvvisamente facesse uscire tutto ciò che non aveva detto, perché in
fondo anche per convenienza aveva mantenuto una posizione subalterna rispetto a Marinetti, che era
anche colui che metteva soldi in queste imprese. Adesso come artista Carrà si era più affermato, e si sentiva
di dire compiutamente ciò che aveva sempre pensato, cioè che il legame con la tradizione anche per un
futurista risultava assolutamente fondamentale. Ora nel suo articolo “Parlata su Giotto” sostiene: “Io
comprendo la pittura di Giotto, perché il mio ideale contiene quella pittura”. Di qui la velocità psichica:
l’ideale giottesco è ancora presente in un pittore del XX secolo, in Carlo Carrà, che ci si riconosce. Una parte
è là, c’è un elemento giottesco nel presente, una possibilità in questo senso di ritrovare degli elementi nella
pittura di Giotto ancora utili per la pittura del presente.

Ne “Paolo Uccello costruttore” - e di qui è chiaro il parallelismo tra la “Battaglia di San Romano” di P.
Uccello e “I funerali dell’anarchico Galli” - in questo intervento molto bello e chiaro: “Il massimo moto è pur
sempre nel tuo cuore fermo. Se sei su un’automobile che corre, il fermo è pur sempre il signore del
movimento. {…}”. Riforma l’automobile, die che se sei sull’automobile che core, il fermo è pur sempre il
signore del movimento: chi guida alla fine sta fermo nell’automobile che si muove. “{…} Può ben trarre le
licenze che meglio aggradisce l’angusta dottrina della dotta ignoranza [ovvero il Marinettismo, perché i
fiorentini accusavano Marinetti stesso di ignoranza]: io vo’ salire fino al mio astro!”. “Al mio astro” significa
“al mio io”, al mio centro di gravità permanente, che è quello che guida la macchina, è quello che ricorda
tutto ciò di cui ha bisogno, è a contatto profondo e diretto con la tradizione.

È allora qui che torna il principio baudelairiano della “vaporizzazione e centralizzazione dell’Io”, che ci dà
una versione della questione: “affinché ogni modernità sia degna di divenire antichità è necessario che la
bellezza misteriosa che la vita umana vi mette involontariamente ne sia stata estratta”. Io prima devo in
qualche modo aderire alla realtà, anche a rischio di vaporizzarmi, accostandomi alla macchina così com’è,
ma poi devo avere anche la capacità di far sì che ciò che è nascosto nella macchina venga anche rivelato
dalla mia necessità di esprimermi, di qui “io vo’ a salire fino al mio astro”.

Ecco il punto: la macchina era solo l’apparenza il cui movente era la memoria. Ecco il ritorno a un tema
formidabile, il senso della memoria: c’è qui un tema molto forte in termini quasi contemporanei rispetto al
“De Stijl” e al “DADA”. Gli italiani hanno questo tema fondamentale della memoria, della storia, che agli
altri due manca, e anche di storia e di memoria della propria tradizione. Il tema era quindi la memoria che
tendeva a riguadagnare continuamente il rapporto con il presente, per sospenderlo in un tempo “inattuale”
- volendo citare Nietzsche -, un tempo determinato da una serie di corrispondenze di legami tra le forme
dell’arte, predisposte e sostenute dall’io.

Di qui una quarta dimensione di natura tutta interiore, che non è altro che la storia: è il legame che passa
tra le forme della storia dell’arte indipendentemente dalle dinamiche dalla realtà. La cosa importante è
essere sempre capaci di avere questo legame, questo rapporto. Facendo un discorso circa la paternità di
questa idea di inattualità, possiamo fare il nome di Giovan Battista Vico, e la storia ideale eterna, quella
dimensione sottile, formale, che porta le forme stesse dell’arte a comunicare le une con le altre. Il pittore
della vita moderna che capisca veramente quale sia l’essenza della macchina entra in comunicazione con
questa dimensione che è nascosta nella velocità appunto della macchina stessa.

Questa dimensione è per Carrà proprio la storia dell’arte, e si dovrebbe aggiungere proprio la storia
dell’arte italiana. Il Futurismo puntava per Carrà, con questa dimensione dinamica, a un recupero del
passato, e qui il dato enanziodromico. Nel tempo della guerra la riconquista di un’identità culturale che la
guerra metteva in pericolo, anche di un Umanesimo che la guerra metteva in pericolo, che la tecnica
metteva in percolo. C’è quindi un’operazione di recupero identitario nel corso della guerra, ci si tacca dal
reale ma lo si fa per riguadagnare una familiarità profonda con la propria tradizione. questa è la specificità
italiana.

- L’articolo di Carrà su Giotto, 1916.

Frontespizio de “La Voce” del 1916, dove c’è l’articolo di Carrà su Giotto.

- Giotto, “Vita di S. Francesco”, Assisi, sec. XIV;


- C. Carrà, “Composizione TA”, 1916.
La “Composizione TA” riprende nell’essenza la scansione delle forme che è presente in Giotto. C’è una
differenza enorme in termini di grandezza: la superficie del dipinto di Giotto e quello di Carrà. È come se nel
dipinto di Carrà fossero tradotte quelle forme giottesche in una dimensione costruttiva generata dalla
memoria in rapporto alla volontà dell’artista di ricostruire questo senso della tradizione. Guardando il
dipinto viene in mente il cubismo, e anche nei ritmi delle forme il futurismo, ma siamo già in una
dimensione diversa. Riporta Giotto nel presente.

- C. Carrà, “Ciò che mi ha detto il tram”, 1911.

Dipinto futurista di Carrà del 1911.

- C. Carrà, “Il cavaliere occidentale”, 1917.

Tra i due c’è una sorta di corrispondenza: è come se il cavaliere fosse un fotogramma bloccato, è come se ci
fosse il dinamismo del tram proiettato in una dimensione sospesa. Questa è una dimensione che fa sì che
da un lato Carrà non rinunciasse ovviamente agli acquisti che il futurismo in termini di sintesi, di libertà, di
associazione tra elementi morfologici appunto, e di invenzione dell’opera senza scrupoli mimetici o
espressivi di carattere psicologico. “La forma l’aveva cercata in un tram o nella folla circostante o in esso
trasportata, e lui fra quella!” - così in quanto pittore della vita moderna, agisce tra la folla. “Ma da quando,
in sodalizio coi lacerbiani [Soffici e Papini] e gli ultimi vociani [De Robertis], aveva iniziato a sostenere che:
«l’immateriale cerca adeguata forma, e la forma cerca la superiore armonia», si era rivolto direttamente a
Giotto e a Paolo Uccello.”.

Ecco la storia ideale eterna di Vico, ecco l’elemento appunto formale, storico, che richiama la sintesi che
Carrà voleva produrre. Da quel momento si era rivolto alle opere di Giotto e Uccello, e la ricerca di queste
corrispondenze l’avrebbe portato a scoprire delle affinità impreviste con le ricerche che stavano facendo
nell’ambito della pittura i due fratelli De Chirico, Giorgio e Andrea Alberto De Chirico, quest’ultimo che poi
assumerà il nome di Alberto Savinio.

Questo il punto importante, un caso e una necessità, l’incontro avverrà in Ferrara, saranno tutti mobilitati,
arruolati in reparti di fanteria. Carrà prima stava a Pieve di Cento, tra Bologna e Ferrara; i due fratelli De
Chirico stavano a Ferrara. Per una serie di felici circostanze e per iniziativa di un ufficiale medico che amava
la pittura, Carrà e Giorgio De Chirico hanno la possibilità di dipingere addirittura in un ospedale per ospitare
reduci di guerra che avevano avuto dei problemi di carattere psichico a seguito dei bombardamenti.

Anche questo è un piccolo “occhio di ciclone”, in un luogo che è una delle grandi capitali del Rinascimento.
Tutto era cominciato magari a Firenze, ma Ferrara è una città importantissima da quel punto di vista, il
rapporto e il legame con il passato era anche quello qualcosa che si poteva veder con gli occhi. La ricerca
che Carrà stava facendo corrispondeva anche al luogo nel quale si trovava. Il discorso è anche questo:
lentamente si viene a creare dal legame fra Carrà e De Chirico - Savinio verrà poi mandato nei Balcani e sarà
costretto ad abbandonare il gruppo - una cerchia nella quel poi rientrano anche dei pesaresi, tra i quali il
pittore e poeta Filippo de Pisis, il poeta Corrado Govoni. Per i due è un importante sodalizio al di fuori
dell’esercito, che consente di avere un rapporto con la città.

Qui cominciano ad esserci gli accordi tra le due personalità di Carrà e di De Chirico, che erano piuttosto
diverse. Carrà era un reduce dell’avanguardia, questo recupero della tradizione arrivava attraverso le
passate vicende, era quindi un po’ futurista. Invece De Chirico non era mai entrato in nessun gruppo
d’avanguardia, rispondeva di “non esserne mai uscito perché non ne era mai entrato”, in una posizione
innovistica, ma comunque attesta di una posizione di centratura di De Chirico rispetto a sé stesso, elemento
forse essenziale del suo lavoro. In realtà De Chirico si era già dedicato a questo legame con il passato,
indipendentemente da Carrà durante la guerra, quando aveva eseguito un ciclo famoso dedicato alle piazze
in Italia.
- G. De Chirico, “Piazza d’Italia”, 1914.

Qui compare la Piazza Ariostea di Ferrara. La statua in alto, in cima alla colonna, di Ludovico Ariosto, che
diventava la quintessenza del poeta universale, capace come una specie di Orfeo con la lira di riaccordare
tutta la memoria passata, che per De Chirico era anche una memoria classica, spiccatamente classica.
Entrambi i due De Chirico erano infatti nati in Grecia da una famiglia italiana. Il padre era infatti un
ingegnere di ferrovie che si era trasferito in Grecia per motivi di lavoro, e che era l’altro si era stabilito
proprio nella cittadina di Volos, in Tessaglia, dopo De Chirico era nato. Volos è anche il luogo da dove erano
partiti gli Argonauti, per far capire la forte memoria classica di De Chirico, tanto che questo lo ha sempre
condizionato nella pittura: le stesse piazze d’Italia non sono altro che una proiezione dell’agorà antica,
quindi del centro della città.

Ma questo centro è anche l’io, come una centralità che accorpa con un vuoto e pieno attorno a sé tutto
quello che c’è nella vita comune di qui anche il senso della statua di Ludovico Ariosto, emblema dell’io al
centro della piazza. Qui anche abbiamo quindi il tema dell’io che torna sempre fuori. Già questa poetica
delle piazze era ispirata a certe opere di G. Papini, tra cui “Il tragico quotidiano”, una bellissima raccolta di
racconti dove compre questo tempo sospeso che si trova proprio nelle piazze di De Chirico.

È interessante anche il fatto che prima della guerra i due fratelli De Chirico si fossero trasferiti proprio a
Parigi. Prima in Grecia, poi in Italia, poi avevano studiato a Monaco di Baviera, poi erano andati a Parigi e
prima della guerra erano entrati in contatto con la cerchia di Apollinaire.

- G. de Chirico, “G. Apollinaire”, 1914.

Nel 1914 De Chirico esegue un ritratto di Apollinaire, dove si vede il so profilo sullo sfondo, con uno strano
cerchio introno alla tempia nel punto dove poi sarebbe stato ferito in guerra, una specie di ombra. È uno
strano dipinto dove poi De Chirico si autoritrae con l’ironia degli occhiali da sole, come gli occhiai di un non
vedente, una ricostruzione di Omero, poeta cieco. Anche qui ci sono una serie di elementi classici mescolati
con un linguaggio che un po’ risente dell’avanguardia, ma che in realtà vuole sempre essere cerato su sé
stesso, sul proprio percorso.

In questo senso, per quel che riguarda De Chirico, non c’è adesione a nessun movimento di avanguardia,
più che altro la sua posizione è quella di un classicista moderno che però aveva senz’altro assimilato al
lezione nietzschiana, l’idea di quel tempo “inattuale”, sospeso. Ciò a cui Carrà era arrivato attraverso la
macchina, per De Chirico era un’acquisizione avuta attraverso la filosofia di Nietzsche, e attraverso il
confronto con un pittore fondamentale per la formazione di De Chirico, Arnold Böcklin, autore di quei
dipinti che sono più versioni de “L’isola dei morti”. Anche l’idea di inattualità della storia dell’arte è ripresa
da un altro grande storico dell’arte vicino a Nietzsche, Jacob Burckhardt, grande studioso del Rinascimento
che De Chirico aveva studiato.

De Chirico arriva di fatto alla stessa concezione inattuale di storia dell’arte che è propria di Carrà. Si
incontrano venendo da direzioni diverse, ma questo incontro crea un canone tra i più influenti della pittura
del XX secolo.

- G. de Chirico, “Le Muse inquietanti”, 1917.

È una specie di sintesi autobiografica con un fondamento classico di De Chirico: abbiamo la colonna, una
strana figura di spalle, non finiscono mai questi ricchissimi simboli, contengono tante tradizioni di carattere
letterario. Sullo sfondo abbiamo il Castello Estense di Ferrara, quindi il Rinascimento, poi una strana pedana
che sembra rimendare a delle scacchiere. Troviamo sopra delle pedine, dove la Regina è seduta - e ciò
rimanda a tanti altri elementi di carattere simbolico. Si tratta di una sorta di dionisismo, l’idea della figura di
Dioniso-fanciullo che gioca con i pezzi della realtà, li monta e li smonta come una sorta di camera delle
meraviglie. Come si fa a non citare il genio come “l’infanzia ritrovata con la volontà”. Dioniso può avere in
fondo questa funzione, è l’infans, quindi ci sono strane e profonde corrispondenze.

Ognuno esprime le cose a modo suo, ma è fondamentale in De Chirico questa dimensione di classicismo
moderno, che non vuole compromettere con il linguaggio dell’avanguardia. D’altra parte in Carrà ci sono di
fatto gli stessi elementi, che sono però in un certo senso ancora sintetizzati. In De Chirico troviamo un
triangolo, in Carrà ancora un ovale: come se l’ovale fosse una macchina per Carrà, i bulloni sono più stretti.

- C. Carrà, “L’ovale delle apparizioni”, 1918.

Anche per lui sullo sfondo si trova un elemento ambiguo: da una parte vuole citare questo palazzo popolare
nel quale lui in realtà aveva abitato anche a Milano, perché era di umili origini; corrisponde però anche a
una memoria antica, arrivando a Giotto e a pregiotteschi. Più da vicino invece quella figura di manichino
evoca quell’uomo prefuturista, che a De Chirico non sarebbe mai interessata, e insieme tradisce il legame
con il suo passato in un linguaggio che ha tuttavia un equilibrio dechirichaino.

La Metafisica è infatti un’arte che, per usare una espressione di De Chirico, nasce dal “meccanismo del
pensiero”. “Meccanismo del pensiero” mette insieme il concetto del pensiero inattuale, in cui tutto è
contemporaneo, con l’idea della macchina che costituisce però soltanto l’apparenza di quel vero motore
che è la memoria. Questo è il pensiero che crea una sintesi: da un lato De Chirico, dall’altro Carrà. Questo
meccanismo del pensiero crea dei giochi simili a un rebus senza soluzione, in questo tempo sospeso, in una
sorta di dionisismo intellettuale che ha però sempre delle forme molto chiare, molto lineari ed equilibrate.

“L’ovale delle apparizioni” è allora il centro di gravità che Carrà trova in questa sua ricerca a contatto con il
passato, lo porta a dire “Sento che non sono io nel tempo, ma che è il tempo che è in me...”: una volta che
ho fatto centro in me stesso, io posso essere attraversato da tutte le cose. L’io si è dato in realtà una
dimensione di “microcosmo plastico” - dice Carrà -, e questa esperienza fondamentale della Metafisica
Carrà, insieme a De Chirico e a Savinio, de Pisis e vari altri - tra cui anche Soffici, reduce dalle testate
fiorentine che dicevamo, “Lacerba” e “La Voce” -, verrà tutta insieme riversata nella rivista “Valori Plastici”
(1918-1921), sintesi fondamentale della Metafisica e principale modo con la quale essa comincia a circolare
non solo in Italia, ma in tutta Europa. È un veicolo straordinario della Metafisica ferrarese nei confronti
dell’arte europea, e diventerà sinonimo dell’arte italiana “che ha riguadagnato il proprio senso della
tradizione, la propria identità”.

La rivista, diretta da Mario Broglio, aveva anche un’edizione in francese che ne facilitò la diffusione
all’estero. Nel primo numero della rivista, il primo numero è inserito tra i “Documenti”, firmato da Carrà,
s’intitola “Quadrante dello spirito”. È Carrà stesso a commentare il suo dipinto, “L’ovale delle apparizioni”,
dicendo di essere un “microcosmo plastico a contatto mediato con tutto”, e sempre qui scrive “Sento che
non sono io nel tempo, ma che è il tempo che è in me”. Qui il dato essenziale: la libertà dell’io che scopre di
avere un fondamento storico, ed è proprio su questa base che poi Carrà sarebbe tonato a confrontarsi con
il passato mediante una serie di dipinti e di disegni ispirati a un rinnovato giottismo.

- C. Carrà, “Le figlie di Loth”, 1919.

Completava la sua ricerca di un’identità personale che diventava un’identità collettiva, che oramai non solo
proprio reagiva a tutte le perdite prodotte dalla Grande Guerra, ma si mutava in un progetto di
ricostruzione umana attraverso l’arte.

Ecco allora la specificità dell’io moderno in Italia attraverso la guerra in tre punti: “De Stijl”, “DADA”,
“Metafisica” e “valori Plastici”. Facce diverse di un io moderno che è diventato sempre più essenziale: con
“De Stijl” usando le forme geometriche, con “DADA” utilizzando la potenzialità di vuoto che ancora non ha
trovato una propria espressione o invece una dimensione storica, inattuale ma profondamente umana e
identitaria, in “Valori Plastici”.
21° Lezione del corso di “Storia dell’Arte Contemporanea”.
Parliamo della situazione dopo la Prima Guerra Mondiale, e vediamo cosa è avvenuto in alcuni paesi che ci
interessano proprio per i loro valori artistici. Abbiamo parlato dello sviluppo della “Metafisica” e dell’inizio
della pubblicazione dei “Valori Plastici”, intorno alla quale si era creato un ambiente dove le idee della
“Metafisica” erano state esposte e ed estese, e nella rivista intervenivano con regolarità Carrà - che l’aveva
inaugurata -, Savinio, e anche Giorgio e Chirico e molti altri. La rivista aveva interessi di carattere artistico:
l’idea di ricostruzione umana attraverso l’arte a seguito delle distruzioni di una guerra era sicuramente
presente a Carrà, ma non c’era nel contesto del gruppo dei “Valori Plastici” un valore politico preciso.

Invece l’idea di ricostruire l’identità italiana, di dare spazio ad una memoria nazionale era uno dei temi
favoriti, soprattutto di chi si ritrovò progressivamente allineato nel fronte da cui nacque il Fascismo. Da
ricordare che la fondazione dei Fasci di combattimento da parte di Mussolini fu nel 1919. Vicino al duce
troviamo una figura che va ricordata, un trait d’union tra le arti e il mondo della politica, e questa è la figura
di Margherita Sarfatti.

Margherita Sarfatti era una donna coltissima, nata in una famiglia ebrea veneziana, una delle prime
collaboratrici del “Popolo d’Italia”, quotidiano fondato da Mussolini a Milano nel 1914. La Sarfatti si
occupava d’arte, di questioni di carattere culturale; è stata una donna vicino all’avanguardia, al futurismo,
ebbe rapporti stretti con Boccioni. Cominciò a pensare che lui potesse essere, nella prospettiva identitaria
che lentamente si era formata tra la “Metafisica” e i “Valori Plastici”, un elemento comune al movimento
fascista. In questo senso la Sarfatti diede an piegatura all’insieme di ricordi della tradizione e di
riconsiderazione della tradizione - come abbiamo visto attraverso Carrà nei “Valori Plastici” - una curvatura
che lentamente assunse anche un carattere politico, divenne immagine del fronte fascista e del futuro
duce, Mussolini, che nella Sarfatti ebbe una delle sue prime collaboratrici. La Sarfatti diede forse una delle
prime immagini di Benito Mussolini, soprattutto lo accreditò. Si era proprio trasferita a vivere a Milano
presso i circoli moderati e gli industriali, coloro che vedevano Mussoli con cautela e con dubbi perché era
stato socialista.

In questo senso il lavoro della Sarfatti fu un lavoro ad ampio raggio, ed ella lentamente filtrò le istanze
identitarie che erano fiorite attraverso la “Metafisica” e i “Valori Plastici” in un momento nel quale fu
proprio la madrina e assunse il nome di “Novecento Italiano”. “Novecento Italiano” significava che il
Novecento sarebbe stato il secolo italiano, e lei promosse questo gruppo, che si ritrovò circa nel 1921
attorno alla Galleria Milanese di Lino Pesaro. La Sarfatti, proprio per i contatti che aveva avuti anche con i
circoli dell’avanguardia futurista, portò alla sua un importante pittore, Mario Sironi, che era stato futurista,
ed era anche andato incontro a una trasformazione del suo stile un o’ simile a quella di Carrà. Sironi quindi
è colui che in un certo senso riprende la memoria della tradizione in maniera dinamica, si confronta con il
primo Rinascimento con Piero della Francesca.

- M. Sironi, “L’allieva”, 1924.

Si percepisce un legame molto forte, molto stretto con Pier della Francesca. Da notare le forme proposte:
c’è una scultura, un vaso, una squadra sullo sfondo, una piramide, un po’ come ci fosse una progettualità
costruttiva perché pian piano le idee del “Novecento Italiano” si trasfusero nell’architettura. Alcune idee del
ritorno all’antico che noi troviamo nell’architettura italiana del periodo tra le due guerre nascono proprio
da questo modo di rapportarsi al passato rifacendolo presente.

- G. Muzio, “Palazzo della Triennale”, Milano, 1933.

Giovanni Muzio fu un architetto milanese che costruì questo importante luogo di organizzazione di mostre,
palazzo che esiste ancora in Milano, collocato dietro il Castello Sforzesco, vicino al Parco Sempione. Dà
l’impressione di essere di fronte a un dipinto di De Chirico, o anche di Carrà, che evocano memorie anche
che vengono dal Rinascimento o ancora da un tempo precedente, memorie che ci riportano verso una
memoria antica, fatti che vedremo progressivamente riaffermarsi nel contest della cultura italiana.

Il “Novecento Italiano” diventa il volto culturale del nascente Fascismo. All’interno di questo gruppo di
pittori, che all’inizio sono solo otto, ma poi diventano decine e decine perché succede che si corre in Italia in
aiuto del vincitore. Dopo la marcia su Roma del 1922 l’astro di Mussolini comincia a salire, molti lo seguono
anche per interesse. La Sarfatti risultò mezzo di comunicazione tra i fascisti e il nascente regime.

Nel “Novecento Italiano” troviamo pittori che tornano a un’idea di forma armoniosa, solida. Tema
fondamentale risulta quello del vaso, in quanto il dipinto dev’essere ben fatto a regola d’arte, dev’essere
ben tornito.

- Benito Mussolini “modello e artista”.

Benito Mussolini fotografato in posa, forse in quella che lo vorrebbe raffigurare come principe
rinascimentale ritornato.

- P. Marussig, “Due donne al caffè”, 1924;


- F. Casorati, “Conversazione platonica”, 1925.

Pittore che entra nel “Novecento Italiano”, e che seppur in maniera ironica cita però nella sua
“Conversazione platonica” addirittura l’Arianna dormiente nel “Baccanale degli Andrii” di Tiziano. C’è
sempre questo flirt con il passato, questo tornare all’antico.

- U. Oppi, “Ritratto della moglie a Venezia”, 1921.

Si percepisce questo senso di equilibrio, di ordine, senso architettonico di una ricostruzione. Qui diventa
proprio una moda, una concezione che viene proposta alla società, ispirando un gusto che vuole ritornate
appunto ad ordini definiti, e rispondere alla crisi seguita alla guerra e ai disordini sociali scatenatisi in Italia.
Ecco quindi questo ritorno, ricostruzione sociale del senso della tradizione.

Troviamo poi nel PowerPoint qualche altro confronto tra il presente e il passato. Bisogna tener presente
come modello iniziale la “Maternità” di Gino Severini nel 1916.

- G. Severini, “Maternità”, 1916.


- S. Botticelli, “Madonna della spiga”, 1485.

Si trova una specie di aria di famiglia, aria comune.

- A. Funi, “Maternità”, 1921.

Funi fu pittore del “Novecento Italiano”, in quel momento sembra riprendere Severini e i modelli antichi.

- A. Funi, “La terra”, 1921.

Senso della terra, della vita. È riconoscibile un vaso sulla destra, ben fatto. La ragazza del dipinto evoca un
famoso dipinto di Tiziano del 1555.

- Tiziano, “Ragazza”, 1555.

Per vedere ancora questa sorta di assimilazione tra la società italiana del tempo e quella antica.

- U. Oppi, “Tre chirurghi”, 1926;


- D. Ghirlandaio, “Cacciata di Gioacchino”, 1490, part.

Si trova in Santa Maria Novela, realizzato dal Ghirlandaio verso il 1490.


Il grande mito dell’ordine sarà anche quello di pensare all’Italia come se fosse in un certo senso la Firenze
del Quattrocento, con Mussolini nei panni di un rinato Lorenzo Il Magnifico. È una posizione che si può
condividere o non condividere. Al tempo Margherita Sarfatti fu la madrina di questo sviluppo, e anche di
questa ideologia che corrisponde almeno per un decennio, dal 1922/23 fino al 1933, a un Fascismo
autoritario e violento nella presa del potere, ma poi più moderato nella gestione dello stesso. È una fase di
un regime conservatore ma non assolutamente autoritario.

Altro accadrà all’inizio degli anni ’30, dal 1933/34 in poi, allora vedremo un’eclisse del gusto del Novecento,
e Mussolini diventerà il vero e proprio dittatore che avrà sempre ragione, ragione che non guarderà più in
faccia nessuno, al punto che nel 1938 ci saranno appunto le “Leggi razziali”, qualcosa che non può essere
visto come fattore politico, ma come fattore eminentemente criminale. La stessa Sarfatti era ebrea, fu poi
costretta andare in esilio, e a pentirsi di tutto ciò che aveva fatto. Dopo la guerra scrisse anche un libro, “My
fault”, “La mia colpa”, dove in un certo senso faceva proprio una pubblica ammenda del ruolo che aveva
avuto, soprattutto ni primi dieci anni in cui il Fascismo era arrivato al potere.

È importante vedere come s crea quest’immagine negli anni ‘20/’30, in quanto il tema della ricostruzione
non è soltanto una prerogativa italiana - l’Italia si è effettivamente molto ricostruita, l’architettura è
diventata la prima delle arti -, ma lo stesso problema avevano avuto tutte le nazioni che erano uscire dalla
guerra, vincitrici come l’Italia o sconfitte come la Germania. È interessante vedere come si può passare il
testimone di questo tema della ricostruzione umana dopo le distruzioni della guerra tra l’Italia e un altro
orizzonte culturale, la Germania.

Anche qui bisogna dare qualche cenno di carattere storico. Introduciamo la questione tedesca con un
fotogramma di Fritz Lang.

- F. Lang, “Metropolis”, 1927 (fotogramma).

Dalla ricostruzione sembra essere diventata un’iperbole, sembra n edificio futuribile, sembra esserci stata
una totale trasformazione della società. Ci sono aspetti immaginativi, ma questa tendenza a ricostruire a
partire dalla voragine che si era riaperta con la guerra è la caratteristica anche della cultura tedesca, anche
se in alcuni aspetti diversi rispetto all’Italia, poi ci saranno anche elementi di affinità. Questa è la ragione
per la quale si introduce la questione tedesca da un libero montaggio.

Si apre citando una frase di Otto Dix, un importante pittore tedesco di questo periodo, attivo già
nell’Espressionismo degli anni ‘20/’30: “Ciò di cui avremo bisogno in futuro è un naturalismo ostinato e
impassibile, un’intensa veridicità, virile e senza errori, come quella di Grunewald, Bosch, Brugel.”. Ecco, è
interessate la citazione dei grandi maestri a cui Dix si voleva rifare, i grandi maestri del passato, in maniera
particolare Grunewald, antichi maestri della Germania.

- M. Grünewald, “Altare di Isenheim”, 1512-15, pala sinistra;


- O. Dix, “Trittico della guerra”, 1923-1932, pala centrale;
- M. Grünewald, “Altare di Isenheim”, 1512-15, pala destra.

È interessante la continuità dello stile, che anche in questo caso Dix pensava che ciò che sarebbe successo
nell’arte tedesca doveva ispirarsi a ciò che la Germania era stata in passato dal punto di vista artistico. Di
qui l’idea di riprendere il passato, anche se Dix lo faceva con una posizione di forte antagonismo sociale
verso le classi dominanti in Germania, facendo cioè vedere nel “Trittico della guerra” gli orrori della guerra
di cui era stato testimone, senza nessuna retorica e senza nessuna enfasi.

La Germania era la grande sconfitta della guerra, c’è soprattutto qualcosa di particolare, un “mutamento
antropologico” avvenuto nel popolo tedesco. Il fatto era che la tecnica aveva avuto una funzione
determinate nella costruzione di quel grande mito di conquista che era l’esercito tedesco e le campagne
militari che avevano fatto credere all’inizio della Prima Guerra Mondiale di poter sconfiggere qualsiasi
nemico. si era creata una progressiva identificazione tra esercito, tecnica e industria. In Germania
addirittura l’organizzazione militare, su una popolazione di circa 60 milioni di abitanti, aveva riguardato 11
milioni di uomini. I morti erano una cifra elevatissima, 1.700.000, e una quantità enorme di mutilati e di
feriti. Tutto ciò in realtà si era consumato nell’idea che l’industria e l’esercito fossero diventati un po’ la
stessa cosa, che la capacità produttiva nel tempo di pace fosse diventata la capacità produttiva del tempo di
guerra, l’una costruttiva e l’altra distruttiva.

Questa trasformazione proiettava anche la psicologia di massa dei tedeschi su un piano che non era più
quello del legame con la natura, le misure e le strutture tradizionali, ma al contrario proiettata in un futuro
nel quale la tecnica nel bene e nel male era chiamata ad avere una funzione determinante. Questo forte
legame con l’industria, il forte legame tra tecnica, industria ed esercito, aveva fatto sì che di fatto la
sconfitta militare, il crollo dell’esercito non avesse intaccato l’industria, questa era rimasta in piedi dietro a
quel crollo. Neppure la mentalità che vedeva comunque nell’industria l’elemento essenziale della
ricostruzione.

Con la crisi politica che comincia nel 1918 con appunto l’armistizio che i tedeschi chiedono, e che ha come
dinamica parallela l’abdicazione del Kaiser Guglielmo II dopo che c’erano proprio state delle rivolte nei
paesi, a seguito delle quali si erano creati dei consigli culturali di intellettuali analoghi ai Soviet in Russia. Si
era temuto che ci potesse essere anche in Germania una rivoluzione come in Russia, allora era stata
proclamata dal Parlamento la Repubblica, poi nominata Repubblica di Weimar, perché per ragioni di
sicurezza il Parlamento di Berlino era stato spostato in questa importante cittadina, dove era vissuto in gran
parte della sua vita Goethe, e dove il Parlamento cominciò a elaborare una nuova costituzione
repubblicana.

Comincia nel 1918 una nuova fase della storia tedesca: il Secondo Reich è tramontato, il Kaiser non c’è più,
è stato sostituito da un Presidente della Repubblica, ma restava la necessità di istituire un legame positivo
con quell’industria, quella tecnica e mentalità creatasi nel corso della guerra e negli ultimi decenni della
storia tedesca. Con l’obiettivo di riprendere un legame democratico e virtuoso con la tecnica e con la
scienza, togliendolo dalle mani dell’esercito e dalla mentalità militarista, che alcuni architetti cominciarono
a muoversi pensando che potesse esserci una progettualità che riattivasse la creatività con l’obiettivo di
usare gli strumenti messi a disposizione dalla tecnica e dalla scienza per ricostruire la Germania su un
modello di carattere democratico.

È chiaro che c’erano stati dei precedenti di poco, soprattutto il “De Stijl”, che esprimeva il bisogno di
riformare il mondo in senso democratico, egualitario, usando quelle forme geometriche che avrebbero
dovuto essere embrione della costruzione di una casa comune dell’umanità. Questa coscienza ricostruttiva
viene proprio portata, mutuata da “De Stijl” e portata in Germania dall’architetto Walter Gropius, il quale
era proprio un architetto che aveva ben presente il legame che avrebbe dovuto esserci tra arte e società,
tra architettura e società. Grazie a quest’idea e ai suoi contatti politici, riuscì a costruire una nuova scuola,
una scuola di arti applicate, e volle che la sede di questa scuola fosse proprio Weimar, dove si riuniva il
Parlamento per elaborare la nuova costituzione democratica.

Proprio a Weimar Gropius riuscì a fondare una scuola dove voleva ricreare un sodalizio nuovo e antico fra le
belle arti e le arti applicate. Riuscire di fatto a creare una riforma della cultura che fosse insieme anche una
riforma delal società. Nel 1919 proprio Gropius fece stampare un Manifesto che annunciava la nascita di
una scuola a Weimar, la “Bauhaus”. “Bauhaus” - che significa “laboratorio” - è il termine con il quale
venivano chiamate le botteghe che si creavano nei cantieri per la costruzione delle grandi cattedrali
gotiche. Era il luogo di costruzione, di direzione delle cattedrali. La “cattedrale” è una sorta di grande mito
tedesco: l’idea era quella di ricostruire una sorta di grande cattedrale moderna con le arti applicate, con
l’obiettivo di “democratizzazione”, con un progetto sociale di cui il Bauhaus sarebbe stato il fulcro
essenziale.
Nel “Manifesto del Bauhaus” Gropius scrive che è venuto il tempo di “ricreare un sodalizio tra le arti”.
Scrive che - v. sezione “Documenti” - “L’obiettivo finale di tutta le arti visive è l’edificio completo! La
decorazione dell’edificio era una volta lo scopo principale delle arti visive, ed erano considerate parti
indispensabili del grande edificio. La decorazione dell’edificio era, una volta, lo scopo principale delle arti
visive, che erano considerate parti indispensabili della grande architettura. {…}”. Qui comincia a pensare
quindi che l’architettura possa assorbire in sé tutte le arti. “{…} Oggi le arti si trovano in una situazione di
compiacente isolamento, da cui possono essere salvate soltanto attraverso il consapevole sforzo
cooperativo di tutti gli artigiani. {…}”. Ecco la proposta: “{…} Architetti, pittori e scultori devono di nuovo
imparare a vedere e comprendere il carattere composito dell’edificio, sia nella sua totalità, sia nelle sue
singole componenti. Solo allora il loro lavoro si reincarnerà nello spirito architettonico che ha perso
nell’arte “del salone” [= arte del “Salon”, arte alla francese, che privilegiava con l’Impressionismo
l’immagine, non l’elemento costruttivo]. {…}”. Secondo Gropius bisogna riformare il linguaggio in generale
delal pittura, delle arti. “{…} Le scuole d’arte del passato non sono state in grado di creare quest’unità; e
come avrebbero potuto dato che l’arte è una cosa che non s’insegna? {…}”. È mancato questo sodalizio fra
belle arti e arti applicate. Quando è soltanto bella arte è legata al genio. “{…} Devono tornare a essere
officine. Il semplice disegno e la pittura, disegnatori e artisti devono costituire un mondo che, finalmente,
ricostruisce. {…}”. Non è soltanto l’immaginazione, non è soltanto il tema appunto astratto, per quanto
finissimo e sottilissimo della pittura, ma appunto la pittura deve ricostruire.

“{…} Quando un giovane sente dentro di sé l’amore per la creazione artistica, inizia come nel passato,
imparando un mestiere; “l’artista improduttivo” non sarà più condannato all’esercizio imperfetto dell’arte,
perché la sua abilità, ora, sarà preservata dall’artigianato, dove potrà raggiungere l’eccellenza. {…}”.
Bisogna essere capaci di essere artigiani-artisti e artisti-artigiani al tempo stesso. “{…} Architetti, scultori,
pittori, tutti noi dobbiamo tornare ai mestieri! L’arte non è una “Professione”. Non c’è alcuna differenza
essenziale tra l’artista e l’artigiano. L’artista è un artigiano esaltato. Il cielo misericordioso, nei rari momenti
d’ispirazione e al di là della volontà dell’uomo, può far sbocciare l’opera d’arte. Ma la competenza è il
mestiere essenziale per ogni artista. Questa è la fonte originale dell’immaginazione creativa.”. Su questa
base Gropius fonda la scuola del Bauhaus a Weimar, e lo fa con l’idea di creare un rapporto virtuoso con
l’industria, facendo sì che nei laboratori del Bauhaus si cominciassero a produrre dei prototipi, dei modelli,
che potessero essere poi dati all’industria per poter poi essere messi in produzione. L’idea è quella di
vedere in questo senso una riforma sociale del gusto; è lo stesso programma del “De Stijl” amplificato e
portato dalla piccola Olanda nel contesto della grande Germania.

Allora in questa rinata “cattedrale dell’immaginazione” Gropius vuole che tutte le forme che avevano dato
vita alle varie tipiche avanguardie tedesche riprendano un nuovo orientamento, e chiama a insegnare nel
Bauhaus sia Kandinskij sia Klee, due grandi reduci de “Il cavaliere azzurro”, con l’idea di far sì che anche
quella spinta spirituale de “Il cavaliere azzurro” diventasse una spinta sociale. All’inizio del Bauhaus vi sono
anche un linguaggio, un umanesimo e un vitalismo che risentono dell’espressionismo, ma si va sempre più
verso un linguaggio costruttivo che tende a tenere presenti quali sono le esigenze economiche, come quelle
della produzione. C’è bisogno di far sì che all’interno del Bauhaus degli oggetti che vengano destinati al
consumo. C’erano a Weimar dei lavoratori nei quali architetti, pittori, disegnatori, scultori e artigiani di vario
tipo lavoravano insieme penando di creare degli oggetti.

Si va dalle stuoie e dagli arazzi che venivano proposti e prodotti da G. Stölzl nel laboratorio di tessitura, e
ancora certi mobili che diventeranno quelli essenziali nelle nostre case, progettati da M. Breuer; sedie e
poltroncine fatte di tubi pieghevoli, progetti dello stesso W. Gropius. Poi il progetto di una cucina di B. Otte
e E. Gebhardt. C’è quindi l’intento di riformare in senso funzionale tutti gli oggetti che erano all’interno
delle case. Anche qui gli oggetti progettati da M. Brandt, come la teiera e il posacenere.

Ma in realtà nel Bauhaus c’è un tentativo di riformare il gusto in generale, ci sono importanti tentativi
nell’ambito della grafica, dove hanno molto lavorato anche come cartellonisti, come creatori di mezzi e
strumenti pubblicitari lo stesso Kandinskij e Klee. Poi si sono avuti progetti di case, o di altri elementi
importanti per la comunicazione. Viene anche nel Bauhaus sviluppata la fotografia, che sarà anche colta a
creare le pubblicità degli oggetti che vengono proposti. Nel Bauhaus ce ne sono stati quindi di tutti i colori e
di tutti i tipi. Però lo spirito democratico di questa scuola era inviso al movimento nazista di tutti i
conservatori, e per cui nel corso della vicenda della Repubblica di Weimar in Bauhaus è diventato proprio
l’emblema di come, per chi aveva un’idea retriva della Germania, violenta e tradizionale, non vi doveva
essere. Gli omini del Bauhaus vennero tacciati di essere dei collaborazionisti segreti dell’Unione Sovietica, di
fare il gioco dei Bolscevichi.

Il Bauhaus ebbe quindi una storia tormentata. Gropius fu costretto a chiudere la sede di Weimar, ma fu
proposto dalla città di Dessau di poter in realtà costruire una nuova sede radicalmente progettata da
Gropius.

- W Gropius, “Il Bauhaus a Dessau”, 1926.

Straordinario futuribile, luogo nel quale si vedeva la luce, ed era illuminato anche di notte in una zona
pianeggiante. Era una specie di astronave che annunciava un futuro diverso rispetto al passato, pur avendo
sempre dentro di sé l’idea di cattedrale. Da ricordare anche che naturalmente nel Bauhaus si svolgevano
tante attività, come un laboratorio di scenografia, progetti per allestimenti teatrali e balletti. Era un
tentativo di riformare la tecnica dall’interno.

- O. Schlemmer, “Balletto triadico”, 1926.

Schlemmer era docente di balletto, ed era come se gli oggetti risultassero animati, come se danzassero.
Questo è uno spirito che si ritrovava anche all’interno del Bauhaus.

Aveva un carattere estremamente cosmopolita: Klee era svizzero, Kandinskij era russo, c’erano uomini e
donne che avevano anche un ruolo di docenza all’interno del Bauhaus e che provenivano da tutta Europa.
La dimensione cosmopolita era quindi invisa all’Iper Nazionalismo, e anche a tutte quelle forme di reazione
contro modernità che progressivamente si incarneranno nel partito nazista e nella leadership di Hitler. Il
punto essenziale è che il movimento nazista cercherà di ostacolare il Bauhaus in tutti i modi, e addirittura si
arriverà proprio alla chiusura del Bauhaus decretata dal primo governo di Hitler nel 1933, dopo che era
stata già chiusa nel 1932 la sede del Dessau, e il gruppo di maestri del Bauhaus aveva cercato una
sopravvivenza un po’ improbabile in una sede molto precaria a Berlino.

- I. Yamawaki, “Attacco al Bauhaus”, 1932.

Il Bauhaus verrà poi cancellato con la presa di potere di Hitler e del Nazional-Socialismo, fatto che il grafico
I. Yamawaki ha straordinariamente sintetizzato. C’è proprio un ufficiale del Nazismo che sta marciando
sopra il Bauhaus come se se lo fosse messo sotto i piedi. Con il crollo di Weimar ci sarà anche il crollo di
Bauhaus, gli architetti a cominciare da Gropius, che erano stati animatori del Bauhaus, rimarranno qualche
tempo in Germania e poi migreranno negli Stati Uniti, dove troveranno altra sorte e altra possibilità di
proseguire in quel progetto ostruttivo straordinario che purtroppo il Nazismo aveva brutalmente interrotto.

22° Lezione del corso di “Storia dell’Arte Contemporanea”.


Mentre in Germania si svolge la vicenda del Bauhaus, guidata da Gropius e da altri importanti architetti, che
hanno dato indirizzo alla scuola, nel senso di quella riforma del mondo tecnico-industriale di cui si sentiva il
bisogno, e mentre - come nel “Manifesto del Bauhaus” - si pensava al ritorno della pittura, dell’arte che
Gropius aveva detto dei “Salons”, della pittura pura nel contesto delle arti applicate, con una
trasformazione di carattere progettuale e anche una revoca di qualsiasi mimetismo o di fluidità di carattere
impressionista a favore d semplificazione di carattere geometrico. Questa è un po’ la metamorfosi che si
crea nel Bauhaus, una “morte e trasfigurazione” dell’Impressionismo in questo linguaggio che diventa
universale di forme da cui poi scaturiscono oggetti di uso quotidiano, dalla caffettiera e la teiera al quartiere
alla città.

Alcuni di questi architetti poi hanno veramente costruito secondo progetti di ampissimo raggio e respiro, e
in questo si può dire che nel Bauhaus ci sia una sorta di ripersa dell’entusiasmo dell’io romantico -
tipicamente tedesco - e anche di quella memoria gotica tipica del Romanticismo: la cattedrale che però,
attraverso quei linguaggi di avanguardia, si trasforma e diventa un’altra cosa. Qui non siamo però lontani
dalla logica de “Il pittore della vita moderna” di Baudelaire, sempre ricordandoci che come nel futurismo il
pittore della vita moderna per il Bauhaus è la società, e questo laboratorio capace di creare nuove strutture
per la società di massa, dando una svolta estetica rispetto al passato. Abbiamo la morte e la trasfigurazione
di alcuni valori che erano stati tedeschi.

Mentre avvien da un lato questo tipo di metamorfosi, c’è in Germania una pittura che resta pittura, che
permane nella logica della tela, della tavola e della galleria, resta nel Salon parigino e non viene volta a una
forma applicata agli oggetti, quindi presenta anche questo genere di linguaggio nella pittura soprattutto. Si
vede quindi in questo senso una “morte e trasfigurazione” dell’Impressionismo: pittori che si erano legati al
vitalismo impressionista, al colorismo espressionista divengono dei pittori che faranno parte di un gruppo
che si denomina come “Nuova Oggettività”.

Già in questa sigla, “Nuova Oggettività”, noi sentiamo l’oggetto; in tedesco sarebbe “Neue Sachlichkeit”,
quindi “Nuova Cosa”. È una pittura che crea degli oggetti, ma non come quelli del Bauhaus: crea dei quadri
che hanno una sorta di linearismo, e in certi casi sono lucidi e formati da superfici che richiamano
comunque la tecnica. C’è un’influenza della mentalità tedesca, di quella “svolta antropologica” avvenuta in
Germania durante la Prima Guerra Mondiale come accelerazione di quella mentalità che aveva unito il
popolo tedesco all’industria tramite l’esercito. È interessante vedere allora come Berlino sia stata una delle
capitali della “Nuova Oggettività” - che si è sviluppata a Monaco di Baviera o in altre grandi città -, come a
Berlino noi troviamo questa strana nuova estetica, e ce la annuncia in qualche modo l’“Alexander Platz” di
Berlino, luogo centralissimo della capitale tedesca, e lo stile di Otto Dix.

- Berlino, “Alexander Platz”;


- O. Dix, “Alla bellezza”, 1922.

È un dipinto nel quale si percepisce un elemento lineare, la rappresentazione di un locale da ballo berlinese,
che ha qualche cosa della struttura della “Metafisica” di De Chirico. C’è una specie di fotogramma bloccato
per costruire un istante, un attimo in cui il tempo risulta sospeso, anche se si tratta di un luogo in cui si
balla, si suona la nuova musica, il jazz, nuovo stile musicale che trova forti ripercussioni in Berlino.

- O. Dix, “Metropolis”, 1926-1927.

Trittico “Metropolis”, nel quale si vede uno spaccato della Germania Weimariana. A sinistra si trova il
povero mutilato con la stampella, poi il luogo del divertimento al centro, poi insieme l’altra faccia sulla
destra, una situazione che fa pensare alla prostituzione, a quei chiaro-scuri che sono tipici della Germania
dopo la Prima Guerra Mondiale. Anche se, questo il punto importante da rimarcare, anche il trittico di Dix ci
propone quelle forme lineari, quelle luci che rinviano proprio a degli oggetti.

Come si era arrivati a questo tipo di stile? Ci sono stati dei concorsi speciali. Come per il Dadaismo e lo
svuotamento completo della pratica artistica, che era diventata una specie di vuoto buddista. C’è stata una
migrazione da Zurigo verso Berlino: esponenti del DADA zurighese si sono proprio trasferiti a Berlino subito
dopo la guerra, protagonisti del “Cabaret Voltaire”, che diventano protagonisti del cabaret berlinese. C’è
quindi una trasformazione del Dadaismo, per cui il DADA entra nel contesto berlinese nel momento della
crisi istituzionale e dei conflitti, momento in cui la Repubblica di Weimar nasce tra le difficoltà.
E i dadaisti sono un po’ degli oppositori della borghesia, della vita “borghese” di qualsiasi tipo di
restaurazione che non sia una rivoluzione. Sono quindi spesso coloro che criticano la Repubblica di Weimar
da sinistra, ci sarà la tremenda opposizione che poi maturerà nel Nazismo da destra, ma poi anche da
sinistra nei confronti della Repubblica. Di questo sono protagonisti anche quegli artisti che hanno origine
impressionista ma che restano affascinati dal dadaismo, revocano il vitalismo impressionista e cominciano
ad esprimersi in forme che sono strane, intermedie. Abbiamo citato Otto Dix, da aggiungere anche George
Grosz, sono uomini che attraverso la crisi dadaista svolgono la loro pittura in una sorta di paradossale
rappresentazione della società.

- G. Grosz, “Metropolis 1”, 1917.

Sono uomini presi in uno strano e convulso movimento in cui si vedono tutti i linguaggi d’avanguardia:
l’Impressionismo, l’Espressionismo, il Cubismo, a rappresentare il caos della società, o il caos nel quale la
società era precipitata a causa della guerra.

- O. Dix, “Sylvia von Harden”, 1926.

Invece al contrario dall’altra parte di Dix abbiamo questo ritratto, proiezione della donna con caratteri virili,
una delle numerose “trasformazioni antropologiche” che si trovano nella Germania Weimariana, una
posizione anche qui che sta tra la caricatura e la verità, come se ci fosse una posizione di critica quasi senza
una fine. Una sorta di continuo avvolgersi della critica su sé stessa, che ha spesso un carattere di distruzione
ancora dadaista.

- Mostra Dada a Berlino, 1920.

Nel 1920 a Berlino si tiene una grande Mostra Dadaista, dove il linguaggio zurighese si accresce. Certi
aspetti pittorici - lo si vede anche nelle pareti della galleria - dati da questo linguaggio critico, satirico e
corrosivo tipico di Grosz e di Dix, che fanno da ponte per questa nuova pittura che si chiamerà poi “Nuova
Oggettività”.

La cosa importante è che in questa trasformazione entra una nuova influenza che proviene dall’Italia, e qui
bisogna ricordare che proprio “Valori Plastici”, quindi l’idea della “Metafisica”, e le opere di De Chirico e di
Carrà diventano dei punti interessanti, perché mostravano anche in questo senso un linearismo e un essere
“metafisico” - essere “al di là dell’elemento visibile” - che aveva al di dentro qualche cosa che poteva
persino richiamare certi paradossi del Dadaismo. È una strana quadratura del cerchio. Un po’ come se vi
fossero la “Metafisica” e i “Valori Plastici” assorbiti in un contesto dominato da una forte tensione sociale -
cosa che nella “Metafisica” non troviamo, non troviamo nessun tipo di critica rivolto alla società -, e insieme
uno strano paradossale odio-amore nei confronti della società della tecnica, de dominio della scienza e
della tecnica.

Lentamente c’è un’assunzione, a volte di carattere nichilista, della ricostruzione della “Metafisica”
tradizionale e dei “Valori Plastici”, in un senso che diventa puro culto della forma, che nella sua perfezione
in realtà rimanda però ancora a un vuoto. È uno strano paradosso di cui però sono protagonisti certi pittori
che agiscono in Berlino, come Christian Schad, che è forse il più importante esponente della “Nuova
Oggettività” tedesca.

Il punto è che nasce anche da questa dimensione oggettiva, da questo tentativo di creare una figurazione
oggettiva, il “Realismo magico”. Da un lato c’è la rappresentazione delle cose così come sono, dall’altro
dato che a volte la rappresentazione delle cose “così come sono” è letterale, si capisce che c’è un oltre,
un’instabilità nascosta dietro la stabilità. Un linguaggio estremamente ambiguo quindi, che sembra parlare
la lingua di un nuovo Umanesimo, ma che in realtà non è nulla di umanistico, è un qualcosa che adombra a
una crisi, una trascendenza in fondo a qualche cosa di effimero e di ambiguo.
- “Valori Plastici” (ed. francese) con G. de Chirico, “Autoritratto”, 1920;
- C. Carrà, “Idolo ermafrodito”, 1917;
- G. Severini, “Maternità”, 1916.
- C. Schad, “Intervento chirurgico”, 1929;
- A. Mantegna, “Cristo morto”, 1480.

Abbiamo una ripresa dell’antico, ponendolo vicino al “Cristo morto” di Mantegna, come se si trattasse in
realtà non del Cristo morto ma di un uomo sottoposto a un intervento chirurgico. Il linguaggio di Schad è
ravvicinato, come se avesse una telecamera, è un linguaggio che risente anche in fondo del rigore che si
può produrre anche attraverso un mezzo tecnico come la fotografia. Si sposa la realtà e il massimo di realtà
con il massimo di irrealtà. C’è un confronto, analogo a quello dei “Valori Plastici” e a quello del “Novecento
Italiano”, con il passato. Abbiamo visto pittori, come Sironi, che si confrontavano con Piero della Francesca,
e chi anche guardava verso Tiziano, o altri casi. Allora i tedeschi lo fanno con il loro passato.

- A. Dürer, “Fürlegerin” [= “Ragazza con i capelli raccolti”], 1497;


- C. Schad, “Sonia”, 1928.
- A. Dürer, “Autoritratto”, 1498;
- C. Schad, “Autoritratto”, 1927.

Anche i pittori tedeschi hanno la possibilità di riformularsi in maniera davvero straordinaria e anche però
con questa ambiguità fra pieno e vuoto. Nei due autoritratti compare il tema delal camicia, che
corrisponde; ma la cosa strana è che Schad è come se indossasse una camicia di pelle, come se anche la sua
personalità fosse stratificata, come se ci fossero strati di superficie corporea, forse sono gli strati dell’io.
Anche qui c’è allora una profonda dimensione dell’io che interviene sulla realtà. Schad era inoltre stato un
Dadaista, aveva e si era espresso con strumenti lontani dalla pittura. Quando entra nella pittura e diventa
maestro della pittura, lo fa con una partecipazione che è anche un distacco, qui è curioso vedere come la
figura della modello sullo sfondo rimandi all’“Olympia”, l’ennesima ripresa del tema e della complessità che
essa sempre suscita. Un altro modo di poter interpretare anche quella dimensione plurima che c’era
nell’immagine dipinta da Manet. Tante erano le memorie che si trovavano alle spalle di quel corpo e più in
generale di quel dipinto, lo stesso dicasi per quel che riguarda Schad, con la modella del 1927.

- F. Lang, “Metropolis”, 1927.

Poi abbiamo parlato della celebre pellicola di F. Lang, “Metropolis”, del 1927. Abbiamo all’inizio visto quello
sfondo fantascientifico della città di un futuro perduto nel tempo. Compare anche un fotogramma dello
stesso film di F. Lang, che nell’ambito della filmografia condivide completamente la poetica della “Nuova
Oggettività”, perché nel film si parla di uno scienziato che è stato in grado di costruire un automa, che nel
film prende il posto di una ragazza, una fanciulla. Per cui il tema della macchina e della tecnica è sempre
presente, nei tedeschi è un dato essenziale. Si potrebbe dire che quella figura di automa che si trova al
centro del fotogramma sia una ripresa del linearismo della “Metafisica”, che veniva dall’Italia portato
nell’immaginario tecnico della Germania, con tutta l’ambiguità che questa poteva avere.

Terribili sono gli anni della Repubblica di Weimar per le tensioni interne, per la terribile ombra minacciosa
rappresentata dal movimento nazista, che cresce progressivamente negli anni ’20 fino ad arrivare al potere
nel 1933 con Hitler, e questa situazione venne spesso rappresentata da Schad ina cluni ritratto che fa di
personaggi berlinesi del tempo.

- C. Schad, “Il Dr. Haustein”, 1928.

Era un medico specializzato nelle malattie veneree e che aveva una clinica nella quale erano presenti tutti
gli esseri umani nati con malformità. Quindi un uomo che era a contatto con il dolore, forse per questo o
sguardo diritto nei nostri occhi, ci fa capire che è un uomo abituato a guardare in faccia la realtà del dolore.
Sullo sfondo compare un’ombra. Quindi c’è anche in questo qualcosa di dolore, di distaccato ma insieme
anche di meditante circa un futuro rappresentato da questa ombra, un dato che si vede molto bene nella
storia tedesca, è stato proprio così.

- R. Schlichter, “Hausvogteiplatz”, 1926.

Altro artista che ha preso parte al gruppo della “Nuova Oggettività”. Il dipinto cita una piazza berlinese,
compare il tema della folla, con una memoria espressionista più forte che non si trova affatto in autori
precedenti. C’è però una forca con un cappio che pende, a far comprendere che c’è qualcosa di tremendo
che sta avvenendo nel contesto di metropoli berlinese. Questo fatto tremendo sarà proprio Hitler e la
venuta del Nazismo, che in verità farà sì che alcuni degli artisti della “Nuova Oggettività” vengano a
dipingere in termini ancora più impassibili la realtà che hanno intorno.

- R. Schlichter, “Ernst Jünger”, 1937.

Dedicato allo scrittore Junger, eroe di guerra, che è ritratto in una sorta di impassibilità, come se stesse per
superare una terribile prova, la prova del fuoco, che può superare solo se si rende indifferente a quello che
ha intorno.

- C. Grossberg, “Prefabbricati”, anni ’30.

Questa indifferenza è quella che ritroviamo come metafora in questo prefabbricato dipinto degli anni ’30.
L’elemento geometrico domina totalmente in una casa che non si sa se sia abitata o disabitata.

Questa è quindi la dimensione ambigua della “Nuova Oggettività” che tuttavia è una delle grandi scuole
della pittura del Novecento, e che porta nell’ambito dell’immagine l’incubo della tecnica, cercando di dare
ad esso una forma, che spesso non è altro che una spoglia perfetta destinata ad essere travolta e a svanire -
salvo poi per quei paradossi che sono tipici dell’arte, riapparire poi alcuni decenni dopo come un modello
che si poteva ancora seguire nei grandi momenti di crisi della cultura e della civiltà.

23° Lezione del corso di “Storia dell’Arte Contemporanea”.


Veniamo a parlare di un argomento affine a quest’ultimo. Questo argomento è introdotto da due opere.

- M. Duchamp, “La sposa messa a nudo dai suoi celibi, anche”, 1915-23;
- M. Ernst, “La vestizione della sposa”, 1940.

La prima fu lasciata incompiuta. La prima parla di una sposa messa a nudo, la seconda di una sposa vestita.
Qui c’è ancora di nuovo un tema già affrontato dalla “Nuova Oggettività” tedesca, cioè la trasformazione
della dimensione del vuoto dadaista in un’immagine, una sorta di ricominciamento. Si era detto come i
pittori della “Nuova Oggettività” fossero stati anche, prima di mettersi a dipingere, dei dadaisti iconoclasti.

Un processo analogo lo troviamo nel contesto della cultura francese dopo la Prima Guerra Mondiale. In
maniera didascalica u punto di partenza lo troviamo nell’opera di Duchamp, “La sposa messa a nudo dai
suoi celibi, anche”, ne “La vestizione della sposa” di Ernst troviamo un punto di arrivo. Ma anche qui
cerchiamo di ricostruire il processo come per la Germania.

Qui troviamo uno sviluppo di quelle ricerche intra-avanguardistiche che erano fiorite a Parigi nel contesto
della “Section d’Or”, tra cui ho segnalato quelle di Marcel Duchamp e di Francis Picabia. I due avevano
trascorso gli anni della guerra a New York, ma poi erano riusciti ad avere dei contati con il gruppo di
“Cabaret Voltaire” e di Zurigo. Si può dire che vi fosse una sorta di affinità elettiva tra le ricerche zurighesi,
con quel loro strano doppio sfondo di distruzione e raggiungimento di un punto in cui l’io diventava
incrollabile, quanto in verità Duchamp aveva già fatto prima della guerra e avrebbe continuato durante,
ossia il raggiungimento di una dimensione mentale dell’arte - secondo la sua poetica. Una sorta di
trasposizione della forma dal visibile all’invisibile, che lo stesso Duchamp chiamava “non retinica”, che non
poteva valersi di una retina per non essere “vista”.

- M. Duchamp, “Nudo che scende le scale 2”, 1912.

Quest approdo, questo contradditorio ma fertile approdo, Duchamp lo aveva già cominciato con un’opera
che lo aveva reso celebre, lo strano dipinto che incarna poi quello spirito intra-avanguardistico della
“Section D’Or”. Duchamp dipinge questo nudo che scende le scale usando un metodo analitico che ricorda
da un lato l cubismo, dall’altro il futurismo. Lui lo definiva una “rappresentazione statica del movimento”,
una sorta di flagrante contraddizione.

Perché Duchamp usava questo linguaggio appunto contradditorio, che poi diventerà spesso allusivo e
ambiguo? Perché era interessato a spogliarsi degli estremi stessi che si potevano trovare nell’avanguardia,
cioè la stasi, analisi sottilissima del cubismo, il dinamismo sottile del futurismo, per centrarsi su sé stesso,
per scoprire l’io come fondamento. È una forma di “distrazione radicale”, come diciamo con Bergson, cioè
quello che vedo genera una contraddizione tale che produce una sorta di salto verso l’interiorità. Questo è
il punto fondamentale che Duchamp persegue già al tempo delal “Section D’Or”, e poi continua a elaborare
durante la guerra. Era stato infatti scartato dai ranghi dell’esercito ed era andato a New York, si era
allontanato e addirittura distratto dalla stessa situazione che in Europa si era venuta a creare. Questo è un
elemento piuttosto affine ai dadaisti zurighesi che erano nell’“occhio del ciclone”, ma insomma sempre in
una posizione di non aderenza piena, diretta, con ciò che avveniva nel vecchio continente.

In questa posizione di “indifferenza” c’era pur sempre un riflesso di ciò che stava succedendo. Per Duchamp
il discorso è ancora più lontano però dalla realtà. Duchamp non sarà mai interessato a tradurre la sua opera
in qualcosa di critico, oppositivo o sociale, come abbiamo visto avvenire quando Dada passa da Zurigo a
Berlino. Era una specie di monaco, una figura solitaria, amava l’azione e non la meditazione. Ed è proprio
con questo senso meditativo che, proseguendo sulla falsa riga delle ricerche cubiste, lo avevano portato dal
quadro che diventava un oggetto all’oggetto che diventava un quadro, continuando su questa falsa riga
arriva a elaborare una sua forma d’arte piuttosto contradditoria, il “ready-mades”, ovvero “(oggetti) già
fatti”.

- M. Duchamp, “Ruota di bicicletta”, 1913;

Diventano realmente dei supporti meditativi. Queste forme meditative Duchamp li teneva nei luoghi che
abitava, li teneva presso di sé. Ed è curioso come nella “Ruota di bicicletta”, tornando al “Nudo che scende
le scale 2”, trasmigrasse un qualcosa di quel movimento statico nei raggi della ruota. Raggi che però sono
posti in una posizione, come quella della ruota stessa, che non è più tangente alla terra. È rovesciata, è
sollevata, in questo senso è una ruota che non fa presa su nulla, una ruota buddista, una forma da
contemplare per poter poi, attraverso la contemplazione e la meditazione, aprire un varco attraverso la
percezione retinica della mente stessa in una prospettiva di carattere metafisico.

- M. Duchamp, “Scolabottiglie”, 1914.

Stesso discorso fatto con lo “Scolabottiglie”, dove troviamo degli elementi formali, delle analogie, delle
corrispondenze rispetto al Nudo che scende le scale 2”. Anche qui abbiamo un oggetto che in realtà è
“deterritorializzato”, tolto al suo territorio di impiego, perché in questo scolabottiglie non ci sono le
bottiglie da scolare. Anche qui è come se ci fosse una sorta di vuoto.

Duchamp avrà una sottigliezza straordinaria nel riflettere proprio sugli oggetti. Fondamentalmente
l’oggetto è qualche cosa di presente e di assente. In queste contraddizioni, con una sorta di tantrismo, di
esercizio che è anche una sorta di violenza interiore nel distaccarsi progressivamente dal mondo visibile,
appare la dimensione del pensiero puro. Questo discorso Duchamp lo riportava ad antiche fonti che lo
avevano interessato, e che si riportava al simulare la dimensione cosmica e la dimensione addirittura di una
sophia - discorso della “Celeste sophia” de “Il cavaliere azzurro”; Duchamp si recò a Monaco di Baviera nel
1912 e conobbe l’ambiente de “Il cavaliere azzurro”. Il pensiero è quella “sposa celeste”, o comunque
quella dimensione metafisica onniavvolgente da cui tutto viene e a cui tutto ritorna, che l’artista deve
sforzarsi di sentire e di ricreare al di là del visibile. È proprio il punto di Duchamp.

- M. Duchamp, “La sposa messa a nudo dai suoi celibi, anche”, 1915-23.

Significa proprio l’attraversamento del visibile. Nella parte bassa - è un’opera complessa - si vedono degli
oggetti che sono a volte stampi di oggetti industriali, come se a volte negli oggetti ci fosse un pieno e un
vuoto. Chi parla e chi medita quegli oggetti - sono praticamente come ombre - è chiamato a congiungersi
con la “celeste sophia”, in una dimensione che però non comporta possesso - si è molto più posseduti dalla
“celeste sophia” di quanto si possiede; ci si svuota per poter ritrovare questa dimensione. Il paradosso della
sposa messa a nudo, rappresentazione del pensiero spogliato di qualsiasi dimensione meditativa, implica
che abbia dei celibi, non dei mariti. I quali a loro volta si svuotano di ogni tentativo di possedere questa
sposa per esserne posseduti. Questa dimensione indeterminata dell’opera è sottolineata da quell’“anche”,
come se ci fosse un “oltre”, senza che però possa essere conseguito. È una dimensione fredda ma anche
una dimensione vertiginosa.

- M. Duchamp, “Fontana”, 1917.

Qui si può anche vedere come in un’opera, spesso per equivoco considerata di carattere solo critico o
provocatorio, come l’orinatoio, quando abbiamo di fronte la “Fontana”. È un’opera sempre indicata come
una sorta di provocazione, ma in realtà in questa apparenza c’è un inganno. “Volevo mettere la pittura al
servizio dello spirito...”, dice Marcel Duchamp, e sotto questo orinatoio con la scritta “Mutt”. Anche questa
è deterritorializzata, l’orinatoio non è più in uso, è sottratto da qualche altra cosa, come nelle opere viste in
precedenza. È un pineo che è insieme vuoto, e questo vuoto nell’orinatoio assomiglia a un utero, un
grembo. Come se ci fosse una sorta di proiezione, come se nell’orinatoio dovessimo vedere una sorta di
traccia, di soglia dell’opera, della materia che si trasforma in pensiero.

- M. Duchamp, “Aria di Parigi”, 1919.

Su questo tema Duchamp torna con un’atra opera, eseguita dopo il ritorno a Parigi, dopo New York e
Buenos Aires, nel 1919. Si tratta di una fiala di liquido fisiologico vista all’interno di una vetrina di farmacia a
Parigi, svuotata, resa “ready-made” e presentate una scritta, “air de Paris”, “aria di Parigi”. Sembra che
l’aria di Parigi sia il vuoto stesso all’interno dell’orinatoio. C’è un gioco fatto da Duchamp: come se a Parigi
non c sia altro modo di esercitare l’arte, se non quello di utilizzare un’arte non visibile, un’arte del vuoto,
del puro pensiero. Che tra l’altro per Duchamp significava registrare l’eclisse avvenuta nella città “del
vecchio mondo”, cioè dell’Europa, a causa della guerra. È il raggiungimento di una dimensione metafisica, è
il metafisico a cui Duchamp allude con questa sua “aria di Parigi”.

In questa sua dimensione mentale e intellettuale dell’arte c’è una sua interpretazione del Dadaismo:
Duchamp è ancora più essenziale rispetto al Dada, ancora più trasparente. Fu rigoroso nel continuare a
trovare possibili passi successivi a quelli che aveva condotto dalla pittura fino alla trasparenza. Intanto per
rigore lasciò incompiuta e trasparente “La sposa messa a nudo dai suoi celibi, anche”: si accorse che
quell’opera non poteva essere compiuta perché era compiuta dalla sua trasparenza, era reale nel suo
riflesso intellettuale, non serviva altro.

Abbandonò anche la scena artistica, pur rimanendo sulla soglia, mettendosi a giocare a scacchi. Come se il
gioco degli scacchi fosse una sorta di “ready-made”, e nella sua opera presenta poi anche altri “ready-
made” che fece in tempi successivi e altre operazioni che compì negli anni successivi alla fine della guerra,
come se questi fossero una grande partita a scacchi. Possiamo allora dire che la sua opera sia una grande
interpretazione del gioco a scacchi: bisogna pensare di giocare a scacchi con Duchamp, il quale però ha una
sottigliezza tale che spesso ci fa “scacco matto”.

Certo che il punto al quale era arrivato, la dimensione trasparente, mentale, sophianica, vicina al vuoto
buddista, era un limite che condividevano tutti coloro che aveva preso sul serio il Dada e la ricerca di
un’arte non retinica. Ci si domanda allora che fare, e capiamo perché il Dada a Berlino non lo abbiamo visto,
si trasforma in opposizione sociale, in immagine, ha bisogno di prendere qualche corpo. In Francia avviene
la stessa cosa.

Ecco allora che dall’atto di svestizione della sposa si passa a quello di vestizione. Il primo atto di vestizione
della sposa si ha con la nascita di un movimento importantissimo nella prima metà del Novecento,
importante nel contesto delle avanguardie, forse l’ultima delle avanguardie, il Surrealismo. Il cui
“Manifesto del Surrealismo” viene scritto nel 1924 dal poeta e critico André Breton.

- “I Surrealisti” (al centro quadro di R. Magritte).

Troviamo un tema sophianico legato proprio alla donna di Magritte: si legge “je ne vois pas la ? cachée dans
la forèt”, cioè significa “la donna nascosta nel bosco”. Tutti i surrealisti hanno gli occhi chiusi, come se la
donna fosse visibile solo a occhi chiusi, fosse la donna della mente. Tutti compiono insieme questa
operazione, questo vedere con la mente. Possiamo subito tenere presente in questo senso che tutti i
surrealisti sono statti prima dei dadaisti, sono passati prima per la trasparenza; a un certo punto però da
questi occhi chiusi, o con questi, si sono sforzati di trovare il modo di tradurre il vuoto in un’immagine.

Tanti sono stati i surrealisti: quello che sta immediatamente in alto sopra la testa della donna al centro,
quello è André Breton; sulla sinistra troviamo un suo amico, Louis Aragon, grande poeta che accompagna
Breton nell’avventura surrealista; a destra c’è un regista. Di qui l’importanza dell’immagine, del cinema.
due poeti e un regista. Sempre sulla sinistra, subito sotto l’angolo, abbiamo Salvador Dalì, pittore. Poesia,
cinema, pittura. Il volto subito sotto quello di Dalì è di Max Ernst, pittore tedesco autore della “Vestizione
della sposa”. Ancora da segnalare, allo stesso livello di Dalì ma dall’altra parte, il volto di uno dei grandi
poeti del Surrealismo, Paul Eluard, grande amico di Breton. Abbiamo nominato anche altri esponenti meno
noti del surrealismo, abbiamo nominato arti diverse, perché nel Surrealismo c’è dentro un po’ di tutto.

- M. Ernst, “Il ritrovo dei grandi amici”, 1922.

Sono praticamente gli stessi della fotografa, con anche delle presenze particolari: Breton, autore e
firmatario del “Manifesto del Surrealismo” del 1924, uomo di grande cultura, pensava che il surrealismo
fosse un movimento che potesse portare dentro di sé anche delle memorie molto antiche, addirittura
classiche, arrivando fino alle “Metamorfosi” di Ovidio, a Luciano e a quei strani romanzi di sfrenata
immaginazione del periodo ellenistico. Erano presenti a Breton anche tanti altri artisti più recenti, però
pensava che elementi del Surrealismo ci fossero anche nei romanzi di Swift. Il Surrealismo per Breton
diventerà una categoria della miglior cultura occidentale, e questa è la ragione per la quale, guardando con
attenzione fra i grandi amici della famiglia surrealista, che sembra riunirsi in qualche pianeta del sistema
solare, forse sulla Luna, nella parte centrale ci si trova anche Raffaello. Anche questo è un fatto che ci
sorprende, ma è interessante. Così anche nella prima fila si trova una specie di busto, che non è altro che
Dostoevskij, figura di grande rilievo culturale. Compare anche una figura con un mantello arancione e anche
la mano che indica verso l’alto, Breton, e alla sua destra sbuca un volto, quello di Giorgio De Chirico. Anche
qui, come in Germania si comincia a pensare che la “Metafisica” e ciò che era nato dalla “Metafisica” fosse
uno strumento per ricostruire un’immagine a partire dal vuoto dadaista. Qui troviamo anche una sorta di
congiunzione, di influenza, per cui la “Metafisica” e i “Valori Plastici” sono risultati importantissimi. In
particolare la “Metafisica” di De Chirico era importante anche per i francesi.
Da un punto di vista cronologico, per quel che riguarda la vicenda dell’immediato dopoguerra, il 1919 è
l’anno in cui arrivano a Parigi i reduci da Zurigo, mentre altri erano andati a Berlino. Troviamo Tzara a Parigi,
e da lì viene diffuso il “Manifesto del Dadaismo” a posteriori. L’attività di Tzara a Parigi vede come
riferimento e come contrappunto e come collaborazione la presenza di giovani poeti come Breton, Aragon,
Eluard. Da questi confronti e anche dal fatto che alcuni artisti dell’immagine stimavano Tzara e lo
consideravano un punto importante - tornando dagli Stati Uniti, Picabia era addirittura voluto andare a
Zurigo a conoscere Tzara. Tzara arrivato a Parigi trova terreno fertile anche nel campo delle arti figurative,
non soltanto nel campo della letteratura. Da questo insieme nasce il “Bulettin DADA”, rivista diretta dallo
stesso Tzara. Altra rivista che assume posizione dadaiste nell’ambito della letteratura è “Proverbe”, diretta
da Eluard. Altra rivista è quella di Breton, “Licterature”. Ve ne sono diverse che costituiscono l’embrione
che matura il contatto con il dadaismo.

Però il punto è che rapidamente anche la questione mostra un po’ la corda: non si riusciva a progredire otre
quella dimensione vuota, quell’assoluto vuoto a cui Dada era giunto, come una sorta di ripetizione. L’unica
cosa che interessava veramente erano quegli automatismi compositivi che si trovavano sulle prescrizioni
che Tzara dava sul come si fa una poesia dadaista. L’idea degli automatismi psichici, è qui che si trova
l’elemento più fertile che Dada sembra aver recato nel contesto parigino. Riflettendo su questo, e anche
per un’attenziona molto profonda alla psicanalisi freudiana, vengono intraprese le prime forme di esercizio
di scrittura automatica, come se in un certo senso si lasciasse la mano scrivere liberamente tutto quello che
viene dalla mente. Come se ci fosse in questo senso una ripresa, una certa dimensione radicale delle
corrispondenze di Baudelaire, delle affinità fra le pure forme giocate attraverso l’idea dell’inconscio. Quindi
esercizi di scrittura automatica, di libera associazione di elementi verbali, fonetici, di qualsiasi forma. È
questa la strada che Breton segue, e che in definitiva poi lo porta a una ricerca in quel vuoto del dadaismo
nel quale vuole cercare di trovare un fondamento creativo-immaginativo. Vuole lasciarsi alle spalle,
depurarsi di tutto il superfluo e le apparenze, volendo arrivare a qualcosa di vivo e dinamico, non solo alla
contemplazione buddista di un muro o alla meditazione sul nulla.

Questo tipo di ricerche, di sedute di scrittura automatica individuale e collettiva - ne parla lo stesso Breton
nel “Manifesto del Surrealismo” - generano un colloquio profondo, un dialogo profondo tra l’io e l’altro, tra
il conscio e l’inconscio, una tensione che lentamente trova an sorta di trasformazione nell’ambito delle arti
figurative quando Ernst - che è tedesco ma poi si trasferisce per stare a Parigi - viene in contatto proprio
con le opere di De Chirico e con i gruppo di “Valori Plastici”.

- G. de Chirico, “Le muse inquietanti”, 1917;


- M. Ernst, “Katharina ondulata”, 1922.

C’è allora in lui un confronto con la “Metafisica” dechirichiana. Qui c’è anche un tema di non senso, qualche
cosa che esplora tra il tema del cosciente e dell’incosciente, della profondità e della non profondità, ma
comunque l’opera di Ernst risente dell’impianto dechirichiano. È un’altra variante della “Metafisica”. La
caratteristica di questa pittura che attraverso la negazione dadaista, arriverà a creare delle libere
associazioni, degli automatismi formali che saranno poi la caratteristica del surrealismo in letteratura,
pittura, in tutti gli ambiti dell’arte a cui i surrealisti si volgeranno.

Cominciamo a vedere una resurrezione immaginativa che supera di fatto il dadaismo. Si può dire che Dada
si estingua, ammesso che fosse possibile, attorno al 1922, dopo che nel 1921 Ernst ha tenuto una sua
mostra a Parigi, dove ha tra l’altro, con l’entusiasmo generale di Breton, Aragon, Eluard, mostrato dei
collages.

- M. Ernst, “Le Pleiadi”, 1922.

In questo troviamo degli elementi ritagliati. Interessante la figura della donna, che per i surrealisti è
l’equivalente di pensiero incarnato, una soglia. La si vede con gli occhi chiusi, appunto abbiamo visto in
quell’opera con tutte le piccole fotografie. Ma la memoria di averla vista con gli occhi chiusi è un modo per
riscoprire la donna nella sua essenza materiale, nella sua presenza. C’è una forte ambiguità in questo: la
donna sembra veramente la soglia tra il conscio e l’inconscio, il luogo nel quale le due dimensioni si
raccolgono.

Capiamo allora perché poi dipingerà quel quadro, “La vestizione della sposa”, perché proprio è come se
quel pensiero fosse in un certo senso dalla sua purezza e dalla sua trasparenza in Duchamp riportato, come
vestito dalla sposa la quale, pur in una distanza che non vuole il possesso, è un rendere presente qualcosa
che altrimenti non lo sarebbe stato. È una lotta per l’immagine.

Se vediamo le opere di Ernst in maniera particolare, vediamo una caratteristica tipica del surrealismo, ossia
di essere un’avanguardia che raccoglie in sé tutte le avanguardie del Novecento. È una sorta di riepilogo di
tutti i linguaggi, l’estremo sviluppo di quei contatti intra-avanguardistici della “Section D’Or” a Parigi.

- M. Ernst, “L’inquisitore alle 7.07, giustizia è fatta”, 1925.

È un dipinto nel quale sembra di vedere elementi di carattere cubista. Ma in fondo compaiono queste
strane forme che sembrano una catena montuosa, che sembra ricordare Cezanne. Poi dietro le strane
forme di una bombetta messa in cima a un bastone, scansioni che sembrano rimandare a De Chirico,
“Ritratto di Apollinaire”. Tanti elementi messi insieme insomma, liberamente associati: di qui lo sviluppo di
un linguaggio fortemente ispirato al sogno.

- M. Ernst, “Gesti selvaggi per lo charm”, 1927.

Si vede anche questa dimensione inquietante, le figure del sogno con rimandi molto profondi. I surrealisti
non erano però solo invaghiti da questa idea del sogno e dell’automatismo, ma erano spesso anche uomini
di grande cultura, come lo era anche Ernst. Sembra di vedere qualcosa di Goya, le famose figure nere. E
anche in Ernst c’è sempre una sorta di legame con il passato, che fa riapparire il passato in questa
dimensione surreale.

- M. Ernst, “Napoleone nel deserto”, 1941.

Ancora più legato a certi temi del sogno, sempre rilegato alla forma. Già qui compare il contesto della
“Vestizione della sposa”, dello stesso tempo.

Breton nel “Manifesto del Surrealismo” celebra i temi dell’automatismo, nel rapporto fertile con il sogno
come fonte di creatività. In questa dimensione di sogno attiva si segnala Max Ernst come pittore surrealista
per antonomasia. È il rappresentate del surrealismo quasi in senso ufficiale. Per questa ragione Ernst
continua il suo lavoro sperimentando una quantità di tecniche nuove: usa il frottage, la capacità di ricalcare
una forma messa sotto al foglio con la matita; userà lo stesso per creare forme derivate direttamente dalla
natura, ecc.

- M. Ernst, “Ruota della luce”, 1925;


- M. Ernst, “Interno della visione”, 1929.

In questo contesto di ricerca ad ampio spettro compare anche una bellissima fotografia di Man Ray.

- Man Ray, “Nero e bianco”, 1926.

Pittore americano e artista surrealista, Duchamp lo aveva conosciuto durante la Prima Guerra Mondiale
negli Stati Uniti, sarà poi quasi sempre a Parigi. Lascerà la pittura per la fotografia. La donna rimane
l’elemento essenziale con questa maschera africana, come a dire che nel surrealismo ci sono contatti con
tutte le culture. Anche in questo c’è uno sviluppo delle maschere africane di Picasso. Ci sono tanti rimandi,
non dipinti ma un oggetto vero e proprio. E come la pittura, anche la scultura può diventare surrealista.
- A. Giacometti, “Donna cucchiaio”, 1926-27.

Questo scultore svizzero sta a Parigi, diventa sodale di Breton, Aragon, Eluard. Qui nella scultura compare
anche un elemento ironico, perché il cucchiaio è un oggetto che potrebbe stare su una tavola, ma che
invece viene ricavato fino ad assomigliare a qualcosa che potrebbe essere la statuetta di una dea che
potrebbe essere presa da una cultura africana o mediterranea.

Tutto comunica con tutto. E Breton teorizzava in questo una sorta di svolta tale da far sì che l’individuo
diventasse un luogo di congiunzione intorno alle conoscenze di Baudelaire fra tutte le culture, le
conoscenze, le partiche possibili. Una specie di tipo umano in qualche modo rinnovato.

Questo è il dato essenziale per comprendere come il surrealismo sia diventato a Parigi un modo di vivere,
che poi abbia avuto un’estensione eccezionale, che non solo vede i surrealisti presenti in varie nazioni
d’Europa negli anni ’20 e ‘30, ma poi si spinge negli Stati Uniti e nell’America del Sud. È un linguaggio che ha
sedotto, che ha portato uomini di cultura da tutto il mondo, e anche per un tempo molto lungo, perché è
Breton stesso che racconta che la vicenda surrealista, che inizia nel 1924 - anche prima con i presupposti
dadaisti - si spinge fino al 1945 e oltre, quando sulla sua base si sviluppano altri linguaggi diversi. Il
surrealismo è più un metodo che altro, è un ponte che unisce le due metà del Novecento, è un riassunto
delle avanguardie proiettate poi verso la seconda metà del Novecento.

24° Lezione del corso di “Storia dell’Arte Contemporanea”.


Teniamo presente che se da un alto esiste nel surrealismo un grande sperimentatore e creatore di immagini
e tecniche come Ernst - dobbiamo a lui, oltre al frottage, il dripping, ossia le colature (ottenimento di una
sorta di casualità governata - caso e necessità insieme in termini interiori) -, poi ci sono anche con Ernst
pittori che sono più tradizionali, ma che animano la poetica surrealista.

Troviamo profonda radice nella “Metafisica” di De Chirico, con i nomi di René Magritte, uno dei più noti.

- R. Magritte, “Il senso della notte”, 1926.

Torna il tema ricorrente della donna. Abbiamo la donna-uccello - tema della trasformazione -, questa figura
che va e viene al tempo stesso, di fronte e di spalle. Ci sono tutti elementi per cui ogni cosa dimostra di
avere un doppio fondo, o più fondi. Ci sono a terra le nuvole del cielo, il mare sullo sfondo. Ci sono tutti
elementi di trasformazione, di metamorfosi, tematica molto importante nel surrealismo.

- P. Delvaux, “La nascita del giorno”, 1937.

Tema che si trova anche in un altro pittore del surrealismo, Paul Delvaux. In questa nascita del giorno si
vede la “Metafisica” di De Chirico, con muri, archi, una piccola figura sullo sfondo, il tema del dentro e del
fuori dall’opera. Al centro si vede un seno, che in realtà apparterrebbe a un corpo che noi non vediamo.
Sembrano cose che ci portano al “Il bar delle Folies-Bergère” di Manet, anche se in un contesto
completamente irriconoscibile, altro. Non ci sono contatti se non di un’affinità generica per il discorso del
dentro o del fuori l’opera. Ci sono sempre queste donne che si trasformano, sono come degli alberi o delle
donne-albero. Quindi dimensione sospesa, tempo sospeso, senso mitico così interpretato da Delvaux.

- Balthus, “La strada”, 1933.

Abbiamo poi Balthus, pseudonimo di Balthasar Klossowski de Rola, pittore importante per il linguaggio
elaborato sulla tela. Qu si trovano elementi che sembrano riportarci molto indietro: si percepisce il legame
con “Una domenica pomeriggio all'isola della Grande-Jatte” di Seurat. Le figure sembrano direttamente
prese da allora, insieme a tutto ciò che Seurat si era portato dietro, come Piero della Francesca, Il
Doganiere Rousseau. Questi temi tornano, anche il tema dell’infanzia con la fanciulla, la bambina, il
bambino con la racchetta e la palla al centro, e anche il modo di dipingere che sembra infantile
[Baudelaire].

- J. Miró, “Il carnevale di Arlecchino”, 1925.

Poi ancora Joan Mirò, un grande pittore catalano. Qui ritroviamo quel legame incidente con certe forme di
astrattismo: sembra di vedere una ripresa di Klee, o di Kandinskij, a spiegare come ci siano dei legami intra-
avanguardistici. Qui il tema del sogno e dell’infanzia si propongono in modo evidente. Sono tutte presenze
importantissime nel Novecento.

- S. Dalí, “L’enigma di Hitler”, 1939.

Importante anche Salvador Dalì. Uno strano telefono sopra un piatto, in una dimensione molto fluida.
Compaiono elementi dell’inconscio, una dimensione profonda, spesso relegata alla dimensione erotica, o
trasformata dal sogno.

- L. Buñuel, “L’âge d’Or”, 1930.

Lo scultore svizzero Alberto Giacometti. Poi Man Ray, e poi Luis Bunuel, autore di celebri film che hanno
carattere surrealista, quale “L’age d’Or”, film nel quale si capisce cosa significa libera associazione di
immagini, come la quotidianità venga stravolta da questo grande regista del Novecento.

- R. Clair, “Entr’acte”, 1924 [Duchamp con Man Ray].

Poi un altro grade regista è René Clair. Ancora il rigore di Duchamp che continua la sua opera in quei
termini con l’amico americano Man Ray.

- Salvador Dalí e Luis Buñuel, negli anni ’30.

Ancora di Salvador Dalì, due volti poco rassicuranti.

Questo per dare conto un poco di tutto quello che è stato il surrealismo. Siamo in un’epoca difficile ora,
verso una nuova notte.

- M. Ernst, “L’occhio del silenzio”, 1943.

Dipinto inquietante, che rende la fine degli anni ’30, epoca inquietante, che il grande poeta inglese Auden
definì il periodo “Age of Anxiety”, cioè “L’età dell’ansia”, perché verso la fine degli anni ’30 il conflitto delle
grandi tirannie che si erano realizzate nei grandi paesi dell’Occidente comporta un po’ il pericolo che molti
avvertono, che quei conflitti potessero degenerare in una nuova Seconda Guerra Mondiale, che ebbe inizio
il 01/09/1939. Tra l’altro ecco che vediamo un surrealismo che si deve confrontare con queste posizioni e
situazioni culturali in Russia, Italia, Germania. Come idea di interpretazione storica bisogna considerare un
surrealismo che diventa paladino sempre, con i suoi protagonisti a partire da Breton, che ispirano la libertà
e l’affermazione dell’individuo.

C’è nel surrealismo, attraverso le corrispondenze di linguaggi e inconscio, anche una dimensione
cosmopolita nel senso di esser in comunicazione con tutte le culture. È una grande avanguardia
internazionale: Breton era francese, Man Ray era americano, Dalì era spagnolo, Mirò era catalano. C’è
anche una presenza in questo internazionale cosmopolita restia al nazionalismo violento che si ritrova
invece come caratteristica delle grandi dittature di quel tempo. È il tempo terribile dello Stalinismo in
Russia, del fascismo in Italia e del Nazismo in Germania, a cui corrispondono il panslavismo in Russia,
dell’Imperialismo italiano dal 1936 - con la guerra di Etiopia, che metterà fine a quell’idea di Fascismo
moderato, conservatore, liberticida, ma in qualche modo anche moderato in questa politica che era anche
versione del Novecentismo -, il pangermanesimo in Germania con Hitler. Comincerà ad esserci proprio nella
metà degli anni ’30 una grande intolleranza all’interno dell’Italia fascista di forme d’arte giudicate
“borghesi”, deboli.

Adesso si vorrà mettere fine creando opere monumentali, straordinarie imprese di carattere architettonico
e decorativo. Si ha la fine del Novecento, una dimensione pesante, anche in questo senso di fallimento
forse di quelle istanze che la Sarfatti aveva portato avanti, di quell’umanesimo ricostruttivo. Compare una
nuova catastrofe guidata dall’uomo che aveva sempre ragione, Mussolini, e che alla fine non l’ebbe per
nulla.

Da un lato troviamo l’artista/l’intellettuale surrealista che ci fa vedere una dimensione dell’io moderno
molto fluida, di continua trasformazione, insofferente a qualsiasi forma di dipendenza e di vincolo. Questo
anche comporta e spiega perché un certo tentativo di Breton di accostarsi al Movimento Internazionale
Comunista in Francia sia poi fallito, anche quello era un movimento dogmatico, violento. Non poteva
sposarsi con le istanze di riforma interiore del surrealismo. Si può dire però che il Surrealismo è “l’io
moderno che reagisce enanziodrmicamente alla violenza degli anni ‘30”, l’età dell’ansia, cercando delle vie
di uscita e delle strategie che rimettessero l’elemento umano al primo posto. Non va dimenticata
l’importanza della donna contro una sorta di maschilismo titanico, assoluto, che noi troviamo nella Russia di
Stalin, nella Germania di Hitler, nell’Italia di Mussolini.

Qui anche una certa libertà che l’artista surrealista segue, come erede di fatto della libertà delle
avanguardie del Novecento. Quindi sintesi e progetto su base molto individuale. Il surrealismo è un gruppo
fatto di individui, un’unione tra persone libere che condividono progetti e a volte polemizzano, per questo
sono esseri umani. Questo comporta un cambiamento nella funzione dell’artista e nel suo rapporto con la
società: diventa l’artista in questa ricerca di individualità e libertà più capace di proporsi in maniere diverse
non a un gruppo di adepti, ma alla società. Comincia ad esserci un legame forte tra artista e società, l’artista
ha una libera iniziativa di carattere immaginativo, si propone alla ribalta con strategie e forme d’opera
sempre nuove. Sono elementi che caratterizzeranno molto l’arte soprattutto dopo la Seconda Guerra
Mondiale, con un atteggiamento che troverà un luogo di sviluppo a New York in maniera particolare, dove
l’arte rinascerà contemporaneamente al momento della morte e della distruzione ulteriore dell’Europa e di
tante altre parti del mondo, dal 1939 al 1945.

- Il cantiere dell’E-42 a Roma.

È possibile vedere il monumentalismo fascista, il cantiere E-42, cioè l’esposizione universale che avrebbe
dovuto tenersi a Roma a venti anni esatti dalla Marcia su Roma del 1922, che non si tenne per la guerra. Qui
si vede sullo sfondo il Palazzo della Civiltà Italica dell’architetto Lapadula e altri, che sarebbe stato punto di
riferimento di questa esposizione che avrebbe dovuto vedere la rinascita della Roma antica nel tempo
moderno. Questo sarebbe stato il coronamento del progetto di potere mussoliniano e del regime Fascista.
Aderiscono fior di pittori organici a quel regime, come Sironi, che si trasforma in un pittore che propone di
ritornare alle grandi decorazioni appunto sui muri, quindi dipinti muralisti. Viene teorizzata dallo stesso
Sironi quest’arte di grande decorazione che faccia vedere il popolo costruttore.

- M. Sironi, “I costruttori”, 1932.

Abbiamo il cartone preparatorio di uno di questi grandi dipinti su muro. Sintetizza un po’ l’idea del ritorno
della costruzione alla Roma antica.

Va poi anche detto che tra i momenti in cui l’età dell’ansia si rivela essere davvero tale c’è la Guerra Civile
Spagnola, in realtà guerra tremenda che incomincia alla metà degli anni ’30 e si chiuderà nel 1939, dove
troveremo la vittoria di un altro grande dittatore destinato a rimanere a lungo al potere, Francisco Franco.
Bisogna tener presente che tra l’altro per quel che riguarda la Guerra Civile Spagnola abbiamo un episodio
che è passato alla storia, oltre al fatto che sia stata una guerra che ha prodotto tra il 1936 e il 1939 quasi un
milione di morti.

Nel 1937 si ha avuto il bombardamento di Guernica. È stato uno dei più terribili mai portati a compimento
prima delle distruzioni della Seconda Guerra Mondiale, quando l’aviazione tedesca e quella italiana,
insieme a quella spagnola - che era di poco conto - rade al suolo la cittadina basca con un bombardamento
di intensità senza precedenti, facendo migliaia di morti sulla popolazione civile inerme. Tra l’altro un
obiettivo che non aveva particolari interessi dal punto di vista militare. Una forma di terrorismo assoluto,
con azioni criminali.

- P. Picasso, “Guernica”, 1937.

Illustra esattamente ciò che era avvenuto. Picasso lo dipinge a pochi giorni di distanza dal fatto, è strano e
sorprendente vedere come il linguaggio cubista, a trent’anni esatti da “Les demoiselles d’Avignon”, si presti
a dar conto di come la realtà effettivamente si fosse trasformata, come con la tecnica e i bombardamenti si
fosse trasformata la realtà e distrutta la natura. Questo è senz’altro un punto fondamentale, perché quello
che sta avvenendo è difficile da descriversi e nominarsi.

- A. Breker, “Il vincitore”, 1939.

Da un lato abbiamo questo titanismo delle grandi dittature. C’è questa specie di superuomo dal carattere
estremamente retorico nel suo titanismo. Breker era l scultore favorito di Hitler, è come se fosse una sorta
di proiezione del titanismo nazista.

- A. Speer, “Plastico per la nuova Berlino “millenaria””, anni ’30.

Stessa cosa per questo plastico, pensato dall’architetto di fiducia di Hitler, Speer.

- Architettura sovietica, anni ’30.

Altra forma si delirio e potenza, che celebra gli sforzi del popolo nel contesto dei “Piani quinquennali” dello
Stalinismo, dove si vede un’estetica non moto diversa da quella nazista appena vista.

Da ricordare che la guerra comincia appunto il primo di settembre 1939 e che nel giugno del 1940 abbiamo
la caduta e sconfitta della Francia, e Hitler che nel giugno dello steso annosi reca a Parigi in una passeggiata
mattutina per gli Champs-Élysées in compagnia, tra i tanti ufficiali dello stato, di Breker e Speer.

- Immagini relative ai miti di potenza e di benessere o ricerca del benessere nelle dittature.
- Visita del “Duce” e Torino, 1939;
- “Telefoni bianchi”;
- “Sicurezza”;
- La “Balilla” (Fiat 508, 1932).

Migliaia di persone schierate in ranghi compatti come se fossero legioni romane, quando poi ciò che si
chiedeva a tutto questo sistema, questa monumentalità, questo titanismo, erano i “telefoni bianchi” -
sistema delle star cinematografiche che sembra ricordare quello di Hollywood, il consumo del genere di
massa -, la sicurezza del genere sociale e la “Balilla” [Fiat 508, 1932].

- Poesia di E. Montale, “La primavera hitleriana”, 1938-46.

“{…} e più nessuno è incolpevole.”, questo è il punto. Poi anche “{…} la sagra dei miti carnefici che ancora
ignorano il sangue {…}”, come se ancora in fondo in quella specie di esplosione di titanismo in realtà poi si
nascondesse una tragedia della quale neppure coloro che l’avevano messa in atto erano consapevoli e dalla
quale loro stessi sarebbero stati travolti.

- Poesia di W. H. Auden, “1 settembre 1939”.


Poeta inglese e autore dell’espressione “The Age of Anxiety”, in riferimento agli anni ’30. “{…}
l’innominabile odore della morte offende la notte di settembre.”, sta cominciando proprio la tragedia.

- Hitler a Parigi, giugno 1940.

Questa all’inizio vede la prevalenza delle potenze dell’Asse, quindi della Germania hitleriana, dell’Italia
fascista e del Giappone alleato. Ed ecco Hitler a Parigi dopo la caduta della Francia e l’occupazione tedesca
di gran parte della nazione, a cominciare dalla capitale. Tra queste figure stanno anche Breker, subito a
sinistra di Hitler, e Speer.

Qui comincia un’altra vicenda pesantissima: il problema che si porrà attraverso le terribili devastazioni della
guerra sarà come renderle attraverso arte. È possibile rappresentarle? Chiaramente “Guernica” di Picasso
aveva fornito un modello per essere all’altezza di quello che avveniva esteriormente e interiormente. E
allora quel modello verrà usato da molti e adattato per riuscire a dare immagine alla catastrofe della
guerra. Anche qui torna qualcosa che ha a che veder con “Il pittore della vita moderna”: anche il pittore
della vita moderna si muoveva nel grande esercito di uomini, anche il pittore della vita moderna doveva
essere a contatto con la folla. Qui diventerà con la folla dei vivi come con quella dei morti: doveva e dovrà
cercare di legare la memoria al presente, un’impresa difficile, per riuscire a trarre quell’immagine, quel
qualcosa che in fondo è nascosto dentro la tragedia, quel qualcosa di umano che è stato posto in elementi
di catastrofe. Allora anche la catastrofe - che non sarà in questo caso lenita nella sua entità dall’opera degli
artisti - potrà essere rappresentata e raccontata con un linguaggio al suo stesso livello, con la stessa
intensità e tragicità.

25° Lezione del corso di “Storia dell’Arte Contemporanea”.


Abbiamo parlato dell’inizio della Seconda Guerra Mondiale con la prevalenza delle forze dell’Asse, con il
terribile colpo inferto dai tedeschi alla Francia e al sua capitolazione nel giugno del 1940 e l’occupazione del
suo territorio da parte dei tedeschi. Importante anche una famosa venuta di Hitler nella capitale francese,
Parigi, occupata il 23/06/19540 con o stato maggiore dell’esercito, Breker e i suoi artisti favoriti.

Che cosa rimaneva in piedi dal punto di vista dell’opposizione alla Germania hitleriana vincitrice?
L’Inghilterra guidata da Winston Churchill, è stato dedicato a quel momento delicatissimo un film recente,
“L’ora più buia”, come è effettivamente stata, nella quale Hitler pensò alla possibilità di un’invasione
dell’Inghilterra e per questo ordinò al maresciallo Goering, comandante e capo della Luftwaffe, l’arma
aerea tedesca, di preparare l’invasione dell’esercito che sarebbe avvenuta con uno sbarco per terra tramite
una quantità indescrivibile di bombardamenti aerei delle postazioni militari inglesi e negli aeroporti - ma
soprattutto nei distretti industriali e nella capitale del Regno Unito, cioè Londra.

- Due schizzi dall’album di G. Sutherland, tecnica mista.

Due schizzi di Sutherland, rappresentanti la Battaglia d’Inghilterra del 1940-41. La lotta strenua degli inglesi
e dell’aviazione inglese, la Royal Air Force inglese, contro la Luftwaffe tedesca, un momento di
incandescenza indescrivibile nell’estate del 1940 che si portasse fino all’anno successivo. È stato uno dei
momenti più drammatici della vita inglese e anche della vita europea.

In quel contesto troviamo un grande arista inglese, uno dei più grandi pittori del Novecento, Graham
Sutherland, impegnato a documentare le distruzioni che l’aviazione tedesca stava giorno dopo giorno
creando nelle città del Regno unito, e a Londra in maniera particolare. È interessante notare come, in un
contesto che sarà uno dei più tragici della guerra, un pittore della vita moderna tenti di dare un’immagine
rispondente a vero - un vero complesso che non sia solo verità mimetica - all’evento che ha intorno a sé.
Bisogna ricordare che esisteva come genere quello dei “War Artists”, degli “artisti di guerra”: questi erano
stati già ingaggiati nel Regno unito durante la Prima guerra Mondiale - per esempio Paul Nash e Stanley
Spencer - e si erano proprio specializzati nel dipingere i terribili campi di battaglia della Prima Guerra
Mondiale con un linguaggio che ha già dentro le forti cariche avanguardistiche: la forza dei colori, la
crudezza dei fatti documentati, che corrispondevano a certi estremi che l’avanguardia aveva toccato. C’era
già stato questo tentativo di rendere la realtà anche vedendola da dentro, non solo in termini fotografici.

Questo reparto di artisti di guerra fu ricreato da Kenneth Clark, grande critico di storia dell’arte e curatore
delle collezioni reali britanniche di Windsor e direttore di grandi musei londinesi. L’idea fu quella di creare
una grande squadra di artisti che documentassero le devastazioni alle quali il paese era soggetto.
Sutherland, che godeva della fiducia e stima di Clark, fece parte di questo gruppo insieme a un altro nome
eminente, lo scultore Henry Moore.

Riportando le foto di quella devastazione, è possibile carpire come l’immaginazione di un poeta attraverso
la memoria possa riuscire a dare immagine all’inimmaginabile. È qualcosa che non riesco a dissociare a “Il
pittore della vita moderna” e al principio baudelairiano di “rospi e lumache”: anche nel caso di terribili
distruzioni c’è comunque qualcosa che può essere estratto, una realtà che è più reale ancora di quel che
non si vede.

Questo è un discorso che ci riporta al Crystal Palace, anche se è abbastanza incredibile che Londra fosse in
quel momento la città del Crystal Palace. Il Crystal Palace era il luogo della costruzione - per quanto
riduttiva - della realtà, nel 1851, mentre qui Londra diventava lo scenario della distruzione, anche se la
stessa tecnica che aveva costruito i Crystal Place era la stessa che distruggeva Londra. Quindi strani
paradossi nei quali anche gli artisti si muovevano. Va ricordato che Sutherland ha tenuto proprio un diario,
che ha sintetizzato in una lettera, in cui racconta di sé quegli raccapriccianti scenari della Londra
bombardata dagli aerei della Luftwaffe.

- Stralci di diario/lettera.

Chiarezza di Sutherland, che prima fu mandato in Galles, poi a Londra, poi in un’altra destinazione. Ma è
importante capire che in tutti i casi, in tutte le situazioni, il suo sport fu quello di cercare una
corrispondenza tra ciò che vedeva e la sua idea di pittura. Aderire al reale per riuscire a formulare in modo
superiore la realtà: dare immagine anche a ciò che sembra non averla.

- Londra, La Cattedrale di San Paolo, 1940-1041;


- Effetti dei bombardamenti su Londra 1940-1941.

Si trattò di un bombardamento inimmaginabile, che ha segnato la storia inglese e la memoria per


generazioni. Tra l’altro ci furono cittadine spianate al suolo come era stata spianata Guernica. Era come se
la cittadina basca fosse stata sostituita all’improvviso da una delle più grandi metropoli del mondo, distrutta
con delle conseguenze molto simili, le distruzioni della sua vita. Dalle foto sono ben visibili le macerie, gli
autobus.

- P. Picasso, “Guernica”, 1937.

Importante per far comprendere subito che Sutherland, che aveva visto il dipinto di Picasso e alcuni disegni
preparatori, si renda conto che il linguaggio picassiano poteva servirgli per rendere conto di ciò che
avveniva intorno a sé.

 Diario di Sutherland, settembre 1940.

È questa dimensione incredibile in cui l’artista scopre lo stupore di fronte a queste incredibili,
inimmaginabili distruzioni. Troviamo a destra fogli di un album, alla fine saranno cinquecento i resoconti, le
immagini che Sutherland ha reso con tecniche miste per rendere certi effetti di queste lamiere contorte, di
questi macchinari penduli nel vuoto, e quanto altro. Continuando si vedono questi crolli - sulla destra ci
sono delle gabbie di ascensori - come se potessero diventare degli animali affascinanti. Gli sembrava di
sentire il tintinnio dei vetri che andavano in frantumi, poiché c’erano i crolli dopo i bombardamenti, simili
“a degli accordi delle pere di Debussy”. È un voler riuscire a dare anima alla distruzione.

Dar anima anche a questo.

- G. Sutherland, “East End”, 1940;


- E. Munch, “Sera sulla Karl-Johann”, 1892.

L’opera di Sutherland sembra portare alla memoria anche “Sera sulla Karl-Johann”, dipinto di Munch.
Comincia ad adeguare lo stile cubista di Picasso e anche quello post-impressionista di Munch. Ecco che in
questo modo dò immagine alle cose, alla realtà.

Le immagini di rovine, di case bombardate di Sutherland, sono però forme. Trova la possibilità di dar forma,
colore, anche in questa situazione. Insieme ai “War Artists”, gli artisti in uniforme che con il loro album
giravano a documentare Londra, c’erano anche - nel contesto della resistenza inglese all’oppressione
tedesca - anche dei grandi poeti, come Thomas S. Eliot e Dylan Thoma, che dai microfoni della BBC
leggevano le loro poesie per cercare di esprimere i loro dolore e di dare conforto e supporto anche alla
gente che si trovavano nelle case o nei rifugi. È una situazione che capiamo molto bene.

Nell’altro scritto sembra evocare la morte di una bambina sotto quei bombardamenti.

- G. Sutherland, “Casa bombardata”, 1940-1941.

Tentativo, come D. Thomas con i versi, di dare espressione al suo terribile dolore.

- H. Moore, “Metropolitana”, 1940-1941.

Si tratta della galleria di una metropolitana, in quanto molti si rifugiavano lì, a volte questi diventavano
tombe collettive per crolli o esalazioni di gas. Si conta che tra agosto e novembre del 1940 addirittura si
ebbero a Londra 50 mila morti a seguito di bombardamenti.

Terribili scenari che sono stati tramandati con maggior efficacia - piuttosto che dalle fotografie - da questi
documenti dei “War Artists”. Poi, finita l’emergenza su Londra, Sutherland sarà mandato nelle miniere di
stagno della Cornovaglia, comincerà a vedere la guerra da un altro punto di vista. Nelle miniere di stagno e
di altre minerali si estraevano i minerali che servivano poi per costruire gli armamenti: se prima vedeva la
guerra da punto di vista della distruzione, ora la vedeva dal punto di vista della costruzione. Per questo
diventa una specie di nuovo spazio tecnico: produzione e distruzione fanno pare di un unico ciclo. Qui
anche c’è la ricerca di una presenza umana, di un’esistenza, di un minatore, che forse all’inizio era stato
minatore di superficie, poiché aveva documentato le rovine; ora documentava in profondità, in luoghi
incredibili, aveva provato sensazione di paura. In quel momento gli viene in mente W. Blake, grande poeta
e incisore inglese vissuto tra Settecento e Ottocento. Di lui sono importanti le illustrazioni dell’Inferno di
Dante, un’immagine che serve per dare immagine alle miniere. Chi mai era infatti sceso a settecento metri
per poter dare luogo a un’immagine, per poter dipingere?

Sutherland lo fece, e dalle immagini dipinte sotto si pensava al modo nel quale la guerra si faceva definire
“perpetua”. Anche questo è un altro discorso che riguardo l’affrontare la questione della modernità
industriale, tecnica, e come gli uomini sono chiamati a fronteggiare il male, e anche quello che potrebbe
essere il bene. In ogni caso è un’esperienza al limite dell’umano, dell’arte, che Sutherland affronta tornado
in questo vincitore, ma senza eroismo, nell’aver trovato un’immagine.
Sutherland sarà poi mandato nelle acciaierie del Galles e vedrà ancora di più la costruzione in gran parte di
materiali pe la guerra. In questo contesto, prima di andare a Cardiff, nelle acciaierie, un altro passaggio
nelle miniere. Importanti i legami con Blake e anche con Turner.

- W. Blake, “Inferno di Dante”, 1824-27;


- W. Turner, “Ponte del Diavolo”, 1803-04;
- G. Sutherland, schizzi, 1941;
- G. Sutherland, “Minatori e gallerie”, 1942.

Anche qui la memoria e la conoscenza di questi precedenti ha stimolato Sutherland a creare delle sintesi di
ciò che vedeva sotto di sé. È sempre il pittore della vita moderna. E in questo contesto, in questo senso e in
questa tragica storia dove l’Europa si sta abissando sempre di più, fino al 1945, noi troviamo anche la svolta
enanziodromica, che si ravvisa lontano dall’Europa, ma da una gran parte di artisti europei. Svolta che si
verifica nel Nuovo Mondo, sulle coste atlantiche degli Stati Uniti, nella città di New York in particolare.

26° Lezione del corso “Storia dell’Arte Contemporanea”.


Siamo giunti a New York, momento di svolta importante, decisivo nella storia dell’arte del Novecento: molti
artisti che avevano dato vita alle avanguardie del Novecento, confluiti nel surrealismo, lasciano l’Europa e si
rifugiano negli Stati Uniti. Lo fanno perché in quel momento l’Europa continentale era in crisi, l’operazione
militare metteva a rischio la vita in tante zone, però lo facevano anche perché erano in fuga, in quanto
erano stati anche oppositori politici dei movimenti di destra e delle dittature campeggiate da Hitler agli inizi
della Seconda Guerra Mondale. Fuggono da Parigi Breton, Léger - maestro e padre del cubismo - e
Duchamp, Ernst, abbiamo una specie di stato maggiore surrealista. A New York era arrivato per primo
Mondrian, anche in lui in fuga dalla Londra bombardata. Agli Stati Unti si erano indirizzati Gropius e van der
Rohe del Bauhaus, che erano venuti a un rapporto impossibile in Germania con il regime hitleriano.

Chi accoglie molti di questi fuggiaschi dall’Europa è Peggy Guggenheim, una grande gallerista americana già
attiva in Europa prima dell’inizio della guerra, in rapporti di stretta collaborazione con Duchamp. Si offre di
dare rifugio a Breton, di finanziarlo per continuare a svolgere la sua attività di critico e poeta. Tra l’altro la
Guggenheim apre a New York una galleria che è destinata a diventare famosa nella 57° Strada, si chiama
“Art of this century”, convoglio nel quale si incontreranno gran parte degli uomini e delle donne
provenienti dall’avanguardia europea.

- Frase di chiusura del “Manifesto del Surrealismo” di Breton, “La vita è altrove” - C’è sempre un
altrove al di là delle categorie a cui siamo abituati, c’è sempre qualcosa che si aggiunge, in questo
caso New York e gli Stati Uniti, ma anche all’interno delle avanguardie del Novecento.

Abbiamo una serie di individualità capaci di mettere in rapporto tra loro i linguaggi delle avanguardie.
Questo è stato il crogiolo newyorkese, la galleria di Guggenheim ha svoto una funzione centrale.

- Fotografia persa dalla casa di Guggenheim.

In prima fila (dall’alto, a sin.): J. Ernst - figlio di Max Ernst -, P. Guggenheim, [J. Ferren], M. Duchamp, P.
Mondrian; in seconda fila (a sin.): M. Ernst, [A. Ozenfant], A. Breton, F. Léger, [B.Abbot; in terza fila (a sin.):
S.W. Hayter et al.]. Queste sono le presenze più rimarchevoli, che ci fanno comprendere anche quali siano
stati i vettori linguistici ed espressivi che si cono concentrati non solo nella galleria della Guggenheim, ma
anche a New York, e che grazie alla galleria hanno dato vita a momenti di incontro e di confronto da cui
sono scaturite nuove possibilità espressive.

Va anche ricordato che New York era stato negli anni ’30 luogo nel quale era giunti i muralisti messicani,
Diego Rivera e José Clemente Orozco, che erano stati chiamati a lavorare sia a New York ma anche a
Detroit. Grandi opere murali, avevano eseguito grandi dipinti all’interno di scuole d’arte. A seguito della
crisi del 1929., il governo degli Stati Uniti del presidente Roosevelt aveva rafforzato e finanziato perché
diventassero luoghi nei quali giovani artisti potessero continuare, nonostante la crisi economica, la loro
attività, e anche altri potessero trovare una possibilità, un’occupazione, un sussidio. Questi muralisti
messicani diventano punti di riferimento per i giovani. Tra l’altro Rivera lavorò anche al Rockefeller Centre,
il grande centro fatto costruire da Rockefeller, uno dei grandi magnati dell’industria. Anche questo
precedente è importante: anche i muralisti avevano una visione ampia dell’arte, nella quale si mescolavano
elementi di carattere realistico, visionario. Spesso erano seguaci di Picasso, per cui nei loro dipinti si sente
una sorta di rimando all’avanguardia, con un linguaggio più comunicativo, popolare, realistico.

È interessante questo attivarsi di forze: tutte le avanguardie europee, e il messaggio del muralismo
messicano, e il motto del dollaro: “E pluribus unum...”, “Dalla pluralità l’unità…”. Da sottolineare questo
fatto riportante alcuni esempi di artisti che con il loro lavoro influirono sulla realizzazione di un nuovo stile.

- V. Kandinskij, “Strisce nere”, 1913;


- P. Picasso, “Les demoiselles d’Avignon”, 1907;
- M. Ray, “Retour á la raison”;
- H. Hofmann, “Vento”, 1942.

Si vede la tecnica dello sgocciolamento e certe forme di automatismo compiute per gesto, direttamente
sulla tela.

- A. Gorky, s. t., 1944.

Gorky è stato un pittore importante nel contesto newyorkese di cui ci occupiamo. Si percepisce una sorta di
sintesi tra l’astrattismo di Kandinskij, l’automatismo di Hoffman, certe istanze di fluidità erotica surrealista.

- W. De Kooning, “Scavo”, 1950.

Altro pittore importantissimo. Sembra essere una ripresa intensificata e dinamizzata de “Les demoiselles
d’Avignon” di Picasso, quindi del cubismo. Incontra istanze che non sono solo razionaliste o iper-
razionaliste dell’analisi cubista, a ci sono anche istanze espressive.

- A. Gorky, “The Liver is the Cock’s Comb”, 1944.

Dipinto che ha caratteristiche cubo-astrattiste che abbiamo già rivelato in altri pittori.

Su questa base appunto che noi ritroviamo un incontro di linguaggi che vengono a riesprimersi nelle opere
di Arshile Gorky, Wilhelm De Kooning, e soprattutto Jackson Pollock. Sono pittori che hanno quasi la stessa
età - Gorky e Kooning erano del 1904, Pollock del 1912 -, si esprimono e cominciano a farlo nello stesso
periodo e contesto. Sono animati da un forte vitalismo legato nell’immagine precedente al tema della
donna e dell’èros, con chiara derivazione surrealista. È una specie di impulso essenziale, l’impulso erotico
vitale, perché quello che è da mettere in luce è che nella pittura che si verrà formando nella “New York
School” è una pittura che insegue disperatamente la vita, il corpo, tutto ciò che la guerra stava negando.

Si arriva all’idea che in America si forma il movimento enanziodromico dell’immaginazione rispetto a tutte
le distruzioni che la guerra stava dando corso. Quindi una sorta di protesta in certi casi anche primitiva o
neo-primitiva che porta dentro le ragioni del voler vivere, del volere esistere, del potersi esprimere,
dell’avere una dignità personale che costituisce anche un elemento di armonia con l’universo. Magari
anche un universo difficile da comprendere, animato da forze e forme non sempre familiare, non sempre
positive, rispondendo al bisogno di non soccombere, di non essere schiacciati né distrutti, annientati come
avveniva a tanti popoli e a milioni di persone in Europa e nel mondo.
Questo vitalismo di tutti e tre viene però da Pollock portato al massimo livello. A proposito del discorso
sulle avanguardie - recupero della memoria mai staccato dal passato, ma portato al legame con il passato -,
vediamo che anche in questa nuova pittura che sta nascendo c’è una memoria antichissima. È proprio
Pollock che, quando era ragazzo, aveva accompagnato il padre che doveva fare dei rilievi topografici per la
costruzione delle ferrovie nei territori dell’Arizona, lontano da New York - dove era arrivato quando aveva
deciso di darsi all’arte, frequentando quelle scuole e atelier d’arte finanziate dal governo americano.

Nel tempo in cui da ragazzo aveva accompagnato il padre, aveva potuto vedere i Navajo, una straordinaria
tribù, rappresentate dei popoli nativi dell’America. Ne aveva ammirato gli usi, i costumi, il vitalismo, e
anche una certa dimensione di erotismo legata al corpo della donna e a mito della natura. In quei popoli
c’era un animismo, l’idea di una materia animata, di una natura profondamente spirituale. Questa idea nei
Navajo in maniera particolare è espressa dalle danze rituali, dalle figure come lo sciamano, capaci di
evocare gli spiriti in funzione terapeutica, poi il totem e il tepee. È un’immagine cosmologica.

- Il tepee, fotografia di J. Pollock.

Compare anche l’indiano con il suo tradizionale costume. Le piume sono evidentemente un’idea che lega
l’uomo al cielo, stando con i piedi per terra. Intorno le donne, e il tea della natura sacra. Sono vere e
proprie memorie di Pollock quando era ragazzo.

- Fotografia di Pollock;
- J. Pollock, “La lupa”, 1943.

Vi crea una sintesi: la lupa è la donna, elemento essenziale. Sembra di vedere un tepee trasformato
attraverso una quantità di linguaggi a noi familiari, linguaggi di carattere espressionista, cubista, emersi da
tutte le avanguardie precedenti. Anche Pollock li usa per evidenziare le memorie dei Navajo, che aveva e
risalivano alla sua infanzia. È come se anche a New York volesse ricordarsi di un’altra America appunto che
non è soltanto quella dei popoli bianchi, ma anche quella di popoli primitivi. Quindi c’è la volontà di
riprendere lo stile della terra americana.

È qui che si percepisce il bisogno di vita, di riportarsi a questa dimensione primitiva di cui dicevamo. Altro
uso dei Navajo adottato da Pollock è quello dei “Sand Paintings”, i “dipinti di sabbia”. Vengono eseguiti
come dei mandala: sono dei disegni fatti su terra - sembrano quelli dei monaci tibetani - che hanno quasi
sempre una dimensione cosmologica, facendo vedere le forze essenziali che sono nella natura e dietro di
essa. Anche il tepee è una sintesi di carattere cosmologico: la tenda è l’universo creato, è come se si fosse
nella tenda circondati dal cielo.

- Fotografia di “Sand Paintings”.

Un po’ la stessa idea si ha qui. Anche qui questi artisti stanno componendo figure d carattere cosmologico,
sono dentro la creazione. L’idea ha molto suggestionato Pollock, il quale ha inventato una tecnica di pittura
che viene senz’altro dagli automatismi e dall’invenzione prima di Max Ernst, quella del “Dripping”, la
scolatura.

Pollock mette insieme e sue memorie, con le suggestioni che venivano dall’Europa - anche il surrealismo di
Ernst derivava da vicende precedenti, quali l’espressionismo, il vitalismo dei surrealisti -, queste idee e
elementi sono sintetizzati a Pollock in un modo nuovo e originale di concepire la pittura come una danza,
uno sgocciolamento, un movimento diretto con il pennello che lascia cadere il colore. È come se noi
vedessimo, come se ci fosse un impulso erotico e sensuale. La pittura è un congiungersi con il corpo, un
entrare in legame diretto con la natura, con il divenire ella natura. Questo il carattere essenziale.
Non c’è più un problema di mimetismo, l’idea di creare una forma. La forma è creata dalla natura, l’artista
crea all’interno della natura, si unisce e si accoppia proprio alla natura senza che si possa più distinguere
l’uno dall’altro.

 Servizio fotografico degli anni ’50.

Mostra come si possa danzare costruendo un omologo di ogni “Sand Paintings” dei Navajo, secondo la
danza rituale tipica di quella civiltà, e come si possa mettere insieme il senso cosmologico di questa
operazione con un linguaggio che deriva proprio dalle avanguardie e dall’astrattismo. Si parlerà di
“Espressionismo astratto”, o di “Action Painting”, cioè “pittura d’azione”. Pollock è stato proprio padre di
questa tecnica, di questa dimensione completante rinnovata, dove il corpo entra dentro l’opera. È questo
l’aspetto nuovo ed enenziodromico: l’artista mette in gioco tutto sé stesso.

Abbiamo sempre trovato un’arte che doveva risarcire il tempo di ciò che a un quel tempo, a un certo tempo
mancava. Allora nel tempo della distruzione di milione di corpi umani, come avveniva nel corso della
Seconda Guerra Mondiale, l’arte vede l’artista entrare con il proprio corpo, aggiungere questa dimensione
fisica, materiale, che al tempo mancava per le distruzioni. È un’operazione disperata, nel quale si rischia di
perdere sé stessi, una sorta di amplesso estremo, ma è l’elemento che sarà poi all’origine dell’imporsi non
solo di Pollock e di quelli che come lui nella “New York School” usavano questa tecnica, ma di ciascuno a
modo proprio livello internazionale. Diventerà il volto della nuova arte americana, e sarà il fondamento
proprio dell’arte che dopo la Seconda Guerra Mondiale si chiamerà “Informale”, quindi senza forma, senza
più una riconoscibilità di figure. La possibilità di includere nel linguaggio dell’arte qualsiasi mezzo,
strumento, materiale. È sempre però con questa dimensione fisica che è assolutamente fondamentale.

In un contesto di artisti notevolmente esteso si deve creare però questo nuovo linguaggio di cui Pollock è
maestro. In questo modo troviamo una sorta di particolare contributo degli Stati Uniti all’arte del
Novecento. On è che non ci fosse negli Stati Uniti un tipo di arte diversa da questa, come quella di Hopper,
artista figurativo. C’era anche quella tradizionale, ma sicuramente tutto ciò che avviene avviene soprattutto
durante la Seconda Guerra Mondiale a New York, e la “New York School” tende a proporre gli Stati Uniti
con un’autonomia espressiva che non aveva prima. Sarà un modo per prendere la testa del movimento
dell’arte che alla fine della Second Guerra Mondiale verrà a creare, dalla fine degli anni ’40 e poi negli anni
’50, verrà poi a creare un nuovo clima dell’arte detto “Informale”.

27° Lezione del corso di “Storia dell’Arte Contemporanea”.


Ora questa dimensione enanziodromica che porta a ridare importanza al corpo, alla fisicità, all’individuo,
contro le distruzioni immani prodotte dalla Seconda Guerra Mondiale - si pensi che i morti sono stati 56
milioni. Nella Prima Guerra Mondiale si discuteva se si dovessero contare 8 e mezzo o 10 milioni di morti,
qui siamo a questa cifra con atroci stermini, l’Olocausto del popolo ebraico e altri fatti in qualche misura
affini. L’ida di una cancellazione letterale del corpo umano, degli individui. Si è venuto a creare in Europa un
terribile sistema di oppressione, dovuto alle dittature nazi-fasciste, che hanno praticato la sistematica
distruzione dell’umanità, del materiale umano e della dimensione intellettuale.

Quando si parla di questa reazione che viene da lontano, quale quella della “New York School”, l’“Action
Painting” e il vitalismo, è qualcosa che ha una ragione profonda. E una ragione profonda ce l’ha in Europa
anche la Resistenza. Qui c’è un punto da mettere in luce: il fatto che spesso in Europa la Resistenza sia stata
un sacrificio per difendere il corpo umano e la sua dignità, quella del corpo umano e dell’individuo,
dall’annientamento del meccanismo totalitario nazi-fascista. Che poi è comunque una sorta di resistenza
che si prolunga contro tutte le dinamiche distruttive che si sono avute con la guerra, che culminano con le
bombe atomiche lasciate dalla nazione americana su Hiroshima e Nagasaki, quando la guerra in Europa era
ormai finita.

Questa posizione della resistenza era una posizione usata da diversi artisti. Anche Sutherland aveva in un
certo senso creato una resistenza umana nel terribile contesto della Londra bombardata nell’estate del
1940 quando i si era trovato a lavorare. Poi si era creato anche questo clima di resistenza nelle miniere di
stagno, nelle acciaierie, dove aveva visto la trasformazione del metallo in materiale per nuove armi. Ecco,
da chiamarsi come “la resistenza della responsabilità individuale dell’io”, ancora c’è l’io moderno in questo,
che è all’origine di tutto. Io ho la libertà di resistere, di ricominciare, dove sembra impossibile. Di qui
l’attualità di questa posizione.

Da questo punto di vista la resistenza in termini etici ed espressivi non è una posizione propriamente di
carattere politico. La grande opposizione alle dittature - in Europa la dittatura nazi-fascista - ha questa idea,
dimensione di libertà. In questo la resistenza in termini non politici, non di schieramento, secondo
l’ideologia, non è minimamente paragonabile al livello di violenza che tentò di soffocarla fino a prima del
1945. Vi furono certo eccelsi crimini compiuti da cloro che militavano nelle fila della resistenza, soprattutto
dopo la fine del conflitto nel 1945. Ma le due cose non sono assolutamente sovrapponibili: la violenza che
ha cercato di distruggere la Resistenza europea non si può assimilare alla violenza alla quale a volte la
Resistenza ha fatto ricorso.

Nelle arti l’Europa, in maniera un po’ diversa dagli Stati Uniti - dove va ricordato che spesso le opere della
“New York School” e quelle di Pollock sono di grandi dimensioni, fanno riferimento al muralismo messicano
-, in maniera meno esplosiva noi ritroviamo in Europa e in Italia un bisogno di legarsi direttamente alla
realtà, alla vita. Una poetica che può definirsi realista, e che poi diventa neo-realista.

La posizione del resistente supera il limite cronologico e diventa una posizione etica. Nel rapporto con la
realtà possiamo trattare dei versi di Pavese. “{…} soli e vivi.”, anche questo legame appunto con la natura
tipico di chi si diede alla macchia e andò in montagna per una scelta individuale, dalla profondità dell’io, che
rendeva “soli e vivi”, responsabili di sé stessi. È questa la matrice dell’atteggiamento realista ce poi
diventerà neo-realista nell’immediato dopoguerra. Ci sono pittori italiani che cominceranno a praticare
questo linguaggio del realismo e del neo-realismo, tra cui Renato Guttuso.

- R. Guttuso, “Crocifissione”, 1940-41.

Già prima della guerra aveva dipinto. Fece scandalo perché questa crocifissione, di cui tra l’altro non si vede
il volto del Cristo, è ispirata alla “Guernica” di Picasso. In Italia vi era ancora il Fascismo - erano gli italiani
coloro che avevano bombardato Guernica -, il fatto che un pittore esprimesse una crocifissione con il
linguaggio della notissima opera di Picasso significava avere una posizione di antagonismo rispetto al
Fascismo. Qui ci sono in questo linguaggio di Guttuso elementi impressionisti, cubisti, in maniera particolare
il richiamo alla “Guernica”. È una realtà che rappresenta la realtà effettiva, ma con contaminazioni e
memorie di carattere storico-artistico. Non è una fotografia, è un modo per vedere la realtà da dentro.

- E. Morlotti, “Paesaggi”, 1940-46.

Stessa cosa fa nell’ambito della pittura del paesaggio Ennio Morlotti, amico di Guttuso. Ci sono paesaggi
densi e materici, che implicano di fatto un lavoro che si potrebbe dire di carattere empatico con la natura,
di immedesimazione con il soggetto che si ritrae. C’è molta intensità rispetto all’impeto assoluto cosmico
che troviamo in Pollock, però c’è comunque un bisogno di mettersi in comunicazione con il fluire delle cose.
Il linguaggio ci può ricordare Cezanne, Van Gogh, anche qui una memoria, un precedente storico-artistico
usato per rappresentare le cose. Anche qui c’è questa dimensione empatica, c’è questo andare verso la
natura come avevano fatto i partigiani, recuperando sé stessi in sostanza.

- R. Rossellini, “Roma città aperta”, 1945;


- Scene dl film.

Questo è uno dei punti più alti che siano stati toccati in una poetica realista o naturalista, e insieme neo-
realista come riproposizione del realismo attraverso un linguaggio che ha mediazioni di carattere culturale.
Un esempio il famoso film di Rossellini. Girato nel 1945, nel tempo in cui Roma non era più, aveva cessato
di essere città aperta, occupata dai tedeschi. Si vedono sequenze molto significative.

- E. Morlotti, “Figura”, 1948;


- E. Morlotti, “Solitudine”, 1948.

A fianco alcuni dipinti di origine cubista evidente, dove il cubismo è portato a una forma di espressività
particolare. I colori e le forme hanno elementi geometrici, che sembrano non essere fatti per stare fermi,
ma per dar luogo a una contorsione, a una dimensione fortemente empatica di chi quasi si sta dibattendo.
C’è un elemento di carattere fortemente esistenziale che entra dentro questa poetica. Ciò ci dà la
possibilità di dire che il tema della realtà permarrà nell’arte italiana anche oltre gli anni della fine della
guerra, come una materia che poi sarà soggetta a riforme di sperimentazione. Anche questa è una otta per
il corpo e per sé stessi, per resistere a ogni forma di distruzione.

Questo il movimento essenziale che noi ritroviamo anche nell’arte europea dopo il 1945, dopo che si erano
verificati altri ed estremi eventi catastrofici. Non si può di certo tacere, insieme alle tremende distruzioni
prima trattate, alle bombe atomiche lanciate sulle de città giapponesi. Il mondo occidentale è un campo
terribile di rovine: ci sono tanti elementi che bisogna cercare di osservare, perché non sono tutti uguali.
Bisogna rispettare il dolore della distruzione che tutti hanno patito: se da un lato non c’è dubbio che siano
stati i tedeschi a scatenare questo terribile olocausto dell’umanità, è anche vero che anche ai tedeschi è
toccato un trattamento esattamente uguale e contrario a quello che avevano riservato all’Inghilterra del
1940-41. Nel febbraio del 1945 ci fu un bombardamento alleato sulla città di Dresda, influente da un punto
di vista strategico, fatto per creare terrore e distruzione. Causò 350.000 morti in poche ore, una specie di
“iper-Guernica”, di “iper-Londra”, un pareggiamento con tutti i morti fatti dalla Luftwaffe. Questi morti del
febbraio del 1945 sono il doppio di quelli che si avrebbero avuti a Hiroshima.

Situazione di devastazione assoluta, questo era il mondo occidentale uscito dalla Seconda Guerra Mondiale.
Qualcosa che sembra quasi far rimpiangere le distruzioni della Prima Guerra Mondiale, dove è come se ci
fossero stati dei vincitori e dei vinti, ma fino a un certo punto. Se nella Prima Guerra Mondiale abbiamo
visto la tecnica imporsi come mezzo essenziale della situazione qu siamo arrivati a un’iper-tecnica, la
bomba atomica, un ordigno capace di distruggere la terra stessa su cui si svolge da secoli la storia e da
millenni la vicenda dell’uomo.

In questo senso abbiamo uno scenario nel quale ci si chiede anche da dove e come riprendere questo
bisogno di vita e realtà. Bisogna segnalare che anche in questo caso siamo vicini all’idea di “notte del
mondo” di Heidegger, in un panorama nel quale è sempre più difficile distrarsi, ritrovare gli archetipi
profondi da portare in superficie. In questa difficoltà va cercato in modi e luoghi diversi il modo in cui l’io ha
lavorato attraverso i singoli artisti.

Da segnalare in questo panorama di rovine un’opera sviluppata da Sutherland, che ne aveva davvero viste
di tutti i colori. Sutherland era un cattolico osservante, l’opera cominciò a prendere le sembianze di una
crocifissione, di una passione di Cristo, emblema dell’umanità negli ultimi anni. Ed ecco in questo tentativo
di ricostruzione e di resurrezione dell’arte dalle rovine della guerra. Un’opera importantissima, un trionfo di
Cristo, un Cristo in gloria, passato prima dall’idea di dipingere una passione di Cristo, una crocifissione.

Ed è qui che si può vedere una specie di appendice al diario di Sutherland artista di guerra: dopo essere
stato nelle miniere di stagno e delle acciaierie di Cardiff, addirittura fu mandato nel Nord della Francia. Vide
a partirti rovesciati in questioni: delle istallazioni militari tedesche distrutte dalla Royal Air Force. Ecco il
cambiamento in sostanza, le vittime diventano carnefici, e lui scrive nel suo diario: “...non ho mai
contemplato un simile panorama di distruzione in vita mia...”.

- Fotografia di Londra, 1940;


- Fotografia di Dresda, 1945;
- Fotografia di Hiroshima, 1945;
- G. Sutherland, “Depositi di bombe”, 1944-45.

Sono ripresi da questa zona del Nord della Francia dove il nostro Sutherland è stato mandato. Tra la fine del
1944 e l’inizio del 1945. Sotto immagini di Londra bombardata nel 1940, Dresda nel 1945, e la tremenda
esplosione della bomba atomica su Hiroshima nel 1945, a chiudere il cerchio dove stanno terribilmente le
fosse comuni, i lager, le camere a gas e tutto ciò che è costato la vita a 6 milioni di ebrei.

- M. Grünewald, “Crocifissione”, 1512-16;


- G. Sutherland, “Crocifissione”, 1947.

Sutherland stesso nel 1945 era ancora nell’esercito come artista di guerra e vide proprio “... le fotografie
più raccapriccianti di Belsen, Auschwitz, Buchenwald... i corpi straziati, nelle foto, mi sembrarono figure
deposte dalla croce. L’idea di dipingere il Cristo crocifisso acquistò concretezza in me...”. E anche qui è
interessante, nonostante la violenza della realtà e di ciò che veniva ricordato dai documenti fotografici,
Sutherland aderisce a questi nuovi “rospi e lumache”, elemento che ci porterebbe a distogliere lo sguardo.
Invece aderisce alla distruzione, al moto interiore di sconcerto di fronte a queste distruzioni, ricordandosi la
“Crocifissione” di Grunewald, che è in realtà in questo la traccia della memoria nella storia dell’arte usata
da Sutherland per dipingere la propria nel 1947.

- G. Sutherland, “Cristo in Gloria”, 1962, Cattedrale di Coventry.

Poi dopo questo gli viene commissionato un enorme arazzo per l’altare maggiore della Cattedrale di
Coventry, una delle cittadine inglesi rase al suolo, e si diceva “coventrizzare”, un ulteriore passo oltre
Guernica nel 1940. Proprio a Coventry, nella Cattedrale, ecco che Sutherland realizza un Cristo in gloria.
Siamo nel 1962, ed è interessante vedere come questo Cristo trascendente - siamo ormai oltre la Passione -
sia messo da Sutherland in una cornice che sembra un ingranaggio, come dentro una macchina. Forse vuole
alludere al fatto che la tensione, la minaccia della tecnica non si era esaurita, faceva vedere la trascendenza
solo attraverso una cosciente parafrasi della natura. Significava che anche la trascendenza doveva essere
cercata, doveva essere creata, la natura doveva essere riformata in modo da riuscire a farci vedere la
trascendenza che le distruzioni avevano negato.

Implica sempre il tener conto delle condizioni oggettive in cui ci si trova ad agire. L’arte è una distrazione
profonda, può essere una distrazione dalla distruzione, ma deve andare in profondità, trovare l’immagine
giusta. E l’immagine giusta secondo Sutherland non è quella di un Cristo sottratto completamente alle
distruzioni del tempo presente e di quello a venire, ma è qualcosa che si intravede, che bisogna cercare con
grande sforzo e difficoltà, attraverso i limiti e attraverso ciò che nel presente sembra non potersi più
negare. In questo sempre quel bisogno di ritrovare la strada adeguata, di parlare il linguaggio del proprio
tempo: non con sublimazioni della realtà, ma facendo vedere anche ciò che non è propriamente realtà
attraverso la realtà - il tema del pittore della vita moderna.

- G. Sutherland, “Forme cornute”, 1944;


- G. Sutherland, “Albero con spine”, 1946;
- G. Sutherland, “Albero con spine”, 1954;
- G. Sutherland, “Origini della terra”, 1951.

Sutherland continuerà a lavorare in questo modo, con queste forme che sembrano appunto forme
meccaniche e naturali. Siamo negli anni ’40, poi troviamo negli anni ’50 l’artista che ha ormai trovato il
proprio linguaggio, il proprio lirismo, anche se memore sempre della passione, del dolore di tutto ciò che si
è vissuto e attraversato in precedenza. La pittura ha così preso corpo: è un altro modo rispetto alle scelte di
Pollock e a quelle di carattere realistico e neo-realistico che abbiamo visto negli italiani, ma è sempre un
modo di dare corpo alla pittura.

E non è un caso che questo pittore, Sutherland, abbia attraversato la “notte del mondo”, sia arrivato a
quella propria misura, e trovandola in fondo ha riacceso una possibilità espressiva che non è più solo
propria, non è più solo di carattere espressivo, ma diventa comune anche agli altri. Anche qui “torniamo
dove non eravamo mai stati”.

28° Lezione del corso di “Storia dell’Arte Contemporanea”.


Eccoci agli ultimi argomenti da trattare. Sutherland è servito per vedere come a partire da sé stesso l’artista
sia in grado di rigenerare l’immagine della realtà per quanto tragica, subendone le trascendenze e magari le
suggestioni del carattere spirituale, come nel caso della risurrezione. Nel dopoguerra troviamo artisti che
compiono lo stesso tipo di risurrezione, cioè partono da sé stessi e tendono a ricreare attorno alla loro
opera un contesto, un insieme di relazioni. Il loro io tende quindi a svilupparsi con una funzione di carattere
sociale. Questo è un tema da porre in attenzione, benché con differenze di orientamento.

- Y. Klein, Salto nel vuoto, 1960;


- Y. Klein, IKB 191, 1960.

Importante un artista francese, Y. Klein, sospeso nel vuoto, e vicino uno spazio monocromo blu. Prima però
bisogna dire che anche queste strategie individuali che portano alla creazione di un clima o di un ambiente
sono proprio frutto della guerra, e portano gli artisti anche a scegliere delle strategie operative complesse.
Qui si colgono o si riprendono delle corrispondenze anche lontane dalla cultura europea, ma abbiamo già
visto molte contaminazioni: le stampe giapponesi nel “Ritratto di Zola” di Manet, e un susseguirsi di
contaminazioni nel presente. Non è un fatto nuovo, ci sono stati dei precedenti.

Però come annunciato, pria di entrare nell’arte di Klien, va detto che dopo gli anni ’40, dal 1945 e poi nel
decennio successivo prolungandosi ancora un poco all’inizio degli anni ’60, abbiamo un contesto operativo
che si denomina come “Arte Informale”. Sarebbe un discorso derivante dall’“Action Painting”,
dall’Espressionismo astratto della “New York School” e nelle sue differenziazioni interne, quali l’Astrattismo
a campiture cromatiche di Mark Rothko. Quindi si tratta di altre possibilità che fanno parte di un
rinnovamento non formale dell’arte, poi modulato in modi diversi. Ancora il contributo della “New York
School” all’Arte Informale: una gallerista come Guggenheim, e l’“Art of this Century”, si trasferisce a
Venezia nel 1947, e diventerà la testa di ponte per far conoscere in Italia e in Europa le vicende americane.

Qui vediamo anche nelle dimensioni vitalistiche e analogiche - nel senso di lavorare su gesto, sull’azione,
sugli automatismi - un ritorno e un incontro con tutto quello che era avvenuto a seguito del surrealismo in
Europa, un po’ come se il surrealismo fosse stato il crogiuolo da cui sono poi partite varie esperienze, prima
americane e poi europee. Qui si ripropone una sorta di riconciliazione tra le due sponde dell’Oceano
Atlantico, quella americana e quella europea, in un’arte informale che costituisce una sorta di permanente
potenzialità espansiva del linguaggio pittorico e plastico. È quindi una nuova potenzialità espansiva dell’io,
che vuole ricostruire e ritrovare l’energia vitale, è stesso e il mondo attorno a sé.

In questo senso anche la capacità di usare tutti i mezzi e le culture per dare corpo all’arte, un’immagine. Un
segno, un gesto, un materiale, magari anche il ricordo poteva andare indietro fino a parlare o a far rivedere
o risentire il linguaggio dada. Anche quella posizione interiore, importante del dadaismo, associata al
Buddismo. Questo insieme è tipico dell’opera di Klein, con molte suggestioni teosofiche e antroposofiche
mutuate dall’esperienza de “Il cavaliere azzurro”. D’altronde Klein sarà conosciuto come “il pittore del blu”,
per intendere il blu accesso, che poi è il blu de “Il cavaliere azzurro”, il blu della “celeste sophia”. Qui ci
sono quindi altri elementi simbolici che entrano all’interno delal questione. Abbiamo già visto l’elemento
sophianico tornare fuori a più riprese: in Duchamp, nel surrealismo, nell’attenzione degli uomini dell’Action
Painting nei confronti del copro femminile.

Klein è in buona compagnia, riprende il blu come colore sophianico. Era figlio d’arte, era figlio di due pittori,
ma prima dell’arte intraprese un rigoroso percorso delle arti marziali. Qui abbiamo il tema del corpo, come
lo abbiamo trovato in Pollock. Solo che è più disciplinato: il corpo secondo Klein passa attraverso la tecnica
del judo, cioè una specie di disciplina del controllo totale dei pensieri e delle azioni. Tra l’altro Klein fu un
judoka provetto, tanto che si recò in Giappone e studiò all’Istituto Kodokan, dove raggiunse il livello del
quarto dan, che era il livello più elevato nel judo mai raggiunto da un occidentale. Nel 1954 torna a Parigi,
apre una palestra, e sulle pareti si questa appende dei monocromi, che aveva prodotto ispirandosi alle
dottrine dello zen. Qui il colore trona ad essere una forma di espressione fisica e metafisica che comporta
una prossimità rispetto al corpo.

“L’azione equivale ad una forza che si avventa su un obiettivo formando un luogo geometrico ...”. Una frase
dell’autore Y. Mishima che ben si adatta allo stile e al metodo di Klein. Questi monocromi che Klein esegue
e mette nella palestra in cui pratica le arti marziali sono “forze che creano luoghi geometrici”, cioè un
momento di trasformazione del fisico in una dimensione metafisica.

- Y. Klein, judoka in azione;


- Opere anni ’50;
- Y. Klein con la modella “Rotraut”, poi sua moglie.

Da un lato abbiamo al questione delle arti marziali, dall’altro a contaminazione di elementi sophianici di
carattere europeo. E qui come nel judo ogni gesto del confronto con l’avversario costituisce l’apparenza di
uno stato sottile della mente, diffuso sul limite del mondo manifesto (sicché aderirvi è un corrispondere a
un’energia inesauribile, capace di resistere a tutti gli attacchi, volgendoli contro chi li porta, come nelle
tecniche del ribaltamento - come le tecniche che il judoka pratica nel ribaltamento dell’avversario), allo
stesso modo il colore è una materia immateriale, una forma che si rivela attraverso una forma geometrica e
che in sé stessa è priva di estensione. Quindi i monocromi che vediamo non hanno di per sé una
dimensione, sono colori e forme sottili.

Klein ha congiunto lo spirito di queste dottrine e forme, che aveva appunto tratto dallo zen e quindi dalla
dottrina studiato all’Istituto Kodokan, con l’idea della “celeste sophia”, che si riallaccia a una tradizione
duchampiana, ed è tipica del surrealismo, facendo proprio un annuncio di Steiner, per cui la Celeste Sophia
si trova «”membrata” e deve essere “rimembrata” dal proprio adepto. L’idea era che nel tempo presente
questa trascendenza, il velo che avvolge tutte le cose, la saggezza eterna, era andato perduta. E per Klein
questo smembramento, questa perdita della Celeste Sophia si era avuta con l’era atomica, la bomba di
Hiroshima. Ed ecco allora il bisogno estremo di far tronare la Sophia presente, di ridare corpo ala Sophia
perduta.

A tale fine, riprendendo l’idea surrealista della donna come sintesi di tutte le forze creative, Klein ha
impiegato il colore sophianico del blu, dell’azzurro, come mezzo di contrato applicato alle zone erogene
della sua modella. E qui noi ritroviamo una straordinaria sintonia, una ripetizione differente, l’accordo
erotico e intellettuale tra Manet e Victorine Meurent, l’“Olympia”, la complicità, il legame che c’era tra
l’uno e l’altro. Il corpo di Victorine era capace di evocare tuto, dalla prostituta alla “Venere di Urbino” di
Tiziano. C’era in questo corpo una serie di memorie, era il fulcro, l’idolo moderno.

Klien adopera di fatto una modella, poi sua moglie, trasformando con l’operazione del dipingere di blu le
parti erogene, come se si trattasse di una sorta di liberazione del desiderio di quel corpo.
Un’antropometria, una misurazione dell’elemento dell’anthropos, dell’essenza del copro, trascinandolo -
dopo aver scoperto le zone erogene del corpo femminile - su una tela. Che senso ha questa operazione? In
quel gesto istantaneo come una mossa di judo la Celeste Sophia riappariva, e si riuniva all’artista che ne
faceva un mezzo per ridare colore al mondo. Klein parlava dell’inizio dell’epoca blu, in concorso con il color
indaco, che è il più materiale dei colori, e l’oro, il simbolo della luce non manifesta, in un processo per il
quale il corpo non umano poteva divenire addirittura una sorta di sarcofago a rovescio, al cui fondo
appariva la vera materia, il blu di cui era costituito. È questa proprio un’operazione che Klein ha fatto in
rapport all’elemento femminile

- É. Manet, “Olympia”, 1963;


- Klein e la modella;
- Y. Klein, “Antropometria”, 1960.

Il copro essenziale della Sophia, il ritorno della Sophia nel mondo nel 1960.

- Y. Klein, “Monocromo”;
- Y. Klein, “Ex voto a S. Rita”, 1962.

In ultimo l’estrema metamorfosi del copro, in questa dimensione materiale che è riconquistata e associata
all’indaco e al color oro, tutto sembra ricreare il corpo umano in un sarcofago - significa “mangiatore di
carne” - al rovescio. In questo caso non è un involucro che chiude, ma che ridà carne, ridà forma, ridà
l’azzurro essenziale che è la materia vera di cui ogni corpo è fatto.

- Y. Klein, “Ritratto in rilievo di Arman”, 1962.

Ritratto in rilievo a grandezza naturale. Queste opere sono piuttosto impressionanti perché si tratta di
opere a grandezza naturale. Si tratta di una specie di rinascita, di ripresa. Il colore azzurro sarebbe poi stato
quello che poi si doveva adoperare per ridare anima al mondo. L’epoca blu è questa. Lo fece poi in tanti
altri modi, usando anche il senso dell’illuminazione, l’importanza della luce.

- Città tedesca bombardata;


- Corpi carbonizzati, Dresda, 1945.

C’è una metafisica dell’azione perché questo contatto, questa dimensione quasi d’arte marziale proprio nel
contatto con il corpo femminile, poi trasforma il corpo femminile in una materia con cui riuscire a dare
nuovamente anima e corpo a tutta la realtà. È un’altra resurrezione e non è un caso che anche Klein fosse
un cattolico integralista, quindi questo tema della resurrezione era comunque qualcosa che faceva parte
della sua cultura. Proprio in questo senso l’ultimo artista è un tedesco, Joseph Beuys, lui è un artista
davvero importante nel contesto della Germania.

“...in noi...fra noi...sottoterra” è il titolo di un’opera di Beuys. Qui vediamo la città tedesca bombardate,
bombardamenti e corpi carbonizzati ridotti in cenere anche dall’aviazione alleata, che aveva infierito sulla
città di Dresda nel 1945. Questo senso della distruzione totale è l’inizio dell’opera di Joseph Beuys, il quale
era un ragazzo al tempo della guerra, scampato per miracolo alla guerra stessa - aveva combattuto su vari
fronti compreso quello russo, sul quale era stato abbattuto a bordo di un caccia della Luftwaffe, ed era stato
salvato dal congelamento da parte della tribù dei Tartari. Lo avevano trovato ferito sulla neve, lo avevano
avvolto nelle loro coperte e salvato dall’assideramento, portato su una slitta. Questa sarà un’esperienza
determinante in Beuys. Beuys proprio perché è stato anche un soldato e quindi ha combattuto non solo in
Russia - è stato ferito tante volte -, proprio ha interpretato nell’immediato dopo guerra un desiderio di
rinascita dei tedeschi, di quei tedeschi che comprendevano fino in fondo e senza sconti l’orrore di cui erano
stati artefici ed alla fine anche vittime. Quindi le macerie e i corpi stessi dei morti ridotti quasi in cenere
colpiti come a Dresda da bombe al fosforo, questo pare che abbia veramente costituito la materia prima
dell’opera di Beuys, che in origine avrebbe voluto essere uno scultore.
Anche Beuys, animato da una sorta di cristianesimo mistico - conta questa dimensione spirituale - aveva
proprio stimolato uno scultore che egli aveva avuto all’accademia di Dusseldorf come maestro dopo la
guerra, cioè Ewald Mataré. Si univa a questo cristianesimo mistico anche una personale interpretazione
dell’antroposofia di Steiner, che è una figura ricorrente, presente in tanti artisti - assunzione
dell’antroposofia in Steiner. Con questi presupposti mistici di cui dicevamo Beuys cominciò a organizzare
delle gallerie d’arte nei pochi posti disponibili delle azioni, che sono poi performances, che poi mostrava al
pubblico in un coacerbo di materiali personali - cioè di poveri oggetti senza alcun valore estetico, che però
anche questi ci richiamano quelli delle serate DADA al Cabaret Voltaire - e dimostrava spesso producendosi
in un gesto di alzare e abbassare dall’altezza del petto un badile a doppio manico che aveva personalmente
costruito.

- J. Beuys, “... in noi... fra noi... sottoterra”, 1965;


- E. Mataré, “Madre con figlio morto”, 1931.

È fondamentale capire il dato del movimento, soprattutto di fianco a un’opera di Mataré, “Madre con figlio
morto”, con lo sfondo della città distrutta dai bombardamenti. Questa azione di Beuys si intitola “...in
noi...fra noi...sottoterra”, perché Beuys in realtà non pratica la scultura in maniera tradizionale, ma applica
una scultura alla presenza di questi oggetti - in fondo in questo badile era una scultura, altri erano oggetti
che gli si portava con funzione di scultura. Quindi qui abbiamo ancora tutta una memoria che viene dalle
avanguardie, ma certamente in un contesto che è completamente diverso. E questo discorso del badile
faceva sì che queste azioni assumessero l’aspetto di un rituale, come di una messa. E qui egli evocava
proprio un annuncio un po’ parallelo a quella della Sophia seguito da Steiner. Un altro principio di Steiner
che no abbiamo già trovato in Kandinskij e nella costruzione del Goetheanum di Basilea, in base al quale il
Cristo-Sole discende negli involucri dell’essere umano per dargli la forza di proseguire la propria evoluzione
cosmica dagli elementi materiali della Terra. Come interpretava l’annuncio di Steiner il nostro Beuys? Che
significato aveva la performance?

- J. Beuys, “Croce con sole”, 1947.


Compare qui una statuetta sempre da lui prodotta. Al posto della Passione del Cristo crocifisso c’è una
discesa del Sole attraverso il Cristo crocifisso. L’impulso del Cristo scende, discende, come Beuys faceva
pensare e voleva interpretare con il movimento del badile che tanto assomiglia alle due braccia del Cristo
con questo tema del Sole che scende. Il Sole che scende rappresenta proprio l’io, che rinasce con questa
discesa, che riprende forza, che scende proprio in noi, fra noi e sottoterra. Come il badile scende nella terra,
come il badile crea il luogo dove poi il nuovo seme si radicherà e germoglierà. In questa forma rituale con
questa discesa Beuys cominciava una sorta di “riscaldamento immaginativo” tramite il proprio io, che era
una ripetizione rovesciata del salvataggio dall’assideramento sul fronte russo ricevuto da parte dei Tartari.
Era stato salvato, ora taccava a lui salvare: l’avevano salvato dalla morte, ora toccava a lui salvare gli altri e
il proprio paese dalla morte che quel paese si era dato e che era evidentemente sotto gli occhi di tutti.
Allora disponeva Beuys la galleria d’arte ad essere la terra nella quale porre il primo seme di una comunità
tedesca volta a prendersi cura di sé stessa.
Le azioni di Beuys - come quella del badile - producevano nel pubblico uno scandalo, che si trasformava in
una discussione sull’arte e oltre l’arte come una sorta di presa di coscienza progressiva da parte del
pubblico della condizione nella quale versava la Germania, perché la Germania era annichilita dalle proprie
stesse azioni.

Qui cominciava una sorta di scongelamento, di ripresa, si nominazione e di discorso, ed era qui che Beuys
riprendeva con questi suoi lavori, con queste sue azioni, la funzione del seminatore di Van Gogh che aveva
presente, la chiamata dal colore al mondo.
- J. Beuys, “Come spiegare i quadri a una lepre morta”, 1965.
Questa funzione in maniera esplicita Beuys la vuole esercitare in un’altra azione del 1965. Perché questa
funzione di seminatore che esercita pubblicamente in questa azione del 1965, “Come spiegare i quadri a
una lepre morta”? Intanto si propose al pubblico in una tenuta molto inquietante, il volto bianco quasi
come uno sciamano, e addosso aveva gli oggetti della propria biografia: come per esempio sotto il piede
destro c’è un pattino che evocava la slitta dei Tartari su cui era stato salvato. E poi portava in braccio una
lepre morta. La lepre nella tradizione cristiana del Nord Europa e anche in quella dei Rosacroce - anche
nella concezione di Steiner - era l’animale che a Pasqua annunciava la resurrezione. La morte della lepre era
quindi quella della natura distrutta dalla guerra - la Pasqua era la primavera, la rinascita -, era quello
secondo Beuys il segno che il Cristo morto nella natura, “ritornato” - nel gesto del badile - dentro l’uomo,
gli assegnava la funzione di prendersi cura di tutto ciò che era morto per farlo rinascere. Questo il senso
fondamentale. La metafora del riscaldamento “risurrettivo” Beuys poi la sviluppa con oggetti simbolo.
- J. Beuys, “Infiltrazione omogenea”, 1966.
Un pianoforte avvolto nella iuta con sopra una croce rossa. Come se fosse anche quello una musica
divenuta glaciale, un consumo di note.
Beuys eseguiva la lavanda dei piedi ai visitatori delle fiere d’arte; sono strani rituali che tuttavia hanno
sempre bisogno di portare verso il basso, magari anche con una forma di umiliazione di sé, una dimensione
viceversa sublime, di rinascita, per chi la vive. Il suo raggi di azione si ampliò molto: fece delle attività
ecologiste, per esempio piantò centinaia di quercioli lungo alcuni fiumi per riuscire a bonificare le zone in
cui alcuni fiumi andavano sboccare. Quindi in questo senso c’era proprio un intervento diretto della natura,
di iniziative di bonifica della natura, chiamate come “Difesa della natura”, al punto che da queste iniziative
di Beuys è proprio nato il “Movimento dei verdi”, cioè gli ecologisti militanti - i verdi in Germania sono i figli
anche delle iniziative di Beuys. Ci sono varie forme di coinvolgimento.
- J. Beuys, “Azione celtica + ---", Artefiera, Basilea, 1971.
Abbiamo altre iniziative di “Difesa della natura”. Abbiamo la lavanda dei piedi a un visitatore all’“Artefiera”
che si tiene tutti gli anni a Basilea.
- J. Beuys, “Pianoforte della rivoluzione”, 1969.
Poi questo pianoforte. È chiaro che è figlio del pianoforte che si chiama “Infiltrazione omogenea” che è
avvolto dalla tela, deve essere riscaldato. Questo riscaldamento produce la rosa, che è proprio il fiore della
resurrezione, è il fiore quindi che entra a far parte del mondo partendo dal dolore, partendo dall’oscurità
della terra. È proprio il tema della fioritura e quindi questa fioritura per Beuys soprattutto è la ricreazione di
una comunità umana consapevole e cosciente, che si fa carico di sé stessa e anche dell’ambiente.
In questo senso forse è una delle iniziative più rilevanti nella lunga attività di Beuys fu - dopo la fondazione
della “FIU”, cioè della “Free International University”, cioè della libera università internazionale - un’azione
collettiva tenuta nella primavera 1977. Per 100 giorni consecutivi sul prato davanti all’edificio Federicianum
di Kassel, che è la sede della maggiore rassegna d’arte della Germania postbellica. Si è trattato di un dialogo
su molteplici argomenti con giovani tedeschi, ma anche giovani provenienti da tutto il mondo, su temi quali
l’ecologismo, cultura, democrazia, istruzione. Era come vedere rinascere i corpi carbonizzati a Dresda e a
quelli di tutte le vittime della guerra. In sostanza l’inizio di un nuovo cammino di comunità. Questa vis
pedagogica era parte integrante dell’opera di Beuys.

Ci sono sempre opere di Beuys piuttosto strane. L’idea che lui ha cercato di fare della propria opera una
scultura sociale. Il “Pianoforte della rivoluzione” era un emblema davvero significato, anche perché era
dedicato a Rosa Luxemburg, intellettuale socialista rapita e assassinata brutalmente dai “corpi franchi” a
Berlino, nel 1919. Anche qui troviamo una donna, il tema della resurrezione.
Anche qui con Beuys sembra esserci il compiersi di un procedimento che passa attraverso l’oscurità per
andare attraverso la luce. Da ricordare la metafora della “notte che va verso la mezzanotte, quando al posto
degli dei gli uomini sono arrivati fino in fondo all’abisso”. Solo là ricomincia la rialita solo se si è arrivati fino
in fondo. Gli artisti come Klein, Sutherland, sembrano essere arrivati fino in fondo: arrivati in fondo
sembrano aver trovato sé stessi e sono tornati per comunicare un rinnovamento, per comunicare che con
tutte le difficoltà che ci possono essere “la notte va verso la mezzanotte” se ciascuno trova la propria
misura, se trova la misura degli altri. Il ritrovare il centro è quando noi usiamo il mezzo come fine, e quindi
siamo capaci di elaborare i nostri limiti per poterli espandere, per potere trovare noi stessi.

Questa è la forma di distrazione più importante. Qui l’arte si è impegnata in questa operazione per oltre un
secolo, dal 1851, dal “Crystal Palace”: prendersi cura delle mancanze della società, agire dai singoli ai molti
con delle distrazioni che non si sono mai rivelate gratuite o dovute a un misterico e astratto mistero di
bellezza. Anzi le abbiamo viste scendere in profondità e mostrare la profondità alla superfice, come
traspaiono gli archetipi dell’inconscio collettivo. Anche il corpo fa parte di questi archetipi, ed anche la
fisicità, le parole e la comunità. Abbiamo seguito l‘arte per le strade d’Europa e d’America, in pace e in
guerra, nel dominio più stretto della tecnica che però nella “notte del mondo” cerca di ampliare. Abbiamo
riconosciuto l’io nelle terribili solitudini che poi diventano nuove collettività come nel fondamento luminoso
di ogni radura, come a scoprire che la luce apparteneva a un sole nascosto, che qualcuno ha intravisto in sé
“per farci tornare dove non eravamo mai stati”. Questo è il punto. Quello di cui abbiamo bisogno oggi è
questo: siamo chiamati a una prova terribile, il dover ritrovare noi stessi in una condizione di spaesamento,
nei nostri imperativi di oggi.

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