12/02/2020
Prof. Lorenzo Abbate
Genere di scritti molto particolare, le PRELEZIONI, lezioni inaugurali tenute in inaugurazione dei loro corsi.
Testi adottati:
“La critica letteraria”, 150 pp. circa, Mario Cimini + antologia di testi (da leggere! – ricordare i nodi tematici)
– no interesse per memorizzazione date.
Saggio “Benedetto Croce” - Felicita Audisio (una delle più importanti studiose di Benedetto Croce) – da
fotocopiare!! – prenderlo in biblioteca – 31 pp., ripercorrono il percorso critico di Benedetto Croce.
Biografia “Croce” – Fausto Nicolini, allievo e grande amico di Croce, ha avuto uno stretto legame con lui – 1-
437 pp. – testo discorsivo, ricco di info, lettura DA STUDIARE! – ruolo di Croce, chi fu <- da comprare in
antiquariato, o su e-Bay o Amazon, o da fotocopiare in biblioteca di Filosofia.
Aureo libello, 60-70 pp., “Contributo alla critica di me stesso”, scritto da Croce, a metà tra autobiografia e
biografia critica – scritto in max 3-4 giorni, con una grande lucidità e padronanza della lingua.
Tendenze critiche, scuole di pensiero (es. Carducci, personalità letteraria e critica, faceva parte della
cosiddetta “Scuola Storica”).
Tendenze relative a determinate date (in occasioni di ogni centenario dell’anniversario di un autore ci sono
delle prolusioni di edizioni critiche).
Analisi critica dal 1700 al 1950: parlarne già dal 700 è una sorta di azzardo, fino a prima non vi è una
filosofia dell’arte strutturata, un’estetica, dal ‘700 ci sono invece dei canoni ermeneutici per giudicare le
opere - comparsa di un’estetica, una filosofia dell’arte ben strutturata.
Benedetto Croce come critico letterario. È stato anche uomo politico (“Manifesto degli intellettuali fascisti e
antifascisti”), filosofo, letterato.
Obiettivi:
Lezione 1° del corso di “Critica Letteraria Italiana” – “Che cos’è la “critica letteraria”?”
Etimologia della parola e funzioni. “Critica” deriva dal greco “kritiké” (“tékhne”), da “krino”, che significa
“separare/distinguere, scegliere, dirimere, interpretare/spiegare”, tutti termini che fanno parte del
concetto. La “critica” è quindi “l’arte/l’abilità di valutare”. La critica, nella sua esperienza, divide ciò che è
esteticamente valido da ciò che non lo è (es. “Canti” di Leopardi, Piatti, 1831 - giudizio negativo, soprattutto
da Tommaseo). La critica dice cosa è valido e cosa no, ha la facoltà di scegliere e separare. Prima
dell’invenzione a stampa esistevano i manoscritti - dato che costava molto produrli spesso prima bisognava
segnalare le cose più importati (“classicus” = “appartenente ad una classe”; il ‘classico’ era no scrittore di
‘prima classe’, e quindi degno di essere ‘salvato’, e imitato). È importante anche la funzione di
“interpretare”, non solo scegliere e decretare il successo di un’opera, ma dare anche una visione quanto
più condivisibile di quell’opera.
La critica letteraria si deve concentrare su tutto, ma in realtà si concentra principalmente su quelle che
vengono definite opere d’arte con un valore più rappresentativo di altre. Esistono tanti tipi di critica, il
critico sceglie sempre su cosa concentrarsi, la critica è quasi sempre elogiativa, non si indica sempre per
forza con una stroncatura cosa non è un’opera d’arte.
L’opera d’arte. Cos’è un’opera d’arte? È un qualcosa che ha subito una serie di approvazioni costanti da
una moltitudine di persone. È un meccanismo pericoloso, molto spesso ci si adagia a ciò che dice ‘la
vulgata’ (es. Leopardi), ma esiste anche il gusto personale, la libertà di opinione (influenza su giudizio).
L’opera d’arte non nasce come tale, la sua artisticità viene decretata da una pluralità di persone.
«Nell’ambito delle cosiddette teorie del bello o dell’estetica, si tende a dare all'espressione opera d'arte un
significato privilegiato, vario secondo le diverse epoche e i diversi orientamenti critici, per indicare un
particolare prodotto culturale, [comunem. classificato come pittura, scultura, architettura, musica, poesia]
dotato di un riconosciuto valore.»
Concetto di artisticità. Chi o cosa definisce il discrimine tra arte e non arte? L’ARTISTICITÀ non è all’interno
dell’oggetto, è qualcosa che noi attribuiamo. Cos’è alla base della critica e della valutazione di artisticità? Il
GUSTO, il dare valore all’idea, che poi in base alle conseguenze può espandersi o meno - e
conseguentemente al gusto, la CRITICA. Ci dev’essere l’adesione al gusto, una permeabilità tra mittente e
ricevente.
«V'è una critica elementare e utilissima, che mira alla semplice interpretazione. Questa critica può illustrare
e spiegare un lavoro, non lo può giudicare. Vi è una critica tutta esterna, che raccoglie e fa un bel mazzo
delle forme o dei concetti. Anche questa critica è incompetente a dar giudizio di un lavoro d'arte. Vi è
un'altra critica, che studia le qualità dello scrittore e si riassume nel celebre motto “lo stile è l'uomo”.
Questa critica non ci può dare essa pure che mezzi giudizii. E vi è una critica che prende a considerare in se
stesso il contenuto, e ne fissa il concetto e le leggi e la storia. Anche questa critica mena a mezzi giudizii.»
Qui De Sanctis cerca di distinguere tra varie possibilità di critica, e presenta quattro tipi di approccio critico
differenti: la critica ESEGETICA - utilissima, che mira a interpretare il significato, conferisce spiegazioni e non
può giudicare (es. antologie - critica INTERPRETATIVA); critica RETORICA E FORMALE - tutta esterna, che
guarda la poesia dall’esterno, tenta di estrapolarne i concetti, non può emettere giudizio in quanto è
esterna; critica PSICOLOGICA - critica che si riassume nel motto “lo stile è l’uomo”, versante affermatosi alla
fine dell’Ottocento, che si è interrogato sulle personalità delle opere piuttosto che sulle opere stesse; critica
CONTENUTISTICA - critica che basa l’interpretazione di un testo sul suo solo contenuto, ma le opere sono
fatte di tanti fattori, di metodo espressivo e stile.
Tutti questi quattro approcci però non raggiungono le vere finalità della critica, poiché non riescono a
comprendere la complessità specifica dell'arte.
Il giudizio critico deve tenere conto di tutte queste fasi, cercando di compenetrarle tutte in un’unica forma
espressiva. La critica letteraria è secondaria, è solo successiva a uno step creativo, dopo la produzione di un
primo testo.
L’ESEGESI. La prima fase è l’ESEGESI. L’esegesi è l’interpretazione del testo finalizzata alla comprensione del
messaggio, e non è da escludere la possibilità di scoperta di nuove fonti per una nuova interpretazione (es.
“A Silvia” - c’è un’interrogazione, ma qual è la corretta interpretazione? Ci sono scuole di pensiero
completamente differenti. In questo caso l’esegesi è quasi superflua per la chiarezza del testo).
La CRITICA FORMALE. C’è poi la CRITICA FORMALE, un tipo di critica che mette in risalto una serie di
espressioni testuali e alcuni espedienti stilistici, per cui i critici danno una loro interpretazione critica (es. “A
Silvia” - “rimembri”, “beltà”, “limitare” - ricorso ad alcuni termini desueti, letterari, forme di chiara
ispirazione petrarchesca <- volontà di dare sonorità morbida, di ‘allungare il tempo’, renderlo presente; ci si
interesserà della struttura metrica del componimento, traendone interessanti osservazioni). Ciò che non
può emergere è l’INSITO MOTIVO DEL CAPOLAVORO, la sua VALIDITÀ ARTISTICA e le FINALITÀ DELLA
RETORICA di cui si compone - non si può capire la poesia stessa dalla sua essenza.
La CRITICA PSICOLOGICA. La CRITICA PSICOLOGICA parte dallo scrittore per interpretare l’opera, ma noi
sappiamo che molto spesso le opere sono svincolate dalla realtà (es. “A Silvia” - Parlerà del 'carattere'
leopardiano, della sua solitudine, del suo bisogno d'amore e di evasione; e finirà col giustificare la sua
poesia in modo del tutto esterno alle sue intrinseche motivazioni (predestinazione psicologica?)). In questa
maniera non si potrà cogliere il mondo poetico dell'autore, anche se alcune indicazioni potranno essere
utili ed esatte.
La CRITICA LETTERARIA per eccellenza porta alla fusione di tutti questi elementi, in una creazione
autonoma.
“La critica letteraria dovrebbe scaturire da un debito di amore. In modi evidenti e tuttavia misteriosi una
poesia o un dramma o un romanzo afferrano la nostra immaginazione. Nel momento in cui deponiamo un
libro non siamo più quelli che eravamo prima di leggerlo. [...] Le grandi opere d’arte ci attraversano come
venti di tempesta, spalancando le porte delle nostre percezioni e investendo l’architettura delle nostre
convinzioni con la loro potenza trasformatrice.
Noi cerchiamo di registrare il loro urto e di riorganizzare la nostra casa sconquassata secondo il nuovo
ordine. E, spinti da un qualche primario istinto di comunione, cerchiamo di comunicare agli altri la qualità e
la forza della nostra esperienza. Vorremmo convincerli ad aprirsi ad essa. È da questo sforzo che nascono le
intuizioni più vere della critica.”
«[...] che accadrebbe se al mondo non vi fosse la critica? […] non accadrebbe nulla.»
«[Senza la critica] Le cose belle rimangono allora senza lode e senza riconoscimento dell'esser loro, le brutte
senza condanna, e il tempio della poesia si riempie di vendentes et ementes, e nessuno ne li discaccia»
Senza la critica, l’arte in sé esisterebbe ancora, forse sarebbe diverso il nostro modo di fruirne. Secondo
Croce, “le cose belle rimarrebbero senza lode, quelle brutte senza condanna”: la poesia rimarrebbe in balia
di tanti personaggi che tentano di affermarsi come geni poetici. Secondo Croce la critica ha la funzione di
CANONIZZARE CIÒ CHE È ARTISTICO, e DISTRUGGERE CIÒ CHE NON LO È. Come fare?
Tentativo di definizione di “Critica letteraria”. Per Critica letteraria si intende quel discorso su un qualche
testo letterario (sulla letteratura) svolto da un soggetto (da X - autore stesso, lettore esperto, erudito etc.,
che si cimenta nella critica o nel commento) che si è sviluppato parallelamente alla produzione di testi
letterari, privilegiandone diversi aspetti o tutti insieme (l’analisi / commento / interpretazione / giudizio di
valore).
COSA COMPRENDE la Critica letteraria. Il primo lavoro è lo STUDIO TEORICO DELLA LETTERATURA (critica
teorica) -> teoria letteraria, in secondo luogo abbiamo lo STUDIO PRATICO DELLE PRODUZIONI LETTERARIE
(critica pratica/critica applicata).
COSA ESCLUDE la Critica letteraria. Esclude però altre operazioni, quali le FASI EDITORIALI DEL TESTO
(preparatorie) -> filologia - disciplina scientifica che mira alla ricostruzione più condivisibile di un testo
letterario - di cui bisogna cercare la più condivisibile, stabilire quale sarà il testo che più lettori dovranno
leggere. Esclude anche lo STUDIO STORICO ED ESISTENZIALE, raccolta dei dati e stesura delle biografie
degli autori (approccio storico alla letteratura).
Funzioni principali della Critica letteraria. La DEFINIZIONE DEL GUSTO -> rifiuto della “non arte” (funzione
proiettiva). La funzione di CLASSIFICAZIONE DEGLI AUTORI E DELLE OPERE -> la creazione di un “canone” di
riconosciuta ammirazione (nelle antologie si studiano solo i capolavori); -> la trasmissione e diffusione
dell’opera (-> fortuna). L’ANALISI e l’INTERPRETAZIONE DELLE OPERE. La DIFESA e STRONCATURA di
un’opera (o stile, o tendenza letteraria).
Pregiudizi.
“Ars addita arti” - “Arte “aggiunta” all’arte” -> La critica come operazione artistica che tenta di
prendere l’opera d’arte dell’altro e sfruttarla.
“Il critico è un autore mancato”, “Il critico forza l’opera letteraria, cogliendo elementi a questa
estranei” -> Spesso il critico da messaggi non condivisibili, non cresciuti su base teorica o scientifica,
sullo studio estetico.
“Senza l’artista la critica d’arte non esisterebbe.” -> Il “giudizio di valore” può bastare alla critica
letteraria? Bisogna porsi davanti al testo senza pregiudizi.
«Dei critici letterari poco resta dopo la loro scomparsa (e talvolta anche prima). Il nostro è un mestiere
ancillare, quasi servile: cerchiamo di spiegare agli altri cos'hanno detto, e come l'hanno detto gli scrittori e i
poeti, grandi e piccoli, del passato e talvolta del presente. Dopo un po' la gente se ne stanca, e invece di
tornare a leggere per l'ennesima volta un testo critico o un capitolo di storia letteraria, si rimette a
compulsare, giustamente, gli scrittori e i poeti […].»
La critica è infallibile? Può distorcere il messaggio di un testo? Laviola (?), in occasione di una giornata di
memoria di Leopardi, in occasione della ricorrenza della sua nascita, a Recanati, ha interpretato la poesia
come un giallo. La critica spesso può distorcere. Qual è l’unica arma contro tutto ciò? Lo studio, la lettura, il
confronto.
18/02/2020 - 2° Lezione del corso di “Critica Letteraria Italiana” - “Dalla critica “antica” a quella
“moderna” (1)”.
Mostra documentaria-fotografica alla Biblioteca Mozzi Borgetti.
18-19 marzo - Convegno a Macerata e a Recanati, massimi esperti di De Sanctis e di Leopardi. Scelta
di una delle relazioni del convegno e verifica all’esame. Mostra organizzata in una biblioteca storica,
occasione per vedere documenti normalmente non esposti.
Dalla critica “antica” a quella “moderna”. Grosso spartiacque è quello del ROMANTICISMO: dall’800 in poi
c’è per la critica un differente orientamento, i giudizi non si basano più sul gusto personale, sull’estetica, ma
su un metodo categorizzato.
LA CIVILTÀ ALESSANDRINA. Dopo Alessandro Magno i vari regni si dividono, e si instaura la dinastia dei
Tolomei. La civiltà si basa sia sull’influsso greco sia su quello egiziano, il cui faro è Alessandria. La Biblioteca
di Alessandria era qualcosa di vicino all’idea di università e di centro di ricerca, in quanto la massiccia
presenza di testi consentiva un maggior sviluppo e propagazione della letteratura. Lo sviluppo è tra IV-III
secolo a.C., è bene conoscere i testi per capire il processo che ne conseguì. In questa fase non ci sono
prevenuti testi di critica letteraria veri e propri. La critica letteraria al tempo aveva forme molto diverse:
andava o per componimenti o per monografie. In questo periodo è più intesa come corpo a corpo con il
testo.
Critica letteraria: operazioni attualmente intese come filologia - si studia la riproducibilità del testo e come
il testo si è evoluto nel tempo. Gli alessandrini li assemblavano, così da creare un testo il più vicino possibile
all’originale. Quando la stampa non esisteva, c’erano solo copie manoscritte. Si tende a restaurare il testo, e
questa è la prima applicazione della critica, ma si tratta in realtà di parti a servizio della critica, che
consentono lui di concentrarsi su un testo quanto più possibile leggibile.
CALLIMACO. Poeta greco ellenistico, oltre che poeta era anche addetto della biblioteca ed erudito. Scrisse i
“Pinakes”, e si affianca anche la tendenza di cercare di catalogare il bagaglio culturale dell’antichità. Il
catalogare di per sé può essere un’operazione di critica letteraria. Dalla tendenza alla catalogazione
possiamo vedere un germe di quella che sarà la scrittura delle opere della letteratura, LA TEORIA DEI
GENERI LETTERARI: è necessario per questa uno studio e una catalogazione ben determinata. La modalità
di interpretazione dei testi si accompagna anche alla NASCITA DEL COMMENTO ALLEGORICO (“alla” +
“agoreuo” -> “parlare di altro”, dietro si cela un concetto-altro). Si inizia ad applicare tale tendenza, per
superare il livello di lettura base: si cerca di trarre un significato che vada oltre il testo stesso, e questo è un
lavoro proprio della critica.
PROTAGORA. Per Protagora era dovere da uomo colto la capacità di confrontarsi con i testi letterari, di
dare una propria interpretazione e di comprenderlo. Era necessario saperlo catalogare, e saper SPIEGARE
un testo, comunicarlo all’esterno (critica letteraria = atto di comunicazione verso l’esterno).
ARISTOTELE. La “Poetica” è un’opera che cerca di interrogarsi su cosa sia la poesia in ambito greco, in
concreto, una serie di appunti di sue lezioni che cercano di individuare le categorie della poesia. Noi
possediamo solo un libro della “Poetica” - il secondo era forse dedicato alla commedia, intendendo con la
“tragedia” il livello più espressivo di una comunità di persone, la poesia più alta possibile. Poi abbiamo la
“Retorica”. Le sue opere possono essere definite TRATTATI, e la critica si esplicherà su questa forma. Il
trattato vuole insegnare qualcosa di pratico, dà nozioni di composizione. Tendono a orientare la
composizione delle opere, e il giudizio non si allontana così tanto dal giudicare la bellezza di una data
opera.
PERIODO LATINO. Abbiamo CICERONE, con la “Rethorica Ad Herennium”, ma non troviamo critici come
quelli di oggi. L’idea di critica del periodo è diversa da quella di oggi: abbiamo il “caensor” - “colui che cerca
di dare nozioni”, che indica cosa non va fatto; l’operazione critica per i latini era qualcosa di molto
complesso, potevano essere individuati problemi retorici o metrici, ma non abbiamo cose quali per
esempio la trattazione dell’animo di un poeta (es. Catullo); la critica si basa sul giudicare il livello di
attinenza dei poeti al criterio-modello classico, è raro che ci siano personaggi che giudichino altro - e lo
“iudex”.
Le tre forme prevedevano il ricorso al GIUDIZIO DI VALORE: in un trattato per esempio venivano citate
diverse auctoritas. Per quel che riguarda Platone, possiamo aiutarci nel comprendere il concetto di “opera”.
“Jone”, Platone. SCRITTURA: Poesia come “sacro fuoco” che accomuna l’essere umano a quello divino. Il
poeta risulta ispirato, e ciò implica nel giudizio delle opere, l’inquadrare la poesia non come una creazione
umana, ma come frutto dell’intermediazione con il divino. La poesia è così importante da dover essere
spostata sul piano divino, non su quello umano. SCRITTURA E RICEZIONE: L’uomo nel comporre non è
lucido, nell’atto creativo è “trascinato fuori di mente”, in un ‘furor’ poetico, come se fosse oltraggiato.
Pensiamo alla figura della Sibilla, che veniva appunta ispirata e la sua composizione veniva trascinata fuori
di sé. L’uomo è portato in un mondo immaginifico, e questo per gli antichi non era che un influsso dato
dalla distanza del divino, in quanto questo stesso fuoco che lo infiamma è capace di trasmettersi ai suoi
destinatari (magnetismo). Dal momento che era il dio a trascinare il poeta fuori di sé, si entra nel mondo
poetico del dio stesso.
Con queste premesse, la critica non ha ragion d’essere, perché giudicare la poesia significherebbe
giudicare un dio. La critica può essere vista come un atto “CREATIVO” o “RIFLESSIVO”? Si tenta di creare un
diverso punto di vista, ma è comunque unione di tutte e due le cose.
Tutte quelle operazioni che tendono a stabilire il testo che si debba leggere (-> filologia).
Trattato;
Solitamente più vicini a guide alla composizione che all'interpretazione dei testi (citazioni “ad usum”).
Commento.
L’OPERA sarebbe un qualcosa di irrazionale, che sfugge al ragionamento -> un dono divino.
“Ogni Scrittura è ispirata da Dio e utile a insegnare, a riprendere, a correggere, a educare alla giustizia,
perché l'uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona.”
Si parla di temi biblici, ispirati direttamente da Dio, da un dio unico. Sarebbe legittimo interpretare
liberamente il testo biblico? No. Solo con Lutero sarà possibile, con la rivendicazione della interpretazione
della Bibbia.
“io farò sorgere per loro un profeta come te in mezzo ai loro fratelli, e metterò le mie parole nella sua bocca
ed egli dirà loro tutto quello che io gli comanderò.”
La Bibbia non poteva essere interpretata, se non da coloro direttamente inseriti nel contesto.
Cosa ne consegue? Una sorta di SVALUTAZIONE DELL’OPERA (arte in difetto di ragione). Se è l’opera divina
a produrre l’opera, allora la sacralità è depotenziata della capacità di giudizio dei singoli sulle opere d’arte
<- SACRALITÀ DELL’ARTE (straordinarietà/divinità esclude il giudizio), questo perché nel Medioevo l’uomo è
nulla, tutto è Dio.
“Sappiate prima di tutto questo: che nessuna profezia della Scrittura proviene da un'interpretazione
personale; infatti nessuna profezia venne mai dalla volontà dell'uomo, ma degli uomini hanno parlato da
parte di Dio, perché sospinti dallo Spirito Santo.”
Tutte le interpretazioni non dipendono dall’ingegno umano, in quanto tutte le interpretazioni dei testi
biblici e laici sono ispirati da Dio quindi il critico è depotenziato dalla sua capacità giudicativa.
MEDIOEVO. La svalutazione del giudizio comincia a persistere nel Medioevo, ma poi comincia a farsi largo
l’INTERPRETAZIONE ALLEGORICA dei testi. Si esprime un significato recondito che va recuperato ed
esposto ai lettori. Abbiamo anche i testi CLASSICI, per cui la componente divina è fondamentale, e subentra
il significato allegorico, una rilettura in un’ottica se non cattolica, almeno un po’ più conciliante. Non si
poteva rinunciare a quei testi, sia sul piano educativo sia su quello linguistico. La lingua di comunicazione
era però il LATINO, che doveva rimanere grosso modo sulla linea di quello classico, doveva essere reso
leggibile da quelle persone che non avevano una preparazione tale da comprenderlo. Allora si tenta la
CRISTIANIZZAZIONE di alcuni autori completamente pagani. Un esempio importante è Virgilio. Altra cosa è
la circolazione di lettere di Seneca e San Paolo, false, ma di cui si autorizza la lettura.
Rapporto tra Padri della Chiesa e scrittori pagani. Problema: Rinunciare al bagaglio culturale classico in
quanto pagano? Soluzione: L'interpretazione allegorica tramuta gli “eroi” e gli “dei” in emblemi di
comportamento (lodevole / da evitare). L’unico modo era quindi di tramutare i concetti pagani in modelli
classici.
La teoria dei quattro sensi. Nel Medioevo si afferma, nel X secolo d.C., la famosa “TEORIA DEI QUATTRO
SENSI” - modo migliore per interpretare un testo letterario qualsiasi, modalità di critica e comprensione del
testo. Abbiamo la LETTURA LETTERALE del testo; la LETTURA ALLEGORICA - tentativo di cercare un
significato altro da quello letterale, ma in stretta connessione con esso -; la LETTURA MORALE - ricavare dal
narrato degli emblemi o dei modelli di comportamento (exempla) -; la LETTURA ANAGOGICA - processo
induttivo che dall’esperienza particolare del testo o del poeta porta alla definizione dell’universale, un
insegnamento per l’umanità -.
Allegoria. Nel contemporaneo la lettura allegoria è caduta in disgrazia, in quanto il livello letterale è l’unico
su cui possiamo avere un minimo di certezza. Il livello allegorico non è stabilito da nessuno, è il critico o il
lettore a doverlo trovare. Abbiamo così due tipi di lettura fondamentali: uno direttamente rilegato al testo,
e un altro che tenta l’espansione della portata del testo stesso.
“Ed ecco, quasi al cominciar de l'erta, una lonza leggiera e presta molto, che di pel macolato era coverta;”
La lonza (lat.: lynx) è una personificazione della lussuria. (il leone è la superbia, la lupa è l'avarizia).
Viaggio nella letteratura italiana. La prima “Storia della letteratura italiana” è quella di Girolamo Tiraboschi
nel tardo ‘700. È necessario pensare a chi per primo cominciò a catalogare la letteratura italiana.
Riferimento cronologico:
Rifermento tematico:
1300.
Opera sul volgare in Italia, per cui il latino è la lingua di comunicazione franca tra i dotti per tutto il ‘700-
800. All’interno possiamo trovare i primi semi di una storiografia della letteratura italiana, si va dalla scuola
siciliana alla modulazione della canzone, e ciò prevede un’ampia conoscenza critica.
Tematiche.
Rassegna di selezionati poeti dalla Scuola Siciliana fino a Cino da Pistoia e all’“amicus eius”. Dante usa solo
determinati poeti come exempla di un determinato utilizzo linguistico. Il suo intento non era quello di
formare una storia della letteratura italiana dalle origini.
Per Dante, i poeti vengono inclusi per aver scritto in volgare, e per la propagazione del “volgare illustre”. Gli
autori vengono citati non in base cronologica, ma in due modi: su BASE GEOGRAFICA e minimamente
STROICA. Il suo intento è però quello di RICERCA di un volgare illustre, un interesse RETORICO-LINGUISTICO.
Sembra essere lontano dalla Storia della letteratura italiana, si parla di “deorum gentilium”, di poeti pagani.
Tematiche.
- Rassegna di personaggi degni di essere paragonati agli antichi scrittori (Francesco da Barbenno,
Dante, Barlaam, Leonzio Pilato, Petrarca), come degni di essere paragonati ai classici.
- Direttrice di ordinamento e selezione: interesse non puramente letterario -> difesa e giustificazione
del proprio operato letterario.
Sta quindi facendo una catalogazione, una selezione, il cui criterio di inclusone non è puramente letterario,
ma agisce al fine di DIFENDERE IL PROPRIO OPERATO. Avrebbe presentato autori che non erano degni di
quella posizione, che lui avrebbe tentato di difendere.
“novos incognitos auctores induxerit quibus utrum prestanda fide sit, incertum est.” -> “Avrà presentato
moderni sconosciuti autori, ai quali è dubbio se si debba prestar fede”;
Risposta di Boccaccio.
“insignes viros esse quos ex novis inducit in testes” -> “sono uomini insigni quelli che fra i moderni [si]
introducono come testimoni.”.
1300. CONCLUSIONI.
1400.
Durante il Medioevo avevamo commento e trattato. Poi abbiamo una diversificazione dei generi,
compaiono DIALOGO e BIOGRAFIA. Si instaura l’usanza di scrivere anche monografie tematiche su autori
italiani, dove si dà anche importanza all’iter di vita di questi. Poi anche per il dialogo, che risorge
completamente, sulla scorta dei dialoghi Ciceroniani e di Platone. Si rappresentano dispute, ma abbiamo
anche l’apogeo dell’EPISTOLARIO. È una raccolta di lettere, cosa che non implica che abbiano la loro
componente comunicativa (soprattutto nell’Umanesimo); il trattato tende a ridursi di grandezza e a entrare
nella lettera. È un genere duttile, si può parlare di tutto.
19/02/2020 - 3° Lezione del corso di “Critica letteraria italiana” - “Dalla critica “antica” a quella
“moderna” (2)”.
1400.
Epistolario, epistola. Lettera fittizia di ambito critico: non ha funzione comunicativa diretta (come nella
lettera privata), ma si tratta di finzione letteraria, la lettera viene indirizzata a un destinatario ma andrà letta
da una pluralità di soggetti. Ne sono un esempio le produzioni di Foscolo, Madame de Steal, ecc. Si tratta di
una forma comunicativa funzionale che consente di scrivere un messaggio indirizzato a un solo mittente,
ma destinato a più. Anche Croce nel Novecento farà uso di questo espediente - spazio breve per esprimere
contenuti molto densi.
UMANESIMO. Parte integrante ha la RISCOPERTA DEI CLASSICI, ritrovamento tra i dotti di due opere,
stimolo di pensiero critico e spinta alla “storiografia letteraria”: Quintiliano e Aulo Gellio, “Notti attiche”. La
seconda è un’opera MISCELLANEA, ha al suo interno una molteplicità di argomenti e interessi. Questa
frammentazione dell’opera dà modo agli umanisti di appropriarsi del metodo di scrittura frammentario.
Alla fine del 1400 abbiamo l’esempio dei “Miscellanea” di Poliziano, due libri la cui varietà e possibilità
comunicativa consente di scrivere di molti argomenti, toccando le questioni più disparate. A fianco di opere
monografiche si affiancano opere di minor portata, le lettere critiche e miscellanea.
A livello di critica letteraria, la situazione è frammentaria. Abbiamo una gran quantità di dispute rispetto
all’estetica letteraria, in quanto non vi è ancora un modello di estetica: il giudizio di valore di un autore si
basava sul livello di ADERENZA AI CANONI CLASSICI. Abbiamo una miriade di poeti in ambito latino che si
esprimono in versi latini per argomenti attuali (mimesi sensibilità moderna-sensibilità antica). L’attualità è
trasferita in un contesto antico, di ispirazione antica, per cui ci si finge antichi e si esprime l’io moderno.
Così ha fatto l’ACCADEMIA DELL’ARCADIA, che ha tentato di scacciare l’espressività barocca promulgando
una nuova espressività poetica.
Con Petrarca l’occhio del critico cerca di astrarsi dalla sua comunità locale e si esprime in un canone
comune a tutti.
Schema generale:
Ha scritto alla fine del 1400 un “Dialogus de hominibus doctis”, un dialogo su tutte le persone che potevano
essere definite dotte. Si accomuna l’idea di letteratura con quella di cultura, idea che si protrarrà per tutto
il Settecento. La differenza è tarda, quasi del Novecento. Dalla fine del Quattrocento fino a tutto il
Settecento tutte le opere erano intese come parte integrante della produzione letteraria.
Quali sono i caratteri che determinano l’uomo dotto (-> definizione ambito culturale e chi vi dovesse
rientrare), oltre a chi sono secondo lui i dotti del suo tempo e di quello passato. Si tratta di una forma
dialogica di ascendenza platonico-ciceroniana, che dà la possibilità di giudizi più o meno isolati /
contrastanti.
“In quella stessa epoca anche Francesco Filelfo veniva giudicato piuttosto eloquente [non indisertus
putabatur]; come dote naturale possedeva un ingegno incostante, volto a molteplici interessi, variabile.
Rimangono tra i suoi scritti poesie e orazioni, ma come lo è stato nella vita, così era volubile in ogni attività.
Fin da fanciullo fu buon conoscitore della letteratura greca e per studiarla visitò quasi tutta la Grecia, e del
resto gli giovò molto il suocero Crisolora, dal quale apprese la cultura greca, lasciata a lui per testamento,
quasi come eredità dotale. [...] Ma egli era uno scrittore venale, del resto preferiva conseguire la ricchezza
piuttosto che la fama di letterato; si da infatti che in quel tempo non vi fu un solo principe in Italia a cui non
si sia rivolto e che non abbia onorato nei suoi scritti per ottenere da lui denaro. Tuttavia come era corrivo a
chiedere, così era generoso nel donare [...]”
Trattazione monografica dedicata a un letterato tra i più strani dell’Umanesimo, un poligrafo, FRANCESCO
FILELFO (1398-1481). Ci dà un’idea della grande superficialità della critica. Il criterio di inclusione è strano:
in quella stessa epoca Filelfo viene considerato “piuttosto eloquente”. C’è assenza di giudizio critico, lo
ritiene dotto in quanto una moltitudine di persone lo ritengono tale, e qui torna il tema della fortuna
autoriale, per cui la destrezza letteraria non dipende affatto dalla fortuna presso il pubblico. È un criterio
sciocco. Passa a una critica, in seguito a questa segnalazione di matrice pubblica. Sta dando un giudizio a
livello di persona, lo sta attaccando, senza giudizio critico. Una cosa che va sottolineata è che era un
grecista (Umanesimo - periodo di riappropriazione della cultura greca: dopo la presa di Costantinopoli tante
personalità vanno ad insegnare il greco), ci sta dicendo che la cultura di Filelfo si innalza sopra la soglia.
Carattere costante fino al 1600-1700, il tentativo di gerarchizzare la cultura, quasi a voler tracciare una
STORIA CULTURALE EVOLUTIVA. Si tentano di individuare generazioni attraverso cui la cultura si è
tramandata. E si lascia un’eredità culturale, cosa che porterà all’individuazione critica rispetto alle scuole
culturali, non più rispetto alle singole individualità. Il meccanismo arriverà a concretizzarsi in un fenomeno
tardo, a partire dal Cinquecento, le ACCADEMIE, crogioli di cultura e filosofia.
Filelfo prestava la sua genialità al principe d’occasione: mettere in luce la caratteristica non ha senso, è un
giudizio esterno alla poesia, ancora non abbiamo giudizio sull’ambito produttivo di Filelfo. È sempre molto
difficile scindere l’ambito personale dall’ambito produttivo e letterario del poeta. Non bisogna tramutare il
giudizio della persona nell’ambito della tradizione e della produzione dell’autore. Continuano a non esserci
giudizi critici, ancora la persona e l’opera erano considerati una cosa sola (persona malevola -> opera
svalutata), bisogna aspettare anni prima che la persona si distacchi dall’ambito della produzione.
Con Tiraboschi abbiamo una trattazione di Petrarca che ancora non si discosta dall’idea di biografia =
letteratura. I criteri di inclusione di Cortesi allora sono la fama in vita, da cui dipenderebbe la sua bravura
letteraria. Caratteristiche del brano: 1. BIOGRAFISMO (attenzione a particolari biografici); 2. Attenzione alla
discendenza letteraria; 3. Attenzione minima all’analisi delle opere.
Motivazioni di inclusione:
1. Fama ricevuta in vita dall'autore → «veniva giudicato».
Caratteristiche del brano:
1. Biografismo (attenzioni a particolari biografici).
2. Attenzione alla discendenza letteraria.
3. Attenzione minima all'analisi delle opere.
1500.
Abbiamo delle mutazioni a livello di cultura letteraria. Abbiamo la nascita della STAMPA, nella seconda
metà del Quattrocento. All’inizio dei primi libri stampati abbiamo gli incunaboli, primi libri a caratteri mobili,
lastre in cui venivano attaccati i caratteri mobili e si procedeva alla stampa del libro. Con un’unica lastra si
potevano stampare infinite copie di un unico libro -> diffusione capillare della cultura. I libri erano molto
costosi nel Quattrocento, spesso in pergamena e con materiali ricercati, dotati di illustrazioni e miniature.
L’accesso alla cultura era di per sé limitato e selettivo nel Quattrocento, mentre nel Cinquecento abbiamo
lo sviluppo maggiore di un’istruzione di base (nascita ceto mercantile, che si appropria dello strumento
della cultura e della scrittura). Anche la stampa diventa qualcosa di più economico, compare il formato ‘in
folio’, si usano gli stracci di carta - materiale più economico. Si sviluppa una fiorente città della stampa,
VENEZIA, capitale della cultura ed esportatrice dei libri. Aldo MANUZIO è l’editore, il tipografo principale
del Cinquecento, che tentò l’abbassamento del prezzo assicurando l’economia e la cura del prodotto, dal
punto di vista dell’impaginazione e della redazione: vuole assicurare che i testi che vuole stampare siano
corretti, e ottiene l’esigenza di una STAMPA MODERNA. Abbiamo quindi un’espansione dell’offerta
editoriale, cosa che comporta un maggior accesso e una maggior stampa di libri. I cataloghi di incunaboli
contavano migliaia e migliaia di volumi, e già dai primi anni del Cinquecento abbiamo una necessità di
catalogazione di opere, e di raccordo.
Trattato. Ci porta alla nascita di un nuovo genere letterario, la nascita di CATALOGHI e LISTE DI AUTORI E
DI OPERE, cui segue spesso un giudizio dell’edizione in sé e sull’opera stessa. Si sviluppa ancora lo
strumento del TRATTATO, che ha origini greco-latine, e nel Cinquecento trionfò. È uno strumento
d’indagine critica finalizzato all’imitazione, serve ancora a fare da GUIDA ALLA COMPOSIZIONE. Investendo
la produzione stessa di opere, orienta il gusto e la produzione stessa.
La “Libreria Prima” (1550-1551) ha come intento primario non l’interesse verso la letteratura generale, ma
il “dar cognitione di tutti i libri stampati vulgari”, quindi l’interesse di dar menzione e conoscenza di tutti i
libri stampati in lingua volgare. Nell’Umanesimo di solito liste del genere sono sbilanciate verso il latino,
compare il forte interesse per il VOLGARE. Nel Cinquecento assistiamo all’esclusione programmatica del
GIUDIZIO DI VALORE, “non per dar giudizio così delle buone come delle cattive”. Si comincia la RICERCA DI
UN METODO CRITICO il più scientifico possibile, ben lontano dal personale, il più formale possibile. È
interessante vedere come in realtà il giudizio personale penetri delle opere. Il suo intento è quello di dar
cognizione di tutto ciò che è stato prodotto; il giudizio di valore porta nemici (“non voglio farmi nimico
nessuno”), ai tempi è molto pericoloso, ci si espone a rischi e repliche. La critica diventa terreno di guerra
vero e proprio (Croce si scaglia contro Carducci). Il lettore ha una propria coscienza, che vale da guida -
“Ben sanno, coloro che leggono, darne il lor parere”. Può discernere dalle opere valide e da quelle meno
valide: l’idea di critico è quella di dare la propria posizione al lettore, dare a lui la possibilità di discernere
attraverso la messa a disposizione della sua cultura. Abbiamo uno slittamento effettivo delle funzioni della
critica, si dà al lettore stesso dell’opera la possibilità di giudizio. [La critica è ancora traballante, ne
parleranno ancora però in tanti, in quanto OPERA BIBLIOGRAFICA, che ancora una volta attesta alla
fortuna, come giudizio implicito che attesta alla fortuna dell’opera. (??)]
Pietro BEMBO (1470-1547). Pietro Bembo, “Prose della volgar lingua” (1525).
“Prose della volgar lingua” - opera militante, ha al suo interno semi e germi fondanti nel proseguo della
“Storia della letteratura”. È un trattato sottoforma di dialogo, incentrato sul voler individuare modelli di
riferimento, solo che Bembo al contrario di Dante ha molte più possibilità. Arriva a tracciare una linea per la
letteratura italiana, che segna come modello di riferimento per la poesia Petrarca, per la prosa Boccaccio.
Questo è un riconoscimento, un esprimere un giudizio di valore, decreta la fortuna e la sfortuna degli
autori. Dante da questo momento entrerà in un cono d’ombra fino al Romanticismo. Il criterio di inclusione
dell’opera è diverso, gli autori non sono inclusi per la loro importanza poetica o per l’espressione dell’io, ma
per la loro ESPRESSIVITÀ LINGUISTICA, per uniformare la lingua italiana - finalità di vaglio linguistico. Si è
quindi lontani dal fine storiografico, si usa la storia letteraria come mezzo per la maggior comprensione
della lingua, per tracciare l’evoluzione del modello letterario italiano - storia letteraria come mezzo di
conoscenza linguistica. Si forma un canone stabile per almeno tre secoli.
Analisi differenze con il 1500. Il 1600 è un secolo di svolta, per la critica e per la storia delle storie della
letteratura italiana. L’idea del secolo precedente è quella di mantenere viva la tradizione letteraria, di
rivitalizzarla e proiettarla nel futuro. Non vi è fine storiografico, ma tentativi aurorali di tratteggiare la
Storia, con diversi fini - illustrazione sommaria dello svolgimento. Avevamo la pubblicazione di opere di
raccordo tra i manoscritti, le stampe e il lettore, per un proprio giudizio critico. Ritorna la proliferazione
delle edizioni dei testi volgari: gli incunaboli del Quattrocento erano in latino, nel Cinquecento assistiamo a
un recupero, per cui il volgare sta vincendo sul latino come lingua di comunicazione diretta e letteraria -
proliferazione e diffusione delle edizioni dei testi volgari → problemi di critica testuale e interpretativa.
Abbiamo dei tentativi di formalizzare/sistematizzare le tendenze letterarie, per pilotare la produzione
volgare. Scindere la critica letteraria dalla trattatistica rimane ancora difficoltoso, si tenta l’orientamento di
tendenze e produzioni.
Nasce da una delle famiglie più ricche del periodo, già a 9 anni inizia il suo apprendistato allo studio della
legge (“enfant prodigìe”); è subito avviato a una carriera legale, distante dalla vocazione letteraria. A un
certo punto si stufa delle imposizioni, e nel 1679 decide di recarsi a Roma e di darsi alla letteratura.
Ne parliamo perché nel 1698 egli scrisse un’opera, “Istoria della volgar poesia” (opera anfibia: stampo
Illuminista con tentativo di catalogazione organica, ma sappiamo che ci sono anche le istanze erudite del
Seicento). Non si tratta di storia della letteratura, ma il suo criterio di inclusione è la poesia in lingua
italiana (impoverimento effettivo, manca tutta la produzione latina), si riconoscono gli scrittori che abbiano
utilizzato come unica lingua il volgare. Si ha un parziale superamento del biografismo, a favore della
presentazione dei testi.
Si indaga solo il genere della poesia, è molto settoriale (produzione di versi in lingua volgare). [Abbiamo poi
“La bellezza della volgar poesia” che tenta di ampliare il novero dell’opera principale. La prima parte è
dedicata alla ‘storia della volgar poesia’ (50 componimenti antichi), la seconda ai rimatori contemporanei
(150 componimenti). L’opera di per sé è molto incentrata sul contemporaneo, deve avvalorare la sua linea
di pensiero, deve sfruttare gli autori antichi e quelli contemporanei (modello arcadico). È un’opera di critica
STORICA, ma soprattutto CONTEMPORANEA della poesia. Non abbiamo una storia cronologica, non è
questo il suo obiettivo (presenza predominane di autori contemporanei), lui vuole ORIENTARE IL GUSTO
MODERNO, è un’attenzione più che altro formale, si concentra non sulle tematiche ma sulle opzioni
retoriche e sulle forme metriche. C’è il tentativo di canonizzare le forme metriche per eccellenza.] (??)
Rimane l’interesse critico, a cui si affianca una nuova istanza, l’ATTENZIONE ALLA STORIA DELLA
LETTERATURA PER SCUOLE E MANIERE DI STILE (universo macrocosmico). Si parla per la prima volta in
maniera palese di PETRARCHISMO, grazie all’imitazione di un solo modello.
Critica del 1600. Si assiste alla CRITICA MILITANTE - propagazione di un determinato genere di letteratura.
1600.
È un ambito letterario misconosciuto della tradizione letteraria. È stato un secolo tra i più ricchi, e il
rivalutatore più importante è Benedetto CROCE. È un periodo di decadenza sociale e politica: l’Italia è
sottoposta ai regimi politici stranieri, tra cui quello Spagnolo, e si vedono gli effetti della Controriforma -
rigido controllo della vita sociale e letteraria italiana. Si ha un problema di fruizione, continuano le tendenze
di espansione di massa, il gusto dei lettori è diversificato. I lettori non sono più confinati nelle raffinate corti,
ma sono di estrazione sociale e culturale assai varia. D’altro canto vi è qualcosa di importante, il TRIONFO
DEL FORMALISMO - i concetti sono sottostanti alle istanze espressive (es. “Adone”) -> il concetto viene
subordinato alla forma. Si presta più attenzione alla forma espressiva - si fa attenzione al modello linguistico
e ai classici; nel Seicento abbiamo sia un grande SPERIMENTALISMO, sia una grande attenzione
all’ADERENZA AI CLASSICI. Il Seicento è anche il TRIONFO DELLE ACCADEMIE, come quelle degli Ardenti:
sono modi di raggruppare ceti sociali alti che vogliono concentrarsi ed educarsi a vicenda. La nascita delle
accademie è un fattore importantissimo: ci sono accademie dedicate alla Storia della lingua italiana, come
quella della Crusca, ma grossa parte erano accademie poetiche come luogo sicuro dove esporre le proprie
poesie, un modello di confronto. Le principali sono quella del 1685, la Crusca, poi nel 1690 l’Accademia
dell’Arcadia, accademia per eccellenza.
La critica nel 1600 va vista con un presupposto, lo sviluppo dell’ERUDIZIONE in Italia - le personalità della
cultura iniziano ad interessarsi di problemi particolari, insieme alla volontà di riscoprire la storia vera e
propria dei fenomeni (vicinanza a Illuminismo, esplorazione bagaglio culturale civiltà). La nascita della cosa
è visibile nel 1600, con l’interesse dei singoli a diverse categorie, accompagnata ad un’ulteriore necessità di
raccordo e di divulgazione dei materiali. La tendenza è viva anche all’estero. Nel 1618 i Benedettini si
interrogano sulla loro funzione, e in Francia nasce il movimento dei MAURINI, costola che si appoggia
completamente alla trasmissione del sapere letterario e della cultura. Concentrano la loro azione terrena
sulla scoperta teologica della storia, ambito ideologico che porta alla nascita di un’erudizione sacra.
Si passa da bibliografie generali e spesso fallaci a monumentali strumenti di studio, spesso in settanta
volumi come quella di Muratori - si cerca di attestare qualsiasi parola con una documentazione, e
soprattutto vi è un rimando ad altre opere -> bibliografia sterminata (verificabile) agli studiosi. Ci si inizia
inoltre ad interrogare su questioni diverse, come lo schedare un’opera anonima di difficile comprensione
(nascita paleografia). Vi sono opere di raccordo, come quella di Leone Allacci, “Drammaturgia”, riguardo la
produzione tragica italiana, o quella di Marucelli, “Mare magnum”.
Nel 1600 si instaura una grande CURIOSITÀ - insieme di stimoli culturali differenti, che portano a
compilazioni di ogni genere e su ogni branca dello scibile - verso diversi temi, da cui nascono ancora opere
che trattano determinati argomenti, compaiono centri focali. Importante il secolo del Barocco, la cui ricerca
si tramuta in una mania di COLLEZIONISMO, e questa cosa è ben visibile anche nella letteratura, si
producono grandi innovazioni che vengono anche studiate a livello critico - scaturisce il gusto per
l’esplorazione e le novità, e la sovrabbondanza di fonti -> volontà di affermazione di un primato. Si ha anche
la PARCELLIZZAZIONE degli studi: abbiamo opere specifiche su determinati ambiti di studio ->
settorializzazione della ricerca + definizione degli interessi delle singole materie.
Curiosità: insieme di stimoli culturali differenti, che portano a compilazioni di ogni genere e su ogni
branca dello scibile.
Amore barocco per il collezionismo:
Gusto per l'esplorazione e le novità;
Sovrabbondanza di fonti;
Volontà di affermazione di un primato.
Portano: settorializzazione della ricerca, e definizione degli interessi delle singole materie.
Nasce con lui l’“Idea della storia dell’Italia letterata” (Napoli, 1723).
Titolo completo: “Idea della storia dell'Italia letterata esposta coll'ordine cronologico dal suo principio fino
all'ultimo secolo, colla notizia delle storie particolari di ciascheduna scienza e delle arti nobili: di molte
invenzioni: degli scrittori più celebri e de' loro libri: e di alcune memorie della storia civile e dell'ecclesiastica:
delle religioni, delle accademie e delle controversie in vari tempi accadute: e colla difesa delle censure con
cui oscurarla hanno alcuni stranieri creduto.”
La sua importanza sta innanzitutto nella necessità di un’opera di Storia della letteratura che rispetti l’ordine
cronologico, piuttosto che quello per scuole. Si cerca di seguire l’ordine cronologico, il più coerentemente
possibile. È chiaro anche il fatto che non si ha ancora una catalogazione chiara dell’idea di letteratura (“le
storie particolari di ciascheduna scienza e delle arti nobili”): si tratta di scienze che avevano avuto
attestazioni scritte, ma non si parla di letteratura, si tentava comunque di sistematizzarle. Per la prima volta
assistiamo all’accesso del calcolo e dello studio della STORIA CIVILE, che mette in opera per la prima volta
Gimma, che correla la storia degli stati con la produzione letteraria (prima volta! Fatto delirante, si tentava
di studiare la produzione letteraria scissa dalla componente storica). Si tenta di accomunare i due
fenomeni, andando a sfatare questa produzione letteraria scissa dalla storia: l’Italia ha avuto una
letteratura molto ampia, che era dovuta al non avere una produzione locale. Compaiono le prime cesure,
accuse, e in questo periodo ci sono le prime rivendicazioni forti, per rimettere l’Italia al centro culturale e
letterario europeo.
Girolamo TIRABOSCHI (Bergamo, 1731-Modena, 1794). Emblema dell’erudizione settecentesca, con lui si
arriva all’apogeo. Sarà bibliotecario degli Estensi a Modena, e con la sua applicazione all’erudizione nasce
l’opera letteraria centrale nella storiografia letteraria dei tempi. Entra nella “Compagnia del Gesù”, che si
vota alla vocazione dei fanciulli. È insegnate di retorica all’inizio, poi diventa direttore della Biblioteca
Estense. La sua opera s’intitola “Storia della Letteratura Italiana”, il cui ambito di interesse sembra ben
determinato, evitando distinzioni linguistiche e retoriche. Questo modello, nell’ampliare il discorso,
diventerà un vero e proprio problema, punto di attacco per i suoi detrattori futuri. La prima edizione è del
1772-1774 con 13 volumi, poi la seconda edizione 1787-1794 con 15 volumi e uno di indici. L’estensione
dell’indagine si estende per tutto il territorio italiano, superano il regionalismo e cercando un file rouge in
tutta Italia - vuole superare lo schema del biografismo. Con Crescimbeni vediamo il formarsi di un interesse
retorico, ma ancora vi è il tentativo di inquadrare la letteratura in base alle persone. Lui dice di voler
scrivere la Storia della letteratura, e non quella dei letterati. Ma non vi riuscirà, e ricadrà nello stesso
problema. C’è un impegno programmatico nel tentativo di superare la FORMA DELLE BIBLIOTECHE: vuole
scrivere un’opera organica a tutti gli effetti, non scrivendo una bibliografia, ma appunto un’opera organica.
Seconda edizione delal “Storia della Letteratura Italiana” (15 volumi; il tomo è un raggruppamento
comodo).
- Tomo 1° - Ci fa comprendere che l’idea che Tiraboschi aveva della letteratura comprendesse tutte
le espressioni che, a livello geografico, si sono avvicendate in territorio italiano (dato linguistico su
base territoriale, fine del regionalismo).
4° Lezione del corso di “Critica Letteraria Italiana” – “La critica nel Settecento”.
Audio lezione di circa 30 minuti, che equivarranno a circa 2 ore di corso effettivo in presenza + slides in
formato pdf stampabile + file in formato pdf contenente i testi che sono abbinati alla lezione ascoltata (+
eventuali materiali aggiuntivi, che potranno aiutare nella memorizzazione dei concetti).
lorenzo.abbate@unimc.it
Saggio di Felicita Audisio procurato dal prof. stesso, che provvederà a caricarlo tra i materiali online.
1700.
La critica nel Settecento vede un periodo di particolare fioritura: durante questo secolo estende i suoi
confini e orizzonti geografici, il dibattito sulla letteratura si arricchisce di numerose esperienze provenienti
non solo dal panorama italiano ma anche da tutto il resto d’Europa. Vi è tutta una tradizione locale, ma in
questo periodo particolare le varie tendenze nazionali entrano in contatto, e in Italia subiamo l’influsso
benefico del discorso sulla critica letteraria, o comunque sulla valutazione dei testi, che si svolge in
INGHILTERRA e in GERMANIA (anche in FRANCIA, ma in maniera un po’ più minoritaria). Effettivamente
l’Inghilterra la giocherà da padrone, in quanto è questo lo stato in cui assistiamo alla nascita vera e propria
del GIORNALISMO: nel Settecento nascono un serie di giornali che effettivamente aprono una nuova via di
comunicazione circa la letteratura. Lo stesso avviene in Germania, con uno sviluppo della critica molto
ampio, soprattutto riguardo la TEORIZZAZIONE ESTETICA. Uno dei principali autori di questa stagione di
critica, in particolare critica d’arte ma che ha le sue influenze sulla letteratura, è Johann Joachim
WINCKELMANN, che conosciamo come fondatore del Neoclassicismo a livello artistico, ma le sue
teorizzazioni estetiche riguardo marmi e opere d’arte avranno un loro riverbero chiarissimo sulla
produzione letteraria. Per quanto riguarda tutti questi nuovi stili e modelli, iniziamo una breve panoramica.
Durante il Settecento la critica letteraria estende i suoi orizzonti geografici, nel senso che si apre a
molteplici esperienze ed esperienze critiche prodotte da diverse nazioni:
Inghilterra (ispiratrice principale rispetto all’ambito del giornalismo letterario);
Germania (ispiratrice principale per quanto riguarda le teorizzazioni estetiche).
Ci sono alcuni autori la cui importanza è predominante: in area inglese possiamo ricordare Anthony Ashley
Cooper, conte di SHAFTESBURY (1671-1713), nobile inglese che citeremo solo brevemente perché il suo
pensiero si è concentrato solo su certi aspetti della produzione artistica ed estetica. Da notare l’importanza
della sua teorizzazione sul concetto di “IMMAGINAZIONE” (anche in campo letterario): parlarne in questo
periodo è quasi un portarsi avanti, pensando a ciò che sarà successivamente con la critica Romantica, dove
l’immaginazione del singolo diverrà parte integrante sia della creazione dell’opera d’arte - verrà intesa
come frutto dell’immaginazione del poeta e dell’artista - ma in questo caso soprattutto come punto
centrale anche nell’interpretazione dei testi, perché anche il lettore avrà una propria immaginazione e
riuscirà a riscontrare nei testi letterari dati argomenti - grazie alla propria immaginazione tutto ciò sarà
singolare.
Nuovi stimoli e nuovi modelli (2) - AREA FRANCESE.
In area francese dobbiamo citare un critico letterario attivo nella prima metà del Settecento, Jean-Baptiste
DU BOS (1670-1742), che si occupò sia di filosofia sia di storia. Particolarmente importante in questo
ambito sono le sue “Réflexions critiques sur la poésie et la peinture”. In questo scritto, in particolare, Du Bos
teorizza l’importanza del “SENTIMENTO”: secondo il critico il sentimento è alla base di ogni creazione
artistica, che sia essa arte classica o poesia. L’idea del sentimento è antitetica, o comunque distante
dall’idea dell’arte regolata da schemi accademici molto rigidi. Il concetto del sentimento rimane attivo
anche nel contesto di fruizione delle opere: il lettore, grazie al sentimento - o meglio, al suo personale
sentire -, è capace di entrare effettivamente “in contatto” con un’opera d’arte, e di conseguenza più o
meno apprezzarla.
Passando ora all’area tedesca, va certamente ricordato il già citato Johann Joachim Winckelmann (1717-
1768). Winckelmann è una personalità particolarmente importante per l’arte, sia essa plastica ma anche
per la letteratura. Conosciamo tutti lo sviluppo europeo del Neoclassicismo, a livello artistico molto in
generale (Antonio Canova, Bertel Thorvaldsen), a livello letterario ci sono Vincenzo Monti, e in moltissime
opere anche Ugo Foscolo. Winckelmann è principalmente uno storico dell’arte e anche un teorico che si
interessa ai principi del “BELLO”, principi generali per riuscire a definire cos’è la bellezza e quale sia il
modello di bellezza da perseguire - il tutto principalmente basato sul concetto di armonia. Ovviamente è
particolarmente importante nel suo pensiero il concetto di IMITAZIONE: il Neoclassicismo pretendeva di
mutuare alcune forme artistiche e alcuni canoni estetici direttamente dagli originali greci, siano essi statuari
e letterari - imitazione di forme “classiche”, o comunque antiche. E questo concetto di imitazione e di
rapporto da intrattenere tra uno scrittore, o comunque un artista, e un’opera d’arte precedente, sarà un
tema particolarmente importante per tutto il Settecento. Rimanendo in area tedesca va citato anche
Gotthold Ephraim LESSING (1729-1781), anche se molto brevemente in quanto la sua speculazione
riguardo l’arte e riguardo alla scrittura è particolarmente notevole per un concetto. Per adesso quasi tutti i
critici si sono interrogati su che cosa sia il bello, su che cosa sia un’opera d’arte: Lessing è il primo, o
effettivamente uno dei primi, che si interroga sullo statuto del BRUTTO, e ne rivendicherà anche
assolutamente il ruolo - quello della bruttezza - all’interno del panorama artistico. Ma si interrogherà anche
sul principio dell’imitazione e dell’immaginazione, due concetti contrapposti, schierandosi a favore
dell’immaginazione e contro quindi la riproposizione statica di modelli antichi.
Per quanto riguarda i nuovi stimoli e modelli (slide 8) abbiamo già accennato quanto il concetto
dell’IMITAZIONE sarà assolutamente centrale nel dibattito critico del Settecento. Ci si inizia a chiedere
quale sia il modo di porsi rispetto ai modelli precedenti, e quale sia il modo di sfruttarli coerentemente. Ci si
inizia a interrogare sul fatto se l’arte debba essere semplicemente imitazione, o al contrario debba essere
invenzione; per trovare una linea di comodo tra le due tendenze - tra l’innovazione più totale e la
conoscenza del passato e il rispetto delle regole del passato - ci sarà bisogno di molto tempo, è uno scontro
che si protrarrà anche per tutto l’Ottocento.
Come evidente da quanto fin qui riportato, nel dibattito critico del Settecento si impone la
centralità del tema del ruolo dei classici e conseguentemente anche del concetto di imitazione.
Allo stesso modo si afferma anche l’idea dell’importanza della conoscenza diretta dei classici (di
ogni nazione, ma soprattutto dei classici antichi), evitando quindi le mediazioni (ad es. le traduzioni)
e le idee preconcette.
Altra cosa importante in questo periodo è una tendenza di derivazione chiaramente Illuminista che vuole
appunto dare un’importanza predominante non tanto all’idea di antichità quanto veramente alla
conoscenza diretta dei classici. Non è una cosa scontata: molto spesso per tutti i secoli precedenti ci si
affidava a idee preconcette, o a idee già particolarmente radicate per le quali alcuni poeti erano i
continuatori di una determinata tradizione, o un poeta corrispondeva a una data e ben determinata
teorizzazione estetica. Nel Settecento ci si inizia a interrogare in maniera costante sulla verità dei dati che
abbiamo sempre avuto: in particolar modo riguardo alla conoscenza diretta dei classici vedremo un caso
molto interessante, nel quale uno scrittore italiano come Giuseppe Parini si interroga effettivamente sul
ruolo di un poeta italiano, Gabriello Chiabrera. Gabriello Chiabrera (1552-1638) è un poeta vissuto a cavallo
tra il Cinquecento e il Seicento che ha goduto per tutto il Settecento e per tutto l’Ottocento di una fama
enorme. Al giorno d’oggi è piuttosto poco frequentato, ma all’epoca venne visto come incarnazione della
grecità all’interno della poesia italiana. A questo punto mette conto sottolineare come rispetto proprio a
questo testo di Parini, tratto da “I principi delle belle lettere” (testo 1 - piccolo estratto di spiegazione
dell’atteggiamento di Parini rispetto al giudizio dell’autorità di Chiabrera, soprattutto in confronto ai suoi
modelli greci, Pindaro e Anacreonte).
Vi è quindi NECESSITÀ DI VERIFICA, verifica delle nozioni e anche delle idee altrui. Questa necessità, di
chiara derivazione Illuministica, si traduce anche in un qualcosa di assolutamente tipico del Settecento, lo
SVILUPPO DELLA POLEMICA. La polemica è un metodo, una tendenza a un confronto molto serrato e
diretto tra due addetti alla materia su argomenti che potevano essere interessanti per entrambi. Si inizia a
sviluppare questa tendenza alla polemica, alla critica effettiva, al criticare e al giudicare le idee altrui.
Questa nascita della critica, della polemica, la vediamo in concomitanza con la nascita e l’affermazione delle
PUBBLICAZIONI PERIODICHE. La pubblicazione periodica non è altro che un giornale: nel Settecento, come
anche adesso, esistevano delle riviste tematiche - ad esempio di argomento letterario -, sulle quali a inizio
del Settecento e soprattutto in area inglese diversi critici letterari o comunque appassionati di letteratura
proponevano le proprie idee, ma anche anticipazioni di proprie opere, come potevano essere capitoli di
libri o delle poesie stampate in anteprima. Ma iniziano anche a essere pubblicate sui giornali delle
RECENSIONI: una persona riusciva ad avere un libro, e decideva di dirne la propria opinione a tutta una
pluralità di soggetti che leggeva questa rivista. Questo diventerà un campo fondamentale per la critica, sia
a livello di confronto tra critici su idee di come interpretare un testo, e quindi a LIVELLO POLEMICO, sia
soprattutto come banco di prova vero e proprio per i critici letterari, per dare un proprio giudizio su
un’opera letteraria e soprattutto per orientare il gusto dei lettori. Se nella fattispecie un’opera veniva
stroncata su una rivista, il gusto e le preferenze di lettura dei diversi fruitori della rivista sarebbero stati in
qualche modo orientati. Questa scrittura delle recensioni è una delle funzioni fondamentali della critica,
soprattutto della critica militante - critica che ha degli interessi ben precisi nella modernità e nella
contemporaneità. È una forma tuttora florida e vivente, che ha un’utilità assolutamente non secondaria:
permette al critico sia di tenere sotto controllo la produzione contemporanea, sia gli consente di arrivare a
raggiungere quello che è uno degli obiettivi principali della critica, ovvero l’avere una condivisione delle
proprie idee.
Si affermano quindi:
La necessità di verifica delle nozioni e delle idee altrui (in piena continuità con le istanze
dell’illuminismo).
Ciò porta a:
Sviluppo della “polemica”, ovvero di un confronto serrato e diretto tra gli addetti alla materia su
temi di comune interesse.
Il confronto polemico viene a svolgersi principalmente su giornali, fogli letterari e più in generale su
pubblicazioni periodiche.
Questa tendenza della “polemica” sulle pubblicazioni periodiche dipende soprattutto da:
Proliferazione della stampa periodica e sua diffusione sui territori nazionali e sovranazionali.
Economicità e convenienza del mezzo periodico rispetto alle normali pubblicazioni in volume.
Una convenienza che si manifesta sia per i lettori (il costo dei giornali era minimo) ma anche per gli
scrittori e giornalisti (che spesso venivano remunerati -> nascita del mestiere del giornalista).
Velocità di comunicazione e capacità di diffusione del messaggio.
Velocità: la stampa periodica aveva delle uscite fisse (quotidiano, quindicinale, mensile etc.) e si
basava su redazioni che curavano la pubblicazione, liberando da questa incombenza l’autore.
Riguardo appunto alla nascita del giornalismo, soprattutto il giornalismo letterario, vanno ricordati alcuni
casi particolarmente importanti soprattutto nell’ottica di ciò che vedremo nelle prossime lezioni riguardo
Giuseppe Baretti. Baretti avrà una sua grossissima esperienza del giornalismo, e quindi un’esperienza
diretta riguardo quello che era il mondo dei quotidiani o comunque dei giornali proprio in Inghilterra. È un
letterato che girerà tutta Europa, e grazie a questa sua esperienza fuori dall’Italia cercherà di portare un po’
di modernità in Italia, e vedremo con quali risultati.
In Inghilterra vengono fondati alcuni giornali di fondamentale importanza in questo periodo, ad esempio
Richard STEELE fonda il giornale “The Tatler”, che rimarrà attivo dal 1709 fino al 1711; “the tatler” significa
“il chiacchierone”, ed è una pubblicazione periodica mensile. Già il titolo, molto leggero e in parte irridente,
ci consente di capire come molto spesso il giornalismo letterario avrà proprio questo atteggiamento di
puntura verso quelli che sono gli autori contemporanei, cercando di ‘criticarli’ in qualche modo - nel senso
di giudicarli, ma anche veramente di attaccarli in alcune occasioni. Allo stesso modo Joseph ADDISON -
siamo nell’ambito di Baretti - pubblicherà “The Spectator”. Questa rivista, che rimarrà attiva per poco
tempo (1711-1712), aveva un ritmo di stampa molto serrato, era appunto un quotidiano. Questo titolo fa
venire in mente qualcosa di molto più vicino a noi nella letteratura: Leopardi pubblicò le sue prime
composizioni proprio su “Lo Spettatore” italiano, una rivista letteraria nata a Milano a inizio Ottocento e
che avrà una sua ottima diffusione in Italia, e ricalcava il titolo di questo quotidiano inglese particolarmente
noto.
– Richard Steele
Per quanto riguarda l’affermazione della stampa periodica, abbiamo numerose conseguenze dalla nascita
dei giornali. Ad esempio, l’ampliamento del pubblico dei lettori, con donne e borghesia. Questa è sia una
causa sia un effetto del giornalismo, perché ovviamente avere a disposizione la possibilità di comprare con
pochi soldi un foglio letterario che intrattenga anche - non c’erano soltanto articoli di recensione o di
pubblicazione di poesie, ma vi erano anche articoli di politica, di informazione - era un qualcosa di molto
simile ai nostri quotidiani, con una componente di letteraria un po’ maggiore. E soprattutto poterlo
compare con pochi soldi permetteva a una fascia di lettori, magari borghesi, di avvicinarsi, di leggere con
più frequenza. Ma questa è anche un’effettiva motivazione della nascita dei giornali, proprio perché nel
Settecento assistiamo all’ampliamento dei ceti in grado di leggere; se nel Cinquecento e nel Seicento la
lettura era ancora qualcosa di sostanzialmente elitario, nel Settecento la borghesia si è già completamente
appropriata di questo strumento, e la rivendica a proprio uso e consumo. Quello che mette conto notare
è anche che finalmente le donne iniziano ad avere un ruolo predominante all’interno della stampa, e
quindi della cultura, sia come scrittrici, sia soprattutto come fruitrici, rivendicano un tipo di letteratura
consono ai propri desideri, ai propri obiettivi, alle proprie aspettative. Vi è anche la nascita di giornali e
quotidiani orientati al gusto femminile, e quindi atti a orientare anche il gusto femminile. Vi è anche la
nascita e la forte affermazione della funzione della critica come guida per il lettore: la critica letteraria
dovrà aiutare il lettore a discernere quelle che sono le opere meritevoli di lettura da quelle che sono
immeritevoli. Inoltre la nascita dei giornali, ma più in generale il panorama critico del Settecento, è
particolarmente interessante anche perché quello che abbiamo visto nei secoli precedenti rispetto alla
critica letteraria, ovvero la fusione in un unico nucleo di quello che è l’autore, il critico, il teorico della
letteratura, in questo caso vede la più netta scissione. L’autore farà molto più spesso l’autore che il critico,
il critico sarà appunto una guida per il lettore, e il teorico perseguirà le proprie strade con i propri trattati e
le proprie opere di ambito più generale e filosofico, quindi effettivamente meno fruite da tutto il pubblico.
Per quanto riguarda l’Italia, questa presenta una situazione che analizzeremo meglio nelle prossime lezioni.
Anche in Italia vi è il sorgere di numerose riviste di ambito letterario, ad esempio “L’Europa letteraria” di
Domenico CAMINER, e le “Memorie enciclopediche” di Giovanni RISTORI e Marco Giuseppe
COMPAGNONI. Ad esempio, avremo un giornale in qualche modo ‘luminoso’, come la “Frusta letteraria” di
Giuseppe BARETTI, ma vi saranno anche altri tentativi di giornalismo molto ben riusciti.
Conclusioni.
Con la nascita e l‘affermazione delle pubblicazioni letterarie, assistiamo a un fenomeno molto interessante:
l’autore si confronta sempre di più con il proprio pubblico, con il giudizio del pubblico, e questo perché il
pubblico effettivamente inizia ad essere il nuovo e fondamentale legislatore dell’opera. Se un’opera veniva
ben accolta dal pubblico e di conseguenza anche venduta, significava in buona sostanza che l’autore aveva
centrato il proprio obiettivo, e raggiunto anche la fama. Questo dato non è affatto inutile, proprio perché i
giornali letterari iniziano ad ospitare diverse tipologie di scritti: vi potevano essere delle recensioni, delle
discussioni, fino anche alla pubblicazione di testi poetici e di traduzioni. Successivamente compaiono i
feuilleton come appendice ai giornali, per cui un romanzo veniva scorporato in più parti e pubblicato sui
giornali. Molto spesso si trattava di opere di grandissimi autori, ricompensati lautamente dai giornali,
perché facevano aumentare le vendite di giornali. Fidelizzavano anche i lettori, perché una volta che si
voleva leggere un romanzo a puntate, si voleva anche finirlo. L’autore letterario arriva a confrontarsi
sempre meno con quelle che sono le auctoritates libresche o accademiche: dato che si cerca di rispondere
sempre più all’approvazione del pubblico, si è sempre meno propensi a sottostare a quelle che erano le
regole dei trattatisti, a quelle che sono le regole della tradizione, e più propensi a cercare una via che possa
portare alla fama e al guadagno - effettivamente invita quindi al confronto continuo con il lettore.
“feuilleton” - giornali di appendice pubblicati nella Francia della seconda metà dell’Ottocento.
La nascita e l’affermazione delle pubblicazioni letterarie porta alla nascita di un fenomeno interessante:
L’autore si confronta sempre di più con il giudizio del pubblico (il vero e nuovo legislatore del
gusto).
Infatti i giornali letterari ospitano diverse tipologie di scritti, dalle recensioni alle discussioni, fino alla
pubblicazione di componimenti poetici o di traduzioni.
L’autore si confronta sempre meno con le auctoritates libresche o accademiche, a anzi, si inizia a
sviluppare un’insofferenza alle norme e alle regole propagate dai trattati e da opere di
speculazione.
Vi invito a leggere i due testi che compongono il file pdf relativo alla nostra quarta lezione: il primo testo è
un testo di Parini relativo a questo poeta, Gabriello Chiabrera; il secondo è un testo di un critico
contemporaneo, morto nel 2002, che tratta e fa un beve affresco della fortuna di questo poeta
misconosciuto, che era Chiabrera, nel Settecento e nell’Ottocento. Vi farà capire soprattutto quanto la fama
contemporanea non corrisponde minimamente a quella che è stata la fama storica, e spesso autori oggi
completamente sconosciuti durante la loro vita o anche nei secoli a seguire hanno riscosso un successo
enorme. Noi studiando la critica letteraria dobbiamo interrogarci anche su questo, su quale sia il ruolo
della critica rispetto a giudizio di autori del genere, dove abbiamo in questo caso un autore non moltissimo
conosciuto che però è stato fondamentale per le generazioni passate. Come andrà giudicato?
Girolamo Tiraboschi nasce a Bergamo nel 1731 e morirà a Modena nel 1794. La sua esistenza copre una
buona fetta del Settecento, e la sua figura, che è quella propria di un erudito del Settecento, rispecchia in
sé tutti quelli che sono i canoni e le tendenze culturali del suo periodo, con uno spiccato ambito di interesse
di tipo Illuministico. La sua formazione avviene nell’orbita di quella che è la Compagnia del Gesù - si forma
appunto con i gesuiti e continua la sua carriera proprio all’interno di questo ordine, fino ad arrivare in
giovanissima età a diventare un insegnante di retorica a Milano, dove parallelamente all’insegnamento
lavora anche alla Biblioteca di Brera. Sin da questo momento vede quella che è la sua vera e propria
vocazione, ovvero quella di sfruttare al meglio le biblioteche e vivere serenamente al loro interno. Le sue
prime pubblicazioni non lascerebbero presagire quella che è la sua vera e propria anima di storiografo,
infatti si dedica - come quasi tutti all’interno dell’ambito gesuita, ma proprio all’interno della vita culturale
del Settecento - ad opere di vera e propria ERUDIZIONE. Ripubblica un vocabolario latino, quello del
Mandosio (1770), e pubblica vari testi curandone le edizioni. La vera e propria svolta della sua vita si ha
quando Francesco III d’Este, il duca di Modena, lo richiama effettivamente nella città di Modena e gli affida
la direzione della Biblioteca Estense, proprio sulla base di quella che era stata la sua esperienza nella
Biblioteca di Brera. C’è da notare in questo che va a succedere, nella carica di bibliotecario, un personaggio
assolutamente non incognito, anzi di grande importanza: LUDOVICO ANTONIO MURATORI.
A 15 anni entra nella Compagnia del Gesù, e continua gli studi a Monza e Genova.
Insegna retorica a Milano e lavora al riordino della biblioteca di Brera.
Prime pubblicazioni: revisione del vocabolario latino di Mandosio (1770).
Francesco III d'Este (Duca di Modena) lo chiama alla direzione della Biblioteca Estense (predec.
Muratori).
Muratori fu uno storico e un erudito di grandissima fama, e di fatti questo accostamento tra Muratori e
Tiraboschi viene ripresentato da molti. Quello che Muratori ha fatto per la storia d’Italia e
l’approfondimento storico, Tiraboschi lo farà, o comunque lo ha fatto, per quanto riguarda
l’approfondimento della storia culturale e della storia della letteratura italiana. Sono due figure speculari e
molto simili effettivamente.
Si tratta di un’opera enorme. La prima edizione, che viene pubblicata in dieci anni - tra il 1772 e il 1782 -
consta di nove tomi ed è quindi divisa in quattordici volumi.
“tomo” -> divisione diversa da quella dei volumi, anche tre volumi potevano formare un unico
tomo di un’opera. Si tratta di una divisione interna più ampia di quelli che sono gli spazi concessi da
un solo volume.
Nella seconda edizione (1787-1794), pubblicata sempre in vita, l’opera crescerà di un volume, a cui si
aggiungerà anche un volume di indici. Le differenze tra le due edizioni non sono in realtà particolarmente
grandi, proprio perché la seconda edizione si distingue soprattutto per delle correzioni che vengono
apposte all’opera e per delle piccole aggiunte. Quello della “Storia della Letteratura Italiana” è un work in
progress per Tiraboschi: la prima edizione viene infatti pubblicata in circa dieci anni, e questo significa
grosso modo pubblicare un tomo all’anno, quindi una parte all’anno di quest’opera. È un lavoro enorme per
Tiraboschi, che copre un decennio di studi, e che lo occuperà per tutta la parte terminante della sua vita.
Prima ed. -> 1772-1782
(9 tomi in 14 volumi).
Seconda ed. -> 1787-1794
(15 volumi + 1 di indici).
Premesse storiografiche.
Quali sono le premesse storiografiche a quest’opera? Innanzitutto bisogna fare costante riferimento alla
PREFAZIONE di quest’opera (testo 1): è possibile infatti comprendere molto bene qual era lo spirito,
l’ispirazione alla scrittura di quest’opera. Che cosa mette in atto Tiraboschi? Un’estensione molto ampia
sull’indagine della storia della letteratura, e intendiamo nel suo caso come ‘storia della cultura’, a tutto il
territorio italiano. Tiraboschi lo sottolinea in maniera molto chiara: esistevano al momento in cui lui si
accinge a quest’opera delle ben precise indagini sui vari territori dell’Italia - ad esempio lui cita un caso
molto importante di ricostruzione della storia letteraria di Venezia. Vi erano quindi delle singole indagini su
singoli luoghi e su singole parti d’Italia, ma non vi era un’opera di raccordo: abbiamo visto che già vi erano
delle opere di storia della letteratura, ma queste opere non erano assolutamente utili effettivamente, e
decisamente non erano degne di questo grandissimo compito di ripercorrere la storia della letteratura
italiana. Abbiamo visto quali erano i problemi di Giovanni Mario Crescimbeni e della sua opera, ma anche
quelli di Giacinto Gimma. Appunto Tiraboschi si propone di colmare le lacune e di fornire un’opera che, in
generale, riesca a ripercorrere l’evoluzione della storia culturale dell’Italia.
Inoltre Tiraboschi si propone anche di riuscire a superare quello che era un problema che si era già palesato
con Crescimbeni in maniera molto chiara, ovvero superare l’interesse biografico di queste storie letterarie
a favore di un’analisi più centrata su quelle che sono le opere effettivamente. A noi sembrerà quasi
scontato perché le nostre storie della letteratura hanno sia una parte biografica, molto minoritaria in realtà,
sia una parte di analisi delle opere, e molto spesso questo discorso tra biografia e opere viene portato
avanti parallelamente, valutando e valorizzando solo quelli che sono gli aspetti portati della biografia di un
autore. Per esempio, noi nei nostri testi di storia della letteratura, prendendo come autore esemplare
Leopardi, non troveremo mai particolari irrisori della sua biografia, quale per esempio qual è stato il suo
primo sonetto, proprio perché il suo primo sonetto, nella fattispecie “La morte di Ettore”, non ha
un’importanza effettivamente a livello letterario, di conseguenza troverete solamente alcuni fattori della
biografia che sono strettamente connessi con la produzione scritta.
Nel momento in cui Tiraboschi si accinge a questo lavoro effettivamente non era molto chiaro questo
concetto, e si tendeva a prediligere la ricostruzione delle biografie degli autori e solamente a citare le opere
scritte. Già nel Cinquecento c’era questo problema, lo abbiamo visto con Anton Francesco Doni: lui
ricostruisce in alcuni casi le biografie degli autori e cerca di non dare mai un giudizio sulle opere. E qui
assistiamo, ed è qualcosa di rivoluzionario, al contrario, ovvero almeno in linea teorica Tiraboschi avrebbe
voluto fare il contrario, voleva prediligere quella che era l’importanza delle opere letterarie. Inoltre
Tiraboschi mette in campo un fortissimo impegno per superare quello che era lo schema tipico delle opere
della letteratura, ovvero le cosiddette “BIBLIOTECHE”. Lui all’interno della prefazione all’opera lo specifica
molto bene: di biblioteche ne abbiamo molte, e con biblioteche non dobbiamo intendere quel luogo fisico,
dove appunto vengono conservati i libri, ma un libro stesso che renda conto della molteplicità della
produzione scritta. Qualcosa di molto simile alle bibliografie, ovvero un’opera scritta che recensisca tutte
quelle che sono le varie pubblicazioni relative ad un argomento. Lui vuole superare questo, non vuole
fornire una bibliografia delle opere degli autori, vuole fornire un RITRATTO degli autori, un ritratto che
renda conto sia della loro biografia, in parte minoritaria, sia soprattutto della loro produzione scritta.
Come si articola quest’opera? È molto importante la prima edizione, ma perché allora analizziamo la
seconda (slide riguardante la seconda edizione e gli argomenti)? L’opera viene a strutturarsi in maniera
definitiva solamente con l’ultima edizione, ovvero la seconda: i tomi rimangono sempre nove, aumentano
di numero i volumi, e abbiamo una divisione per epoche - che non corrisponde alle periodizzazioni alle
quali siamo abituati oggi. Noi siamo abituati a trovare delle macrocategorie all’interno delle nostre storie
letterarie (es. Umanesimo, Rinascimento, ecc.). In questo caso no, abbiamo delle periodizzazioni basate più
che altro sulla CRONOLOGIA.
Il primo tomo per esempio si occupa di quella che è la letteratura degli Etruschi, dei popoli della Magna
Grecia, della Sicilia, dei Romani, fino alla morte di Augusto. In questo tomo in particolare si evince come
l’estensione dell’indagine a tutto il territorio geografico, a tutto il territorio d’Italia, sia da un certo punto di
vista molto sensata - effettivamente non aveva più senso analizzare la storia della letteratura su base
regionale, era necessario ampliare il novero a tutte le produzioni di lingua italiana e a tutto il territorio
italiano. In questo modo i confini collassano, perché Tiraboschi non include solamente le produzioni in
lingua italiana su territorio italiano, ma include tutte le produzioni in tutte le lingue avvicendatesi sul
territorio italiano. Di conseguenza è costretto a inserire nella sua trattazione delle parti relative a quella
che è la storia letteraria della Grecia e della Magna Grecia, o anche della storia della letteratura latina. Il
fatto che questo tomo si limiti solo fino alla morte di Augusto è spia di un ben determinato sguardo sulla
letteratura antica: secondo lui infatti in Italia la letteratura etrusca, quella della Magna Grecia - in parte no,
ma diciamo di sì - era una parte di sperimentazione vera e propria della produzione, mentre la vera
maturità letteraria sia avrà solamente con la latinità. E la fase di maturità e di massimo splendore della
letteratura latina si conclude con la morte di Augusto. Tutto quello che sarà successivo sarà una fase di
lenta decadenza che porterà appunto fino al Medioevo. Il Medioevo per un Illuminista non poteva che
essere visto come una piena contrapposizione a quelli che erano gli ideali Illuministi: il Medioevo era un
secolo buio, un secolo di oscurantismo religioso e oscurantismo culturale, nel quale l’Italia ha
sostanzialmente subito “un sonno lungo diversi secoli”.
Successivamente l’altra partizione che ci interessa è quella dal 1183 fino al 1300, una fase - secondo
Tiraboschi e secondo i letterati del Settecento - di “lenta rinascita”: è come se l’Italia si svegliasse da questo
torpore, e soprattutto nel Duecento iniziasse a sperimentare a livello letterario, civile e culturale, una lenta
rinascita. Questa lenta rinascita non culmina - come secondo noi - con Dante, che è effettivamente il vero e
proprio risveglio del Medioevo - è una figura sì medievale, come anche Boccaccio, e anche come Petrarca
secondo molti -; Dante è una fase di risveglio netto, di ripresa degli studi e di affermazione di quella che è
una cultura diversa, in parte, da quella del Medioevo. L’appropriarsi per esempio di un mezzo linguistico
come la lingua naturale è un qualcosa di fondamentale ai nostri occhi: ebbene per i Settecentisti questo
non era così. Lo vedremo molto bene nelle prossime lezioni con Giorgio Bettinelli. Dante non è il padre
Dante come noi lo conosciamo, per loro è un momento di sperimentazione della lingua, e anzi è un
modello da non perseguire. Il vero capolavoro del tardo Medioevo è rappresentato da PETRARCA, colui
che ha effettivamente svegliato l’Italia e l’Europa da quel torpore del Medioevo.
Successivamente troviamo la fase che va dal 1400 al 1500, che è una fase di affermazione di questa
rinascita, un’affermazione molto forte effettivamente, che corrisponde all’Umanesimo, nel quale la civiltà
italiana, la cultura italiana, viene a basarsi su quello che è l’ideale umanistico, ovvero un ideale di
riscoperta, e soprattutto vi è l’affermazione della filologia e dell’erudizione. In perfetta continuità, in
perfetto specchio con quelle che erano le tendenze culturali del Settecento, che proprio si basavano
sull’erudizione e sulla filologia. Il 1500 per Tiraboschi è ugualmente una fase di splendore per l’Italia a livello
culturale, perché proprio in questa fase si conduce a maturazione quello che è il rapporto tra intellettuale
e potente, nella fattispecie le corti e il potente di turno. Si afferma quel meccanismo del mecenatismo, che
già si era visto nel 1400, ma nel 1500 raggiunge livelli di maggior auge.
Successivamente al 1500 abbiamo una fase di completa decadenza, che è quella del 1600: è come se
l’Italia, da un momento di maggior splendore, precipitasse in un baratro, e questo per Tiraboschi in
principale modo per mancanza di impegno civile, e per mancanza di comunanza tra potente e
intellettuale. Quella che noi chiamiamo letteratura Barocca per Tiraboschi è una fase di decadenza
completa, nella quale l’intellettuale si rintana in tendenza di semplice espressione del bello, senza nessun
tipo di contatto con quella che è la realtà politica e civile del tempo.
Tiraboschi scrive nel 1700 molto avanzato, perché non analizza il 1700? Non lo analizza perché
propriamente non vuole invischiarsi in polemiche: sa bene che il 1700, che è ancora in corso d’opera, che è
ancora assolutamente in vita, non può essere giudicato con l’occhio di uno storico. Avrebbe uno sguardo,
una visione traviata dal suo stesso vivere in quel secolo, e chiaramente se si esponesse a giudizi in quel
periodo, in qualche modo andrebbe a scontentare qualcuno. Di conseguenza lui si astrae completamente
al giudizio e si limita a un cappello introduttivo su questo secolo, definendolo il secolo di una vera e
propria rinascita dopo il Seicento, un secolo nel quale la ragione fa da padrona, insieme alla verifica della
realtà, che sono proprio gli ideali Illuministi.
1 Tomo primo, che comprende la storia della letteratura degli Etruschi, de’ popoli della Magna Grecia, e
dell'antica Sicilia, e de’ Romani fino alla morte d'Augusto.
9 Indice generale.
Sempre all’interno della prefazione, ma più in generale all’interno di tutta la “Storia della Letteratura
Italiana” di Tiraboschi, dobbiamo sottolineare alcuni aspetti importanti. Innanzitutto la FEDE DEL PRIMATO
ITALICO: l’Italia è stata colei che ha generato effettivamente la letteratura europea e colei che l’ha portata
al massimo grado di perfezione, e di conseguenza gli italiani dovranno essere molto orgogliosi di questo, e
di conseguenza riappropriarsi del loro ruolo, del loro primato letterario anche e soprattutto con
approfondimenti storici sulla loro letteratura. Vi è infatti allo stesso modo della riaffermazione di questo
primato italico anche un LAMENTO E UN BIASIMO PER IL DISINTERESSE GENERALE VERSO LA
LETTERATURA e verso l’approfondimento della storia letteraria patria. Vi è ovviamente tra gli intenti di
Tiraboschi anche un DESIDERIO DI ACCRESCERE LA FAMA LETTERARIA ITALIANA, in che modo?
Ripercorrendone la propria storia.
Perché ampliare così tanto il criterio di inclusione? Vi sono varie motivazioni per questo: innanzitutto
abbiamo una sorta di COMPIACENZA e di VANITÀ “ARALDICA”. Il mettere in luce come la letteratura
italiana, ovvero la lingua italiana, discenda direttamente da quella antica è un vanto che non tutte le
letterature nazionali d’Europa hanno. L’Italia è effettivamente l’erede principale della letteratura latina,
ma nel Settecento vedremo come si riteneva anche che la letteratura italiana fosse l’erede unica della
letteratura e della scienza greca. Perché? La Grecia avrebbe trasmesso il proprio bagaglio culturale a quello
che era l’Impero Bizantino, che come tutti sappiamo crollerà nel 1453, e il crollo di Costantinopoli -
conquistata da Maometto II, quindi da un aurorale Impero Ottomano - farà sì che la maggior parte degli
intellettuali di quel periodo si trasferisca in giro per l’Europa. Chi è che accolse la maggior parte degli
intellettuali bizantini? Proprio l’Italia, in modo particolare la Toscana: subito dopo, ma anche subito prima la
caduta di Costantinopoli, FIRENZE e la Toscana furono i primi territori ad ospitare delle cattedre, all’interno
delle università, di greco antico, chiamando ad insegnare degli intellettuali bizantini, eredi legittimi della
Grecia. Anche Lorenzo de Medici si spese su questo versante per accaparrarsi su questo mercato quanti più
codici, quindi manoscritti, in lingua greca, dotando di conseguenza la Biblioteca Medicea Laurenziana di una
collezione di testi greci importantissima. Questo significava riappropriarsi di un bagaglio culturale che
altrimenti sarebbe andato disperso. Questo lo vedremo molto bene in Bettinelli, che lo mette chiaramente
in luce.
Perché ampliare così tanto i criteri di un’opera? Soprattutto per fedeltà a uno spirito tutto Settecentesco,
ovvero quello di non voler lasciare effettivamente nessun campo di indagine disponibile inesplorato, e far
sì che un’opera singolare potesse avere più diramazioni possibili. Per noi questo è un qualcosa di
completamente impossibile, in quanto ci rendiamo ben conto che un’opera non possa comprendere così
tanti aspetti, e difatti le più grandi opere che attualmente ancora si utilizzano nella letteratura italiana sono
scritte da una moltitudine di soggetti, che si sono specializzati ognuno in un ambito ben determinato della
letteratura o della cultura italiana. Di conseguenza si tende appunto a fondere le diverse esperienze degli
studiosi. Per Tiraboschi questo era impensabile: l’erudito doveva appunto riuscire ad abbracciare tutto
l’ambito culturale che si prefiggeva di costruire.
Ne consegue:
Abbiamo già visto le partizioni interne dell’opera di Tiraboschi, sono rigorosamente cronologiche: lui inizia
dalle origini della cultura italiana, che lui ritrova e ripercorre negli Etruschi, e arriva in buona sostanza fino
ai giorni propri. Anche questo atteggiamento non è del tutto scontato, anche perché Tiraboschi nella sua
prefazione all’opera sottolinea come le opere che fino ad allora si erano avvicendate nella letteratura
italiana avessero adottato diversi criteri, come ad esempio nel caso di Mazzucchelli un criterio di tipo
alfabetico - ovvero fornire ai lettori una vera e propria enciclopedia della letteratura italiana, però divisa per
schede monografiche su diversi autori. Questo non è l’intento di Tiraboschi: Tiraboschi vuole fornire
un’opera organica, che ripercorra lo sviluppo culturale dell’Italia.
Ci si potrebbe chiedere: l’opera di Tiraboschi - anche alla luce di quello che abbiamo detto nelle precedenti
lezioni sulle storie letterarie in Italia - è un punto di arrivo di un lungo processo di storiografia letteraria,
oppure è un punto di partenza di una moderna storiografia letteraria? In effetti quest’opera può essere
vista nell’uno e nell’altro modo, è un’opera spartiacque: secondo tutti i successori di Tiraboschi in effetti
l’opera “Storia della Letteratura Italiana” è un’opera imprescindibile, che sì ha sbagliato in alcuni casi - lo
vedremo successivamente, venne molto attaccata quest’opera - ma è effettivamente un punto
imprescindibile, sia perché è stato il primo tentativo organico e moderno di ripercorrere la storia culturale
italiana, sia soprattutto per l’abbondanza di dati che mette in gioco. L’opera di Tiraboschi venne vista
soprattutto nell’Ottocento come un ‘magazzino’ al quale attingere per avere notizie verificate e verificabili
su diversi autori, e di conseguenza chiunque si mise all’opera dopo Tiraboschi sulla storia della letteratura
italiana non poté che confrontarsi con questo enorme modello.
Punto di arrivo di un lungo processo di storiografia letteraria, oppure punto di partenza di una
moderna storiografia letteraria?
L’opera di Tiraboschi rappresenta sia l’uno che l’altro. Il giudizio sul valore dell’opera non deve
risiedere tanto nei suoi effettivi risultati, quanto più nell’apprezzamento dello sforzo storiografico
messo in campo: quello di narrare e illustrare la storia della cultura italiana e quindi della
letteratura, per la prima volta con un occhio tendente alla scientificità.
Lettura del testo relativo a questa lezione - PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE DELL’OPERA. Troverete
delle note che vi aiuteranno ad affrontare alcuni passaggi più criptici del testo, e a sciogliere alcuni dubbi
che vi potrebbero sorgere a livello linguistico.
Per quanto riguarda la prefazione all’opera di Tiraboschi è bene notare una cosa: come nella prefazione alla
seconda edizione Tiraboschi risponda ad alcune accuse che gli venivano mosse. Quale fu l’accusa principale
che venne mossa alla sua opera? Quella di una mancanza di uno spirito filosofico. Questo spirito filosofico
è un concetto che torna costantemente nella storia della critica, ed è il concetto di avere un canone estetico
come guida. Secondo i lettori dell’opera di Tiraboschi, Tiraboschi non lo aveva, ma effettivamente
Tiraboschi non voleva produrre un’opera di estetica, ma piuttosto un’opera di carattere erudito e filologico.
Lo capiamo molto bene nel passaggio che troviamo alla slide “La prefazione nella seconda edizione”.
Tiraboschi si concentra nel rispondere alle accuse ricevute di mancanza di “spirito filosofico” nella
sua opera:
In realtà il suo interesse non era quello di fornire un’opera basata sull’estetica o sulla filosofia, ma
un’opera di ambito erudito-filologico, il che era molto chiaro dalle sue stesse parole: “Io sono
persuaso […] che la verità e l’esattezza sono la prima dote che in uno storico si richiede, e che le
riflessioni e i sistemi cadono a terra se i fatti a cui sono appoggiati non hanno che fondamenti o
rovinosi o incerti”.
Per quanto riguarda la fortuna dell’opera, ci viene presentato un solo caso, quello di Ugo Foscolo: Foscolo
non fu effettivamente molto accondiscendente verso il modello della “Storia della Letteratura Italiana” di
Tiraboschi, perché a suo avviso una storia della letteratura doveva avere un principale obiettivo, che non
era quello di esplicare una serie di dati o verificare una serie di verità (es. quando è nato questo autore,
quando è stata scritta quest’opera, o quant’altro), ma doveva spingere i lettori all’EMULAZIONE, e
soprattutto a far sentire un vero e proprio ORGOGLIO DI PATRIA.
“Volgetevi alle vostre biblioteche. Eccovi annali e commentari e biografi ed elogi accademici, e il
Crescimbeni ed il Tiraboschi […]; ma dov'è un libro che discerna le vere cause della decadenza dell'utile
letteratura, che riponga l'onore italiano più nel merito che nel numero degli scrittori, che vi nutra di maschia
e spregiudicata filosofia, e che col potere dell'eloquenza vi accenda all'emulazione degli uomini grandi? Ah
le virtù, le sventure e gli errori degli uomini grandi non possono scriversi nelle arcadie e nei chiostri!”
“{…} Ah le virtù, le sventure e gli errori degli uomini grandi non possono scriversi nelle arcadie e nei
chiostri!”. Che cosa significa quest’ultima frase? Che a suo avviso “le sventure e gli errori degli uomini
grandi”, quindi le cause della decadenza, e anche la grandezza della letteratura non possono essere scritti
né da chi appartiene all’Arcadia - e quindi ha uno sguardo viziato, e si sta riferendo chiaramente a
Crescimbeni - né all’interno dei chiostri - quindi neppure da un gesuita come Tiraboschi. Di conseguenza
secondo Foscolo, e lo vedremo molto più chiaramente quando parleremo del dibattito storiografico
Ottocentesco, non vi è ancora una storia della letteratura italiana che possa spingere all’emulazione e
soprattutto al “sympathos”, quindi al provare delle sensazioni di comunanza e di emulazione.
A questo punto ricapitoliamo brevemente qual è la recezione e la fortuna dell’opera di Tiraboschi, perché
se da un certo punto di vista abbiamo cercato di rivalutarne i pregi, effettivamente nei secoli subito
successivi l’opera non venne molto apprezzata. Di fatti i lettori misero in luce alcuni problemi: innanzitutto
quello che è una tipicità di quest’opera, ovvero l’eccessivo ampliamento delle inclusioni, che secondo i
contemporanei o comunque i lettori successivi era un vero e proprio problema, anche perché l’opera era
enorme, ed era difficile da utilizzare per esempio in ambito didattico nelle scuole. Come si poteva
pretendere che uno studente leggesse quattordici o quindici tomi di quest’opera che effettivamente non è
neppure di facile lettura? Inoltre Tiraboschi, che si era prefisso di superare lo schema biografico, non
riuscirà effettivamente a farlo, proprio perché il suo obiettivo era in perfetto contrasto con quelle che
erano le tendenze della sua erudizione. È molto facile vedere effettivamente come Tiraboschi nella sua
opera si perda in delle disquisizioni di poco conto, ovvero per esempio accertare una data di nascita, una
data di morte, e quindi entrare in polemica con altri eruditi. Inoltre viene sottolineata una mancanza di
filosofia, quindi una mancanza di salda teorizzazione estetica alla base, e di conseguenza il canone degli
autori, se non sottoposto a questi canoni estetici rigidi, viene ad aumentarsi, e molto spesso nell’opera di
Tiraboschi troviamo grandi trattazioni relative ad autori che a nostro avviso di moderni hanno veramente
poca o nessuna importanza.
Saverio Bettinelli è un intellettuale tipico del Settecento, nasce nel 1718 e morirà agli inizi del 1800 (1808) a
Mantova. Possiamo veder già da queste due date come lui percorra effettivamente tutto il Settecento, e la
sua produzione - estremamente ampia e versificata, che cercheremo di analizzare -, è una testimonianza
dell’evoluzione sia della critica sia della letteratura del Settecento. Si tratta di una figura e di un autore
centrale per molti aspetti, sia per quanto riguarda la riflessione critica, sia per l’analisi storica dell’Italia, sia
per la proposta di nuovi modelli filosofici. Si tratta di un intellettuale poliedrico, e per alcuni aspetti -
soprattutto per noi moderni fruitori delle sue opere - particolarmente bizzarro. Ma in realtà questa
sensazione di bizzarria e di estraneità a quelle che potevano essere le norme del tempo sono delle
sensazioni assolutamente falsate. Di fatti Saverio Bettinelli per molti aspetti, e soprattutto per chi abbia un
minimo di praticità con la letteratura del Settecento, appare come un intellettuale molto più regolare e
molto più incasellato nella figura tipica dell’intellettuale Settecentesco, ad esempio rispetto a un autore
completamente fuori dai canoni come Giuseppe Baretti. Molte delle sue teorizzazioni infatti per quanto
bizzarre possano apparirci - e lo vedremo molto bene nel corso di questa lezione - sono effettivamente per
nulla isolate nell’ambito della discussione letteraria del Settecento.
Per quanto riguarda la vita di Bettinelli, essa è riassumibile in poche battute effettivamente, e in pochi
elementi che ne connotano l’evoluzione e il suo sviluppo di intellettuale. Dopo i primi studi entra a far parte
della Compagnia del Gesù e diviene ben presto un maestro di retorica. Grazie a questo suo mestiere inizia a
girare varie città d’Italia, grandi città e anche grandi centri culturali, ad esempio insegna a Brescia, a
Bologna, a Venezia, per poi stabilirsi in un collegio particolarmente rinomato e particolarmente importante
di quel periodo, mi riferisco al Collegio dei Nobili della città di Parma. Quest’ultima città per lui rappresenta
molto, e rappresenta molto a livello della sua stessa evoluzione culturale: di fatti non solo nella città
effettivamente diventa un assiduo frequentatore dei salotti aristocratici, ma entra in contatto diretto con la
più alta aristocrazia presente effettivamente in Italia ma anche a livello europeo.
Il fatto che un abate - era effettivamente un religioso - fosse un frequentatore della mondanità non deve
assolutamente stupire. Di fatti in questo periodo le gerarchie ecclesiastiche erano assolutamente addentro
a quella che era la vita intellettuale, sociale e culturale del periodo; abbiamo pressocché raramente delle
figure di abati che rimangono relegati nelle loro abbazie o almeno nei luoghi canonici della loro vita
ecclesiastica. Proprio grazie ai contatti parmensi Bettinelli diventa un precettore privato; nella sua funzione
di precettore privato intraprende alcuni viaggi con i suoi protetti in Germania e in Francia. Questo fattore
della visita agli stati europei maggiormente importanti - come la Francia, la Germania, e in altri casi
l’Inghilterra - è un aspetto assolutamente tipico del cursus studiorum degli intellettuali o comunque dei
rampolli della nobiltà del Settecento. Di fatti lo possiamo constatare in moltissime biografie di intellettuali
del Settecento: ad esempio Alfieri intraprende proprio questa sorta di grand tour al contrario, per il quale
dopo aver visitato l’Italia si sposta in tutte le maggiori e principali capitali europee. Allo stesso modo gli
intellettuali o comunque i giovani delle più grandi famiglie nobili europee intraprendono il regolare grand
tour, che li portava dalle loro regioni d’origine a visitare l’Italia, e quindi anche la Grecia, e a spingersi verso
sud. Al contrario in Italia si tende a spostarsi verso nord.
Questi viaggi ve li cito non per semplice narrazione della vita di Bettinelli, ma perché specialmente uno di
questi ebbe una fondamentale importanza nel suo sviluppo intellettuale, e mi riferisco al viaggio in Francia,
viaggio che durò addirittura due anni (1757-1759) e che lo porterà a frequentare i salotti intellettuali più
importanti della Parigi dell’epoca - nei quali ad esempio frequentò e conobbe intellettuali e filosofi come
Jean-Jacques Rousseau. Queste conoscenze lo formarono moltissimo effettivamente a livello intellettuale,
catapultandolo in quell’orbita culturale dell’Illuminismo europeo. Sempre in Francia ebbe modo di
conoscere un intellettuale che aveva già avuto modo di conoscere sui libri, un intellettuale del calibro di
Voltaire. La figura di Voltaire per quanto riguarda Saverio Bettinelli è una figura fondamentale, a livello
intellettuale ma anche a livello di vita vissuta. Infatti da Voltaire soprattutto ebbe modo di mutuare quello
che è un aspetto tipico della sua prosa e della sua critica, una caratteristica pungente e uno stile
epigrammatico, stile salace e pungente. Di questo incontro ad esempio con Voltaire avrà modo di scrivere,
ma lo vedremo successivamente.
Dopo gli studi entra nell’ordine dei gesuiti, nel quale diviene maestro di retorica.
Insegna nei collegi di Brescia, Bologna, Venezia e poi nel Collegio dei Nobili di Parma.
In quest’ultima città diviene un assiduo frequentatore dei salotti aristocratici, e presto verrà anche
ingaggiato come precettore privato.
Grazie al nuovo ruolo di precettore di rampolli della nobiltà, avrà occasione di effettuare due
importanti viaggi, il primo in Germania e poi uno ben più formativo in Francia, dove rimarrà poi due
anni (1757-1759).
A Parigi frequenta i maggiori salotti dell’epoca e entra in contatto con Helvétius e conosce
Rousseau.
Importanza fondamentale nella sua biografia riveste la lettura delle opere di Voltaire dal quale
mutuerà uno stile pungente ed epigrammatico. Nel corso del suo viaggio in Francia incontrò il
filosofo ed ebbe modo di conversare a lungo con lui.
Per quanto riguarda le linee generali della figura di Saverio Bettinelli possiamo rilevare come la sua sia una
figura di intellettuale molto addentro al dibattitto critico contemporaneo, e con una spiccatissima
tendenza alla polemica e alla provocazione. Vedremo come moltissime delle sue teorizzazioni siano
effettivamente delle provocazioni vere e proprie, che non si sarebbero mai tradotte in una partica effettiva,
ma che comunque ci aiutano a ricostruire quello che poteva essere il dibattitto sugli autori e sulla critica
letteraria in voga nel periodo del Settecento. Un tema fondamentale in tutti gli scritti di Saverio Bettinelli, e
che lo colloca in piena continuità con quello che è l’ambiente intellettuale del Settecento, è il continuo
insistere sul concetto del famoso primato italico nelle “belle lettere”. Abbiamo già visto come gli
intellettuali dell’Illuminismo in Italia propagandassero questa idea del primato italico in tutte le loro opere;
vi sarà ancora ben presente l’esempio di Girolamo Tiraboschi che insiste molto sul primato dell’Italia come
nutrice e madre della letteratura a livello in realtà europeo.
Per quanto riguarda la sua produzione possiamo agevolmente dividerla in due periodi. Il primo, quando lui
era effettivamente ancora un giovane intellettuale e un maestro della Scuola del Gesù; questa prima
produzione si caratterizza per una totale aderenza agli schemi produttivi letterari del Settecento - di fatti
egli inizia la sua applicazione alla letteratura in particolar modo come poeta. La sua prima produzione è
molto vasta, nella slide ci vengono citate solo due delle sue opere più importanti. Con la seconda
produzione delle opere di Bettinelli, edite e inedite, arriviamo ad oltre 24 volumi, composti ognuno di 400 o
700 pagine. Di conseguenza dobbiamo per forza di cose citare solo le opere che possono essere considerate
le più rappresentative.
Nel 1751 scrive un poemetto satirico, “Le raccolte”: già dal titolo possiamo capire qual era l’argomento.
Saverio Bettinelli comincia già da questo momento a scagliarsi contro quella che è l’abitudine del
Settecento di scrivere e di pubblicare delle raccolte e degli omaggi poetici tendenti a celebrare ogni
ricorrenza e ogni occasione fausta - un matrimonio, una riunione di amici, o quant’altro. Saverio Bettinelli si
pone in questo momento in perfetta continuità con quello che è il filone della critica letteraria che si scaglia
contro un utilizzo della letteratura assolutamente servile e mondano, un utilizzo molto simile e molto vicino
a quello che invece propaganda l’Accademia dell’Arcadia. Vedremo come nel corso del Settecento siano
state moltissime le accuse mosse contro l’Arcadia, allo stesso tempo però l’Arcadia continuava ad essere
totalmente egemone nella produzione letteraria. Lo vedremo moto bene nelle prossime lezioni quando
affronteremo Giuseppe Baretti, vero e proprio contraltare dell’Arcadia, che però non riuscirà in buona
sostanza a scalfire in nessun modo il primato dell’Accademia, che continuerà ad avere una vita florida fino a
tutto l’Ottocento, non solo a livello italiano, ma assolutamente a livello europeo.
Nel 1755 pubblica una raccolta di “Versi sciolti”, che poi confluiranno ne “Versi sciolti di tre eccellenti
autori”, una raccolta del 1758. Non è ozioso soffermarci su questa raccolta, perché è un’opera
particolarmente importante per più aspetti. È bene anticipare già un aspetto della produzione di Bettinelli,
della produzione del Settecento, che tornerà molto utile quando parleremo di Giuseppe Baretti. Quando si
parla di verso sciolto, che cosa si intende? Si intende la produzione poetica in versi non rimati, in particolar
modo ma non esclusivamente versi endecasillabi. Il verso sciolto non è un’invenzione del Settecento,
sappiamo che già dal 1500 - ma anche in realtà prima - vi erano componimenti in endecasillabi sciolti.
Ma nel 1700 assistiamo a una fioritura di scritture in verso non rimato, questo perché il verso non rimato
consentiva di essere meno vincolati a una forma più stringente come quella dell’ottava, delle odi o delle
canzoni petrarchesche. Si affermano di pari grado alcuni generi che in precedenza non avevano avuto una
grossa fortuna, come ad esempio il genere delle lettere in versi, che vengono sempre scritte in endecasillabi
sciolti. O anche allo stesso modo assistiamo alla nascita e alla propagazione di generi come il poemetto in
versi sciolti, e molto spesso anche il poemetto didascalico - genere di poesia nel quale si davano delle
prescrizioni o si ripercorrevano degli ambiti di vita quotidiana, come ad esempio l’agricoltura - qualcosa di
molto vicino a quello che era il genere della poesia didascalica nell’antichità. Eppure se assistiamo a un
proliferare di versi sciolti, assistiamo e assisteremo molto bene con Giuseppe Baretti a una feroce critica di
questo nuovo stile poetico, una sorta di tentativo di salvaguardare quella che è la tradizione italiana che si è
da sempre avvalsa della rima come suo fondamento interno.
Nel 1758 Saverio Bettinelli ripubblica parte della sua produzione in versi sciolti affiancandola a quella di altri
autori eccellenti, come a voler sancire la legittimità di questo nuovo mezzo comunicativo o comunque di
questa nuova proliferazione di versi sciolti. Quello che però ci interessa più sottolineare di questa raccolta
di “Versi sciolti di tre eccellenti autori” è come al suo interno Bettinelli pubblichi un’operetta
apparentemente di poco momento, le cosiddette “Lettere Virgiliane”. Le “Lettere Virgiliane” sono un’opera
fondamentale ai fini del nostro discorso e che andremo ad analizzare molto bene in questa e nella prossima
lezione.
Durante il primo periodo della propria attività letteraria Bettinelli si configura come un tipico
letterato del Settecento, e più in particolare come un poeta
Scrive ad es. il poemetto satirico Le raccolte (1751) nel quale già si presagisce molto bene la sua
vena ironico-satirico-critica rivolta alla società e alla letteratura.
Si tratta di un poemetto volto a sbeffeggiare quella che viene definita come “la mania” italiana (e
più in particolare arcadica) di pubblicare raccolte e omaggi poetici per celebrare ogni ricorrenza e
occasione.
Scrive i Versi sciolti (1755), poi confluiti nella raccolta dei Versi sciolti di tre eccellenti autori (1758)
dove compariranno anche le cosiddette Lettere vigiliane.
Cerchiamo però prima di analizzare qualche altro particolare della produzione di Saverio Bettinelli. La sua
produzione viene raccolta successivamente in 24 corposi volumi, che comprendono al loro interno
variegate tipologie di generi e di opere, sia in prosa sia in verso. Mette in conto ad esempio sottolineare
un’altra produzione in lettere fittizie, come anche le “Lettere Virgiliane”, e mi riferisco alle “Lettere a Lesbia
Cidonia”: si tratta di una raccolta di lettere fittizie indirizzate a questa ragazza che vanno ad analizzare
numerosi nodi filosofici molto cari a Saverio Bettinelli. All’interno di queste lettere fittizie Saverio Bettinelli
inserisce anche quello che è il racconto e il resoconto dei suoi incontri con Voltaire. È un metodo per
veicolare la propria singolare esperienza ad una pluralità di persone che potevano leggere questi testi.
Scrisse inoltre numerose tragedie, che citiamo qui per capire quanto Saverio Bettinelli sia sì un intellettuale
italiano, ma sia un intellettuale italiano europeo in qualche modo, ben addentro a quelli che erano i
movimenti europei della cultura, e sempre pronto a captare quelle che erano le innovazioni estere a livello
letterario. Infatti scrive numerosissime tragedie che però, al contrario della produzione contemporanea
delle tragedie, non si ispirano tanto ai modelli classici della tragedia, quanto più ai modelli invece francesi, e
mi riferisco in questo caso al grande teatro francese, quello di Corneille, Racine e Voltaire. In questo modo
Saverio Bettinelli cerca di veicolare in Italia delle vere e proprie novità letterarie, degli espedienti letterari
completamente innovativi, ed è utile e interessante capire a chi cerca di veicolare questi nuovi modelli.
Queste tragedie erano scritte da Bettinelli per le rappresentazioni dei suoi alunni nel collegio, proprio
perché nel Settecento assistiamo, soprattutto all’interno della Compagnia del Gesù, a un fenomeno
particolarmente interessante. Di fatti il cursus studiorum dei giovani dei collegi gesuiti prevedeva proprio la
scrittura di tragedie, ma soprattutto il mettere in scena delle rappresentazioni tragiche era un qualcosa di
particolarmente importante secondo il modello educativo gesuita, e in questo modo Bettinelli era in grado
di influenzare quello che era il gusto dei suoi stessi allievi.
La sua produzione, raccolta in ventiquattro corposi volumi, comprende una serie sorprendente di
generi differenti:
Scrisse ad es. lettere di argomento filosofico e aneddotico, quali le Lettere a Lesbia Cidonia dove
riporta, tra le altre occorrenze della propria vita, anche i dettagliati resoconti del suo incontro con
Voltaire.
Scrisse inoltre diverse tragedie nelle quali è subito evidente la sua netta ispirazione al grande teatro
francese (Corneille, Racine, Voltaire).
Le Lettere virgiliane.
Veniamo al nodo principale di questa lezione, le “Lettere virgiliane”. Il titolo completo della raccolta di
lettere fittizie “Lettere virgiliane” - lo troviamo nella slide relativa -, è “Dieci lettere di Publio Virgilio Marone
scritte dagli Elisi all’Arcadia di Roma sopra gli abusi introdotti nella poesia italiana”. Un titolo
particolarmente ampio che ci aiuta a capire già in maniera molto precisa quello che è l’intento dell’autore:
si tratta di dieci lettere, non scritte da Saverio Bettinelli ma da Publio Virgilio Marone - chiaramente
l’autore doveva essere un altro, ma si tratta comunque di un particolare non irrilevante che Saverio
Bettinelli tolga a sé l’autorialità di queste lettere e la conceda a un poeta classico come Publio Virgilio
Marone. Queste lettere sono scritte dai campi Elisi, ovvero diciamo dall’oltretomba, e sono indirizzate
all’Accademia dell’Arcadia di Roma, e sono inerenti “gli abusi introdotti nella poesia italiana”.
Di conseguenza vediamo come già dal titolo si riesca a capire che queste “Lettere virgiliane” vadano ad
inserirsi pienamente nel dibattito contemporaneo e cercheranno in maniera molto plastica e provocatoria
di indirizzare la letteratura verso un nuovo corso. Leggendo quest’opera non si capisce effettivamente
quanto delle prescrizioni di Bettinelli / Virgilio sia destinato a una messa in partica o siano delle semplici
provocazioni. In realtà noi leggeremo alcuni passi che ci faranno capire quali erano le idee nel Settecento
rispetto alla produzione contemporanea ma anche, ed è cosa molto più importante, verso la produzione del
passato, in quanto all’interno di quest’opera noi troviamo sia l’attenzione alla poesia contemporanea, sia
anche e soprattutto una rivisitazione di quello che era il canone degli autori classici nel Settecento.
Saverio Bettinelli rianalizza all’interno delle lettere tutta quella che è l’importanza concessa, durante la
storia della letteratura italiana, alle diverse autorità, ai diversi autori fondanti, e vedremo che il canone
ideato da Bettinelli è completamente diverso da quello che noi abbiamo dato per assodato, e quello che
ancora adesso studiamo negli esami di letteratura italiana.
La cosa interessante di quest’opera è che Saverio Bettinelli non si mette in prima persona a narrare queste
amenità, ma al contrario si cela dietro lo pseudonimo, o meglio dietro la figura del poeta classico Virgilio
Marone. Tutto ciò ha prodotto durante il Settecento una difficoltà di attribuzione dell’opera, non si sapeva
effettivamente chi fosse l’autore, proprio perché è un espediente tipico del Settecento non volersi esporre
direttamente, ma inserire le proprie considerazioni all’interno di una cornice narrativa chiaramente
inventata. Questa cornice narrativa è la seguente: Virgilio si riunisce nei campi Elisi insieme a tutti i
principali poeti dell’età classica, e questi poeti riuniti insieme discutono sia della produzione attuale della
poesia italiana, ma anche e soprattutto di quelli che sono i grandi poeti della letteratura italiana.
Nella raccolta dei Versi sciolti di tre eccellenti autori appare in appendice il testo (edito
anonimamente) delle cosiddette Lettere virgiliane.
Il titolo completo della raccolta è Dieci lettere di Publio Virgilio Marone scritte dagli Elisi
all’Arcadia di Roma sopra gli abusi introdotti nella poesia italiana.
Le lettere affrontano diversi problemi della produzione contemporanea in versi, ma anche
problemi relativi al canone degli autori “classici”.
Il tutto viene collocato in una cornice narrativa chiaramente inventata.
La cornice narrativa consiste nel fatto che Virgilio, riunitosi insieme ai principali poeti dell’antichità
nei Campi Elisi, riporta all’Accademia dell’Arcadia di Roma i resoconti di queste discussioni.
Si tratta di un pamphlet in forma epistolare - sono lettere vere e proprie indirizzate all’Accademia
dell’Arcadia. Questa forma delle lettere fittizie l’abbiamo già vista, esiste dal Cinquecento all’interno della
critica, ma il veicolare un messaggio di critica letteraria all’interno di una cornice narrativa di finzione non
è un’invenzione di Saverio Bettinelli, come non lo sarà nemmeno di Giuseppe Baretti, che altrettanto
inserirà la propria opera critica all’interno di una cornice narrativa inventata - in realtà molto gradevole e
altrettanto complessa. Non è appunto un’invenzione di Bettinelli né tantomeno di Baretti, ma già possiamo
vedere all’interno del XVI-XVII secolo tanti esempi di questa tendenza della critica letteraria, e ve ne cito
solamente uno: i “Ragguagli di Parnaso” di Traiano Boccalini, dove allo stesso modo abbiamo delle
discussioni veicolate dai poeti dell’antichità sui diversi argomenti della letteratura e della critica letteraria.
Ovviamente si pone un dubbio: le “Lettere virgiliane” sono un’opera letteraria - perché vediamo che hanno
una cornice narrativa ben precisa, per cui è un’opera originale - oppure un’opera di critica, di polemica,
relativa alla letteratura contemporanea e del passato? Non è molo facile rispondere a questa domanda,
proprio perché le “Lettere virgiliane” sono sia un’opera letteraria a sé stante, ma sono anche uno scritto
critico propriamente detto.
Si tratta di un pamphlet in forma epistolare in cui l’autore (che rimane anonimo) si riallaccia ad una
finzione letteraria già sperimentata (ad. es. nei Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini).
Quella della cornice narrativa di finzione grazie alla quale vengono veicolati messaggi critici rivolti
alla contemporaneità è un espediente letterario tipico del Settecento, che incontreremo, con
qualche differenza, anche nell’opera di Baretti (La Frusta letteraria).
In questo modo le opere vengono a configurarsi sia come scritti propriamente critici, ma allo stesso
tempo anche come opere letterarie a sé stanti, dotate di una autonomia narrativa e di trama.
Le “Lettere virgiliane” appunto sono un’opera fondamentale soprattutto perché ci tramandano quale fosse
il gusto del Settecento, e gli autori particolarmente analizzati in quest’opera sono due in realtà: Dante e
Petrarca. Se Petrarca è un modello da salvare e anzi da valorizzare, Dante al contrario è un autore la cui
autorità andrà messa fortemente in dubbio. In realtà l’intento di Bettinelli è proprio quello di distruggere,
di demolire quella che è l’importanza concessa nei secoli alla “Divina Commedia”, e vedremo le sue idee
successivamente.
Le Lettere virgiliane contengono notizie veicolate da Virgilio/ Bettinelli circa il valore dei poeti
italiani di ogni tempo.
Tra i poeti maggiormente analizzati, e messi in discussione, spicca Dante, la cui autorità come
“padre” della letteratura italiana e come vetta letteraria è messa fortemente in dubbio, per non
dire demolita.
Mette conto notare anche un altro particolare, come le “Lettere virgiliane” si chiudano con uno scritto
propriamente proiettivo, un “Codice nuovo di leggi per il Parnaso italiano”, una raccolta di leggi vere e
proprie che impongono, o vorrebbero imporre, la visione di Bettinelli a livello della costituzione del canone
letterario italiano. È uno scritto chiaramente provocatorio, perché vedremo ci sono idee molto bislacche
come il dover tagliar via pressocché tutta la “Divina Commedia” e ridurla a tre o quattro canti poetici,
facendo leggere solo quelli e consegnando il resto alla Crusca, per essere musealizzato o lasciato alla
semplice lettura degli eruditi. Sono delle teorie e delle teorizzazioni bislacche, ma che effettivamente ci
tramandano la visione dei contemporanei verso un’opera in quel periodo non compresa come la “Divina
Commedia”. Ci si concentrava sulla distanza che la “Divina Commedia” aveva da noi, era un’opera
chiaramente antica i cui usi linguistici erano completamente caduti in disuso in quel periodo, e addirittura si
cercava di giudicare la “Divina Commedia” con un occhio moderno: ciò che non era vicino al proprio sentire,
alla propria estetica, doveva essere rigettato, e quindi non letto. Chiaramente noi possiamo vedere in
questo una forte spia di quella che era la voglia di svecchiamento culturale, che pervade tutto il Settecento
e che è tipica dell’Illuminismo.
A conclusione delle Lettere virgiliane viene posto un Codice nuovo di leggi per Parnaso Italiano che
contiene precise linee direttive circa il corpus degli autori da leggere e far leggere.
Si tratta di un provocatorio tentativo di influenzare la composizione del “canone” degli autori di
riferimento della Letteratura italiana.
Eppure il testo, benché chiaramente provocatorio (spie di questo si possono trovare anche
nell’usus linguistico, molto spesso vicino a quello legale) può essere letto come un chiaro
“termometro” dei gusti del Settecento e della sua enorme voglia di svecchiamento culturale.
È un discorso che troviamo in moltissimi autori del Settecento, quello del fastidio riguardo alla mania di
fare versi in Italia, e in effetti noi possiamo constatare come durante tutto il Settecento si abbia una
produzione in versi veramente enorme rispetto soprattutto alla produzione dei secoli precedenti e anche
dell’Ottocento. In buona sostanza ogni persona dell’aristocrazia o anche ogni persona della ‘borghesia’
colta si sentiva in dovere di scrivere versi, soprattutto versi celebrativi. Ad esempio, se si faceva monaca una
ragazza, si componevano una serie di sonetti e composizioni che celebrassero questo avvenimento, oppure
in occasione della visita di un cardinale in città. Era un metodo comunicativo più che poetico, e soprattutto
un metodo celebrativo. Questa di Bettinelli / Virgilio sul “fastidio per la mania italiana di fare versi”, si tratta
di una critica molto generalizzata all’utilizzo della poesia come aspetto sociale, un aspetto prettamente
insito nella socialità del tempo. Ma volendo approfondire un po’ la questione si potrà anche dire che è
effettivamente una critica mossa a quello che è l’ambito di interesse dell’Accademia dell’Arcadia.
L’Accademia dell’Arcadia nasce come tentativo di riformare il mondo poetico italiano dagli abusi del
Barocco, ma effettivamente si risolse in una “scioperaggine letteraria” - come direbbe Giuseppe Baretti -,
ovvero in un’applicazione prolungata di persone che non avevano nulla di poetico effettivamente nei loro
animi, nella composizione di versi che servivano semplicemente a far passare qualche momento allegro ai
loro lettori o anzi agli amici ai quali declamavano questi versi. Troveremo questo tema della critica alla
poetica d’occasione anche molto in Giuseppe Baretti.
Lo spunto iniziale della composizione di questa operetta consiste in una nota di costume che ci
aiuta a calarci meglio nell’ambito della cultura settecentesca.
Difatti Bettinelli dichiara di aver intrapreso la scrittura a causa del “fastidio per la mania italiana di
fare versi”.
-> critica fortemente rivolta all’utilizzo della poesia come aspetto sociale.
-> critica all’Accademia dell’Arcadia.
Si tratta di un argomento comune ai critici e ai polemisti contemporanei, che vedremo portato al
suo massimo grado da Baretti.
Per quanto riguarda sempre Bettinelli dobbiamo sottolineare un altro aspetto che incontreremo anche nella
lettura dei nostri testi: affianco ad una critica che è quella alla composizione in versi troviamo anche una
critica che è piuttosto spietata a quello che è il lavoro erudito intorno alla poesia e alla letteratura, ovvero
alle esegesi, ai commenti, alle speculazioni sui testi letterari. Bettinelli mal sopportava questo tipo di
applicazione, perché a suo avviso un’esegesi o comunque un commento troppo approfondito non faceva
altro che togliere ai lettori la capacità di interpretare autonomamente un testo, e soprattutto la capacità
di farselo piacere, di entrare in contatto con l’anima del poeta. Di conseguenza commentare troppo un
testo andava a discapito della fortuna del testo stesso.
Allo stesso modo Bettinelli dichiara apertamente anche il proprio fastidio per un altro aspetto tipico
della cultura del Settecento:
Difatti non sono pochi i casi in cui Bettinelli si scaglia contro il lavoro erudito intorno alla
poesia/letteratura.
A suo avviso infatti le esegesi troppo estese e troppo approfondite sono non solo inutili (nessuno se
ne avvarrebbe a pieno), ma sono inoltre anche sostanzialmente fuorvianti (un’esegesi troppo
approfondita porterebbe l’erudito a far dire all’autore commentato quello che lui stesso vuole fargli
dire).
Veniamo al nodo dei testi che andremo a leggere. Il primo testo è incentrato sulla fortuna di Dante e sul
modo in cui Dante debba essere letto ad avviso di Bettinelli / Virgilio. Dobbiamo intanto chiarire una cosa:
abbiamo già detto che la “Divina Commedia”, soprattutto durante il Settecento ma anche nei secoli
precedenti, non godette di una fama e di un apprezzamento totale da parte dei letterati. È una qualcosa che
ci sembra molto strano effettivamente per noi che siamo abituati a vedere in Dante uno degli apici della
nostra letteratura italiana, e soprattutto uno degli apici fondativi della nostra letteratura italiana. Ma
bisogna calcolare che l’apprezzamento di Dante è effettivamente un qualcosa che arriverà più tardi,
diciamo nell’Ottocento, un apprezzamento unanime, proprio perché si iniziò ad aver strumenti per
comprendere appieno la poesia di Dante, e soprattutto per storicizzarla. Ogni poesia non può essere letta
come se fosse scritta oggi, bisogna ovviamente contestualizzarla a quello che è il suo periodo di produzione
per un apprezzamento oggettivo, e di conseguenza molte cose che Bettinelli fa passare come “incoltezza
deforme” - parole sue -, a noi invece appaiono come tentativi di sperimentalismo di Dante, qualcosa di
totalmente innovativo che Dante ha sperimentato ed è effettivamente un vanto per la sua poesia.
Secondo Bettinelli proprio perché la poesia della “Divina Commedia” risulta molto spessa e
incomprensibile, c’è stato un vero e proprio problema. Tutte le persone che la sono andate a leggere hanno
voluto imitare questa poesia, ritenuta per la sua antichità un capolavoro, ma l’hanno imitata senza
ovviamente capirla, e di conseguenza hanno prodotto a loro volta dei mostri di letteratura effettivi.
Secondo Bettinelli convivono all’interno della “Divina Commedia” due diverse anime: un’anima
propriamente incomprensibile e di erudizione di Dante, e un’anima prettamente poetica. Lui di
conseguenza non arriva a condannare integralmente la “Divina Commedia”, ma solo alcune parti che a suo
avviso sono poco riuscite; il problema è che queste parti sono decisamente più ampie di quelle di poesia
riuscita. Qual è la soluzione a suo avviso? C’è una soluzione molto provocatoria: bisognerebbe ridurre tutta
la “Divina Commedia” “in un picciolo volume di tre o quattro canti veramente poetici”. È una sua citazione, e
di conseguenza discernere all’interno della “Divina Commedia” quelle che sono le parti effettivamente
poetiche da quelle non riuscite, e produrre una sorta di epitome - un riassunto per estratti - che renda
conto solo delle bellezze della “Divina Commedia”. È un tipo di fruizione che a noi appare effettivamente
delirante, in quanto l’opera è un unicum, non può essere sezionata. Possiamo produrre un’antologia, ma
non possiamo ridurre volontariamente l’opera a dei frammenti. L’opera è l’opera in sé, non possiamo
giudicarla tramite una lettura parziale. All’interno della “Divina Commedia” inoltre Bettinelli istituisce delle
differenze vere e proprie: l’Inferno a suo avviso è la parte meglio riuscita, il Purgatorio è la parte di riuscita
mezzana, mentre il Paradiso in buona sostanza è un vero e proprio fallimento.
L'astio di Bettinelli si esercita principalmente contro l’autorità e il primato poetico concesso a Dante
e in particolare alla Commedia:
La Divina Commedia sarebbe piena di “incoltezza deforme”.
Dell’intero poema andrebbero - a suo avviso - salvati solo alcuni passi nei quali Dante è riuscito a
raggiungere vette di indiscutibile poesia e il resto andrebbe rigettato e non dato in lettura
soprattutto ai giovani.
Dice a proposito della Commedia che andrebbe ridotta “in un piccolo volume di tre o quattro canti
veramente poetici”.
A suo avviso, in particolare, la cantica più fortunata è l’Inferno, mentre il Paradiso altro non sarebbe
che un trattato morale per giunta incomprensibile.
Adesso cerchiamo di capire l’atteggiamento di Bettinelli verso un altro poeta, Petrarca. Petrarca, come ben
sappiamo, è una delle tre corone del Trecento italiano; secondo Bettinelli, a differenza di Dante, il risultato
conseguito dalla poesia di Petrarca è un risultato assolutamente poetico e quindi assolutamente valido.
Petrarca viene detto appunto “il più elegante” dei poeti italiani, con in questo caso una definizione tutta
Settecentesca, che mira a riscontrare l’eleganza di un poeta, più che il suo effettivo risultato estetico, non
storicizzandolo in questo caso. L’unico problema del “Canzoniere” di Petrarca - parliamo del “Canzoniere” e
non delle altre opere - è quello di una sorta di monotonia, che produce nel lettore una sazietà dopo aver
letto una quindicina di componimenti. Di conseguenza anche in questo caso qual è la soluzione secondo
Bettinelli? Ridurre il “Canzoniere” di un terzo almeno e sfrondare quelli che sono i componimenti che si
incentrano su argomenti simili. Di conseguenza tenere un sonetto o una canzone che abbia come
argomento un unico argomento e eliminare quelle che ricalcano lo stesso tema. Secondo Bettinelli il
“Canzoniere” non è effettivamente una raccolta poetica, ma è più “un corso di metafisica amorosa” spesso
svincolato dalla realtà, nel quale il poeta ripropone quelli che sono i suoi deliri amorosi. È quindi “un corso
di metafisica amorosa”, quindi svincolato dalla realtà terrena, sempre ispirato al “buon gusto”. Tutto ciò
produce effettivamente un problema, perché Bettinelli si pone anche la questione di quale sia il poeta che
vada imitato e in che modo vada imitato.
Secondo Bettinelli l’imitazione è un problema in sé, perché si rischia di voler trasporre quella che è la
propria esperienza personale nel mondo poetico di un altro poeta. È una concezione effettivamente
abbastanza interessate, che però non tiene conto di moltissime altre problematiche sottese; di fatti ci sono
vari livelli di imitazione. Può esservi un’imitazione pedissequa, per la quale il poeta effettivamente traspone
tutta la sua esperienza personale nell’ambito della poesia di un altro poeta, e di questo abbiamo dei grandi
esempi durante tutto il Cinquecento e nel Cinquecento petrarchista. Vi sono altri casi in cui l’imitazione è
limitata solo al mezzo linguistico, o al mezzo espressivo di alcune sensazioni o immagini; pensiamo al caso
molto più moderno di Leopardi, nel quale il petrarchismo è assolutamente presente, ma è un petrarchismo
limitato ad alcuni ambiti dell’espressione del sé poetico - ad esempio, a livello linguistico è innegabile, ed
anche a livello di immagini, ma non è un’imitazione completamente pervasiva, che possa inficiare le
capacità di esprimere sé stesso appunto nel poeta. Secondo Bettinelli “Petrarca regni sopra gli altri [sott.
poeti antichi], ma non sia tiranno e unico”, che cosa significa? Significa che il modello petrarchesco è
effettivamente sancito e riconosciuto, ma non dev’essere l’unico, vi sono una pluralità di possibilità
imitative, e soprattutto di possibilità di invenzione vere e proprie, che devono essere nel novero delle
possibilità che un poeta ha davanti a sé. Consegue una condanna pressocché totale di tutto il petrarchismo
Cinquecentesco, che a suo avviso era stato reo di volersi incasellare in un ambito della produzione poetica
ormai già atemporale, quindi ormai già lontano dal mondo che loro vivevano.
Altro punto importante che emerge dalla lettura delle Lettere virgiliane è il rifiuto dello schema
imitativo tipico della letteratura italiana:
Petrarca, modello per eccellenza della lirica, è in parte ridimensionato: lo si intuisce da una
affermazione quale “Petrarca regni sopra gli altri [sott. poeti antichi], ma non sia tiranno ed
unico”.
Come a dire che l’imitazione non può essere l’unica forma di creazione poetica.
Allo stesso modo infatti Bettinelli condanna tutto il filone della lirica petrarchista del Cinquecento,
rea di aver cercato di incasellarsi in uno stile poetico e in una espressività non propria.
Lettura dei testi, ambedue estratti dalle cosiddette “Lettere virgiliane”. Il primo dei due testi è quello più
importante, ed è tratto dalla Lettera terza. La Lettera terza è una delle più importanti all’interno di questo
epistolario fittizio Virgiliano, perché si concentra principalmente su quello che è il problema dell’auctoritas
di Dante.
Il passo selezionato si apre direttamente in medias res - senza stare a leggere tutte le parti introduttive e le
parti di discussione relative a passi ben determinati della “Divina Commedia”. Il passo appunto è
pronunciato teoricamente da Virgilio, e ci si interroga su quale sia il genere nel quale vada incasellata la
“Divina Commedia”. In effetti questo argomento era di difficile soluzione nel Settecento, lo è sempre stato
e lo continuerà ad essere, ma in questo periodo era particolarmente difficile, e notiamo quasi con
un’ingenuità imbarazzante come Saverio Bettinelli si interroghi sul genere della “Divina Commedia”
basandosi principalmente su quello che è il titolo.
PRIMA PAGINA del formato pdf. [Righe 1-5] Dante non dev’essere guardato/studiato né come un poeta
epico né tantomeno come un poeta comico. Sembrerà strano ma in effetti il titolo della “Divina Commedia”
aveva fatto pensare a Saverio Bettinelli ad un incasellamento del testo all’interno delle commedie. Perché
chiamare un poema effettivamente come la “Divina Commedia” commedia appunto? Ci sarà stato un
perché, e tutti i poeti dell’antichità si interrogano su questo titolo, giungendo a dire che a loro avviso è
impossibile chiamare il poema epico in questione come una commedia perché non si vede da nessuna
parte. Questo è pur vero, fatto sta che a loro sfuggivano tutte le motivazioni lessicali alla base di questa
scelta. Di conseguenza vi è questa prima difficoltà di inquadramento. Inoltre Dante Alighieri viene in
qualche modo frainteso, proprio perché a loro avviso Dante era sì dotato di un’enorme fantasia, ma aveva
riportato nella sua narrazione, nella sua “Divina Commedia”, dei suoi pensieri, dei suoi sogni molto
particolari, per di più legati in maniera molto stretta a quello che era il suo mondo contemporaneo, e che di
conseguenza rimanevano per noi molto difficili da interpretare se non anche impossibili da capire. [Righe 5-
8] Dante avrebbe inoltre peccato di umiltà nel suo poema, perché è stato portato/trascinato “a far pompa”,
a far sfoggio, “di tanta e tanto vana erudizione”, fuor di proposito peraltro, dove non ce n’era bisogno. Il
problema vero - dice Bettinelli - lo troviamo poche righe sotto.
Si tratta di un estratto dalle Lettere virgiliane, e più in particolare dalla terza dedicata quasi
esclusivamente al dibattito dei poeti antichi sull’autorità di Dante.
Il passo si apre con la constatazione della difficoltà di incasellare la Commedia in un genere
letterario ben preciso:
Non può dirsi “commedia” stante l’assenza di ironia.
Non può dirsi poema didascalico perché non insegna nulla.
[Righe 8-10] Bettinelli - e dietro di lui, nella cornice narrativa, tutti gli altri poeti - dicono che il vero
problema non sta tanto nella lettura dell’opera di Dante, quanto nel fatto che è innegabile che molti passi
risultino per noi non completamente comprensibili. Di conseguenza il vero problema è che molti lo hanno
voluto imitare, quindi prendendo Dante come modello, senza però capirlo, e di conseguenza lo hanno
proposto ai giovani che a loro volta lo hanno imparato, lo hanno appreso come modello, e lo hanno
riproposto nelle loro composizioni senza però averne una vera e propria cognizione. Inoltre Dante “Se a
miglior tempi fosse vissuto sarebbe forse il maggior de’ poeti.”, come a dire che l’intelligenza di Dante, la
sua fantasia, sono una caratteristica innegabile, che però, essendo egli nato alle origini della nostra
letteratura, non gli è stato possibile esprimere nel massimo modo. Ma che cosa vuol dire che non è stato
possibile a lui esprimere in massimo modo queste sue caratteristiche di intelligenza e di fantasia? Si
riferisce soprattutto a un fatto retorico: Dante, essendo all’incipit della nostra tradizione letteraria, non
aveva a disposizione una serie di espedienti retorici atti a comunicare al mondo quella che era la sua
visione, la sua fantasia, la sua immaginazione. [Righe 10-11] Dante è un gran uomo, è effettivamente
geniale, ma paga lo scotto di essere nato e vissuto alle origini della nostra letteratura. È effettivamente una
sorta di inversione completa rispetto a ciò che noi pensiamo, proprio perché noi diciamo che Dante è alle
origini della nostra letteratura, è geniale perché ha cercato in tutti i modi di trovare dei metodi espressivi
propri della lingua italiana, di formare un nuovo modo espressivo. Per Bettinelli lui era effettivamente un
problema vero e proprio. Inoltre secondo Bettinelli era un problema il fatto che, essendo questa “Divina
Commedia” così antica, noi guardiamo alla “Divina Commedia” come a un monumento antico
propriamente, e di conseguenza la sua antichità ne fa ai nostri occhi quasi automaticamente un capolavoro.
(Righe 11-16) [Righe 16-18] Noi avremmo - secondo Bettinelli - una sorta di distorsione mentale nel
giudicare un prodotto non eccellente come la “Divina Commedia” in base a quella che è la sua antichità, e
questo appunto ci poterebbe ad avvalorala come un capolavoro. Inoltre gli imitatori della “Divina
Commedia” non hanno fatto altro che accrescerne il pregio in questo modo: più persone la imitavano, più
la “Divina Commedia” diventava un modello di riferimento, e questo era un errore a suo avviso.
La constatazione della parziale bellezza della Commedia porta all’impossibilità di una condanna in
toto dell’opera:
“La sua Commedia, mostruosa per altro, presenta qua e là certe immagini così forti e terribili, de’
terzetti sì bene organizzati che t’incantano in guisa da non sentir l’asprezza d’altri dodici o venti che
vengan dopo.”.
Le parti liriche della Commedia sarebbero una sorta di inganno collettivo:
Grazie a queste parti di sicura riuscita artistica si riesce spesso a sopportare ulteriori parti non
ugualmente riuscite.
SECONDA PAGINA del formato pdf. Bettinelli non nega che la “Divina Commedia” abbia alcune parti che
posano essere definite belle. [Righe 5-6] “Qualche vera bellezza del suo poema, e un gregge infinito di
settatori ha fatto il suo culto e la sua divinità.” La “Divina Commedia” ha delle bellezze, il problema è che
vi sono stati imitatori che l’hanno trasformata quasi in un modello, l’hanno trasformata chiaramente in un
modello, però si sono avvicinati all’opera non con un occhio critico, ma con l’occhio di “settatori”. Che cosa
significa? Sono i seguaci di una setta, come se Dante fosse una sorta di religione da perseguire. [Righe 6-8]
Qui c’è un piccolo errore, per cui “penarono” > “pensarono”. Il fatto che Dante inserisca effettivamente
nella sua “Divina Commedia” della parti dialogate - ad esempio in lingue diverse da quello che era il toscano
illustre del periodo - ai nostri occhi è una fonte linguistica eccezionale, agli occhi di Bettinelli al contrario è
un qualcosa di non decisamente lodevole, proprio perché in questo modo Dante avrebbe sancito, a suo
avviso, la legittimità di entrare all’interno del pantheon delle lingue classiche anche a dei dialetti che non
avevano nessun tipo di aspirazione effettivamente letteraria. A metà della seconda pagina inizia tutta una
tirata contro i “glosatori”. I “glosatori” sono i “glossatori”, ovvero i commentatori, che per come avevamo
già detto hanno la colpa di aver iper interpretato il testo di Dante, e questo era a suo avviso veramente un
problema, perché da un lato toglieva a noi lettori la possibilità di scoprire quello che è il poema, e di
apprezzarlo autonomamente, e dall’altro molto spesso avevano iper interpretato il testo, spesso addirittura
falsando quelli che ne erano i concetti.
TERZA PAGINA del formato pdf. La terza pagina è particolarmente importante, perché adesso assistiamo a
una sorta di resoconto finale, nel quale vengono riportate le decisioni del Parnaso appunto e di tutti i vari
poeti, riguardo alla “Divina Commedia”. [Righe 1-5] In poche parole tutti i poeti greci, o comunque i poeti
classici, si erano sentiti quasi defraudati del loro ruolo di poeti dagli italiani che avevano voluto mettere a
loro pari Dante Alighieri. E infatti questi poeti greci chiedono di essere “redintegrati”. Che cosa significa
“redintegrare”? È una forma antica per “reintegrare”, e questo verbo con il soggetto di persona significa
appunto “restituire qualcuno nelle funzioni o nelle prerogative dalle quali era stato rimosso o sospeso”. In
questo caso più che altro “pareggiato”, cioè volevano che il loro ruolo fosse ribadito. (Righe 5-12) [Righe
12-13] “{…} Dante correva pericolo d’essere escluso dal numero de’ Poeti.”. Proprio perché anche i poeti
comici - vengono citati Terenzio, Aristofane, e altri comici - non riconoscevano la “Divina Commedia” come
una commedia, e allo stesso modo anche Esiodo e Lucrezio - citati prima - non riuscivano a vedere nella
“Divina Commedia” un poema storico o filosofico, non riuscivano a inquadrare effettivamente l’opera.
Secondo Bettinelli qual era l’unica soluzione? [Righe 13-16] E arriva la soluzione. [Righe 16-18] Di
conseguenza l’unico modo per far passare la poeticità di Dante era quello di sminuzzare la “Divina
Commedia” e proporne ai lettori solo il meglio.
Tutto ciò è particolarmente interessante, anche perché questa visione di Dante parcellizzato è un qualcosa
che ricorrerà anche successivamente nella storia della critica, e di fatti vi citerò molto brevemente un breve
passaggio di Benedetto Croce. Croce stesso, quando si ritrovò nel 1921 a confrontarsi con la “Divina
Commedia” per stenderne un’opera critica, arrivò a sancire nel suo studio come la “Divina Commedia” sia
fatta di sue distinte anime, che continuano però a coesistere: una, che appunto è la struttura, e che
corrisponde diciamo al “romanzo teologico”, e l’altra che è la vera e propria parte poetica, “la poesia”, dove
l’io del poeta prende il sopravvento in un lirismo molto accentuato. Eppure Benedetto Croce non sarebbe
mai arrivato all’assurdo proposto da Bettinelli di sezionare la “Divina Commedia”, la sua era una visione
affatto differente, che individuava sì due anime all’interno della “Divina Commedia”, ma era ben cosciente
che queste si fondevano in un’unità, un’unità inscindibile, che era proprio l’animo del poeta.
Risulta curioso notare come idee in qualche modo simili risorsero nel Novecento quando Croce
teorizzò il concetto di “struttura” e “poesia" all’interno della Commedia dantesca:
“la Commedia è sicuramente un’unità. Ma chi ha occhio e orecchio per la poesia discerne sempre,
nel corso del poema, ciò che è strutturale e ciò che è poetico […].”.
Sembrerebbe in apparenza un ulteriore caso di “sezionare” la Commedia, ma Croce, a differenza di
Bettinelli, riconosce sì due parti (il “romanzo teologico” e “la poesia”), ma continua affermando che
le due parti formano un tutto inscindibile che rende conto dell’animo poetico complesso
dell’autore.
Giuseppe BARETTI è stato un critico, un poeta, ma anche un traduttore e un drammaturgo, attivo in Italia e
in Europa - perché visse buon parte della sua vita a Londra - tra il 1719, Torino, e il 1789, Londra. Giuseppe
Baretti non era nobile e non era ricco, i suoi esordi sono veramente umili, e infatti continuò per tutta la sua
vita ad avere delle difficoltà economiche. Iniziò la sua attività intellettuale, o comunque la sua attività
lavorativa, in maniera veramente umile: era infatti scrivano a Guastalla nell’ambito di un’azienda
commerciale. Molto presto però si inizia a distinguere nel mondo letterario come traduttore. Passerà alla
storia come critico letterario, ma all’inizio - e anche per tutta la sua maturità - si dedicò molto alla
traduzione e all’approfondimento di opere di letteratura europea. Già da giovane produce e pubblica una
traduzione - che poi la critica successiva ha giudicato piuttosto mediocre nei risultati - di Pierre Corneille, un
tragediografo francese. Da questo possiamo già cogliere come effettivamente Baretti sia un letterato
italiano che molto spesso si applica alla letteratura italiana, ma effettivamente con un respiro molto più
ampio dei letterati del periodo, e molto proiettato verso la letteratura europea. Da giovane intraprende
una serie di lunghi viaggi di formazione e di lavoro, che lo portano a toccare i più grandi centri culturali
dell’epoca: viaggia infatti in Inghilterra - soggiorno che durò dal 1751 al 1760 -, e successivamente in
Francia, e in mete meno note e solite del periodo - in Portogallo e in Spagna. Durante questi viaggi redasse
una sorta di diario di viaggio in forma epistolare: si trattava di vere e proprie lettere spedite ai fratelli, nelle
quali narrava tutte quelle che erano le innovazioni dei paesi che visitava - innovazioni molto spesso a livello
letterario. Raccolse successivamente queste lettere e ne pubblicò anche un estratto: risulta essere una
sorta di diario di viaggio molto interessante, proprio perché l’occhio dello scrittore è particolarmente
attento a quelli che sono i fenomeni culturali - a coglierli e a proporli ai suoi fratelli, che erano rimasti in
Italia - come modelli effettivamente da seguire.
Si accosta a Torino agli studi linguistici, manifestando una precorritrice tendenza alla rivalutazione
degli scrittori “aurei” → purismo ante litteram.
Studio attento e continuato degli scritti del Francesco Berni (1497-1535) e di Luigi Pulci (1432-1484)
→ approfondita conoscenza dei meccanismi letterari del comico e del modus irruento della critica.
Quello che veramente caratterizza la sua vita è però il soggiorno in Inghilterra. Il primo soggiorno in
Inghilterra può essere collocato tra il 1751 e il 1760. Questo primo soggiorno formò Baretti ad una visione
nuova della cultura. Gli intellettuali del Settecento - mi riferisco anche ad Alfieri - videro nell’Inghilterra una
sorta di terra promessa della libertà intellettuale, nella quale erano già sorti e proliferavano i giornali e il
giornalismo. Vi era quindi una sorta di stampa libera, dove non vi era il controllo della censura e dove vi era
il diritto di opinione. Inoltre mettiamo anche in conto che l’Inghilterra era una monarchia costituzionale, di
conseguenza era svincolata dall’assolutismo che regnava nei vari paesi europei. In questo suo viaggio
Baretti entrò in contatto con tutti gli ambienti del giornalismo, e nel suo ritorno in Italia cercò di riportare
l’importanza di questa esperienza e di riproporla. Questo suo tentativo di proporre in Italia una stampa
letteraria libera, svincolata - e che potesse dire qualcosa effettivamente fuori dal coro - non andò molto
bene. Importante anche in questo viaggio fu la conoscenza con Samuel Johnson, un letterato e un critico di
ispirazione modernista, che riteneva che la letteratura dovesse essere svecchiata, e si dovesse arrivare a
una espressività letteraria che non avesse nulla a che fare con gli artifici, che fosse improntata sulla lingua
parlata e che potesse comunicare a una pluralità di soggetti. Sono tutte caratteristiche che segnarono
fortemente Baretti e che lui cercò di riproporre nella sua opera. Inoltre lui ovviamente essendo in
Inghilterra si accostò molto a quella che era la letteratura inglese, e in particolare anche a Shakespeare - del
quale imparò a conoscere le opere e fece anche alcune piccole traduzioni. In questo periodo, secondo
alcuni, Baretti campava con l’applicazione giornalistica, ma secondo altri soprattutto dando delle lezioni di
italiano agli inglesi, e compilando delle opere che fossero di supporto all’insegnamento, quindi delle
grammatiche e dei dizionari italo-inglesi.
Passiamo ad analizzare quello che è l’ambito critico del pensiero di Baretti. Tutta la critica di Baretti è
fondata su un’idea di critica come duello, come battaglia all’ultimo sangue. Si tratta di una tipologia di
critica distruttiva, e molto di rado costruttiva. Egli cerca di mettere in luce quelli che sono i difetti dei testi
che va via via recensendo, e a volte dà anche delle piccole visioni su come a suo avviso dovrebbero andare
le cose nell’Italia letterata. Ma effettivamente queste non sono così predominanti, e soprattutto non
giungono mai a formare un quadro quanto mai ampio e chiaro di quella che era la sua effettiva proposta. Di
conseguenza ci appare come una sorta di censore, di persona dedita ad indicare quelli che erano i problemi
nella letteratura contemporanea. Molto spesso il suo sguardo risulta per noi particolarmente pungente, ma
anche fondato per molti aspetti.
Per quanto riguarda i capisaldi della critica Barettiana, possiamo sottolineare la sua fortissima e pregnante
opposizione a quello che è il fenomeno dell’Accademia dell’Arcadia e di tutta la poesia Arcadica. Per
Baretti per esempio i concetti di immaginazione e di imitazione sono qualcosa di molto importante: difatti
per lui l’imitazione non doveva essere qualcosa di pedissequo, non ci si doveva assolutamente conformare
ad un unico modello e di conseguenza tutta la poesia Arcadica - che aveva un unico riferimento ideale - era
chiaramente da rigettare, anche perché era effettivamente una produzione che faceva venir meno
l’immaginazione del singolo, volendola uniformare a quello che è l’ideale proprio Arcadico.
Inoltre altro particolare importante della produzione critica di Baretti è come la sua produzione scritta non
abbia l’intenzione di rivolgersi ad un uditorio ben preciso. Lui non vuole limitare l’importanza e la possibilità
comunicativa dei suoi scritti ad una sola fascia sociale, non vuole parlare solamente ai nobili e non vuole
parlare solamente ai ceti abbienti. Al contrario tende a creare una platea molto più ampia e diversificata
di fruitori: è in buona sostanza un atteggiamento che fa presagire come a suo avviso la letteratura dovesse
essere un qualcosa teso all’utile sociale, dovesse insegnare qualcosa oltre che dare diletto. Il diletto era
fondamentale, ma bisognava dare diletto secondo alcune direttive, e soprattutto tendere a un’utilità
sociale.
La “Frusta letteraria”. È l’opera principale di Baretti, quella per cui lui è passato nell’eternità. La “Frusta
letteraria” è una rivista letteraria che ebbe in realtà una vita molto breve. Difatti le pubblicazioni di questa
rivista rimasero attive solamente per due anni, tra il 1763 e il 1765. Questa rivista - che nelle ultime edizioni
occupa due tomi abbastanza grandi - si distingue principalmente per questo ideale di critica militante, di
critica d’attacco, una vera e propria critica combattiva.
La Frusta letteraria
Rivista letteraria attiva tra il 1763-1765.
Per quanto riguarda la “Frusta letteraria” possiamo dividerne la sua breve storia in due fasi distinte. La
prima fase è la cosiddetta FASE VENETA, quando il 1° ottobre 1763 Baretti diede alle stampe il primo
numero della rivista. Lo diede alle stampe in realtà a Venezia, ponendo come finta data topica quella di
Roveredo. Si trattava all’inizio di un giornale con uscite quindicinali, ovvero di quindici giorni. Le
pubblicazioni di questa fase continuano fino al 1765, quando però due fattori vennero a decretare la
soppressione da parte delle autorità venete.
“Fase veneta”
1° ottobre 1763 - inizio della pubblicazione del giornale con indicazione del luogo di stampa come
“Roveredo” (ma in realtà Venezia).
Uscite quindicinali
Le pubblicazioni continuano fino all’inizio del 1765 quando due fattori conducono le autorità di
censura veneziane a sopprimere il giornale, vietandone la stampa su tutto il territorio veneto.
Perché la “Frusta letteraria” venne soppressa? Le cause in realtà furono due. Innanzitutto venne messa a
pretesto quella che noi vediamo come seconda causa: sulle pagine della “Frusta letteraria”, nel numero del
15 gennaio 1765, Baretti pronunciò una fortissima critica alla produzione poetica di Bembo. Bembo, che
era una sorta di mito ambulante, di mito storico per la Serenissima di Venezia, veniva sbeffeggiato come
modello imitativo di un petrarchismo non degno di essere supportato - venne preso a pretesto per la
soppressione dell’opera. Ma in realtà Baretti si era fatto troppi nemici, e questi non fecero altro che
rivolgersi alla Repubblica di Venezia proprio per richiedere la soppressione di questo giornale in virtù delle
ingiurie che riferiva. Un’altra motivazione che è alla base della soppressione del giornale è quella che
trovate alla causa numero uno, ovvero le proteste formali che Bernardo Tanucci - Segretario di Stato del
Regno di Napoli - rivolse alla Repubblica di Venezia proprio perché Giuseppe Baretti, nel suo giornale, ebbe
anche attenzione a scagliarsi contro lo Stato di Napoli, contro il Regno di Napoli, perché a suo avviso
stavano conducendo gli scavi di Ercolano e di Pompei in maniera ascientifica, in maniera assolutamente
distante da quelle che dovevano essere le caratteristiche di un’archeologia di studio, e semplicemente
mirando a depredare quelli che erano i siti da poco riemersi.
Successivamente alla soppressione della “Frusta letteraria” da parte della Repubblica di Venezia, Baretti
non si scoraggia, e si trasferisce, con poca lungimiranza, nello Stato pontificio - che non era uno stato noto
per assicurare una libertà di stampa molto ampia - e si insedia ad Ancona. È l’inizio della cosiddetta FASE
ANCONETANA della “Frusta letteraria”. È una fase in realtà molto breve, perché Baretti riprende le
pubblicazioni della sua rivista il 1° aprile 1765, arrivando a una soppressione definitiva nel luglio 1765 - è
una vita effettivamente effimera, di pochissimi mesi. La “Frusta letteraria” di questo periodo è diversa da
quella vista in precedenza. In precedenza la rivista aveva ospitato recensioni a libri più o meno recenti,
molo vari di argomento, che spaziavano dalla filosofia, alla letteratura teatrale, fino ad arrivare alla lirica o
alla storia. In questa fase invece l’intero giornale è pressocché dedicato a quella che è la polemica con
padre Appiano Buonafede.
“Fase anconetana”
Si tratta della seconda fase di pubblicazione della rivista. Baretti, a seguito del divieto di stampa sul
territorio veneto si trasferisce nello Stato Pontificio e riprende le pubblicazioni ad Ancona (ma con
falsa indicazione del luogo “Trento”).
Questa fase va dal 1° aprile 1765 sino al 15 luglio 1765.
Viene a mancare la formula veramente “giornalistica”.
Si tratta di otto numeri pressoché monotematici, occupati dalla feroce polemica con padre
Appiano Buonafede:
Noi facciamo passare la “Frusta letteraria” come totalmente opera di Baretti, ed è effettivamente così, se
vogliamo, perché il 95-97% degli articoli pubblicati nella rivista erano proprio a firma di Baretti. Ci furono
anche però degli sporadici interventi di altri autori suoi amici che pubblicarono delle recensioni sempre in
linea con quelli che erano i dettami della rivista - critica militante, d’attacco, molto feroce.
Polemica con Appiano Buonafede. Ci fa capire molto del modus operandi di Baretti, una personalità
assolutamente combattiva e che non era disposta a scendere a patti con nessuno se non con la realtà dei
fatti effettivamente. Appiano Buonafede è un poligrafo, uno scrittore molto prolifico del tardo Settecento,
che si è occupato di filosofia, teatro e versi. Nel 1754 Buonafede pubblicò un “Saggio di commedie
filosofiche” - una selezione di propri scritti di ambito teatrale -, al cui interno era contenuta un’operetta,
una commedia in particolare, e si tratta de “I filosofi fanciulli”. È una commedia che in realtà non fa
particolarmente ridere - Baretti: “non vi era un che di comico” effettivamente -, che sbeffeggiava quelli che
erano i filosofi dell’antichità, quindi Socrate, Platone, Aristotele, in nome di una sorta di ortodossia cattolica
che cercava di far primeggiare quelli che erano i grandi padri della Chiesa. Fatto sta che Baretti pubblica
sulla “Frusta letteraria” una recensione, una vera e propria stroncatura di questa raccolta di commedie, ma
non sapeva ovviamente che Appiano Buonafede era una persona piuttosto permalosa. Infatti Buonafede
ripagò la recensione di Baretti pubblicando un’altra opera a sua volta nel 1764, a dieci anni dalla
pubblicazione del “Saggio di commedie filosofiche”. Buonafede pubblicò “Il Bue pedagogo”, una raccolta di
sonetti e prose fortemente critici verso il nostro Baretti. Ovviamente Baretti non si lasciò sfuggire la
questione, e una volta riprese le pubblicazioni della “Frusta letteraria” ad Ancona si diede a una critica
violentissima contro Appiano Buonafede a tutto tondo, investendo pressocché tutte le sue opere. Questi
scritti vengono solitamente indicati come i “Discorsi fatti dall'autore della Frusta letteraria al
reverendissimo padre don Luciano Firenzuola da Comacchio autore del Bue pedagogo”, dove Baretti si
espone sotto lo pseudonimo di Aristarco Scannabue. Utilizza un modo molto interessante di nascondere sé
stesso sotto uno pseudonimo, ma di nascondere anche l’autore che sta criticando dietro un altro
pseudonimo. Buonafede a sua volta non desistette di fronte a questa bagarre, a questa querelle vera e
propria, e si adoperò in prima persona, appellandosi proprio alle autorità pontificie, per far sopprimere la
“Frusta letteraria”. Inoltre continuò anche successivamente alla soppressione del giornale ad attaccare
sistematicamente Baretti, arrivando addirittura a farlo passare per un protestante e a perseguitarlo durante
il suo esilio durante la sua permanenza in Inghilterra successivamente alla soppressione della “Frusta
letteraria”.
Nel 1754 Buonafede pubblicò il Saggio di commedie filosofiche tra le quali era presente la
commedia I filosofi fanciulli che criticava i filosofi antichi.
Baretti, a distanza di dieci anni stroncò la raccolta, priva di vera comicità e ispirata a idee filosofiche
assolutamente inconsistenti.
Buonafede rispose indirizzando contro Baretti Il Bue pedagogo (1764), una raccolta di sonetti e
prose fortemente critici.
Baretti rispose nuovamente con una serie di articoli intitolati Discorsi fatti dall'autore della Frusta
letteraria al reverendissimo padre don Luciano Firenzuola da Comacchio autore del Bue pedagogo,
dove rispondeva sistematicamente alle accuse, e soprattutto sbeffeggiava Buonafede.
Buonafede si adoperò per far sopprimere allo Stato Pontificio la Frusta e continuò a perseguitare
Baretti anche quando questi si traferì in Inghilterra.
Analisi della “Frusta letteraria”. La “Frusta letteraria”, come altre opere del Settecento di critica letteraria e
come anche altri giornali, presenta una ben costruita cornice narrativa entro la quale vengono inserite le
recensioni ai libri. Abbiamo quindi questo personaggio principale di questa storia, ovvero Aristarco
Scannabue - anche in questo caso il nome non è assolutamente casuale: Aristarco è un nome che rimanda
direttamente all’antichità, dove si definivano tali coloro che andavano a fare le pulci a tutte le diverse
opere; Scannabue passa da solo come significato, non è un cognome decisamente solito, e soprattutto
implica questa idea di grande ferocia, di grande forza. Aristarco Scannabue scrive diverse recensioni di libri
che gli vengono somministrati da un suo amico, un prelato in realtà, e tramite questo rapporto tra i due si
protrae la cornice narrativa dell’opera, entro la quale si inseriscono le varie recensioni. Per una conoscenza
più precisa della cornice narrativa, è necessario leggere il testo 1 dei nostri files, e ad analizzarlo con occhio
molto attento, prestando soprattutto attenzione a quello che è il lessico che utilizza Baretti - utilizza un
lessico particolarissimo. Per quanto riguarda le linee generali della critica di Baretti, dobbiamo sottolineare
come l’interesse predominante di Baretti non sia tanto nello sbeffeggiare quelli che sono i poeti del suo
periodo - forse credeva in realtà che fosse una battaglia quasi persa -, ma si concentra con molto più acume
sulla prosa, e questo effettivamente è una spia della sua intelligenza rispetto a un problema ben preciso del
Sette-Ottocento, ovvero la prosa scientifica - una prosa moderna, che effettivamente era qualcosa di là da
venire, che non si aveva, ma era qualcosa di strettamente necessario per l’evoluzione culturale del paese.
Anche La Frusta letteraria, come anche altre opere periodiche dello stesso periodo (ma anche le
Lettere virgiliane), presenta una cornice narrativa:
Il personaggio di Aristarco Scannabue alias Giuseppe Baretti.
Per la cornice narrativa leggere il testo 1.
Inoltre nella “Frusta letteraria” troviamo alcuni temi costanti, come la polemica riguardo al “verso sciolto” -
ad esempio in uno degli ultimi testi delle nostre slides, potremo trovare un esempio di critica positiva, uno
dei rari casi in cui Baretti effettivamente si pronuncia positivamente su un autore. Non si tratta di un autore
qualsiasi, ma si tratta di Giuseppe Parini de “Il mattino”. In questo caso le lodi sono assolutamente enormi
riguardo a stile e a contenuti, ma ovviamente non perde occasione per scagliarsi contro Parini per un
particolare, ovvero l’adozione di un verso non rimante nella sua prosa. Baretti, che come vediamo ci si sta
proponendo come un grandissimo innovatore, è in realtà un grande conservatore sotto certi aspetti, e tra
questi alcuni particolari aspetti della poesia, come la rima, sono secondo lui indissolubili nella letteratura
italiana, non possono essere né trascurati né innovati. La sua approvazione va soprattutto per poeti
spontanei, poeti innovatori - come Giuseppe Parini - e poeti alieni, lontani da costruzioni poetiche
complesse. In questo caso per costruzioni poetiche complesse bisogna pensare all’Arcadia, che pretendeva
di celarsi dietro tutto un costume antico - lo dice anche Baretti -, le pastorellerie, ovvero fingersi dei pastori
arcadici dell’antica Grecia. Baretti critica tutto ciò perché in effetti non porta ad altro che a disimpegno, per
lui la letteratura dev’essere sempre un qualcosa di utile e sociale: nel celarsi dietro pseudonimi arcadici, ma
anche dietro a situazioni fittizie, non si otterrebbe nessun tipo di bene sociale se non l’intrattenimento.
Questa predilezione per poeti spontanei e per poeti lontani da costruzioni poetiche ben complesse è un
aspetto che lo ricollega alla figura di Samuel Johnson, un suo conoscente durante il periodo inglese.
Tendenze più note in Baretti. Troviamo da un lato l’esaltazione di una prosa, come ad esempio quella di
Cellini - che era un artista, non un letterato di professione -, che nei suoi scritti profuse un tipo di prosa
particolarmente efficace e particolarmente vicino a quello che era il parlato. Inoltre troviamo una costante
denigrazione e aggressione a quelle che sono le forme letterarie troppo irruenti e troppo forti, come ad
esempio quella del teatro comico proposto da Goldoni. Al contrario apprezza delle riforme che siano
comunque in linea con quella che è la tradizione, come quella di Metastasio. Metastasio fu un grandissimo
innovatore del teatro e del melodramma - con melodramma si intende mélos e drama, quindi una sorta di
tragedia cantata, un qualcosa di molto simile alla nostra tragedia lirica -, continuatore di quella che era
stata una prima riforma portata avanti da Apostolo Zeno, e di conseguenza viene ovviamente approvato
come autore.
Quello che abbiamo già detto riguardo Parini e riguardo Baretti è un fattore molto importante, perché
Baretti fu uno dei primissimi autori ad apprezzare, a stimare in maniera decisamente ampia Giuseppe
Parini. Inoltre abbiamo già detto vi è questa costante critica per l’adozione del “verso sciolto”, che a suo
avviso era qualcosa di degenere, ma che in realtà nella poesia del Settecento si caratterizza come una vera
e propria innovazione. L’adozione del “verso sciolto” era un qualcosa che, se Baretti avesse ragionato
meglio, gli sarebbe andata molto a genio, perché portava la poesia lontana da quelli che erano i dettami
dell’Arcadia, e cercava di riprodurre sonorità e modalità letterarie molto più vicine a quelli che erano i
classici antichi, e di prendere il posto di quelli che appunto erano stati gli esametri latini - l’endecasillabo
sciolto per esempio venne utilizzato per poemi didascalici, per poemetti, per poemi veri e propri. Fu un
verso molto duttile che segnò uno scarto vero e proprio all’interno della nostra letteratura.
Giudizi - Baretti.
Dobbiamo sottolineare un ultimo aspetto, il fatto che Baretti presti particolare attenzione a quella che è la
prosa, e soprattutto a questioni di stile e di retorica. Infatti Baretti era anche molto capace di distinguere
quello che era il proprio giudizio rispetto a un giudizio formale - rivolto solo alla forma delle opere
letterarie - e a uno contenutistico. Era infatti perfettamente capace - e lo fa in moltissimi casi - di
apprezzare da un lato la forma e denigrare il contenuto, e dall’altro di apprezzare il contenuto e denigrare
la forma. Un esempio molto noto è quello di una recensione ad Antonio Genovesi, che aveva scritto un
libro, “Meditazioni filosofiche”, a suo dire ottimo a livello di contenuti, che portava una ventata di novità
nell’ambito della filosofia. Ma l’apprezzamento del contenuto non vieta Baretti di pronunciarsi molto
criticamente contro quello che era lo stile dell’opera, che gli sembrò “intralciato e rigirato sì che non poche
volte abbuia il pensiero”. Baretti si stava rendendo conto di una problematica molto forte: l’Italia non aveva
una prosa moderna, ci si rifaceva a modelli del tardo Cinquecento, peggio ancora del Seicento, che non
permettevano un’espressività quanto mai degna. Ovviamente vi erano altri modelli su piazza della prosa,
come ad esempio la prosa dell’Illuminismo, ma Baretti era in questo un conservatore, e non approvando
questo rigettava anche le opere prodotte dagli Illuministi.
Nella precedente lezione ci siamo lasciati con una figura di Baretti come uno scrittore del tutto moderno,
molto innovatore riguardo alla critica e alla letteratura. Ma in effetti parlare di Baretti come un modernista
è quanto mai deviante e non del tutto veritiero. La figura di Baretti è stata molto spesso inquadrata come
quella di un innovatore, ma è pur vero che all’interno della sua opera permangono delle tendenze di molto
chiaro conservatorismo. Infatti questa sua tendenza all’innovazione è comunque controbilanciata da una
netta e fortissima opposizione alle idee moderne, quali ad esempio l’Illuminismo, che infatti lui rifugge
totalmente. Nella sua opera convivono ad esempio alcune tendenze che ci portano ad inquadrarlo come un
vero e proprio conservatore, come il suo atteggiamento verso la religione cattolica - un atteggiamento di
totale difesa dell’ortodossia cattolica. Allo stesso tempo se Baretti si scaglia contro alcuni tentativi moderni
della letteratura, come ad esempio quella Arcadica, noi possiamo vedere come in altri casi lui si opponga a
innovazioni - innovazioni che per altro furono benemerite a livello letterario, come quelle proposte da
Goldoni nell’ambito delle innovazioni letterarie in ambito teatrale, dove Goldoni propone un superamento
della Commedia dell’Arte e di quelle che erano le maschere fisse all’interno del teatro. Secondo Baretti
questa era una degenerazione di una vera e propria tradizione italiana, che aveva portato l’Italia ad avere
un netto primato a livello Europeo nelle rappresentazioni teatrali.
Inoltre, per quanto riguarda sempre il discorso sulla letteratura, Baretti insiste in maniera costante su quella
che è la necessità di indipendenza del letterato, e di indipendenza soprattutto di quelli che sono i canoni di
imitazione. Baretti non credeva che i letterati, o comunque la letteratura, dovessero avere modelli univoci e
proprio per questo si scaglia contro l’Accademia dell’Arcadia, per la sua funzione di normativa. L’Accademia
dell’Arcadia prescriveva l’utilizzo di alcune figure, di alcune metafore fisse, come il ricorso alla tipologia
Arcadica dei testi e il riallacciarsi ad immagini e a un complesso mondo immaginifico proprio per esplicare
quella che è la funzione poetica. E per Baretti ovviamente tutto ciò non andava bene. Allo stesso modo
Baretti però si scaglia contro coloro i quali ad esempio volevano perseguire un modello di poesia basato su
Petrarca e sul petrarchismo cinquecentesco.
Questa tendenza “modernista” e di “innovazione” verso lo stile e la prosa non implica però
un’apertura altrettanto ampia verso le idee moderne (Illuminismo etc).
Fermissima difesa dell’ortodossia cattolica.
Opposizione alle riforme letterarie (vd. ad es. Goldoni).
Propagazione dell’idea della necessità di indipendenza del letterato che deve sempre e comunque
evitare il processo di omologazione (vd. ad es. Arcadia).
Citazione tratta dal “Discorso sopra lo stato presente degli italiani”, Giacomo Leopardi.
Discorso tratto dal “Discorso sopra lo stato presente degli italiani”, Giacomo Leopardi. Per comprendere
quanto i giudizi di Baretti siano stati differenti nel corso dei vari periodi della nostra letteratura, vi ho
riportato una breve citazione tratta dal “Discorso sopra lo stato presente degli italiani” di Giacomo Leopardi
(slide 5), un discorso probabilmente scritto nel 1824. In questo passaggio Leopardi giudica proprio quella
che è la figura di Giuseppe Baretti, partendo in generale.
“Gl'italiani stessi non iscrivono nè pensano sui loro costumi, come sopra niun'altra cosa che importi e giovi
ad essi o agli altri: eccetto forse il solo Baretti, spirito in gran parte altrettanto falso che originale, e
stemperato nel dir male, e poco intento o certo poco atto a giovare, e sì per la singolarità del suo modo di
pensare e vedere, benché questa niente affettata, sì per la sua decisa inclinazione a sparlare di tutto, e il
suo carattere aspro e iracondo verso tutti, il più delle volte alieno dal vero.”.
Gli italiani non scrivono e non riflettono sui propri costumi. Baretti sarebbe l’unico ad essersi soffermato sul
pensare e scrivere sui costumi degli italiani. Secondo Leopardi, Baretti è uno “{…} spirito in gran parte
altrettanto falso che originale, e stemperato nel dir male, e poco intento o certo poco atto a giovare {…}” -
per cui decisamente propenso nel dire male, e poco o quasi per nulla atto a giovare. Non vi è una funzione
positiva della sua critica, ma solo una funzione distruttiva. Ancora “{…} per la sua decisa inclinazione a
sparlare di tutto, e il suo carattere aspro e iracondo verso tutti {…}”, come se Baretti non avesse la capacità
di cogliere ad esempio il bene che vi potesse essere in alcune opere letterarie, e in alcune tendenze
letterarie. Proprio a tale riguardo sarà il caso di cercare di inquadrare un po’ meglio quella che è
l’Accademia dell’Arcadia, proprio perché basandocisi soltanto su ciò che è stato letto o che leggeremo,
secondo la critica di Baretti sembrerebbe che l’Arcadia sia stata un fallimento totale, e anzi una
degenerazione totale della letteratura (2° testo del pdf).
Giudizio di Leopardi
Testo 2 del pdf - “Memorie Istoriche dell’Adunanza degli Arcadi di M[ichele] G[iuseppe] M[orei] custode
generale d’Arcadia”.
Testo 2 del pdf - “Memorie Istoriche dell’Adunanza degli Arcadi di M[ichele] G[iuseppe] M[orei] custode
generale d’Arcadia”. Si tratta di una recensione molto dura rivolta a un’opera effettivamente importante,
un’opera storica scritta nel 1861 da un personaggio molto importante. Michele Giuseppe Morei fu il terzo
custode dell’Arcadia, persona ben addentro quelle che erano le dinamiche Arcadiche. In questa recensione
Baretti va a distruggere non solo quella che è l’opera di Morei, ma anche effettivamente quella che è
l’Arcadia in sé. Non bisogna correre il rischio di appiattire il nostro giudizio su quello di Baretti, perché in
effetti l’Arcadia fu un fenomeno quanto mai complesso e diversificato, e anche lodevole per molti aspetti.
Il 5 ottobre 1690 quattordici letterati, facenti già parte dell’Accademia Reale di Cristina di Svezia (…)
si riunirono con il fine di fondare una nuova Accademia.
Tra questi quattordici, i più noti letterati erano:
Giovan Mario Crescimbeni
Gian Vincenzo Gravina
Si tramanda che dopo la recita di alcune poesie di argomento pastorale, uno dei quattordici
(Agostino Maria Taja) abbia esclamato: “Egli sembra che noi oggi abbiamo rinnovata l’Arcadia!”.
Nei mesi successivi l’Accademia venne strutturata in maniera molto rigida, addirittura dotandola di un
sistema di leggi. Nelle slides è possibile leggere un testo tratto da uno scrittore, Moroni, del 1852. Si tratta
di uno scritto storico riguardante l’Accademia dell’Arcadia, che tratta in particolar modo le vicissitudini e i
momenti della sua fondazione.
“I fondatori, grandi uomini, della benemerita e celebre Accademia d'Arcadia ebbero per principal scopo nel
prendere i nomi e gli usi de' greci pastori e persino il loro calendario, di romper guerra alle gonfiezze del
secolo, e ritornare la poesia italiana per mezzo della pastorale alle pure e belle sue forme. Fingendosi
pastori, immaginandosi di vivere nelle campagne, bandito ogni fasto, tolto fra loro ogni titolo di
preminenza, studiando ne' classici greci, latini, e italiani, vennero naturalmente da sé stesse a cadere quelle
ampollose metafore, que’ stravolti concetti, e quello smodato lusso di erudizione, che formava la delizia non
de' poeti soltanto, ma eziandio de' più applauditi oratori sagri, e su cui stoltamente si riponeva la sede del
sublime e del bello.” [Moroni 1852.].
Parlando appunto della fondazione dell’Accademia dell’Arcadia, dobbiamo parlare di come l’Accademia
sentì molto presto il bisogno di dotarsi di un codice di leggi fisse, che potessero regolare quelli che erano gli
intenti, le finalità e la vita interna dell’Accademia. La scrittura di queste leggi venne affidata a Gian Vincenzo
Gravina, un letterato di primissimo piano della Roma del periodo, un letterato di ambito classicista, un
classicista oltranzista che si occupò molto di teatro e anche di teoria della letteratura. Fatto sta che Gian
Vincenzo Gravina il 20 maggio 1696 - a sei anni grosso modo dalla fondazione dell’Accademia stessa - lesse
durante una riunione plenaria dell’Accademia ai propri “compastori” - si chiamavano così tra di loro -
queste leggi, scritte in un latino arcaico. Il corpus di leggi inventato da Gian Vincenzo Gravina è poco utile in
questo momento per ricostruire quella che fu l’Accademia dell’Arcadia, proprio perché erano delle leggi
molto generali.
Ma importanti in questo momento per noi sono due leggi in particolare, la numero 7 e la numero 8. Nella
numero 7 venivano bandite da novero delle produzioni approvate dall’Accademia dell’Arcadia tutti quei
carmi che fossero o osceni, o licenziosi, o irreligiosi, e anche tutti i libelli diffamatori. Questo perché
l’Accademia dell’Arcadia nasceva a Roma, capitale dello Stato pontificio e sede papale, e l’Accademia
dell’Arcadia venne sempre benedetta in realtà da quello che era il potere della Chiesa, proprio perché
permetteva di tenere sotto controllo tutto il mondo culturale, e di conseguenza ovviamente carmi irreligiosi
a Roma non potevano essere né stampati, né tantomeno legittimati dall’Accademia. Allo stesso modo
anche i carmi osceni e licenziosi, ma anche i libelli diffamatori - ovvero libri che potessero diffamare
qualcuno. Questo perché l’Accademia ebbe sempre ben presente un concetto, ovvero quello di unione tra i
suoi pastori, di unione e di condivisione, e di conseguenza dei libretti di diffamazione sarebbero andati ad
intaccare quell’ideale di condivisione e di amore fraterno.
L’8° legge in realtà è importante perché introduceva e prescriveva la necessità di osservare rigorosamente
quelli che erano i costumi pastorali durante l’adunanza dell’Arcadia. Era legge dell’Accademia quindi che
chiunque venisse ascritto, registrato nelle liste degli accademici, dovesse spogliarsi del proprio nome e
assumere un nome arcadico, un nome che facesse riferimento a tutta la terminologia pastorale messa su da
diversi poeti e da diversi letterati - Teocrito e tutta la poesia idilliaca greca, ma anche ad esempio Jacopo
Sannazaro, che scrisse “L’Arcadia”, opera di riferimento costante per tutta l’Accademia. Questo fa capire
anche un’altra cosa molto importante: l’attenzione che Gian Vincenzo Gravina dava a quelle che erano le
adunanze, ovvero le riunioni dell’Arcadia, non è un fattore casuale. L’Accademia dell’Arcadia fu infatti un
fenomeno corporativo - ci si riuniva in ben determinate occasioni per recitare i propri carmi. Questo andò
nel corso del tempo a disfavore di quella che è la produzione scritta e pubblicata. Difatti l’Arcadia era un
momento di aggregazione, ed era molto importante questo più che la pubblicazione effettiva degli scritti
degli Arcadi. Era un momento di condivisione fisica, e bisognava essere presenti effettivamente.
Si sentì presto il bisogno di fissare le regole della nuova accademia in un codice di leggi fisse che
regolasse gli intenti e le finalità dell’Accademia, lo svolgimento delle adunanze, la ritualità etc.
La stesura venne affidata a Gian Vincenzo Gravina che le lesse ai “compastori” il 20 maggio 1696.
Si trattava di un codice di leggi piuttosto generiche, tra le quali, ai fini dello studio della letteratura,
appaiono particolarmente importanti due articoli:
la legge n.° 7 con la quale si bandivano i carmi osceni, licenziosi, irreligiosi o i libelli diffamatori.
la legge n.° 8 con la quale si prescriveva l’osservanza rigorosa dei costumi pastorali nelle adunane
dell’Arcadia.
L’Accademia dell’Arcadia.
Fatto sta che l’Accademia dell’Arcadia in breve tempo divenne un vero e proprio movimento letterario,
movimento letterario che si diffuse con una rapidità impressionante su tutto il suolo italiano, tramite la
fondazione di numerose “colonie”.
Nelle più grandi città, ma anche nelle più piccole, i letterati vennero a fondare delle “colonie”, che
riproponevano quelli che erano gli ideali dell’Arcadia e le sue usanze, dotandosi di nomi pastorali e
producendo una poesia ‘di intrattenimento’. Inoltre fu in buona sostanza una scuola di pensiero, sia
letterario, ma più in realtà filosofico, che si ispirava in maniera lata al razionalismo. Questo aspetto
filosofico dell’Arcadia verrà messo in luce in maniera molto chiara e lucida finanche da Benedetto Croce -
per quanto riguarda l’Arcadia, Benedetto Croce ha segnato un vero e proprio punto di snodo nel pensiero
critico rivolto a questa accademia.
Il significato vero dell’Accademia dell’Arcadia va cercato oltre quello che è il cerimoniale arcadico, oltre
queste usanze di vestirsi molto spesso da pastori e di darsi un nome pastorale. Va cercato effettivamente
oltre, in un mondo culturale che dopo la fine del Barocco si trovò effettivamente spaesato, e proprio nella
fondazione dell’Accademia dell’Arcadia trovò un modo di rivitalizzarsi e di depurarsi da quelle che erano le
degenerazioni del Barocco.
Il significato vero dell’istituzione e della vita dell’Accademia va però cercato oltre il cerimoniale
arcadico.
Sia la fondazione a Roma, ma anche e soprattutto la velocissima nascita di numerose “colonie”
(altre sedi decentrate dell’Accademia) si iscrivono negli intenti di una politica culturale
accentratrice e controllata dalla Curia pontificia.
Di fatti l’Accademia dell’Arcadia sin da subito venne a contrapporsi in maniera molto netta a quello che era
stato il Barocco. Il Barocco viene infatti a connaturarsi come l’emblema del cattivo gusto, e soprattutto
l’emblema dell’artificiosità estrema. L’Accademia al contrario voleva far di sé un emblema della semplicità,
e effettivamente almeno da principio questo principio riuscì soprattutto a livello letterario, perché vennero
bandite dalle produzioni arcadiche l’utilizzo di troppe metafore, l’utilizzo di parole troppo ricercate, e anche
l’utilizzo di una metrica particolarmente difficile e ricercata.
Difatti l’Arcadia venne a restaurare la predominanza di alcune forme metriche, come ad esempio il sonetto,
la canzone, e soprattutto quella che fu la sua gloria, ovvero la canzonetta anche detta ‘arcadica’ - ovvero le
canzonette anacreontiche, che si rifacevano proprio alla poesia di un lirico greco in particolare, Anacreonte,
che trattavano di argomenti molto semplici, come la bellezza della vita, la brevità della vita, ma anche i
convivi e le adunanze, le riunioni di persone valide. Sono tutti temi che ritroveremo particolarmente cari a
tutto il Settecento e soprattutto all’Arcadia, anche nelle narrazioni riguardo all’amore e riguardo ai
sentimenti.
Nodo centrale per l’Arcadia era la contrapposizione netta al Barocco e alla civiltà letteraria del
Seicento, giudicata vuota, dominata dal “cattivo gusto” e soprattutto artificiosa.
Si imponeva quindi la necessità di una riforma radicale della letteratura e della cultura, che si
fondasse (in generale) su un rinnovato classicismo e sull’adozione di soluzioni letterarie,
linguistiche che mirassero alla semplicità.
L’Accademia sintetizzatavi le sue tendenze alla semplicità e al ritorno alle “origini” dietro una
terminologia e una serie di usanze ispirate alla simbologia classica dei pastori-poeti della sperduta
regione greca dell’Arcadia (terra feroce e nell’immaginario greco, rimasta isolata e arretrata, con
stili di vita semplici e lontani da ogni tipo di lusso e affettazione).
Queste due tendenze non erano minimamente conciliabili, e si arrivò molto presto a uno scisma: da un lato
rimase l’Accademia dell’Arcadia, che venne proprio ad avere Crescimbeni come suo presidente o, nel gergo
accademico dell’Arcadia, come suo ‘custode’ o come suo ‘primo custode’; dall’altro Gravina si staccò con
alcuni suoi personaggi e fondò l’Accademia dei Quirini. L’Accademia dei Quirini non ebbe una vita prolifica
e lunga come quella dell’Arcadia, che in realtà è ancora oggi viva - ha mutato forma, non produce più
poesia ma produce cultura.
Sin da subito si crearono però delle difficoltà e degli attriti tra gli Arcadi sul modo di ottenere questo
cambiamento letterario e culturale. Le due fazioni facevano capo ai due più importanti soci
fondatori:
Gian Vincenzo Gravina: fautore di un classicismo integrale e autentico, di una poetica mitico-
didascalica che doveva scegliere i propri modelli tra i greci antichi e Dante. Un rinnovamento quindi
che tornasse alle origini della poesia antica e della poesia italiana, invertendo quindi la rotta in
maniera radicale.
Giovan Mario Crescimbeni: fautore di un classicismo più morbido, che si ricollegasse all’esperienza
del petrarchismo cinquecentesco e all’anacreontismo di Gabriello Chiabrera per formare quindi
un ideale poetico centrato sull’ideale della “leggiadria”, sull’evidenza chiara e ragionevole, su un
moderato realismo.
Ne nacque uno scisma, che portò Gravina a fondare l’Accademia dei Quirini, e l’Arcadia a
intraprendere la via indicata da Crescimbeni.
Testo n.3 delle fotocopie. Benedetto Croce, “L’Arcadia e la poesia del Settecento”, in “La letteratura
italiana del Settecento”. Slide 16.
“La ripresa fu segnata da una rivoluzione, non certamente poetica, ma letteraria e stilistica, della poi tanto
spregiata e irrisa Arcadia, cioè dal bisogno di scrivere in modo semplice e modesto. [La ripresa fu segnata]
dall'abbandono della scolastica [filos. medievale] e del peripatismo [aristotelismo], e delle grossolane
credenze di ogni sorta, per le scienze di osservazione e per le matematiche e per la filosofia; dalle indagini
storiche sul passato d'Italia, e in primo luogo sulla storia della letteratura italiana.”.
“La ripresa fu segnata da una rivoluzione, non certamente poetica, ma letteraria e stilistica, della poi tanto
spregiata e irrisa Arcadia, cioè dal bisogno di scrivere in modo semplice e modesto. {…}”. Secondo
Benedetto Croce l’Accademia dell’Arcadia segnò veramente un momento di ripresa nella letteratura ma
anche nella vita civile effettivamente, e fu un momento di ripresa “non certamente poetica, ma letteraria e
stilistica”, proprio perché le persone sentivano il bisogno di liberarsi dagli eccessi del Barocco e iniziare a
scrivere “in modo semplice e modesto”. Però Benedetto Croce parla di un’innovazione “non certamente
poetica, ma letteraria e stilistica”. Che cosa significa? È qui necessario intenderci un po’ meglio su quello
che è il gergo tipico di Benedetto Croce - ultime slide riguardanti il testo n.3. Il testo n.3 è un testo molto
importante nell’ambito della produzione di Benedetto Croce, è un testo nato in occasione di una
conferenza che Croce stesso tenne in una data molto importante, il 24 novembre 1945. È la data di caduta
del governo Parri, ma è bene ricordare soprattutto cosa fu la data del 25 novembre 1945, il giorno della
liberazione. Si tratta di un discorso che doveva inaugurare il nuovo anno accademico dell’Arcadia, e in
realtà Croce trova una sorta di collegamento ideale tra quella che è la nascita dell’Arcadia e la rinascita
dell’Italia dopo la guerra.
Dobbiamo però chiarire una cosa: secondo Croce l’Accademia dell’Arcadia fu fenomeno totalmente positivo
nell’ambito della nostra storia letteraria, ma non fu un fenomeno poetico, bensì letterario. Dopo il 1936
Benedetto Croce rivide quelle che erano le sue teorizzazioni estetiche - il 1936 è l’anno di pubblicazione di
un’opera fondamentale, “La poesia”. All’interno di quest’opera Croce non parlerà più di poesia e non-
poesia, che erano stati i due canoni fondamentali della sua estetica - da un lato vi è un’espressione poetica,
dall’altro un’espressione non-poetica, e quini non degna di attenzione. Dal 1936 invece si farà largo questa
nuova teorizzazione, con la divisione tra poesia da un lato e letteratura dall’altro. La poesia è il momento in
cui il poeta riesce a raggiungere il massimo grado dell’espressione dell’io poetico delle proprie idee,
un’espressione che è unanimemente comprensibile e unanimemente può essere colta dai lettori. Al
contrario la letteratura è un momento più basso della poesia, dove il poeta o comunque il letterato non
riesce a raggiungere una condivisione così ampia dei propri concetti - non sono concetti che raggiungono la
piena condivisibilità e la piena comprensibilità da parte dei lettori -, ma allo stesso tempo è un momento
importante a livello storico, perché è segno di una ben determinata civiltà o di un ben determinato periodo.
L’Arcadia appunto sarebbe letteratura, e di conseguenza studiabile come una sorta di fenomeno di
costume.
La Critica di Croce post 1936 (dopo quindi la pubblicazione de La Poesia) vede l’introduzione di due
concetti distinti per inquadrare i diversi fenomeni letterari:
La poesia -> testi in prosa e versi dove l’artista è riuscito a trasfondere completamente la propria
idea con risultati di piena artisticità.
La letteratura -> testi in prosa e versi che non raggiungono la pienezza dell’esposizione (la totalità)
tipica della poesia, ma che fanno comunque parte di un bagaglio culturale importante e degno di
essere studiato. Il concetto di letteratura viene a mitigare la teoria precedente della “non poesia”
vista negativamente e - in linea teorica - non valevole di approfondimenti da parte del critico e
dell’estetica.
L’Arcadia sarebbe quindi un fenomeno letterario e assolutamente non poetico, che però ha
caratterizzato un lungo periodo della cultura, raccogliendo al suo interno moltissime espressioni
singoli che non raggiunsero le vette totalizzanti della poesia, ma che sono comunque degne di
essere studiate e approfondite.
Tentare un riassunto del testo di Benedetto Croce. Secondo lui l’Accademia dell’Arcadia era un movimento
nato in seno al razionalismo europeo - una tendenza ideologica che cerca di vedere la mente umana come
la fonte di ogni conoscenza. Successivamente Benedetto Croce tende a dire che in Italia questo
razionalismo venne a manifestarsi proprio nell’Accademia dell’Arcadia, mentre in Francia e in Inghilterra
ebbe altre forme. A chi sta alludendo? Per quanto riguarda la Francia ovviamente a Cartesio, per quanto
riguarda l’Inghilterra a Bacon, ma anche successivamente a Newton.
Pierre-Louis Ginguené fu un francese nato a Rennes, in Bretagna, il 27 aprile 1748, e morto a Parigi l’11
novembre 1815. La sua vita è molto interessante, rende l’idea di un intellettuale francese della fine del
Settecento e dell’inizio dell’Ottocento, che si trova a dover fronteggiare cambiamenti non solo a livello
letterario, ma anche a livello politico - sappiamo infatti che la fine del Settecento è segnata dalla
Rivoluzione Francese, e della Rivoluzione Francese Ginguené fu in qualche modo un attore, non uno dei
principali ma sicuramente uno di loro. Nasce nel 1748 e inizia i suoi studi nelle Scuole Gesuitiche - altro
intellettuale segnato a questo iter fondamentale di apprendistato presso la Compagnia del Gesù.
Successivamente, ma già da molto giovane, si accosta alla critica letteraria, stendendo degli articoli di critica
su autori contemporanei. Nel mentre si dà anche alla produzione letteraria vera e propria, di fatti compose
numerosi libretti di opere buffe, destinate al teatro - l’opera buffa è un genere teatrale a metà strada tra la
commedia e l’opera lirica, un genere piuttosto ibrido. Fin da subito, una volta trasferitosi a Parigi, entra in
contatto con i circoli letterari e culturali più importanti del periodo, nella fattispecie diventa amico con gli
Illuministi del periodo, e più in particolare entra in contatto con quello che è l’ambiente
dell’“Encyclopédie”, degli ‘enciclopedisti’, e in particolar modo con Dorset (??).
Proprio questa sua presenza a Parigi e questa sua presenza all’interno dei circoli culturali più importanti
decreta in buona sostanza un suo impegno anche sul versante politico. Siamo ormai alla fine della
Rivoluzione Francese, e Ginguené appoggia in realtà le prime fasi della Rivoluzione Francese, le fasi più
moderate della Rivoluzione, quelle tese a un cambiamento in qualche modo rispettoso dell’ordine sociale
già preesistente. Proprio questa sua posizione di moderato lo rese inviso alle fazioni più estremiste della
Rivoluzione Francese. Infatti Ginguené durante la fase del cosiddetto “Regime del Terrore”, anche
soprattutto grazie a Robespierre, venne imprigionato, e rimase in prigione per parecchio tempo, fin quado
Robespierre e il suo governo non cadde e di conseguenza Ginguené venne liberato. Una volta finita la fase
del “Terrore”, al contrario l’ascesa politica di Ginguené è netta, proprio perché viene inviato nel 1797 dal
“Direttorio” a Torino, e viene inviato come plenipotenziario, quindi come una sorta di inviato, di
ambasciatore con pieni poteri esecutivi, e quindi viene inviato alla corte dei Savoia. Questa è una fase
particolarmente importante ai nostri fini di studio perché, benché si renda inviso e non venga ben accolto a
Torino proprio per la sua forza, stringe alcuni legami culturali con l’Italia, e soprattutto con esponenti
dell’ambiente letterario italiano, che saranno fondamentali nel proseguo della sua attività come critico
letterario.
Noi ricordiamo Ginguené per la pubblicazione di un’opera in particolare - fu uno scrittore molto attivo, ma
noi lo ricorderemo soprattutto per l’“Histoire littéraire d’Italie”. È un’opera che possiamo collocare tra il
1811 e il 1815/18. È un’opera in dieci volumi, quindi ancora una volta un’opera molto ampia, di cui però
solamente una parte è attribuibile direttamente a Ginguené. Infatti i volumi I-VI, che escono tra il 1811 e il
1815, sono scritti integralmente da Ginguené, mentre i volumi VII-X vengono composti da Ginguené ma
anche in collaborazione con Franco Salfi, che era un letterato italiano. L’ultimo volume, il X, è interamente
scritto da Franco Salfi. Successivamente quest’opera ebbe un’enorme diffusione, e questa diffusione e
questa fortuna ci sono testimoniate non solo da numerose ristampe a livello francese, ma anche da
numerose edizioni a livello italiano.
L’“Histoire littéraire d’Italie”.
Infatti già tra il 1823 e il 1825 un italiano, Benedetto Perotti, pubblica una ristampa dell’“Histoire littéraire
d’Italie”, ma per favorirne un’ulteriore circolazione in territorio italiano, la traduce integralmente. Questa
opera venne vista in maniera estremamente veloce come un nuovo punto di rifermento, un nuovo punto di
riferimento letterario che potesse sostituire in qualche modo l’opera della “Storia della letteratura italiana”
di Tiraboschi. E difatti quest’opera continua quella tradizione storiografica che già c’era prima di Tiraboschi -
e che viene anzi non ben vista da Tiraboschi - di studiosi della letteratura italiana non italiani, ma francesi, o
comunque extra montani, quindi stranieri. In questo caso dell’“Histoire littéraire d’Italie” presenta però
delle innovazioni che non possono essere tralasciate nel lungo percorso della storia delle storie letterarie.
– Traduzione di Benedetto Perotti edita 1823-1825 a Milano, e inoltre, altre edizioni e ristampe attestate a
Napoli e Venezia.
L'opera si afferma velocemente come un punto di riferimento innovativo alla materia letteraria.
Infatti noi ricordiamo questa storia della letteratura per alcuni aspetti in particolare: innanzitutto l’opera di
Ginguené non è un’opera fondamentalmente erudita, non ha l’intenzione di proporre nuovi dati, nuovi
accertamenti sui fatti storici letterari - cosa che era invece una delle principali preoccupazioni di Tiraboschi,
che appunto diceva di voler produrre un’opera storica, e di conseguenza basata su dati accertati e
verificabili. Per Ginguené non è questa la preoccupazione principale, il suo obiettivo è quello di esercitare
un’opera di critica letteraria sulla nostra letteratura, e quindi superare quella che era la fase erudita di
Tiraboschi. Eppure il modello di Tiraboschi, e quindi della “Storia della letteratura italiana” di Tiraboschi, è
ben visibile in controluce nell’opera di Ginguené. Di fatti lo vediamo tramite alcuni clamorosi, in realtà
anche normali sfruttamenti dell’opera di Tiraboschi, ma lo vediamo anche nella concezione generale
dell’opera, nella forma dell’opera, e di fatti Ginguené, proprio in continuazione di un motivo che era tipico
della “Storia della letteratura italiana” di Tiraboschi, concede una grande importanza a quello che è il
fattore cultuale, e quindi l‘influenza della cultura e della società sulla letteratura.
Vi ricorderete che Tiraboschi dava una decisa importanza a questo fattore, e narrava la storia culturale
dell’Italia separata dalla storia della letteratura - vi erano quei lunghi capitoli introduttivi alla “Storia della
letteratura italiana”, nei quali Tiraboschi non solo ripercorreva la storia propriamente d’Italia, ma
ripercorreva anche la storia politica e la storia culturale, ovvero la storia degli istituti culturali, delle
biblioteche, degli archivi e della ricerca propriamente. In questo caso Ginguené cerca per la prima volta di
fondere i due fattori, proprio per generare un giudizio molto più ampio, molto più approfondito, mettendo
in correlazione diretta l’espressione letteraria con il fattore socio-culturale.
Quello che per mette conto assolutamente notare nell’opera di Ginguené è un altro fattore, ovvero
l’attenzione che Ginguené riserva allo studio e all’approfondimento dei testi. Noi sappiamo che
normalmente una storia della letteratura dà una forte importanza a questo fattore, ma abbiamo visto con
Tiraboschi come la trattazione sulla storia letteraria, quindi sulle singole personalità letterarie, rimanesse in
realtà molto esterna e molto distaccata dalle opere letterarie. Vi era un interesse - benché
programmaticamente Tiraboschi non volesse questo - più focalizzato sulla biografia degli autori, ed è
questo forse uno dei principali fattori di fallimento della “Storia della letteratura italiana” di Tiraboschi. Al
contrario Ginguené cerca di focalizzarsi maggiormente sui testi tralasciando quasi del tutto quello che è il
fattore biografico, se non quando ovviamente ha una diretta importanza sulla materia letteraria. In che
modo si concentra sui testi? Si concentra sui testi principalmente ricorrendo e inserendo all’interno della
narrazione una serie di riassunti e resoconti che riguardassero le opere letterarie. Proprio questo aspetto
dei sunti e dei resoconti fu una delle principali innovazioni di Ginguené, che effettivamente testificavano
un’attenzione alla materia letteraria molto più vicina a quella moderna, e fu anche uno dei principali fattori
per i quali Ginguené venne dopo attaccato.
Inoltre il modello tiraboschiano può essere visto in controluce anche per un altro fattore, che porta in realtà
il lettore a idealizzare la letteratura italiana e a non rendersi ben conto di quella che è la sua singolarità.
Questo perché Ginguené, come Tiraboschi e come tutti in quel periodo, era persuaso e convinto dell’idea
che la letteratura italiana fosse il vero e proprio bacino generatore di tutte le letterature europee - e
quindi in realtà dalla letteratura universale alle letterature estremo-orientali non si prestava in quel periodo
particolare attenzione, proprio perché l’Italia era l’erede della classicità, e proprio perché l’Italia, in
particolar modo Firenze, fu alla base di quel rinnovamento della letteratura che è rappresentato
dall’Umanesimo, che era appunto inteso come vero e proprio bacino vivificatore dell’Europa letteraria
moderna. Di conseguenza l’Italia viene ancora vista come il centro fondamentale della letteratura, e proprio
in virtù di questo viene approfondita la sua letteratura da parte anche di uno studioso francese.
Il modello tiraboschiano si intravede anche in una delle tesi di fondo che porta l’autore a idealizzare la
letteratura italiana quale bacino generatore della letteratura universale:
Concentriamoci brevemente sull’importanza che Ginguené concede al fattore politico. Abbiamo già visto
l’importanza del fattore socio-culturale, ora concentriamoci su quello politico. Abbiamo già detto che
Ginguené era francese, e sappiamo che la storia della Francia e la storia dell’Italia hanno delle profonde
differenze. Una su tutte: la Francia per praticamente tutta la sua storia ha avuto un governo centralizzato, è
stato uno stato unitario - seppur con differenze, accensioni secondarie e successive -, ha sempre avuto un
centro di potere che governasse sul resto delle regioni, appunto rappresentato da Parigi, e vi è sempre
stata un’autorità regia che potesse governare uno stato molto vasto e potesse imprimere a un intero stato
delle riforme culturali-sociali, politiche ed economiche che fossero appunto comuni. L’Italia al contrario non
ha mai avuto - almeno fino all’Unità d’Italia - una forma di governo simile, da dopo il Medioevo - ma anche
durante - è sempre stata frammentata in diverse unità statali totalmente indipendenti tra di loro, che
perseguivano delle forme di governo e anche delle politiche riformatrici completamente diverse l’una
dall’altra.
Questo fattore per noi sembra scontato, e non è assolutamente da dimenticare, per l’epoca era a dir poco
travisabile. Infatti Ginguené applica lo schema di lettura della cultura e della politica sociale e culturale
francese tale e quale anche all’Italia, di conseguenza arriva ad inquadrare in buona sostanza il fattore
politico in Italia come un fattore politico e di governo centralizzato, come in Francia, arrivando a non
comprendere alcune devianze o alcune tendenze della letteratura italiana che sono tipiche e tipicamente
correlate alle diverse forme di governo. Di conseguenza ciò che Ginguené sta tentando di fare in realtà è
cercare di percorrere in maniera unitaria il percorso letterario italiano, e parallelamente anche il suo
percorso politico. Ma effettivamente non si rende conto di come cercare di trovare delle linee di sviluppo
comune sia in realtà un fattore di impoverimento rispetto alla narrazione storico-letteraria, proprio perché
arriva a trascurare, a dimenticare e a non comprendere moltissime forme letterarie e culturali che
dipendono strettamente dalle diversità di amministrazione di diversi stati.
Per quanto riguarda la sua opera analizzeremo solamente alcuni aspetti, e nella fattispecie è bene
sottolineare una particolarità, ovvero il fatto che Ginguené in maniera del tutto arbitraria e programmatica
decide di tralasciare completamente nella sua storia della letteratura tutto quello che è il bagaglio del
Medioevo - cosa che al contrario Tiraboschi non fa, anzi dà una buona importanza alla narrazione della
storia della letteratura sul territorio italiano risalente a anche prima del Medioevo, e anche durante. Certo il
giudizio di Tiraboschi non era lodevole per quanto riguarda il Medioevo, ma non si esimeva ovviamente dal
trattarlo. Al contrario Ginguené se ne tira fuori completamente con tali parole: “Questa lunga e profonda
notte, durante la quale brillano solamente, di tanto in tanto, come dei fuochi in mezzo a spesse tenebre,
alcuni spiriti superiori al loro tempo, ma che gettano attorno solo una luce debole e incerta.”. Vedete
dunque che Ginguené sta sottovalutando quella che è l’importanza culturale del Medioevo e della
produzione letteraria del Medioevo, che è la diretta precedente fondamentale espressione di tutta la
letteratura sul suolo italiano. Come sarebbe possibile riuscire a capire un autore come Dante senza
conoscere il Medioevo, i suoi pensieri, la sua cultura e le sue opere letterarie? Come sarebbe possibile
conoscere a fondo e comprendere quello che è il messaggio di Boccaccio? C’è un libro di Vittore Branca,
grandissimo critico letterario italiano, che si intitola “Boccaccio medievale”, proprio a voler riaffermare
questo fortissimo legame di Boccaccio con il mondo medievale, nel quale in realtà lui ancora viveva,
secondo moltissime cronologie e studi cronologici. Ma soprattutto un mondo che lo aveva influenzato, che
era ancora vivo nel suo immaginario poetico e poetico-letterario. Questa è un fattore di chiara ascendenza
illuministica, anzi proprio del circolo dell’“Encyclopédie”, che voleva vedere nel Medioevo la negazione di
tutti quelli che erano i valori fondativi del circolo stesso degli ‘enciclopedisti’, ovvero un secolo buio nel
quale il sapere non veniva coltivato, e soprattutto un secolo sottoposto all’oscurantismo di quella che è la
Chiesa di Roma, che impediva un approfondimento scientifico e razionale di tutte le varie branche del
sapere.
“Questa lunga e profonda notte, durante la quale brillano solamente, di tanto in tanto, come dei fuochi in
mezzo a spesse tenebre, alcuni spiriti superiori al loro tempo, ma che gettano attorno solo una luce debole e
incerta.”.
“Un settore della storia letteraria che ha in sé il suo fascino e la sua utilità, è la biografia degli autori, o il
breve sunto delle loro vite, quasi sempre interessanti [...], senza dimenticare che gli autori le cui opere sono
poco conosciute o poco degne di esserlo, non possono interessare molto [...] e quanto a quelli che
meritano di attirare l'attenzione, si preferisce appuntare [l'attenzione] soprattutto sulle loro opere.”.
Passando alla slide 10 approfondiamo il dato principale dell’opera di Ginguené, ovvero l’attenzione rivolta
ai testi. Questa attenzione rivolta ai testi Ginguené la esplica in una maniera in realtà curiosa - siamo ancora
agli inizi della storia della letteratura, e di conseguenza non vi era ancora una metodologia di riferimento
unanimemente riconosciuta e che potesse andar bene a tutti. Di conseguenza anche Ginguené si muove in
un terreno instabile, nel quale neanche lui non ha certezza, non ha modelli da perseguire in maniera chiara.
Di fatti Ginguené riporta all’interno della sua opera una serie di riassunti nei quali alle volte entrano dei veri
e propri commenti, dei commenti di passaggi particolarmente interessanti e belli, e al contrario anche di
passaggi che vengono denotati come poco riusciti. Ginguené dimostra di aver letto moltissimo della nostra
storia della letteratura, cosa che in realtà per altri autori come ad esempio Crescimbeni, ma anche
Tiraboschi, non è altrettanto testificato - avevano chiaramente una nozione di quello di cui parlavano, ma in
molti casi non avevano effettuato direttamente delle letture. Vi è per esempio il caso di Crescimbeni
rimasto famoso anche perché evidenziato da Baretti, nel quale Crescimbeni parla dell’opera di Pulci e dice
che è un poema epico, ma noi sappiamo benissimo che l’opera di Pulci è tutto tranne che un poema epico,
al massimo un poema eroicomico. In questo vediamo una sorta di mancanza di approfondimento diretto
dei testi. Per quanto riguarda Ginguené abbiamo una decisa attenzione ai testi, che si esplica però in una
maniera un po’ noiosa: riassume per esempio la “Divina Commedia”, canto per canto, o anche altre opere.
Le accuse principali mosse a Ginguené furono tre. La prima riguardo ai sunti - il fare un riassunto di
un’opera non corrispondeva e non aiutava a capire, a cogliere quello che era lo spirito dell’opera. Pensiamo
a una tragedia: conoscere la trama di una tragedia non equivale minimamente a conoscere quello che è lo
sviluppo interno dell’opera, quello che è il pensiero dell’autore, e soprattutto come l’autore riesce a far
muovere i personaggi sulla scena, a dare loro una vita effettiva. Ad esempio l’“Ottavia” di Alfieri è una
tragedia che parla proprio della vita della figlia di Claudio e della sposa di Nerone Ottavia, in realtà è una
storia molto semplice, una vera e propria tragedia: abbiamo la figlia di Caudio, che viene data in sposa al
fratellastro Nerone, e Nerone molto presto la esilia, e successivamente secondo la storia racconta da Alfieri
viene anche costretta a morte. Qui si tenderebbe a un riassunto, ma in realtà noi nella tragedia di Alfieri
siamo in grado di cogliere gli afflati poetici veri e propri, una tipizzazione dei personaggi totalmente
innovativa, e tutto ciò non può rientrare nel novero di un riassunto. Inoltre Ginguené venne accusato anche
di aver trascurato la biografia: si era tanto attaccato a Tiraboschi e Crescimbeni perché si era soltanto
occupato di biografia, e adesso lo si accusa perché non viene dato abbastanza spazio alla biografia. Questo
è un riflesso di quello detto prima: non vi è una metodologia riconosciuta da critici e letterati, e di
conseguenza anche accuse che sembrano assurde, come questa, tornano a uscire. Inoltre Ginguené viene
anche accusato di aver prodotto un giudizio critico poco marcato sulla letteratura italiana, come se non si
fosse voluto esporre oltremodo in questo campo. Quello che ci interessa mettere in chiaro è proprio
questo: Ginguené fu il primo autore di una storia della letteratura italiana a concentrarsi con grande
impegno - poi i risultati sono un’altra storia, lo abbiamo imparato a vedere con Tiraboschi - nella lettura
diretta delle opere letterarie, spostando l’attenzione della ricerca sulla storia della letteratura italiana da
quella che era l’erudizione - quindi l’approfondimento di date, di eventi e di date di pubblicazioni di opere -
a quella che è l’opera letteraria in sé.
Prima attenzione pregnante all'Opera (punto di convergenza degli interessi storici, letterari e
politici e culturali).
Spostamento di attenzione dalla ricerca erudita alla valutazione e inquadramento delle Opere.
11° Lezione del corso di “Critica Letteraria Italiana” - “La critica letteraria tra Sette e Ottocento (2)”.
Analisi di tre figure fondamentali:
Sismondi è un letterato che vive tra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento. Nasce nel 1773 a
Ginevra e muore nel 1842. Nasce da una famiglia ginevrina molto altolocata e particolarmente ricca, una
famiglia che aveva origini italiane, quindi da subito viene avviato a studi di varia umanità, finalizzati a fare di
lui un uomo d’affari. Viene avviato alla pratica bancaria, e viene inviato a Lione. Questa esperienza, molto
formativa dal punto di vista dell’economia, si interrompe con l’avvento della Rivoluzione Francese. Ripara
quindi a Ginevra, e viene inviato dalla famiglia in viaggio. Dapprima approda in Inghilterra, dove rimarrà per
18 mesi, approfondendo quelle che sono le sue conoscenze economiche ma anche letterarie; entra quindi
in contatto con la civiltà inglese del periodo, e ne conosce i pregi letterari, politici ed economici.
Successivamente nel 1794 intraprenderà un viaggio in Toscana - la terra dei suoi avi -, e presso Valchiusa
acquisterà una fattoria, che sarà il centro della sua vita fino alla sua morte praticamente. Nella quiete di
questa campagna continua ad approfondire quelli che sono i suoi interessi economici, e infatti la figura di
Sismondi noi la ricordiamo in questo corso per un’opera di letteratura, ma in realtà è ben nota più che altro
come quella di uno STORICO DELL’ECONOMIA.
Dopo il 1794 il nostro Sismondi entra in contatto con una personalità del tutto fondamentale per
l’Ottocento europeo, incontra a Coppet (vicino Ginevra) Madame DE STAEL. Madame de Stael era al tempo
un’esule, era la figlia di Jacques Necker - ministro delle finanze dell’ultimo re francese Luigi XVI -, ed era una
personalità intellettuale di grandissimo spicco a livello internazionale. Entra dunque a far parte del suo
salotto letterario, che prende il nome di circolo di Coppet, dove avrà modo di conoscere personaggi come
Beniamin Constain - economista, filosofo e storico di grandissima importanza. Con Madame de Stael - una
vera e propria figura di riferimento in tutto l’ambito letterario europeo - intraprenderà degli importanti
viaggi, come quello in Italia o quello in Germania. Sono dei viaggi formativi per Sismondi, il quale ha modo
di ampliare le proprie conoscenze e il proprio modo di pensiero riguardo all’Europa, non solo a uno stato
nazionale. Attraverso questi viaggi lui avrà la possibilità di assistere alla nascita di due delle opere più
importi dell’Ottocento letterario. Dal viaggio in Italia Madame de Stael trarrà l’argomento per scrivere uno
dei suoi romanzi più fortunati, la “Corinna o l’Italia”, un romanzo che segnerà tutte le generazioni più
giovani nell’approccio alla letteratura e alla conoscenza della letteratura italiana - lo stesso Leopardi dedicò
moltissimo tempo all’analisi di questo romanzo, che ne influenzò moltissimo il pensiero. Ma anche il viaggio
in Germania diede modo a Sismondi, ma come poi dopo a tutta l’Europa, di assistere alla nascita di un'altra
opera importantissima di Madame de Stael, “La Germania” - un trattato riguardo quello che era il pensiero
filosofico, la cultura del paese tedesco.
Origine italiana.
“De la littérature du midi de l'Europe [Letteratura del mezzogiorno d'Europa (1813)]” - Jean Charles
Sismondi.
Nel 1807, quindi prima di intraprendere il viaggio in Germania, il nostro Sismondi scriverà un’opera che gli
diede fama di storico, “La Storia delle repubbliche italiane”. Da questo momento Sismondi si avvicina
sempre di più a quella che è la cultura italiana, facendola propria. Difatti nel 1813 pubblicherà un’opera di
grande importanza nell’ambito degli studi della letteratura dell’Ottocento, ovvero “Letteratura del
mezzogiorno d’Europa”.
“De la littérature du midi de l'Europe [Letteratura del mezzogiorno d'Europa (1813)]”. È un’opera
particolarmente singolare, perché come vedete non si tratta di un’opera solo sulla letteratura italiana, ma
di un’opera sulla letteratura Europea, ma relativa ai soli paesi del mezzogiorno. Infatti il circolo di Coppet -
proprio sotto spinta delle teorizzazioni di Sismondi - aveva un’idea, ovvero che le letterature europee
dovessero essere studiate in maniera comparata. Non si poteva avere conoscenza di quella che era la
letteratura in Europa conoscendo le singole letterature nazionali, ma bisognava ricorrere alla
comparazione. È in buona sostanza la nascita della COMPARATISTICA - la messa a confronto di diversi
meccanismi letterari e di diverse tendenze in più nazioni e in più lingue. Il problema, o comunque
l’originalità di questa comparazione risiedeva nel fatto che secondo il circolo di Coppet - e quindi secondo
Sismondi - le letterature europee potessero essere divise in due macro-blocchi: da un lato le letterature del
Nord Europa, dall’altro quelle del Sud.
Era una teorizzazione che rispondeva a una costatazione, ovvero la diversità di clima e di ambiente non
poteva non aver influenzato diversamente le letterature europee. Di conseguenza ad un clima
particolarmente rigido come quello del Nord Europa corrispondevano espressioni poetiche più fredde, o
comunque più in linea con quell’immaginazione tetra e buia dell’Europa del Nord. Al contrario le letterature
del Sud sarebbero state ispirate dal sole, dalla calma, dalla quiete, da un clima molto mite, e avrebbero
prodotto dei prodotti letterari più rilassati, e delle forme letterarie più pacate. In questa teorizzazione
quindi Sismondi fa rientrare come letteratura del mezzogiorno non solo quella d’Italia - che sicuramente ha
una sua importanza specifica ma è messa come un anello di una catena più grande, della quale facevano
parte per esempio la letteratura spagnola, la letteratura del sud della Francia, la letteratura greca e quella
portoghese.
Caratteristiche fondamentali - “De la littérature du midi de l'Europe [Letteratura del mezzogiorno d'Europa
(1813)]”.
La figura di Sismondi effettivamente è importante sul piano della critica letteraria anche per altre
argomentazioni. Nella sua opera vediamo un atteggiamento di indagine romantica della letteratura,
ovvero si cerca di analizzare e di rintracciare quello che è il motivo più intimo dei testi letterari, e
soprattutto si dà una forte importanza a quello che è il giudizio personale. Il gusto personale
nell’interpretazione è quindi qualcosa di fondamentale, e da questo deriva la predilezione di Sismondi per
autori particolarmente tormentati - come Dante e Tasso, soprattutto nell’immaginario romantico. La
ricostruzione del mondo interiore degli autori è il motivo vero della critica, e di conseguenza si arriva a un
biografismo selettivo - vengono messi in luce solo alcuni momenti delle biografie degli autori che possano
aiutare a ricostruire quella che è la formazione intellettuale e la formazione del pensiero del singolo autore.
Influenza società-letteratura - “De la littérature du midi de l'Europe [Letteratura del mezzogiorno d'Europa
(1813)]”.
Inoltre vi è una fortissima apertura, anzi un impulso fondamentale a quella che è la comparatistica, ovvero
la comparazione di diversi fenomeni letterari in diverse aree letterarie. Un altro punto particolarmente
interessante della produzione di Sismondi è lo sviluppo di una doppia concezione e di un doppio concetto
riguardo la società e la letteratura. In particolare la slide 6 presenta uno schema riassuntivo di questa
teoria. Difatti per Sismondi esisteva un doppio modo per intendere l’influenza reciproca tra società e
letteratura, vi era un concetto statico e un concetto dinamico. Per il concetto statico la letteratura non era
altro che uno specchio, quindi un qualcosa di passivo della società circostante, quindi la letteratura
rifletteva quello che era l’andamento della società. Ma al contrario secondo Sismondi vi era anche un’altra
possibile interpretazione, ovvero il concetto dinamico: la letteratura sarebbe stata un prodotto della
società, ma un prodotto capace a sua volta di influenzare la società, e di volta in volta Sismondi cerca di
rintracciare questo o quell’atteggiamento all’interno dei vari periodi della letteratura.
A questo punto è necessario fare un discorso più specifico riguardo alla critica dell’Ottocento italiano. In
Italia una critica costante, o comunque un’argomentazione costante, è quella di richiedere all’interno della
discussione critica una maggiore presenza della “filosofia”. Ma che cosa si intendeva esattamente con
questa richiesta di “filosofia”? Si intendeva due cose: da un lato, un canone ermeneutico stabile, ovvero un
criterio di interpretazione che fosse stabile e applicabile non a un singolo autore, ma all’intera parabola
della letteratura; dall’altro si poteva intendere anche una forza di sintesi selettiva che fosse capace di
cogliere, all’interno delle nostre produzioni letterarie, delle costanti, e appunto metterle in luce. In buona
sostanza si trattava di vivificare quella che era la materia erudita, o come loro la chiamavano la semplice
materia - i dati da soli non bastavano, erano necessari una sintesi e un canone che potesse fungere da
guida.
Proprio a riguardo delle discussioni teoriche sulla critica letteraria e sulle storie della letteratura in quel
periodo, ha una particolare importanza un testo in realtà marginale, che troverete caricato sul portale e che
andrà letto e meditato attentamente. È un testo di Niccolò Tommaseo, un letterato italiano di origini
dalmate di grande importanza. È uno scritto marginale perché è uno scritto che si origina come una
recensione su una storia della letteratura greca. Però in questo scritto troviamo riproposti quelli che sono i
temi dominanti della discussione coeva sulla letteratura italiana e sulla critica. Gli argomenti di Tommaseo
sono sostanzialmente due. Innanzitutto lui parte dal constatare come tutte le letterature fino ad allora
disponibili su piazza subissero, o comunque fossero schiave di un’estrema dilatazione del concetto di
letteratura - è quello che abbiamo già detto in precedenza. La letteratura - secondo critici come Tiraboschi e
quant’altro - appunto corrispondeva con il concetto di cultura; secondo Tommaseo - appunto per la prima
volta viene esplicato per iscritto - questo era un problema, perché non permetteva una piena
comprensione, una comprensione selettiva di quella che era l’espressione letteraria. Inoltre vi era nelle
storie della letteratura italiana un problema legato al biografismo: era data troppa importanza appunto al
fattore biografico e poco a quello letterario.
Recensione 1828
Argomenti cardine:
Inoltre secondo Tommaseo era inutile riportare quelli che fossero i giudizi altrui, ed era in realtà una critica
neanche troppo velata a quello che era il modello di Crescimbeni, dove il parere singolare del critico viene
obliato, o comunque viene preferito riportare i giudizi altrui. Inoltre Tommaseo veniva a constatare quello
che era il fallimento del puro biografismo, quello che aveva predominato ad esempio all’interno delle opere
di Tiraboschi, ma allo stesso tempo veniva anche a criticare quella che era l’inutilità dei riassunti, che era la
caratteristica delle opere di Ginguené.
CONSTATAZIONI:
Secondo Tommaseo, una storia della letteratura non deve dispensare dalla lettura delle opere di cui sta
trattando, al contrario una storia della letteratura deve dirigere e promuovere quella che è la lettura
diretta dei testi. In questo si trova a stretto contatto con una frase di Foscolo che vedete riportata: “ma
dov'è un libro che [...] col potere dell'eloquenza vi accenda all'emulazione degli uomini grandi?”. Si inizia
adesso a vedere quel concetto di letteratura come bagaglio emulativo per i giovani, i giovani dovranno
essere affascinati e spinti all’emulazione dei grandi della loro letteratura.
1. PARTE NEGATIVA: La Storia letteraria non deve dispensare dalla lettura diretta delle opere letterarie
trattate.
[vd. Foscolo: “ma dov'è un libro che [...] col potere dell'eloquenza vi accenda all'emulazione degli uomini
grandi?]
A questo punto passiamo alle teorizzazioni di Ugo Foscolo. Per quanto riguarda Foscolo, notiamo nella sua
produzione un’attenzione costante a quello che è il modello storiografico, e tra l’altro tutta l’opera di
Foscolo è costellata di diversi progetti, di diversi accenni al suo desiderio di voler scrivere una storia della
letteratura italiana - un progetto che non arriverà mai effettivamente a maturazione o a scrittura. Di Foscolo
possediamo molti scritti di critica letteraria, soprattutto relativi al suo periodo di esilio inglese, degli scritti
appunto di critica riguardanti autori particolarmente importanti nel nostro panorama letterario - ad
esempio Dante e Petrarca. Ma questi articoli di critica non arrivarono mai a una sintesi che fosse
particolarmente utile ai fini della scrittura di una letteratura italiana.
Quello che ci importa sottolineare è una teorizzazione di Ugo Foscolo. Secondo lui, all’interno della storia
delle storie letterarie, si era assistito a due momenti fondamentali: da un lato, un momento erudito,
dall’altro, un momento filosofico. Il momento più erudito era stato dominato, o comunque caratterizzato,
dalla figura di Tiraboschi, mentre il momento filosofico era stato rappresentato soprattutto da Denina - un
filosofo che si era applicato alla letteratura con due opere fondamentalmente, il “Discorso sopra le vicende
della letteratura” e il “Saggio sopra la Letteratura Italiana”. Erano delle opere a tutti gli effetti filosofiche,
quello che mancava secondo Foscolo era un terzo momento, il cosiddetto momento della sintesi, che
ancora mancava. Il momento della sintesi Foscolo lo riservava a sé stesso, era il momento in cui lui stesso
sarebbe sceso in campo per produrre un’opera originale sulla letteratura italiana che potesse rendere
conto sia di quello che era il momento erudito, sia di quello che era il momento filosofico della storia delle
storie letterarie.
1. Momento erudito:
2. Momento filosofico:
Denina cerca di rintracciare uno “spirito” (unitario o diversificato) animatore della letteratura.
L'indagine con metodi filosofici però trascura quasi del tutto “i dati”, e studiando la letteratura non
si può prescindere dalle “forme” privilegiando il “contenuto”.
Premesse generali.
Secondo Foscolo - vd. schema slide 15 - si partiva da queste basi: avevamo avuto un momento erudito -
dominato da Tiraboschi -, e un momento filosofico - di ricapitolazione -, ma questi due momenti dovevano
convivere nel cosiddetto momento della sintesi. Questo momento della sintesi doveva rendere conto di
altre due necessità: innanzitutto delle necessità espressive, poi anche della necessità di spingere alla
compartecipazione, ma anche di nascere dalla stessa compartecipazione. Il critico appunto doveva
compartecipare delle diverse produzioni letterarie, doveva sentirle, parteciparle, amarle, e saperle
esprimere con un lessico che fosse mutevole e che fosse capace di adattarsi alle differenze di diversi
argomenti. Da tutto ciò sarebbe nata una vera e propria storia letteraria, capace di spingere all’emulazione
dei giovani.
2. Concetto di “compartecipazione”: Necessità della compartecipazione del critico con le vicende della
letteratura.
La questione della lingua la vedrete anche riassunta nell’ultima slide (slide 20) perché la lingua doveva
avere due caratteristiche fondamentali: innanzitutto essere particolarmente chiara, proprio perché una
storia della letteratura era - nel pensiero di Foscolo - finalizzata alla lettura. Lettura da parte di adulti, ma
anche e soprattutto di giovani, di conseguenza doveva essere molto chiara, e questa chiarezza doveva
rispondere a due necessità: quella di divulgazione, proprio per i giovani, ma anche quella di diletto -
leggere una storia della letteratura doveva essere un diletto, qualcosa di bello, e non doveva essere
qualcosa di noioso e di impossibile come risultava la lettura dell’opera di Tiraboschi. L’espressività doveva
essere particolarmente duttile e capace di rappresentare le differenze espressive dei diversi autori.
Questa sarebbe stata la lingua ideale, ma purtroppo Foscolo non arrivò mai a scrivere una sua storia della
letteratura, ma a giudicare da queste basi sarebbe stato sicuramente qualcosa di eccezionale.
Nelle prossime lezioni verremo a parlare della “Scuola Storica”, la citiamo adesso in quanto l’esperienza
letteraria e critica di Francesco De Sanctis e la cosiddetta “Scuola Storica” sono in buona sostanza
contemporanee. È pur vero che per quanto riguarda la “Scuola Storica” abbiamo una demarcazione
cronologica di comodo piuttosto netta: si parla di “Scuola Storica” come un indirizzo critico che ha avuto
vitalità tra il 1860 e la fine della Prima Guerra Mondiale. Ma la vita di De Sanctis è circoscritta in due date,
ed è stata una vita molto ampia: il 1817 e il 1883. Franceso De Sanctis - che è il primo critico IDEALISTA, o
comunque che adotta una tendenza estetica per la sua critica - verrà proprio a scontrarsi con le tendenze e
con le idee della “Scuola Storica”. Nascendo egli nel 1817, ha una precedenza cronologica, anche se è bene
ribadire che è effettivamente difficile distinguere cronologicamente Francesco de Sanctis e la “Scuola
Storica”, proprio perché si avvicendarono e vissero nello stesso periodo.
Francesco De Sanctis
Biografia -> Slide relative (su altro file);
Pensiero - opere
«Scuola storica»
NB. Tendenze critiche più o meno contemporanee: si è scelto di approfondire prima De Sanctis sia
per mettere chiaramente in luce le differenze con la critica contemporanea di area positivistica, sia
per sottolineare.
Francesco de Sanctis nacque a Morra Irpina nel 1817 da una famiglia molto liberale, con tendenze
carbonare. Addirittura gli zii verranno esiliati nel 1820-21. Riceve a casa i primi rudimenti di studi, e nel
1826 si trasferisce a Napoli, dove lo zio Carlo aveva una scuola privata. È bene approfondire l’istruzione nel
Regno di Napoli nell’Ottocento: non esisteva una struttura statale centralizzata per quanto riguarda
l’istruzione, come adesso, ma esistevano numerose scuole private che si tenevano in casa dei maestri. Era
un sistema molto variegato che permetteva poi di accedere a classi superiori e infine, chi avesse voluto,
all’università. De Sanctis viene quindi catapultato nel mondo di Napoli e nel mondo dell’insegnamento, e
molto presto passerà da quella che è la scuola dello zio Carlo a quella che è una scuola di grado superiore, il
liceo dell’abate Fazzini, e successivamente nello studio dell’abate Garzini. Il suo apprendistato di studio è
assolutamente in linea con quelli che erano i programmi dell’epoca, impara la retorica, la logica, la filosofia,
e effettivamente dimostra fin da subito una decisamente non normale tendenza all’interpretazione dei
testi.
Per quanto riguarda le opere di De Sanctis disponiamo di un corpus veramente enorme di opere, che
comprende sia opere approvate dall’autore sia anche opere non approvate, siano esse lezioni, appunti, o
brogliacci delle proprie lezioni. Vediamo fin da subito quindi una sua propensione agli studi letterari, e
questa sua tendenza all’approfondimento della letteratura verrà ad essere chiaramente visibile qualche
anno successivo, quando nel 1834 inizia a frequentare la scuola del marchese Basilio Puoti. Basilio Puoti era
un purista, era un docente che prestava la propria attenzione, il proprio lavoro, nell’insegnare ai ragazzi una
lingua italiana che fosse pura. In che modo dunque insegnare un italiano che fosse puro ai ragazzi? Secondo
Puoti l’unico modo era quello di ispirarsi, di imitare la lingua del Trecento aureo italiano. La sua era una
sorta di scuola di lingua e di letteratura. Tra l’altro è molto interessante notare come proprio all’interno
della scuola di Puoti De Sanctis incontrò, e assistette a una piccola lezione di Giacomo Leopardi - un
Leopardi ormai prostrato e ammalato, quasi in fin di vita.
Nel 1839, fino al 1848, De Sanctis sale direttamente in cattedra, ed è il cosiddetto periodo della PRIMA
SCUOLA NAPOLETANA. Di fatti nel 1839 arriva a fondare una propria scuola, la scuola di “Vico Bisi”, e
contemporaneamente sostituisce anche lo zio Carlo nella scuola dello zio. Nel 1841 viene nominato
insegnate nel collegio militare della Nunziatella - un lavoro che lui aveva ardentemente desiderato e che gli
dà una stabilità economica. Purtroppo però i moti del 1848 lo portano ad esporsi direttamente sui moti
rivoluzionari, e addirittura ad esporsi sulle barricate a Napoli, e la conseguenza di questo suo impegno
politico - che cercava di trasmettere anche ai suoi studenti - è una sorta di esilio. Nel 1849 infatti si ritira in
Calabria proprio per sfuggire a quelli che erano i rastrellamenti, o comunque le indagini post-rivoluzionarie.
In Calabria - e più precisamente a Cosenza - continua l’insegnamento, nella fattispecie come precettore
privato. Alla fine del 1850 viene incarcerato a Castel dell’Ovo, a Napoli. Durante la sua prigionia, che si
protrarrà fino al 1853, ebbe modo di studiare il tedesco. Questo studio gli aprirà nuovi orizzonti soprattutto
a livello di apprendimento filosofico - legge infatti Hegel e soprattutto i testi dell’Idealismo, che saranno una
base importantissima per quello che è il suo lavoro di critico letterario.
Nel 1853 viene però liberato, ma costretto all’esilio dal Regno di Napoli. Di conseguenza si reca a Torino e
successivamente arriverà a Zurigo, dove ricoprirà l’insegnamento di Letteratura Italiana al politecnico di
Zurigo. In questo periodo lavora moltissimo anche sulla letteratura, i corsi annuali vengono dedicati a
Dante, alla poesia cavalleresca, e di conseguenza continua ad approfondire momenti e figure fondamentali
della nostra letteratura italiana. Nel 1860 ha finalmente la possibilità di ritornare nel Regno di Napoli, e
infatti il 6 agosto torna nella sua amata Napoli, dove viene eletto ben presto Governatore della provincia di
Avellino. Da questo momento in poi inizia la sua attività politica, un’attività politica veramente molto densa
che lo porterà ad essere Ministro dell’Istruzione, e anche Deputato del Regno d’Italia nel 1861. Il periodo
tra il 1865 e il 1876 è il periodo di più ampia produzione critica di Francesco De Sanctis, un periodo nel
quale produce numerosissimi studi critici - ma soprattutto tra il 1870 e il 1871 scrive la sua “Storia della
letteratura italiana”, opera fondamentale per la conoscenza del suo pensiero letterario e critico. Si
spegnerà a Napoli nel 1883.
La “Storia della letteratura italiana” è un’opera enorme a livello d’importanza, non particolarmente vasta a
livello di mole, anche perché era un’opera che doveva esser utilizzata dai ragazzi nel loro periodo liceale, di
conseguenza era in realtà molto concisa - volume di 500-600 pagine se presa nell’edizione Bur di oggi -,
all’epoca era divisa semplicemente in due volumi. Il fatto che sia un’opera scritta e destinata ai licei non
dice nulla sul suo effettivo valore, dato che è ritenuta propriamente il capolavoro delle storie letterarie
ancora adesso esistenti.
Per quanto riguarda le opere di Francesco De Sanctis, vi ho già accennato quanto il corpus sia veramente
molto ampio, e un’importanza fondamentale nella raccolta di opere di De Santis l’ha avuta proprio
Benedetto Croce. De Sanctis durante la sua vita ebbe modo di divulgare i suoi scritti sia su riviste, come
l’“Antologia” o la “Nuova Antologia”, ma la maggior parte dei suoi scritti sono appunto delle sue lezioni - dei
resoconti che i suoi studenti prendevano durante le sue lezioni, li trascrivevano e li andavano pubblicando
man a mano sui giornali. Questa pubblicazione ha portato a una dispersione dei suoi scritti, che sono stati
appunto pubblicati in diverse sedi, e molto spesso senza l’autorizzazione e in definitivo imprimatur
dell’autore.
Benedetto Croce - che sin da giovane ebbe un collegamento ideale con Francesco De Sanctis - si diede a una
raccolta attentissima dei suoi scritti ed a una sistemazione del canone delle opere di De Sanctis. Raccolse
per esempio i riassunti, i resoconti delle sue lezioni, anche le lezioni stesse pubblicate dallo stesso De
Sanctis e dai suoi alunni; raccolse inoltre buona parte dell’epistolario, e anche opere di carattere
autobiografico. Non in ultimo, anche il recupero di opere e documenti relativi all’attività politica. Perché
questo recupero messo in atto da Benedetto Croce risulta tanto importante? Perché la figura di De Sanctis
ebbe in vita una limitata fortuna. Le opere di De Sanctis venivano lette ma non vennero apprezzate nel
giusto grado dai contemporanei, proprio per quello che vi dicevo in precedenza - la sovrapposizione della
sua esperienza critica con quella della “Scuola Storica”.
La “Scuola Storica” aveva tendenze diametralmente opposte rispetto al pensiero e alla critica di De Sanctis,
di conseguenza arrivò a demolire quella che era stata l’esperienza unica e irripetibile della critica
desanctisiana, attaccandosi a dei pretesti effettivamente, dicendo che De Sanctis non aveva avuto una
scuola, e che quindi era un genio magari ma un genio isolato, che la critica doveva avere basi solide e invece
Francesco de Sanctis riproponeva quello che era il suo personale sentire nella sua critica. Il recupero di
Francesco De Sanctis e della sua opera è un momento importantissimo per Benedetto Croce, e
importantissimo per la critica letteraria in generale, che arriverà ad avere in De Sanctis uno dei suoi padri
fondatori.
Cerchiamo di capire qual era il concetto critico secondo Francesco De Sanctis, leggendo il testo che
troviamo nella slide 7.
“I critici pedanti si contentano d'una semplice esposizione e si ostinano sulle frasi, sui concetti, sulle
allegorie, su questo e su quel particolare come uccelli di rapina su un cadavere. Essi si accostano ad una
poesia con idee preconcette: chi di essi pensa ad Aristotele e chi ad Hegel. {…}”
Come vedete in questo primo momento Francesco De Sanctis sta definendo quelle che sono le
caratteristiche degenerate della critica contemporanea: innanzitutto il fatto che il critico pedante si accosti
alla lettura di un testo con idee preconcette. I critici del suo periodo volevano applicare delle regole fissate
da altri ideologi o filosofi nella fattispecie, e tramite questa chiave di lettura interpretare i testi. Ma secondo
De Sanctis ogni testo ha la sua originalità, e di conseguenza il critico dovrà plasmare il proprio modello
ermeneutico e interpretativo proprio riguardo il testo che ha davanti.
“{…} Prima di contemplare il mondo poetico lo hanno giudicato: gl'impongono le loro leggi in luogo di
studiar quello che il poeta gli ha dato. [...] {…}”
L’atteggiamento di applicare idee preconcette a un testo porta proprio ad applicare idee e leggi precedenti,
e non a cercare, ricercare, ad esporre quelle che invece sono le leggi dell’animo del poeta, le leggi poetiche
dell’autore che si sta trattando. Passa ora alla parte propositiva dove descrive quella che è la critica
perfetta.
“{…} Critica perfetta è quella in cui i diversi momenti (per i quali è passata l'anima del poeta) si conciliano in
una sintesi di armonia. Il critico deve presentare il mondo poetico rifatto ed illuminato da lui con piena
coscienza, di modo che la scienza vi presti la sua forma dottrinale [...].»
La critica perfetta quindi mira a una sintesi armonica e a una ricostruzione di quelli che sono i diversi
momenti attraverso i quali sono passati l’anima o l’animo del poeta. La critica viene vista come una sintesi
armonica di diversi momenti: un poeta o un letterato avrà attraversato diversi momenti di pensiero e di
produzione. La critica letteraria dovrà cogliere queste diversità, sintetizzarle ed esporle al lettore. Il critico
deve quindi ripercorrere e presentare al lettore quello che è l’animo o il mondo poetico di un autore rifatto,
ovvero semplificato ed esposto a chi sta leggendo il saggio critico in questione.
«Critica perfetta»:
Mira ad una sintesi armonica e auna ricostruzione dei diversi momenti attraverso i quali è passata
l’anima del poeta;
Il critico deve ripercorrere e presentare al lettore il mondo poetico dell’autore sotto una nuova luce
e entro una forma discorsiva.
Il concetto di “forma”.
1. → Analisi particolari dei contenuti e del valore morale delle opere (Ginguené, Sismondi);
“La forma non è a priori, non è qualcosa che stia da sé e diversa dal contenuto, quasi ornamento o veste o
apparenza o aggiunto di esso, anzi è essa generata dal contenuto, attivo nella mente dell'artista: tal
contenuto tal forma. [...] Ivi, nella forma, il critico ritrova non più natura [= realtà], ma arte; non più qual
era, ma qual è divenuto, e sempre tutto esso, col suo valore, colla sua importanza. Il contenuto può essere
immortale o assurdo o falso o frivolo; ma, se in certi tempi e in certe circostanze ha operato potentemente
nel cervello dell'artista, ed è diventato una forma, quel contenuto è immortale. Gli Dei d'Omero sono morti:
l'Iliade è rimasta. Può morire l’Italia, ed ogni memoria di Guelfi e Ghibellini: rimarrà la Divina commedia.”
Cerchiamo di capire meglio questo concetto di forma. Secondo De Sanctis è impossibile scindere quello che
è l’ambito dello stile e l’ambito del contenuto - non è possibile dare un giudizio sullo stile e un altro sul
contenuto dell’opera. Sono due fattori assolutamente fusi insieme. Leggiamo due definizioni del concetto di
forma alla slide 10.
Un concetto che rimane attivo nella mente del poeta, genera automaticamente un’espressione,
un’espressione che è scevra di qualsiasi tipo di costruzione, perché è l’unico modo in cui l’autore riesce ad
esplicare quello che è il pensiero che ha in mente.
La forma quindi non va contenuta in nessun modo con il velo esteriore dell’espressione, ma al contrario è
l’unione proprio dell’esteriorità e del contenuto che riscontriamo nell’opera. La forma, come dice De
Sanctis, non è qualcosa a priori, “non è qualcosa che stia da sé e diversa dal contenuto, anzi è essa generata
dal contenuto, attivo nella mente dell'artista: tal contenuto tal forma.”.
La “forma” non va confusa col velo esteriore dell’espressione, al contrario è l’unione dell’esteriorità
(forma, propriamente detta) e dell’essenza dell'oggetto comunicato (contenuto).
La forma, infatti, «non è qualcosa a priori, non è qualcosa che stia da sé e diversa dal contenuto...
anzi è essa generata dal contenuto, attivo nella mente dell'artista: tal contenuto, tal forma».
Ovviamente non vi sono contenuti in sé estetici, ma tutto può diventare arte se il poeta sa
trasfigurarlo nella forma.
Questa concezione della forma è in stretto collegamento anche con un dato di fatto: molto spesso si è detto
che De Sanctis è un critico romantico, o comunque un critico romantico attardato. Ma vi è una sottigliezza,
una differenza di fondo che fa capire a noi come Francesco De Sanctis abbia completamente superato il
Romanticismo. Durante il Romanticismo c’era la concezione che l’opera d’arte fosse l’espressione diretta
del sentimento dell’autore: l’autore quindi, preso, travolto da un sentimento o comunque da una propria
immaginazione, quasi in furore poetico generava l’opera d’arte. Al contrario invece, secondo Francesco de
Sanctis, il sentimento è qualcosa di non poetico in sé.
“Il sentimento non è in sé stesso estetico [...], il dolore, l'amore, ecc. dove non abbia forza di trasformarsi ed
idealizzarsi, può, nella sua espressione, essere non artistico. Non solo il sentimento non è sostanziale
dell'arte, ma, perché sia capace di suscitare la volontà estetica [= volontà produttiva dell’arte], deve tenersi
in una giusta misura. Il sentimento non deve intorbidare l'anima, turbare l'armonia interiore.”.
Il sentimento quindi è qualcosa di fondamentale nella creazione poetica, ma non basta avere un
sentimento di amore, di dolore, per esser automaticamente un artista. Al contrario il sentimento
dev’essere in una giusta gradazione per favorire, anzi per permettere la creazione artistica.
Veniamo adesso in chiusura ad alcuna altre caratteristiche della critica Desanctisiana. Innanzitutto non è
possibile per il critico applicare delle categorie preconcette.
Non applicabilità di categorie preconcette:
L'arte “ha in sé stessa il suo fine e il suo valore, e vuole essere giudicata secondo criteri propri, dedotti dalla
sua natura.”.
Questo significa che non esiste un metodo preconcetto che si possa applicare sic et simpliciter a tutti testi
letterari. Bisogna capire qual è l’oggetto che abbiamo davanti, capire qual è stato il percorso che il poeta, o
comunque l’artista ha fatto per proporre quell’opera, ricostruirlo e riproporlo ai nostri lettori. Questa
sarebbe la critica ideale. La critica chiaramente riflette il gusto.
“La critica è la coscienza o l'occhio della poesia, la stessa opera spontanea del genio riprodotta come opera
riflessa del gusto. Ella non deve dissolvere l'universo poetico; deve mostrarmi la stessa unità divenuta
ragione, coscienza di sé stessa.”.
Si affaccia sempre di più l’idea di critica come una guida, un metodo di esposizione del mondo poetico
degli autori, che non si limiti quindi a dare un giudizio, ma che miri a una ricostruzione, a creare un quadro
quanto mai ampio e che possa sintetizzare quelle che sono le diverse fasi sia della creazione artistica, ma
anche le sfaccettature dell’opera d’arte stessa.
Infatti secondo De Sanctis: “La critica non crea, ricrea; deve riprodurre.”. La critica quindi non sarebbe un
qualcosa di artistico in sé, ma deve mirare appunto a riprodurre un’opera letteraria e a spiegarla ai propri
lettori.
Il giudizio di valore.
Una volta che il critico ha in buona sostanza ripercorso quello che è il percorso stesso dell’artista, potrà
passare ad emettere un proprio giudizio. Leggiamo la citazione alla slide 15.
“Poi che [subito dopo che] il critico ha acquistata una chiara coscienza del mondo poetico, può
determinarlo, assegnandogli il suo posto ed attribuendogli il suo valore.”.
Il critico una volta che ha riconosciuto e ha ricostruito il mondo poetico dell’autore, potrà passare ad
assegnargli un posto ben determinato all’interno del mondo poetico dell’autore, ma anche più in generale
all’interno del percorso, della storia letteraria, e soprattutto attribuire a quest’opera il proprio valore.
Un altro aspetto molto singolare è che la critica di Francesco De Santis non mira a creare delle discendenze
o comunque delle linee di sviluppo che possano essere uniformi. Al contrario la critica letteraria, secondo
Francesco De Sanctis, non deve concentrarsi sull’individuare quelli che sono i traits d’union tra gli autori,
ma al contrario deve vedere in che cosa l’autore è originale, in che cosa ha rotto quella catena di traits
d’union che lega l’autore alla sua tradizione. Leggiamo la seconda citazione alla slide 15.
La critica (e il giudizio) dovrà quindi porre attenzione “non in ciò che il poeta ha in comune col secolo, con la
scuola, coi predecessori, ma in ciò che ha di proprio e incomunicabile.” (Individualità dell’arte).
La critica quindi si pone tra il lettore e l’artista per svelare al lettore qualcosa di incomunicabile, di unico,
di originale, che il critico stesso ha colto.
Nella slide successive - dalla slide 16 in poi - troverete un riassunto di quello che è il percorso della “Storia
della letteratura italiana”, sul quale vi prego di fare molta attenzione.
La prima parte del libro “La critica letteraria” di Mario Cimini è incentrato su Francesco De Sanctis e sulle
tendenze critiche della seconda dell’Ottocento - la Scuola positivista. È bene leggere per ora soltanto i
paragrafi relativi a Francesco De Sanctis e i testi utilizzati e antologizzati. Nella fattispecie vi è un testo di
René Wellek, “La critica e l’estetica di Francesco De Sanctis” - un testo molto importante, di uno dei
principali studiosi della critica, il quale ripercorre l’iter della critica di Francesco De Sanctis. Un altro è un
passaggio di Francesco De Sanctis dedicato a Macchiavelli, in “Macchiavelli e la “decadenza” del
Rinascimento”. Questi sono testi che fanno riferimento direttamente a quello che abbiamo detto in questa
lezione, nella prossima lezione sarà bene leggere anche il testo di Luigi Foscolo Benedetto, “Caratteri e
protagonisti della scuola del “metodo storico””. A questo sarà aggiunta poi una lettura.
13° Lezione del corso di “Critica Letteraria Italiana” - “La Scuola storica”.
L’esperienza critica di De Sanctis e quella della Scuola storica si vengono a contrapporre. Oggi veniamo a
concentrarci su quello che è il contraltare dell’esperienza critica di De Sanctis, la Scuola storica.
Il Positivismo.
L’ambito di riferimento storico e culturale più ampio della Scuola storica è il POSITIVISMO. Il termine
“positivismo” - che è stato spiegato nel “Discorso sul Positivismo” di Auguste Comte - deriva dal latino
“positum”, participio passato del verbo “ponere”, e che indica “ciò che è reale, ciò che è effettivo”. Questo
termine venne assunto a nome di questo grande movimento culturale proprio a inizio Ottocento. Di fatti il
Positivismo è un movimento culturale - ma in realtà anche un movimento filosofico - nato nella Francia
della prima metà dell’Ottocento, è un movimento culturale ispirato a idee di esaltazione del progresso, e
più in particolare di esaltazione nel progresso scientifico - una fede nel costante andare avanti della società
e della cultura del tempo in base proprio alle innovazioni e alle scoperte scientifiche. Si tratta di un
movimento culturale e filosofico nato sull’onda lunga delle rivoluzioni industriali, e - pur nato nella prima
metà dell’Ottocento - arriverà a piena maturazione, e a pervadere ogni ambito della cultura europea solo
nella seconda metà dell’Ottocento. Per riassumere le linee guida del Positivismo possiamo leggere un
motto che venne ideato da Comte proprio per questo movimento culturale (slide 4).
Il principio di questo movimento positivista sarebbe stato un amore per la ricerca e per la scienza, il suo
fondamento filosofico sarebbe stato la voglia di ordinare e di catalogare, di selezionare e quindi di
studiare, e il fine ultimo di questa innovazione culturale, di questo movimento culturale, sarebbe stato
proprio il progresso della società intera.
“Il senso del reale si va sempre più sviluppando, e le scienze positive prendono il di sopra, cacciando di nido
tutte le costruzioni ideali e sistematiche.”.
“Il senso del reale si va sempre più sviluppando {…}” - De Sanctis rilevava come nella società e nella cultura
italiana si stesse sviluppando e affermando sempre più una tendenza alla ricostruzione di ciò che è reale, di
ciò che è documentario, e di conseguenza questa tendenza veniva a mettere in crisi tutte quelle che sono le
costruzioni reali e sistematiche, ovvero tutti i sistemi filosofici propri dell’Idealismo e dell’estetica, ovvero
tutto ciò in cui De Sanctis aveva riposto la sua fede. Chiaramente - lo capiamo già adesso - il movimento del
Positivismo era davvero contrario a tutto ciò che non era dimostrabile e che era metafisico.
Come abbiamo già evidenziato nella precedente lezione, la “Storia della letteratura italiana” (1870-71)
vedrà proprio la luce nel periodo di affermazione netta del Positivismo, e da ciò ne deriverà effettivamente
per De Sanctis una destinazione all’oblio, un rinnegamento a quella che era stata tutta l’opera speculativa,
filosofica e critica di De Sanctis, proprio perché in netta opposizione con quelli che erano i principi di questa
nuova scuola, di questo nuovo pensiero, appunto il Positivismo.
Già De Sanctis nell’ultimo capitolo della Storia della letteratura italiana affermava che:
“Il senso del reale si va sempre più sviluppando, e le scienze positive prendono il di sopra, cacciando di nido
tutte le costruzioni ideali e sistematiche.”
La Storia della letteratura vedeva infatti la luce in un periodo in cui molti mettevano in dubbio la
validità della critica idealistica/estetica e della sua tendenza a fornire grandi sintesi.
Dando però una definizione così netta - “Scuola storica”, “Scuola del metodo storico”, “pensiero positivista”
- si può pensare che si tratti di un blocco monolitico, o di un’unica scuola fondata su un unico metodo. In
realtà la situazione è molto diversa, e il panorama in Italia è di una fortissima frammentazione. Una
fortissima frammentazione che rende conto di un altrettanto forte frammentazione del mondo culturale. di
fatti la Scuola storica ebbe al suo interno numerose correnti e numerose scuole di sotto pensiero, che
facevano riferimento alle diverse scuole, alle diverse università che appunto praticavano questo tipo di
metodologia o comunque condividevano questo tipo di intenti.
Si parla di «Scuola storica», «Scuola del metodo storico», «critica positivista» intendendo la
presenza di un concetto univoco di letteratura, un’unità di intenti, e in sostanza un unico
movimento critico.
Innegabili consonanze di fondo, ma forte frammentazione.
Cronologia.
Per quanto riguarda un riferimento cronologico, in Italia la Scuola storica - o comunque il metodo
positivista - sarà attivo in un lasso di tempo grosso modo ristretto, non particolarmente ampio. Ciò non
toglie che sia prima sia dopo continuarono ad esserci delle sacche di resistenza, o comunque degli attardati
propugnatori di questo metodo. Infatti in Italia il periodo d’oro della Scuola storica è inquadrato tra quella
che è l’Unità d’Italia e la Prima Guerra Mondiale, quindi prendiamo a rifermento le date del 1861 e del
1914-18 per quanto riguarda la Prima Guerra Mondiale.
(In Italia)
Principali centri.
I principali centri di diffusione del metodo storico furono appunto i grandi centri universitari d’Italia,
abbiamo Torino, Bologna, Pisa, ma anche in realtà Napoli e Roma furono dei centri di grande importanza.
Nella slide 8 abbiamo ricordato alcuni dei centri fondamentali, fondamentali perché produssero non solo
moltissime opere di questo orientamento critico, ma soprattutto ebbero dei personaggi attivi in queste
università che segnarono fortemente l’andamento degli studi, delle personalità particolarmente
carismatiche e particolarmente incisive.
Torino -> Rodolfo Renier, Arturo Graf, Francesco Novati (GSLI = Giornale Storico della Letteratura
Italiana).
Bologna -> Giosue Carducci.
Pisa -> Alessandro D’Ancona e Michele Barbi.
Per quanto riguarda Torino troviamo Rodolfo Renier, Arturo Graf, e Francesco Novati. Questi nomi, che
forse non vi saranno particolarmente noti, furono tre studiosi di letteratura italiana e letteratura romanza
che fondarono insieme a Torino un giornale destinato a una lunghissima vitalità, e che in effetti è ancora
vivo, il “Giornale Storico della Letteratura Italiana”. Per molti aspetti il “Giornale Storico della Letteratura
Italiana” diventerà molto presto in Italia il punto di riferimento di tutti gli studi della Scuola storica, la rivista
più affermata e più autorevole nel campo degli studi storici sulla letteratura italiana. E tuttora questo
“Giornale Storico della Letteratura Italiana” è attivo e rappresenta ancora un baluardo degli studi storici
sulla letteratura italiana ed una delle più prestigiose sedi editoriali per i propri articoli. Tanta è l’importanza
del “Giornale Storico della Letteratura Italiana” per inquadrare la Scuola storica che nel file di testi
troverete proprio la trascrizione del programma di questa rivista. Nel primo numero della rivista venne
infatti dato ai lettori un programma, il programma al quale si sarebbe attenuta la pubblicazione del
“Giornale Storico della Letteratura Italiana”, un programma interessante che mette in luce tutte quelle che
sono le idee e le linee guida della Scuola storica.
Anche Bologna fu un centro di particolare importanza nell’ambito della Scuola storica, e infatti a Bologna
troviamo come docente di Letteratura Italiana Giosue Carducci. Tutti noi lo conosciamo come un
grandissimo poeta del secondo Ottocento, ma fu anche e in realtà soprattutto un critico letterario tra i più
importanti del suo periodo, un critico letterario che possiamo inserire nel grande alveo della Scuola storica.
Per quanto riguarda Giosue Carducci si raccontano moltissimi aneddoti riguardo alla sua fedeltà al metodo
storico, che lo portarono in netta contrapposizione con Francesco De Sanctis. Si racconta per esempio un
aneddoto riguardate la pubblicazione della “Storia della letteratura italiana” di Francesco De Sanctis.
Giosue Carducci sarebbe andato in aula ad insegnare ai suoi alunni con una copia dell’opera e, dopo averne
letta una pagina a stento, stizzito la prese e la buttò via dalla cattedra, come a dire che essa non era degna
di stare sulla cattedra di un grande positivista e comunque fosse propagatrice di idee non fondate
scientificamente. Giosue Carducci fu un docente universitario, e da questa sua posizione formò una schiera
enorme di studenti e di studiosi, fondando una vera e propria scuola a Bologna, una scuola particolarmente
focalizzata su quella che era l’edizione dei testi, il loro commento, ma anche il lavoro filologico sui testi, e la
ricerca delle fonti storiche - che in realtà sono proprio gli ambiti di interesse della Scuola storica.
A Pisa troviamo due studiosi di rara importanza, Alessandro D’Ancona - uno dei veri e propri padri
fondatori della Scuola storica - e Michele Barbi - colui che ha creato e sistematizzato in Italia la filologia, che
è una delle branche di azione della Scuola storica.
Per capire quali furono l’importanza e gli intenti della Scuola storica abbiamo una testimonianza di Pio
Rajna, uno studioso particolarmente illustre di questo periodo (slide 9).
“Il sec. XIX, che tanto fece e ancor fa per il progresso delle scienze sperimentali, seppe dare altresì un
novello e vigoroso impulso agli studi letterarii, e avviarli per vie non battute in addietro. {…}”
Il XIX secolo - che effettivamente ha fatto molto per il progresso delle scienze sperimentali, ovvero le
scienze dure -, ha fatto allo stesso modo molto per gli studi letterari, dando un nuovo avvio a questi studi e
soprattutto segnando una nuova strada, che non era mai stata battuta in precedenza.
“{…} A lui si appartiene infatti la gloria di aver posto le fondamenta di una vera e propria scienza delle
letterature, la quale, spoglia per quanto è possibile, da ogni pregiudizio di scuola, ricerchi e studi i
documenti del passato, allarghi lo sguardo ad ogni luogo e ad ogni tempo, e raccostando l’uno all’altro
tutti i fenomeni simiglianti, faccia che a vicenda si illustrino e si chiariscano. [continua]”.
Questo progresso delle scienze ha fatto sì che comunque in Italia, o nell’ambito letterario, si ponessero le
basi di una vera e propria scienza delle letterature - non più un’interpretazione filosofica e letteraria, ma
proprio una scienza, un’applicazione fisica e metodologica all’ambito della letteratura - che avesse come
finalità la ricerca e lo studio dei documenti del passato.
“Essa [la Scuola storica] si compiace soprattutto di indagare le origini, non tanto delle varie forme
letterarie, quanto delle singole invenzioni; {…}”
La Scuola storica indaga soprattutto le origini, da dove si è originato un dato fenomeno, e soprattutto una
determinata invenzione a livello letterario.
“{...} e seguitandone pazientemente il corso attraverso a popoli e paesi svariati, ne osserva con occhio
sagace le differenze, per iscoprire dipoi le cagioni e le leggi della graduale loro trasformazione. Non è
pertanto meraviglia che la nuova disciplina sia condotta a dissotterrare molti documenti privi al tutto di
bellezza; il gusto non deve esserle unica guida; come agli occhi del naturalista il più piccolo insetto può
apparir degno di studio non meno degli animali più perfetti, così ai suoi un’informe e rozza composizione
sembra talvolta meritevole di esame quanto una splendida creazione artistica.”.
Questa nuova scienza si occupa di documenti, e di conseguenza la bellezza di un documento letterario non
è un fattore rilevante, l’importante è la sua esistenza, e come dato andrà studiata. Il gusto non può essere
più l’unica guida nella selezione dei documenti che andranno studiati - la letteratura produce dei
documenti, che sono dei fatti incontrovertibili in quanto esistenti, e come tali vanno studiati, senza
frapporre tra il documento e noi stessi un fattore di gusto. Un testo, se ritenuto brutto, ha allo stesso modo
ragione di essere studiato di un documento particolarmente bello. Di conseguenza, ricorrendo ad esempi,
la “Divina Commedia” è ugualmente degna di studio come le “Anacreontiche” di Chiabrera - che in questo
periodo erano ritenute ancora molto importanti -, però appunto adesso sarebbe questo il raffronto. Non
esiste una differenziazione possibile tra documenti di diverso valore letterario.
Il letterato quindi dovrà porsi davanti alla letteratura come un biologo: non fa differenza tra un insetto
infimo come una mosca e lo studio di un leone, sono ambedue degli oggetti di interesse, delle forme di vita
degne di studio. Allo stesso modo il letterato dovrà fare davanti a tutto il bagaglio culturale della letteratura
italiana.
Nodi centrali.
Cercando di riassumere quali sono i nodi centrali di questo discorso. Appunto possiamo vedere come sia
netta la derivazione della Scuola storica dall’ambito del Positivismo a livello scientifico. Inoltre è chiaro
come vi sia un tentativo di adottare un metodo d’indagine che era proprio delle scienze naturali, ovvero
non fare una classificazione di valore, basata sul gusto, ma una classificazione punto e basta. Vi è
chiaramente un interesse storico e documentario, e allo stesso tempo vi è un disinteresse - anzi una netta
negazione - di quello che è il gusto, che fino ad adesso era stata la guida dello studio letterario.
Positivismo/Illuminismo.
Per inquadrare la Scuola storica dobbiamo partire da due presupposti: innanzitutto il Positivismo - e lo
abbiamo già visto -, e in secondo luogo il Romanticismo. Nella slide 13 troverete un ulteriore riassunto a
quello che è il Positivismo, ma ora dobbiamo porre l’attenzione sul fatto che il Positivismo è molto simile al
fenomeno filosofico e culturale dell’Illuminismo. In effetti il Positivismo ne condivide la stessa fede nella
scienza e nel progresso tecnico, ma vi sono alcune differenze fondamentali, che troverete riassunte nella
slide 14.
Presupposti:
1. Positivismo.
Affinità
Fiducia nella ragione e nel sapere come mezzi per conseguire l'utile pubblico -> felicità comune.
Esaltazione della scienza in contrapposizione alla metafisica.
La fiducia nella ragione e nel sapere sono dei mezzi per conseguire un utile nella società, ovvero la felicità
comune. In secondo luogo, abbiamo l’esaltazione alla scienza in contrapposizione alla metafisica.
Differenze
Romanticismo.
Progressiva affermazione della ragione come base del progresso e dell'evoluzione sociale.
Particolare importanza nella teoria del Positivismo ha avuto la teorizzazione filosofica di Hippolyte Taine, al
quale è dedicata appunto la slide 16. Hippolyte Taine mise appunto numerose teorizzazioni riguardo la
filosofia dell’arte. Secondo Taine infatti era necessario per lo studioso porsi davanti alle opere della
letteratura come se fossero dei fatti, e di questi fatti era necessario indagare le cause - che cosa ha portato
alla creazione di un’opera letteraria e come sia stata creata. È un atteggiamento già differente, in
precedenza le opere le opere letterarie venivano studiate in base alla loro importanza letteraria, mentre
adesso tutto ciò viene a decadere. L’interpretazione dei testi non sarebbe altro che il dover “constatare
delle leggi” e alcune regole che erano state applicate dall’autore nella creazione. Inoltre si fa largo nella
teorizzazione di Hippolyte Taine la necessità per lo studioso di contestualizzare storicamente l’opera. Che
cosa significa? Sarà necessario per lo studioso conoscere e ricostruire quello che era lo stato generale
dello spirito e dei costumi contemporanei alla creazione dell’opera. Proprio perché l’opera è un fatto,
viene generata da una serie di circostanze tutt’altro che casuali e assolutamente ricostruibili. Il dovere dello
storico sarà proprio quello di reinserire l’opera letteraria all’interno del contesto socio-culturale che l’ha
generata.
Filosofia dell'arte:
Taine propone di porsi davanti alle opere come fossero dei “fatti”, dei quali è necessario quindi
indagare le “cause”.
L'interpretazione dei testi consiste nel “constatare delle leggi” applicate dall'autore.
Necessità di “contestualizzazione storica” dell'opera.
Sarà necessario conoscere “lo stato generale dello spirito e dei costumi” contemporanei alla
scrittura.
È un qualcosa di differente e di molto lontano da quelle che erano le teorizzazioni di De Sanctis, che sì, si
basava su una ricostruzione anche del periodo e della congerie culturale in cui è nata un’opera, ma con
l’Idealismo - o comunque la critica estetica - si era già fatta largo l’idea che l’opera d’arte fosse un
capolavoro anche indipendentemente dalla contestualizzazione dei tempi. Per esempio, “A Silvia” è un
capolavoro ai nostri occhi chiaramente anche se noi non sapessimo nulla del periodo, o della biografia di
Leopardi o del periodo in cui è stata creata l’opera, rimarrebbe comunque ai nostri occhi un capolavoro. Per
un Positivista tutto ciò è un delirio, bisogna chiaramente riportare l’opera nell’alveo della sua creazione.
Queste teorizzazioni di Hippolyte Taine portarono a diverse tendenze di approccio ai testi letterari.
Il concetto di contestualizzazione.
Di fatti venne a nascere, comunque ad essere sentito, un doppio atteggiamento rispetto alla ricerca
letteraria: da un lato vennero favorite ricerche intrinseche al testo letterario, dall’altro ricerche estrinseche.
Da un lato appunto la ricostruzione intrinseca del testo implica la ricostruzione - tramite scavi archivistici e
bibliotecari - della storia della redazione, la storia redazionale di un’opera - quando è stata scritta, quali
sono state le sue diverse edizioni, quali sono i diversi manoscritti che ce le attestano -, e anche le
ricostruzioni dei motivi personali di scrittura - il perché un determinato autore abbia deciso di scrivere
quella determinata opera in un determinato momento. Per quanto riguarda la ricostruzione estrinseca del
testo, si tratta della ricostruzione del contesto socio-culturale - ovvero ciò che agisce all’esterno,
sull’autore, portandolo alla scrittura.
Per quel che riguarda il Positivismo, o meglio la Scuola storica, assistiamo a un tentativo di conferire alla
storia della letteratura - o comunque alle discipline letterarie più in generale - una dignità scientifica. Che
cosa ne consegue da questo tentativo di far approdare quella che è una scienza umana o comunque uno
studio letterario ad un livello di scientificità riconosciuta? Innanzitutto si riserva una particolare attenzione
al documentabile: tutto ciò che è documentabile sarà in qualche modo reale, e di conseguenza degno di
attenzione. Inoltre vi sarà un degno superamento - o anzi abbandono e rifiuto anche - di quella che è la
problematica estetica, o filosofica, che può soggiacere al giudizio di un’opera letteraria. Al contrario il
giudizio estetico, proprio perché relativo alla persona che lo emette, sarà un giudizio totalmente falsato e
falsabile: ciò che a me sembra bello non è detto che a voi possa sembrare altrettanto bello, e questo è un
attacco al giudizio estetico che viene visto come relativo.
Ne consegue:
1. Attenzione al “documentabile”
Vedremo come Benedetto Croce tenterà di superare questo problema. E di conseguenza le opere letterarie
vengono sottratte al gusto personale e alle diverse tendenze ideologiche, di conseguenza stiamo assistendo
a un capovolgimento di tutto ciò che abbiamo visto con Francesco De Sanctis e con la critica idealista. Non è
più il singolo lettore che attesta ai propri ascoltatori la bellezza di un testo e ciò che ha provato nella lettura,
ma si tratta semplicemente di ricostruire metodologicamente e in maniera molto precisa ciò che l’opera
letteraria è stata e ciò che è stata nei diversi periodi della sua stessa evoluzione.
La critica letteraria dovrà quindi puntare alla massima oggettività possibile. Il critico non sarà chiamato ad
esprimere giudizi - il giudizio letterario, il giudizio estetico non hanno ragion d’essere, proprio perché è
criticabile dalla singola persona.
In che modo gli studi sulla letteratura italiana vengono a presentarsi durante la Scuola storica? Il critico del
periodo storicista della nostra letteratura è chiamato a comporre una serie di monografie - o comunque di
studi particolari - che serviranno poi in futuro da base certa, solida e documentabile a una grande opera di
sintesi che sarà la scrittura della storia della letteratura italiana finalmente affidabile. Ma senza tutti questi
studi particolari, queste monografie che indagano qualsiasi aspetto della produzione della composizione
letteraria e della biografia dell’autore non sarà possibile arrivare alla composizione di un’opera di sintesi.
Innanzitutto abbiamo un’importante attenzione al contesto storico dell’opera. Inoltre abbiamo una
particolare attenzione alla biografia degli autori: in questo periodo assistiamo alla nascita di una serie
enorme di studi biografici sugli autori, che cercano di indagarne qualsiasi aspetto e qualsiasi più piccolo
particolare. In questo periodo assistiamo - per esempio per quanto riguarda Leopardi - alla nascita di
studiosi particolarmente attenti a quella che è la sua biografia: Camillo Antona Traversi o Giuseppe Piergili.
Degli studiosi che perdevano quasi completamente di vista qual era la ragione dello studio di Leopardi: non
ci si concentrava tanto sulle sue opere, ma più che altro su quella che era stata la sua biografia. Ed era un
tentativo di illuminare le opere grazie proprio allo studio della biografia. In questo modo effettivamente si
cercava di indagare la letteratura in una maniera diversa: non vi era più l’attenzione alla creazione artistica,
quanto più alla realtà dei fatti. Silvia non è più - per rimanere su Leopardi - un’ideazione della mente
poetica di Leopardi, ma è un personaggio reale, effettivamente esistito, ed è necessario e doveroso
indagare qualsiasi aspetto di questa sua biografia. Di conseguenza si va addirittura a intervistare il fratello
della morta Nerina, a cercare tutti i documenti riguardanti la povera Teresa Fattorini. Sono degli studi molto
interessanti, ma che effettivamente non tengono conto di quella che può essere la trasfigurazione letteraria
di un personaggio effettivamente esistito. Nessuno può mettere in dubbio che Aspasia di Leopardi sia stata
Fanny Targioni Tozzetti, ma l’Aspasia di Leopardi è un personaggio trasfigurato, non è più un personaggio
reale in carne ed ossa.
Inoltre la critica positivista riserverà una grandissima attenzione a quella che è la ricostruzione filologica
delle opere. Quello che vedremo in seguito da Benedetto Croce definito come qualcosa di totalmente
esterno dall’opera letteraria, era in realtà visto dai Positivisti come un momento fondamentale di studio. La
ricostruzione del testo era alla base di qualsiasi tipo di elucubrazione successiva.
2. Attenzione ad ogni particolare biografico degli autori che possa poi servire ad una completa trattazione
monografica;
3. Attenzione alla fortuna di un'opera come attestazione della sua stessa fortuna critica;
4. Attenzione alla ricostruzione filologica del testo quale momento precedente e propedeutico
all'interpretazione vera e propria.
Filologia.
etimologia:
definizione:
l'insieme delle discipline che studia le attestazioni scritte (di qualsiasi natura) con la finalità di
ricostruirne/restituirne la forma testuale più vicina possibile all'originale.
infatti il cercare di stabilire un testo implica l'avere e il dare del testo stesso una visione
interpretativa ben precisa;
il complesso di queste tecniche di analisi scientifiche prende il nome di critica del testo.
Teorizzazioni filologiche.
È un insieme di discipline in realtà che mira alla ricostruzione testuale più vicina possibile all’originale di
scrittura. La filologia si basa sul metodo scientifico creato da Karl Lachmann (1793-1851), un filologo e uno
studioso di lingue classiche. Karl Lachmann non fu il primo filosofo effettivamente a dotare questa
disciplina di un metodo scientifico, ma viene riconosciuto unanimemente da tutti come il creatore del
metodo filologico. Lachmann teorizzava alcuni momenti fondamentali del lavoro sul testo letterario.
Innanzitutto la recensio - ovvero la raccolta dei testimoni manoscritti esistenti di un’opera; la collatio - il
momento di confronto tra le diverse forme attestate dai diversi manoscritti. Inoltre avevamo appunto la
costruzione di uno stemma codicum - ovvero la determinazione e lo studio delle relazioni tra i testimoni. E
successivamente avremmo avuto l’edizione del testo.
Metodo di Lachmann.
Stemma codicum.
Per quanto riguarda lo stemma codicum, questo è il risultato ultimo del sistema filologico (es. alla slide 25).
Avendo a disposizione una serie di manoscritti che sono tutte una la copia dell’altro appunto, dello stesso
testo, è possibile ricostruire un albero genealogico delle copie. Ad esempio dal manoscritto W
deriverebbero tre copie, A, B e G, che a loro volta sono stati copiati e trasmessi ad altri manoscritti. Questo
metodo permette chiaramente di ricostruire - risalendo questo albero genealogico - quello che è stato il
testo più antico, o almeno il testo ipoteticamente originale di scrittura di un’opera. Tutto ciò permette a noi
di leggere un testo nella miglior forma possibile, in quella più autorevole. Capite bene che avere un testo
affidabile è una base imprescindibile per comprendere la critica letteraria anche come la intendiamo oggi.
Se il testo è corrotto, o comunque vi sono degli errori, noi non saremmo in grado di giudicare in maniera
equilibrata e in maniera oggettiva quella che è la forma del testo voluta dall’autore.
II. La famiglia Croce nasce negli Agri abruzzesi. Ha sempre avuto importanti discendenze con i Borboni e di
conseguenza ha sempre guardato al Risorgimento con freddezza. Benedetto Croce nasce il 25 febbraio
1866 a Pescasseroli (L’Aquila), da Pasquale Croce e Lucia Sipari.
III. Anni del collegio: crisi religiosa profonda -> abbandono delal fede.
VI. 1883, terremoto Casamicciola - sconvolgimento profondo della vita di Croce -> perdita di genitori e
sorella.
VII. Si reca a Roma, presso lo zio Silvio Spaventa. Farà ritorno a Napoli solo nel 1886. A quei tempi, l’Italia è
impegnata nella Guerra d’Eritrea, e il ministero De Pretis decide un’estensione coloniale, che sarebbe
costata all’Italia umiliazione e dolore.
01/1887, Dogali - 500 italiani vengono uccisi dalle forze abissine -> divisione opinione pubblica, che
cercò e chiese comunque compensi materiali e morali;
Nel 1887 Francesco Crispi sarebbe andato al potere, e si sarebbe aperta la questione sociale. Più tardi, nel
1892, a Genova, Labriola e Turati fondando il “Partito socialista dei lavoratori italiani”.
XIII.
1886-1892 - Croce compie delle ricerche erudite, che gli frutteranno numerosi volumi di elegante e
appassionata ricostruzione storica.
“Saggi sulla Rivoluzione Napoletana del 1779”;
la cronistoria di “Teatri di Napoli”;
edizioni “Li cunto de li cunti”, di Basile;
numerose storie napoletane.
È preso dalla passione critica letteraria, e si pone domande sui problemi filosofici. Non è per nulla sfiorato
dalla tensione sociale vigente in Italia.
XVI. Nasce l’interesse di Croce per il marxismo. Si interessa di economia e di lettura socialistica. Lo stesso
Labriola, nell’aprile del 1895, inviò a Croce da Roma il primo dei suoi saggi sulla concezione materialistica
della storia, quello sul manifesto dei comunisti.
1895-1900 - produzione saggi di critica filosofica sul marxismo, intitolati “Materialismo storico ed
economia marxista”;
Si precisavano anche gli interessi più caratteristici del Croce pensatore - “accresciuta esperienza dei
problemi umani e il rinvigorito spirito filosofico”. Si avvicina alla filosofia, e si distacca dal Labriola.
Min. 17,12. “Croce sosteneva fin da giovane che ci sono dei sentimenti torbidi, morbosi - morbidi -, che non
devono entrare nella forma dell’arte, non possono essere tradotti in forma artistica. C’è una specie di
impossibilità fondamentale e insuperabile. Gentile era più giovane di Croce di vari anni, e sosteneva la tesi
opposta: che tutti i sentimenti, morbidi o non morbidi, morali o immorali, potessero entrare nella sfera
dell’arte. Ci fu un carteggio tra i due filosofi, e Croce si dichiarò abbattuto, sconfitto, si arrese. Tutto ciò fu
semplice illusione, perché in seguito abbiamo visto che il nemico numero 1 di Croce era proprio il
DECADENTISMO. Le opere in cui si trovasse traccia di questo Decadentismo che nessuno ha mai definito
bene cosa sia, destavano il sospetto e l’avversione di Croce, quindi si può dire che questa conversione di
Croce a questo particolare aspetto di Gentile fu solo illusione, lui fu sempre coerente. Se avesse avuto
esperienza di pittura, musica e altre arti forse la sua estetica non sarebbe nata, o sarebbe nata sotto
un’altra stella, perché il fattore tecnico dell’arte - quella che lui chiamava estrinsecazione - ha una grande
importanza, a cui lui non ha mai dato peso. Il quadro non dipinto, la poesia non scritta non hanno vita come
lui invece credeva. L’opera d’arte esiste solo nel momento in cui è “estrinsecata”, quindi questa divisione tra
l’arte che sta dentro l’anima dell’artista e il quadro che sta sulla tela, o la scrittura che sta su carta, non
sono due momenti distinguibili. L’estrinsecazione non è che una trovata, più o meno brillante, ma non ha
nessuna conferma nella pratica dell’arte.”
Eugenio Montale
Ha inizio la sua vita civile e culturale, prenderà parte alle vicende private pubbliche per i successivi
cinquant’anni.
Min. 20,40. “L’esempio di Croce oggi è seguito soprattutto da quelli che sono specialisti di storia delle idee,
del pensiero intellettuale, dei sentimenti. Ma oggi l’asse, il centro di gravità della ricerca storica, si è
spostato, e quindi Croce non gode di una congiuntura favorevole. Eppure per uno come me - che sono uno
storico della via materiale, dell’economia -, quando mi capita di tuffarmi in un libro di Benedetto Croce, è
“un incanto, una distensione, un ristoro”. Si vedono i problemi in un modo diverso, si sente che il pensiero di
Croce è un pensiero straordinariamente vivo, una lingua magnifica. Gli italiani sono d’accordo con me ma
veramente si resta conquistati dal suo discorso, dalla sua eloquenza, dalla lucidità, dallo scintillio del suo
pensiero. È un’impressione meravigliosa. E ogni volta che riprendo in mano Croce - mi è capitato di recente,
per vedere quale poteva essere la decadenza dell’Italia nel Seicento -, trovo che ci sono delle concordanze
straordinarie tra quest’uomo che non badava ad altro che allo spirito, al pensiero, alle cose più belle della
vita, e noi che ci occupiamo delle cose materiali. Vi sono delle intuizioni in Croce, cioè delle possibilità
concrete di essere reinserito in una storia che non è la sua, e di esservi reintrodotto in un modo vittorioso.”
Fernand Braudel
Di questi anni nasce con il Gentile l’idea di produzione di una nuova rivista di indirizzo ideale. Di qui inizia il
suo periodo di maturità, coronato da una soddisfazione anche politica in senso lato - “opera di studioso e di
cittadino insieme”. Il pensiero italiano è in pieno dialogo con quello europeo per quel che concerne arte e
filosofia.
Di questi anni sono gli scritti: “La Logica”, “La filosofia della pratica”, “La teoria e storia della storiografia”, i
“Frammenti di etica”, i “Saggi su Hegel e Vico”. Dette vita insomma alla quasi totalità della sua opera. Ciò
consente la crescita di prestigio intellettuale, ma dà anche vita a polemiche e scontri - in grossa parte con i
Futuristi, e con la rivista “La Voce”.
Seguirà un successivo sconforto, dovuto alla nuova direzione dell’Italia verso l’irrazionalismo. La struttura
democratica italiana viene minata nel periodo delle conquiste liberali del Risorgimento, ed è di questi tempi
che l’impegno politico di Croce si fa sempre più deciso. Nonostante si mostri inizialmente contrario
all’entrata dell’Italia in guerra, una volta entrata [in guerra] Croce non può che farsi tutt’uno con il suo
paese. C’è anche l’illusione di un ritorno agli studi al termine della guerra.
Intanto, casa Croce a Napoli diventa un vero e proprio centro di vita intellettuale, a cui fanno visita diversi
professori universitari - Torraca, Brognoligo, Spampanato, Apersico, Schipa, Cortese. Importante la figura di
Giustino Fortunato.
06/1920 - Giolitti viene incaricato di comporre un nuovo gabinetto, per cui Croce viene chiamato a
Roma, pregato di accettare il ministero della pubblica istruzione - prima chiamata al governo!
I risultati ottenuti non sono però quelli sperati: Giolitti pensa di adoperare una dose di tolleranza per
cercare di disinnescare la violenza del Fascismo nascente, e un tacito consenso. Ritiene infatti il Fascismo
una sorta di correttivo alle agitazioni operaie nel dopo-guerra. L’insuccesso politico conduce alla caduta il
01/07/1921.
Croce è in attesa, in quanto la sua considerazione sul Fascismo è quella di un episodio del dopo-guerra,
caratterizzato da tratti di reazione giovanile e patriottica. Date le premesse, sembra temporaneo e di facile
dissipazione. Chiarita l’entità del fenomeno, Croce vi si oppone.
“Croce era attendista: era monarchico, e sperava che il Fascismo fosse qualche cosa di provvisorio, che poi
desse luogo a qualche cosa di accettabile - era la posizione di molti altri italiani. La marcia su Roma fu
salutata con un sospiro di sollievo, perché si pensava che ci sarebbe stato l’ordine che era venuto a
mancare. Non ci fu poi marcia su Roma, ma più un’allegra scampagnata. Tutti dissero: “Finalmente non ci
saranno più gli scioperi, non ci sarà più il disordine, le fabbriche funzioneranno”. Quest’uomo può darsi che
sia un male più utile che dannoso. Questa fu la posizione Crociana e di molti altri.”
Eugenio Montale
In Senato Croce vota contro la soppressione della libertà di stampa e di associazionismo, contro il tribunale
speciale e la pena di morte, contro la riforma elettorale. Degli stessi tempi è l’unico discorso nel Parlamento
italiano di critica alla conciliazione e al concordato.
Il Fascismo cambia molto i ritmi di vita della famiglia Croce, costretta a trasferirsi a Palazzo Filomarino, in
Trinità Maggiore (Napoli), e perennemente sorvegliata da poliziotti. I visitatori si diradano, la consuetudine
domenicale di riunione a casa Croce finisce, e molti giovani aventi con lui rapporti di amicizia finiscono in
carcere - Amendola, Doria, Sereni.
“Lui era molto grato alle persone che lo avvicinassero, perché lui era sempre sorvegliato. Io ero uno dei
pochi che lo andava a trovare, l’ho spesso trovato a casa di Luigi Russo, poi all’Albergo Monciani dove lui
alloggiava a Firenze, l’ho trovato più volte anche all’Istituto a Napoli, ma eravamo pochi, sempre le stesse
persone. Un gruppo di persone che certamente non affrontava rischi eroici, ovviamente, ma comunque non
era molto piacevole né rassicurante essere catalogati come “crociani”.”
Eugenio Montale
02/1932 - “La storia d’Europa nel secolo XX” - manifesto del liberalismo al confine.
In questi tempi abbiamo l’episodio di irruzione in casa Croce, e molti altri provvedimenti presi verso la
figura di Croce. Viene escluso da incarichi pubblici ed istituti scientifici, viene escluso da libri di scuola e da
biblioteche. Viene espresso il divieto di mentovare il suo nome, e di frequentare la sua compagnia. La sua
unica immunità gli fu attribuita dalla fama all’estero, tanto che lo stesso Mussolini si vantò di non aver
ostacolato la pubblicazione della sua “Storia d’Italia” (1928).
10/06/1940 - l’Italia entra nella Seconda Guerra Mondiale con la Germania contro le democrazie
inglesi e francesi;
1941, pagina autobiografica di Croce - “Il concetto della libertà aveva per così dire disarmato
nell’età liberale, che è stata quella della giovinezza e della maturità degli uomini della mia
generazione. La libertà conquistata dai padri formava un pacifico possesso che si pensava potesse
essere mai più turbato, meno che mai oppresso e vilipeso. Invece quella libertà venne stracciata e
infangata. La guerra portò oltre ai morti e ai bombardamenti, il razzismo e i campi di
concentramento. Spinse l’Europa civile verso la barbarie, cosicché molti, o tutti coloro che avevano
a cuore il ripristino della giustizia e della concordia, non poterono che augurarsi, da qualunque
parte del fronte bellico si trovassero, che il Nazismo e il Fascismo venissero sconfitti.”
Alla fine del 1942 Croce e la sua famiglia si trasferiscono a Sorrento, Napoli, presso la Villa Tritone.
Sorrento, 15/12/1943, pagina autobiografica - distruzione di tutto ciò che è stato costruito dalle
generazioni giovani italiane; l’unico motivo per cui sperare la sopravvivenza sono le forze ideali con
cui affrontare il venire;
In seguito, Croce si trovò nel mezzo di una controversia politica, per cui il re Vittorio Emanuele III dà
le dimissioni e segue un periodo di luogotenenza politica, che sfocerà nel referendum istituzionale
del 1946. Croce lavorò con De Nicola, Sforza, Tarchiani, Rodinò, Togliatti, per l ristabilimento della
legalità democratica. Negli stessi anni incontrerà personalità militari inglesi e americane.
09/1943 - Croce fugge a Capri, per evitare un rapimento di matrice nazista, e di ritorno in Villa
procederà con un’intensa tessitura di rapporti umani, e una forte frammentazione degli studi;
17/04/1944 - in occasione di un incontro con Brindisi, Croce viene a conoscenza dell’omicidio di
Gentile a Firenze - amico sincero, affettuoso e leale, la cui rottura è causata dal Fascismo, dal
presiedere di Gentile all’Accademia d’Italia, e dalla contaminazione della filosofia con le istanze
fasciste;
Intanto rinascono le discussioni di cultura e politica italiana anche a Villa Tritone, con personalità quali De
Nicola, Omodeo, Badoglio, e diversi giovani.
Bari, 28-29/01/1944 - in occasione di un congresso dei partiti antifascisti del sud Italia, Croce viene
invitato a presiedere, e tiene un discorso a Teatro Piccinni - invoca la necessità di restituzione
dell’autorità, del credito, del potere alle forze democratiche del paese;
Primavera, 1944 - Croce appoggia il tentativo di Badoglio di instaurazione di un nuovo governo di
coalizione democratica, il Governo di Salerno;
1947 - fondazione “Istituto Italiano per gli studi storici” a Napoli, mirato alla formazione dei giovani
studiosi;
Min. 43,50. “L’“Istituto Italiano per gli studi storici” è una scuola ed è un centro di ricerca. A prima vista un
istituto del genere potrebbe sembrare in contraddizione con il pensiero di Croce, che ha sempre diffidato
delle forme istituzionali della ricerca e in fondo anche della pedagogia, così cara al suo maestro Hebert.
L’idea dell’Istituto cominciò a prendere forma quando il filosofo, sulla soglia dei settant’anni, si mostrò
propenso a considerare la sua biblioteca come uno strumento, “uno strumento che ho suonato per molti
decenni” - soleva ripetere. L’Istituto si ispira a Vico e alla tradizione napoletana delle scuole private, non
accademiche o addirittura antiaccademiche. L’opera sua va intesa nel senso di promuovere il rapporto
sostanziale della storia con le scienze filosofiche. L’Istituto ha superato il suo venticinquesimo anno di vita,
ha avuto più di quattrocento allievi, di cui una novantina stranieri - francesi, inglesi, svizzeri, svedesi,
americani, russi, giapponesi, polacchi, greci, iugoslavi, spagnoli. Tra i suoi ex allievi una quarantina sono
oggi professori di ruolo all’università, una cinquantina incaricati di corsi ufficiali nelle università o liberi
docenti. Essi sono la prova che per l’“Istituto” passa una parte non trascurabile della futura élite culturale
italiana. Il numero e il valore dei contributi scientifici che vanno dall’antichità classica alla politica
contemporanea meriterebbero un discorso a sé. Quello che qui mi preme di porre in luce è che il proposito
dell’“Istituto” è che l’allievo non debba sentirsi soltanto il beneficiario di una borsa e l’usufruttuario di una
magnifica biblioteca, ma avverta di essere avvolto in un’atmosfera di rigore metodico con tolleranza di
inquieta curiosità. Un’atmosfera che non saprei definire se non crociana, e che ci consente di ammonire da
questa sede di studi, nel capoluogo di quel mezzogiorno di cui tanto si discorre, che sviluppo economico è
inconcepibile senza sviluppo culturale.”
Raffaele Mattioli
02/06/1946 - Croce viene eletto nell’Assemblea costituente; è costretto a viaggi frequenti da Napoli
a Roma;
Pone la sua parola contro i Patti Lateranensi nella nuova costituzione, contro il divieto di discussione del
disegno di divorzio in Parlamento, in difesa della Scuola di Stato, contro la pesantezza del rapporto di pace.
Infine, interviene contro l’interpretazione comunista riguardo il Risorgimento, conferendo un significato
storico.
Min. 47,26. “Quel che soprattutto mi colpisce in Croce è la sua complessità, che contrasta con quelle che
sono in genere le tendenze degli storici di oggi. Croce è un uomo classico, mediterraneo, un moderno uomo
mediterraneo; è filosofo, ma anche uno storico. Come filosofo è importante per la sua teoria della
conoscenza e per la logica, come storico si interessa prevalentemente della storia locale, della storia della
sua terra, il mezzogiorno d’Italia.”
Arnold Toynbee
1946 - Croce rifiuta la candidatura alla presidenza della Repubblica Italiana, e in seguito rifiuta
anche la nomina di senatore a vita offertagli da Einaudi;
“Il suo influsso sulla cultura italiana è stato enorme, si può dissentire su molti punti, ma se in Italia non si
dicono molte sciocchezze che vengono ripetute ancora all’estero da critici importanti, questo lo si deve
proprio a Croce ancora oggi. Perché per esempio ancora oggi si parla all’estero se sia possibile o non sia
possibile ammirare un poeta di cui non si condividono le idee politiche e religiose - la questione della
credibilità insomma, il belief degli inglesi così. Questa è un’autentica sciocchezza che Croce ha dissolto fin
da giovane, ed è un errore che in Italia non ha mai trovato credito, è uno dei tanti meriti che dobbiamo
riconoscere a Benedetto Croce - ma ce ne sono infiniti altri che si potrebbero citare.”
Eugenio Montale
“Se devo dare un giudizio su Croce storico, più che la “Storia d’Europa” io trovo più interessante un’altra
opera, la “Storia del reame di Napoli”. È un ottimo lavoro sulla storia meridionale, sui re di Napoli del
periodo aragonese, nel quale egli sembra animato da un vivissimo amor di patria locale. C’è un passo, ne
“La teoria e la storia delal storiografia”, che suona pressappoco così: “Ogni vera storia è storia
contemporanea”. Penso che Croce intendesse dire che lo storico non può tirarsi fuori dalla storia, e
guardare agli avvenimenti dall’alto con gli occhi di Dio. Egli vive dentro la storia, è legato a un tempo e a un
luogo determinati, è comunque soggettivo. “Il vero oggetto della storia - pensava Croce - è sempre il mondo
in cui noi viviamo, il pensiero contemporaneo.”.”
?
20/11/1952 - morte di Croce;
“Malinconica e triste che possa sembrare la morte, sono troppo filosofo per non vedere
chiaramente che il terribile sarebbe se l’uomo non potesse morire mai, chiuso nel carcere della vita.
La morte sopravverrà a metterci a riposo, a toglierci dalle mani il compito a cui attendevamo. Ma
essa non può fare altro che così interromperci, e noi non possiamo far altro che farci interrompere,
perché in ozio stupido essa non ci può trovare.”
“Il suo modo di fare la critica - soprattutto parlo della critica letteraria, perché i libri veramente storici non
sono di mia stretta competenza -, i suoi libri di critica letteraria conserveranno un notevole interesse,
perché rappresenteranno uno dei modi più onesti di fare critica letteraria, comunque una posizione chiara,
precisa, a cui si contrapporranno altri modi di giudicare, ma sarà sempre impossibile qui in Italia almeno
pensare come se Croce non fosse mai esistito. La sua traccia in questo senso resterà molto importante.”
Eugenio Montale
15° Lezione del corso di “Critica Letteraria Italiana” - “Introduzione alla critica Crociana”.
Origini della critica crociana.
In questa lezione cercheremo di vedere alcune tematiche molto più generali dell’approccio di Benedetto
Croce alla critica degli autori della nostra letteratura, che saranno assolutamente valide per tutto il
proseguo del nostro percorso su Benedetto Croce.
Oggi cercheremo di capire quali sono le origini della letteratura crociana, quale sia il suo metodo e quale sia
il suo modo di procedere. Si è affermato comunemente ed espressamente - ed è una concezione che viene
ripetuta tutt’oggi nei manuali - che tutta l’opera critica di Croce non sia null’altro che l’applicazione
pedissequa in realtà della sua teorizzazione estetica. Croce procedeva a scrivere una teorizzazione estetica
- che poteva essere l’“Estetica” del 1902, oppure “La poesia” del 1936 (che erano degli scritti teorici) -, e
dopo successivamente andava ad applicare il suo metodo, le sue teorizzazioni estetiche, sui testi letterari. È
un’affermazione comune, ma cerchiamo di capire se è effettivamente veritiera.
Si afferma comunemente che tutta la poderosa opera critica di Croce non sia altro che
l’applicazione pratica della sua teorizzazione estetica.
Di conseguenza, per quel che abbiamo detto, noi avremo uno schema di questo tipo: al primo posto ci
sarebbe la teorizzazione, al secondo posto la pratica. Ma cerchiamo di capire se è effettivamente così.
Alcune affermazioni sembrerebbero far pensare ciò. Leggiamo una citazione tratta dal carteggio di
Benedetto Croce con Karl Vossler. Karl Vossler è stato un critico letterario, un filosofo particolarmente
amico di Croce - secondo lui, l’unico amico che egli ebbe in tutta la sua vita. Il loro carteggio è composto di
molte lettere che Croce stesso pensò di pubblicare dopo la morte dell’amico proprio perché in queste
lettere vi è un dialogo costante con questo amico e con questo intellettuale e filosofo, un vero e proprio
documento circa le teorizzazioni e l’evolversi delle teorizzazioni di Croce.
“quel tanto di critica letteraria che io ho fatto è stata informata al desiderio (=è stata plasmata seguendo il
desiderio) di mettere ben in chiaro, per exempla, l’ossatura della critica letteraria” (Cart. Croce-Vossler,
149).
Quindi, “quel tanto di critica letteraria che io ho fatto {…}” - quindi con tanto di sminuimento, “quel po’” che
ha fatto di critica letteraria - e Croce ne ha fatta molta nella sua vita - “{…} è stata informata al desiderio
{…}” - è stata plasmata seguendo il desiderio di mettere ben in chiaro attraverso degli esempi quale fosse la
pratica che corrispondeva alla teorizzazione estetica.
Inoltre in un altro passaggio Croce sottolinea sempre questo aspetto, e riferendosi ai saggi dice che a suo
avviso avevano proprio “il precipuo valore di esemplificazione di una dottrina estetica piuttosto che di un
libro pensato col fine principale di penetrare nell’interno spirito della più recente letteratura”. Ne “il
precipuo valore di esemplificazione di una dottrina estetica {…}” lui sta proprio ribadendo che tutti i saggi di
critica letteraria - quindi la pratica critica - non fossero altro che degli exempla della dottrina estetica
precedentemente esposta. Di conseguenza sembrerebbe molto ben chiaro che lo schema sia operazione
teorizzatrice a cui segue applicazione pratica.
Depongono a favore dello schema 1. Teorizzazione -> 2. Pratica critica diverse affermazioni di Croce stesso:
“quel tanto di critica letteraria che io ho fatto è stata informata al desiderio (=è stata plasmata
seguendo il desiderio) di mettere ben in chiaro, per exempla, l’ossatura della critica letteraria” (Cart.
Croce-Vossler, 149)
I suoi saggi, a suo avviso, avevano: “il precipuo valore di esemplificazione di una dottrina estetica
piuttosto che di un libro pensato col fine principale di penetrare nell’interno spirito della più recente
letteratura”
Vi è però un problema: queste due citazioni che abbiamo letto - e che vengono riportate dalla maggior
parte dei manuali di critica letteraria - si riferiscono precisamente a una sola opera, o meglio a un ciclo di
saggi, nella fattispecie “La letteratura della nuova Italia” (1903-1914). “La Letteratura della nuova Italia” è
un’opera di Benedetto Croce, originariamente uscita in quattro volumi, e poi divenuti sei. Ma
effettivamente questi saggi vennero pubblicati dapprima nella “Critica letteraria”, come se fossero delle
puntate, ed era un iter di studio di Croce relativo alla letteratura italiana dal 1870 in poi - quindi proprio
della Nuova Italia, dell’Italia Unita effettivamente. Sono dei saggi che coprono grosso modo l’arco di
composizione 1903-1914, con poi delle successive aggiunte. Fatto sta che poi questi saggi effettivamente
uscirono nel 1903 - e voi forse già saprete dalla lettura di Nicolini o comunque dalla lettura del manuale,
che una delle opere fondamentali di Benedetto Croce è proprio l’“Estetica”, che viene pubblicata nel 1902,
e contiene le prime e più importanti teorizzazioni della critica letteraria o comunque dell’estetica crociana.
Queste citazioni si riferiscono unicamente a questo ciclo di saggi su “La letteratura della nuova Italia”, di
conseguenza cercare di proiettare la valenza di quelle citazioni su tutta la produzione letteraria di
Benedetto Croce è quanto meno un azzardo, o comunque un tentativo non veritiero di rappresentare il
metodo e l’orientamento pratico di Benedetto Croce.
Al contrario infatti tutta l’opera di Croce è costellata di affermazioni anche contrarie a quelle che abbiamo
visto, delle affermazioni o comunque delle citazioni, dei passaggi che ci portano invece a vedere come il
percorso fosse molto spesso inverso: non quindi prima la teorizzazione e poi l’applicazione pratica, ma al
contrario prima l’applicazione critica dalla quale viene generata, o comunque arriva sempre a costante
miglioria la teorizzazione estetica. Cerchiamo quindi di vedere altre affermazioni di Croce che ci aiutano a
capire quale fosse il suo metodo di lavoro.
In una lettera del 1920 destinata al filosofo francese Bosanquet Croce affermava ciò:
“[tengo molto] a questo principio metodico: che per penetrare a fondo i problemi dell’arte, ossia l’estetica,
convenga esercitare e praticare la critica effettiva della poesia, o, in genere, dell’arte”.
Per penetrare effettivamente all’interno dell’estetica, l’unico modo per riuscire a rendersi conto di quelle
problematiche, di quelle teorizzazioni, è proprio cimentarsi nella pratica critica, e di conseguenza
sembrerebbe - in questo caso in maniera non ancora molto lampante - che vi sia la predominanza del
momento pratico sul momento teorico. Leggiamo ancora la seconda citazione, in questo caso molto più
esplicita:
“la determinazione del mio primo concetto dell’intuizione nell’altro dell’intuizione pura o lirica non accadde
per una inferenza del primo (=superamento del primo concetto rispetto al secondo), il quale per sé mi
soddisfaceva e rimaneva inerte, ma dalle suggestioni venutemi nell’esercizio effettivo della critica
letteraria, scrivendo le mie note sulla letteratura italiana contemporanea, e dal meditare direttamente sulle
opere d’arte, procurando di mettere in armonia i vecchi coi nuovi pensieri che ne nascevano” (FPS, 1167).
Croce qui si sta riferendo a un passaggio teorico molto importante che vedremo nella prossima lezione,
ovvero il mutare della sua concezione rispetto all’arte da una prima concezione teorica che includeva
l’intuizione a quella che invece individuava l’intuizione lirica come germe vero e proprio dell’arte. Questo
passaggio dal concetto di intuizione a quello di intuizione lirica non avvenne per mera speculazione, ma al
contrario grazie alle suggestioni venute a lui dall’esercizio effettivo della critica. In questo caso abbiamo una
chiarissima ed evidente spia del fatto che la pratica critica non sia un’inerte messa in partica di teorizzazioni
precedenti, ma al contrario è essa stessa a generare le teorie, o comunque a generare un’evoluzione delle
teorizzazioni stesse.
“[tengo molto] a questo principio metodico: che per penetrare a fondo i problemi dell’arte, ossia l’estetica,
convenga esercitare e praticare la critica effettiva della poesia, o, in genere, dell’arte”
O ancora:
“la determinazione del mio primo concetto dell’intuizione nell’altro dell’intuizione pura o lirica non accadde
per una inferenza del primo (=superamento del primo concetto), il quale per sé mi soddisfaceva e rimaneva
inerte, ma dalle suggestioni venutemi nell’esercizio effettivo della critica letteraria, scrivendo le mie note
sulla letteratura italiana contemporanea, e dal meditare direttamente sulle opere d’arte, procurando di
mettere in armonia i vecchi coi nuovi pensieri che ne nascevano” (FPS, 1167)
Testimonianza dell’“Estetica”.
La sua teorizzazione estetica cresceva insieme “{…} con la mia critica e storiografia letteraria, {…}”, per cui
l’applicazione critica e quella alla storiografia letteraria non faceva altro che generare nuove teorizzazioni e
accrescere quelle originarie. “{…} e così ha avuto sempre {…}” - e così è stato sempre - “{…} e così
continuerà nel suo svolgersi” - e così continuerà nel futuro. Quindi lo schema applicazione critica ->
teorizzazione estetica viene confermato in maniera molto lampante da queste citazioni che abbiamo visto.
Ma inoltre anche secondo dei critici molto vicini a Benedetto Croce - e mi riferisco in questo caso a Luigi
Russo, che è stato un allievo ma anche dopo un critico di particolare intelligenza a livello autonomo -
testimoniano come l’interesse precipuo della speculazione di Croce non fosse tanto quella di una
speculazione pura - quindi attenta alle teorizzazioni unicamente - ma al contrario era un’applicazione tesa
alla comprensione dei singoli fenomeni. Il che ovviamente non può realizzarsi se non con il confronto
costante con i testi, che sono i veri soggetti della speculazione teorica.
“concresceva con la mia critica e storiografia letteraria, e così ha avuto sempre e così continuerà nel suo
svolgersi” (FPS, 98)
Lo schema applicazione critica -> teorizzazione estetica viene confermato da molti critici a lui vicini
(Russo) che testimoniano come Croce non fosse interessato alla speculazione pura, ma alla
comprensione dei fenomeni, il che non può realizzarsi se non nel confronto costante con i soggetti
della sua speculazione (testi).
Riassumendo, abbiamo visto come da principio sembrava che la teoria fosse il primo momento a cui
seguiva la pratica, adesso abbiamo detto al contrario che sembrerebbe in molti casi la pratica a generare la
teoria, e le teorizzazioni. Nemmeno questa è però effettivamente vera, in quanto quello che è lo schema
più logico è quello che effettivamente viene esposto da un critico, Mario Puppo, che si è applicato molto al
metodo di Benedetto Croce, e che dice:
Siamo davanti ad un meccanismo sostanzialmente circolare, per il quale è giusto per esempio dire che la
teoria genera la pratica, ma è altrettanto giusto dire che la pratica genera la teoria. Ma non dobbiamo
vederli come due metodi, o comunque come due possibilità opposte, al contrario fanno parte di un unico
meccanismo circolare, e cerchiamo di vedere appunto questo meccanismo circolare definito dallo stesso
Benedetto Croce.
Eppure non è corretto neppure lo schema appena proposto (applicazione critica -> teorizzazione
estetica) infatti è più giusto affermare che l’esperienza critica di Croce si basi su un continuo
interscambio tra la fase speculativa (teorizzazione estetica) e quella applicativa (applicazione
critica).
Mario Puppo a tal proposito afferma che in Croce:
Testimonianza di Benedetto Croce tratta da “Metodologia e storiografia letteraria” in PS. II, 236-237.
Nella slides 10-11-12-13 troverete un lungo passo molto importante, tratto dall’opera “Metodologia e
storiografia letteraria” in PS. II, 236-237, nel quale Croce racconta a degli studiosi che erano andati a sentire
una sua conferenza - intervenuti quindi in questo convegno -, spiega proprio a questi personaggi il proprio
iter di studio, e la genesi del proprio metodo.
Risulta probante a tal fine la lettura di un lungo passo (Metodologia e storiografia letteraria, in PS. II, 236-
237) che possiamo definire “autobiografico” in cui Croce parla del proprio metodo, o meglio iter di studio:
“Se mi fosse permesso parlare delle mie cose personali, io racconterei ai colleghi qui presenti, studiosi di
storia letteraria, quella che è stata la mia esperienza nel corso della mia vita scientifica. Perché io cominciai,
come tutti o quasi tutti voi, con la quasi esclusiva cultura letteraria e filologica, e fui, come voi, gran
frequentatore di biblioteche e di archivi, ricercatore di documenti, di libri rari, di notizie recondite e di testi
inediti...”
Il primo momento degli studi crociani corrisponde alla fase di erudizione. È il momento di unità di
Benedetto Croce con le tendenze della Scuola storica.
“Ma, a un certo punto di quel mio lavoro, fui preso dai dubbi intorno al modo in cui lo conducevo e ai
risultati che raggiungevo, e procurai di chiarire e giustificare a me stesso il metodo da adoperare. Così,
ripigliando certi tentativi e studi giovanili, presi a leggere libri di estetica e di metodologia storica, con
l’intento di risolvere quei dubbi e rituffarmi presto nelle indagini particolari. Ma, a poco a poco, fui spinto a
meditare a fondo tutti i problemi d’arte, a percorrere l’intera storia della poetica, della rettorica, della
grammatica, della filosofia del linguaggio, della estetica, e a costruire un compiuto sistema di estetica.”
Viene assalito da una serie di dubbi riguardo al metodo stesso di condurre quegli studi di erudizione, e si
butta a cercare di capire un attimo quale fosse il metodo migliore da seguire in questo campo, con l’intento
di rituffarsi quanto prima nelle sue ricerche di archivio.
“E quando credevo di esser venuto a capo della cosa, mi avvidi che ero appena al principio del cammino; e
fui costretto ad andare ancora innanzi e a compiere lo stesso lavoro per la logica e la storia della logica, per
l’etica e la storia dell’etica, per l’economia e la storia dell’economia e, insomma, per tutta la filosofia... E
dalla filosofia ritornai, con informata coscienza, all’esercizio della storia letteraria e politica, che è il
lavoro che ora precipuamente mi occupa, essendo ora, per me, la filosofia in senso stretto passata al
secondo piano, pur senza esser stata abbandonata del tutto, perché questo totale abbandono non è
possibile, risorgendo sempre nuovi dubbi e particolari problemi, che conviene risolvere col filosofare.”
Dalla speculazione filosofica è ritornato - “{…} con informata coscienza {…}”, quindi con coscienza molto
probante -, “{…} all’esercizio della storia letteraria {…}”, e quindi della pratica critica. Ma pur dicendo che lui
in questo momento è dedito nuovamente all’esercizio pratico della critica letteraria, allo stesso tempo però
i problemi di ordine generale continuano a sorgere, ed è il caso che questi vengano risolti e affrontati con
“{…} il filosofare”, quindi con la speculazione filosofica. Vedete quindi come ad una prima fase di pratica sia
susseguita una fase di teoria, alla quale è tornata a succedere una fase di pratica, e che però continua a
coesistere con una fase teorizzatrice.
“Per questa ragione io, non solo per logico ragionamento, ma per esperienza viva e personale ho toccato
con mano la necessità della metodologia, e cioè della filosofia, per la storia della letteratura”
Come vediamo, metodologia e applicazione critica non sono scindibili, sono in realtà un unico momento,
un continuum, e di conseguenza l’unico modo per cercare di capire effettivamente l’atteggiamento di
Benedetto Croce è quello di parlare di un sistema circolare, dove la teoria orienta la critica pratica, ma
anche la critica pratica orienta a suo modo la teorizzazione letteraria.
In questo quadro abbiamo visto come effettivamente pratica e teoria convivano, quindi è un altro modo per
dire che la critica e la filosofia convivono. Ma vi è anche un altro fattore che entra effettivamente
pesantemente in gioco all’interno della critica crociana, ed è il fattore etico (o morale). All’interno dei saggi
di Croce vi sono infatti chiaramente delle tendenze, o comunque dei giudizi che vengono generati da
suggestioni di tipo etico (o morale). Ciò significa che la morale del Croce - come persona, uomo - entra
pesantemente in gioco nell’ambito dell’emissione del giudizio su un autore.
Ci troviamo quindi davanti ad un sistema circolare, dove la teoria orienta la critica pratica, ma
anche la critica pratica orienta la teoria letteraria;
Questo sistema, che si basa su un confronto continuo con la filosofia non può per altro essere
disgiunto da orientamenti e suggestioni di tipo etico (o morale);
Di questo meccanismo (etico-estetico) è una testimonianza lampante l’atteggiamento che Croce
tenne nei confronti del suo contemporaneo e conterraneo D’Annunzio.
Croce e D’Annunzio.
Questo meccanismo di coesistenza tra teorizzazione estetica, pratica critica e mondo etico è una chiara
testimonianza ad esempio uno dei due saggi che Benedetto Croce dedicò a Gabriele D’Annunzio. Il primo
saggio che Benedetto Croce dedicò a D’Annunzio è del 1903, e rientra nel novero dei saggi de “La
letteratura della nuova Italia”. In questo primo saggio il giudizio su D’Annunzio è diviso: da un lato abbiamo
la definizione dell’opera di D’Annunzio come poesia - D’Annunzio è visto come un vero “poeta” che ha
avuto intuizioni geniali; dall’altro lato per Croce D’Annunzio è un “dilettante di sensazioni” - una sorta di
sproloquiatore rispetto alle sensazioni, quindi una persona non saldamente ancorata a dei valori morali o a
una visione etica della vita. Questo è un giudizio, un giudizio di tipo etico. Tra l’altro Croce e D’Annunzio si
erano già conosciuti, e la conoscenza non era stata una tra le più belle, anche perché D’Annunzio lasciò
Croce ad aspettarlo per più di due ore in attesa di incontrarsi, e Croce se la legò al dito.
1903 - Primo saggio su D’Annunzio nell’ambito delle ricerche relative a La letteratura della nuova
Italia;
Il giudizio su D’Annunzio è diviso: viene infatti definito:
“dilettante di sensazioni”;
Ma allo stesso tempo, questo giudizio di tipo più etico che critico, non intacca il giudizio sulla
complessiva artisticità dell’opera:
D’Annunzio viene quindi definito, senza mezzi termini “poeta”.
Qui abbiamo visto un giudizio bipartito, nel proseguo della sua carriera di critico Croce però tornò
nuovamente ad analizzare le opere di D’Annunzio, e nel 1935 dedicò un saggio all’ultima parte della
produzione dannunziana - che ovviamente non era stata presa in considerazione nel saggio del 1903.
Questo saggio s’intitola “L’ultimo D’Annunzio”, e confluirà anch’esso in una delle ultime edizioni de “La
letteratura della nuova Italia”, ma come vediamo non fa parte del novero dei saggi originali, quelli compresi
tra il 1903 e il 1914.
A distanza di oltre trent’anni quindi, il dilettantismo psichico di D’Annunzio non può più essere, secondo
Croce, scisso dal giudizio sull’opera letteraria, e di conseguenza per Croce proprio questo “dilettantismo di
sensazioni” che aveva denunciato nell’opera di D’Annunzio diventa invece il vero e proprio fondamento per
una stroncatura e per il rilevare una mancanza di piena umanità e quindi di “poesia” nell’opera di
D’Annunzio. L’opera di D’Annunzio viene quindi rinnegata totalmente, Croce non è disposto a mettere in
dubbio la sua visione rispetto all’uomo D’Annunzio, rispetto alla visione di D’Annunzio e di conseguenza
squalifica l’intera opera.
Croce e Manzoni.
Un altro caso molto interessante a tal riguardo riguarda Croce e Manzoni. Per una lunghissima fase della
sua vita, quindi fino a quasi il 1950, quando Croce era praticamente in fin di vita, non cambierà mai il
giudizio di Croce rispetto a Manzoni e ai “Promessi sposi”, dove appunto secondo lui non vi era poesia, ma
si trattava di un’opera sostanzialmente retorica. Al contrario, con l’avanzare della vecchiaia e della propria
esperienza biografica e di lettore, Manzoni verrà rivalutato, proprio perché Croce era riuscito ad entrare in
concomitanza, o comunque a comprendere quello che era l’ideale etico sul quale Manzoni aveva fondato il
suo grande romanzo. Di conseguenza Croce rivedrà le sue posizioni, e dirà che i “Promessi sposi” sono sì
un’opera retorica, ma allo stesso tempo sono un’opera permeata di una certa poeticità.
Testimonianza di questo forte interscambio tra “etica” e “critica” è anche il giudizio mutevole sui
Promessi sposi;
Croce, fino alla sua tarda età aveva costantemente negato la “poeticità” dell’opera manzoniana;
Giudizio che però verrà capovolto solo una volta che la propria esperienza biografica e di lettore lo
porterà alla piena comprensione dell’ideale etico di Manzoni, generando un complessivo (eppure
veloce) giudizio complessivo di “poeticità”.
Conclusioni.
Per concludere, la slide 18 riassume brevemente ciò che è stato detto in questa lezione. Il giudizio di Croce
evolve, ma insieme ad esso evolve anche la teorizzazione critica, di conseguenza cerchiamo di tener
presente come effettivamente l’interscambio tra metodologia e critica pratica sia fondamentale, e l’uno
arricchisca all’altro, e sia un inesausto percorso che porta verso un miglioramento della teorizzazione ma
anche dell’applicazione pratica.
In Croce appare particolarmente spiccato un legame in fondo ovvio per tutti i critici, ovvero il forte
legame tra critica e concezione generale della vita;
In questo panorama, il giudizio viene generato anche dal gusto personale che ovviamente non è
qualcosa di statico, ma al contrario, evolve, cambia, in piena armonia con lo sviluppo della
personalità del critico.
16° Lezione del corso di “Critica Letteraria Italiana” - “Le prime teorizzazioni critiche”.
Insieme all’attività critica stricto sensu, esercitata su autori del passato, Croce già prima
dell’Estetica (1902) produce contributi di metodologia critica;
Segno questo di un costante interesse che investiva sia la pratica critica, sia la problematica teorica.
Nel 1894 quindi Benedetto Croce, nel pieno del suo periodo erudito, pubblica un libriccino destinato a fare
veramente molto scalpore nel mondo letterario del periodo, di tutto ciò vengono anche raccontati i
contorni all’interno del “Contributo alla critica di me stesso”. Nel 1894 quindi, e poi riedito nel 1896, Croce
pubblicò questo libretto, “La critica letteraria - questioni teoriche”: si tratta di un libretto che destò molto
scalpore, perché in effetti era un attacco frontale a quella che è la Scuola storica. Siamo però in una fase
ancora embrionale della critica di Croce e anche della polemica con la Scuola storica. Si tratta di un lavoro
per molti aspetti ancora insicuro, questo de “La critica letteraria - questioni teoriche”, dove vengono a
mescolarsi in maniera davvero molto fitta sia alcuni motivi tipici della Scuola storica e del Positivismo, con
altri motivi prettamente tipici della speculazione di De Sanctis. Ricordiamo che De Sanctis era ancora e lo
sarà per tutta la vita di Benedetto Croce un modello da seguire o comunque una via da restaurare.
Vi parlo ancora di un libretto insicuro perché è effettivamente una delle prime prove di teorizzazione
critica di Benedetto Croce, ed è un momento per mettere alla prova sé sesso ma anche e soprattutto per
iniziare ad indagare quello che era l’ambito degli studi contemporanei, ovvero la Scuola storica. E di
conseguenza arriva a metterne in luce alcune delle problematiche principali. Notiamo come in questa fase -
rappresentata da “La critica letteraria - questioni teoriche” - sia un periodo in cui lo scontro con il
Positivismo non è così esacerbato come lo sarà successivamente. In questo momento Croce è ancora
convinto della possibilità di trovare una sorta di sintesi - o meglio un compromesso - tra la Scuola storica e il
metodo estetico. Successivamente al contrario Benedetto Croce non cercherà più questa via di mediazione,
proprio perché si rese conto che una mediazione tra i due metodi era impossibile.
1894 (poi riedito nel 1896) -> La critica letteraria - questioni teoriche
Si tratta di un lavoro ancora insicuro, dove si mescolano motivi tipici del positivismo e altri
tipicamente desanctisiani;
Si tratta di una prima fase di critica al metodo positivista, ma in qualche modo ancora possibilista
nel tentare di trovare una sintesi e un compromesso tra il metodo positivista e quello estetico;
Pur in un piano di insicurezza si trovano nel libretto alcune prime teorizzazioni originali che
rimarranno più o meno stabili nel panorama critico crociano.
Questo libretto noi lo ricordiamo per alcune teorizzazioni molto importanti. Innanzitutto Croce distingue in
quest’opera quello che è l’ambito di azione dell’estetica e quello che è l’ambito di azione della critica
letteraria. Il giudizio sull’opera letteraria è ad appannaggio esclusivo della critica letteraria, e non
dell’estetica; al contrario l’estetica dev’essere solamente uno strumento, una guida di base per quella che è
la critica letteraria, e quindi il suo fine più alto, quindi l’emissione di un giudizio di valore. Inoltre una delle
cose più importanti relative a questo libretto è la distinzione che Benedetto Croce mette in campo dei
lavori costitutivi dell’attività critica. Secondo Croce infatti era possibile - almeno fino a questa fase -
distinguere i lavori sull’opera d’arte, o comunque sull’opera letteraria, in due distinti versanti: da un lato,
appunto, i lavori “esterni”, e dall’altro i lavori “interni”. I lavori “esterni” sono in buona sostanza le edizioni
dei testi, le edizioni filologiche, le edizioni critiche, ma anche i commenti, che diciamo sono dei lavori che
rimangono in esterno all’opera letteraria, cercano semplicemente di facilitare l’acceso di altre persone ad
un’opera. I lavori “interni” sono invece i lavori critici veri e propri, che culminano appunto nel giudizio di
valore.
Lavori “esterni”.
Ma cerchiamo di capire appunto dalla viva voce di Benedetto Croce questa distinzione, e iniziamo a
lavorare su quelli che sono appunto i cosiddetti lavori “esterni”.
“Un primo gruppo di questi [studi sulla letteratura] si riferisce bensì all'opera letteraria concreta, ma solo
indirettamente ed esternamente, o che siano volti a stabilire l'esistenza di essa, o a facilitarne la
conoscenza, o a compiere qualche altro ufficio di questo genere. Tali sono il lavoro dell'editore che
ricostruisce il testo vero dell'opera, svisato dalle vicende dei tempi; il lavoro del commentatore [sic] che
allontana le difficoltà che il lettore, o meglio un certo dato pubblico di lettori, potrebbe incontrare nel
leggere l'opera, ecc. ecc. {…}”
Croce teorizza innanzitutto l’esistenza di un primo gruppo di studi sulla letteratura, che si riferirebbero
all’opera letteraria, ma in maniera o indiretta, o esterna. Gli obiettivi di questo tipo di studi - o meglio delle
diverse applicazioni che rientrano in questa macro categoria di studi - sono effettivamente molto
diversificati, e li abbiamo riassunti in tre punti. Da un lato abbiamo la possibilità che questi studi tendano a
stabilire l’esistenza del testo - es. uno studio o una pubblicazione di un testo inedito, quindi questo studio
tende appunto a stabilire l’esistenza di un testo. Vi possono essere altri lavori che siano volti a facilitare la
lettura da parte della categoria dei lettori in generale, o di alcuni lettori in particolare - pensiamo appunto
ai commenti scolastici, questi lavori sono propriamente commenti. Il terzo punto sono tutti i lavori volti alla
ricostruzione del testo genuino, non sono altro che le applicazioni della filologia - la ricostruzione di un
testo affidabile affinché i lettori possano basarsi su un testo che sia scientificamente approvato.
Croce quindi teorizza un primo gruppo di studi sulla letteratura, che si riferisce all’opera letteraria,
ma «indirettamente o esternamente»
L’obiettivo di questo tipo di studi è quindi molto variegato:
1) Possono essere volti a stabilire l’esistenza del testo = studio o pubblicazione di un testo inedito
“{…} «Tutto ciò [= i lavori esterni] prepara lo spirito ad entrare in relazione diretta ed intima coll'opera
letteraria; ma non è questa [una] relazione. Sono lavori da rassomigliarsi a quelli del restauratore dei
dipinti e del formatore del catalogo di una pinacoteca. E con ciò io non ho il pensiero di diminuire
l'importanza, l'utilità e neanche la dignità di tali lavori. È cosa abbastanza triviale il credere che per essi
occorrano piccole e comuni qualità d'ingegno. [...] Ma, per giungere ai lavori proprii che si compiono intorno
all'opera letteraria concreta, bisogna andare oltre il primo gruppo da noi designato, varcare il vestibolo, ed
entrare nella cella del nume.”
I lavori esterni sono dei lavori che appianano delle difficoltà pratiche - come può essere la comprensibilità
di un testo o avere un testo affidabile -, e preparano lo spirito del lettore, o comunque del fruitore
dell’opera erudita, ad entrare in contatto con l’essenza vera dell’opera. È un concetto molto logico
effettivamente: se voi non avete un testo affidabile, se voi non sapete che cosa certamente ha voluto dire
l’autore e come l’ha voluto dire, è impossibile che voi entriate in contatto con quello che è il pensiero
genuino dell’autore. Lo stesso vale per i commenti: se voi non comprendete per differenze o per difficoltà
di stile o di espressione, per difficoltà di una lingua ormai storica, quello che è il messaggio genuino e
precipuo dell’autore, voi non potrete mai entrare in contatto con quella che è l’espressività vera, con quello
che è il messaggio vero dell’autore. Pensate per esempio di leggere Dante senza alcun tipo di commento,
senza alcun tipo di nota esplicativa: quella è una lingua distante dalla nostra e di conseguenza il rischio di
travisamenti, o di vere e proprie incomprensioni del testo sarebbe molto alto. Secondo Croce questo tipo di
lavori non è assolutamente banale, né è una sorta di applicazione servile, al contrario sono lavori utilissimi e
che richiedono una preparazione molto forte.
Sono quindi lavori che appianando delle difficoltà pratiche, preparano lo spirito del lettore ad
entrare in contatto con l’essenza vera dell’opera, quell’anima poetica che l’autore le ha infuso.
Lavori “interni”.
A questo punto entriamo e cerchiamo di analizzare i lavori “interni”. I lavori cosiddetti interni appunto
all’opera d’arte seguono altri obiettivi e altri passaggi. La relazione con l’opera d’arte secondo Croce si
articola in diverse fasi, e nella fattispecie sono tre/quattro, che andremo ad analizzare nel dettaglio.
La prima fase di avvicinamento genuino, di tentativo di stabilire una relazione intima con l’opera d’arte
sarebbe quella della contemplazione dell’opera d’arte. Successivamente abbiamo una fase di esposizione,
che viene chiamata da Croce anche la fase della descrizione, della riproduzione o della rappresentazione,
nella quale - grazie a questa fase dell’esposizione - avremo un prodotto che può essere esso stesso
un’opera d’arte. Nel tentativo di esprimere quelle che sono le caratteristiche di un’opera d’arte e le
genuinità o comunque le originalità di un’opera d’arte, il critico letterario può egli stesso divenire un’artista.
In seguito la terza fase appunto è quella della valutazione e del giudizio critico, il momento vero e proprio
in cui la critica letteraria diventa uno strumento fondamentale ed è il fine vero e proprio di tutte queste fasi
che abbiamo analizzato. Successivamente vi può essere una quarta fase, ovvero nel momento in cui il
critico letterario sia particolarmente appassionato all’opera della quale sta trattando o la quale sta
studiando, può voler mirare a una ricostruzione storica, ovvero a riassegnare a quell’opera letteraria il suo
preciso luogo all’interno della storia letteraria o comunque della storia più in generale.
I lavori cosiddetti invece “interni” all’opera d’arte seguono altre mire e altri passaggi. Croce la
relazione con l’opera d’arte si articola in diverse fasi di lavoro successive (che di fatto costituiscono
l’ossatura del suo metodo critico):
Adesso leggiamo un passaggio - sempre tratto da “La Critica letteraria” - relativo alla prima fase dei lavori
interni, ovvero la contemplazione dell’opera d’arte. Le slides sono organizzate in questo modo: vi è prima il
passo preso in considerazione e in seguito l’analisi scandita per punti (slide 10).
“Il primo momento della relazione dello spirito con una data opera letteraria è puramente ricettivo, e
consiste nella contemplazione, o come anche si dice (secondo me, non felicemente), nel godimento estetico
dell'opera. Per lavorare intorno a un'opera, bisogna cominciare dal contemplarla, o trattandosi di opera
letteraria, dal leggerla. Non si creda che il contemplar bene e il legger bene, il saper vedere e il saper capire,
siano cose da nulla. È questo anzi un momento importantissimo, e tale che forma la base di ogni ulteriore
operazione. E i contemplatori felici, i lettori non superficiali [...], gli animi esteticamente disposti, sono più
rari che non si creda.”
Il momento di contemplazione di conseguenza è il primo momento di relazione tra lo spirito del fruitore e
l’opera che viene fruita. Si tratta di un momento “puramente ricettivo”, ovvero l’osservatore, che può
essere anche un lettore - osservatore per quanto riguarda un’opera d’arte plastica, o un’opera pittorica,
lettore per quanto riguarda un’opera letteraria - guarda, legge, o comunque fruisce l’opera, e ne trae
eventualmente un determinato tipo di godimento. Siamo in un momento di pura ricezione, lo spirito
sembra quasi non attivo, lo spirito contempla un’opera e ne trae un determinato tipo di godimento, che
può essere un godimento positivo o un godimento negativo. Secondo Croce, lo abbiamo detto, non si tratta
di un momento di conoscenza attiva, ma in realtà predispone semplicemente all’ascolto. È un momento di
fruizione diciamo passiva dell’opera, le fasi successive - quelle dell’esposizione e del giudizio - saranno al
contrario attive. Secondo Croce si tratta di un momento che, benché definito passivo in buona sostanza,
non è assolutamente un momento trascurabile, tant’è vero che l’influenza che un’osservazione o
comunque una contemplazione dell’opera d’arte può avere è quella di far ben riuscire le fasi successive del
lavoro. Se non si è contemplata bene, se non si è ben osservata e ben compresa nella sua estetica unità
un’opera letteraria, non si potrà né esporla né giudicarla in maniera corretta.
Passiamo a questo punto alla seconda fase, che è quella appunto dell’esposizione - o, come abbiamo già
visto, ci sono anche delle altre possibilità di definirla, come descrizione, riproduzione o rappresentazione.
Passato appunto il momento ricettivo - che abbiamo appunto detto essere passivo - della contemplazione,
si entra nel momento attivo, che è denominato esposizione. Questo momento è effettivamente in realtà
formato da tre operazioni distinte. Lo spirito, dopo aver contemplato un’opera letteraria, si chiude in sé
stesso e raccoglie le impressioni che ha appunto raccolto nella fase della contemplazione e le analizza. Le
domande che lo spirito si pone sono le seguenti. Innanzitutto si chiede “Che cosa io ho letto?”, e cerca di
rispondere a questa domanda. Proprio da questa domanda deve sorgere chiaramente una risposta, e
questa risposta sarà l’inizio dell’operazione di esposizione, ovvero il momento in cui lo spirito, o il critico
letterario, inizierà ad esporre e a rappresentare, o a descrivere, ciò che ha appunto letto, visto o fruito
rispetto all’opera d’arte.
Passato il momento “ricettivo” (e quindi passivo) della “contemplazione” si entra nel secondo
momento, che è il momento attivo denominato complessivamente «esposizione», ma che è in
realtà formato tra tre operazioni distinte;
Lo spirito, dopo aver contemplato un’opera si «ripiega in sé stesso» e raccoglie le impressioni della
contemplazione;
Di conseguenza ci si domanda “Che cosa ho io letto?”;
NB: il discorso di croce parte dalla letteratura ma è riferibile più in generale alla fruizione di ogni
tipo di opera d’arte;
La risposta a questa domanda che necessariamente sorge in ognuno è l’inizio delle operazioni di
esposizione.
La fase dell’esposizione veniva ritenuta da molti come un lavoro assolutamente elementare, una fase di
semplice riproposizione di quello che si era visto o letto. Al contrario secondo Croce questo è un processo
attivo, un processo particolarmente delicato che arriva a mettere appunto in forse quella che è la fase
successiva, la fase della valutazione. Se già non si è fruito in maniera corretta e aperta dell’opera letteraria,
sarà ben difficile proporre un’esposizione che sia convincente, e allo stesso modo proporre un’esposizione
che sia non convincente e quanto mai incompleta vedrà una valutazione inficiata, quindi il giudizio di valore
sarà in qualche modo falsato. Secondo Croce - e in questo si basa chiaramente su quella che era la
teorizzazione di De Sanctis - l’esposizione è un possibile risultato artistico a sua volta, e leggiamo due
citazioni. La prima è di Francesco De Sanctis, la seconda di Benedetto Croce.
“Il critico è dirimpetto all’artista quello che l’artista è dirimpetto alla natura” (De Sanctis).
Il critico, davanti all’artista - quindi davanti all’opera d’arte - non fa altro che mettere in partica le stesse
operazioni che l’artista ha messo in pratica osservando la natura. L’artista osserva la natura e ne dà una
sua visione nell’opera d’arte, e allo stesso modo il critico letterario si pone all’oggetto studiato, al suo
oggetto di interesse - che è l’opera d’arte - nello stesso modo, cercando di rappresentarne le unicità a sua
volta.
“Ed infatti l'esposizione di un'opera d'arte è per sé stessa un'opera d'arte che ha per materia un'altra opera
d'arte. Un'opera d'arte coglie e riproduce i tratti essenziali di un dato oggetto ossia di un dato fatto
naturale. L'esposizione dell'opera d'arte coglie e riproduce i tratti essenziali di un oggetto e di un fatto ch'è
l'opera d'arte. Un'esposizione che fosse un ragguaglio materiale [= una spiegazione materiale] dell'opera
d'arte, sarebbe nient'altro che una descrizione inesatta, languida e spropositata.”
L’esposizione viene ritenuta da molti secondo Croce come un qualcosa di elementare;
In realtà si tratta di un’operazione fondamentale e delicatissima dell’intero processo critico;
Sulla base del pensiero di De Sanctis Croce postula come questa fase dell’esposizione sia un
possibile atto artistico.
Ed entriamo così nella terza fase dei lavori “interni” all’opera d’arte, quella della valutazione. Secondo De
Sanctis, una volta che si era portata a termine la fase dell’esposizione, il giudizio estetico, di valore
sarebbe stato sostanzialmente implicito, proprio perché il critico nella fase di esposizione non faceva altro
che portare avanti la sua visione dell’opera d’arte e di conseguenza il giudizio era pressocché implicito.
Secondo Croce le cose però non sono in questo modo, e effettivamente un’esposizione ben portata avanti
non sottintende in nessun modo la valutazione, perché un’opera d’arte può essere ben fruita e ben
rappresentata, ma allo stesso tempo non convincere in nessun modo il critico. Il fatto che il giudizio
estetico, o il giudizio di valore non sia assolutamente implicito, lo dimostra Croce in maniera molto chiara:
le prime due fasi, quella della fruizione dell’opera d’arte e quella dell’esposizione, rispondono a domande
completamente diverse rispetto alla domanda che ci si pone nella valutazione.
Le prime fasi del lavoro “interno” sull’opera d’arte rispondono a domande diverse: la prima è una fase
passiva - che quindi in realtà non si pone delle domande -, la seconda è una fase di esposizione, che quindi
dice che cosa io ho visto, al contrario la terza fase - quella della valutazione - risponde a una domanda ben
precisa: “Che cosa vale ciò che ho visto?”. È una terza fase che andrà espletata in maniera autonoma.
Secondo De Sanctis una volta portata a termine correttamente la fase dell’esposizione il giudizio
estetico era implicito;
Il sottintendere un giudizio non significa però averlo effettivamente espresso;
Difatti l’esposizione e il giudizio rispondo a due domande diverse (“Che cosa è?” vs “Che cosa
vale?”);
Si entra in questo momento nel campo dell’estetica -> di conseguenza il giudizio di valore non sarà
un giudizio personale, ma al contrario basato su rigorose categorie filosofiche.
Aggiungiamo che secondo Croce il giudizio di valore o il giudizio estetico non può essere una fase
automatica perché da quelle che sono le fasi di valutazione personale dell’opera letteraria - ovvero le prime
due fasi - entriamo con la valutazione estetica nel campo dell’estetica, e in questo caso quindi ci saranno
delle categorie filosofiche a dirci come appunto muoverci nella valutazione. Inoltre la terza fase, quella
della valutazione, è la fase vera e propria, la fase predominante all’interno di tutto il lavoro critico, quello
che è l’obiettivo naturale e lo sbocco naturale per la critica letteraria.
In questo noi possiamo vedere un primo accenno a quella che è effettivamente la polemica con la Scuola
storica. Perché? La Scuola storica - effettivamente cercando di formare una scienza della letteratura, una
scienza letteraria - non riteneva che il giudizio di valore fosse importante, lo escludeva principalmente dal
proprio novero di azione, perché il giudizio a suo avviso era basato su un personale e non riproducibile
sentimento, e di conseguenza era qualcosa di non scientifico, quindi di evitabile. Al contrario Croce
ribadisce quanto questa fase sia fondamentale ed è l’effettivo sbocco della critica letteraria. Ecco la
differenza tra le due tendenze.
Proprio l’ultima fase (quella del giudizio critico) è quella che rappresenta l’essenza della critica, il
suo naturale sbocco e l’obiettivo;
Si tratta quindi di una fase predominante quanto a importanza e prestigio rispetto alle altre;
Questo denota la portata del conflitto sotteso con la Scuola storica che al contrario escludeva il
giudizio estetico dal novero delle funzioni della “scienza letteraria” in quanto ritenuto arbitrario,
soggettivo e quindi non verificabile, non confutabile (in poche parole quindi non scientifico).
Come vi anticipavo all’inizio è possibile individuare una quarta fase del lavoro critico, ovvero quella della
ricostruzione storica dell’opera d’arte. Si tratta di un momento successivo a qualsiasi giudizio o valutazione
dell’opera, anche perché se il critico ha decretato che in buona sostanza quell’opera non sia valida, è
piuttosto improbabile che sorga in lui una domanda successiva - ossia “Qual è la genesi dell’opera?”, “A
quali vicende è andata soggetta?”, “Qual è stata la fortuna dell’opera e perché è nata quest’opera?”. Se il
giudizio è chiaramente negativo sull’opera letteraria, è ovvio che il critico non si ponga ulteriori domande
sulla sua genesi o sulla sua fortuna.
Un’eventuale altra fase, successiva al giudizio di valore è quella della ricostruzione storica:
Risponde a diverse domande e curiosità che possono sorgere nel critico
- Si tratta di un momento che chiaramente è successivo ad un qualsiasi tipo di giudizio o valutazione
dell’opera;
- “Qual è la genesi di quest’opera?”;
- “A quali vicende è andata soggetta?”;
- Si tratta quindi, in sostanza, nella ricostruzione della fortuna dell’opera analizzata.
Il giudizio estetico.
Un altro punto interessante e che analizzeremo in questo momento è il concetto della validità del giudizio
estetico. Proprio perché i critici della Scuola storica non facevano altro che denigrare questo momento, il
momento della valutazione dell’opera letteraria, Croce si inizia ad interrogare su quale sia il valore del
giudizio estetico. È esso assoluto, o relativo? La questione è particolarmente interessante, e Croce in realtà
risolverà questa questione in maniera piuttosto forzata.
Lui si domanda: “Esiste un criterio oggettivo del gusto?”. In questo caso è bene far riferimento al testo 3.
Secondo Croce il giudizio estetico non è assoluto, infatti sarebbe impossibile dire che un giudizio estetico
pronunciato da una persona singola, e basato anche sul proprio gusto e sulle proprie concezioni estetiche,
possa essere assoluto. Di conseguenza il giudizio estetico sarebbe relativo, in quanto emesso da una singola
persona, che è portatrice di una propria istanza di lettura o di valutazione di un’opera. Il giudizio viene
quindi inquadrato non come un vero e proprio giudizio assoluto, ma più che altro come “una confessione
psicologica” - parole di Croce.
Il giudizio estetico secondo Croce non è assoluto in quanto non può aspirare ad una dimostrabilità
esatta (come una formula matematica);
Il giudizio estetico è quindi relativo in quanto emesso da un singolo, portatore di una propria
istanza di lettura di un’opera;
Il giudizio estetico viene inquadrato quindi non come un vero e proprio giudizio, quanto più come
una “confessione psicologica”, come una confessione di quanto il proprio spirito ha provato nella
fruizione di un’opera;
Si arriva quindi davanti a un problema, il giudizio estetico, in quanto singolare, non avrebbe un
valore, o meglio, sarebbe possibile metterlo in crisi semplicemente esponendo una tesi diversa.
“Argomento ab auctoritate”.
Il problema è questo: come fare per rendere scientificamente probante il ricorso al giudizio di valore? Croce
in realtà ricorre a una forzatura filosofica, e nella fattispecie si chiamo appunto “argomento ab
auctoritate”. Si tratta di una sorta di errore logico che si basa sul concetto molto comune che se il giudizio è
pronunciato da una persona particolarmente intelligente o comunque particolarmente erudita, questo
giudizio sia altrettanto valido. Croce infatti dice: “vi do me stesso [nel giudizio critico], ma questo me stesso
non è il me stesso di un imbecille e di una persona ignara dell’arte”. Di conseguenza in questa fase la
validità di giudizio secondo Croce è in buona sostanza assoggettata a quella che è la validità, o la valenza, o
il valore del critico stesso che lo pronuncia.
Eppure secondo Croce il giudizio estetico, essendo pronunciato da un addetto ai lavori, ha un valore
maggiore della pura singolarità:
- “vi do me stesso, ma questo me stesso non è il me stesso di un imbecille e di una persona ignara
dell’arte”;
- Di conseguenza, pur essendo relativo, il giudizio estetico acquisisce valore in base alla
persona/personalità che lo ha pronunciato;
- Siamo in realtà davanti ad una forzatura del discorso, o comunque Croce incorre in un errore logico,
al ricorso improprio ad un “argomento ab auctoritate”.
NB. “Argomento ab auctoritate”: si tratta di un errore logico molto comune basato sul ritenere o
presentare una nozione come vera semplicemente perché sostenuta da una o più figure esperte.
17° Lezione del corso di “Critica Letteraria Italiana” - “La Critica crociana (2)”.
Oggi continueremo il discorso già cominciato in precedenza sulla critica crociana. Abbiamo già visto i primi
periodi della critica di Benedetto Croce e come effettivamente le sue posizioni si muovano nel tentativo di
conciliare in parte almeno quello che è il motivo fondamentale dell’estetica di Francesco De Sanctis e quelle
che sono le istanze rinnovatrici e scientiste della Scuola storica. Oggi cercheremo di capire effettivamente il
nucleo più importante o uno dei nuclei più importanti di quella che è l’elaborazione critica di Benedetto
Croce, e lo faremo sia in questa sia nella prossima lezione, analizzando due concetti fondamentali. Difatti
per cercare di capire, comprendere e schematizzare quella che è l’elaborazione critica più completa e
originale di Croce, dobbiamo per forza di cose ricorrere a delle semplificazioni, o comunque a delle
schematizzazioni di fondo. Questo perché l’opera critica e l‘opera teorica di Benedetto Croce intorno alla
letteratura e allo studio della letteratura è assolutamente enorme, ed è in un completo divenire, per la qual
cosa è assolutamente necessario nel nostro caso ricorrere a delle forme di semplificazione, per cercare di
avere dei punti fermi.
In questa lezione cercheremo di capire quali sono questi punti fermi. Per cercare di istituire delle
periodizzazioni è necessario ricorrere a delle espressioni che sono rimaste ormai famosissime nell’ambito
della critica letteraria - ad esempio il concetto di intuizione lirica e il concetto di intuizione cosmica. Sono
due concetti che sono alla base di due differenti elaborazioni del pensiero di Croce, e sono alla base di
diverse conseguenze dell’atto critico di Croce. Secondo Croce però effettivamente queste due diverse - o
comunque tre, intuizione pura, lirica e cosmica - non sono assolutamente in contraddizione tra di loro: non
è che un concetto di intuizione arrivava e soppiantava quello precedente, ma sono assolutamente dei
concetti consequenziali, che stanno ancora una volta a testimoniare come il concetto di base di Croce venga
ad evolversi nel tempo.
Tra l’altro a suo avviso tutte queste concezioni - quella di intuizione lirica e quella di intuizione cosmica -
erano assolutamente già teorizzate insieme nell’“Estetica” del 1902. In realtà vedremo come si tratti
propriamente di un’evoluzione del pensiero di Croce, ma con costanti ritorni al periodo precedente. Ad
esempio, quando avremo il periodo dell’intuizione cosmica vedremo come sarà facile intuire che Croce
tenga ben presente quella che è la teorizzazione precedente dell’intuizione lirica, e molto spesso addirittura
come queste due teorizzazioni, che sembrerebbero opposte, non siano assolutamente in opposizione, e
possano tranquillamente andare di pari passo. Il problema sta molto spesso negli autori che vengono
criticati - ovvero negli autori che Croce sta via via leggendo -, proprio per quel rapporto di interscambio che
abbiamo già visto tra teorizzazione critica e applicazione pratica della critica.
Di conseguenza il dire che si potrebbe trattare di teorizzazioni che man a mano vengono a mettere a fuoco
nuove problematiche, e mettono in crisi quella che è la periodizzazione precedente, o comunque la teoria
precedente, è falso - almeno a mio avviso, e vi spiegherò appunto il perché. Per quanto riguarda i tempi
della critica crociana possiamo dividerli grosso modo in due fasi, la prima e la seconda fase. Nella prima fase
quello che regna è il concetto dell’INDIVIDUALITÀ DELL’ARTE, quello che invece governa la seconda fase è il
concetto dell’UNIVERSALITÀ DELL’ARTE. Vedete che già dalla definizione spiccia sono due periodizzazioni
che sembrano apparentemente opposte. Ma cerchiamo intanto di concentrarci su quello che è il primo
periodo e sulla prima fase, che sarà comunque oggetto di questa lezione. La seconda fase sarà analizzata
nella prossima lezione.
Dove troviamo informazioni sulla teorizzazione dell’individualità dell’arte? Innanzitutto nell’“Estetica” del
1902, ma nella prima fase dominano anche decisamente tutti quelli che sono i saggi compresi ne “La
letteratura della nuova Italia” - “La letteratura della nuova Italia”, lo ripetiamo, è una raccolta di saggi
prima in quattro volumi, poi in sei volumi, tutti saggi scritti tra il 1903 e il 1911. Sono una serie di saggi,
moltissimi dei quali dedicati completamente alla letteratura italiana, o comunque alla letteratura che si è
andata affacciando sul panorama italiano tra l’Unità d’Italia e il periodo in cui Croce scrive. Un periodo
piuttosto breve, ma molto denso di affermazioni letterarie, che Croce cerca di analizzare e cerca quindi di
formare un canone contemporaneo degli autori.
È quindi uno dei pochi tentativi che croce compie sulla letteratura contemporanea - forse anche l’unico
effettivamente, perché tutto il resto dei saggi di Croce si concentrerà più che altro sulla letteratura del
passato. Ma quella de “La letteratura della nuova Italia” è un’applicazione molto vasta a quella che è la
letteratura contemporanea, che porterà a una canonizzazione di alcuni autori e a un rifiuto di altri.
Abbiamo visto ad esempio come il caso di D’Annunzio sia anche molto mutevole: da principio viene detto
che egli era un autore assolutamente degno di lettura, ma successivamente, proprio in base a questo
cambiamento tra la prima e la seconda fase, D’Annunzio verrà bocciato.
Inoltre un antro testo fondamentale per capire questo concetto di individualità dell’arte è una conferenza
che Croce tenne nel 1908 proprio sul carattere lirico dell’arte. Inoltre un’altra tappa importante per lo
studio di questa prima fase è una raccolta di saggi sulla letteratura del 1600 - Croce fu infatti uno dei più
importanti studiosi del Barocco italiano: è grazie a lui se il Barocco è stato riscoperto, analizzato e studiato.
Effettivamente prima di lui era ritenuto, da tempi ormai remoti - Settecento/Ottocento -, come un secolo
degenerato di letteratura. Ma al contrario Croce riuscì ad istituire una gerarchia degli autori - quindi
effettivamente chi era più lodevole di altri -, ma anche e soprattutto a scoprirne la ricchezza letteraria,
anche perché il 1600 si contraddistingue per una sovrabbondanza di produzioni.
La seconda fase invece è effettivamente una fase più tarda nell’applicazione crociana. La seconda fase
comprende effettivamente tutto la restante parte della produzione critico-letteraria di Croce, a partire da
un saggio particolare, o comunque da un periodo ben determinato. Nella slide 4 vedrete che ho indicato
come saggio di partenza il saggio dell’“Ariosto” del 1917. È vero, ma insieme al saggio dell’“Ariosto” c’è
tutta un’altra serie di saggi dedicati alle figure - secondo Croce - più importanti della letteratura non solo
italiana, ma occidentale. E infatti fanno bella mostra di sé, oltre al saggio sull’Ariosto, anche un
importantissimo saggio su Dante, uno su Corneille, su Shakespeare. Quindi l’applicazione di Croce non
rimane relegata nello studio della letteratura italiana, soprattutto in questa seconda fase, nella quale lui
cerca di rintracciare le comunanze della genialità poetica, quelle che sono le categorie più ampie che
possano porre a definire una tale opera un capolavoro.
Volendo individuare una struttura condivisibile di analisi dell’opera critica di Croce, ci si può basare
su uno schema bipartito:
Comprende le prime prove critiche, l’Estetica del 1902, i saggi compresi poi ne La letteratura della nuova
Italia (1903-1911), la conferenza sul carattere lirico dell’arte (1908) e i primi saggi sulla letteratura italiana
del 1600.
Durante la prima fase, che potremmo anche definire come la fase della concezione individualistica dell’arte,
Croce è impegnato in due ben determinati obiettivi. Il primo è quello di definire il carattere distintivo e
unico dell’arte rispetto alle altre attività dello spirito - lo spirito infatti è impegnato in diverse azioni per
conoscere il mondo, e una di queste azioni è proprio l’arte, che è una categoria conoscitiva secondo Croce.
Inoltre Croce ha sempre intento a mettere in luce quella che sia la nota individuale dei singoli scrittori o
degli autori, o comunque delle opere analizzate. È proprio alla ricerca dell’originalità, del punto di vista
singolare e conoscitivo degli autori.
Croce è impegnato a:
1. Definire il carattere distintivo dell’arte rispetto alle altre attività dello spirito.
2. Mettere in luce la nota individuale (= originalità) dei singoli scrittori o autori analizzati.
Al contrario nella seconda fase vediamo gli obiettivi quasi si invertano: Croce non è più concentrato
sull’individuare quelle che sono le unicità, le individualità delle opere d’arte, e dell’arte in generale, ma al
contrario è impegnato nel ricercare una concezione universalistica. Sta ricercando quale sia il carattere
universale dell’arte, e quindi si conseguenza dell’umanità che vi è dietro. Cerca quindi di riconoscere le
caratteristiche comuni, che siano di carattere morale o anche artistico, che legano in un unico grande
bacino che è quello della poesia e dell’arte tutte le grandi personalità poetiche, quali sono appunto le
caratteristiche generali di quella che viene definita unanimemente la più grande poesia.
2. Riconoscere le caratteristiche comuni, di carattere morale o artistico, che legano le grandi personalità
poetiche di tutti i tempi.
Vedete che è effettivamente diverso il punto di vista: da un lato abbiamo il cercare di trovare l’individualità,
l’unicità di un’opera d’arte e dell’arte in sé, e al contrario nella seconda fase Croce cerca di unire, di trovare
le caratteristiche comuni, il carattere universale dell’arte. Ma perché effettivamente si verificò questa
variazione nel pensiero di Benedetto Croce? Se lo sono chiesti in molti, anche perché le date del
cambiamento di questa concezione sono molto interessanti. Senza dubbio molto dipese dalla cultura di
Croce, che mentre studiava il carattere lirico dell’arte si era andato formando su autori come Marx e poi
anche su numerosi storici. Queste letture però, unite ad esperienze biografiche molto personali e tragiche -
quelle per esempio relative alla Prima Guerra Mondiale -, hanno portato effettivamente a un cambiamento
interno ed intellettuale di Croce.
La Prima Guerra Mondiale - lo vedremo meglio nelle prossime lezioni - sconvolse Croce, come sconvolse
tutti gli intellettuali dell’Europa, perché mise di fonte loro alla possibilità che l’individualismo nazionale
portasse a scontri di così grande portata e così tragici. Difatti questa esperienza della Prima Guerra
Mondiale mise in crisi non solo in Croce ma in tutti quello che era l’individualismo e soprattutto il
nazionalismo, e spinse Croce a cercare di individuare quei legami tra le società e tra le culture che
potessero unire i popoli, al contrario della prima fase, che tendeva a sgretolare tutto e a individuare quelle
che erano le individualità dell’arte, le individualizzazioni.
Molto dipese sicuramente dalle letture (Marx + storici) ma anche dall’esperienza biografica relativa
alla Prima Guerra Mondiale. Un’esperienza che segnò fortemente Croce, mettendo in crisi
l’individualismo e il nazionalismo e spingendolo a cercare di individuare legami umani più che
individualizzazioni.
Questo mutato atteggiamento è particolarmente interessante perché Croce da giovane, come tutti gli
intellettuali borghesi di questo periodo, avevano vissuto e avevano creduto fortemente in un’atmosfera o
comunque in un pensiero storico/politico di stampo liberale, tipico del Novecento soprattutto questo
ambito della speculazione riguardo la vita, la storia, la filosofia, era dominato da una concorde e
assolutamente rigorosa fiducia in quello che è il progresso, in quella che è la capacità umana di far
progredire la società. È un qualcosa di assolutamente simile, e anzi di assolutamente fondante anche per
l’altro versante della critica letteraria di questo periodo, ovvero quello del Positivismo, che aveva una fede
nella ragione incrollabile.
Il giovane Croce (a parte episodi per altro costanti e numerosi di scoramento, depressione,
sconforto e pessimismo) è sostanzialmente ispirato e vive in quell’atmosfera tipica della borghesia
liberale di inizio Novecento:
Fiducia in un ordinato e concorde progresso dell’umanità, illuminato e diretto dalla luce della
ragione.
Però proprio la Prima Guerra Mondiale mise in crisi questa fiducia quasi oltranzista nel progresso e nella
ragione umana, perché mise davanti a tutti la realtà dei fatti, ovvero di un’umanità incapace di progredire di
pari passo, e capace al contrario di distruggersi l’un l’altro. Difatti Croce con la Prima Guerra Mondiale andò
a constatare quella che era l’ineluttabilità e la ripetitività della storia - siamo proprio davanti alla
testimonianza e all’affermazione di quello che Vico aveva già detto nel tardo Seicento e Settecento, ovvero
dei corsi e ricorsi storici. La storia è un grande fluire circolare per il quale ci sono dei corsi e dei ricorsi
storici; la storia si ripete sempre uguale in diversi periodi, e soprattutto Croce ha avuto la possibilità di
costatare quelle che sono le spinte distruttive che portano a una prevaricazione tra i popoli, alla violenza e
al nazionalismo più cieco. Il tutto ovviamente con l’esizio finale della Prima Guerra Mondiale.
Tutto ciò lo porterà non solo a vedere la storia in maniera diversa, ma anche a vedere l’arte in maniera
diversa. Cercherà di capire qual è la vera arte, e come l’arte si riproponga in maniera costante e comune in
più società singolari. E appunto il cercare di trovare quella che è la cosmicità dell’arte implica anche un
messaggio politico di comunanza e fratellanza, oltre che un messaggio letterario.
L’aver constatato l’ineluttabilità e la ripetitività storica (corsi e ricorsi storici) delle spinte
distruttive alla prevaricazione, alla violenza e al nazionalismo più cieco + esperienza della Prima
Guerra Mondiale.
Lo portano a vedere l’arte (la vera arte) come la riproposizione costante e comune a più società
singolari di valori eterni e costanti anche di tipologia morale.
A questo punto cerchiamo di entrare ad analizzare quella che è la prima fase, che può essere anche definita
come quella dell’“individualità dell’arte” o dominata dal concetto di “intuizione lirica”. Da principio
dobbiamo premettere una cosa: nei discorsi che faremo oggi, ma anche nei discorsi che faremo nelle
prossime lezioni, il concetto di arte nella concezione di Croce è qualcosa di molto più ampio della nostra
concezione attuale. Oggi quando si pensa all’arte si è tentati di pensare alle diverse categorie dell’arte - la
scultura, la pittura, la poesia -, come se fossero tutte arti diverse. In realtà Croce intende con arte molto più
in generale la facoltà estetica, e molto spesso utilizza anche il termine “poesia”, come una sorta di sinonimo
di “arte”. Noi al contrario siamo portati a pensare che “poesia” sia un termine molto specifico, che indica la
categoria di produzione artistica in versi. Secondo Croce la poesia è un sinonimo dell’arte in poche parole.
Questo è il significato della parola “arte”, e tutto ciò ci tronerà utile, perché le arti hanno tutte, secondo
Croce, la medesima natura: sono tutti prodotti dell’intuizione, che si differenziano solamente dal punto di
vista tecnico. Ma nell’elaborazione di Croce effettivamente quella che viene chiamata l’“estrinsecazione” -
ovvero il mettere su carta o su tela o su pietra l’opera d’arte - è un fattore secondario, che è semplicemente
un fattore tecnico. Quello che conta è l’intuizione che è alla base, l’intuizione conoscitiva che l’artista
dimostra nell’opera e nella sua arte.
Croce adopera il termine generico di “arte” (e non quello specifico di «poesia») come sinonimo di
“facoltà estetica” in quanto secondo lui tutte le arti hanno la medesima natura (sono tutti prodotti
che si differenziano solo dal punto di vista tecnico).
Tesi fondamentali.
Quali sono le tesi fondamentali di questo primo periodo della critica crociana? Innanzitutto abbiamo
l’autonomia dell’arte - che è una tesi fondamentale. L’arte secondo Benedetto Croce è una categoria
spirituale - una categoria dello spirito quindi - totalmente autonoma, che appartiene in maniera netta a
quella che è la sfera della conoscenza del mondo. L’artista - o comunque la persona dedita all’arte e capace
di produrre arte - non sarebbe altro che una persona capace di conoscere il mondo diversamente e in
maniera singolare e originale. L’intuizione artistica infatti secondo Croce è una prima forma di conoscenza:
l’artista ha un’intuizione, ha una conoscenza del mondo, che è totalmente svincolata in questa prima fase
da tutte le elucubrazioni che possono venire dopo, ovvero dalla logica e dalla pratica. L’intuizione artistica
non deve essere per forza logica, e non deve tener conto di quella che è la pratica - che egli definisce
l’economia, appunto l’applicazione pratica del concetto.
Il mondo dell’arte è quindi costituito da intuizioni e da immagini. Sono proprio queste immagini, queste
conoscenze, queste intuizioni, che sono svincolate totalmente da riferimenti intellettuali o morali. L’arte
non è assolutamente morale, ma questa a differenza della filosofia non distingue, non deve distinguere e
non vuole distinguere il reale dall’irreale, proprio perché è un’intuizione fantasiosa, un’intuizione originale.
Cerchiamo di capire meglio che cosa si intenda per intuizione. L’intuizione è la presenza nei nostri sensi di
un contenuto che sia precedente a qualsiasi altra organizzazione logica e concettuale. Inoltre un altro punto
importante è che nella sintesi artistica l’intuizione e l’espressione sono identificate. Questo, che vi
sembrerà un concetto un po’ strano, non è altro che quello che abbiamo già visto per De Santis, dove il
concetto di “forma” è proprio il risultato dell’unione tra forma e contenuto. “A tal contenuto tal forma”,
diceva De Sanctis, e per Croce sostanzialmente vige la stessa regola. L’intuizione - quindi l’idea - e
l’espressione sono un’unica cosa, non vi è possibilità di esprimere tal concetto in un’altra forma, in una
forma diversa.
1. Autonomia dell’arte: L’arte è una categoria spirituale autonoma appartenente alla sfera della
conoscenza -> l’intuizione artistica -> la prima forma di conoscenza dello spirito, slegata dalla logica e dalla
pratica (che lui definisce “economia”).
2. Il mondo dell’arte è costituito da intuizioni e immagini pure, svincolate da riferimenti intellettuali e
morali (l’arte, a differenza della filosofia, non distingue il reale dall’irreale, è fantasia).
(Intuizione = si tratta della presenza nei nostri sensi di un contenuto precedente a qualsiasi organizzazione
concettuale).
Indipendenza dell’arte.
Ne consegue che in questa prima fase Croce si concentri sul tentativo di individuare nei poeti - o comunque
negli artisti, nei letterati - la presenza di un mondo di immagini, o di intuizioni anche dette, che siano
assolutamente valide in loro stesse, indipendentemente dal contenuto di cui sono portatrici. Quindi sono
svincolate dal messaggio morale, e in questo caso è assolutamente tipico il caso del saggio a cui già facevo
riferimento su Gabriele D’Annunzio. Da principio nel primo saggio croce lo loda dicendo queste parole (slide
13): D’Annunzio sarebbe “tutto fantasia, intatto e indisturbato da preoccupazioni intellettive e riflessive che
sono cagione e indizio di fiacchezza estetica”. D’Annunzio quindi sarebbe un grande poeta proprio perché
capace di trasfondere nelle sue opere una fantasia primigenia, intatta e indisturbata da tutte le
preoccupazioni intellettive, e da tutte le riflessioni che ad avviso di Croce non sono altro che “indizio di
fiacchezza estetica”, di incapacità comunicativa dell’arte.
Molto presto quindi la critica di Croce si concentra sul tentativo di individuare nei poeti la presenza
di un mondo di immagini (o intuizioni), valide in loro stesse, indipendentemente dai contenuti e
dalla morale (intuizioni che siano originali, uniche, segno di un rapporto conoscitivo del poeta con il
mondo).
Tipico esempio di questo atteggiamento è il primo saggio che Croce dedicò a d’Annunzio, lodato
perché “tutto fantasia, intatto e indisturbato da preoccupazioni intellettive e riflessive che sono
cagione e indizio di fiacchezza estetica”.
Intuizione lirica.
In questo periodo Croce inizia anche ad interrogarsi su che cosa sia effettivamente un’opera d’arte, e sul
problema della personalità. Se effettivamente il poeta è capace di trasfondere nell’opera la propria fantasia,
allora bisognerà capire qual è il rapporto che si instaura tra l’opera d’arte e la personalità. Fino a questo
momento il Positivismo aveva sempre cercato di individuare nell’opera d’arte, o comunque nelle opere,
una sorta di documento scientificamente probante e scientificamente leggibile. Al contrario secondo Croce
l’opera d’arte è sì un documento - perché lo abbiamo -, ma è l’espressione effettivamente dello stato
d’animo dell’autore, e di conseguenza è un qualcosa di conoscibile assolutamente, ma di singolare allo
stesso tempo. Proprio da questa espressione - per cui l’opera d’arte non sarebbe altro che l’espressione
dello stato d’animo del suo autore - discende il perché noi stiamo parlando di intuizione lirica. Infatti il lirico
- nel concetto di Croce o nelle sue parole - non va ad intendere quella che è la lirica - la poesia come noi la
intendiamo -, ma al contrario indica la qualità propria singolare dell’intuizione, la singolarità. Da questo noi
riusciamo a capire meglio il concetto: intuizione lirica significa intuizione singolare, intuizione unica.
Croce giungeva quindi a interrogarsi sul problema della “personalità” in arte e concludeva che
un’opera non è un “documento” (in senso scientifico o positivistico!): un’opera d’arte è
“espressione dello stato d’animo del suo autore”.
Da questa deduzione (riflesso dello stato d’animo dell’autore nell’idea e quindi nell’opera) discende
la celeberrima definizione del carattere “lirico” dell’arte (l’“intuizione lirica”) dove LIRICO indica la
qualità propria (singolare) di ogni manifestazione artistica, che è sempre (anche nelle forme
ritenute più impersonali, quali l’epica, tragedia, romanzo) espressione di un mondo personale di
sentimenti, voce di un’anima.
Di conseguenza il riconoscere un valore di singolarità conoscitiva ad un’opera d’arte implica anche il fatto
che il critico debba riscontrare questo nucleo di originalità, esplicarlo e giustificarlo - cosa che per la Scuola
storica e per la critica del periodo positivista era assolutamente infattibile. Loro vedevano l’opera come un
documento, quindi conoscibile a livello scientifico. Al contrario secondo Croce - essendo le opere portatrici
di un messaggio quanto mai personale - il critico dovrà per forza prendersi il dovere di giudicare e di
mettere in luce quel nucleo di originalità. Questo è proprio il nucleo principale della critica con il Positivismo
e della bagarre che ne nascerà con il Positivismo. Croce riteneva appunto che l’opera d’arte non fosse un
fatto, ma al contrario un atto spirituale e creativo. L’artista ha un’intuizione che trasfonde nell’opera
letteraria, e di conseguenza si tratta di un atto conoscitivo; con un altro atto conoscitivo si dovrà appunto
arrivare al giudizio dell’opera stessa.
Per quanto riguarda la prima fase della critica crociana, ci possiamo fermare qui, e ci riaggiorniamo alla
prossima lezione.
Abbiamo già affermato come questi due concetti - che sembrerebbero apparentemente in contraddizione
l’uno con l’altro - in realtà vadano ad integrare n unico concetto, o comunque un unico fine speculativo, e
molto spesso siano semplicemente applicati a diversi autori, e quindi siano congeniali al lavoro stesso di
critica di Croce. Croce in prima persona non parla mai di un concetto in opposizione all’altro - ovvero il
concetto di “intuizione lirica” non sarebbe in opposizione con il concetto di “intuizione cosmica”. Al
contrario in concetto di “intuizione cosmica” secondo Benedetto Croce non sarebbe altro che
un’integrazione al concetto precedentemente espresso di “intuizione lirica”.
Si parla di “seconda fase” dell’estetica crociana quando il concetto di «intuizione lirica» viene
sostituito da quello di “intuizione cosmica”;
Croce non parla di un concetto in opposizione rispetto alla precedente teorizzazione, ma al
contrario l’“intuizione cosmica” sarebbe null’altro che un’integrazione al concetto di “intuizione
lirica”.
Da quando iniziamo a vedere questo tipo di concetto di “intuizione cosmica”? Compare per la prima volta
già in alcuni saggi del 1917, ma in maniera teorica compare per la prima volta nel 1918, quando nel saggio
“Il carattere di totalità dell’espressione artistica” Croce presenta appunto questa nuova concettualizzazione
del carattere cosmico dell’arte, o semplicemente dell’universalità dell’arte. Croce non ha mia parlato di
concetti in opposizione, ma allo steso tempo individua nel passaggio o nell’affermazione del concetto di
“intuizione cosmica” su quello di “intuizione lirica” un punto particolarmente importante della propria
teorizzazione estetica. Ne abbiamo una testimonianza in un passaggio molto importante: siamo nel 1922, e
Croce ripubblica - come ripubblicava costantemente - la sua “Estetica”.
È bene aprire una parentesi: l’“Estetica” del 1902 è un’opera che rimarrà sostanzialmente stabile nel
tempo, ma verrà ripubblicata più e più volte da Croce negli anni, proprio perché o voleva correggere alcuni
passaggi particolari, o perché le ristampe erano andate esaurite, quindi doveva ristamparlo. È da tenere
conto il fatto che delle opere di Croce ci sono moltissime edizioni che vanno vagliate attentamente dai
critici - è in corso ancora adesso un’edizione nazionale delle opere di Croce proprio per cercare di fornire
delle edizioni critiche delle diverse opere per monitorarne quella che è l’evoluzione del tempo.
Per quanto riguarda l’“Estetica”, l’edizione critica è già uscita ed è composta di ben tre volumi, che cercano
di ripercorrere quella che è l’evoluzione interna dell’opera, e schedarne tutte le varianti evolutive del testo,
che possono appunto segnalarci anche quelli che sono i cambiamenti più minuti nel testo che
corrispondono ovviamente a un cambiamento ideologico molto spesso, in opere così importanti.
Chiusa la parentesi. Nel 1922 Croce pubblica nuovamente la sua “Estetica”, e nella “Prefazione all’Estetica”
troviamo un passaggio nel quale Croce stesso individua e mette in luce questa semplificazione sulla quale ci
stiamo basando, ovvero la bipartizione della liricità e della cosmicità dell’arte. A riguardo troviamo un breve
passaggio nella slide 5: “i due principali svolgimenti che ne ho dati sono 1) la dimostrazione del carattere
lirico dell’intuizione pura (1908) e 2) la dimostrazione del suo carattere universale o cosmico (1918)”.
Secondo croce quindi sono due i principali svolgimenti della sua “Estetica”: il primo, quello della liricità, e il
secondo, quello della cosmicità. Ma lui utilizza tra l’una e l’altra proposizione, “uno e due”, una
congiunzione, non utilizza un’avversativa, né una disgiuntiva: sono due teorie che vanno a completarsi l’una
nell’altra, non sono affatto in opposizione secondo Croce.
Nel saggio Il carattere di totalità dell’espressione artistica (1918) Croce arricchì la propria estetica di
un concetto nuovo, quello del carattere “cosmico” o universale dell’arte;
Egli stesso individuò questo come un passaggio importante, tanto da segnare egli stesso una sorta
di passaggio teorico;
Nella Prefazione all’Estetica (ed. 1922) dice infatti: “i due principali svolgimenti che ne ho dati sono
1) la dimostrazione del carattere lirico dell’intuizione pura (1908) e 2) la dimostrazione del suo
carattere universale o cosmico (1918)”.
Questa seconda fase sembrerebbe introdurre una concezione dell’arte totalmente rovesciata rispetto al
concetto di liricità, ma non è assolutamente così. Possiamo riassumere il cambiamento nel binomio alla
slide 6: liricità=singolarità vs. pluralità=cosmicità. Questa nuova concezione veniva però effettivamente a
sanare alcune problematiche di fondo della concezione di liricità dell’arte.
Un critico, Spingarn, diceva appunto riguardo all’“Estetica” e al concetto di liricità: “non vi è pienamente
colto il potere universalizzante dell’arte, né questa viene collegata con le imprese più alte dello spirito
umano”. Era un’opzione che questo critico - che stava leggendo l’“Estetica” di Croce e le varie teorizzazioni
estetiche di Croce - notò, ovvero che il concetto di arte, benché molto congeniale - perché appunto metteva
in luce l’unicità singola di un poeta -, non era be capace di spiegare, di cogliere, quello che era il potere
universalizzante dell’arte. Pensiamo a una cosa: com’è possibile che noi a distanza di secoli riusciamo a
leggere, a comprendere, a sentirci compresi nell’opera di un poeta come Shakespeare - che ha scritto in
una lingua diversa dalla nostra, è vissuto in un periodo diverso dal nostro, e soprattutto di rivolgeva a un
pubblico diverso da quello che siamo noi? Questo è il potere universalizzante o eternizzante dell’arte: l’arte
è capace di parlare a distanza di secoli superando luoghi e barriere morali e sociali, la vera arte è in sostanza
capace di arrivare a tutti. È il concetto di liricità dell’arte sembrava non essere capace di spiegare questa
caratteristica dell’arte.
Questo nuovo saggio sembra introdurre una concezione dell’arte che rovescia totalmente
l’orientamento principale della sua teoria principale e precedente (liricità/singolarità vs.
pluralità/cosmicità);
Questa nuova concezione veniva però a sanare i rilievi mossi da molti lettori. Lo Spingarn diceva
infatti a proposito dell’Estetica di Croce (e del concetto di liricità): “non vi è pienamente colto il
potere universalizzante dell’arte, né questa viene collegata con le imprese più alte dello spirito
umano”.
Questo cambiamento dalla fase lirica alla fase cosmica - parlare di “cambiamento” non è particolarmente
corretto, ma prendiamo delle semplificazioni per capire un concetto -, questa concezione innovativa della
cosmicità dell’arte non si manterrà stabile nel pensiero di Croce. Siamo infatti portati a pensare che, finita la
prima fase, finisca anche la seconda e la situazione finisca lì, ma in realtà non è così. Questa fase della
concezione universalistica dell’arte è desinata a spiegare ben determinati concetti. Successivamente Croce
tornerà a lavorare anche su quella che è la liricità dell’arte, propri perché in molti casi la ricerca di una
cosmicità, di un’universalità - per autori soprattutto minimi, infimi o particolarmente elevati - avrebbe
portato a una bocciatura in toto di tutta quella che è la letteratura nazionale - letteratura d’arte
sicuramente, ma non capace di comunicare oltre il tempo e lo spazio.
Infatti questa concezione è collegata a un periodo ben determinato, grosso modo 1917-1820, quando Croce
- lo abbiamo visto nella precedente lezione - inizia a studiare e ad interrogarsi su alcuni poeti di particolare
importanza. Nella fattispecie in questo periodo nascono i saggi su Ariosto, Goethe, Shakespeare, Corneille e
Dante. I saggi di Ariosto, Shakespeare e Corneille sono compresi in un unico volume delle opere di Croce,
dove appunto i saggi su Ariosto e Shakespeare sono particolarmente importanti e particolarmente ampi,
mentre il saggio su Corneille è più limitato, nasce da una recensione e tocca dei punti importanti ma non è
un saggio di così grande portata.
Croce infatti, nel periodo 1917-1920 si occupò dei più grandi poeti della letteratura occidentale:
risalgono infatti a questo torno d’anni gli studi su Ariosto, Goethe, Shakespeare, Corneille e Dante.
Dante - Saggi sui grandi poeti della letteratura occidentale.
Al contrario il saggio su Dante - che cercheremo di analizzare meglio spero se avanzerà tempo nelle ultime
lezioni - è un saggio di particolare importanza. Nasce sull’onda delle celebrazioni per la nascita di Dante, e
appunto era il personale tributo di Croce a Dante, ma in realtà si risolse in una bagarre infinita, proprio
perché Croce nel cercare di mettere in luce proprio quella che era la caratteristica universalizzante di Dante,
arrivò comunque ad esprimere delle teorie che fecero indignare mezzo mondo accademico e mezzo mondo
critico. Infatti Croce arrivò a definire e ad individuare all’interno dell’opera di Dante due parti fondamentali:
una di poesia e una di struttura. Da un lato avevamo quindi la poesia vera e propria, e dall’altro la struttura
del poema. Il tutto era sintetizzabile in una sorta di metafora: come “una torre diroccata sulla quale si
arrampica una rosa rampicante”. In alcuni casi abbiamo quindi delle fioriture importanti, per il resto ci
appare la struttura portante - che non è poesia, ma è una parte narrativa in bona sostanza, che serve da
fondamento e da base per quello che è lo sviluppo della poesia vera e propria.
Figuratevi affermare una cosa del genere su Dante che cosa possa aver prodotto, anche perché volendo
esagerare la concezione di Croce si poteva arrivare all’estremo - già sostenuto da Bettinelli - della necessità
di dover ridurre Dante a un’antologia di pezzi particolarmente importanti e lirici - quindi unici, ma cosmici
allo stesso tempo. In realtà Croce non intendeva minimamente dire questo, ma venne colto questo e venne
criticato in maniera enorme.
Torniamo a riflettere un attimo su quelle che sono le personalità comprese nei saggi di questa fase. Ariosto
sarà secondo Croce il poeta per eccellenza, il poeta dell’armonia. Vi ho riportato nei testi legati a questa
lezione un passo particolarmente interessante e particolarmente denso, tratto dal saggio su Ariosto, nel
quale Croce riesce a sintetizzare le caratteristiche universalizzanti dell’arte di Ariosto - capace da un alto di
esprimere quello che è il proprio mondo personale e interiore, ma alo stesso tempo di comprendere in
questa espressione anche tutte le diverse categorie, i diversi pensieri, le diverse intuizioni del mondo. Una
capacità quanto meno singolare, quella di riuscire a sfumare quelle che sono le proprie sensazioni interiori
all’interno della più vasta tavolozza di colori delle sensazioni del mondo intero.
Allo stesso tempo Croce però si interroga anche su altri autori stranieri, che fanno parte però del cosiddetto
canone occidentale. Ad esempio si interroga e analizza tutta la poesia di Goethe - Croce fu un ottimo
conoscitore della lingua tedesca, che imparò fin da giovane, e rivalutò la poesia di Goethe sottraendola a
quello che era il bacino del periodo romantico, proiettandolo in una sorta di atemporalità nella quale i
grandissimi capolavori di Goethe erano un bagaglio atemporale per l’umanità, un messaggio e un monito
eterno. Allo stesso modo fece per Shakespeare.
Ma in particolare in momento di svolta vero e proprio lo costatiamo nel saggio di Ariosto: Ariosto mise
completamente in crisi quella che era la concezione dell’individualità e della liricità dell’arte del poeta.
Questo perché Croce andava riscontrando come Ariosto era capace di presentare una molteplicità di
sensazioni diverse, anche impersonali, una molteplicità di sensazioni che non provava magari in quel
determinato momento, ma che aveva conosciuto nel passato e che era capace di riconoscere negli altri. E
proprio la caratterizzazione dei personaggi di Ariosto fu alla base del cambio ideologico e teorico di Croce.
Difatti in Ariosto Croce trovò non solo l’espressione di uno stato individuale, quanto effettivamente “un
complesso atteggiamento verso la vita”, una capacità conoscitiva della vita anche non propria, singolare,
ma anche degli altri. Ariosto era appunto capace “di sintetizzare in un flusso di coscienza universale - sono
tutte parole di Croce - quelle che erano le intuizioni personali e anche la diversità dell’altro”. Ariosto diventa
quindi un simbolo di unità dell’intera società, ed è un modello assolutamente valevole e importante per il
momento in cui Croce scrive.
In particolare lo studio su Ariosto lo mise davanti alla necessità di ampliare la sua concezione di
liricità/individualità, riscontrando la capacità di Ariosto di rappresentare una molteplicità di
sensazioni diverse, anche impersonali;
Nel poeta infatti non ritrovò l’espressione di uno stato individuale, quanto di un più complesso
atteggiamento verso la vita, che descrive in maniera totalizzante, capace di unire singolarità
diverse e intuizioni personali in un flusso di coscienza universale.
Leggiamo le parole di Croce stesso. In Ariosto troviamo, secondo Croce, “una disposizione ed affetto e
simpatia per la Vita stessa, per la vita della Realtà, non in quanto è verità, bontà o altro di
particolarmente specificato, ma in quanto è semplice moto di vita, spettacolo di vita, godimento
dell’Essere nei suoi perpetui contrasti e nella sua armonia che in perpetuo si ristabilisce”.
In Ariosto Croce viene a costatare come il contenuto sentimentale della poesia venisse però a coinvolgere
allo stesso tempo dei concetti universali come quelli che lui ha citato: la Vita, l’Essere, l’armonia cosmica,
cioè il modo in cui le diversità riescono a convivere all’interno di un unico sistema - il mondo, l’esistenza
appunto. Ariosto di conseguenza non sente solo la propria individuale concezione della vita e dell’esistenza
- non rappresenta di conseguenza la propria unicità -, ma rispecchia categorie - ovvero, in maniera
idealistica, idee, e quindi bacini di idee - ben più ampie, che vengono trasfusi nell’opera e sono governati da
un’armonia. È come se Ariosto riuscisse a trasfondere nella propria opera letteraria l’armonia cosmica,
l’armonia che governa il mondo, ovvero la capacità della coesistenza dei diversi e degli opposti.
In Ariosto può quindi constatare come il contenuto sentimentale della poesia veniva a coinvolgere
concetti universali, che esulavano dalla semplice visione del singolo: la Vita, l’Essere, l’Armonia
cosmica;
Ariosto quindi non parla e non sente solo la sua individuale concezione di vita ed esistenza, ma
rispecchia categorie o “idee” ben più ampie, nelle quali è possibile riconoscere la totalità del
concetto, nel quale quindi tutte le diverse singolarità possono riconoscersi.
Croce cerca di giustificare questa apparente opposizione tra individualità e cosmicità dicendo che
“la rappresentazione dell’arte, pur nella sua forma sommamente individuale, abbraccia il tutto e
riflette in sé il cosmo”.
L’“intuizione cosmica”.
Per quanto riguarda proprio l’“intuizione cosmica”, il concetto di “intuizione cosmica” conserva chiarmente
alcune caratteristiche che erano già apparse nell’“intuizione lirica”. L’“intuizione cosmica” ha chiaramente
un carattere conoscitivo, è sempre l’arte come conoscenza, ed è ancora di tipo pre-logico - non è ancora
gravata ad esempio dalla morale o dall’economia, è qualcosa di assolutamente spontaneo ed immediato. La
differenza fondamentale sta nel fatto che l’“intuizione lirica” è un’intuizione o comunque una conoscenza
del tutto singolare, al contrario l’“intuizione cosmica” è la conoscenza dell’universale, o meglio il
riconoscimento dell’universale e della vita nella sua totalità, e nella sua molteplicità.
Il concetto di “intuizione cosmica” conserva il carattere conoscitivo e pre-logico già presente nel
concetto di “intuizione lirica”;
La differenza fondamentale risiede nel fatto che l’“intuizione lirica” è intuizione o conoscenza
singolare, quella “cosmica” è conoscenza dell’universale, della vita nella sua totalità.
Leggiamo cosa ci dice Croce: “in essa [nell’arte] il singolo palpita della vita del tutto, e il tutto è nella vita
del singolo; ed ogni schietta rappresentazione artistica è sé stessa e l’universo, l’universo in quella forma
individuale, e quella forma individuale come l’universo. {…}”
“{…} In ogni accento di poesia, in ogni creatura della sua fantasia, c’è tutto l’umano destino, tutte le
speranze, le illusioni, le gioie, le grandezze e le miserie umane, il dramma intero del reale, che diviene e
cresce in perpetuo su sé stesso, soffrendo e gioendo”.
Questo è appunto un passaggio tratto da “Il carattere di totalità dell’espressione artistica” (1917), e vedete
come Croce riesca a unire quella che è la concezione dell’“intuizione lirica” con quella che è l’“intuizione
cosmica”, proprio perché all’interno dell’“intuizione cosmica” rientra quella che è l’“intuizione lirica” anche.
Il fatto è che palpita insieme, vive insieme a quella che è una concezione più ampia del mondo e delle
diverse rappresentazioni del mondo.
Ad ogni modo questa concezione, è tesa a spiegare ben determinate eccellenze della poesia
occidentale, e nella pratica critica di Croce rimarrà un tentativo piuttosto limitato;
Difatti dopo il periodo 1917-1920 Croce tornò comunque a ricercare quella che è la liricità o
l’unicità o la singolarità dei diversi poeti o artisti che andava analizzando, segno che in qualche
modo la nuova concezione non era applicabile a tutti i casi (e portava a un giudizio per forza di cose
riduttivo verso altre forme letterarie).
La letteratura moderna.
Secondo molti critici questo slittamento tra liricità e cosmicità non può essere ricollegato a livello di nascita
se non a necessità di tipo morale. Ricorderete appunto il passaggio dalla concezione giovanile di Croce - con
una fede nella scienza, nel progresso, nella psiche umana - a quella di una sorta di fase di disillusione, che
però è generata dalla costatazione dell’ineluttabilità della storia, della difficoltà e della problematicità delle
spinte singolari, che porteranno appunto alla Prima Guerra Mondiale. Qui l’ambito politico e l’ambito
speculativo sono dominati da un fortissimo nazionalismo, e da un livello poetico/filosofico dal
decadentismo.
Secondo molti critici questo slittamento verso la “cosmicità” non può non essere ricollegato anche
a una necessità di tipo “morale”.
Questa concezione infatti venne a nascere nel periodo della Prima Guerra Mondiale, dominato dal
nazionalismo e dal decadentismo, teorie morali e artistiche volte a innalzare la singolarità.
Secondo Croce infatti tutta la letteratura moderna era travagliata, o meglio era tormentata da una sorta di
“malattia psicologica”, e questa malattia psicologica consisteva nell’abbondanza nelle forme letterarie di
motivi strettamente personali, pratici e assolutamente autobiografici, che hanno portato la letteratura
moderna ad assumere il carattere generico di una confessione del singolo ad un altro singolo. Al contrario
le opere della grande poesia - quelle di Ariosto, Shakespeare, Corneille, Dante - riescono a far palpitare
quella che è la visione singolare con la visione universale riescono a rappresentare sia il singolo, sia la
totalità. Tutta questa rappresentazione cosmica è governata da questa armonia di fondo.
Secondo Croce infatti la letteratura moderna, sin dal Romanticismo, è travagliata da una sorta di
malattia, che consisteva nell’abbondanza di motivi personali, pratici, autobiografici per i quali la
produzione artistica assume il carattere generale di “una confessione” di un singolo a un altro
singolo;
Secondo Croce, bisognava contrastare questa tendenza, e l’unico modo era rivolgersi a quei poeti
che erano stati capaci di rappresentare non solo i propri sentimenti, ma di ricercare sentimenti
condivisi, comuni, capaci di interrogarsi sull’umanità e non sulla singolarità di sé stessi.
Com’era possibile secondo Croce risolvere appunto questa difficoltà riscontrata nella letteratura moderna
di abbandonarsi ai motivi personali, di confessione? Tutto ciò era semplicemente risolvibile leggendo,
capendo e amando quelli che erano i grandi poeti, che erano stati capaci di rappresentare non solo i propri
singolarissimi sentimenti, ma anche di ricercare e di esprimere dei sentimenti, delle visioni condivise,
comuni, accomunanti appunto. Era questa la grandezza di questi poeti, e proprio questa è la ragione del
cambio che avverrà nel 1935 di giudizio su Gabriele D’Annunzio, che verrà stroncato proprio perché capace
di esprimere solo una propria singolare visione del mondo, assolutamente inattuale e impraticabile da altre
persone. Era un poeta assolutamente valevole a livello tecnico ma incapace di essere un poeta grande,
comunitario, cosmico.
Questo cambio di prospettiva, se pure non stabile e definitivo, porterà a notevoli cambi di giudizio;
Può infatti essere ricondotta a questa evoluzione morale/etica anche il cambio di giudizio su
d’Annunzio del 1935 del quale abbiamo già parlato, per il quale l’individualità del poeta, da motivo
unico e positivo, diviene il motivo di una sostanziale stroncatura.
Lettura attenta del testo in pdf, dedicato all’armonia in Ariosto - chiarimento del concetto di cosmicità e
armonia.
Quest’oggi parliamo del concetto di poesia e letteratura. Per quanto riguarda il concetto di poesia, abbiamo
visto che molto spesso per Croce “poesia” non indica la poesia come la intendiamo noi - ovvero
l’elaborazione poetica in versi -, ma al contrario sia una sorta di sinonimo di arte. Oggi cerchiamo di capire
meglio che cosa si nasconda dietro questa dicitura “letteratura”, perché anche qui Croce ha una sua
interpretazione diversa del concetto di letteratura.
“Poesia” e “non-poesia”.
Nella scorsa lezione abbiamo analizzato quello che è il concetto della cosmicità dell’arte, e ci siamo
interrogati anche su quali autori il concetto di cosmicità dell’arte viene riscontrato da Croce. Mentre
analizzavamo la singolarità di questo concetto abbiamo notato come effettivamente Croce riesca a cogliere
questo concetto di cosmicità solamente in ben determinati autori e tra l’altro in un ben determinato
periodo della sua attività critica. Ma il concetto di cosmicità dell’arte era effettivamente piuttosto
problematico, perché se il concetto di liricità dell’arte o comunque l’“intuizione lirica” era qualcosa di
riscontrabile se si vuole bene o male in un qualsiasi autore - qualsiasi autore, chi più chi meno, si è fatto
portatore di una propria originale visione del mondo -, al contrario la cosmicità è qualcosa di molto più
singolare, che era secondo Croce relegato o riscontrabile unicamente all’interno dei grandi capolavori della
letteratura universale. Questo concetto di cosmicità - se attuato anche su autori di non particolare
importanza a livello comune, a livello europeo e occidentale - avrebbe portato ad un severo restringimento
di quello che è il novero dei capolavori o comunque di ciò che poteva essere definito poesia, o di chi poteva
essere definito poeta. Ancora una volta facciamo riferimento al concetto di poesia come arte nel ver senso
della parola, e non al concetto tecnico di poesia. Anche con “poeti” possiamo intendere da un lato chi è un
poeta - quindi chi è un fattore di versi -, ma anche e soprattutto nel discorso crociano chi è un’artista.
L’arte quindi sarebbe effettivamente relegata in una minima parte all’intera produzione letteraria, e Croce
in un primo momento, basandosi sul concetto di cosmicità, produce una netta bipartizione: da un lato
abbiamo ciò che è poesia, e dall’altro ineluttabilmente ciò che è non-poesia, ciò che è proprio l’opposizione
alla poesia. È un binomio molto semplice, abbiamo la poesia con tutta quella produzione che rientra nel
canone della cosmicità, e dall’altro tutto ciò che non raggiunge effettivamente quel livello di introspezione,
di rappresentazione del mondo, e che quindi ricadrà immancabilmente nella non-poesia.
In un primo momento Croce, proprio basandosi sui concetti della “cosmicità” produce una netta
separazione tra poesia e non-poesia;
In questo quadro quindi solo i più grandi capolavori hanno diritto di rientrare nella categoria della
“poesia”, mentre tutte le altre manifestazioni letterarie vengono a ricadere nella grande categoria
della “non-poesia”.
Tutte le manifestazioni poetiche saranno quindi quelle capaci di accomunare all’interno di una singola
opera più sentimenti di più persone - una rappresentazione del mondo quanto mai variegata, dominata
dall’armonia (come appunto in Ariosto). Tutto il resto sarebbe la non-poesia, ma la domanda sorge
spontanea: tutta la letteratura che Croce non ha analizzato, o che non ha ritenuto degna di comparire a
livello di poesia, è quindi da rigettare? Effettivamente questo problema se lo cominciò a porre anche Croce,
perché era una bipartizione veramente troppo netta. Dapprima il concetto di non-poesia - subito dopo “La
teorizzazione della cosmicità dell’arte” - viene ad avere una nettissima valenza negativa: ciò che non è
poesia è qualcosa di dispregevole, è un altro modo per dire “non arte”. In questo modo però si sarebbe
ottenuto un assottigliamento veramente troppo grande del canone di autori di riferimento, o comunque di
autori valevoli di lettura, nel quale sarebbero rientrati anche autori ritenuti fondanti per le letterature
nazionali.
Dapprima il concetto di “non-poesia” viene ad avere una valenza fortemente negativa, che
accomuna sotto la definizione della non arte una serie di operazioni letterarie anche meritevoli, ma
che comunque non raggiungono il livello della “cosmicità”.
In seguito Croce fu propenso a rivedere questo schema di bipartizione netta e meccanica, quindi a rendere
in un certo qual modo la valutazione artistica più flessibile, più sfumata. C’era bisogno di un’altra categoria
che potesse porsi in buona sostanza tra la poesia e la non-poesia, che accogliesse al suo interno delle
produzioni artistiche assolutamente valide - magari da un punto di vista formale -, ma che comunque non
riuscivano a raggiungere quel livello della cosmicità.
In seguito però Croce avvertì la necessità di rivedere questo schema e questa bipartizione troppo
netta e meccanica, e di rendere la valutazione artistica più flessibile e sfumata, insomma più
adeguata alla complessità e alla varietà delle espressioni artistiche.
Un primo passo verso il superamento del sistema poesia/non-poesia lo troviamo nel volume Poesia
popolare e poesia d’arte, una raccolta di saggi del 1933 dove Croce istituisce una distinzione
all’interno della categoria della “poesia” che potrebbe essere più o meno complessa;
In questo volume Croce mette in crisi l’idea romantica secondo la quale la poesia popolare fosse
un’espressione collettiva di sentimenti e idee corali, passionale, spontanea e irriflessa.
La prima cosa che dobbiamo analizzare è quella che è la concezione di Croce di poesia popolare. In un
primo momento Croce non aveva avuto una grandissima reputazione di questo tipo di forma d’arte
popolare, e anche in questo volume effettivamente non arriverà ad elogiarne i contenuti e neanche la
forma, ma comunque inizierà a rivedere in parte le sue posizioni arrivando a smussarle in alcuni punti.
Secondo i Romantici la poesia popolare - ossia la poesia del popolo, quella recitata mnemonicamente dalla
collettività - era una delle espressioni più alte della poesia, perché era un tipo di poesia che si faceva carico
dei sentimenti, delal memoria, delle idee della collettività. Secondo i Romantici si trattava di un’espressione
corale della collettività, che appunto trovava il suo fondamento all’interno di queste poesie, la sua memoria
storica, i suoi valori. Alcuni Romantici cercarono addirittura di far rientrare nell’ambito della poesia
popolare anche Omero - ma era una tesi molto dibattuta. Si trattava di una tesi secondo i Romantici
“passionale, spontanea e riflessa”, ovvero una poesia che non soggiaceva alle regole complesse della poesia
canonica, ma che era dettata dal semplice sentimento espressivo popolare - un qualcosa di immediato e di
assolutamente comprensibile da tutti.
Croce non era minimamente d’accorso e non lo sarà assolutamente, perché lui ragiona in questo modo. La
poesia popolare, benché popolare - e quindi recitata molto spesso da una pluralità di soggetti -, molto
spesso era attestata in molte forme diverse: lo stesso concetto veniva declinato in diverse poesie, nei
diversi luoghi in cui questa era stata tramandata. Ma questo concetto della coralità non convinceva Croce,
perché a suo avviso - ed è qualcosa effettivamente ancora oggi valido a livello teorico - la poesia popolare,
benché recitata e tramandata da una pluralità di soggetti, alla sua base doveva comunque avere
l’espressione e l’ideazione di un singolo soggetto, che si era fatto carico di esprimere la propria singolarità,
che era poi stata magari condivisa dalla collettività. Ma comunque alla base vi era sempre un singolo, quindi
una sorta di “intuizione lirica” che era difficile potesse assurgere a “intuizione cosmica”.
L’unica distinzione che era possibile istituire tra la poesia popolare e la poesia d’arte - come la chiama
Croce, o comunque la poesia di alto livello - era da ricercare nella minor complessità tecnica ma anche
ideologica che la poesia popolare attestava.
Secondo Croce infatti la poesia popolare, anche se anonima, e attestata in diverse forme con il
medesimo tema avrebbe sempre alla base l’espressione e l’ideazione di un singolo;
L’unica distinzione logica istituibile tra poesia popolare e poesia d’arte sarebbe da ricercare nella
minor complessità della poesia popolare.
Cerchiamo di capire dalla viva voce di Croce qual era la differenza tra la poesia popolare e la poesia d’arte.
La poesia popolare secondo Croce “esprime moti dell’anima che non hanno dietro di sé, come precedenti
immediati, grandi travagli del pensiero e della passione; ritrae sentimenti semplici in corrispondenti
semplici forme”. La poesia popolare sarebbe un tipo di poesia semplice, espressa da un singolo e poi
adottata da una collettività, che effettivamente dietro di sé non ha particolari travagli, o un particolare
dolore o un sentimento di particolare pregnanza, di conseguenza viene espresso in forme piuttosto
semplici. Anche in questo caso l’uguaglianza tra forma e contenuto è chiaramente evidente, perché a un
contenuto non particolarmente pregnante non può corrispondere una forma particolarmente elaborata e
particolarmente incisiva.
Al contrario la poesia d’arte sarebbe “l’alta poesia muove e sommuove in noi grandi masse di ricordi, di
esperienze, di pensieri, di molteplici sentimenti e gradazioni e sfumature di sentimenti”. Questa appunto
sarebbe la poesia nella sua pienezza più totale.
“La poesia”.
Nel volume “Poesia popolare e poesia d’arte” Croce però nello stesso momento - oltre all’analisi piuttosto
distruttiva della poesia popolare - va ad analizzare una serie di poeti e di poesie del Rinascimento italiano, e
in questo novero di poesie del Rinascimento rientrano sia espressioni latine sia italiane - non c’erano
problematiche per Croce nell’analizzare né espressioni in latino né in italiano appartenenti a uno stesso
periodo. Quello che era un mezzo linguistico per lui era semplicemente un mezzo di “estrinsecazione”,
quindi di espressione della poesia che nulla aveva a che veder con le facoltà di giudizio del critico.
Quello che mette conto notare è che nell’analisi dei poeti del Rinascimento egli nota come la maggior parte
dei minori del Rinascimento non raggiungano ovviamente un livello di poesia particolarmente elevato, ma
allo stesso tempo di questi sottolinea la grandissima capacità formale - come appunto quella di una sorta di
esercizio stilistico e tecnico che in buona sostanza veniva portato avanti da questi poeti grazie all’imitazione
molto attenta dei modelli del passato (i modelli antichi, quelli greco-latini). Croce ne fa quindi una sorta di
elogio, ma in realtà sta elogiando un tipo di poesia imitativa, quindi sta dando un giudizio positivo ad un
fattore formale, quando automaticamente questi grandi poeti dell’imitazione dovevano ricadere nel grande
bacino della non-poesia.
Nel volume però Croce, insieme alla sostanziale stroncatura della poesia popolare presenta una
serie di saggi dedicati alla poesia del Rinascimento, sia latina che italiana, dove esalta la capacità
formale, il grande esercizio stilistico e tecnico portato avanti anche grazie all’imitazione attenta dei
modelli antichi.
Croce sta quindi dando un giudizio positivo a un tipo di poesia imitativa e formale, che
teoricamente dovrebbe ricadere nel grande bacino della non-poesia.
Difatti Croce si rende conto di questa sostanziale difficoltà - perché non può da un lato dire che la poesia
popolare è non poesia, e dall’altro dire che la poesia imitativa è poesia: è un non senso, un controsenso
effettivamente. O c’è una cosmicità o non c’è. C’è allora la necessità urgente di introdurre qualcosa che
fosse mediano tra le due categorie della poesia e della non-poesia e dell’arte e della non-arte. Questo
punto di mediazione arriva nel 1936, quando Croce pubblica un’opera molto complessa, ma che
effettivamente è una delle più belle di Croce, delle più importanti a livello critico ed estetico, “La poesia”.
Già il titolo fa capire quanto l’opera fosse importante: non si tratta in questo caso di una raccolta di saggi,
ma si tratta di una serie di capitoli dedicati all’approfondimento di determinati argomenti della poesia. In
particolare Croce non si sofferma su nessuna poesia in particolare a livello nazionale, ma investe con la sua
riflessione tutta la poesia mondiale che lui aveva avuto modo di leggere.
Siamo nel 1936 e per Croce è un periodo veramente orribile: è perseguitato dai Fascisti che hanno fatto in
modo di porlo sotto stretta sorveglianza e la maggior parte dei suoi amici sono stati costretti ad
allontanarsi, o comunque non hanno più la capacità di frequentarlo liberamente. Croce è inoltre
preoccupatissimo dall’andamento della situazione politico, e l’unico modo che ha di reagire a questa triste
situazione personale - in realtà non solamente personale - è quello di chiudersi in sé stesso e di riflettere
proprio sulla poesia. Ci sono alcune lettere che gli amici di Croce si scambiano in questo periodo che lo
descrivono come totalmente assorbito da quest’opera, che sarà effettivamente la summa di tutta la sua
teorizzazione, di tutta la sua teorizzazione estetica.
La “letteratura”.
In quest’opera Croce in buona sostanza demolisce quella che è la contrapposizione netta tra poesia e non-
poesia, e inserisce una terza categoria che egli chiama “letteratura”. È una categoria che integra al suo
interno alcune caratteristiche della poesia - nella sua più ampia accezione - con alcune categorie della non-
poesia. Ma cerchiamo di capire Croce stesso che definizione ci dà di “letteratura”. La “letteratura” viene
definita come “una delle parti della civiltà e dell’educazione, simile alla cortesia e al galateo”. È un
qualcosa quindi di intrinseco all’uomo e alla sua socialità, un tipo di poesia che non ambisce ad arrivare al
livello di comunità e quindi di cosmicità, ma allo stesso tempo ha una funzione ben determinata all’interno
ella società, e che per questo va studiata e va assolutamente apprezzata, pur nei suoi limiti. Questa
“letteratura” consiste “nell’attuata armonia tra le espressioni non poetiche, cioè le passionali, prosastiche
e oratorie e eccitanti e quelle poetiche, in modo che le prime, nel loro corso, pur senza dinegare se
stesse, non offendano la coscienza poetica e artistica... perciò, se la poesia è la lingua materna del genere
umano, la letteratura è la sua istitutrice nella civiltà”. La poesia è un qualcosa di materno, di spontaneo, la
“letteratura” è un qualcosa di sostanzialmente costruito ma non perciò dispregevole o appunto negabile a
livello di studi.
In questo modo Croce, oltre che salvare una buona fetta della nostra letteratura italiana o comunque della
letteratura mondiale, applica anche un altro meccanismo: scagiona e salva sé stesso e i suoi interessi.
Anche perché Croce fu un lettore onnivoro, e sia in precedenza sia in contemporanea a questo studio sulla
poesia - ma anche nel periodo della cosmicità - portò avanti una serie di studi su opere della letteratura che
non ambivano a livello di cosmicità, ma che a detta sua erano altamente valevoli di studio, di
approfondimento e di giudizio positivo. Di conseguenza stava salvando i propri gusti, i gusti dell’umanità -
perché moltissimi autori che lui non ritenne cosmici erano unanimemente ritenuti dei grandissimi poeti.
Cercando quindi di riassumere il concetto di “poesia”, “non-poesia”, “letteratura”, altrove Croce cercherà di
definire la “poesia” come “opera di verità”, mentre la “letteratura” come “opera di civiltà”. In un altro luogo
dirà che la “poesia” è un qualcosa “che entra in colloquio direttamente con Dio”, mentre la “letteratura” è
un qualcosa “che colloquia direttamente con gli uomini”. La “poesia” punta al divino, quindi alla cosmicità,
mentre la “letteratura” punta all’umanità, all’uomo semplicemente, molto spesso alla singolarità delle
persone.
Altrove definirà questa bipartizione “poesia” / “letteratura” ricorrendo alle seguenti metafore:
Poesia = “opera di verità” -> Letteratura = “opera di civiltà”;
Poesia = “colloquio con Dio” -> Letteratura = “colloquio con gli uomini”.
Sempre all’interno de “La poesia” Croce ha dato però anche un’altra interpretazione molto interessante,
ovvero una rigorosa definizione sia della natura sia dei metodi della critica letteraria. Secondo Croce - ciò
viene espresso all’interno de “La poesia” - la critica letteraria ha un carattere prettamente logica, ed è tesa
alla distinzione tra bello e brutto, quindi tra poesia e non-poesia. La critica è ovviamente e dev’essere
chiaramente un giudizio di valore, ed è distinta in maniera netta da quella che è l’applicazione filologica. È
una sorta di recupero di ciò che lui già aveva detto ne “La critica letteraria - questioni teoriche” - come
abbiamo visto nella prima lezione dedicata alla “Critica crociana” - proprio perché la filologia è
un’antecedente necessario al lavoro critico, non si tratta di un lavoro critico in sé.
Sempre ne La poesia Croce ha dato anche la più matura e rigorosa definizione della natura e dei
metodi della critica letteraria;
La critica ha un carattere prettamente logico, ed è tesa comunque alla distinzione tra bello e brutto
(tra poesia e non-poesia);
La critica è un giudizio di valore, e si distingue dalla filologia che è solo l’antecedente necessaria al
lavoro critico.
D’altra parte quello che è ancora importante notare rispetto alla critica letteraria è che secondo Croce
comunque il lavoro critico non è limitato al giudizio, ma al contrario è integrato in parte da una fase
ulteriore, ed è lo stesso che stavamo già vedendo nella prima lezione con “La critica letteraria - questioni
teoriche”. Un ulteriore fase dedicata al lavoro critico è quella della caratterizzazione. La caratterizzazione
consiste in buona sostanza nella definizione del carattere dell’opera, che significa in altre parole “definire
quali siano i motivi generatori dell’opera stessa, quale sia il contorno sociale e politico dell’opera, cosa ha
spinto l’autore a prendere in considerazione la scrittura di quest’opera. Di conseguenza il bagaglio a
disposizione del critico si è allargato, perché non solo si sono allargate le possibilità di giudizio - non c’è più
la poesia e la non-poesia, l’arte e la non-arte -, ma vi è anche un’ulteriore categoria, e vi è anche un
ulteriore metodo e un ulteriore modo per analizzare la letteratura, non solo dandone un giudizio, ma anche
cercando di caratterizzarla - quindi di metterne a nudo quelle che sono le intenzioni e i motivi generatori.
D’altra parte la critica letteraria non è limitata alla sola fase del giudizio, ma viene integrata dalla
“caratterizzazione”;
Il concetto di caratterizzazione è un recupero di una posizione già espressa ne La critica letteraria –
questioni teoriche (1883): si tratta infatti di una definizione del carattere dell’opera, ovvero di una
definizione del “motivo generatore” dell’opera stessa;
La critica letteraria quindi va al di là della semplice indicazione discriminante (bello/brutto) ma
illumina il rapporto che intercorre tra opera e la realtà/il mondo che l’ha generata.
20° Lezione del corso di Critica Letteraria Italiana - Croce autobiografico.
Croce autobiografico.
Oggi tratteremo del Croce autobiografico e introdurremo l’opera “Contributo alla critica di me stesso” -
lettura integrale. Quando nel 1915 Croce iniziò la redazione del “Contributo alla critica di me stesso” -
arriverà a pubblicazione solo nel 1918 -, Croce non era un neofita completo degli scritti autobiografici:
aveva già analizzato il suo percorso di vita e il suo percorso di studi in precedenti tentativi autobiografici,
che però rimarranno o incompleti, o che comunque verranno superati e rifusi all’interno del “Contributo
alla critica di me stesso”. A tutti gli effetti possiamo dire che il “Contributo alla critica di me stesso” è la più
completa elaborazione autobiografica di Benedetto Croce. Tutto ciò che è precedente è stato in qualche
modo superato dal “Contributo alla critica di me stesso”. Infatti la raccolta che raccoglie al suo interno
questi testi di cui andremo brevemente a parlare, porta come dicitura “Testi che sono stati superati e rifusi
all’interno del “Contributo alla critica di me stesso”. Analizzarli però può darci delle informazioni piuttosto
utili per inquadrare quella che sarà poi l’opera suprema, ovvero il “Contributo alla critica di me stesso”.
I primi scritti che conosciamo di carattere autobiografico risalgono al 1902, e più in particolare mi sto
riferendo a due testi: il “Curriculum vitae” e “Il Piano di studi”. Sono due testi entrambi redatti nell’aprile
del 1902, ma che hanno effettivamente due obiettivi e due finalità completamente diversi.
La spinta all’autobiografia non era cosa nuova in Croce nel momento in cui, nel 1915, si accinse alla
redazione del Contributo alla critica di me stesso.
I primi scritti che conosciamo in questo senso risalgono al 1902.
Si tratta di due testi:
Il Curriculum vitae.
Iniziamo ad analizzare il “Curriculum vitae” - estratto nei testi in pdf. Il titolo potrebbe indurre chiaramente
in errore: non si tratta di un curriculum vitae come noi oggi lo intendiamo - ovvero un’elencazione sintetica
e per punti di tutto ciò che abbiamo fatto nella nostra vita, le opere, le produzioni eventualmente
scientifiche, la nostra formazione e le nostre esperienze lavorative. Si tratta di un testo sostanzialmente
narrativo, per altro molto breve, che ripercorre l’intera parabola della vita di Croce, dalla nascita fino al
1902.
In questo testo si affaccia già una tendenza che analizzeremo meglio con un’altra opera. La maggior parte
delle opere di Croce infatti sono strettamente correlate a quella che è la sua stessa produzione. Lo stesso
“Contributo alla critica di me stesso” - benché abbia moltissimi aneddoti o ricordi riguardanti la propria vita
- cerca comunque di concentrarsi su quello che è stato lo sviluppo psicologico e intellettuale del
personaggio.
Gli argomenti non sono sempre legati all’aspetto intellettuale, ma in questo caso Croce si lascia andare a dei
veri e propri ricordi che hanno una strettissima attinenza biografica, e che effettivamente non sembrano
agire sulla sua persona a livello molto intimo. Per esempio Croce, proprio nell’attacco del “Curriculum
vitae”, inizia con una frase molto famosa - che tra l’altro è stata anche ripresa nel documentario presente
nella Lezione 14, e che tra l’altro verrà anche rifusa nel “Contributo alla critica di me stesso”- : “Quando mi
sforzo di raccogliere i miei più lontani ricordi, non trovo se non l’immagine di una nostra villa a Portici, dove
trascorsi parecchio tempo della mia fanciullezza; alcuni fatti paurosi della Commune e delle petrogliere del
1871, che sentivo leggere da mio padre sui giornali; e l’eruzione del Vesuvio con la pioggia di cenere nel
1872”. Si tratta di ricordi, tra l’altro molto vaghi, che non dovrebbero avere un’attinenza in una biografia
intellettuale, ma che Croce decide comunque di mettere su carta non solo per lasciarli in memoria a noi,
quanto più per fissarli o comunque eternarli sulla carta - e renderli quindi inscindibili da sé stesso.
Dobbiamo tenere ben presente questo aspetti della eventuale non attinenza di alcuni autori a quello che è
il profilo intellettuale dell’autore, e questo per diverse ragioni. La prima, la più importante, è che -
osservando dalla lettura del “Contributo alla critica di me stesso” - ogni aneddoto che viene narrato in
quell’opera mirabile è un aneddoto che comunque ha una certa attinenza, o comunque può essere
ricondotto alla ricostruzione più completa possibile di quello che è l’aspetto intellettuale dell’autore - non
troviamo mai dei ricordi oziosi. Un esempio: quando Croce nel “Contributo alla critica di me stesso” parla
della madre, ne parla sì come di una figura fondante nella sua vita, ma soprattutto come la persona che
diede più impulso nella sua giovinezza a quelle che erano le sue già innate spinte intellettuali. Lo vediamo
già dalla selezione di aneddoti proposti da Croce: ad esempio l’andare con la madre in libreria aveva
innescato in lui quella fame di libri e quella fame di collezionismo librario e di letture stesse. Lo stesso
andare in giro per Napoli con la madre a visitare chiese e monumenti ha una chiara valenza nell’ottica del
racconto per spiegare quelle che saranno le tendenze e gli interessi del Croce più maturo - che non solo di
interessò di poesia, ma si interessò anche di arte, e scrisse moltissime cose proprio di analisi artistica o
teoria dell’arte in generale.
Come già accennato nel “Contributo alla critica di me stesso”, anche nel “Curriculm vitae” un tema
ricorrente - e vorrei porre l’accento - è proprio la passione letteraria e la passione del bibliofilo. È proprio
come se già nel 1902 Croce volesse designare una sua parabola che congiungeva la sua vita di fanciullo con
quella del suo presente di accanito bibliofilo e di grande critico letterario. È possibile andare sul sito della
fondazione “Benedetto Croce” per fare una sorta di tour virtuale di quella che è l’abitazione di Benedetto
Croce - mirabile la sua passione per il collezionismo librario. Croce mise insieme una biblioteca che aveva
una doppia funzione: da un lato assolveva quelle che erano i suoi desideri di collezionista, ma d’altro lato
era anche la biblioteca di lavoro del critico. Dalla sua estensione possiamo renderci conto di quanto fosse
grande lo spettro di interessi di Benedetto Croce.
Leggiamo un breve passo tratto dal “Curriculum vitae”: “In collegio mi si svolse fortemente la passione
letteraria, che già allorché avevo sette od otto anni si era manifestata in certo modo, con l’avidità del
leggere e possedere libri {…}”.
Già da qui è possibile capire che la passione letteraria era strettamente collegata ovviamente all’avidità del
leggere, ma anche al possesso dei libri. Ricorderete o leggerete nel “Contributo alla critica di me stesso” un
passo particolarmente inteso nel quale Croce ricorda la visita alle librerie con la madre, e ricorda proprio
l’odore dei libri, quindi la materialità del libro come elemento scatenante di una già pregressa passione
letteraria. È come se egli avesse una passione per la lettura che veniva a sua volta aumentata e inficiata dal
possesso e dalla materialità stessa del libro.
Quando andiamo a studiare un autore, è ben sempre andare a vedere i suoi ritratti - che possono essere dei
dipinti, o delle fotografie. La fotografia che vediamo in alto a sinistra di ogni slide, è una fotografia che
Croce spedì ai suoi amici. Si tratta di una fotografia preparata, scelta nella sua ambientazione proprio da
Croce. Lui si è fatto ritrarre con un libro in mano, e non è un aspetto casuale: ciò infatti risponde proprio alla
sua formazione e alla sua figura di intellettuale legato alla cultura e ai libri, ma risponde anche alla sua
passione di bibliofilo, di collezionista veramente accanito di libri.
Il passo continua con alcune opere lette da Croce nella sua gioventù, che hanno dato lui particolare impulso
intellettuale. Sono tra l’altro opere per la maggior parte che vengono citate anche nel “Contributo alla
critica di me stesso”, e tutto ciò sia perché effettivamente la loro importanza è cardine per ciò che Croce
riesce a ricostruire, ma è bene sottolineare il fatto che tutti questi testi che leggeremo oggi sono stati
sfruttati e sono confluiti in un certo qual modo nel “Contributo alla critica di me stesso”.
“{…} Prima di entrare in collegio, possedevo ed avevo letto, tra l’altro, tutte le opere del padre Bresciani,
consigliate a mia madre da un confessore gesuita, il padre Altavilla, che raccolse anche le mie prime
confessioni! Il Marco Visconti del Grossi aveva formato in modo speciale la mia delizia.”
Inoltre un altro tema importante del “Curriculum vitae” è il rapporto privilegiato con la madre. La madre fu
una donna particolarmente importante all’interno della vita di Benedetto Croce, a differenza del rapporto
che egli ebbe con il padre - una figura sempre inquadrata come distante, una figura di bravissimo uomo, ma
con poca o nessuna attinenza alla vita intellettuale, che era invece il percorso che Croce aveva scelto per sé
già da piccolissimo, o che comunque era riuscito a intravedere ripercorrendo la sua biografia da adulto
rispetto a quando era bambino.
Vi è inoltre un passo molto bello nel “Curriculum vitae” riguardo al terremoto di Casamicciola - un evento
traumatico che segnò definitivamente la vita di Benedetto Croce, rendendolo orfano di madre e padre, e
dove perse anche una sorella, lasciandolo in vita con l’unico compagno-familiare il fratello. Il terremoto di
Casamicciola viene descritto con particolari forse più dettagliati di come non sarà descritto nel “Contributo
alla critica di me stesso”, e ne troveremo un estratto nei testi in pdf.
La vita del “Curriculum vitae” non si limita al 1902, ma infatti cinque anni dopo, nel 1907, rileggendo le
pagine del “Curriculum vitae”, fece una piccola aggiunta, che è particolarmente interessante per chiarire
alcuni punti.
A distanza di cinque anni dal 1902, Croce rilesse le pagine del Curriculum e appuntò sul
manoscritto:
“Rileggo dopo cinque anni [nel 1907]. Mi pare che le cose scritte sieno tutte esatte. Non distruggo le pagine
precedenti, anche perché parecchie delle cose scritte mi uscirebbero dalla memoria. {…}”
La funzione dell’opera autobiografica secondo Croce è anche questa, ovvero di liberarsi di alcuni ricordi
che, rimanendo su carta, lui non era più tenuto in buona sostanza a dover mantenere nella propria
memoria. È come un dover scaricarsi in parte dei ricordi e anche delle sensazioni di quei momenti.
“{…} Dovrei fare qualche riserva sui punti in cui si accenna al mio carattere personale. Ma la verità è, che io
non saprei scrivere di me come individuo, delle mie intenzioni, azioni e sentimenti, senza urtare in due e
contrarii pericoli: l'accusa sistematica e la sistematica apologia. {…}”
Croce dice di non essere capace di scrivere con lucidità di sé stesso come persona, perché il rischio è quello
o di scadere in un’accusa sistematica di sé stesso, o di salvarsi da qualunque tipo di accuso, e quindi di
compiere un’apologia di sé stesso, giustificandosi.
“{…} Certe volte, mi vedo tutto in nero: certe altre volte, tutto in bianco. {…}”
È un qualcosa che noi possiamo riscontrare anche con noi stessi: non ci sono di solito mezze misure verso di
noi, siamo tesi o ad accusarci o a scagionarci sistematicamente, quindi in maniera ricorsiva.
“{…} Per fortuna, la mia individualità non importa, o ben poco, agli altri: importa ora a me, che cavalco
questo cavallo; e quando ne sarò disceso, gli altri faranno bene a non occuparsene. Come Catullo una volta
voleva essere totus nasus, così io vorrei essere giudicato come tutto pensiero”.
Croce già da adesso sta cercando di eliminare quella che è la sua individualità di persona. Sta tentando di
dissuadere gli studiosi - o comunque chi verrà dopo di lui - dall’occuparsi di lui come persona, ma di
occuparsi di lui solamente come intellettuale, in base quindi alla sua produzione scritta. Ricorre a un
paragone: Catullo, in uno dei suoi carmi, aveva appunto detto di voler essere totus nasus, quindi “tutto
fiuto”, e allo stesso tempo Croce vorrebbe essere giudicato come tutto pensiero, e non come un’entità che
è vissuta, un’entità di persona. Si tratta in questa piccola nota del motivo generativo - ovviamente in nuce -
che porterà alla composizione del “Contributo alla critica di me stesso”, e all’eliminare sistematicamente
quelli che erano dei motivi personali e strettamente attinenti alla biografia e non sviluppo intellettuale della
persona.
Si tratta chiaramente del pensiero generativo in nuce della composizione del Contributo.
Il Piano di studi.
Passiamo adesso ad analizzare un’altra opera, o comunque un altro brogliaccio o una serie di appunti, “Il
Piano di studi”. “Il Piano di studi”, a differenza del “Curriculum vitae”, è sempre un testo discorsivo - o
comunque narrativo - redatto sempre nell’aprile del 1902, a fine mese. Il testo ha come evento generativo
un event particolarmente importante a livello personale, a livello degli studi di Benedetto Croce, ovvero la
pubblicazione dell’“Estetica”. Croce, arrivato alla soglia della pubblicazione dell’“Estetica”, vede in
quest’opera il vero e proprio spartiacque all’interno della sua produzione e della sua vita: da questo
momento egli si riconosce come un intellettuale che ha prodotto effettivamente qualcosa di memorabile, e
che segnerà effettivamente tutto lo sviluppo successivo dei suoi studi e della sua biografia.
Croce con questo scritto designare quello che sarà lo sviluppo dei propri studi successivo all’aprile del 1902.
Si tratta di uno scritto con finalità proiettive: non è uno scritto di analisi del passato, ma di programmazione
del futuro. Leggiamone un estratto, che è proprio relativo all’incipit del piano di studi.
“In questi giorni sto per pubblicare il mio libro sulla Teoria e la Storia dell'Estetica. {…}”
Si sta riferendo all’“Estetica” del 1902, ma allora perché non parla di “Estetica” ma di “Teoria e Storia
dell’Estetica”? L’opera è propriamente divisa in due parti: una storica, che ripercorre tutta la storia della
disciplina dell’estetica, e una di teoria dove Croce espone la propria teoria.
“Forse mi faccio illusione; ma mi sembra che con esso io entri nella piena maturità dei miei studii e della
mia produzione scientifica. Ed è questo il momento di disegnare, con maggiore sicurezza che non abbia
saputo pel passato, il piano degli studii e lavori futuri. Essendomi svolto liberamente, senza dover ubbidire
a rispetti esterni e senza lasciarmi sedurre da essi, io, tra non pochi erramenti, ho pure raggiunto il risultato
non spregevole di essermi esercitato ed addestrato così nella ricerca ed esposizione storica, come nella
indagine e meditazione filosofica; ed ho accumulato nella mia mente problemi e materiali, che mi terranno
forse occupato tutto il resto della mia vita”.
È come se Croce, nel momento in cui sta pubblicando la sua “Estetica”, tenda a voler fare un consuntivo di
ciò che ha fatto e a giudicarlo in maniera piuttosto equilibrata. Dice che l’“Estetica” - probabilmente
illudendoci - rappresenta il primo frutto della sua piena maturità degli studi e della produzione scientifica. E
proprio in virtù di questo è per lui strettamente necessario “disegnare, con maggiore sicurezza che non
abbia saputo pel passato, il piano degli studii e lavori futuri”. Ancora una volta torna questa bramosia di
programmazione del futuro e dei propri eventi e studi futuri.
Continua dividendo i «problemi» che caratterizzano i suoi attuali interessi in due categorie, quelli
«filosofici» e quelli «storici».
E procede in questo modo: innanzitutto individua due elementi caratterizzanti della sua applicazione nel
passato, e che sicuramente potranno dargli degli sviluppi nel futuro. Il primo è l’esposizione e la ricerca
storica, e il secondo è la meditazione filosofica, o comunque l’indagine filosofica. Sono questi i due campi
sui quali Croce intende muoversi nel futuro per svolgere i propri studi.
Cerchiamo di analizzare quali sono le linee di sviluppo per i due orientamenti che ha individuato. Riguardo i
problemi filosofici, traccia uno sviluppo dei suoi studi che sarà assolutamente realizzato da lui. Si tratta
quindi - citandolo - di un “Menare a termine un intero sistema di Filosofia dello Spirito, ossia di tutta la
filosofia”. Croce quindi passa a designare - lo vedrete nei testi - tutto il piano dei volumi che dovranno
comporre appunto la filosofia dello spirito, che è il titolo che Croce darà al suo sistema filosofico. Questo
sistema filosofico si svolge proprio all’interno delle determinate caratteristiche che Croce include ne “Il
Piano di studi”: l’“Estetica” l’ha composta e la sta per terminare, dovrà comporre successivamente la
“Logica”, l’“Economia” e l’“Etica”, tutte opere che effettivamente realizzerà nel suo futuro.
Riguardo invece ai problemi storici, è qualcosa di ancora più interessante perché, benché non sia ancora
ben delineato in sé stesso quello che sarà il percorso dei suoi studi storici - intendendo comunque anche
quelli di critica letteraria -, ne dà comunque una grande visione, che effettivamente noi dopo possiamo
ricollegare alle sue opere.
“mi pare di riconoscere che il campo d’indagine, sul quale sono meglio preparato e al quale l’interesse del
mio animo mi porta, è la storia {…}”
Lui dice di essere maggiormente portato per la storia - storia della letteratura, storia effettiva, storia
documentaria, storia a tutto campo come Croce la intende.
“{…} [la storia] che finora non è stata studiata, della nuova Italia nella 2.a metà del secolo XIX, specie dal
lato intellettuale, artistico e morale. {…}”
Non è altro che in germe tutto ciò che diventerà “La letteratura della Nuova Italia”, o comunque tutti gli
studi sia filosofici sia etici che riguarderanno la contemporaneità dell’Italia dal momento in cui in buona
sostanza è stata unificata. È un interesse ricorsivo nelle opere di Croce, sia a livello letterario - sia con i
prima quattro e poi sei volumi de “La letteratura della Nuova Italia” -, sia a livello filosofico ed etico
soprattutto.
{…} Non posso consacrarmi a un lavoro complessivo sul proposito, finché non abbia assoluto il compito
filosofico [...] ma neppure mi sembra opportuno di ritardare di troppo un simile lavoro, che risponde a un
bisogno del nostro tempo e può riuscire molto utile”
Croce è in buona sostanza frastornato: sa di dover lavorare sulla storia intellettuale, artistica, morale e
letteraria dell’Italia della seconda metà del secolo XIX, ma vede come più stretta urgenza quella di
concentrarsi sulla componente filosofica, ovvero quella del completamento della filosofia dello spirito.
Questo perché senza un’ossatura filosofica stabilita e ben determinata, tutta l’opera di analisi sia storica sia
letteraria verrebbe in buona sostanza a traballare.
Nel continuo del testo “Il Piano di studi” Croce individua anche un altro aspetto di estrema necessità per i
suoi studi, ovvero la necessità che egli sentiva di fondare una rivista che potesse fungere da volano per
quelle che erano le sue teorizzazioni dal lato più letterario e filosofico, e quelle di Giovanni Gentile da lato
strettamente filosofico. Questa rivista, che verrà fondata di lì a poco, sarà proprio “La Critica”, che dopo si
tramuterà ne “I quaderni della critica”, ed è una rivista che Croce si porterà avanti per pressocché tutto il
proseguo della sua vita. È una rivista che in buona sostanza scrisse quasi unicamente lui: nella prima fase
era coadiuvato da Giovanni Gentile, ma poi a causa di dissapori a livello filosofico e a livello biografico - tra
cui l’adesione di Gentile al Fascismo -, continuerà a portarla avanti da solo. Sarà proprio lo strumento
principale di diffusione in Italia della filosofia idealista e della critica letteraria crociana.
Il testo inoltre enuncia la prima «traccia» di quella che diverrà di lì a poco la rivista fondata con
Giovanni Gentile, «La Critica».
Continua quindi riportando una serie dei propri lavori già editi sui quali vorrebbe tornare per
spingere l’analisi già condotta ancora avanti.
La chiusura de “Il Piano di studi” è invece per molti aspetti interessante, perché se da un lato sembra
chiudere le fila del suo discorso riguardo la programmazione degli studi e delle opere da comporre, allo
stesso tempo ci dà delle informazioni particolarmente interessanti sulla sua biografia e su quello che era
l’atteggiamento di Benedetto Croce rispetto alla propria vita, e che si ricollega a quello che abbiamo detto
di Benedetto Croce in precedenza con il volersi presentare come “tutto intelletto”. Perché il volersi
presentare come “tutto intelletto” in Benedetto Croce viene a sposarsi anche con una tendenza biografica
effettiva nel concentrarsi unicamente su quella che è la sua produzione intellettuale e non su quelle che
sono le contingenze della vita quotidiana.
Sappiamo bene che Benedetto Croce non aveva bisogno di lavorare, era un ricco possidente e aveva fondi
più che bastevoli non solo per portare avanti la sua missione intellettuale, ma anche per finanziare opere
intellettuali, stampe, edizioni. Di conseguenza Croce si disinteressa totalmente del lato amministrativo ad
esempio dei suoi beni - delegandoli completamente al fratello -, ma si circondò sempre di persone che
condividessero in qualche modo il suo pensiero e riuscissero a coadiuvarlo nel suo lavoro. A livello familiare
la scelta della moglie ad esempio fu una scelta sia in parte di sentimento, ma anche quella di cercare una
compagna che gli permettesse di lavorare completamente assorto nei suoi studi, e di non doversi occupare
mai di incombenze di vita quotidiana.
La chiusura del testo sembra svincolarsi dall’ambito della stretta programmazione culturale per
addentrarsi in un vero e proprio programma di vita:
“Un così ampio programma di lavoro [=quello che ha designato fino a questo momento], che prenderà una
serie di anni oltre i quali sarebbe fatuità fare previsioni e disegni, mi costringe a concentrarmi quasi
esclusivamente nella vita degli studii, rinunziando ad altre forme di attività civile. {…}”
Croce, per portare a termine questo suo “Il Piano di studi”, non solo dovrà concentrarsi unicamente nella
vita degli studi, ma dovrà anche rinunciare ad altre forme di attività civile, quindi da ogni divertimento e da
ogni svago, ma anche e soprattutto allontanarsi da quella che è la ricerca, o comunque l’applicazione alla
politica. Questa per un lungo tratto di tempo sarà una caratteristica che Croce rispetterà, ma con l’avvento
del Fascismo e la sua elezione a Senatore, tutto ciò verrà a cadere, e dovrà barcamenarsi tra l’attività
politica stricto sensu - che lui avvertiva come un dovere civile - e quella di studioso.
“{…} Ciò farò con coscienza tranquilla, perché credo di poter riuscire socialmente meno inutile, lavorando al
compito cui mi sono preparato di lunga mano, anziché addossandomene un altro, pel quale dovrei fare una
nuova preparazione. {…}”
Egli crede che, anche disinteressandosi all’attività civile, riuscirà a risultare utile alla letteratura italiana,
perché non dovrà impegnarsi in un campo come quello della politica nel quale non si sente preparato e per
il quale dovrebbe spendere tempo nella preparazione.
“{…} Del resto, la mia qualsiasi produzione letteraria non sarà mossa dalla vanità, ma dalla buona
intenzione di contribuire all'elevamento delle coscienze.”
Croce non vuole scrivere per vanità letteraria, per semplice lusus - divertimento -, ma con la buona
intenzione di continuare a contribuire in qualche modo all’elevamento civile delle conoscenze, mostrando
una via di applicazione e una via di interesse.
21° Lezione del corso di Critica Letteraria Italiana - “Croce autobiografico (2)”.
Abbiamo già visto come il “Contributo alla critica di me stesso” non nasca dal nulla, ma abbia una serie di
testi che lo precedono - abbiamo analizzato il “Curriculum vitae” e “Il Piano di studi”. Adesso ci spostiamo
leggermente avanti per analizzare altre opere.
Dopo l’analisi dei due testi della precedente lezione sarà il caso di parlare di altri quattro testi in realtà, ma
noi ci concentreremo su due di questi in particolare. Nel 1906 Croce inizia un’operazione che lo
accompagnerà fino al dicembre del 1949 - ovvero a pochissimi anni dalla sua data di morte. Inizia a redigere
i “Taccuini di lavoro”, dei quali adesso andremo a parlare. Ma prima di passare a parlare dei “Taccuini di
lavoro” andiamo a parlare brevemente di altre due opere che non analizzeremo. Difatti “Il Piano di studi”,
che abbiamo già analizzato, nel 1907 subirà una revisione e una nuova scrittura - siamo di fronte al “Nuovo
piano di studi”, al quale Croce nel 1912 farà una nuova aggiunta. Passa il tempo, ma Croce sente sempre il
bisogno di riprogrammare e revisionare effettivamente ciò che ha fatto, e ritracciare il proprio futuro, come
a tracciare una linea di sviluppo dalla quale lui effettivamente non possa più uscire. Mettendo su carta il suo
impegno a scrivere determinate opere si sente in buona sostanza vincolato a svilupparle.
Successivamente ai primi due testi, è necessario evidenziare l’importanza di altri due lavori che
continuano la tendenza naturale dell’animo di Croce verso ricapitolazioni e auto-analisi:
1906 -> Inizia a redigere i Taccuini di lavoro (ex. Dic. 1949)
1907 -> Nuovo piano di studi
1912 -> Aggiunta «dopo dieci anni» al primo Piano di studi
1915 -> Dalle memorie di un critico
Ma cerchiamo di capire che cosa sono questi “Taccuini di lavoro”. “Dalle memorie di un critico” ci
occuperemo successivamente. Aprendo i volumi dei “Taccuini di lavoro” si ha l’impressione di trovarsi di
fronte a un’opera diaristica, perché si tratta di una compilazione giorno per giorno, o a blocchi di più giorni
-- ma di solito la compilazione è quotidiana, tranne in rari casi in cui Croce fa dei consuntivi di periodi o di
giornate particolarmente dense che vengono raggruppate insieme. Eppure già il parlare di opera diaristica è
piuttosto difficile, perché è un diario sui generis, non troviamo in quest’opera - o meglio, in questa
compilazione - dei particolari di vita vissuta, troviamo semplicemente degli appunti di quelli che sono i suoi
lavori. Sono quindi un’opera di diaristica intellettuale, intellettuale e di lavoro soprattutto, quindi appunto
per questo “Taccuini di lavoro”.
Qual è la motivazione che spinge Croce a comporre e a redigere quest’opera di così lungo respiro - dal 1906
al 1949 abbiamo più di quarant’anni di compilazione quotidiana di questo diario? Il motivo viene esplicato
da Croce stesso in una nota all’interno del diario, e lui in maniera molto lapidaria dice di scrivere questo
diario quotidiano - che è un’operazione tra l’altro che lui reputa faticosissima non tanto nella sua scrittura
immediata, quanto nella sua copiatura - “per invigilare me stesso”. Come se lo stendere un diario dove
riporta tutto quello che ha fatto dal punto di vista intellettuale a livello della giornata sa un modo di
“sorvegliare sé stesso”, quindi proprio di sorvegliarsi e di evitare che il suo tempo possa disperdersi, e
soprattutto di evitare a sé stesso di guardarsi indietro e di pensare di non aver prodotto abbastanza. Questa
sarà un’ossessione quotidiana di Croce. Croce è una personalità molto complessa, tra l’altro i “Taccuini di
lavoro” e le opere storiografiche ci attestano delle cicliche depressioni e delle cicliche fasi di scoramento da
quella che è la propria missione, e i “Taccuini di lavoro” sono un modo proprio per combattere questa
tendenza del suo animo. Quindi lui, appuntando ciò che effettivamente faceva a livello intellettuale di
produzione giorno per giorno, riesce ad evitare di poter dare un giudizio negativo sulla sua parabola di
studioso e di letterato.
Opera diaristica?
Motivo della scrittura: “Per invigilare me stesso”.
Il problema della doppia redazione
Abbiamo un problema per quanto riguarda i “Taccuini di lavoro”: noi ne leggiamo a stampa una redazione -
che è la seconda redazione, una redazione più tarda. Ovvero Croce giorno per giorno andava a scrivere su
piccoli diari o piccole agende le annotazioni relative ai singoli giorni. Successivamente - e di solito ogni
anno, o ogni sei mesi - passava a copiare queste note in un manoscritto di bella copia, che allo stato attuale
è composto da sei manoscritti relegati in pergamena di ampio formato.
Questa operazione di ricopiare ‘in pulito’ - in bella copia - la faceva per due motivi. Innanzitutto la
problematica della sua grafia: Croce era ben cosciente che chiunque si fosse accostato successivamente a
lui, ai suoi diari, avrebbe avuto dei serissimi problemi di lettura. Nell’opera di Nicolini su Benedetto Croce
c’è modo di vedere alcune riproduzioni degli scritti crociani, e presentano una grafia veramente tormentata
e di difficile comprensione. Questo è vero per gli scritti in bella copia, figurarsi per gli scritti in brutta copia o
per quelli scritti di getto come questi “Taccuini di lavoro”. Difatti allo stato attuale possediamo solo
l’edizione della seconda redazione ‘in pulito’, non possiamo un’edizione critica della prima redazione.
Questi piccoli quadernetti di formato disuguale rimangono quindi ancora oggi inediti.
Ma se si tratta semplicemente di una copiatura ‘in pulito’, non ci saranno differenze tra le due redazioni.
Invece è un problema molto serio, perché Croce non esegue una copia meccanica - non copia parola per
parola quello che aveva scritto nei suoi taccuini -, ma al contrario rielabora alcune parti, e vedremo in che
modo li rielabora.
Innanzitutto sarà il caso di interrogarci su quale fosse la destinazione di questi “Taccuini di lavoro”. Per
adesso abbiamo visto come Croce si accinga alla stesura di questo diario sulla base di motivazioni piuttosto
personali, ovvero per “vigilare me stesso”. Ma è sempre vero? In realtà no, perché Croce era ben cosciente
che la sua opera, le sue opere e il suo pensiero comunque avrebbero avuto ripercussioni nel futuro, e
studiosi o comunque intellettuali sarebbero tornati a interessarsi delle sue opere anche una volta che lui
era morto - come effettivamente sta succedendo. Di conseguenza questi “Taccuini di lavoro” assumono una
doppia funzione: da un lato una strettamente personale, e dall’altro una funzione pubblica. E proprio qui
dobbiamo cercare di ragionare sulla doppia redazione dei “Taccuini di lavoro”. Se è indubbio che la prima
redazione è quella di getto su questi quadernetti di dimensioni disuguali rispondesse a un’esigenza
strettamente personale, al contrario quella che è la bella copia rispondeva anche ad una funzione pubblica.
Croce nella prima pagina di questi manoscritti in bella copia scrive proprio di lasciare questi manoscritti - lui
parla di essersi “sottoposto allo stillicidio” della copiatura in pulito di questi testi - per permettere sia alle
sue figlie sia ai posteri di poter fruire di questo suo diario intellettuale e di questa cronologia delle sue
opere. Di conseguenza Croce era ben cosciente che qualcuno prima o poi sarebbe andato a vedere questi
manoscritti, e lui individuava proprio nel manoscritto di bella copia la versione “pubblica” di questo diario.
Cerchiamo di capire in che modo questa operazione di copiatura venga a modificare in qualche modo il
testo dei “Taccuini di lavoro”. Non troviamo infatti all’interno dei “Taccuini di lavoro” pressocché mai
accenni ad eventi personali, li troviamo solamente quando questi eventi personali sono strettamente
collegati alla sua operosità - ovvero una malattia che ha inficiato la sua capacità di lavorare durante la
giornata. Solo in questo caso gli eventi personali rientrano all’interno dei “Taccuini di lavoro”, in altri casi
vengono sistematicamente epurati nel momento in cui Croce trascrive il testo dalla prima redazione alla
seconda.
Il 25 settembre 1913, moriva, dopo una breve e violenta malattia, Angelina Zampanelli, una signora
romagnola con la quale Croce aveva vissuto more uxorio per quasi vent’anni.
Nella prima redazione dei “Taccuini di lavoro” Croce appunta e segnala tutte quelle che sono le diverse
tappe della malattia di Angelina. Ad esempio il 2 settembre scrive: “nel pomeriggio, Angelina si è sentita di
nuovo male, con febbre, e, chiamato il medico, si è constatata una broncopolmonite. Non ho più potuto
fermare il pensiero su altre cose che non sia questa malattia così grave, così paurosa per le conseguenze,
che sconvolgono tutto il mio essere a solo immaginarle.”. Croce è particolarmente preoccupato, perché la
morte eventuale o comunque l’aggravarsi di questa malattia sconvolgerebbe tutto il suo essere e anche
tutto il suo agire, il suo sistema di vita.
Ancora il 1° ottobre - a morte avvenuta - Croce torna a Napoli - perché era in viaggio a Raiano, città
dell’Abruzzo, dove stava villeggiando con Angelina - e appunta sulla prima redazione dei suoi “Taccuini di
lavoro”: “Tristezza di dover rivedere carte e oggetti, in cui si chiude il ricordo di vent’anni di mia vita,
spezzati in questo punto. Ho cominciato a riordinare la casa dove sono rimasto solo.”. È una notazione
particolarmente forte, sentita, il periodo è completamente fratto in frasi brevi, quasi aforismi, molto forti, e
Croce dice che la sua vita dopo vent’anni è stata spezzata in questo punto, è un’affermazione molto forte.
Eppure nel momento in cui Croce passerà a trascrivere questi diari in bella copia, cancellerà
completamente tutta quella che è la parabola della malattia e della morte di Angelina, proprio perché non
voleva che i posteri, che le figlie avessero una contezza precisa di quello che è stato il suo dolore, un dolore
personalissimo, e di conseguenza anche di questo evento in particolare.
E difatti nella seconda redazione rimane solo questa annotazione che è piuttosto scarna e assolutamente
non indicativa di quello che è stato il dramma vissuto da Croce: “Sono stati giorni assai tristi. Tuttavia, nei
ritaglia a Raiano, ho corretto bozze della trad. del Jacobi; ho portato innanzi l’edizione di Erasmo, scrivendo
anche una nota su Erasmo in Italia [...]. Al 30 settembre sono tornato a Napoli e ho dato riassetto alla
casa.”. Non c’è nulla del dramma, dice semplicemente che sono stati giorni “assai tristi”, dove però allo
stesso tempo è riuscito a lavorare. Quindi Croce continua questa operazione di voler presentare sé stesso
come tutto pensiero e tutto scrittura.
Passiamo adesso ad analizzare l’ultima opera di questa lezione, ovvero il “Dalle memorie di un critico”. Si
tratta di uno scritto che Croce compose nel 1915 e che venne pubblicato a puntate sulla rivista “La Critica”
tra il 1915 e il 1917. Si tratta di cinque capitoli dedicati all’importanza che i propri scritti riguardanti “La
letteratura della nuova Italia” ebbero sul dibattito diretto con gli scrittori che lui stesso aveva pubblicato. In
buona sostanza vuole ripercorre quella che è stata l’accoglienza dei propri scritti critici da parte degli autori
criticati. Si tratta di un’opera effettivamente memorialistica, perché sono le memorie di un critico. Lui scrive
questa narrazione intessendo dei commenti - o comunque una narrazione personale - inserendo
direttamente le lettere ricevute dagli autori.
Questo scritto ha una funzione anche polemica oltre che memorialistica, ma ci interessa comunque perché
è uno dei primi tentativi nei quali Croce organicamente cerca di presentare al pubblico quella che è la
parabola dei propri scritti, non solo tessendone la cronistoria, ma anche soprattutto testimoniandone
l’accoglienza da parte degli autori stessi criticati, e quindi da chi effettivamente meglio poteva comprendere
la funzione dei propri scritti. Nella maggioranza dei casi è un confronto particolarmente istruttivo tra Croce
e gli autori criticati, perché appunto la maggior parte degli autori compresi in questa trattazione ebbero
parole di stima verso Benedetto Croce e testificarono all’autore di questi saggi l’aver compreso
effettivamente qual era l’animo e la motivazione che spingeva gli scrittori stessi alla scrittura.
Ora si rendono necessarie delle informazioni di base per inquadrare il “Contributo alla critica di me stesso”.
Il “Contributo alla critica di me stesso” nasce nel 1915, anche se verrà pubblicato solo successivamente - a
distanza di tre anni, nel 1918 - con alcune modifiche rispetto alla prima stesura, e soprattutto venne
pubblicato non in forma pubblica, ma in forma privata. Croce commissionò la prima edizione, la pagò
integralmente di sua borsa, e la distribuì ad alcuni amici e ammiratori, ma non andò mai - fino a questo
periodo - in libreria, bisognerà aspettare molti anni effettivamente prima che il “Contributo alla critica di
me stesso” verrà compreso all’interno di una silloge di opere crociane - ovvero all’interno di una raccolta di
opere crociane -, per cui divenne pubblico.
Scritto nel 1915 e pubblicato a puntata su “La Critica” (1915, 1916, 1917).
Cercava di rappresentare quale fosse stata la reazione al proprio metodo critico da parte dei diretti
interessati.
Il tutto veniva svolto non tramite uno scritto organico, ma tramite la riproposizione delle lettere
ricevute dagli autori studiati, inserite in una cornice narrativa.
Questo materiale si opponeva in maniera piuttosto evidente a quei critici che “rivaleggiando o
aristarcheggiando, non riuscivano a far meglio” (Contributo).
Nella slide 19 sono riportati alcuni estratti dai “Taccuini di lavoro” relativi al 1915. Questo sia per far meglio
comprendere come funzionano questi “Taccuini di lavoro”, sia per far vedere come effettivamente nasca il
“Contributo alla critica di me stesso”, e testificare anche quello che è il metodo di lavoro di Croce. Croce è
uno scrittore fulmineo: una volta che ha un’idea, la porta a termine velocissimamente. La scrittura di opere
anche molto importati o comunque di saggi di particolare importanza non si protrae quasi mai per più di
4/5 giorni con una fase successiva di revisione e correzione delle bozze.
Iniziamo a leggere:
4 Aprile. Pasqua. Terminata correzione delle bozze del De Sanctis. Riveduta altra parte della copia
dei Teatri e messivi note. Solita conversazione.
Non vi è pressocché nulla di personale se non il fatto che era Pasqua e che vi è stata la solita conversazione.
5 Aprile. Sbrigate bozze e correzioni varie. Molte noie di visite, ecc. Ho scritto qualche postilla per la
Critica, e ho cominciato la sera ad abbozzare una specie di autobiografia intellettuale, col titolo:
Contributo alla critica di me stesso.
Una costante dei “Taccuini di lavoro” sono le visite che lui riceveva a casa, viste come delle noie perché lo
distolgono dall’applicazione, dallo studio, dalla scrittura e di conseguenza sono una seccatura. Ha scritto
qualche nota da inserire ne “La Critica”.
Contestualmente il 9 aprile del 1915 Croce scrive ad Alessandro Casati, un suo carissimo amico di Milano:
“Ho scritto in questi giorni un saggio autobiografico. Ma non è cosa da stampare, per lo meno non è da
stampare ora.” (ad Alessandro Casati, 9 aprile 1915).
Un’opera di così grande levatura letteraria viene scritta da Croce in quattro giorni. È una scrittura fulminea,
immediata, che Croce passerà solo successivamente a rivedere. Ma è interessante effettivamente vedere
come Croce - benché abbia scritto questo saggio autobiografico - crede che sia un’opera da non stampare
immediatamente, ma che verrà appunto stampata o comunque divulgata successivamente.
Altra testimonianza importante è una lettera scritta da Croce e indirizzata a Giovanni Gentile di qualche
mese successiva, il 22 giugno 1915:
“Mi ha giovato anche questo ritiro in solitudine, perché mi sono raccolto nella meditazione di ciò che ci
convenga fare durante questa guerra, che si presenta lunga e che apre a un’epoca di rivolgimenti di ogni
sorta. E poiché mi pare che poco si possa fare nell’opera civile, e quel poco non può riempire la lunga attesa,
ho stabilito per mia parte di continuare alacremente gli studii, come se guerra non ci fosse. Quest’anno ho
riscritto da capo molti lavori miei giovanili; e queste e altre faccende simili, che menano a una compiuta
liquidazione del passato, a un assetto dato alle cose mie tamquam moriturus [= “come se fossi sul punto
di morire”], mi terranno ancora occupato sino ad ottobre [...]. Vuoi ridere? Ho perfino scritto un mio
fascicoletto di memorie, col titolo filosofico di Contributo alla critica di me stesso!”.
Questo 1915 quindi, anche successivamente, è in sostanza dedicato da Croce a quella che è una tendenza
chiara alla meditazione, una spinta ancor maggiore - date le incombenze belliche - a una sistemazione a
tutto ciò che è già stato fatto da lui, e a una rivisitazione di tutto il suo passato, sia a livello memorialistico
ma anche a livello di memorie precedentemente scritte. Come se si sentisse “tamquam moriturus”, come
se si sentisse sul punto di morire di lì a poco.
Cerchiamo di riassumere in breve quelle che sono le tappe della nascita del “Contributo alla critica di me
stesso”. Viene scritto nel 1915, ma la prima edizione - fuori commercio - arriverà solamente nel 1918. Nel
“Contributo alla critica di me stesso” che leggiamo nell’edizione Adelphi compaiono anche tre aggiunte, che
sono relative agli anni 1934, 1941, 1950. Sono come delle sorte di brevi aggiornamenti che a distanza di
brevissimo tempo Croce aggiunge alla sua opera. In base anche alla lettera letta prima a Giovanni Gentile,
perché Croce arriva alla stesura del “Contributo alla critica di me stesso” proprio nel 1915? Innanzitutto il
1915 rappresenta per Croce una cesura a livello biografico: Croce era prossimo ai cinquant’anni, cosa che
era visto come uno spartiacque per la più grande maturità della persona. Di conseguenza voleva in buona
sostanza liquidare quello che era il suo passato e fare un’analisi di tutto ciò che aveva fatto. Ancora una
volta Croce vuole analizzare il suo percorso biografico e intellettuale, e lo fa condensando quelli che erano
stati tutti gli scritti precedenti proprio nel “Contributo alla critica di me stesso”.
Inoltre il 1915 è una cesura anche a livello storico con la Prima Guerra Mondiale. Ma è anche una cesura a
livello degli studi. Infatti nel 1915 Croce aveva concluso quello che era il corpus della “Filosofia dello spirito”,
che abbiamo visto essere un percorso iniziato nel 1902 e attestato proprio dal suo “Curriculum vitae”.
Difatti nel 1915 Croce pubblica - per la prima volta in traduzione tedesca - l’opera “Teoria e storia della
storiografia”, che è proprio l’opera conclusiva del suo corpus della “Filosofia dello spirito”. Inoltre tra il 1914
e il 1915 Croce aveva pubblicato i primi quattro volumi de “La letteratura della nuova Italia”, che in buona
sostanza era la prima opera organica sulla letteratura italiana nel periodo compreso tra la contemporaneità
- il 1915 - e il 1870 - quindi con l’Unità d’Italia. Croce quindi individuava in questo 1915 un vero e proprio
spartiacque a livello della propria biografia. E inoltre il 1915 è anche un anno particolarmente florido sul
campo autobiografico, perché Croce scrisse anche il “Dalle memorie di un critico”, che è comunque uno
scritto autobiografico.
Struttura dell’opera:
Quattro capitoli
- Ciò che non si troverà e ciò che si troverà in queste pagine
- Casi della vita e vita interiore
- Svolgimento intellettuale
- Sguardo intorno e innanzi a me
Tre aggiunte
- Aggiunta prima (1934)
- Aggiunta seconda (1941)
- Aggiunta terza (1950)
Libro Mario Cimini - studio attento delle parti introduttive + riassunto attento dei testi.
3 domande all’esame, di cui una riguarda il manuale (può partire dal discorso generale, e ricongiungere ad
argomenti del manuale). Potrebbe partire anche da un testo specifico (GUARDARE BENE I TESTI!!).
Biografia Nicolini.
Domande incentrate su un capitolo, o un ben determinato periodo della vita di Croce. Se si mettono in
gioco delle date, ben venga, ma non è una cosa su cui ci si sofferma in maniera particolare.
Integrazione delle varie letture crociane in un’unica esposizione, cercando di far combaciare i pezzi del
puzzle.
Piccolo volume, 100 pagine. Autobiografia intellettuale. Attenzione ai rimandi ipertestuali! Domande di
diversa tipologia: riportare l’argomento di un determinato capitolo dell’opera, o ripercorrere alcuni
momenti del percorso di Benedetto Croce.
Pubblicazione vademecum per la prenotazione all’esame. L’iscrizione all’appello si chiude tre giorni prima
dell’esame, e non 48 ore prima come al solito. Commissione d’esame composta da almeno due membri, gli
esami saranno spalmati in più giornate. In caso di mancata comprensione, è possibile richiedere un
incontro online con il prof.
Utilizzare la cronologia della lezione per capire dove andare a cercare nel libro di Nicolini.
De Sanctis filosofo asistematico, Croce più studiato nella filosofia che nella critica.
Cosa fare:
Rilettura del “Contributo alla critica di me stesso” + confronto con la biografia di Nicolini.