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IL BAROCCO

Il Barocco è un movimento estetico, ideologico e culturale che è sorto in Italia verso


la fine del XVI secolo per poi estendersi in tutta Europa. Secondo alcuni studiosi il
termine deriva dal portoghese barroco, che indica una perla irregolare, non sferica;
secondo altri l’origine della parola deriva dal termine usato dagli Scolastici per
indicare un tipo di procedimento logico che nasconde una sottile debolezza interna.
Tale termine iniziò ad essere riferito all’arte del ‘600 solo un secolo più tardi e con
evidente intento polemico, per evidenziare il suo amore per la bizzarria e
l’irregolarità. L’età barocca scopre nel disegno della natura l’anomalia, l’eccezione, e
su di essa concentra la propria attenzione. In questo contesto, l’intero sistema
conoscitivo entra in crisi e attraverso la riflessione e la sperimentazione si cercano
nuove basi per nuove certezze. Fondamentali per il Barocco sono il senso della vista
(legato alla consapevolezza che ogni cosa appare diversa da quello che è) e la ricerca
delle corrispondenze nascoste (che si realizza attraverso la metafora e l’allegoria).
La questione della lingua: nel 500 il dibattito sulla lingua aveva visto prevalere la tesi
di Pietro Bembo che indicava in Petrarca e Boccaccio i modelli letterari da imitare.
Tuttavia, a seguito della presenza di vari stati regionali, della perdita di importanza
politica di Firenze e del rafforzamento del latino da parte della Chiesa, l’unificazione
della lingua letteraria viene ostacolata. In questa situazione di frammentazione il
‘600 reagì dando origine da un lato al purismo, cioè alla difesa della tradizione
linguistica, dall’altro alle letterature dialettali, che ebbero come centri più attivi:
Milano, Bologna, Venezia e Napoli.
Il Barocco letterario, che segue al Manierismo, nasce e si definisce come volontaria
rottura con gli ideali di equilibrio e composizione sanciti dal canone classicista
rinascimentale: la crisi delle certezze umanistiche e l’emergere di una sensibilità che
guarda al mondo con sempre maggiore meraviglia spingono gli autori a liberarsi
delle regole del secolo precedente. I maggiori esponenti della poesia barocca furono
Alessandro Tassoni, che rivendica al poeta il compito di innovare i modelli classici
per adeguarli alle esigenze di maggiore libertà espressiva; e Giovan Battista Marino,
che pratica la rottura delle regole come un esercizio sperimentale. Marino giustifica
le sue scelte attraverso la “svogliatura” del secolo, cioè la stanchezza del gusto
causata dalla ripetitività delle convenzioni, che allontana i lettori dai testi tradizionali
e li avvicina ad opere più ardite. Il fine del poeta è quello di meravigliare e viene
raggiunto anche attraverso l’uso della metafora, con cui gli scrittori stimolano il
lettore al ragionamento sottile e acuto, facendogli “inarcar le ciglia” (tale immagine
esprime l’emozione provata nel cogliere messaggi impliciti e nascosti).
L’opera di Marino, contraddistinta dalla tensione all’innovazione, gli garantì un
ampio successo, tanto che il termine “Marinista” in Italia diventò sinonimo di
Barocco. La spinta innovativa di Marino emerge soprattutto nella poesia d’amore,
dove le donne non sono più rappresentate con pochi tratti stereotipati, ma viene
celebrata una vasta gamma di raffigurazioni femminili di cui si evidenziano
particolari inconsueti, ad esempio la vecchia zoppa, la cieca, la sorda; e queste
donne sono colte in gesti banali (pettinarsi, remare, innaffiare) che erano
tradizionalmente esclusi dal carattere alto del genere. Gli oggetti legati alla donna
(pettini, ventagli) diventano particolari preziosi su cui il poeta si sofferma per
trasformarli, attraverso la metafora, in elementi del mondo naturale.
La poesia classicista: in contemporanea alla corrente marinista si sviluppa una
produzione apertamente antimarinista in cui gli autori si riallacciano all’esperienza
dei classici, riaffermando l’autorità dei modelli del passato e individuando in essi i
modelli formali a cui il poeta doveva subordinarsi. Tuttavia, anche questi autori, tra
cui si distinse Gabriello Chiabrera, risultavano condizionati da elementi propri del
barocco, come la tendenza all’effetto. Il classicismo dell’epoca barocca può essere
considerato una “classicità modernizzata”, in cui gli autori, pur utilizzando
accostamenti metaforici moderati, si dirigono verso la varietà e la novità e utilizzano
il piacere come elemento preponderante. La poesia classicista, quindi, rappresenta
più una variante dell’esperienza barocca che una realtà opposta a questa: è la sua
alternativa moderata e acquista più peso man mano che la poesia marinista perde il
suo potere di attrazione.
L’esperienza isolata di Tommaso Campanella
Nell’ambito barocco rientra anche la poesia oscura di Tommaso Campanella. Anche
lui come Giordano Bruno si formò presso l’ordine domenicano e prese a farne parte.
A Napoli pubblicò l’opera Philosophia sensibus demonstrata a seguito della quale fu
sottoposto a un processo per eresia che terminò con la condanna e l’abiura. L’animo
di Campanella era scosso da progetti riformatori, ambiva infatti alla costruzione di
un mondo nuovo, in cui realizzare un cristianesimo radicale, capace di superare ogni
egoismo. Tali ambizioni le ritroviamo nell’opera La Città del Sole, che contiene una
visione utopica della società. Il potere spirituale e temporale è detenuto da un
principe sacerdote, chiamato Sole. La città è a forma circolare, è situata su un colle
ed è costituita da sette mura che prendono il nome dei sette pianeti. Ad essa si può
accedete solo attraverso quattro porte situate in corrispondenza dei quattro punti
cardinali. Gli abitanti lavorano per sole 4 ore al giorno sia in modo intellettuale che
pratico, il resto del tempo viene impiegato in attività creative che hanno come fine il
sapere.
Giovan Battista Marino
Giovan Battista Marino è il maggior rappresentante della letteratura barocca, nasce
a Napoli nel 1569. Suo padre era un uomo di legge e avviò il figlio agli studi giuridici
ma Giovan Battista non li portò a termine. Si inserì fin da giovane negli ambienti dei
nobili letterati, che guardavano a Tasso come massimo modello di poesia
contemporanea. Durante la giovinezza finì due volte in carcere e ne uscì grazie alla
protezione di potenti signori. Fuggì a Roma nel 1600 ed entrò al servizio del
cardinale Pietro Aldobrandini (nipote di Clemente VIII) partecipando alla vita
culturale romana.
Nel 1602 Marino compie un viaggio a Venezia e qui vengono pubblicate a Venezia le
Rime, opera ricca di richiami alla tradizione classica, con una particolare
predilezione per l'Ovidio amoroso, e alla tradizione stilnovista.
Nel 1605 seguì il padrone a Ravenna e nel 1608 a Torino, dove rimase affascinato
dalla corte del duca Carlo Emanuele I e vi compose un poemetto in sestine, con il
quale attirò l’ostilità di Murtola, segretario del re, che cercò di mettere in cattiva
luce il nuovo protetto del duca scrivendo la “Marineide” a cui Marino rispose con la
“Murtoleide”.
Nel 1615 Marino passò alla corte di Francia, chiamato da Maria de’ Medici (vedova
di Enrico IV), qui grazie allo stipendio cortigiano visse una vita ricca e fastosa.
Proprio nell’ambiente parigino compose il vastissimo poema L’Adone, pubblicato nel
1623 e dedicato al re di Francia Luigi XIII.
Negli ultimi anni di vita ritornò a Napoli, dove, amareggiato per le critiche rivolte
all’Adone, morì nel 1625.
Nel frattempo, nel 1614, Marino aveva ampliato con una terza parte (La Lira) l’opera
iniziata a Venezia nel 1602 e intitolata Le Rime.
Prima parte: comprende rime amorose, eroiche, lugubri, morali, sacre e varie.
Seconda parte: comprende madrigali, canzoni e canzonette e 2 serie di stanze. Il
madrigale è ormai la forma prevalente della poesia con crescente successo fin dal
Tasso.
Terza parte: esce nel 1614, intitolata La Lira comprende 408 nuovi componimenti
con prevalenza di sonetti e madrigale.
Poetica: Marino percorse i gradi della sua carriera poetica e cortigiana con una
straordinaria rapidità, passando dall’essere un poeta provinciale quasi sconosciuto
all’essere l’esponente più ammirato, e anche criticato, della nuova generazione
poetica. Raggiunse i suoi obiettivi stringendo relazioni con i maggiori esponenti della
letteratura e con i potenti protettori, e mantenendo su di sé l’attenzione dell’intero
mondo letterario attraverso una serie di polemiche e scandali. Tuttavia, il merito
principale di Marino fu quello di fare proprie tutte le spinte innovative che si
esprimevano nello sperimentalismo del tempo.
Marino nelle sue opere canta il mondo del lusso e della lussuria, una civiltà che trova
la sua massima affermazione nel godimento del piacere. La chiesa colse il carattere
materialistico della poesia di Marino e ostacolò la pubblicazione della sua opera
maggiore: L’Adone, che l’autore contrapponeva consapevolmente al capolavoro
della cristianità: La Gerusalemme Liberata. Nel 1626 L’Adone fu definitivamente
condannato dall’autorità ecclesiastica e incluso nell’indice dei libri proibiti.
Molto interessante in Marino è anche la sua tecnica della variazione: egli non utilizza
il processo di imitazione dei modelli, volto a riprodurre i valori di cui essi sono
portatori, ma un processo di variazione ingegnosa, che riprende tutto il materiale
letterario disponibile per inglobarlo in una nuova opera. Per comprendere questo
meccanismo ci basiamo su una dichiarazione che l’autore rilascia in una lettera del
1620 all’amico Achillini, in un momento in cui gli avversari gli contestavano
polemicamente la sua abitudine al “plagio”, cioè ad appropriarsi di versi altrui.
Marino spiegò che ha imparato a leggere con “il rampino” cioè con un gancio,
tirando a sé ciò che notava di buono, inserendolo nel suo zibaldone, quindi nella sua
raccolta di appunti, e servendosene a suo tempo.
Da tale affermazione emerge la spregiudicatezza con cui l’autore rivendica a se
stesso la piena libertà di manovra e, allo stesso tempo, il carattere letterario della
creazione poetica, che attinge alla produzione letteraria del passato più che dalla
realtà.

L’ADONE
L'Adone è un poema di Giovan Battista Marino, pubblicato per la prima volta a Parigi
nel 1623 presso Oliviero di Varennes. L'opera descrive le vicende amorose di Adone
e Venere e costituisce uno dei poemi più lunghi della letteratura italiana (5.124
ottave, per un totale di 40.992 versi).
Dedicato a Luigi XIII, re di Francia, esso è composto da venti canti ed è preceduto da
una lettera indirizzata alla regina Maria de' Medici, fiorentina, perché interceda
presso il giovane re.
La lettera è preceduta a sua volta da una prefazione del critico francese Jean
Chapelain, in cui il poema, che era del tutto fuori da ogni canone rinascimentale,
viene giustificato come poema della pace, epico ma non eroico.
Ogni canto è preceduto dagli Argomenti in prosa, composti da Fortuniano Sanvitale,
e da Allegorie attribuite a don Lorenzo Scoto e che dovrebbero spiegare il significato
morale del testo (il cui insegnamento, come detto nel proemio, è: smoderato piacer
termina in doglia). Ogni singolo canto è fornito di un titolo e di un proemio di sei
ottave. Il proemio del primo canto è di dodici ottave.
Trama: Adone non è un eroe epico, ma piuttosto una creatura dedita a godimento
delle sensazioni temporanee e passeggere e la storia non tratta di eventi bellici,
come invece accadeva nella tradizione omerica.
La trama riguarda la favola mitologica di Adone e Venere: Venere si innamora del
bellissimo Adone, ma tale sentimento induce la gelosia del dio Marte, che lo fa
assalire da un cinghiale provocandone ferite mortali. L'esilità della storia costituisce
solo un pretesto: si pensi infatti che il poeta latino Ovidio la racconta in poco più di
settanta versi, mentre l'Adone è il poema più ampio della letteratura italiana.
Lo scopo di Marino è di costruire una sorta di enciclopedia di tutto ciò che è
conosciuto, rappresentando l'intero Cosmo attraverso la parola nel suo continuo
movimento. Sono presenti tutta una serie di narrazioni secondarie e parallele, che
confluiscono in ampie digressioni; esse sono talmente lunghe che finiscono per far
perdere il filo logico della narrazione e comportano “l’estinzione del racconto”. Il
critico letterario Giovanni Pozzi ipotizzò una struttura bifocale, riconducibile alla
figura geometrica dell'ellisse, che porterebbe il lettore ad una duplice azione: la
prima lineare, in progressione, e la seconda costituita da continue anticipazioni del
futuro e flashback nel passato.
Unico elemento di coesione del testo è costituito dal narratore, che è poi l'autore
stesso, il quale descrive ed evoca una realtà ricca e preziosa, in cui l'appagamento
dei sensi è la sola cosa importante. È stato anche detto che il vero protagonista
dell'opera è il linguaggio, ricco di metafore e suggestioni.
Il Romanzo
Mentre la poesia barocca trasforma le immagini dell’esistenza quotidiana in
qualcosa di artificiale e prezioso, la prosa del tempo sembra voler aderire alla vita
concreta degli uomini, agli avvenimenti storici e politici. Questo desiderio di
rappresentare la contemporaneità si traduce in forme narrative in grado di mostrare
cosa accada sulla scena del mondo. Nel corso del 1600 si diffonde in modo
particolare il romanzo di prosa, ambientato in mondi ideali, fantastici, esotici, o in
ambienti contemporanei, ben noti e riconoscibili. A prescindere dalla collocazione,
esso riproduce aspetti, caratteri, modelli di vita del mondo contemporaneo e, allo
stesso tempo, rende possibile un miscuglio di motivi diversi (morali, filosofici,
avventurosi, religiosi, politici, comici).
Il romanzo diviene un genere internazionale e dalla fisionomia moderna, nato però
dalla trasformazione di generi già presenti nella letteratura italiana tra ‘400 e ‘500:
in particolare del poema cavalleresco, che si indicava proprio con il termine
romanzo. Infatti, i più grandi esempi del nuovo romanzo in prosa nascono dalla
parodia della letteratura seria e dal declino del poema cavalleresco e dei suoi ideali.
Proprio dal contrasto tra gli ideali eroici della cavalleria e l’ambigua e contradditoria
realtà contemporanea, nasce in Spagna uno dei più grandi romanzi della letteratura
occidentale: il Don Chisciotte di Cervantes.
Mentre da uno stravolgimento della letteratura cavalleresca si sviluppa, soprattutto
in Spagna, il romanzo picaresco, che presenta il mondo del vagabondaggio e della
furfanteria.
Tuttavia, il pubblico nobiliare amava soprattutto i romanzi che trattavano l’amore tra
nobili giovani, di ambientazione pastorale e caratterizzati da vicende complicate per
terminare poi con il lieto fine  questo genere si ricollegava ai romanzi greci dei
secoli II e III d.C., che furono molto amati nella seconda metà del ‘500. I protagonisti
di questi romanzi idealizzavano i modi di vita e le forme di comunicazione della
nobiltà contemporanea, trasformandoli in qualcosa di eccezionale.
In Italia il romanzo in prosa fiorisce tra il 1620 e il 1670 con testi la cui lettura sembra
quasi sempre arida, ma che rappresentano un importante documento dei gusti del
tempo. I caratteri dei romanzi sono vari e diversi: ci sono i romanzi d’avventura con
intrecci particolarmente tortuosi, romanzi con vicende piuttosto statiche
sovrapposte a tentativi di sottile analisi psicologica, romanzi con intenti morali, di
devozione o di polemica  spesso questi caratteri si mescolano nella stessa opera
rendendo difficili delle nette classificazioni.
La produzione romanzesca italiana si sviluppò soprattutto a Venezia, tra gli anni 20 e
gli anni 50 del 600 (dove si impose il romanzo libertino, dovuto ad autori legati
all’Accademia degli Incogniti), e tra il 1640 e il 1655 ci fu un’eccezionale fioritura
anche a Genova (dove troviamo un romanzo tipicamente barocco, pieno di
esagerazioni, in cui intorno alla figura dell’eroe perfetto si sviluppano incredibili
avventure).

Il Teatro
La letteratura drammatica del ‘600 recepisce i cambiamenti intervenuti sia a livello
storico-culturale sia nella pratica scenica. Il teatro esalta infatti il carattere di
finzione proprio dell’arte barocca, rispecchiando il senso di precarietà dell’esistenza
che segna un’età di crisi. Questo teatro moderno è inteso come teatro dell’illusione,
in grado di fornire un momentaneo sollievo alla crisi delle certezze. Nei paesi
cattolici la Controriforma influenza direttamente i motivi di gran parte della
produzione drammatica, che l’Ordine Gesuita monopolizza per la propria azione di
edificazione religiosa. In questo periodo si definiscono pratiche e professioni legate
al teatro, da quelle dell’attore a quelle relative alla musica e alla scenografia; si
costruiscono teatri stabili e si diffondono in molti centri spettacoli pubblici e a
pagamento. Il teatro europeo barocco, soprattutto nel caso di Italia, Francia, Spagna
e Inghilterra, svilupperà caratteristiche e tendenze diverse, a seconda di come il
linguaggio letterario drammatico e scenico si esprimeranno per rappresentare le
spinte e i conflitti culturali, sociali, politici, che animano le singole nazioni.
In Italia:
1. La letteratura drammatica  nonostante la grande vitalità del mondo dello
spettacolo, in Italia la letteratura drammatica fu molto meno ricca e
interessante di quella di altri paesi europei. Basti pensare che proprio in
questo periodo si hanno in Inghilterra le grandi esperienze di Shakespeare e
del teatro Elisabettiano, in Spagna quelle di Calderon de la Barca. La
letteratura italiana invece produce (prima della fine del ‘500) solo due testi
drammatici di grande successo europeo: l’Aminta di Tasso e Il Pastor Fido di
Guarini. Quest’ultimo con la sua opera propone un modello molto più
complicato e artificioso, che mira ad attenuare il conflitto tra la dimensione
naturale e quella cortigiana.
2. La Commedia dell’arte  intorno alla metà del 500 si sviluppa una nuova
pratica teatrale chiamata commedia dell’arte o commedia all’improvviso.
Questa era affidata ad attori professionisti e girovaghi, che offrivano i loro
spettacoli ad un pubblico vario, vivendo del proprio mestiere di attori (infatti
lavoravano in gruppo, costituendo vere e proprie compagnie, di cui facevano
parte anche le attrici). La prima compagnia di comici professionisti si formò a
Padova nel 1545 e ad essa ne seguirono moltissime di vario livello: dalle più
nobili alle più rozze e povere. Alla base della commedia dell’arte ci sono
l’abilità tecnica e l’uso di un ricco repertorio di situazioni comiche, che
permettono agli attori di affidarsi all’improvvisazione. Le vicende messe in
scena portano all’estremo gli elementi tipici della commedia classica e
letteraria, come gli scambi di persona, gli amori ostacolati, travestimenti,
riconoscimenti. Anche lo schematismo delle figure e dei tipi è portato
all’estremo, si creano infatti personaggi fissi che si ritrovano sempre uguali da
una commedia all’altra, con lo stesso repertorio di gesti e di linguaggio. Quindi
queste figure diventano vere e proprie maschere con un nome e un costume
preciso. In ambito religioso la commedia dell’arte rappresentava una realtà
pericolosa perché completamente profana; tuttavia, la chiesa non riuscì ad
estirpare questo tipo di spettacoli e in alcuni casi, soprattutto per opera dei
Gesuiti, si accontentò di moderarlo.
3. Il Melodramma  accanto al fenomeno della commedia dell’arte di cui l’Italia
fu culla, va ricordato il nascere del melodramma o dramma per musica, che si
sviluppò a partire dalla sperimentazione del gruppo fiorentino della Camerata
de Bardi, un gruppo di letterati e musicisti, tra cui si distinse Vincenzo Galilei,
padre di Galileo e autore di vari trattati musicali, in cui cerca di realizzare uno
stretto rapporto tra musica e poesia. La sperimentazione del recitar cantando
intendeva far rivivere sulle scene moderne i modelli della tragedia greca,
attraverso una nuova forma di dialogo cantato.
In Spagna: anche in Spagna la Controriforma esercita un’egemonia culturale che si
ripercuote sui generi drammatici. Tra i principali autori ricordiamo Calderon de la
Barca, drammaturgo di corte, che concentrò la sua produzione sulla riflessione sulla
transitorietà della vita terrena. Un altro grande autore fu Lope Felix, i cui drammi
sono caratterizzati da intrecci avvincenti e dalla tendenza a rappresentare l’umanità
in tutte le sue varianti sociali. Infine, ricordiamo Tirso de Molina, che mostrò una
particolare attenzione agli avvenimenti contemporanei e si occupò di satira sociale.
In Francia: il teatro tragico francese è dominato dalle figure di Corneille e Racine,
che rappresentano due diversi modi di concepire la religiosità: Corneille mette in
scena personaggi storici che incarnano i valori dell’ortodossia controriformista;
Racine è invece influenzato dal pessimismo e ritiene che le passioni agitino la vita
dell’uomo. Sul versante della commedia il maggior esponente fu Molière, che nelle
sue commedie tratta temi basati su una pungente satira sociale, religiosa e politica.

La trattatistica: indica il complesso dei trattati di una data epoca o di un


determinato argomento.
La trattatistica nel ‘600 gode di particolare fortuna: scienziati, filosofi ed intellettuali
la utilizzano per comunicare le proprie scoperte e teorie ad un ampio pubblico,
costituito non solo da studiosi ma anche da lettori comuni. Tra i prosatori
seicenteschi spiccano alcune figure: Alessandro Tassoni, Emanuele Tesauro,
Torquato Accetto.
Alessandro Tassoni è un letterato nato a Modena nel 1556 e rientra nell’ambito
della trattatistica per tre principali opere: Considerazioni sopra le rime del Petrarca,
Pensieri diversi, La secchia rapita.
Considerazioni sopra le rime del Petrarca  si tratta di un commento al Canzoniere
e ai Trionfi, con il quale Tassoni dà inizio ad un’aspra polemica contro Petrarca.
Pensieri Diversi  nel 1608 pubblicò per la prima volta i Dieci libri di Pensieri diversi,
ripubblicati nel 1612 e, in redazione più ampia, nel1620. Nell'ultima edizione la
raccolta di brevi testi in prosa viene incrementata con un decimo e ultimo libro in cui
Tassoni ragiona sul rapporto tra modelli antichi e presenti, chiedendosi se realmente
gli antichi fossero meglio dei moderni. Giunge alla conclusione che Omero ha sì il
suo prestigio, è un grande poeta, ma probabilmente è stato più fortunato che bravo:
la sua gloria è alimentata più dalla fortuna che dalla bravura. Anticipa la disputa sugli
antichi e sui moderni che, a partire dalla Francia, divise il mondo intellettuale del
Seicento.
La Secchia rapita  nascita del genere eroicomico: nel 1622 (quasi contemporanea
con la Gerusalemme liberata) a Parigi appare la Secchia rapita, poema in ottave di 12
canti. La secchia viene pubblicata insieme al primo canto di un poema epico,
l'Oceano, che Tassoni lascia incompiuto. Si tratta di una scelta eloquente, che
dimostra l'abbandono del genere tradizionale della poesia epica e la scelta di
sperimentare una forma inedita. La storia racconta dello scontro tra modenesi e
bolognesi nel corso dell'opposizione tra guelfi e ghibellini del 300 italiano, ma
mescola particolari e vicende senza troppa attenzione al dato storico. Tassoni pone
al centro del suo racconto la secchia rubata dai modenesi alla città di Bologna: da
questo affronto e dalla successiva reazione muovono una serie di episodi che
vedono sfilare personaggi improbabili dietro i quali è possibile Tassoni abbia voluto
rappresentare figure della storia contemporanea. La Secchia rapita si rivela in realtà
una operazione letteraria estremamente raffinata: offre una parodia del genere
epico, quasi a sancirne il tramonto nel panorama della tradizione letteraria italiana
(in questo senso, la secchia rappresenta l'altra faccia della dissoluzione prospettata
nell’Adone del Marino): al rapimento di Elena, che nell’Iliade costituiva la causa della
guerra tra greci e troiani, l’autore sostituì una secchia di legno, il cui furto origina la
ben più modesta guerricciola tra Modena e Bologna. Ulteriore ironia rispetto
all’epica è la stesura in 12 libri, come l’Eneide. È un poema che mette insieme il serio
e l’abbassamento parodico, in cui si mescolano eventi fantastici ad eventi realmente
accaduti. Eppure “La Secchia” è scritta secondo l’arte epica: per cui alle proposte di
un genere inedito, va sottolineata l’ambizione di realizzare comunque un poema
“regolare”, rispettoso dei precetti di poetica. A partire dalla fortuna della Secchia, il
genere eroicomico diventa un fenomeno che conosce larga diffusione anche in
Europa.
Emanuele Tesauro nato a Torino nel 1592, ed entrato a vent'anni nell'ordine dei
gesuiti, aveva preso parte alla stagione più viva della poesia barocca, scrivendo
soprattutto per il teatro, e in quella stagione aveva elaborato le riflessioni cruciali
raccolte nel trattato il Cannocchiale aristotelico, che però escono a stampa solo alla
metà del secolo. Il Cannocchiale aristotelico di Emanuele Tesauro è probabilmente
l'opera teorica più importante del 600 italiano con una prima edizione nel 1654 e
una edizione definitiva nel 1670, il Cannocchiale è in realtà un'opera fuori tempo,
che arriva tardi sulla scena della cultura barocca. L’opera ci dice molto del secolo in
cui nasce: in particolare le idee e le teorie più importanti della cultura barocca e
seicentesca. Già il titolo Cannocchiale aristotelico, lo potremmo definire molto
barocco, in quanto vi è l’accostamento di due termini antitetici (è un titolo che
“meraviglia”):
 Cannocchiale: evocativo di uno strumento moderno che ci rimanda a Galileo
Galilei che ne è il perfezionatore.
 Aristotelico: rimanda alla tradizione.
L'opera mira a una teorizzazione della poesia moderna (XVII), sottolineando che essa
si basa sull’accostamento di immagini diverse, elementi lontani, sullo sfruttamento
della metafora. La metafora è uno strumento conoscitivo, utile per individuare
immagini nuove, per pensarle, un mezzo attraverso cui si associano cose diverse.
Tesauro dice che il poeta è tanto più bravo quanto più originale è l’associazione. Il
Cannocchiale spiega proprio l’importanza della poetica del 600: trovare tra cose
dissomiglianti la somiglianza.
Torquato Accetto è un letterato che si colloca all'interno dell'ambito culturale
napoletano della prima metà del 600. Nasce intorno al 1590 a Trani, nel 1618 egli
risulta essere a Napoli: non è azzardato supporre che la sua formazione sia avvenuta
a contatto con l'Accademia degli Oziosi, istituzione fondata nel 1611 da Giovan
Battista Manso. Manso è un letterato e mecenate in contatto con poeti come Tasso
e Marino. Difatti la stessa esperienza poetica di Accetto è forte di quella di Petrarca
e del petrarchismo di Bembo e al contempo guarda alla scrittura di Tasso e di
Marino.
Della dissimulazione onesta  In un quadro politico e storico instabile, difficile e
repressivo si inserisce la principale opera di Accetto, il breve trattato Della
dissimulazione onesta, edito nel 1641. Ripartito in 25 capitoli, il trattatello si colloca
nel dibattito sulla ragion di Stato: nello specifico, Accetto, affronta la questione
relativa al comportamento da tenere in pubblico, invitando a fare un saggio uso
della prudenza. La via intrapresa come soluzione per contrastare la situazione della
tirannide, e sopravvivere nel mondo violento, consiste nella dissimulazione,
differente dalla simulazione che è ipocrisia e finzione, concetto negativo sul piano
morale in quanto equivalente alla bugia. Con la dissimulazione, invece, la verità
resta coperta da un velo: non viene detta tutta la verità («Riposo rispetto al vero» la
definisce). Il termine viene accompagnato dall'aggettivo “onesto”, a legittimare il
comportamento.
Riflettiamo prima sulla società cortigiana 600esca per capire come Accetto vi adatta i
due concetti. La società cortigiana è basata su un concetto fortemente emulativo: la
condizione sociale di un letterato dipende totalmente dalle voglie e dalle simpatie di
un marchese, un sovrano, un papa. Essendo così, la società cortigiana è fortemente
antagonista, si creavano molti contrasti tra cortigiani. Quindi il letterato può
dissimulare con discrezione e garbo per rapportarsi con chi è socialmente a lui
superiore.
La letteratura dialettale: Basile
Alla fine del ‘500 in molte regioni italiane si sviluppano esperienze di letteratura
dialettale molto più ricche rispetto al passato, ma che non sono quasi mai
espressione diretta delle classi subalterne. Questo tipo di letteratura viene elaborato
per lo più da esponenti delle classi superiori, che tendono a usare il dialetto come
uno strumento di gioco linguistico in grado di garantire un’espressione più libera
rispetto alla lingua letteraria alta. I dialetti delle varie regioni li ritroviamo anche nel
linguaggio teatrale, in cui spesso svolgono funzioni dissacranti, in conflitto con i
linguaggi aulici. La situazione è invece diversa per le letterature dialettali che si
sviluppano alla fine del secolo, le quali riducono il tono polemico e puntano al
divertimento e all’intrattenimento.
I personaggi popolari presenti in queste opere sono osservati da lontano, come
curiose figurette di costume e la concretezza della loro rappresentazione non si
risolve in un autentico realismo, si avvicina piuttosto ai quadretti di genere e di vita
quotidiana tanto amati dal pubblico del tempo.
Tra le varie letterature dialettali di quest’epoca, la più ricca e vivace fu quella
napoletana, mentre ricordiamo che quella toscana non si poggiava su forme
dialettali circoscritte, ma su un continuo conflitto tra lingua cittadina e lingua rustica.
A Napoli un certo uso letterario del dialetto c’era stato fin dall’età aragonese, ma la
grande spinta creativa della letteratura dialettale napoletana ci fu tra la fine del 500
e gli inizi del 600, nel momento in cui la città vive la sua massima espansione
economica, demografica e urbanistica. Importanti risultati furono raggiunti grazie a
due scrittori in particolare: Cortese e Basile.
Giovan Battista Basile ebbe una vita avventurosa come uomo di corte e militare, e
negli ultimi anni occupò una posizione di rilievo nella cultura nobiliare napoletana.
Fu autore di numerose opere, quelle dialettali probabilmente furono scritte intorno
agli anni 10 e pubblicate postume sotto lo pseudonimo di Gian Alesio Abattutis
(anagramma del suo nome). Queste sono:
1. Le Muse napolitane: un quadro paradossale del mondo napoletano che
racchiude in sé una grande varietà.
2. Lo cunto e li cunti: l’opera fu poi chiamata Pentamerone (ispirandosi al
Decameron) perché consisteva in 50 fiabe raccontate in 5 giornate e inserite
in un racconto più ampio. Tutta la storia nasce dalla malinconia della
principessa Zoza, che ha perso la capacità di ridere. Riesce a liberarsi da
questo stato quando ride di una vecchia signora che scivola su una macchia
d’olio fatta versare da suo padre, il re. Alla risata della principessa, la vecchia
risponde con una maledizione: fa sì che Zoza, con le sue lacrime, liberi un
principe tenuto prigioniero in un sepolcro. A questo punto però una schiava
prende, con l’inganno, il posto di Zoza e sposa il principe. La principessa, con
l’aiuto di tre fate, suscita nella sua rivale uno smodato desiderio di ascoltare
racconti. Tale desiderio viene soddisfatto da 10 orrende vecchie che narrano
le diverse fiabe. Sotto le sembianze dell’ultima narratrice si nasconde Zoza,
che racconta la propria storia e svela così al principe l’inganno della schiava.
L’ingannatrice viene uccisa e Zoza si unisce in matrimonio con il principe.
Basile si concentra sulle esagerazioni e sul meraviglioso, ma allo stesso tempo
avverte un aspetto comico: l’eccesso del meraviglioso scatena un riso festoso. Uno
strumento fondamentale di questa comicità è il dialetto, i cui caratteri popolari sono
mescolati e alterati con grande sapienza letteraria.
Ciò che ne viene fuori è l’immagine di una realtà non umana, lontana da ogni
realismo e riferimento storico, una realtà tutta letteraria, ma che è costruita con
materiali e linguaggio derivati direttamente dalla vita quotidiana.

Galileo Galilei
Nacque a Pisa nel 1564 da una nobile famiglia fiorentina, da giovane studiò nel
convento fiorentino di Santa Maria di Vallombrosa e successivamente all’Università
di Pisa, dove si dedicò alla medicina, alla matematica e alla filosofia naturale. Nel
1589 divenne dovente di matematica nella stessa università, per poi spostarsi a
Padova, attirato da guadagni più sostanziosi. Padova è un ambiente intellettuale
molto vivace, in cui Galilei è protetto dalla tolleranza assicurata agli studiosi dalla
Repubblica veneta. Nel 1610 Galilei si trasferì a Firenze come “primario matematico
e filosofo del granduca di Toscana”. La carica gli permise di dedicarsi esclusivamente
ala ricerca scientifica, mentre il titolo di filosofo gli consentiva di pronunciarsi
ufficialmente. A seguito del conflitto con molti esponenti della Chiesa, Galilei decise
di ricorrere nei suoi scritti al volgare per permettere ad un pubblico più vasto di
studiosi e di tecnici di partecipare al dibattito.
Nel 1615 Galilei fu denunciato dai Domenicani all’Inquisizione: la teoria eliocentrica
fu condannata come incompatibile con la fede cristiana e l’opera di Copernico fu
sospesa. Galilei si piegò alle richieste dell’Inquisizione per evitare la condanna
pubblica e ufficiale.
Nel 1623, dopo l’elezione al soglio pontificio di papa Urbano VIII, un uomo dalla
mente aperta e suo estimatore, Galilei portò a termine un’opera a cui lavorava da
anni: Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, nel quale Galilei, scrivendo in
volgare e in uno stile piano e lineare, proponeva il contrasto tra la tesi cosmologica
tolemaica e quella copernicana. Tuttavia, il pontefice premuto da circostanze
politiche interne e internazionali, lasciò che i gesuiti condannassero le tesi esposte
da Galilei, il quale davanti al tribunale dell’Inquisizione pronunciò l’abiura delle sue
tesi e fu condannato al carcere formale perpetuo (domiciliari a vita). Galilei trascorse
gli ultimi anni della sua vita segregato nella propria dimora, prima a Roma e poi a
Firenze, dove morì nel 1642.
Siderus Nuncius: “avviso astronomico”  Opera redatta in latino nel 1610, in cui
Galilei annunciò al mondo le sconvolgenti scoperte effettuate con il nuovo
strumento: il telescopio. Tra le scoperte annunciate c’erano: i quattro satelliti di
Giove, denominati pianeti medicei in onore del granduca di Toscana (Cosimo II de
Medici); le macchie della luna e l’irregolarità della sua superficie, fino ad allora
creduta levigata e perfetta; le fasi di Venere, determinate dalla sua rotazione
intorno al sole. Il Siderus non solo contraddiceva la cosmologia tradizionale, ma ne
minava le fondamenta, in quanto il modello tolemaico non poteva spiegare le nuove
scoperte.
Il Saggiatore  la comparsa di tre comete nel 1618 fu l’occasione di uno scontro
con i gesuiti, che Galilei risolve a proprio favore attraverso un’opera polemica e
vivace: il Saggiatore (il cui titolo si riferisce al bilancino di precisione degli orefici). Si
tratta di un’epistola scientifica indirizzata all’amico sacerdote Virgilio Cesarini, con
cui lo scienziato rispondeva alla Libra del padre gesuita Orazio Grassi, il quale
intendeva confutare le teorie di Galilei sulla natura delle comete. L’opera è
particolarmente importante per le considerazioni di Galilei sulla metodologia della
ricerca scientifica: egli sostiene che lo scienziato nelle sue indagini deve attenersi
all’esperienza derivata dai dati sperimentali (che l’autore chiama “il libro della
natura). Inoltre, Galilei distingue tra qualità oggettive e qualità soggettive di un
determinato fenomeno: le prime (quelle misurabili come lunghezza, peso) sono le
uniche ad avere valore per la ricerca scientifica; le seconde (come la sensazione di
caldo o di freddo) hanno carattere soggettivo e non hanno quindi valore scientifico.
Galilei si serve di una favola per rendere più gradevole e convincente l’esposizione
dei fondamenti del nuovo metodo scientifico e cita molti passi della Libra
dimostrandone l’inattendibilità scientifica. Con questo procedimento Galilei oppone
alla rigidità del gesuita la sua agile e pungente ironia.

Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo  Galilei terminò l’opera nel 1630
e nel 1632 ottenne l’autorizzazione per la pubblicazione dal pontefice Urbano VIII,
accettando però di proporre le due tesi (tolemaica e copernicana) come teorie
“astratte” e di mantenere nell’esposizione un atteggiamento di neutrale
equidistanza.
L’opera è suddivisa in 4 giornate ed è ambientata a Venezia, luogo che
nell’esperienza di Galilei rappresenta il centro della vivacità culturale e della libertà
di pensiero. Anche qui, come nel Saggiatore, Galilei assume anche il punto di vista
dell’avversario per confutarlo dall’interno, sfruttando le potenzialità teatrali
implicite nella forma dialogica.
Gli interlocutori sono delineati come veri e propri personaggi, ciascuno con una
personalità ben definita. Il nobile veneziano Sagredo viene inserito come mediatore
tra il nobile fiorentino Salviati (sostenitore della teoria copernicana) e Simplicio
(difensore delle dottrine aristoteliche). Sagredo è l’interlocutore neutrale, è animato
da una naturale curiosità di sapere e desidera formarsi un’opinione personale sulla
questione  ciò induce nel lettore una reazione di simpatia che lo spinge ad
identificarsi in lui e, di conseguenza, a schierarsi dalla parte di Salviati.
Tuttavia, nonostante Simplicio soccomba davanti i ragionamenti di Salviati, Galilei
non lo presenta come una marionetta comica, ma come un personaggio tragicomico
di cui è evidente la paura di crescere e di affrontare l’ignoto con le proprie forze. La
scelta di proporre l’avversario come un uomo limitato, ma non del tutto privo di
qualità (vediamo infatti che Simplicio è intelligente e leale da dichiararsi battuto)
dimostra che la vera battaglia non avviene solo sul piano intellettuale, ma anche e
soprattutto su quello ideale: cioè tra due visioni del mondo e della vita
contrapposte.
Lo stile: la grande innovazione formale di Galilei risiede nel ricorso ad una lingua
vicina all’uso comune, in grado di avvicinare l’ampio pubblico ad una materia che
fino ad allora era stata di interesse esclusivo dei dotti. Il latino era la lingua in uso
nella trattatistica scientifica di tradizione scolastica, mentre l’italiano ricorreva solo
negli scritti destinati alla tecnica e all’arte. Galilei conferì all’italiano una dignità pari
a quella del latino, facendone la lingua dell’alta speculazione scientifica.

L’Arcadia
L'Accademia dell'Arcadia sintetizzò la reazione di fine Seicento al marinismo e al
barocco. Venne fondata a Roma nel 1690, fra gli altri da Crescimbeni, Gravina e
Zappi. Il programma letterario prevedeva un vero e proprio culto della vita
pastorale: ogni letterato assumeva un nome pastorale greco (ricreando il mito
dell'Arcadia, regione greca sede del monte Parnaso sacro alle Muse); aveva un
simbolo distintivo (la siringa di Pan circondata da lauro), e il luogo delle riunioni
veniva chiamato Bosco Parrasio, in onore del monte Parnaso. Il razionalismo
arcadico rilanciò il genere della lirica; ma alla poesia barocca della meraviglia e della
metafora ardita contrappose un linguaggio poetico chiaro e lineare. Era il classicismo
la chiave per ritrovare qualcosa che, secondo l'Arcadia, il barocco aveva dissipato. Il
progetto, tuttavia, rimase un mutamento di superficie: l'idea di una nuova società si
riduceva all'evasione in una società astratta, salottiera, sostanzialmente artificiale.
L'"antica favola", che per Gravina doveva tentare una riforma civile, e il rilancio della
tradizione italiana, diventava il rito di una piccola società aristocratica, in una
sterminata produzione di "pastori" e "pastorelle" immersi in poesie d'occasione
(soprattutto "canzonette") di facile maniera. Crescimbeni ("custode generale"
dell'Arcadia fino alla sua morte, nel 1728) parlava di classicismo "rifatto in piccolo”.
Anche se fu Gravina a stendere (1696) le leggi accademiche dell'Arcadia, fu certo
l'indirizzo di Crescimbeni a segnare l'artificiosità dei volumi collettivi Rime degli
Arcadi e Vite degli Arcadi, pubblicate dal 1708. La cosiddetta scissione del 1711
(rottura del sodalizio Gravina-Crescimbeni; nascita dell'Accademia dei Quirini, a cui
aderirono, insieme al Gravina, Rolli e Metastasio) non segnò in effetti alcun vero
cambiamento. Al contrario, il programma di reazione al barocco ebbe grande
successo; l'Accademia si diffuse dappertutto così che l'Arcadia divenne il più
importante fenomeno del mondo letterario italiano.
Barocco e Arcadia a confronto
1. Principio ispiratore: per il barocco era l’originalità, intesa come ricerca di
soluzioni espressive e immagini nuove; per l’Arcadia era la razionalità, intesa
come elemento guida di tutta l’arte.
2. Rapporto con la tradizione: questo rappresenta il punto di massima distanza,
in quanto con il barocco si parla di Anticlassicismo, ovvero rifiuto della
tradizione umanistico-rinascimentale; mentre con l’Arcadia si parla di
Classicismo, che non va inteso come pedissequa ripresa, ma come imitazione
del modello petrarchesco secondo i canoni poetici umanistico-rinascimentali.
3. Fine della poesia: per il barocco era la meraviglia e il diletto (colpire il lettore
con l’originalità), per l’Arcadia era una funzione moralizzatrice (filtrare
sentimenti attraverso la razionalità).
4. Temi: nel barocco troviamo un’estrema varietà tematica, mentre nell’Arcadia
predomina la natura e il sentimento amoroso, spesso rappresentati nella
cornice ideale del mondo pastorale.
5. Stile e metrica: nel barocco c’è un uso esasperato delle figure retoriche
(concettismo), i metri sono tradizionali ma presentano la sperimentazione di
nuove forme; lo stile dell’Arcadia è lineare ed equilibrato, invece per quanto
riguarda la metrica si predilige il sonetto e la canzonetta (dotata di versi brevi
e di musicalità).

Riforma del melodramma


Accanto all’evasione bucolica e all’effusione sentimentale, la letteratura arcadica
manifesta anche aspirazioni eroiche. Tali tendenze si espressero soprattutto nel
melodramma, genere che nel ‘700 ebbe una grandissima diffusione. I letterati del
primo 700 intesero riformare il genere ereditato dal barocco, e lo fecero in due
modi:
- Ridando dignità letteraria e autonomia al testo poetico, che nel 600 era del
tutto subordinato alla musica
- Inserendo temi eroici che potessero equipararlo ai modelli tragici classici e
alla contemporanea drammaturgia francese.
Tra gli intellettuali impegnati in questa riforma ricordiamo Pietro Metastasio, che
portò a compimento il lavoro iniziato da Apostolo Zeno, suo predecessore nel ruolo
di poeta ufficiale nella corte imperiale di Vienna.
Pietro Metastasio
Pietro Trapassi nacque a Roma nel 1698, nel 1717 fu accolto in Arcadia, dove
assunse il nome grecizzato di Metastasio. Grazie alla frequentazione di importanti
musicisti, si avvicinò al dramma per musica e la sua prima opera Didone
abbandonata, ottenne nel 1724 un successo clamoroso. Nel 1730 subentrò ad
Apostolo Zeno nel ruolo di poeta ufficiale della corte imperiale di Vienna. I dieci anni
successivi costituirono il periodo più intenso della sua produzione teatrale: pubblicò
ben 11 melodrammi. In gioventù Metastasio ebbe un’educazione cartesiana e
questa fu fondamentale per lo sviluppo della sua poetica, in particolare per quanto
riguarda la trattazione della materia sentimentale. Metastasio, infatti, utilizza la
razionalità per indagare tra le pieghe dell’insensatezza che governa i sentimenti e ne
porta alla luce la complessità attraverso un linguaggio chiaro e lineare. Il suo
interesse per le passioni umane rendeva le sue opere vicine al gusto del pubblico sia
borghese che aristocratico.
Organizzazione del melodramma metastasiano: come Apostolo Zeno, anche
Metastasio mantenne la distinzione tra le “ariette” (brevi versi cantati) e i
“recitativi” decasillabici. All’alternanza del metro corrisponde l’alternanza degli
effetti psicologici: di commozione nelle ariette e di riflessione nei recitativi. Tuttavia,
l’innovazione apportata da Metastasio, rende strettamente indipendente il rapporto
tra le prime e i secondi. Infatti, nonostante le ariette abbiano una loro autonomia,
esse restano funzionali allo svolgimento drammatico dell’azione.
Sulla base dell’argomento, la critica distingue due tipi di melodramma “di intrigo” o
“di situazione”, ed “eroico”.
- L’Olimpiade di Metastasio è un esempio di melodramma d’intrigo, in cui i
personaggi vivono il conflitto tra dovere e passione e si presentano come tipi
immutabili. Per quanto riguarda l’ambientazione, essa è priva di ogni preciso
riferimento temporale e suggerisce allo spettatore la certezza
dell’immutabilità della condizione umana rappresentata. Tale condizione
risulta positiva in quanto dimostra che ogni situazione è destinata ad
evolvere, passando attraverso pena e dolore, verso una naturale felicità.
- L’Attilio Regolo (sempre di Metastasio) rappresenta in pieno il melodramma
eroico. In esso l’organizzazione della vicenda si fonda sulla presenza costante
dell’eroe più che sulla simmetria.
Per quanto riguarda lo stile, al contrario dei marinisti, Metastasio non ama sfoggiare
l’abilità tecnica, anzi la sfrutta per creare un effetto di naturalezza. La visione del
mondo e dell’uomo che fuoriesce è “ragionevole” e “sensibile”, ironica e commossa.
Semplicità e chiarezza sono perseguiti anche attraverso la selezione del lessico,
tratto dalla tradizione letteraria di Petrarca e Ariosto, che evita ogni termine
eccessivamente comune o aulico, dando vita a un linguaggio pacato con cui i
personaggi esprimono razionalmente i tormenti del cuore.

L’ILLUMINISMO
Si definisce Illuminismo quel movimento, sviluppatosi in Europa nella seconda metà
del ‘700, che si propone di lottare attraverso la ragione contro tutti i residui
irrazionali persistenti nella vita politica, economica e sociale. Infatti, il termine
illuminismo deriva dall’immagine della luce che caccia le tenebre dell’ignoranza e
del pregiudizio. In tutta Europa la ragione viene assunta come metro di giudizio
assoluto, come facoltà capace di raggiungere la verità in ogni campo dello scibile. Gli
illuministi guardano al passato, soprattutto al medioevo, come a una lunga serie di
errori, criticandone gli istituti politici, culturali e religiosi. Inoltre, sono convinti che la
loro età segni una svolta fondamentale nella storia, dando inizio al “regno dei lumi”,
cioè a un mondo migliore, conforme al modello della ragione. Dunque, è evidente
un potente slancio ottimistico, basato sulla consapevolezza delle capacità dell’uomo.
Inoltre, l’atteggiamento di apertura degli illuministi verso qualunque civiltà, anche
lontana dalla propria, e la disponibilità ad accettare l’altro nella sua diversità, deriva
dalla convinzione che la ragione sia presente in tutti gli uomini: questa concezione
prende il nome di cosmopolitismo (secondo cui l’uomo razionale è cittadino del
mondo e le barriere nazionali sono delle convenzioni artificiose che vanno superate
attraverso la volontà di conoscere ciò che è diverso). Al cosmopolitismo si legano il
filantropismo (disponibilità ad amare e soccorrere gli altri) e la tolleranza verso gli
altri e verso le loro opinioni e posizioni.
Dal razionalismo invece deriva la critica delle religioni tradizionali: per gli illuministi
la religione nasce dal convincimento razionale e Dio sarà inteso semplicemente
come l’Essere Supremo regolatore del mondo (tale posizione è definita deismo).
Tuttavia, il posto centrale occupato dalla ragione non porta ad un razionalismo arido
e astratto: a partire dalla seconda metà del 700 il razionalismo sarà corretto dal
sensimo, che porterà a privilegiare sensazione e sentimenti. Il sensismo riconduce
ogni contenuto e atto del conoscere all’esperienza sensibile.
L’Illuminismo in Italia
L’illuminismo italiano si sviluppa sotto lo stimolo degli intellettuali francesi della loro
opera di divulgazione per poi caratterizzarsi in base ai contesti culturali dei singoli
Stati, raggiungendo esiti originali più sul piano culturale che si quello politico e
sociale. Le principali città in cui la cultura illuministica italiana fiorì furono Napoli e
Milano.
- A Napoli le nuove tendenze culturali trassero impulso dalla politica di riforme
inaugurata dalla dinastia dei Borboni: gli intellettuali illuministi appoggiavano
le iniziative dei sovrani, intese a rivendicare i diritti dello stato contro i
privilegi della chiesa.
- A Milano, per impulso dei sovrani illuminati Maria Teresa e Giuseppe II, ci fu
un’opera di svecchiamento delle strutture feudali, di riorganizzazione
dell’apparato amministrativo e di incremento delle attività industriali e
commerciali. Ricordiamo che intellettuali come Pietro e Alessandro Verri e
Cesare Beccaria guardavano con favore al riformismo asburgico e
collaboravano con il governo.
Mentre a Napoli l’illuminismo di formò in ambito accademico-universitario, senza
mai realmente distaccarsene, quello lombardo si preoccupò, invece, di divulgare
nuove idee presso un pubblico di non letterari attraverso lo strumento giornalistico
(ricordiamo Il Caffè). Il programma degli illuministi milanesi puntava su una
letteratura fatta di argomenti vivi e attuali, impegnata a promuovere la pubblica
utilità attraverso la diffusione di idee progressiste. Si propugnava l’uso di un
linguaggio immediato che si avvaleva di termini adatti ad esprimere con miglior
chiarezza le nuove idee.
La divulgazione di tali idee si avvale di un nuovo strumento di comunicazione: il
periodico, di cui l’esempio per eccellenza è la rivista milanese “Il Caffè” pubblicata
nel biennio 1764-1766.
Invece, legata al circuito dell’insegnamento universitario è l’azione dei pensatori
napoletani come Genovesi e Filangieri. Tuttavia, occorrerà molto tempo prima che
in Italia si attuino le condizioni che permetteranno agli intellettuali di vivere del
guadagno della propria attività, infatti vediamo come i letterati italiani del secolo
provenivano da famiglie agiate e coltivavano l’attività letteraria come passatempo.
Tra le eccezioni ricordiamo Carlo Goldoni, commediografo professionista; mentre
completamente aristocratico rimase l’atteggiamento del conte Vittorio Alfieri, che
rinunciò al titolo, in cambio di un vitalizio, per liberarsi dagli obblighi personali che lo
legavano al servizio del monarca. Alfieri resterà sempre convinto che solo un uomo
agiato, che non deve provvedere al proprio sostentamento economico, può
dedicarsi ad un lavoro intellettuale e creativo.
Nel corso del 700 le accademie persero il loro prestigio, in quanto legate ad un
contesto provinciale, e divennero luoghi di dibattito e di scambio interdisciplinare: è
il caso dell’Accademia dei Trasformati e dell’Accademia dei Pugni. Nella prima si
radunava una nobiltà aperta alle nuove istanze illuministiche, ma con posizioni
moderate, favorevoli alla conciliazione tra una cultura moderna e la tradizione
classica. Nell’Accademia dei Trasformati maturò la poesia civile di Giuseppe Parini (il
più importante rappresentante della poesia italiana del secondo 700); mentre
nell’Accademia dei Pugni prese forma la rivista più famosa dell’Illuminismo Italiano
“Il Caffè”.
Il Caffè  a Milano il gruppo degli illuministi si forma inizialmente in seno
all’Accademia dei Pugni, ma l’esigenza di avvicinare un pubblico più ampio di quello
accademico, induce presto questi intellettuali a scegliere la rivista come luogo
privilegiato della propria attività culturale, sull’esempio del giornalismo inglese. Per
iniziativa di Pietro e Alessandro Verri viene fondato a Milano “Il Caffè”, un periodico
che nei suoi due anni di vita (1764-66) costituisce la cassa di risonanza delle
posizioni più avanzate della cultura italiana.

Carlo Goldoni
Nacque a Venezia nel 1707 da una famiglia di condizione borghese e seguì spesso
suo padre nei suoi viaggi di lavoro. Goldoni compì i primi studi presso i gesuiti,
studiò legge all’Università di Pavia e fu ospite del prestigioso collegio Ghislieri, da cui
fu cacciato per aver composto una satira sulle donne della città. Dopo la morte del
padre, fu sua la responsabilità di provvedere alla madre, quindi, completata la
laurea in legge, iniziò ad esercitare la professione di avvocato.
Nel 1734 conobbe a Verona il capocomico Giuseppe Imer e grazie a lui ottenne
l’incarico di scrivere i testi per il teatro veneziano di San Samuele. In questa prima
fase della sua produzione teatrale affrontò vari generi: tragicommedie, melodrammi
e intermezzi, e, cimentandosi anche nel genere comico, entrò in polemica con la
Commedia dell’Arte che ancora dominava le scene. La sua attività di scrittore però
non gli garantiva una sicurezza economica.
A Livorno conobbe il capocomico Girolamo Medebac, il quale lo convinse a
diventare “poeta di teatro” presso la sua compagnia, con un contratto stabile che
prevedeva la stesura di otto commedie all’anno e un compenso fisso. Con tale
occasione, Goldoni lasciò definitivamente l’avvocatura e divenne scrittore di teatro
per professione.
Goldoni rappresenta una figura nuova nel panorama degli intellettuali del 700: in
un’età in cui gli scrittori fanno parte dei ceti privilegiati (o sono a loro servizio),
Goldoni vive dei proventi della sua professione intellettuale. Inoltre, Goldoni non
scrive più esclusivamente per un pubblico di letterati, ma per il mercato. Il teatro è
un’impresa commerciale, a cui il pubblico, che proviene da diversi stati sociali,
accede a pagamento; quindi, il proprietario della sala e il capocomico ne ricavano un
utile.
Di conseguenza lo scrivere commedie doveva obbedire alle leggi del mercato,
cercando di compiacere i gusti e le richieste del pubblico: a questo obbligo Goldoni
si adattò sempre con grande disponibilità. Il mercato implicava concorrenza: Goldoni
affrontò quella del suo rivale Pietro Chiari. La sfida tra i due durò a lungo,
appassionando il pubblico e suscitando polemiche.
Goldoni lavorò per la compagnia Medebac, che recitava al teatro Sant’Angelo, dal
1748 al 1753, scrivendo un numero elevato di commedie, in cui continuava a
perseguire con tenacia la sua riforma. Con la compagnia di Medebac però Goldoni
entrò in attrito per questioni economiche e nel 1753 passò al teatro San Luca.
Nel 1762 Goldoni accettò di recarsi a Parigi per dirigere la Commedia Italiana, qui
però lo scrittore trovò ancora in piega voga gli scenari improvvisati e le maschere
della Commedia dell’Arte e dovette ricominciare dal principio a lottare per la sua
riforma. Entrò nelle grazie della corte e fu assunto come maestro di italiano delle
principesse reali, ottenendo una modesta pensione. Con lo scoppio della Rivoluzione
Francese il suo mondo fu sconvolto e la sua pensione venne sospesa. Lo scrittore
morì in miseria nel 1793.
Poetica
Quando Goldoni intraprese la sua attività di scrittore teatrale, la scena comica era
ancora dominata dalla Commedia dell’Arte, che aveva trionfato nell’età Barocca, in
cui gli attori impersonavano le maschere tradizionali e improvvisavano le battute
senza seguire un testo interamente scritto. Nei confronti di questo tipo di teatro
Goldoni assunse atteggiamenti fortemente polemici, criticandone la volgarità
buffonesca, la rigidezza stereotipata, la costruzione incoerente degli intrecci e la loro
inverosimiglianza. Goldoni stesso, nella prefazione alla prima edizione delle sue
commedie, afferma che nella sua riforma non si è ispirato a precetti e modelli
libreschi, poiché i due libri su cui ha studiato sono il “mondo” e il “teatro”, cioè la
realtà vissuta e lo spettacolo. Dunque, da un lato vuole produrre testi che piacciano
al pubblico, dall’altro aspira ad una commedia che rifletta realisticamente la società
contemporanea. Anche per questo ritiene che non siano più utilizzabili le maschere
tradizionali: egli vuole rappresentare dei caratteri colti nella loro individualità e le
loro sfumature psicologiche e comportamentali. Goldoni afferma che i caratteri sono
in numero finito in quanto al genere (l’avaro, il geloso, il bugiardo), ma infiniti nelle
specie (esistono infiniti modi di essere avari, gelosi, bugiardi, a seconda degli
individui e degli ambienti sociali). Questa ricerca dell’individualità concreta nasce
dall’imporsi della civiltà borghese, in contrapposizione alla tipicità astratta propria
dell’arte classica.
I caratteri goldoniani però non sono individualità tra loro isolate, collocate su uno
sfondo neutro e astratto: essi sono sempre radicati in un contesto sociale molto
concreto e delineato. Secondo Goldoni i sentimenti, i vizi e le virtù degli individui
assumono una diversa fisionomia a seconda dell’ambiente sociale in cui si sono
formati e vivono. Egli stesso, nella prefazione ad una commedia (La donna prudente)
afferma che la gelosia è una passione comune a tutti gli uomini, ma si manifesta in
modi diversi nei vari ceti sociali. L’uomo di bassa condizione se è geloso della moglie
non ha difficoltà a rivelarlo, mentre il nobile si vergogna a mostrare la sua debolezza
ed è costretto a celarla.
Inoltre, nelle commedie di Goldoni, spesso si distingue tra commedie di carattere
(intese a delineare una figura) e le commedie d’ambiente (intese a descrivere un
particolare settore della vita sociale). Questa è una distinzione convenzionale, in
quanto le commedie di Goldoni sono al tempo stesso di carattere e d’ambiente, e i
due poli non possono venire isolati.
Nel corso della sua riforma Goldoni incontrò ostacoli e difficoltà:
1. Da parte degli attori che, essendo abituati a recitare con l’improvvisazione,
dovevano iniziare ad imparare a memoria le parti. Goldoni sfruttò abilmente
questa situazione modellando il carattere della commedia sulle possibilità
espressive dell’attore.
2. Da parte del pubblico, che in un primo momento restò sconcertato dal
cambiamento, e di conseguenza da parte degli stessi impresari che temevano
di perdere il favore del pubblico. Tuttavia, Goldoni non si lanciò in una
rivoluzione radicale con atteggiamenti di rottura, polemici e provocatori, ma
adottò una tecnica graduale, che gli permise di vincere a poco a poco tutte le
resistenze.
3. Da parte della Repubblica di Venezia: l’oligarchia nobiliare al potere guardava
con sospetto ogni innovazione o spunto critico. Infatti, se Goldoni voleva
rappresentare criticamente in scena i vizi della nobiltà, era costretto ad
ambientare le sue commedie in altre città. Ne abbiamo un esempio proprio
nella Locandiera, in cui troviamo una critica tagliente a certi costumi nobiliari
(la superbia, l’attaccamento alle forme esteriori, l’ostentazione della
ricchezza), che sono però associati a un cavaliere pisano, un marchese
romagnolo e un conte napoletano.

Riforma Graduale:
- All’inizio stendeva per intero solo la parte del protagonista, lasciano
all’improvvisazione tutto il resto.
- Poi si cimentò in commedie in cui tutte le parti erano scritte, ma in cui
venivano ancora conservate le maschere.
- Tali maschere però venivano trasformate dall’interno e sotto di esse iniziava a
costruirsi un carattere individuale. Esemplare la maschera di Pantalone, che
assunse i tratti tipici del mercante veneziano.
Grazie a questa gradualità, il pubblico si abituò a vedere rappresentati in scena
aspetti e problemi della sua vita quotidiana.
Le fasi della commedia Goldoniana:
1. Nella prima fase della sua commedia, ha un rilievo centrale la figura del
mercante veneziano, che si presenta ancora sotto la maschera di Pantalone,
ma che assume già una concreta fisionomia individuale e si fa portatore di una
serie di valori: buon senso, moralità, rispetto degli impegni, senso
dell’economia. In questa celebrazione del mercante si manifesta anche una
contrapposizione polemica alla nobiltà, presentata come superba e
prepotente, oziosa, dissipatrice.
2. La seconda fase della commedia goldoniana è segnata dal passaggio al teatro
San Luca ed è più eclettica e incerta. Goldoni si trova davanti ad una sala più
vasta, meno adatta alla rappresentazione della vita quotidiana, e con attori
meno bravi. La difficoltà maggiore è rappresentata dalla volubilità del
pubblico, che sembra tornare a preferire un teatro più fantasioso. Di
conseguenza, Goldoni, per non lasciarsi sfuggire il successo, iniziò a seguire
questi umori mutevoli sperimentando vari generi.
3. Nella terza fase vi troviamo alcuni dei testi più maturi, in cui Goldoni torna a
dedicarsi alla borghesia medievale, ma con un occhio mutato. Infatti, la
seconda metà del secolo vede una grave crisi della borghesia che indusse il
mercante a perdere il suo slancio energico. Quelle che erano virtù della
borghesia si trasformano in vizi, il senso dell’economia diventa avarizia, la
difesa della reputazione diviene superbia. A Goldoni viene meno la base
sociale del suo ottimismo: al Pantalone aperto e illuminato si sostituisce il
rustego, chiuso nel proprio ambiente familiare, attaccato al proprio
tornaconto e conservatore. A questa figura asociale si scontrano invece le
donne e i giovani, portatori di un’idea più aperta di socialità, che rivendicano il
diritto ad una vita più allegra e gioiosa. Inoltre, in questa fase, Goldoni si
dedica alla riscoperta del popolo, che conserva quella vitalità e spontaneità di
sentimenti e quella capacità di relazioni sociali che la borghesia veneziana
sembra aver perduto. Tuttavia, non possiamo paragonare Goldoni agli scrittori
del secolo successivo come Verga e Manzoni, in quanto la sua
rappresentazione del popolo non arriva a cogliere la durezza della condizione
dei ceti subalterni e la tragicità del quotidiano.
4. La fase parigina: tra i motivi che spinsero Goldoni a lasciare Venezia e a
trasferirsi a Parigi, si aggiunse anche la delusione per un ambiente divenuto
chiuso e soffocante. A Parigi però Goldoni incontrò un’ulteriore difficoltà: il
pubblico francese era affezionato alla Commedia dell’Arte e l’autore dovette
adattarsi a ciò.
5. Gli anni della vecchiaia sono occupati dalla stesura dei Mémoires:
un’autobiografia redatta in francese che ricostruisce le tappe della sua
vocazione e della sua carriera teatrale. Possono essere considerate opere
autobiografiche anche le prefazioni premesse da Goldoni ai 17 volumi delle
Opere, in cui l’autore racconta le vicende della sua vita, prevalentemente in
rapporto al teatro, fino al 1743. Queste prefazioni vengono definite Memorie
Italiane.

LA LOCANDIERA
La Locandiera
La locandiera è una commedia in tre atti di Carlo Goldoni, composta nel 1751, al
termine della collaborazione tra il commediografo e il teatro Sant’Angelo, e messa in
scena nel 1753. La trama verte attorno al personaggio della locandiera Mirandolina,
che, aiutata dal cameriere Fabrizio, si trova a doversi difendere dalle proposte
amorose dei clienti dell’albergo da loro gestito nei pressi di Firenze. Al centro delle
vicende c’è sempre la vigile e smaliziata intelligenza di Mirandolina, che sa far
prosperare la sua attività commerciale.
La locandiera è considerata uno degli esempi più riusciti della “commedia di
carattere” goldoniana, con cui l’autore veneziano capovolge e rinnova la tradizione
della Commedia dell’Arte.
Riassunto
La protagonista de La locandiera è Mirandolina, proprietaria di una locanda ereditata
dal padre che gestisce insieme al cameriere Fabrizio. Mirandolina ha circa trent’anni,
è una donna bella e affascinante abituata a ricevere attenzioni dai suoi clienti, che
viene corteggiata da due nobili: il Conte di Albafiorita e il Marchese di Forlipopoli. Il
Conte di Albafiorita compra regali costosi a Mirandolina mentre il Marchese di
Forlipopoli a causa delle sue ristrettezze economiche non riesce a prevalere sul
Conte. Nella locanda c’è un terzo cliente, il Cavaliere di Ripafratta, scontroso e
misogino, che non comprende il comportamento dei due contendenti e si vanta di
non essersi mai innamorato.
Mirandolina, curiosa e stimolata dal comportamento del Cavaliere cerca di attirarlo
alla sua attenzione, in modo da fare innamorare anche lui di lei. Lo scopo di
Mirandolina è quello di divertirsi e fare dei propri amanti e corteggiatori tutto ciò
che vuole. Il Conte di Albafiorita e il Marghese di Forlipopoli non sono gli unici ad
essere innamorati della locandiera, anche il cameriere Fabrizio prova un sentimento
per la sua padrona. Con l’entrata in scena di Dejanira e Ortensia, due commedianti
che si fingono dame, Mirandolina ha il tempo per dedicarsi completamente al
Cavaliere, riempiendolo di attenzioni. In breve tempo il Cavaliere cede alle lusinghe
di Mirandolina e se ne innamora perdutamente, scatenando le gelosia di Fabrizio,
del Conte e del Marchese. Mirandolina, raggiunto il suo scopo si rende conto di aver
esagerato e decide alla fine di sposare Fabrizio e di mandare via tutti i suoi
contendenti.
PERSONAGGI: Il Marchese di Forlipopoli è un uomo di origine nobile, ma senza più
alcuna ricchezza, al contrario, invece del Conte di Albafiorita. Il Conte è un mercante
ricco che ha comprato il titolo nobiliare. E’ un uomo cortese, disposto a sperperare
per apparire liberale dinanzi a Mirandolina. Il conte regala collane e orecchini di
diamanti alla locandiera, mentre l’unico oggetto che il Marchese possiede, e che
dona a Mirandolina, è un fazzoletto che rifila come pregiato; ad ogni occasione,
infatti, ricorda a Mirandolina di quel fazzoletto per sottolinearle la sua gentilezza.
Invece il Cavaliere di Ripafratta è un uomo nobile di sangue e ricco; mostra sin da
subito freddezza nei confronti della locandiera. Si caratterizza per il suo disprezzo
verso le donne, che poi smentirà, quando si accorge di essersi innamorato ed essere
geloso di Mirandolina. Mirandolina riceve un regato anche dal Cavaliere: una
boccettina di melissa per curarla nei momenti di mancamento.
Ortensia e Dejanira rappresentano l’altra faccia della locandiera: non sono scaltre e
maliziose e come personaggi nella locandiera rendono ridicola la professione
dell’attore. Goldoni utilizza questi due personaggi per volgere una critica alla
commedia dell’arte. Ortensia e Dejanira sono due commedianti che improvvisano
delle parti che però non sono credibili e che vengono subito smascherate da
Mirandolina, la vera attrice in scena.
Fabrizio è il cameriere della locandiera e promesso sposo di Mirandolina. La
locandiera aveva promesso al padre, in punto di morte, di sposare il giovane
cameriere. Fabrizio è un giovane che veniva dalla campagna, ed era passato al ceto
borghese entrando nella locanda appunto come cameriere. Per Fabrizio sposare
Mirandolina è un’opportunità per cambiare posizione sociale: passare da servitore a
imprenditore. Nell’ultima scena della commedia, infatti, Fabrizio esita a pronunciare
il suo “si” a Mirandolina, in quanto il servo è interessato prima a “fare i patti”.
Mirandolina è una donna bella, egocentrica e sicura di sé. Goldoni la raffigura come
una donna in gamba e laboriosa che dirige la locanda con l’aiuto dei suoi servi.
Mirandolina è interessata al profitto della sua locanda e quindi si mostra gentile ed
educata con i suoi clienti. Consapevole del suo fascino si approfitta dei suoi
spasimanti, accetta tutti i loro regali, e cerca di trattenerli nella locanda, senza mai
concedersi.
La locandiera è anche una donna dalle mie sfaccettature: è brusca con il Marchese,
opportunista ma senza esporsi con il Conte e combattiva con il Cavaliere. Nel finale,
Mirandolina è spaventata dalle minacce del Cavaliere e consapevole di aver
esagerato con i suoi modi di fare con i clienti della locanda e decide di sposare
Fabrizio, una scelta astuta, come le era stata consigliato dal padre in punto di morte.

Giuseppe Parini
Giuseppe Parini nasce nel 1729 a Bosisio in Brianza. A causa delle difficoltà
economiche che deve affrontare la famiglia, a prendersi cura di lui, dall’età di dieci
anni, è una vecchissima prozia, che lo accoglie a Milano e muore poco dopo,
lasciandogli una rendita di cui il giovane può usufruire solo a patto di ordinarsi
sacerdote. L’esordio poetico è nel 1752, con Alcune poesie di Ripano Eupilino (Il
nome “Ripano” è anagramma del vero cognome del poeta, mentre “Eupilino” allude
all’Eupili, nome grecizzante del Lago di Pusiano) sono 94 testi di vario argomento e
tono. Il successo riscosso dai versi, permette al poeta di essere accolto, nel 1753,
nell’accademia di Trasformati, uno dei più rinomati centri culturali di Milano. L’anno
successivo, conclusi ormai gli studi e intrapresa la carriera ecclesiastica, Parini viene
introdotto negli ambienti della nobiltà intellettuale milanese e, in particolare,
diventa precettore presso il duca Serbelloni dove, come nel caso dell’accademia, si
sente l’entusiasmo per l’Illuminismo e dove può osservare da una posizione
privilegiata la decadenza dell’aristocrazia settecentesca e le sue vanità, che avrebbe
satiricamente rappresentato nel Giorno.
In seguito ad una discussione con la duchessa, nel 1762 si licenziò da casa Sorbelloni
e l’anno successivo divenne precettore del figlio del Conte Giovanni Maria.
Nel frattempo aveva pubblicato alcuni poemetti satirici contro la nobiltà oziosa e
improduttiva: Il Mattino (1763) e Il Mezzogiorno (1765), che, anche se usciti anonimi,
furono subito riconosciuti per suoi e gli valsero grande prestigio e l’assegnazione
diversi incarichi pubblici (fu l’interlocutore ideale per l’amministrazione austriaca,
sotto la guida dell’illuminata Maria Teresa).
Nel frattempo la produzione poetica pariniana si arricchisce di numerosissimi testi
sparsi raccolti poi sotto il titolo di Odi. Una prima versione esce nel 1791 e una
seconda edizione nel ’75.
Nel 1789 scoppia la Rivoluzione francese e Parini reagisce in modo ambivalente agli
eventi: da una parte confida nella realizzazione più sana dei principi sociali
illuministici, dall’altra è preoccupato dai possibili eccessi del movimento
rivoluzionario, infatti verrà poi allontanato a causa del suo moderatismo e della
volontà di difendere l’autonomia della città.
In questo periodo si conclude anche la sua attività poetica e l’autore lascia
incompiute le due parti mancanti de Il Giorno (Il Vespro e La Notte) il poema in
quattro parti pensato nel corso degli anni Settanta come completamento e
rielaborazione de Il Mattino e Il Mezzogiorno.
Poetica
L’opera letteraria di Parini nella prima fase è in sintonia con il clima di riforma
instaurato dall’imperatrice Maria Teresa d’Austria. Parini si presenta come un
intellettuale illuminista e riformatore che collabora con il potere e come gli altri
illuministi ricerca la pubblica felicità attraverso la diffusione di idee nuove che
possono migliorare la vita sociale e contribuire al bene comune.
Come gli illuministi, Parini rifiuta alcuni atteggiamenti della religione tradizionale,
come i roghi delle streghe, le guerre di religione, la Controriforma, tuttavia, ritiene
che la religione sia indispensabile come freno alle passioni umane e come stimolo
alla convivenza civile e come garanzia di salvezza sul piano personale. Mentre
condivide con l’Illuminismo i principi egualitari: tutti gli uomini sono uguali e hanno
una stessa dignità indipendentemente dal loro ceto sociale. Parini critica la nobiltà
perché oziosa, vuota e improduttiva. Infatti sperpera le ricchezze che provengono
dalle rendite, cioè dal lavoro degli altri, ed è oziosa, non solo perché non lavorano,
ma ricerca solo il piacere e non si dedica ad attività di utilità comune. Queste idee
vengono sostenute oltre che nel poema “il Giorno” anche nel “Dialogo sopra la
nobiltà”.
Dialogo sopra la nobiltà: tra un nobile e un poeta socialmente non molto stimato. Il
nobile rinfaccia al poeta la propria origine, il quale risponde che le persone per un
nobile come lui non avevano un vero e proprio rispetto, ma solo interesse, e sostiene
che la nobiltà risiede nell’elevazione spirituale e non nella ricchezza ereditaria.
Parini è comunque un autore riformista perché non assume posizioni estreme, cioè
non vuole che la nobiltà sia eliminata come sostenevano i rivoluzionari francesi ma
vuole solo che venga educata per svolgere un ruolo attivo all’interno della società
come nelle epoche passate. Ci sono punti di dissenso anche nei confronti
dell’Illuminismo lombardo propugnato dal Caffè e dall’Accademia dei Pugni. Parini
infatti ne rifiuta sia il cosmopolitismo culturale (sostenendo la necessità di difendere
la cultura e la lingua italiana dalle influenze francesi), sia la concezione
esclusivamente utilitaristica della cultura (favoriva una cultura che unisse l’utile al
“lusinghevol canto → unire l’utile al dilettevole, perché una poesia solo utile avrebbe
perso la sua bellezza).
Un altro terreno di scontro con gli illuministi lombardi è quello economico. Il gruppo
del “Caffè” era un fervente sostenitore del commercio e dell’industria, e riteneva che
solo il loro sviluppo potesse garantire progresso e benessere comune. Parini era
invece vicino alle teorie della scuola fisiocratica, che vedeva nell’agricoltura l’origine
della ricchezza delle nazioni e della moralità pubblica, in quanto fonte di una vita
semplice, sana e felice a contatto con la natura. Quindi il poeta guardava con
preoccupazione l’estendersi incontrollato dei commerci, che poteva incrementare il
lusso e quindi la corruzione dei costumi.
Le Odi
Le Odi sono svariate e sono state composte tra il 1757 e il 1795. Delle Odi uscirono
due edizioni, una nel 1791, che comprendeva 22 testi, e una nel 1795 che ne
comprendeva 25. È possibile riconoscere tre fasi compositive nelle Odi:
1. Le odi della prima fase (1757-1769) sono caratterizzate da temi sociali e civili
(La vita rustica, La salubrità dell’aria, L’impostura, L’innesto del vaiuolo, Il
bisogno, La musica).
2. La seconda fase (1777-1785) non abbandona la dimensione civile, ma si
concentra sulla funzione sociale della cultura e dell’educazione (L’educazione,
La laurea, La recita de’ versi).
3. La terza e ultima fase (1787-1795) è caratterizzata dal ripiegamento
malinconico e nostalgico sui temi dell’interiorità esistenziale (Il pericolo, Il
dono, L’inclita Nice, intitolata anche Il messaggio, Alla Musa).
Le odi in Parini sono importanti perché rappresentano la parte impegnata
dell’autore, che scrive sulla scia dell’illuminismo lombardo.
Nelle sue prime odi, risalenti agli anni 1756-69, Parini dà vita ad un nuovo tipo di
poesia, impegnata nella battaglia per il rinnovamento civile. Gli argomenti trattati
sono strettamente legati all’attualità: contrapposizione tra città e campagna, igiene
pubblica, educazione, cause della criminalità. Le odi dunque presentano una materia
innovativa rispetto alla tradizione poetica e ciò comporta l’introduzione di termini
realistici, spesso ricavati dalle scienze moderne. Inoltre, Parini, seguendo la poetica
del sensismo, ricerca un lessico energico e concreto, capace di suscitare immagini e
sensazioni vivide contro l’astrazione del linguaggio arcadico. D’altro canto il poeta si
sforza di restare fedele alla tradizione e a questo fine utilizza con frequenza
procedimenti espressivi (perifrasi, sineddochi) che innalzano il tono e conferiscono
dignità poetica alla materia. Invece, nel secondo e nel terzo gruppo di odi (composte
rispettivamente nel 1777 e tra il 1783-1795), si riflette il senso del fallimento del
programma illuministico. Infatti il poeta rinuncia ad intervenire sui concreti problemi
civili e sociali per concentrarsi su temi universali, affrontati con distaccata saggezza,
secondo i dettami della poetica neoclassica.

Il Giorno
Negli stessi anni in cui componeva le Odi “illuministiche” Parini lavorò ad un poema
in endecasillabi sciolti che mirava a rappresentare satiricamente l’aristocrazia del
tempo: l’opera si collegava all’impegno civile e illuministico delle prime odi,
rispecchiando lo stesso atteggiamento battagliero e polemico. Il poema aveva per
argomento la descrizione della giornata di un “giovin signore” della nobiltà milanese
e nel progetto originario doveva articolarsi in tre parti: Il Mattino, Il Mezzogiorno e
La Sera. Le prime due parti furono pubblicate rispettivamente nel 1763 e nel 1765,
mentre La Sera non venne terminata. La Sera, più tardi, si sdoppiò in due parti Il
Vespro e La Notte, alle quali Parini continuò a lavorare fino ai suoi ultimi anni, senza
però portarle a compimento. Nel frattempo continuava a rivedere e a correggere le
prime due parti, ma anche in questo caso non riuscì a terminare il lavoro e a
giungere ad una nuova edizione.
Il Giorno rientra esteriormente nel genere della poesia didascalica: il poeta
presentandosi come “precettor d’amabil rito” afferma di voler insegnare al “giovin
signore” come riempire piacevolmente i vari momenti della sua giornata. L’impianto
del poema quindi più che narrativo è descrittivo (non viene individuata una
particolare vicenda, ma viene descritta una giornata tipo dell’aristocrazia.
Nel Mattino il nobile viene colto nel momento in cui si corica, all’alba, dopo una
notte trascorsa al teatro o al tavolo da gioco. Dopo la descrizione del suo risveglio a
mattina inoltrata, della colazione e della sua lunga preparazione (con una particolare
attenzione per tutti gli oggetti che lo circondano) il “giovin signore” è pronto per
uscire e recarsi a trovare la sua dama. Uno dei motivi centrali della rappresentazione
di Parini è infatti il fenomeno del cicibeismo, per cui ogni donna sposata aveva il
diritto ad un cavalier servente che l’accompagnasse costantemente in luogo del
marito, a sua volta impegnato con un’altra dama. Il rapporto, in teoria, doveva
consistere in un puro servizio della donna, ma di fatto si risolveva in una forma di
adulterio, che veniva così socialmente legittimato.
Nel Mezzogiorno il giovin signore viene seguito in visita alla dama e durante il
pranzo, in cui si intrecciano conversazioni sugli argomenti più vari, tra cui anche i
temi filosofici più in voga. Infine la coppia nel tardo pomeriggio si reca al “corso”,
cioè al passeggio delle carrozze, dove si ritrova tutta la nobiltà cittadina.
L’impianto didascalico, che deriva dagli insegnamenti che il precettore impartisce al
suo pupillo sul modo di occupare il tempo, è più sensibile nella prima parte, mentre
sfuma nella seconda, dove alla tavola della dama compaiono varie altre figure, e
l’andamento si fa più descrittivo. Tuttavia, bisogna dire che l’impianto didascalico-
descrittivo è solo un pretesto per veicolare la satira del mondo aristocratico. Infatti
tutto il discorso del precettore è impostato in chiave ironica e si fonda sulla figura
dell’antifrasi, secondo la quale viene affermato il contrario di ciò che si vuole far
intendere: la vita futile e vuota della nobiltà viene celebrata in termini iperbolici e i
gesti più banali (come sbadigliare o bere una tazza di caffè) diventano eventi degni di
essere descritti in termini sublimi. In realtà, alle spalle della figura del precettore si
delinea chiaramente quella del poeta, con il suo atteggiamento di ferma e sdegnata
condanna. In questo modo l’antifrasi ironica diviene lo strumento critico più
corrosivo nei confronti di una società oziosa e inutile.
La critica di Parini però si serve anche di altri strumenti, ad esempio:
- un particolare trattamento del tempo e dello spazio → non viene scelta una
giornata particolare, ma una giornata tipo, e già questo dà il senso di una vita
banale, dove non succede mai nulla di importante. Il tempo in cui si collocano gli
eventi descritti è piuttosto breve, eppure si ha l’impressione di un tempo
lunghissimo → l’effetto è creato dall’osservazione al microscopio di quella realtà.
Oltre ad essere un tempo apparentemente lungo è anche un tempo vuoto, in cui si
ripetono meccanicamente gli stessi gesti e le stesse parole. La noia è infatti uno dei
temi centrali, proposto sin dall’apertura del poemetto, poiché il precettore si offre di
insegnare al giovin signore come ingannare questi noiosi e lenti giorni di vita.
- una funzione analoga è quella dello spazio, che è quasi sempre chiuso (allegoria
della chiusura della nobiltà). La scena è prima all’interno del palazzo del giovin
signore, poi in quello della dama. L’unica apertura è la scena del passeggio sul corso,
ma solo apparentemente (è un ambiente proprio della nobiltà e gran parte
dell’azione si svolge nel chiuso delle carrozze).
Nella descrizione della giornata del giovin signore si inseriscono anche altri piani di
realtà: alla nobiltà oziosa del presente viene contrapposta quella rude del passato,
che evitava le mollezze e si gettava ferocemente nella battaglia → anche qui scatta il
meccanismo ironico, in quanto il precettore finge di provare orrore per quella
barbarica ferocia e di esaltare le pacifiche operazioni della nobiltà. Tale
contrapposizioni si verifica anche con un riferimento al presente: all’ozio vano e
corrotto dei nobili si contrappone la vita sana e operosa del contadino e
dell’artigiano, che si dedicano ad attività utili alla collettività umana e si ispirano a
valori fondamentali come il culto della famiglia. Inoltre viene evidenziato lo sperpero
dei nobili che si contrappone alla miseria del popolo (ricordiamo l’episodio dei plebei
che per strada vengono travolti dalle ruote della carrozza aristocratica, quello servo
costretto a chiedere l’elemosina per avere dato un calcio alla cagnetta della della
dama che lo aveva morso). La nobiltà, chiusa nel suo spazio inviolabile, crede di
essere l’unica realtà esistente ed ignora ciò che c’è al di fuori. Il precettore,
adottando il punto di vista del giovin signore, sembra sostenere questo
convincimento, ma poi, richiamando l’immagine del popolo lavoratore e quella dei
miseri affamati, rompe quell’illusione, facendo sentire l’urgere di un’altra realtà ben
più seria e drammatica.
L’inserimento di questi due piani (nobiltà del passato e classi inferiori) ha la funzione
di rompere la continuità di una rappresentazione che rischia di essere monotona e
soffocante. Allo stesso scopo, Parini, inserisce le cosiddette “favole”, brevi racconti di
carattere mitologico, pieni di ironica malizia, che servono a illustrare le origini di certi
costumi sociali. Tra di esse è significativa la favola di Amore e Imene, che spiega le
origini del cicisbeismo: Amore e Imene, figli di Venere, un tempo andavano
d’accordo e univano i corpi e le anime nello stesso tempo. In seguito ad una
ribellione di Amore ebbero compiti diversi: Imene, dio del matrimonio, regnò sulle
anime durante il giorno, Amore invece regnò sui corpi durante la notte. La favola
allude al fatto che nella società nobiliare il matrimonio si riduce a pure facciata
esteriore, mentre l’amore è riservato esclusivamente ai rapporti adulteri.
Importante è anche la favola del piacere, che spiega l’origine della disuguaglianza tra
gli uomini (che Parini attribuisce ad una superiorità biologia dei nobili). Nel
Mezzogiorno, al momento del pranzo, i nobili si trovano nella mensa e le favole
nascono da conversazioni occasionali. Sotto la veste del precettore Parini sostiene
che i nobili mangino non perché spinti dalla necessità come il popolo, ma perché è
un momento per stare insieme e per intrattenere conversazioni. Secondo la favola, in
origine gli uomini erano tutti uguali e avevano come unica preoccupazione di
sfuggire al dolore. Gli dei, invidiosi di questa uguaglianza, spedirono il piacere sulla
terra e Prometeo donò ai nobili degli organi di senso più sviluppati, presupposti ad
accogliere il piacere. C’è anche il cambiamento del ruolo della donna, che prima era
solo strumento di riproduzione, poi si diede importanza alla sua bellezza.

In Parini, la condanna della nobiltà appare dura e inequivocabile, tuttavia l’intento


dell’opera non è quello di spingere alla sua eliminazione → il poeta mira ad educare
l’aristocrazia e a indicarle la via di un recupero dell’originaria funzione positiva che
svolgeva nella società. L’ideale di Parini era una nobiltà che facesse fruttare le
proprie terre accrescendo la prosperità comune e che, al tempo stesso, assumesse
una posizione attiva nella cultura e nell’amministrazione pubblica.
Nonostante l’atteggiamento di condanna nei confronti della nobiltà, è ravvisabile in
esso una sottile ambiguità. Infatti Parini indugia sugli aspetti della realtà
aristocratica, dedicandosi alla descrizione di una lunga serie di oggetti preziosi (vini,
stoffe, cibi) e di gesti, sguardi, intonazioni, come se fosse affascinato dall’eleganza e
dalla raffinatezza di quel mondo. Tale impressione è data anche dalle scelte
stilistiche di Parini: il poeta, pur trattando argomenti mediocri, utilizza un linguaggio
eletto, prezioso, aulico; usa di continuo l’aggettivo in funzione esornativa, che innalza
l’oggetto a cui si accompagna.

Il Vespro e La Notte
Nelle due ultime parti del Giorno (il Vespro e la Notte) emerge il diverso
atteggiamento del poeta verso il reale. Nel Vespro il precettore ha quasi del tutto
smesso di impartire precetti e si è trasformato in semplice narratore e descrittore, e
accompagna il giovin signore e la sua dama, dopo il corso, in visita ad un amico
malato e ad un’amica che ha appena avuto un attacco di nervi, suscitando infiniti
pettegolezzi. Nella Notte i due amanti si recano ad un ricevimento serale in casa di
un’anziana Dama. Qui essi non sono più al centro dell’attenzione del narratore, il
quale ora passa in rassegna i vari personaggi che popolano il salone. In queste due
ultime parti del Giorno la polemica anti-nobiliare si fa più tenue e sfumata, il
dramma sociale lascia luogo alla commedia mondana e alla satira di costume, e si
introducono note nuove, come la malinconia, il senso del declino dell’età, dello
svanire della bellezza e della forza vitale.
Venendo a mancare un forte spinta politica e civile, nel Vespro e nella Notte sembra
scomparire anche la volontà pedagogica e il proposito di educare e rigenerare una
classe in decadenza. Traspare da questi versi il fallimento del programma
illuministico e riformistico. A questo atteggiamento corrisponde l’accentuarsi di uno
stile classico, che emerge anche nelle correzioni apportate dal poeta al Mattino e al
Mezzogiorno. In conclusione, possiamo distinguere due versioni del Giorno: da un
lato il Mattino e il Mezzogiorno nelle stampe originarie del 1763 e del 1765, dall’altro
i loro rifacimenti e i frammenti del Vespro e della Notte. Le due redazioni sono il
prodotto di due momenti diversi della poesia di Parini e testimoniano due diversi
atteggiamenti ideologici e di gusto: il battagliero e fiducioso illuminismo giovanile,
con le sue arditezze stilistiche, e il più distaccato e deluso neoclassicismo della
maturità.

VITTORIO ALFIERI
Alfieri nacque ad Asti nel 1749 da una famiglia della ricca nobiltà terriera e ciò gli
permise di dedicarsi completamente alla letteratura, mantenendosi libero da ogni
forma di subordinazione. Nel 1758 fu mandato a compiere gli studi nella Reale
Accademia di Torino, e poco dopo giudicò duramente la formazione ricevuta,
definendo quegli anni un periodo di ineducazione.
Uscito dall’accademia, la sua irrequietezza lo spinse a compiere il Grand Tour,
diffuso tra i giovani aristocratici del tempo. Con questi viaggi prese coscienza delle
condizioni sociali e politiche dei vari paesi, provando disprezzo per l’Europa
dell’Assolutismo e grande interesse per paesi come l’Inghilterra e l’Olanda e per i
paesaggi nordici, desolati e orridi. Il suo rifiuto di ogni gerarchia non gli permise di
partecipare alla vita politica o militare: condusse quindi la vita oziosa di un giovin
signore, dedicandosi in piena solitudine all’attività letteraria.
Nel 1775 si colloca la conversione letteraria di Alfieri, il quale l’anno prima aveva
abbozzato una tragedia Antonio e Cleopatra. Ripensando a tale mano scritto, che
aveva dimenticato subito dopo la sua composizione, Alfieri scopre la somiglianza tra
la propria relazione con la Turinetti, da cui nasce il suo avvilimento e quella tra
Antonio e Cleopatra: si rende conto che proiettare i propri sentimenti nella poesia
sia l’unico mezzo per trovare un superamento dei propri tormenti. La tragedia venne
rappresentata a Torino nel 1775 e ottenne grande successo. Nello stesso anno iniziò
la stesura di altre tragedie, e ampliò il suo bagaglio culturale immergendosi nella
letteratura dei classici latini e italiani e nello studio della lingua italiana, per
impadronirsi di un linguaggio adatto.
Tra il 1785 e il 1792 soggiorna a Parigi, e se lo scoppio della Rivoluzione in un primo
momento eccita il suo spirito anti-tirannico, ben presto gli sviluppi della rivoluzione
suscitano il lui riprovazione e disgusto per quella che egli chiama falsa libertà. Nel
1792 tornò a Firenze, dove morì nel 1803.
Poetica
Le basi della formazione intellettuale di Alfieri sono ancora illuministiche, sensistiche
e materialistiche, tuttavia, nei confronti di tale cultura prova una certa insofferenza.
Alfieri rifiuta il freddo nazionalismo scientifico, che soffoca il forte sentire e spegne
quell’immaginazione da cui nasce la poesia. Mentre l’illuminismo mirava ad
un’equilibrata regolamentazione delle passioni, Alfieri esalta la dismisura, la
passionalità senza limiti e un culto della vita intensa, che innalza l’uomo al di sopra
della sua stessa natura. Inoltre, mentre l’illuminismo criticava fortemente la
religione tradizionale, Alfieri è mosso da un forte spirito religioso, che si manifestava
in un’oscura tensione verso l’infinito, in un bisogno di assoluto. Di conseguenza
Alfieri è del tutto estraneo all’orgoglio illuministico per le scoperte scientifiche, egli
si concentra sul senso dell’ignoto e del mistero, dinanzi a cui l’uomo può solo restare
scontento (illuminismo=ottimismo per le sorti dell’uomo/Alfieri=impotenza umana).
Alfieri si scaglia anche contro il cosmopolitismo degli illuministi, a cui contrappone
l’isolamento della propria individualità, che si sente straniera in ogni luogo; mentre
al filantropismo oppone il culto di un’umanità eroica, che dispregia il gregge di
uomini comuni e di schiavi che compone la maggioranza dell’umanità (titanismo,
Alfieri si sente superiore).
Sappiamo che Alfieri vagò a lungo per i paesi europei e che ovunque si scontrò con il
clima opprimente dell’assolutismo monarchico, trovandosi in urto sia con ciò che
esisteva (assolutismo) sia con ciò che era destinato a sostituirlo (la borghesia 
infatti rifiuta lo sviluppo economico che provocherebbe un aumento della borghesia,
ritenuta da lui una classe senza ideali). Nel pensiero di Alfieri si scontrano il bisogno
di affermazione totale dell’io e la percezione delle forze oscure che si oppongono a
questa espansione  ed è questo il titanismo alfieriano: un’ansia di infinita
grandezza che si scontra con tutto ciò che la limita e la ostacola. Tuttavia, Titanismo
e Pessimismo non sono propriamente tendenze opposte, ma due facce della stessa
medaglia. L’esasperata volontà di superare i limiti umani è seguita dalla coscienza
della propria impossibilità e ciò genera un senso di sconfitta e di impotenza.
Opere
Della tirannide: è un trattato composto nel 1777 e pervaso da un forte impeto
passionale. Alfieri definisce tirannide ogni tipo di monarchia che ponga il sovrano al
di sopra delle leggi, e sostiene che le tirannidi moderate, velando la brutalità del
potere, tendono ad addormentare i popoli; quindi, sono preferibili quelle estreme
ed oppressive, che suscitano il gesto eroico dell’uomo libero, portando alla
conquista della libertà attraverso la violenza. Inoltre, l’autore esamina le basi su cui
si appoggia il potere tirannico, e le individua:
- Nella nobiltà, docile strumento nelle mani del tiranno
- Nell’esercito, che opprime ogni possibilità di ribellione
- Nella casta sacerdotale, che educa il popolo a servire con obbedienza.
Il fine dell’opera è quello di dimostrare all’uomo libero come sopravvivere alla
tirannide e propone tre soluzioni:
1. Tenendosi lontano dal tiranno e dai suoi sostenitori, essendo così considerato
privo di virtù.
2. Riscattandosi con la scrittura, che diviene ripiego dell’azione. Infatti, nella
dedica Alla libertà, lo scrittore afferma che abbandonerebbe volentieri la
penna per la spada, cioè per l’azione diretta, ma dato che i tristi tempi negano
ogni libertà d’azione, guarda allo scrivere come un surrogato dell’agire.
3. Oppure, se l’uomo non vuole subire una tirannide è destinato alla morte,
infatti o si suicida da uomo libero, o uccide il tiranno andando in contro alla
morte.
La figura del tiranno e dell’uomo libero sono simili tra loro, in quanto entrambe sono
tese all’affermazione della loro individualità. Da ciò si può cogliere una segreta
ammirazione di Alfieri nella figura del tiranno, che, anche se in modo negativo, è un
uomo libero e la sua libertà non conosce vincoli.
Del principe e delle lettere: qui prevale il valore assoluto della scrittura. Sono 3 libri
composti nel 1786, volti ad esaminare il rapporto tra lo scrittore e il potere assoluto.
Mentre nella tirannide Alfieri proclamava la superiorità dell’agire sullo scrivere, ora
invece esalta la superiorità assoluta dello scrivere, che sostituisce totalmente il fare.
Sostiene, infatti, che ci voglia maggiore grandezza ad inventare e a scrivere una cosa,
piuttosto che ad eseguirla. Per questo motivo Omero è più grande d’Achille, in
quanto questo non sarebbe mai stato in grado di donare perenne fama a se stesso.
Il Misogallo: opera politica compiuta in prosa e in versi a seguito della delusione
della Rivoluzione francese (1794-1795). Il titolo è composto dal verbo greco misein
che significa odiare, e da Galli, che indica i francesi. L’opera esprime un forte odio
contro la rivoluzione e soprattutto contro lo spirito illuministico e i principi borghesi
che stava diffondendo. Alfieri, infatti, difendeva i privilegi dei nobili e riteneva
necessaria la presenza di un terzo stato (la classe subalterna). Il Misogallo è
importante perché in esso inizia a delinearsi l’idea di nazione, che sarà una delle
componenti principali del romanticismo.
La poetica tragica di Alfieri
Alfieri trova nell’impegno della scrittura tragica lo scopo che può dare un senso alla
sua vita. Tradizionalmente la tragedia rappresentava figure umane eroiche, adatte
per esprimere il titanismo alfieriano, ed era anche considerata come il genere più
difficile e sublime, che richiedeva un perfetto dominio degli strumenti espressivi.
Questi motivi costituivano una sfida per Alfieri, che vi vedeva l’occasione adatta per
l’affermazione di sé.
Alfieri si colloca in polemica nei confronti della grande commedia classica francese,
criticandone le eccessive lunghezze che rallentavano l’azione raffreddando
l’interesse, il patetismo sentimentale, l’andamento monotono e gli espedienti
romanzeschi. Secondo Alfieri, alla base dell’ispirazione poetica vi deve essere un
forte slancio passionale. Lo stile delle sue tragedie è rapido, conciso, essenziale,
capace di esprimere tutti il calore passionale del nucleo drammatico. Il poeta punta
su un ritmo duro, aspro e antimusicale.
Lo stesso Alfieri (nella Vita) spiega che l’elaborazione di ogni tragedia si articola in
tre momenti fondamentali, o meglio tre respiri: ideare, stendere e verseggiare.
- La prima fase consiste nell’ideare il soggetto della tragedia, distribuirlo in atti
e scene e fissare il numero dei personaggi.
- La seconda fase consiste nello scrivere per intero i dialoghi in prosa,
obbedendo all’impeto, senza selezionare i materiali.
- La terza fase, verseggiare, consiste nello stendere i dialoghi in versi e
selezionare, con riposato intelletto, i materiali buttati giù con impeto.
Il Saul
Tragedia composta nel 1782 e pubblicata a Parigi nel 1789 (a Pisa e a Firenze fu
recitata da Alfieri stesso nella parte di Saul). Strutturata in 5 atti, i versi sono per lo
più endecasillabi sciolti.
Trama: David, esule per volontà del re Saul, fa ritorno presso il suo sovrano per
aiutarlo nella guerra contro i Filistei. Saul lo accoglie inizialmente con benevolenza,
grazie alla mediazione dei figli Gionata e Micol (moglie di David). Tuttavia, il
consigliere del sovrano lo induce a vedere in David e nella casta sacerdotale
pericolosi avversari. Saul, quindi, decide di eliminare David e fa uccidere il sacerdote
Achimelech, che era sopraggiunto nell’accampamento. Mentre David fugge, i Filistei
attaccano a sorpresa durante la notte: Saul a questo punto si dà la morte.
Tempo e luogo: la vicenda si svolge nell’arco di un giorno nell’accampamento
israelita.
Personaggi: David, i due figli di Saul (Gionata e Micol) e il sacerdote Achimelech
sono portatori di valori positivi come lealtà, coraggio e religiosità. Essi tentano di
ricondurre alla ragione il sovrano, reso folle dal desiderio di potere. Ad essi si
contrappone il consigliere di Saul, che alimenta ira e gelosia. Saul, protagonista del
dramma, si contraddistingue per la sua solitudine: abbandonato da Dio e agitato da
un oscuro senso di colpa, non riconosce i veri aiutanti e li ostacola, giungendo alla
sua rovina.
Nel Saul entrano definitivamente in crisi l’individualismo e il titanismo alfieriano. Il
vecchio re d’Israele (Saul), prima dello scontro decisivo con i nemici Filistei, sente
tutto il peso dell’umana debolezza, che lo conduce a veri e propri deliri di follia. Saul
cerca di reagire a questo senso di sconfitta con un estremo gesto di ribellione a Dio,
ma subito si accorge della vanità del tentativo e va incontro alla morte, vista come
unica forma di liberazione dal suo tormento e come unico modo di ristabilire la sua
dignità. Con questa tragedia Alfieri giunge alla consapevolezza della reale miseria
della condizione umana. Adesso il titano scopre la sua intima debolezza: il nemico
non è più al di fuori dell’eroe, ma al suo interno.
Saul rappresenta una figura di eroe del tutto nuova: è un eroe profondamente
lacerato e perplesso. È un eroe maledetto su cui grava il peso di un’oscura colpa, che
genera in lui conflitti e tormenti angosciosi, e lo porta ad una sconfitta totale. In Saul
si ripresentano tratti di altri tiranni delle precedenti tragedie di Alfieri: il desiderio di
conquistare un potere illimitato, di affermare totalmente la propria volontà; ma la
novità consiste nel fatto che questa volontà titanica si scontra con un limite
invalicabile: la superiore volontà di Dio. Quindi, l’affermazione della propria
grandezza si trasforma in una sfida a Dio. Tale scontro dell’eroe con la dimensione
trascendente costituisce la novità clamorosa del Saul rispetto alla precedente
produzione, in cui dominano solo conflitti tra individui. Bisogna sottolineare che
Alfieri era figlio della cultura dei Lumi e non sentiva la tematica trascendente, ciò
però non toglie nulla alla tragicità del conflitto tra Saul e Dio. Perché sussista questo
conflitto non è necessario che la presenza di Dio sia una realtà oggettiva sentita
dall’autore, basta che sia sentita soggettivamente da Saul. Lo stesso Alfieri, nel
Parere sulla tragedia, afferma che il vero conflitto di Saul non è uno scontro con la
potenza di Dio, ma è tutto dentro di lui. Quello che Saul chiama Dio è la proiezione
del fondo oscuro della sua psiche e del suo senso di colpa, provocato dalla sua
smisurata volontà di potenza.
Il conflitto tragico che tradizionalmente opponeva l’eroe a forze esterne qui si
interiorizza: la tragedia si svolge tutta dentro la psiche dell’eroe. La tragedia si
concentra sull’esplorazione della zona buia dell’animo di Saul, in cui si urtano forze
contrastanti: tensione eroica e senso angoscioso della propria miseria, volontà di
potenza e spinte autodistruttive, amore e odio. Il Saul è l’interpretazione di una crisi
d’identità, di una scissione eroica dell’Io. Il personaggio alfieriano inizia a scoprirsi
come personaggio scisso.
L’esplorazione di questo fondo oscuro si presenta soprattutto nella prima scena del
secondo atto, quando il vecchio re, in un momento di abbandono, confida al suo
consigliere Abner la sua vita orribile, il suo male di esistere e il continuo oscillare tra
stati d’animo diversi. Sono questi i sentimenti che opprimono il titanismo di Saul,
destinando la sua tensione superumana alla sconfitta.
L’interiorizzazione del conflitto si manifesta anche nel rapporto con David che,
accanto allo scontro con Dio, costituisce l’altro tema dominante. Anche in questo
caso il conflitto è del tutto interno, perché il vecchio re non viene in urto con il
Davide reale, che gli è devoto e fedele, ma con un David immaginario, un fantasma
creato dalle sue ossessioni. Quindi, nella tragedia, c’è un David reale, eroe
esemplare, e un David costruito dalla follia del re. Anche questo “fantasma” di David
non è altro che Saul stesso: in David il vecchio re proietta l’immagine di sé da
giovane, forte e in armonia con Dio. Per questo Saul ha un atteggiamento
ambivalente verso David: lo ama in quanto vede nel giovane guerriero se stesso, ma
lo odia perché rappresenta ciò che non è più e mai più potrà essere.
La tragedia si presenta quindi come un grande monologo: Saul non parla mai
veramente con gli altri, parla solo con se stesso; i personaggi con cui entra in
relazione sono solo proiezioni delle sue ossessioni.
La vita scritta da esso e Le Rime: la principale fonte per la conoscenza della
personalità di Alfieri è costituita dall’autobiografia Vita scritta da esso, che
ricostruisce il delinearsi di una vocazione poetica, vista come il centro intorno a cui
ruota tutta l’esistenza, e nello stesso tempo esprime il disagio esistenziale e la
delusione storica propri dell’ultimo Alfieri.
Fortemente autobiografiche sono anche le Rime, composte lungo tutto l’arco
dell’esistenza del poeta. Esse nascono come sfogo legato a particolari occasioni
sentimentali, a luoghi e vicende concrete, e questa loro qualità di diario è segnalata
anche dalla costante indicazione di data e luogo. L’autore pubblicò una prima
raccolta nel 1789, la seconda uscì postuma nel 1804. Mentre i motivi e il lessico
richiamano il modello petrarchesco, il linguaggio di Alfieri è lontanissimo sia da
Petrarca sia dalla lirica settecentesca, puntando all’intensificazione espressiva. Così
come lo stile, anche i temi rivelano una sensibilità nuova, che si può considerare
preromantica. Temi principali: amore lontano e irraggiungibile, che provoca
tormento; tematica politica; polemica contro un’epoca vile e meschina; la morte,
che appare sia come unica possibilità di liberazione, sia come l’ultima prova in cui
bisogna dimostrare la grandezza dell’io; e la descrizione di un paesaggio tetro e cupo
in cui si rispecchia l’animo del poeta.
IL NEOCLASSICIMO (prende questo nome perché sono ravvisabili elementi nuovi
rispetto al classicismo).
Già negli ultimi decenni del 700 le scoperte archeologiche di Pompei e di Ercolano
avevano suscitato la curiosità e l’ammirazione per le forme dell’arte classica, a tali
scoperte si aggiunsero poi gli studi di Winckelmann, uno dei più grandi archeologi
ddell’epoca, il quale riteneva che l’arte e la letteratura dovessero mirare al bello
ideale, trasfigurando la realtà in forme perfette, in cui non ci fosse nulla di eccessivo,
e in cui il calore delle passioni si manifestasse come un’armonia pacata di linee,
forme e suoni.
A questo modo di guardare all’antico si aggiunse poi il classicismo rivoluzionario. I
protagonisti della Rivoluzione francese vedevano in Atene, Sparta e Roma un
modello di vita repubblicana libera, virtuosa e forte, che volevano fa rivivere nel
presente. Infatti, si identificavano negli eroi antichi e, prendendo ispirazione dai
ritratti ideali lasciati dallo storico greco Plutarco, si atteggiavano e parlavano come
loro. Questo classicismo rivoluzionario nell’età napoleonica si trasforma in
scenografia di parata. Non si celebrano le virtù repubblicane e libertarie, ma si tende
ad assimilare il regime napoleonico alle forme imperiali romane. Tuttavia, al di là di
questo Neoclassicismo scenografico, nell’età napoleonica si sviluppa un
Neoclassicismo dalle motivazioni più profonde e nuove, che accoglie la lazione di
Winckelmann. È il caso di Foscolo, in particolare nelle Grazie l’antico è visto come un
mondo di armonia, bellezza, serenità, che si va a contrapporre ad un presente
inerte, oscuro. Diviene quindi una sorta di alternativa alle delusioni politiche, al
dispotismo e alla ferocia della guerra.
IL PREROMANTICISMO
Negli ultimi decenni del 700 e nei primi dell’800 si riscontrano nella cultura italiana
anche tendenze che esteriormente appaiono opposte a quelle neoclassiche. Mentre
il gusto neoclassico è caratterizzato dalla compostezza e dalla calma, dalla serenità e
dal dominio del mondo passione e dalla contemplazione del bello oggettivo
(caratteristiche che troviamo nelle opere di scrittori neoclassici come Vincenzo
Monti e Foscolo), queste nuove tendenze si basano sull’esasperazione passionale e
soggettiva, sull’amore per il primitivo, per il barbarico e per l’esotico, su atmosfere
malinconiche dominate dalla presenza ossessiva della morte, e infine su una natura
tempestosa e desolata. Tendenze simili penetrano in Italia già a fine 700, dietro
suggestione di opere straniere che avevano larga diffusione in Europa. Il gusto del
sentimentale è legato soprattutto alla diffusione delle opere di Rousseau,
Richardson e Goethe. Proprio il romanzo di quest’ultimo deriva da un movimento
letterario attivo in Germania intorno al 1770, lo Sturm und Drang (impeto e
tempesta) una sorta di preannuncio del futuro Romanticismo. Questo gruppo era
caratterizzato da un cenacolo di giovani intellettuali ribelli, incentrati sulla
passionalità primitiva e selvaggia, da un’ansia di libertà assoluta che infrangesse ogni
limite segnato dalle leggi o dalle convezioni sociali. Da qui deriva il culto del genio,
delle grandi individualità, insofferenti ad ogni costrizione. Sul piano letterario
emerge il rifiuto di ogni classicismo, l’dea di arte come libera espressione senza freni
alla genialità individuale. Dall’Inghilterra si diffuse poi la moda della poesia
cimiteriale, che in Italia ebbe diffusione con Ippolito Pindemonte e con Foscolo.
Raggruppiamo queste manifestazioni culturali sotto il nome di Preromanticismo,
poiché i loro aspetti principali si ritroveranno, nei primi dell’800, nella letteratura
romantica. Bisogna dare importanza al suffisso pre, in quanto le tendenze esaminate
sono sintomi che preannunciano ciò che maturerà in seguito.
Neoclassicismo e Preromanticismo
Queste due tendenze si trovano compresenti negli stessi anni, entro la personalità di
uno stesso scrittore e, a volte, addirittura all’interno di una stessa opera. Pensiamo
al fatto che Foscolo è sia autore dell’Ortis, opera caratterizzata da una forte
veemenza passionale, sia autore delle Grazie, capolavoro del neoclassicismo
italiano.
Possiamo dire che Neoclassicismo e Preromanticismo sono fenomeno diversi che
scaturiscono da una stessa radice, da una stessa crisi di fondo. Tale crisi si presenta
in due fasi storiche:
1. La crisi dell’ancien regime negli anni 70/80 del 700
2. La crisi delle illusioni rivoluzionarie, delle speranze in una rigenerazione del
mondo, negli anni napoleonici.
In entrambi questi momenti si riscontrano, sul piano culturale, contraccolpi simili:
delusione, distacco dall’impegno civile, rifiuto della storia, fuga di un altrove diverso
dal presente. Entrambe vanno vista come la ricerca di un’alternativa al presente che
delude:
- Per il Neoclassicismo l’alternativa è l’ideale della bellezza e dell’armoni.
- Per il Preromanticismo l’alternativa è la profondità dell’io e la natura sentita in
comunione con la vita del soggetto.
VINCENZO MONTI
In Italia tra le diverse tendenze culturali, che caratterizzano il periodo compreso tra
la fine del 700 e gli inizi dell’800, trovano espressione, oltre che nell’opera di
Foscolo, in quella di Vincenzo Monti. Monti nacque nel 1754 in Emilia-Romagna e
l’esercizio letterario gli valse fin da subito la protezione di personaggi potenti. Grazie
al loro appoggio, infatti, ottenne una sistemazione a Roma ed entrò a far parte
dell’Accademia dell’Arcadia. Nella sia prima produzione prevale il gusto arcadico e
classicheggiante, anche laddove il poeta riprende tematiche preromantiche o esalta
con entusiasmo illuministico le conquiste della scienza. Monti però fu anche attento
alle mode culturali straniere del momento. Scoppiata la Rivoluzione francese,
espresse orientamenti ferocemente antirivoluzionari nella Bassvilliana, un poemetto
in cui sono descritti gli orrori rivoluzionari in Francia, in modi che richiamano
l’Arcadia lugubre e un certo gusto cupo e orrido di ascendenza preromantica.
L’avanzata degli eserciti napoleonici fece comprendere a Monti la necessità di
lasciare i vecchi protettori e di cercarne di nuovi. Nel 1797 fuggì da Roma e si rifugiò
a Milano, dove divenne cantore della Rivoluzione. Dello stesso anno è il Prometeo,
opera in cui Napoleone è celebrato come il nuovo Prometeo, eroe dell’incivilimento.
Dopo la vittoria napoleonica di Marengo, nel 1800, Monti riceve la cattedra di
Eloquenza a Pavia e diviene poeta ufficiale del Regno Italico, ottenendo cariche,
onori e potere: la produzione di questo periodo è tutta volta ad esaltare Napoleone.
In questi anni si colloca anche la traduzione dell’Iliade: è una tradizione lontana dallo
spirito del poema antico, tanto da poter essere considerata un’opera a sé.
Il ritorno degli Austriaci priva il poeta di molti onori, anche se il governo gli offre la
direzione della rivista “La biblioteca italiana” (rifiutata l’anno precedente da Foscolo,
che aveva scelto l’esilio). Monti, quindi, si adatta anche ai nuovi dominatori,
cercando di ottenerne i favori con una serie di componimenti celebrativi.
Nel 1816 si era aperta la polemica tra classicisti e romantici. Monti prese posizione
con i classicisti, anche se nella polemica intervenne molto più tardi, con il Sermone
sulla mitologia, dove respinse la ricerca romantica del vero e il gusto tetro della
scuola nordica. Il dato più evidente della personalità di Monti è senza dubbio la sua
disponibilità a cambiare collocazione politica; in un periodo di grande travaglio come
quello rivoluzionario e napoleonico, in cui tutti gli equilibri ideali, politici e militari
vennero continuamente messi in discussione, è sconcertante osservare la sua totale
mancanza di coerenza. Bisogna comunque dire che il poeta romagnolo espresse a
suo modo una forma di coerenza, incentrata sul ruolo che egli aveva scelto per sé fin
dall'inizio: il ruolo del poeta di corte, del letterato fedele alla tradizione del
Cinquecento e soprattutto del Seicento. Ebbe così un gran merito: creare un
"classicismo borghese italiano", il carattere di una cultura finalmente nazionale,
definita rispetto allo stile neoclassico internazionale.
UGO FOSCOLO
Nacque nel 1778 a Zante, una delle isole Ionie. L’essere nato in terra greca e da
madre greca rivestì molta importanza per il poeta, che per tali origini si sentì
profondamente legato alla civiltà classica. L’isola natia rimase sempre nella sua
memoria simbolo di bellezza, serenità e fecondità. Con la famiglia si trasferì in
Dalmazia, e, alla morte del padre, Foscolo si spostò con la madre a Venezia.
Conoscendo poco la lingua italiana, si gettò negli studi creandosi rapidamente una
notevole cultura sia classica sia contemporanea. Dal punto di vista politico,
sosteneva i principi della Rivoluzione francese, assumendo posizioni egualitarie e
libertarie. Per questo motivo ebbe problemi con la Repubblica di Venezia e si rifugiò
sui colli Euganei. Foscolo si arruolò anche nelle truppe della Repubblica Cispadana e
pubblicò un’ode A Buonaparte liberatore. Tornò a Venezia con lo stabilirsi di un
governo democratico e si impegnò attivamente nella vita politica. Ma, dopo che
Napoleone aveva ceduto la Repubblica Veneta all’Austria con il Trattato di
Campoformio, lasciò di nuovo Venezia e si rifugiò a Milano. Il tradimento di
Napoleone fu un trauma che segnò profondamente l’esperienza di Foscolo. Con la
sconfitta definitiva di Napoleone a Waterloo e il rientro a Milano degli Austriaci, fu
offerta a Foscolo la direzione di una rivista culturale “Biblioteca Italiana”, con cui il
nuovo regime cercava di attirare il consenso degli intellettuali. Foscolo rifiutò e fuggì
in esilio prima in Svizzera, poi a Londra. Qui le sue condizioni economiche si fecero
sempre più gravi a causa del suo stile di vita dispendioso. Negli ultimi tempi,
ammalato e in miseria, fu costretto a vivere nei sobborghi più poveri di Londra. Morì
nel 1827, a 49 anni, i suoi resti furono portati in Italia e sepolti a Santa Croce.
POETICA
Nella formazione di Foscolo coesistono le componenti tipiche della cultura del suo
tempo: la cultura classica e le più moderne sollecitazioni preromantiche. Tra le
componenti filosofiche a cui si affianca, troviamo il pessimismo e il materialismo.
Foscolo abbraccia le concezioni più aspramente pessimistiche di Machiavelli e del
filosofo inglese Hobbes, che lo portano a credere nell’originaria malvagità
dell’uomo, in perenne conflitto con gli altri uomini, per imporre il suo potere. A
questo pessimismo contribuisce il Materialismo. Il materialismo è la posizione di chi
ritiene che tutta la realtà sia materia, ed esclude quindi lo spirito, se non come
prodotto della materia stessa. Da queste posizioni deriva la negazione del
trascendentale e della sopravvivenza dell’anima dopo la morte. Il mondo, quindi,
non è retto da un’intelligenza superiore, ma da una cieca forza meccanica, e la
morte segna l’annullamento totale dell’individuo. Tuttavia, la visione eroica ed attiva
della vita, che è propria di Foscolo, lo induce a cercare alternative.
Tra i valori alternativi, Foscolo propone la bellezza, che si trova nella letteratura e
nelle arti. Ad esse Foscolo assegna il compito di depurare l’animo dell’uomo dalle
passioni, di consolarlo dalle sofferenze e dalle angosce del vivere. Inoltre,
rasserenando e purificando l’animo dell’uomo, lo rendono più umano e lo
allontanano dalla condizione feroce. Arte e letteratura assumono così una funzione
civilizzatrice.
Le Ultime lettere di Jacopo Ortis
La prima opera importante di Foscolo fu un romanzo, Ultime lettere di Jacopo Ortis.
Tre redazioni:
1. Prima redazione fu parzialmente stampata a Bologna nel 1798, ma restò
interrotta per le vicende belliche. Lo stampatore per poter vendere il libro lo
face concludere da un certo Angelo Sassoli.
2. Il romanzo fu ripreso da Foscolo e pubblicato, con profondi mutamenti, nel
1802.
3. Su di esso Foscolo vi ritornò durante gli anni dell’esilio e lo fece ristampare nel
1816 e nel 1817 con ritocchi e aggiunte.
L’Ortis è dunque un’opera giovanile, ma anche un’opera che Foscolo sentì come
centrale nella sua esperienza. Si tratta di un romanzo epistolare, il racconto si
costruisce attraverso una serie di lettere che il protagonista scrive all’amico Lorenzo
Alderani. Il modello a cui Foscolo guarda è soprattutto I dolori del giovane Werther
di Goethe, che tratta di un giovane che si suicida per amore di una donna già
destinata come sposa ad un altro. Da Goethe riprende anche il nucleo tematico più
profondo: la figura di un giovane intellettuale in conflitto con un contesto sociale in
cui non può inserirsi. Foscolo riprende questo nucleo tematico, sviluppandolo in
relazione alle caratteristiche del contesto italiano dei suoi anni.
Trama: Jacopo è un giovane patriota che, dopo la cessione di Venezia all’Austria con
il Trattato di Campoformio, si rifugia sui colli Euganei per sfuggire alle persecuzioni.
Qui si innamora di Teresa, ma il suo è un amore impossibile perché la giovane è già
promessa a Odoardo, esatta antitesi di Jacopo. La disperazione amorosa e politica
spinge Jacopo a un pellegrinaggio per l’Italia. La notizia del matrimonio di Teresa lo
riporta in Veneto, dove sceglie di suicidarsi.
Il conflitto sociale, che nel Werther si misura sul piano privato, qui si trasferisce
anche su un piano politico. Mentre il dramma di Werther è quello di non potersi
identificare con la sua classe di provenienza (borghesia), il dramma di Jacopo
consiste in un senso di mancanza, il non avere una patria, un tessuto sociale e
politico in cui inserirsi. In Jacopo c’è la disperazione che nasce dalla delusione
rivoluzionaria, dal vedere tradite tutte le speranze patriottiche e democratiche. Non
essendovi alternative sul piano della storia, l’unica via che si offre ad Ortis per uscire
da questa situazione negativa e immodificabile è la morte. Pur nascendo da una
situazione così disperata e approdando ad una conclusione così negativa, l’Ortis si
cimenta anche in una ricerca di valori positivi: la famiglia, l’eredità classica, la poesia.
Questi motivi saranno sviluppati nelle opere successive, soprattutto nella grande
sintesi dei Sepolcri.
Stile: l’opera è scritta in una prosa aulica, pervasa da una continua tensione al
sublime; la sintassi è complessa e segue il modello classico.
LE ODI E I SONETTI
Foscolo iniziò a scrivere fin da ragazzo odi, sonetti e altre composizioni di vario
metro. Di tutta la sua produzione, nel 1803 il poeta pubblicò le Poesie, che
comprendeva solo 2 odi e 12 sonetti.
Le due odi: A Luigia Pallavicini caduta da cavallo e All’amica risanata, risalgono al
periodo di scrittura dell’Ortis, ma rappresentano tendenze opposte. Mentre l’Ortis
rimanda a tematiche di tipo preromantico, le Odi presentano tendenze più
neoclassiche. Al centro di entrambe le odi vi è il vagheggiamento della bellezza
femminile, i canoni della scultura e pittura neoclassica, ricorrono continui rimandi
mitologici e il lessico è aulico e sublime. Mentre l’ode a Luigia Pallavicini conserva
maggiormente un carattere di omaggio galante ad una bella donna, l’ode All’amica
risanata ha ambizioni più alte e vuole proporsi come un discorso filosofico sulla
bellezza ideale e sul suo effetto di purificare e rasserenare l’animo inquieto.
I sonetti sono più vicini alla materia autobiografica e alla passionalità dell’Ortis. Tra
questi sonetti, spiccano Alla sera, A Giacinto, In morte del fratello Giovanni. In essi
vengono ripresi i temi centrali dell’Ortis: la proiezione del poeta in una figura eroica
tormentata, il conflitto con il reo tempo, il nulla eterno come unica alternativa,
l’impossibilità di trovare un appoggio stabile. Tuttavia, oltre al motivo nichilistico,
compare anche quella ricerca di valori positivi tipica dell’Ortis (valori come il
rapporto co la terra materna, il mito antico, il valore eternatore della poesia).
DEI SEPOLCRI
I Sepolcri sono un poemetto in endecasillabi sciolti, sotto forma di epistola poetica
indirizzata all’amico Ippolito Pindemonte, e riprende una discussione avvenuta con
quest’ultimo a Venezia nel 1806. La discussione riguarda l’editto napoleonico di
Saint-Cloud, con cui si imponevano le sepolture al di fuori dei confini delle città.
Pindemonte, da un punto di vista cristiano, sosteneva il valore della sepoltura
individuale, mentre Foscolo, da un punto di vista materialistico, aveva negato
l’importanza delle tombe, poiché la morte produce la totale dissoluzione dell’essere.
Nel carme, pubblicato nel 1807, Foscolo riprende la discussione, riprendendo
inizialmente le tesi materialistiche sulla morte, ma superandole con altre
considerazioni che rivalutavano il significato delle tombe. Questa occasione fu lo
stimolo per il superamento del nichilismo, centrale nell’esperienza dell’autore.
Anche i Sepolcri hanno al centro il motivo della morte, ma viene superata l’idea che
questa sia semplicemente un nulla eterno. Foscolo propone come alternativa
l’illusione di una sopravvivenza dopo la morte, sopravvivenza garantita dalla tomba,
che conserva il ricordo del defunto presso i vivi. La tomba, quindi, assume per
Foscolo un valore fondamentale nella civiltà umana: è il centro degli affetti familiari
e dei valori civili, tramanda la memoria dei grandi uomini e delle azioni eroiche,
spingendo alla loro imitazione. Mentre l’Ortis si chiudeva con il suicidio del
protagonista, che escludeva ogni possibilità di intervento, ora Foscolo attraverso
l’illusione introduce la possibilità di un riscatto dell’Italia, grazie alla funzione
esercitata dalle memorie del passato. I Sepolcri, pur avendo alle spalle il genere
della poesia cimiteriale, non possono essere ridotti in tale ambito, lo stesso Foscolo
lo definisce un carme di poesia civile.
Linguaggio: estremamente elevato e aulico, il lessico rimanda alla tradizione della
poesia classicheggiante ed in particolare al modello di Parini e Alfieri.
Le Grazie: Foscolo lavorò a più riprese al progetto di un inno alle Grazie, che prese
successivamente la forma di tre inni dedicati rispettivamente a Venere, Vasta e
Pallade. L’opera, rimasta incompiuta, si collega ai presupposti neoclassici delle Odi,
sia nel disegno concettuale (incentrato sull’idea di bellezza di cui le Grazie sono
simbolo) sia nello stile armonioso e capace di evocare immagini vivide.

Il Romanticismo
Le poetiche romantiche europee si contrappongono nettamente alla concezione
della letteratura che aveva dominato precedentemente in Europa e che era ispirata
a principi classicistici. La poetica classicistica si fondava essenzialmente sul principio
di imitazione della natura  siccome la natura è immutabile, lo è anche l’arte.
Esistono quindi canoni terni e immutabili del bello e una volta raggiunta la
perfezione, non resta che cercare di riprodurla. Deriva da qui il principio
dell’imitazione letteraria, che consiste nell’imitare i modelli consacrati. La
composizione letteraria è quindi un’attività controllata dalla ragione.
Al contrario, invece, la poetica romantica rifiuta decisamente regole, modelli e
generi. La poesia non è più un esercizio razionale, ma libera ispirazione individuale,
assoluta soggettività. Il concetto di ispirazione allude ad uno spirito, ad una sorta di
divinità che parla per bocca del poeta. Di conseguenza, l’arte non è imitazione, ma
espressione della soggettività libera, e il principio d’imitazione viene sostituito dal
culto dell’originalità: il poeta deve dire ciò che ancora non è mai stato detto e deve
trasferire nell’opera il suo inconfondibile carattere individuale. Da qui il culto della
spontaneità e dell’autenticità. Per questi motivi, alla compostezza del classicismo, si
preferiscono l’eccesso, la disarmonia; alla perfezione formale si preferisce una
forma disordinata, irregolare. Questa disarmonia formale è l’espressione di
un’intima lacerazione che, come indica Schlegel, deriva dal cristianesimo: la visione
cristiana, infatti, proponendo l’idea del peccato originale, ha dato all’uomo il senso
di una perdita della totalità originaria e una nostalgia di infinto, per questo l’arte
romantica tende al vago e all’indeterminato.
Il movimento romantico in Italia
L’occasione che diede l’impulso al formarsi di un movimento romantico in Italia fu la
pubblicazione di un articolo di Madame de Stael sulla Biblioteca Italiana nel 1816,
dal titolo Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni, in cui la scrittrice criticava la
decadenza della cultura italiana contemporanea e invitava gli italiani ad uscire dal
loro culto del passato. L’articolo suscitò subito violente reazioni da parte dei
classicisti (ricordiamo Pietro Giordani), che, mossi da intenti patriottici, si battevano
in difesa delle tradizioni culturali italiane, che temevano potessero essere snaturate.
Alcuni intellettuali più aperti alle innovazioni, definiti “romantici”, intervennero in
difesa dell’articolo della Stael. Nel corso dello stesso 1816 uscirono numerosi saggi,
oggi considerati come “manifesti del Romanticismo italiano”.
In opposizione ai classicisti, i romantici affermavano l’esigenza di una cultura
rinnovata e moderna, che non si rivolgesse solo alla cerchia chiusa ei letterati, ma ad
un pubblico più vasto, al “popolo”, che nel linguaggio del tempo indicava i ceti medi.
Per questo occorreva mettere da parte la mitologia classica e affrontare argomenti
vivi nella coscienza contemporanea, capaci di suscitare l’interesse del pubblico
popolare, e abbandonare il linguaggio aulico, ormai lingua morta.
I romantici italiani erano però lontani anche dalle soluzioni estreme del
Romanticismo europeo e ne rifiutavano sia le tematiche irrazionali e tenebrose sia
gli eccessi di anarchia formale. Le loro posizioni erano molto moderate, sostenevano
che le funzioni della fantasia dovevano poggiarsi sulla reale natura delle cose e degli
uomini. Il loro obiettivo era una letteratura che si ispirasse al vero, allontanandosi
sia dai vuoti formalismi dei classicisti, sia alle evasioni fantastiche nei romantici
nordici, e puntando a fini di utilità civile e morale.

ALESSANDRO MANZONI
Alessandro Manzoni nacque a Milano il 7 marzo 1785 ed è considerato uno dei più
importanti letterati italiani. Tra le sue opere più importanti ricordiamo I Promessi
Sposi, Le Odi Civili, in cui è racchiusa la poesia Il Cinque Maggio, e gli Inni Sacri.
Alessandro Manzoni nasce a Milano da Giulia Beccaria, figlia di Cesare Beccaria,
autore del Dei delitti e delle pene, e dal conte Pietro Manzoni. All’epoca la gente
pensava malignamente che il vero padre di Alessandro fosse Giacomo Verri (fratello
di Pietro e Alessandro), con cui Giulia aveva una relazione. Fra il 1791 e il 1801
Alessandro frequentò diversi collegi, prima di rientrare nella casa paterna. Nel
frattempo, la madre, separatasi dal marito, si era trasferita a Parigi con il conte Carlo
Imbonati. La madre lo invitò a trasferirsi a Parigi, dove non poté incontrare
Imbonati, morto prematuramente: a lui dedicò il poemetto Versi in morte di Carlo
Imbonati, il suo debutto pubblico come poeta. Da Parigi tornò diverse volte in Italia
con la madre. Nel 1807 conobbe Enrichetta Blondel, di fede calvinista, che sposò
andando a vivere con lei e la madre a Parigi, dove nacque la primogenita Giulia. Sul
suo ritorno alla fede cattolica Manzoni fu sempre molto riservato (è noto il racconto
di aver perso di vista la moglie durante una festa e averla ritrovata dopo aver fatto
un voto alla madonna). Con l’avvio della Restaurazione e il rientro degli austriaci a
Milano, Manzoni visse, in particolare nel 1817, una profonda crisi politica, religiosa,
esistenziale e psicofisica, da cui lentamente uscì per gettarsi in un periodo di
straordinario fervore creativo.
Nel giro di 10 anni compose diverse opere, tra cui il Fermo e Lucia, corretto poi nei
Promessi sposi del 1827. Dopo il 1827 Manzoni si dedicò in modo particolare agli
studi linguistici, filosofici, storici e letterari. Insoddisfatto del linguaggio dei Promessi
sposi e alla ricerca dell’unità linguistica italiana, provvide al rifacimento del romanzo,
uscito in edizione definitiva nel 1840-42.
I PROMESSI SPOSI
Alessandro Manzoni ha impiegato ben ventuno anni della sua vita nella stesura del
romanzo di tutti i tempi, un’opera nata per deliziare, ma non solo. Uno degli obiettivi
dello scrittore milanese, è stato quello di creare un libro che potesse essere
compreso da una fascia di lettori molto ampia, uno scritto capace di dare
informazioni storiche e da cui poter trarre un insegnamento morale. A I promessi
sposi va conferito il merito di aver fatto cultura a ogni livello, trovando adattamento
su diversi piani di lettura e supportando la creazione di una lingua italiana unitaria.
La genesi: Nell’aprile del 1821 il Manzoni inizia la stesura del romanzo, che
terminerà nel 1823, al quale dà il titolo provvisorio di Fermo e Lucia. Tuttavia, il libro
non soddisfa pienamente lo scrittore, che ne inizia il rifacimento a marzo 1824. Il
Manzoni decide di eliminare alcuni fatti storici ritenuti inutili e alcune vicende
troppo patetiche, dando vita così a tre volumi che denomina I promessi sposi.
L’opera viene pubblicata nel 1827 e l’edizione dell’epoca prende il nome di
Ventisettana. Manzoni però non si ritiene ancora soddisfatto: è cosciente del fatto
che il popolo italiano necessita di una lingua unitaria ed è convinto che la soluzione
risieda nella lingua fiorentina parlata, quella delle classi colte. Il suo viaggio a Firenze
risolve il grande dilemma. Nel 1840 viene così pubblicata la seconda e definitiva
edizione del romanzo, la Quarantana (edizione a fascicoli).

Quindi 3 edizioni:
1. 1821-1823  Fermo e Lucia
2. 1827  I promessi sposi
3. 1840-1842  edizione definitiva

Mentre tra le ultime due edizioni vi sono essenzialmente differenze linguistiche, in


obbedienza a quell’idea della fiorentinità della lingua che Manzoni elaborò dopo il
1827, la prima redazione, Il Fermo e Lucia, presenta differenze profonde.
Innanzitutto:

 Ci sono differenze nella distribuzione delle sequenze narrative sull’arco


dell’intreccio. Nel Fermo si ha prima tutto il blocco delle peripezie di Lucia, poi
quelle di Fermo.
 Ci sono personaggi che hanno una fisionomia completamente diversa da
quella della redazione definitiva: il Conte del Sagrato, che corrisponde
all’Illuminato, non è un personaggio di grande statura spirituale, ma un tipico
personaggio secentesco. Anche Lucia è diversa, è più realistica, più legata ad
una determinata condizione sociale, è una tipica campagnola lombarda del
Seicento, nei modi, nella mentalità e nel linguaggio.
 Diversa è anche l’impostazione del racconto: nel Fermo l’autore ricorre in più
larga misura al documento storico e realistico e vuole fornire un preciso
quadro di costume. Invece, nei promessi sposi, tutto il materiale non narrativo
è fortemente ridotto.
 Infine, nel Fermo ci sono posizioni critiche e polemiche più aspre e secche,
mentre nei Promessi Sposi le posizioni dell’autore sono più sfumate e
dissimulate sotto il velo dell’Ironia.

La scelta del romanzo: fu una scelta innovativa e di rottura rispetto ai canoni del
tempo. Il romanzo risponde perfettamente alla poetica del vero e dell’utile, e
consente di rappresentare la realtà senza le astrazioni e gli artifici convenzionali
propri della letteratura classicistica. Inoltre, non si rivolge solo alla casta chiusa dei
letterati, ma ad un pubblico più vasto, perché attraverso la forma narrativa e un
linguaggio accessibile, suscita l’interesse del lettore comune. Manzoni nel romanzo
sceglie di rappresentare una realtà umile, ignorata dalla letteratura classica o vista
soltanto in luce comica. Sceglie come protagonisti due semplici popolani della
campagna lombarda e rappresenta le loro vicende in tutta la loro profonda serietà e
tragicità (la rappresentazione seria della realtà quotidiana è il tratto che meglio
caratterizza il moderno realismo europeo). Inoltre, Manzoni, in opposizione alla
tendenza classica di trasformare i personaggi in tipi generali, rappresenta individui
dalla personalità unica, estremamente complessa e mobile, rivolando quella
tendenza all’individuale e al concreto che è propria della cultura borghese moderna.
Più propriamente I Promessi Sposi sono un romanzo storico (forma che in quel
momento gode di grande fortuna in Europa grazie a Scott). Manzoni si propone di
offrire un quadro di un’epoca del passato ricostruendo tutti gli aspetti della società; i
protagonisti non sono le grandi personalità storiche, ma personaggi inventati, di
bassa condizione sociale, quelli di cui la storiografia non si occupa. I grandi
avvenimenti e gli uomini famosi costituiscono lo sfondo delle vicende vissute da
questi personaggi  in tal modo la storia viene vista dal basso.
La società di cui Manzoni vuole fornire un quadro storico nel suo romanzo è quella
lombarda del 600 sotto la dominazione spagnola, ed è un quadro fortemente
polemico. Manzoni si colloca nei confronti del passato con l’atteggiamento
dell’illuminista acutissimo nel cogliere ingiustizie e irrazionalità, e definisce il 600
come il trionfo di tutti questi valori negativi.
Bisogna notare che questa ricostruzione critica del passato ha anche valenze
politiche riferite alla situazione presente. Nel marzo del 1821 si verificano i moti
liberali, che Manzoni segue con fervore e speranza. Falliti i moti, Manzoni inizia la
stesura del suo romanzo storico. Quindi nel momento in cui la borghesia subisce una
momentanea battuta d’arresto, Manzoni risale al passato per offrire alle nascenti
forze borghesi, attraverso la critica della società del 600, il modello di una società
futura da costruire.
Le linee fondamentali di questo modello di società si possono ricavare guardando il
quadro polemico della Lombardia spagnola presente nel romanzo. Le esigenze
principali della società sono un saldo potere statale, una legislazione razionale ed
equa, un’attenta politica economica e un’organizzazione sociale giusta.
Trama: Lucia Mondella ed Enzo Tramaglino vogliono sposarsi. A guastare la loro
felicità, arriva don Rodrigo, il signorotto che ha messo gli occhi su Lucia. La cattiveria
dell’uomo, nobile di casato ma non di animo, si spinge oltre: due bravi ai suoi ordini,
minacciano don Abbondio e gli impediscono di celebrare le nozze. Interviene anche
padre Cristoforo, il padre spirituale di Lucia, ma don Rodrigo non vuole saperne di
cedere. Con l’aiuto dell’Avvocato Azzeccagarbugli, i giovani organizzano un
matrimonio a sorpresa, ma l’intento fallisce sul nascere. I bravi provano proprio quel
giorno a rapire Lucia, ma il loro tentativo fortunatamente non va in porto. Su
suggerimento di padre Cristoforo i ragazzi scappano. Renzo va a Milano e Lucia a
Monza. Le cose non vanno per il verso giusto nemmeno questa volta: Renzo senza
volere partecipa ai tumulti di San Martino ed è costretto a rifugiarsi da suo cugino a
Bergamo. Lucia viene tradita da chi la ospita, Gertrude, la monaca di Monza e
consegnata a don Rodrigo. La ragazza viene però salvata e liberata dall’Innominato,
che dopo un lungo colloquio con Lucia e con il cardinale Borromeo, si converte alla
fede. Tutto sembra sistemarsi: quello che nessuno si aspetta è l’arrivo della peste,
portata dai lanzichenecchi. Sia Renzo che Lucia si ammalano, ma guariscono e si
ritrovano davanti a padre Cristoforo nel lazzaretto che ospita tutti gli ammalati. Don
Rodrigo ormai è morente e i due giovani lo perdonano: Lucia confessa al suo
innamorato, che durante la notte del rapimento ha fatto voto di castità. Renzo è
disperato, ma padre Cristoforo spiega ai ragazzi che un voto fatto in un momento di
paura non è valido. Finalmente i giovani possono sposarsi: dal loro matrimonio
nasce una bimba che si chiama Maria.
PERSONAGGI
1. L’Innominato è un personaggio misterioso, nulla si conosce di lui, tanto da
non dargli né un nome né un cognome. Nasce come nemico, trasformandosi
poi nella figura determinante per lo svolgimento del lieto fine. In realtà
L’Innominato ha un’identità ben precisa, sebbene il Manzoni non ne faccia
mai il nome. Secondo lo storico Cesare Cantù, Alessandro Manzoni crea il
personaggio ispirandosi a Francesco Bernardino Visconti dei Visconti di
Brignano. Bernardino Visconti è un bandito, capo di ventisei bravi e si macchia
di gravi fatti criminali. Viene soprannominato il Conte del Sagrato, proprio
come L’Innominato in Fermo e Lucia, per la malvagia abitudine di far uccidere
le sue vittime sul sagrato della chiesa. Nel 1619, in occasione della sua visita
pastorale, incontra il cardinale Federigo Borromeo, con il quale parla per circa
due ore. Questo è il momento della redenzione: finalmente il bandito
comprende tutti i suoi errori e si pente. Alessandro Manzoni, quindi, riprende
tutto da Bernardino Visconti per disegnare i contorni dell’Innominato,
comprese le angherie commesse e la voglia di riscatto. Dopo il rapimento di
Lucia e una notte tormentata, L’Innominato viene informato della visita del
cardinale Borromeo e vuole parlargli. Ecco il pentimento: dalle tenebre alla
luce.
2. Il cardinale Borromeo arcivescovo di Milano, raccoglie la confessione
dell’Innominato, favorendo così la sua conversione. Manzoni si ispira alla
reale figura di Federigo Borromeo, patriarca milanese. Durante la peste del
1630, la sua presenza accanto agli ammalati è fondamentale, anche se non si
astiene dal credere agli untori e dal partecipare a riti di stregoneria. Ne I
promessi sposi, il Manzoni elogia la figura del cardinale, sia per la conversione
dell’Innominato, in seguito alla quale Lucia viene. Federigo Borromeo, nel
romanzo, infatti, rappresenta l’eccezione: l’unico personaggio potente, di cui il
romanziere può parlare bene, che non si risparmia nell’aiutare gli altri, al
contrario dell’alta aristocrazia, che all’interno della storia si macchia di gravi
colpe.
3. Padre Cristoforo è la più importante figura religiosa de I promessi sposi, uomo
di carità e coraggio, che ricopre un ruolo importante nelle vicende cruciali
della storia. In Fermo e Lucia, il personaggio di padre Cristoforo è già
presente, sotto il nome di padre Galdino. Questo particolare avvalora la tesi
secondo la quale il Manzoni, per la creazione del personaggio, si sia ispirato a
Cristoforo Picenardi, padre cappuccino originario di Cremona e vissuto agli
inizi del 1600, dalla gioventù decisamente discutibile, proprio come il padre
Cristoforo del romanzo, (il giovane Lodovico, aristocratico difensore degli
oppressi). Padre Picenardi presta la sua assistenza agli ammalati del
lazzaretto, dove a sua volta si ammala e muore di peste. Padre Cristoforo è
molto presente nel poema e soprattutto nei punti fondamentali e di svolta
della storia.
4. La monaca di Monza: Il Manzoni modifica palesemente la storia di Gertrude,
adattandola al racconto. Si comprende comunque che la giovane è figlia di
nobili e che la sua decisione di prendere i voti è dettata dalla volontà
famigliare. Diventata suora Gertrude sfoga tutta la sua frustrazione sulle
educande, iniziando quasi per protesta una relazione clandestina con un
giovane scapestrato a cui il Manzoni dà il nome di Egidio. Quando Lucia e
Agnese entrano in convento già il primo omicidio è avvenuto e in qualche
modo la monaca sembra, comunque, prendere a cuore la causa di Lucia, ma
Egidio, pagato dall’Innominato la convince a rendersi complice del rapimento
della povera ragazza. La storia di Gertrude è il simbolo del male che è radicato
nella nobiltà profondamente materialista: una ragazza costretta a prendere il
velo per non perdere tutti i vantaggi che la sua condizione aristocratica le
consente. Una ricchezza e un agio ai quali la donna è legata senza volervi
rinunciare, a costo di perdere la vita stessa.
I promessi sposi: conclusioni
I promessi sposi, oltre che narrare fatti storici direttamente e indirettamente
attraverso il racconto dell’amore di Renzo e Lucia, è un libro che offre importanti
spunti di riflessione. Alessandro Manzoni, tra le righe del suo romanzo, punta il dito
contro il male di cui la storia è piena e sottolinea quanto la sofferenza dei puri sia da
sempre stata ingiusta e inutile. Il male è presente e radicato nell’animo di molti
uomini e secondo il grande romanziere, l’unico rimedio al quale aggrapparsi è la
fede, unico veicolo di salvezza. Nulla può la forza dell’uomo, contro il male che lo
attacca, quel male storico che spiazza e spezza l’umanità. Renzo e Lucia al termine
delle loro sofferenze avranno conosciuto il male subito e il male inferto. Avranno
compreso quanto le tenebre siano avvolte da un alone di mistero e siano
necessariamente parte integrante della vita dell’essere umano. Da qui nasce il
pessimismo manzoniano in merito all’incapacità dell’uomo di agire correttamente e
razionalmente. Il poema, infatti, manca di un finale idilliaco, ma consegna al lettore
una situazione di pace e serenità che nasce da un lungo confronto con il dolore.
L’unica svolta positiva del romanzo è data dal tema della conversione, quel contatto
tra il divino e l’umano che dona il bene e allevia le sofferenze. La Provvidenza è
quasi considerata un personaggio, un’eroina, di cui non è dato sapere il modo di
agire, ma è certo che alla fine premierà. Degna di nota è un’ultima considerazione:
alla base dell’opera ritroviamo un autore pessimista, un narratore che spesso fa
dell’ironia su tale pessimismo e due protagonisti che vivono nell’idillio religioso. Un
poema per certi versi contradittorio I promessi sposi, un libro cattolico e storico, con
una progettualità sociale, che va al di là di un’unica reale problematica,
abbracciando i mali e le sofferenze comuni, racchiusi sotto un unico denominatore
di salvezza: la fede.
L’IRONIA
L’ironia genera un atteggiamento di distacco da ciò di cui si tratta, ma può rivestire
varie funzioni, tra loro diverse. Nel romanzo di Manzoni troviamo:

 L’autoironia  in momenti in cui l’autore guarda con distacco se stesso e la


propria opera. Ciò avviene nell’Introduzione, dove l’autore mette
ironicamente in dubbio l’utilità stessa della propria opera; mentre in un altro
punto del racconto allude ai “25 lettori” del romanzo, usando un’iperbole al
rovescio per indicare lo scarso numero di coloro che suppone lo leggeranno.
Da qui si può scorgere la sottile presa di distanza dello scrittore dalla
letteratura, che, anche se mira al vero, rischia di essere oziosa e inutile.
 Ironia rivolta ai lettori  come nelle pagine conclusive del romanzo, in cui il
narratore si astiene di raccontare la vita tranquilla e felice dei due sposi
perché provocherebbe noia.
 Ironia nei confronti dei personaggi  nei confronti degli umili è un’ironia
bonaria, affettuosa, mentre nei confronti dei potenti si trasforma in sarcasmo
impietoso. L’ironia non colpisce mai Lucia, che è un personaggio troppo
sublime agli occhi dello scrittore.

GIACOMO LEOPARDI
Nacque nel 1798 a Recanati (Marche), ai tempi un borgo dello Stato Pontificio. Il
padre era un uomo colto, che possedeva una biblioteca notevole, ma di una cultura
attardata e accademica, mentre la madre era una donna dura e autoritaria, priva di
confidenza e di affetto. Giacomo, in questo ambiente bigotto e conservatore, fu
istruito inizialmente da precettori ecclesiastici, ma ben presto continuò i suoi studi
da solo, chiudendosi nella biblioteca del padre, per quei sette anni di studio matto e
disperatissimo: in breve tempo imparò il latino, il greco e l’ebraico. Tra il 1815 e il
1816 avviene la sua conversione “dall’erudizione al bello” e comincia a leggere
autori moderni. Tramite la lettura della de Stael viene a contatto con la cultura
romantica. Un momento fondamentale della sua formazione intellettuale è
costituito dall’amicizia con Pietro Giordani, uno degli intellettuali più significativi di
quegli anni. Nella corrispondenza con Giordani, Leopardi poté trovare quella
corrispondenza affettuosa che gli mancò nell’ambiente familiare, e al tempo stesso
una guida intellettuale. Questa apertura verso il mondo esterno suscita in Leopardi il
bisogno di venire in contatto con esperienze intellettuali e sociali più vive.
Nel 1819 Leopardi tenta la fuga dalla casa paterna, ma il tentativo viene scoperto e
sventato. Lo stato d’animo causato da questo fallimento, insieme ad un’infermità
agli occhi che gli impediva di leggere, lo portano ad uno stato di totale aridità. In
questo contesto raggiunge la percezione della nullità di tutte le cose, che diviene il
nucleo del suo sistema pessimistico. Questa crisi del 1819 segna, a detta dello stesso
Leopardi, il passaggio dal bello al vero. In questo anno viene composto l’Infinito e si
infittiscono le pagine dello Zibaldone, una sorta di diario intellettuale avviato due
anni prima.
Nel 1822 ha finalmente la possibilità di uscire da Recanati: si reca a Roma dallo zio,
ma tale realtà gli appare vuota e meschina.
Nel 1823 torna a Recanati e si dedica alla composizione delle Operette Morali, a cui
affida l’espressione del suo pensiero pessimistico.
Nel 1825 gli si presenta l’occasione di lasciare la famiglia e di mantenersi con il
proprio lavoro di intellettuale, soggiorna in un primo momento a Milano e a
Bologna, poi a Firenze e a Pisa, dove la dolcezza del clima e una relativa tregua dei
suoi mali permettono un risorgimento della sua facoltà di “sentire” e di immaginare.
In questo contesto nasce A Silvia.
Nel 1828, a causa delle sue condizioni di salute, fa ritorno a Recanati, dove trascorre
un anno e mezzo immerso nella sua malinconia.
Nel 1830 lascia Recanati e non vi farà più ritorno: giunge a Firenze, dove subisce una
forte passione amorosa per Fanny Targioni Tozzetti, che gli causerà grande
delusione. Nello stesso periodo stringe amicizia con un giovane napoletano Antonio
Ranieri, con il quale si stabilisce a Napoli nel 1833. A Napoli entra in polemica con
l’ambiente culturale, dominato da tendenze idealistiche e spiritualistiche. Tale
polemica prende corpo soprattutto nel suo ultimo grande canto La Ginestra.
Leopardi muore a Napoli nel 1837.
IL PENSIERO
Al centro del pensiero di Leopardi si pone un motivo pessimistico: l’infelicità
dell’uomo. Egli arriva a individuare la causa prima di questa infelicità in alcune
pagine dello Zibaldone, in cui identifica la felicità con il piacere materiale. Tuttavia,
l’uomo non desidera un piacere, bensì il piacere: aspira cioè ad un piacere che sia
infinito, per estensione e per durata. Quindi, dato che nessuno dei piaceri goduti
dall’uomo può soddisfare questa esigenza, nasce in lui un senso di insoddisfazione
perpetua, un vuoto incolmabile dell’anima. Leopardi spiega che l’infelicità dell’uomo
deriva da questa tensione inappagata verso un piacere infinito, che non va inteso in
senso religioso, ma in senso puramente materiale.
La natura però, che in questa prima fase è concepita da Leopardi come madre
benigna, ha voluto offrire fin dalle origini un rimedio all’uomo: l’immaginazione e le
illusioni, che nascondono agli occhi dell’uomo le sue misere condizioni. Per questi,
gli uomini primitivi e gli antichi Greci e Romani, che erano più vicini alla natura
(come lo sono anche i fanciulli) erano felici, perché ignoravano la loro reale
infelicità. Il progresso della civiltà ha allontanato l’uomo da quella condizione
privilegiata, ha messo sotto i suoi occhi il vero e lo ha reso infelice.
Pessimismo storico: la prima fase del pensiero leopardiano è tutta costruita
sull’antitesi tra natura e ragione, tra antichi e moderni. Gli antichi, nutriti di illusioni,
erano capaci di azioni eroiche; il progresso della civiltà e della ragione, spegnendo le
illusioni, ha reso i moderni incapaci di azioni eroiche e ha generato la viltà. Quindi, la
colpa dell’infelicità è attribuita all’uomo stesso, che si è allontanato dalla via
tracciata dalla natura. Questa fase del pensiero di Leopardi è designata con la
formula di pessimismo storico, nel senso che la condizione negativa del presente è
vista come effetto di un processo storico, di un allontanamento progressivo da una
condizione originaria di felicità. Tuttavia, bisogna ricordare che si trattava pur
sempre di una felicità relativa, Leopardi era consapevole che la vera condizione
dell’uomo è infelice e che l’antica felicità era solo frutto dell’illusione. Leopardi da
un giudizio durissimo sulla civiltà dei suoi anni e ne deriva anche un atteggiamento
titanico.
La natura malvagia: ad un certo punto la concezione di natura benigna entra in crisi.
Leopardi si rende contro che, più che al bene dei singoli individui, la natura mira alla
conservazione della specie, e a tale fine può anche sacrificare il bene del singolo. Ne
deriva che il male deriva nel piano stesso della natura, la quale ha messo nell’uomo
quel desiderio di felicità infinita, senza dargli i mezzi per soddisfarlo.
In una fase intermedia, Leopardi attribuisce la responsabilità del male al fato.
Propone quindi una concezione dualistica: natura benigna contro fato maligno.
Tuttavia, Leopardi arriverà alla soluzione delle contraddizioni rovesciando la sua idea
di natura benigna (questo punto d’approdo emerge all’improvviso nel Dialogo della
natura e di un islandese. Qui Leopardi concepisce la natura non più come una madre
amorosa e provvidente, ma come un meccanismo cieco, indifferente alla sorte delle
sue creature, perché gli individui devono perire per consentire la conservazione del
mondo. Ora la concezione non è più finalistica (natura che opera per il bene delle
sue creature), ma meccanicistica e materialistica (regolata da leggi meccaniche). La
colpa dell’infelicità non è più dell’uomo, ma della natura.
Filosoficamente Leopardi rappresenta la natura come meccanismo inconsapevole,
mentre poeticamente la rappresenta come una sorta di divinità malvagia, che opera
per far soffrire le sue creature. Viene così superato il dualismo tra natura e fato: alla
natura vengono attribuite le caratteristiche negative che prima erano del fato.
Il pessimismo cosmico: se causa dell’infelicità è la natura stessa, tutti gli uomini, in
ogni tempo, in ogni luogo, sotto ogni forma di governo, sono necessariamente
infelici. Con questa riflessione, al pessimismo storico della prima fase subentra il
pessimismo cosmico: la felicità non è più legata ad una condizione storica dell’uomo,
ma ad una condizione assoluta, diviene un dato eterno e immutabile. Questa è la
concezione che occuperà tutta l’opera di Leopardi successiva al 1824 (anche se
rimarrà sempre dell’idea che gli antichi fossero relativamente meno infelici dei
moderni). A seguito di questa riflessione, in Leopardi subentra un atteggiamento
contemplativo, ironico, distaccato e rassegnato. Il suo ideale non è più l’eroe antico,
ma il saggio antico, soprattutto quello stoico, la cui caratteristica è l’atarassia, il
distacco dalla vita.
L’infinito nell’immaginazione: la teoria del piacere, elaborata nel 1820, è un
elemento fondamentale del pensiero di Leopardi: da una parte costituisce il nucleo
della sua filosofia pessimistica, dall’altro è il punto d’avvio della sua poetica. Se nella
realtà il piacere infinito è irraggiungibile, l’uomo trovarlo nell’immaginazione. La
realtà immaginata è l’alternativa ad una vita infelice e noiosa. Ciò che stimola
l’immaginazione a costruire questa realtà parallela è tutto ciò che è vago e
indefinito. Nello Zibaldone Leopardi passa in rassegna tutti gli aspetti della realtà
che, per i loro carattere indefinito, possiedono questa forza suggestiva. Nasce così la
teoria della visione, secondo cui è piacevole la vista di un ostacolo perché suscita
idee vaghe e indefinite. Contemporaneamente si crea la teoria del suono, che si
riferisce a tutti quei suoni suggestivi perché vaghi.
Il bello moderno: a questo punto, Leopardi arriva ad affermar che il bello poetico
consiste nel vago e nell’indefinito. Queste immagini sono suggestive perché evocano
sensazioni che ci hanno affascinati da fanciulli. La poetica dell’indefinito e la poetica
della rimembranza si fondono: la poesia è il recupero della visione immaginaria della
fanciullezza attraverso la memoria.
Leopardi inoltre distingue tra poesia d’immaginazione e poesia sentimentale. Ai
moderni, che si sono allontanati dalla natura per colpa della ragione è preclusa la
poesia d’immaginazione, a loro non resta che la poesia sentimentale, che nasce dalla
consapevolezza del vero e dall’infelicità.
Il classicismo romantico di Leopardi: la formazione di Leopardi era stata
rigorosamente classicista ed era stata consolidata anche dall’amicizia con un
importante esponente del classicismo, Pietro Giordani. Perciò, nella polemica tra
classicisti e romantici, Leopardi aveva dovuto prendere posizione contro le tesi
romantiche: lo fece in due scritti che però non vennero mai pubblicati.
Le sue posizioni sono molto originali rispetto a quelle dei classicisti, per lui la poesia
è espressione di una spontaneità originaria, per questo critica il classicismo
accademico e pedantesco, il principio di imitazione, le regole imposte dai generi
letterari. D’altro canto, rimprovera agli scrittori romantici l’artificiosità nella ricerca
dello strano, dell’orrido, e rimprovera loro il predominio della logica sulla fantasia,
l’aderenza al vero che spegne l’immaginazione.
Per Leopardi erano i classici antichi un esempio di poesia fresca, spontanea,
immaginosa. L’autore, quindi, ripropone i classici come modelli, ma in senso
opposto al classicismo accademico. E in questa esaltazione di ciò che è spontaneo,
originario, non contaminato dalla ragione, appare più romantico degli stessi
romantici italiani. Si può parlare quindi di un classicismo romantico.
Leopardi, tra le varie forme poetiche, privilegia soprattutto quello della lirica, intesa
come espressione immediata dell’Io, della soggettività e dei sentimenti. In questo si
contrappone alla scuola romantica Lombarda, che tende invece ad una letteratura
oggettiva, realistica e fondata sul vero. Si può dire, infatti, che sia più vicino al
romanticismo europeo per una serie di grandi motivi che ricorrono nelle sue opere:
la tensione verso l’infinito, l’esaltazione dell’io, il titanismo, l’enfasi, il conflitto
illusione realtà.
I CANTI
Il periodo successivo alla conversione dall’erudizione al bello nel 1816 è ricco di
esperimenti letterari, che si risolvono in direzioni molto diverse, per poi
concretizzarsi in due soli gruppi di poesie: le Canzoni e gli Idilli.
Le canzoni: le canzoni furono composte tra il 1818 e il 1823, e pubblicate nel 1824.
Sono componimento di impianto classicistico, che impiegano il linguaggio aulico,
sublime e denso della tradizione. Le prime 5, composte tra il 1818 e il 1821,
affrontano una tematica civile e sono animate da aspri spunti polemici contro l’età
presente, incapace di azioni eroiche. A questa polemica si contrappone
un’esaltazione delle età antiche, generose e magnanime. La più significativa è Ad
Angelo Mai, in cui compare il motivo del caro immaginar e dei leggiadri sogni,
dissolti nella conoscenza razionale del vero. Caratteristiche diverse hanno il Bruto
Minore e l’Ultimo canto di Saffo: qui Leopardi non parla in prima persona, ma delega
il discorso poetico a die personaggi dell’antichità, entrambi suicidi, Bruto (uccisore di
Cesare) e la poetessa greca Saffo. Qui il pessimismo storico giunge ad una svolta e
diviene pessimismo cosmico; qui non si incolpa ancora la natura, ma il fato, a cui
l’eroe si ribella dandosi la morte.
Gli idilli: un carattere molto diverso lo hanno gli Idilli, sia nelle tematiche, che sono
intime e autobiografiche, sia nel linguaggio che è più colloquiale e semplice. Questi
componimenti furono scritti tra il 1819 e il 1821 e non hanno niente a che fare con
la nozione di idillio borghese, che amava rappresentare scene di vita quotidiana di
personaggi di mediocre condizioni, segnate dalla serenità. Lo stesso Leopardi, nel
1828, definì gli Idilli come espressione di “avventure storiche del suo animo”.
Dunque, negli Idilli, la realtà esterna e le scene di natura serena sono soggettive.
Leopardi vuole rappresentare momenti essenziali della sua vita interiore.
Esemplare è l’Infinito, in cui compare una situazione che ricorda l’idillio classico (la
siepe che segna uno spazio limitato), ma in questo caso rappresenta lo spunto per
una riflessione lirica sull’idea di infinito creato dall’immaginazione.
Chiusa la stagione delle canzoni e degli idilli, comincia per Leopardi un silenzio
poetico che durerà fino alla primavera del 1828. Egli stesso lamenta la fine delle
illusioni giovanili e lo sprofondare in uno stato d'animo di aridità e di gelo. Una
svolta si verifica nel periodo relativamente felice trascorso a Pisa, in cui il poeta
assiste a un risorgimento delle sue facoltà di immaginare e di sentire. Leopardi, nel
periodo 28-30, realizza nuovi componimenti che riprendono i temi, gli atteggiamenti
e il linguaggio degli idilli del 1819-21, e per questo sono definiti con la formula
“grandi idilli”. In realtà, questi componimenti non sono la semplice ripresa della
poesia di 10 anni prima, ma presentano grandi differenze: non compaiono più gli
slanci di disperazione di rivolta, le operazioni patetiche. Leopardi ha assunto un
atteggiamento fatto di ferma contemplazione di lucido dominio razionale. Differente
è anche il linguaggio, privo di espressioni intense e patetiche, e più misurato.
Il Ciclo di Aspasia: a Firenze nasce la sua amicizia con Antonio Ranieri e si verifica la
sua primavera esperienza amorosa, vissuta con intenso fervore, per una dama
fiorentina. La delusione subita in tale rapporto segna per Leopardi la fine
dell’inganno estremo: l’amore. Dalla passione e dalla delusione nasce il cosiddetto
Ciclo di Aspasia, dal nome greco con cui il poeta designa la donna amata. Il Ciclo
consta di 5 componimenti, scritti tra il 1833 e il 1835. Si tratta di una poesia nuova,
lontana da quella idilliaca: il discorso non si basa più sulle immagini vaghe e
indefinite, sul vagheggiamento degli inganni giovanili, e il linguaggio non è più
limpido e musicale. La poesia è nuda, severa, compaiono atteggiamenti energici,
combattivi, eroici. Il linguaggio si fa aspro, anti-musicale e la sintassi è complessa e
spezzata.
Polemica contro l’ottimismo progressista: in questo periodo Leopardi instaura un
rapporto di polemica con le correnti ideologiche del tempo. L’autore critica tutte le
ideologie ottimistiche che esaltano il progresso e profetizzano un miglioramento
indefinito della vita degli uomini, grazie alle nuove scienze sociali ed economiche e
alle scoperte della tecnologia. Bersaglio delle polemiche sono anche le tendenze di
tipo spiritualistico e neocattolico. A queste ideologie Leopardi contrappone le prime
concezioni pessimistiche che escludono ogni miglioramento della condizione umana.
Allo spiritualismo di tipo religioso, che cerca consolazione nell’aldilà, Leopardi
contrappone il suo duro materialismo, che nega ogni speranza in un’altra vita.
Questa polemica è condotta attraverso varie opere di impegno concettuale, alcune
incluse nei Canti, altre al di fuori.
Importante, al di fuori dei Canti, è l’opera Paralipomeni, in cui Leopardi sotto la
veste favolosa discute degli avvenimenti politici del 1820-21 e del fallimento dei
moti liberali.
La Ginestra e l’idea leopardiana di progresso: La Ginestra è la lirica che chiude il
percorso poetico di Leopardi e ripropone la dura polemica anti-ottimistica e
antireligiosa. Qui Leopardi non nega più la possibilità di un progresso civile, anzi
cerca di costruire un’idea di progresso proprio sul suo pessimismo. La
consapevolezza della reale condizione umana può indurre gli uomini a unirsi in una
“social catena” per combattere la minaccia della natura. La filosofia di Leopardi si
apre qui ad una generosa utopia, basata sulla solidarietà fraterna degli uomini, che
nasce a sua volta dalla diffusione del vero.
Le Operette morali: furono composte quasi tutte nel 1824, quando Leopardi torna
da Roma dopo la delusione subita nel suo primo contatto con la realtà esterna. Sono
prose di argomento filosofico, in cui Leopardi espone il sistema elaborato nello
Zibaldone attraverso una serie di invenzioni fantastiche, miti, allegorie. Molte delle
operette sono dialoghi, i cui interlocutori sono creature immaginarie,
personificazioni, personaggi mitici o favolosi, in altri casi sono personaggi storici o
personaggi storici mescolati con esseri bizzarri. In alcune operette dialogiche,
l’interlocutore principale è proiezione dell’autore stesso, altre hanno forma
narrativa, e in altri casi ancora si hanno prose liriche o raccolte di aforismi. Da qui
emerge la varietà d’invenzione di Leopardi, in cui tutto ruota intorno ai temi
fondamentali del pessimismo: l’infelicità inevitabile, l’impossibilità del piacere, la
noia, il dolore, i mali materiali che affliggono l’umanità. Nonostante ciò, non si ha
un’impressione di cupezza e questo grazie allo sguardo fermo e lucido con cui
Leopardi contempla il vero. Da questo quadro escono le operette più tarde come
Plotino, dialogo sul problema del suicidio, tutto pervaso da un senso di pietà e
solidarietà verso gli uomini.

Letteratura dialettale: Porta, Belli, Nievo, De Sanctis e il genere della storia italiana.
La Scapigliatura
La Scapigliatura non è un movimento organizzato, ma è un gruppo di scrittori he
operano nello stesso periodo, gli anni 60/70 nell’Ottocento e che sono accomunati
da un’insofferenza per le convezioni della letteratura contemporanea, in particolare
per i principi e i costumi della società borghese, e da un impulso di rifiuto e di
rivolta. Il termine “scapigliatura” fu proposto per la prima volta da Cletto Arrighi,
per indicare un gruppo di ribelli che amavano vivere in maniera eccentrica e
disordinata; era dunque il corrispettivo italiano del francese bohème. Con il gruppo
degli scapigliati compare per la prima volta nella cultura italiana dell’Ottocento il
conflitto tra artista e società, che era l’aspetto costitutivo del Romanticismo
straniero. Il processo di modernizzazione economica e sociale avviatosi con l’Unità,
tendeva a declassare e a emarginare gli intellettuali, di conseguenza negli artisti
italiani nascono atteggiamenti ribelli e antiborghesi e il mito di una vita irregolare
come rifiuto delle norme e delle convenzioni. Di fronte ai nuovi aspetti della
modernità (progresso economico, scientifico e tecnico), gli Scapigliati assumono un
atteggiamento ambivalente: da un lato provano orrore e repulsione, dall’altro si
rassegnano a rappresentare il vero, usando il linguaggio dell’anatomista e del
chimico. Gli Scapigliati definiscono questo atteggiamento “dualismo”, in quanto si
sentono divisi tra Ideale e Vero, bene e male, senza possibilità di conciliazione. E la
loro opera consiste nell’esplorazione di questa condizione di incertezza. Questa
situazione di rivolta e di lacerazione accomuna gli scapigliati alla condizione degli
scrittori romantici europei, dai quali la scapigliatura riprende una serie di temi come
l’esplorazione dell’irrazionale, il macabro e l’orrore, il culto mistico della bellezza, il
nero romantico (percezione delle forze terribili che si erano scatenate nel mondo
moderno). Gli Scapigliati, con il loro culto del vero, con l’attenzione a ciò che è
orrido e deforme, e con il loro proposito di analizzarlo, introducono in Italia il gusto
nascente del Naturalismo, che in Francia si afferma tra la fine degli anni Sessanta e
l’inizio degli anni Settanta. D’altra parte, la tensione verso il mistero, l’esplorazione
della zona buia della psiche, anticipano le future soluzioni della letteratura
decadente.
DAL NATURALISMO FRANCESE AL VERISMO ITALIANO
Gli scrittori veristi italiani nell’elaborare le loro teorie letterarie e nello scrivere le
loro opere prendono le mosse dal Naturalismo, che si afferma in Francia negli anni
70 dell’800 e che si proponeva di trasformare il romanzo in uno strumento di analisi
scientifica della realtà. Il presupposto ideologico di tale atteggiamento è dato dal
Positivismo, e in particolare dal pensiero di Taine, secondo cui lo scrittore deve
assumersi il compito di indagare la natura umana con rigore scientifico, basandosi
sulla convinzione che i fenomeni spirituali siano prodotti della fisiologia dell’uomo e
dell’ambiente in cui vive. Precursori del movimento naturalista possono essere
considerati i romanzieri francesi Balzac e Flaubert, ma sarà Zola a dare la
sistemazione più compiuta alle teorie naturaliste. Zola sostiene che il metodo
sperimentale delle scienze, applicato in un primo tempo ai corpi inanimati, poi ai
corpi viventi, deve essere applicato anche alla sfera spirituale. Di conseguenza la
letteratura e la filosofia, che hanno come oggetto di indagine proprio tali atti,
devono entrare a far parte delle scienze. La conclusione a cui approda il discorso di
Zola è questa: mentre il fine della scienza sperimentale è far sì che l’uomo diventi
padrone dei fenomeni per dominarli, il fine del romanzo sperimentale è di
impadronirsi dei meccanismi psicologici per poi poterli dirigere.
Il Verismo Italiano: le opere di Zola si diffondono in Italia già negli anni 70 per
impulso degli intellettuali socialisti e repubblicani, ma la lezione del Naturalismo è
ripresa in modo originale solo da Luigi Capuana e Giovanni Verga, due scrittori
conservatori d’origine siciliana attivi a Milano.
Luigi Capuana: in lui si coglie un modo ben diverso di intendere la letteratura
rispetto a quello del Naturalismo francese. Capuana respinge la subordinazione della
letteratura a scopi come la dimostrazione sentimentale id tesi scientifiche e
l’impegno politico e sociale. Nella sua prospettiva il Naturalismo perde la sua
volontà di far scienza e il suo impegno politico e si traduce solo in un modo
particolare di fare letteratura. Quindi, la scientificità, si manifesta solo nella forma
artistica e si realizza attraverso il principio dell’impersonalità dell’opera d’arte,
intesa come “eclissi” dell’autore, cioè scomparsa del narratore che interviene,
commenta e giudica. L’impersonalità è il motivo centrale della poetica di Capuana e
di Verga.
L’assenza di una scuola verista: al di là di queste precise posizioni teoriche e
creative, il Verismo è un’etichetta generica, che copre manifestazioni tra loro molto
diverse. Non si può dire che esista un Verismo come scuola o movimento
organizzato, gli scrittori non si raggruppano sotto intorno a un programma culturale
comune, non fa riferimento a una comune visione della realtà, della letteratura e del
ruolo dell’intellettuale. Il panorama del periodo verista offre una serie di esperienze
che hanno tra loro ben poco di simile. Nulla accomuna questi scrittori, se non un
generico riferimento a una realtà non meglio definito e un interesse per figure e
ambienti popolari, per la rappresentazione delle loro miserie, o per il colore locale e
regionale.
Verga può essere definito un caso isolato, che si cimenta in esperimenti rigorosi e
imposta una rivoluzionaria tecnica narrativa. Accanto a lui, a condividere posizioni
teoriche e soluzioni narrative, troviamo solo l’amico Luigi Capuana, e, più tardi, il
giovane De Roberto. Dunque, il Verismo inteso come gruppo omogeneo di scrittori,
si riduce a questi tre nomi. Con gli anni Novanta dell’800 il romanzo veristico viene
gradualmente soppiantato al romanzo psicologico, in cui non c’è più interesse per
l’ambiente sociale e per le mentalità elementari. L’attenzione si concentra
esclusivamente sulla psicologia di personaggi di più alta condizione o di maggiore
levatura intellettuale.
GIOVANNI VERGA
Nacque a Catania nel 1840 da una famiglia di agiati proprietari terrieri e nella
giovinezza si interessa agli scrittori francesi moderni. Nel 1865 si reca a Firenze, dove
vi ritorna poco dopo consapevole del fatto che per divenire uno scrittore autentico
doveva liberarsi dai limiti della sua cultura provinciale e venire a contatto con la vera
società letteraria italiana. Nel 1872 si trasferisce a Milano, che allora era il centro
culturale più vivo della penisola, e qui entra a contatto con gli ambienti della
Scapigliatura. Nel 1878 avviene la svolta verso il Verismo, con la pubblicazione del
racconto Rosso Malpelo, seguono 1880 le novelle di Vita dei campi, nel 1881 i
Malavoglia. A Milano soggiorna per lunghi periodi alternati con ritorni in Sicilia, per
poi tornare a vivere definitivamente a Catania. Dopo il 1903 lo scrittore si chiude in
un silenzio totale, le sue posizioni politiche si fanno sempre più chiuse e
conservatrici. Muore nel 1922.
La conversione: la svolta verista del 1878, con la pubblicazione di Rosso Malpelo,
non va interpretata come una brusca inversione di tendenza, ma come una
chiarificazione progressiva di propositi già radicati e la conquista di strumenti
concettuali e stilistici più maturi.
La poetica dell’impersonalità: alla base del nuovo metodo narrativo di Verga c’è il
concetto di impersonalità. Secondo la sua visione, la rappresentazione artistica deve
conferire al racconto l’impronta di cosa realmente avvenuta, e per far questo deve
riportare “documenti umani”. Bisogna poi porre il lettore faccia a faccia col fatto
nudo e schietto, per questo lo scrittore deve eclissarsi, cioè non deve comparire con
le sue riflessioni e spiegazioni, l’opera dovrà sembrare essersi fatta da sé. Il lettore
avrà l’impressione di non sentire un racconto di fatti, ma di assistere a fatti che si
svolgono sotto i suoi occhi, a tal fine deve essere introdotto nel mezzo degli
avvenimenti, senza che nessuno gli spieghi gli antefatti e gli tracci un profilo dei
personaggi. Verga ammette che questo all’inizio può creare una certa confusione,
però man mano i personaggi si fanno conoscere con le loro azioni e le loro parole,
attraverso di esse il loro carattere si rivela al lettore  solo così, evitando
l’intromissione dell’autore, si può creare l’illusione completa della realtà.
Tecnica narrativa: l’autore si eclissa, si cala nella pelle dei personaggi, vede le cose
con i loro occhi e le esprime con le loro parole. Il punto di vista dello scrittore non si
avverte mai nelle opere di Verga: la voce che racconta è allo stesso livello dei
personaggi stessi, adotta il loro modo di pensare e di sentire, è come se a raccontare
fosse uno di loro perché i fatti non passano attraverso la lenta dello scrittore. Un
esempio chiarismo è fornito dall’inizio di Rosso Malpelo: “Malpelo si chiamava così
perché aveva i capelli rossi, ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e
cattivo”. La logica che sta dietro questa affermazione non è certo quella di un
intellettuale borghese come Verga, fa infatti dipendere una qualità morale (l’essere
malizioso e cattivo) da un dato fisico (i capelli rossi), rivelando una visione primitiva
e superstiziosa. È come se a raccontare non fosse lo scrittore colto, ma uno
qualunque dei vari minatori della cava in cui lavora Malpelo. Inoltre, questo
anonimo narratore non informa sul carattere e sulla storia dei personaggi, né dà
dettagliate descrizioni dei luoghi dove si svolge l’azione, ma ne parla come se si
rivolgesse ad un pubblico appartenente a quello stesso ambiente. Di conseguenza
ance il linguaggio non è quello solito dello scrittore, ma un linguaggio spoglio e
povero, punteggiato di modi di dire, paragoni, proverbi, dalla sintassi elementare e a
volte scorretta.
Il diritto di giudicare e il pessimismo: lo stesso Verga, in un passo fondamentale
della Prefazione ai Vinti afferma che chi osserva questo spettacolo della lotta
all’esistenza non ha il diritto di giudicarlo, qui lo scrittore deve eclissarsi perché non
ha il diritto di giudicare la materia che rappresenta. Alla base della visione di Verga ci
sono posizioni pessimistiche: la società umana per lui è dominata dalla lotta per la
vita, dove il più forte schiaccia necessariamente il più debole, e dove gli uomini sono
mossi dall’interesse economico, dalla ricerca dell’utile e dall’egoismo. Questa è una
legge di natura universale e immodificabile, non si possono dare alternative alla
realtà esistente. Da qui deriva la posizione secondo cui lo scrittore non può proporre
giudizi solo la fiducia nella possibilità di modificare il reale può giustificare
l’intervento dall’esterno, il giudizio correttivo e l’indignazione. Se è impossibile
modificare l’esistente, ogni intervento giudicante appare inutile e privo di senso, e
allo scrittore non resta che riprodurre la realtà così com’è. Dunque, la tecnica
dell’impersonalità usata da Verga non è frutto di una scelta casuale, ma deriva
coerentemente dalla sua visione pessimistica del mondo.
Già da qui possiamo notare una grande distanza tra Zola e Verga: per Zola
l’impersonalità significa assumere il distacco dello scienziato, che si allontana
dall’oggetto per osservarlo dall’esterno e dell’altro, per Verga invece significa
immergersi, eclissarsi nell’oggetto. Zola interviene a commentare e a giudicare,
dall’alto del suo punto di vista scientifico, perché crede che la scrittura letteraria
possa cambiare la realtà ed ha piena fiducia nella funzione progressiva della
letteratura; dietro la regressione di Verga nella realtà rappresentata vi è invece il
pessimismo di chi ritiene che la realtà data sia immodificabile e che la letteratura
non possa in alcun modo incidere su di essa.
Vita dei campi: la nuova poetica inaugurata con Rossa Malpelo è continuata in una
serie di altri racconti confluiti in Vita dei campi (1880) ambientati nel contesto
contadino siciliano. Al di là dell’impianto verista, in queste novelle si può trovare
ancora qualche residuo romantico, nell’idealizzazione della realtà rurale come
paradiso perduto di autenticità o come mondo mitico dominato da passioni
primitive.
Il ciclo dei vinti: nel 1878 Verga inizia a progettare un ciclo di romanzi che delinei un
quadro generale della società dell’Italia moderna in tutte le sue componenti,
passando in rassegna tutte le classi, dai ceti popolari (malavoglia) alla borghesia
terriera (mastro don Gesualdo) fino all’aristocrazia (Duchessa e Leyra). Il criterio
unificante è il principio della lotta per la sopravvivenza, che lo scrittore ricava dalle
teorie di Darwin sull’evoluzione delle specie animali ed applica alla società umana.
Tutta la società, ad ogni livello, è dominata da conflitti di interesse, e il più forte
trionfa schiacciando i più deboli. Verga però non intende soffermarsi sui vincitori e
sceglie come oggetto della sua narrazione i “vinti”. Anche lo stile e il linguaggio
devono modificarsi gradualmente in questa scala ascendente e ad ogni tappa
devono avere un carattere proprio, adatto al soggetto.
I MALAVOGLIA
Il primo romanzo del Ciclo dei Vinti è I Malavoglia, la storia di una famiglia di
pescatori siciliani. I Toscano, soprannominati i Malavoglia, sono una famiglia di
pescatori di Aci Trezza, posseggono una casa e una barca (chiamata la Provvidenza),
che consentono loro una vita relativamente felice e tranquilla. Nel 1863 però il
giovane Ntoni, figlio di Bastianazzo e nipote di padron Ntoni (vecchio patriarca) deve
partire per il servizio militare. La famiglia, privata delle sue braccia, si trova in
difficoltà dovendo pagare un operaio. A ciò si aggiunge una cattiva annata per la
pesca, e il fatto che la figlia maggiore, Mena, abbia bisogno della dote per sposarsi.
Padron Ntoni, per superare le difficoltà, compra a credito dall’usurario Zio Crocifisso
un carico di lupini, per rivenderli in un porto vicino. Ma la barca naufraga nella
tempesta, Bastianazzo muore e il carico va perduto. I Malavoglia, oltre ad essere
colpiti negli affetti, si trovano anche di fronte al debito da pagare. Comincia qui una
lingua serie di sventure: la casa viene pignorata; Luca, il secondogenito, muore nella
battaglia di Lissa; la madre (Maruzza) muore di colera; la Provvidenza, recuperata e
riparata, naufraga ancora. La sventura disgrega il nucleo familiare: il giovane Ntoni,
che ha conosciuto la vita delle grandi città, non si adatta più ad una vita di dure
fatiche e di stenti, inizia a frequentare l’osteria e le cattive compagnie, viene
coinvolto nel contrabbando e, sorpreso, finisce per dare una coltellata alla guardia
doganale (spinto anche da motivi d’onore: Don Michele, corteggia la sorella minore,
Lia). Al processo Ntoni ottenne una condanna mite per le attenuanti d’onore, ma Lia,
ormai disonorata, fugge dal paese e finisce in una casa di malaffare in città. A causa
del disonore caduto sulla famiglia, Mena non può sposare compare Alfio. Il vecchio
Padron Ntoni, atterrato dalle sventure, muore in ospedale. L’ultimo figlio, Alessi,
riesce a riscattare la casa, continuando il mestiere del nonno. Ntoni, uscito di
prigione, torna una notte in famiglia, ma si rende conto di non poter più restare e si
allontana per sempre.
I Malavoglia rappresentano la vita di un mondo rurale arcaico, chiuso in ritmi di vita
tradizionali, ma non si tratta di un mondo del tutto immobile: anzi, il romanzo è
proprio la rappresentazione del processo per cui la storia penetra in quel sistema
arcaico, disgregandone la compattezza.
Il personaggio in cui si incarnano le forze disgregatrici della modernità è il giovane
Ntoni, egli è uscito dall’universo chiuso del paese, è venuto in contatto con la realtà
moderna, conoscendo la metropoli del continente: Napoli; per questo non può più
adattarsi ai ritmi di vita del paese e rassegnarsi ad un’esistenza di fatiche e miserie.
Emblematico è il suo conflitto con il nonno, che in opposizione a lui, rappresenta lo
spirito tradizionalista per eccellenza, l’attaccamento ad una visione arcaica e ai suoi
valori. Sotto l’azione di tutte queste forze innovatrici, la famiglia si disgrega. È vero
che alla fine Alesi riuscirà a ricomporre un frammento dell’antico nucleo familiare,
ma ciò non indica un ritorno alla condizione iniziale: Bastianazzo, Luca, Maruzza,
Padron Ntoni sono morti, Ntoni e Lia sono lontani, Mena ha rinunciato al
matrimonio. Inoltre, il romanzo non si chiude affatto con questa parziale
ricomposizione dell’equilibrio, ma con la partenza di Ntoni dal villaggio. Questo è un
finale emblematico: il personaggio che aveva messo in crisi quel sistema, se ne
distacca per sempre, allontanandosi verso la realtà del progresso.
La costruzione bipolare del romanzo: si tratta di un romanzo corale, fittamente
popolato di personaggi, senza che spicchi un protagonista. Ma questo coro si divide
in 2: da un lato si collocano i Malavoglia, con alcuni personaggi a loro collegati (Alfio,
Nunziata, la cugina Anna), che sono caratterizzati dalla fedeltà ai valori puri;
dall'altro la comunità del paese, pettegola, cinica, mossa solo dall'interesse. si
alternano quindi costantemente due punti di vista opposti, quello nobile e
disinteressato dei Malavoglia e quello gretto e ottuso degli altri abitanti del villaggio.
L'ottica del paese ha il compito di straniare sistematicamente i valori ideali proposti
dai Malavoglia, i valori che, se visti con gli occhi della collettività, appaiono strani e
non vengono compresi. Ad esempio, padron Ntoni che rinuncia alla casa per onorare
il debito, non è ammirato per il suo gesto nobile, ma giudicato perché non ha
applicato la legge dell'interesse; mentre l'angoscia del vecchio patriarca per il figlio
in mare durante la tempesta viene attribuita al timore per il carico di lupini in
pericolo.
SCHEMA
Narratore  non interviene né con giudici né con indicazioni (eclissi) e si colloca a
livello culturale dei personaggi (regressione).
Personaggi  impianto corale: il romanzo è fittamente popolato di personaggi,
senza che spicchi un protagonista. Il coro si divide in due gruppi, portatori di valori
opposti: Malavoglia (valori positivi) e comunità paesana (mossa dall’interesse).
Struttura  il romanzo si apre e si chiude con la partenza di Ntoni dal villaggio, ma
la struttura ciclica rimane imperfetta perché non implica la ricomposizione
dell’equilibrio iniziale.
Spazio  lo spazio privilegiato è quello del paese a cui si contrappone lo spazio
esterno, che sfuma nell’ignoto e pertanto ha qualcosa di minaccioso.
Linguaggio  il linguaggio del narratore e dei personaggi è popolareggiante,
punteggiato da modi di dire, paragoni, proverbi.
Mastro Don Gesualdo: pubblicato nel 1889, è il secondo romanzo del ciclo dei vinti
e narra l’ascesa sociale di un muratore che, con energia e ambizione, riesce ad
accumulare un’enorme fortuna. Disprezzato dai nobili e odiato anche dai propri
familiari, muore solo e vinto sul piano umano. Il romanzo presenta caratteri
abbastanza diversi dai Malavoglia: il narratore si mimetizza con l’ambiente borghese
e aristocratico raffigurato, la vicenda si concentra su un unico protagonista, la logica
dell’interesse egoistico e della sopraffazione diviene il modello unico di
comportamento.
Le ultime opere: negli anni 90 Verga inizia la stesura del romanzo La Duchessa Leyra,
che rimarrà incompiuto e pubblica diverse raccolte di novelle. A partire dal 1903
abbandona la letteratura e trascorre gli ultimi anni di vita occupandosi unicamente
dell’amministrazione dei propri fondi agricoli.
GIOSUE’ CARDUCCI
Condusse la vita del professore e dello studioso, partecipando intensamente alla vita
culturale e civile del suo tempo, infatti, la sua opera giovanile è profondamente
influenzata dai suoi ideali politici. era animato da un forte patriottismo e seguì con
entusiasmo il processo risorgimentale, schierandosi su posizioni democratiche e
repubblicane. Tuttavia, il compromesso monarchico è l'affermazione della destra
storica provocarono in lui una grande delusione, documentata dalle sue produzioni
fortemente polemiche. Carducci si scaglia contro la classe politica, la società italiana,
ma anche contro la chiesa, accusata di essere portatrice di una mentalità oscura
ormai sconfitta dalla ragione e dalla scienza. Tale fiducia nel progresso scientifico
colloca Carducci nell'area del positivismo.
La poetica: Carducci negli anni giovanili assunse posizioni anti romantiche,
proclamandosi scudiero dei classici e formando un gruppo che si definì degli “Amici
Pedanti”, volto a combattere il romanticismo e a sostenere il gusto classico. Carducci
si scaglia sia contro il romanticismo sentimentale della seconda generazione, sia
contro il romanticismo cristiano di Manzoni e della sua scuola, ritenuto troppo
debole rassegnato e non combattivo e virile come imponeva la tradizione classica. Di
conseguenza mira alla restaurazione di un discorso poetico alto, disdegnando i
generi popolari prediletti dai romantici, e rifacendosi alla lezione dei classici. le
opere della maturità registrano un affievolirsi dell'impeto polemico e dell'impegno
civile. qui subentrano il ripiegamento intimo, l'analisi di sentimenti d'angoscia e la
memoria dell'infanzia.
il classicismo degli “Amici Pedanti” caratterizza le prime raccolte poetiche.
1. Juvenilia e Levia gravia, ripropongono i temi, il linguaggio e la metrica della
grande tradizione letteraria, da Dante a Foscolo.
2. Giambi ed Epodi, il titolo allude alle forme metriche usate dai poeti antichi per
la poesia di satira e invettiva. Queste, infatti, sono le poesie in cui Carducci
sfoga le sue ire di democratico e di anticlericale contro l'Italietta vile e indegna
del presente. In questa raccolta, Carducci sperimenta un linguaggio che si
allontana dallo stile aulico dei classici e ricorre a termini della lingua parlata,
ad un ritmo spezzato e a cadenze prosaiche. Vicino a questo clima battagliero,
troviamo L’Inno a Satana, In cui Carducci espresse un violento
anticlericalismo.
Le rime nuove e le Odi barbare
Allo stesso periodo di Levia gravia e di Giambi ed Epodi risale una parte delle poesie
incluse nelle Rime Nuove e nelle Odi Barbare. Infatti Carducci amava costruire
raccolte organiche di liriche sulla base dell'argomento e delle forme metrico-
linguistiche piuttosto che secondo criteri meramente cronologici.
Le Rime Nuove nascono da spunti intimi, privati, o dalla sollecitazione della
letteratura e della storia. sono accomunate dalle scelte metriche, che si rifanno alle
forme tradizionali della lirica italiana, il titolo infatti è un omaggio alla rima.
Le Odi Barbare: un primo libro uscì nel 1877 e qui Carducci abbandonava i metri
tradizionali italiani cercando di riprodurre quelli classici (con il sistema accentuativo
italiano, quindi barbaro). Seguì un secondo libro nel 1882 e un terzo nel 1889.
l'esperimento metrico suscitò scalpore e attirò molte critiche, ma poi, a poco a poco,
la novità fu assorbita e la metrica Barbara entro nel gusto corrente del pubblico.
Queste poesie appartengono allo stesso periodo delle Rime Nuove e presentano
anche gli stessi motivi (rievocazioni storiche, spunti intimi). però qui si accentuano le
tendenze evasive, la tendenza a rifugiarsi nel passato come paradiso perduto di
bellezza e di forza e dimenticare il presente.
Rime e ritmi: l'ultima fase della poetica di Carducci corrisponde alla raccolta Rime e
Ritmi, che contiene le grandi odi celebrative che hanno consacrato Carducci poeta
ufficiale dell'Italia umbertina.

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