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LA

LETTERATURA

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L’ETA’ DEL BAROCCO E LA SCIENZA NUOVA

Il ‘600 è un secolo di aspri conflitti e di profonde trasformazioni.


Equilibri secolari vengono incrinati.
Sul piano politico lo scontro vede contrapposti l’Impero spagnolo e le potenze nazionali: la
Francia, l’Olanda e l’Inghilterra.
La pace dei Pirenei segna il declino del predominio spagnolo e l’ascesa della Francia.
Gli Stati italiani seguiranno lo stesso declino dell’Impero spagnolo.
Elemento comune a entrambe le aree in cui l’Europa stava per dividersi (quella Centro-
Settentrionale svincolata dall’egemonia spagnola; e quella Meridionale che resta legata
all’Impero) è la coscienza della crisi degli antichi modelli, la cui messa in discussione diviene
condizione indispensabile, anche se non sufficiente, per la formulazione di proposte innovative.

La vittoria della Francia, lo sviluppo di Inghilterra e Olanda, spostava verso le nazioni del Centro
Europa il baricentro politico del continente e del mondo e dimostrava la supremazia di nuovi
modelli di vita sociale e di organizzazione politica.
Alla base degli Stati moderni non starà l’esperienza fallimentare della monarchia spagnola, bensì
quella dello Stato centralizzato e assoluto, ma tendenzialmente laico, di Luigi XIV e il modello
della monarchia costituzionale inglese.

Con il ‘600 muta anche la geografia politica del mondo.


Nazioni fino a quel momento marginali acquistano una rilevanza inimmaginabile, trasformandosi in
potenze marittime e coloniali.

Il CORTIGIANO RINASCIMENTALE si trasforma gradualmente nel SEGRETARIO del principe.


Il letterato sviluppa, perciò, competenze da giurista, diplomatico, militare e amministratore; il
compito di creare e diffondere un’immagine positiva del principe viene sempre più spesso affidato
al pittore o all’architetto.
Valgano come esempio la trasformazione barocca di Roma e l’espansione urbanistica di Torino.
Conseguenza indiretta di questa situazione sarà l’aspirazione degli uomini di lettere a svincolarsi
dalla protezione di un principe particolare ma questa via risulta praticabile solo da pochissimi,
come GIOVAN BATTISTA MARINO.
In concreto, acquista sempre maggior peso la produzione encomiastica attraverso la quale il poeta
spera di accaparrarsi la benevolenza del signore e una sistemazione stabile a corte in cambio di
una sostanziale rinuncia all’indipendenza di pensiero.

LA LIRICA BAROCCA

Il BAROCCO LETTERARIO, che segue al Manierismo, nasce e si definisce come consapevole e


volontaria rottura con gli ideali di equilibrio e composizione sanciti nel ‘500 dal canone classicista
rinascimentale e, per ciò che riguarda la poesia, dalla lirica petrarchesca.
La crisi delle certezze umanistiche e l’emergere di una sensibilità che guarda al mondo con
sempre maggiore meraviglia spingono gli autori a liberarsi dell’insieme delle regole del secolo
precedente.
Per comprendere gli elementi fondamentali della poetica barocca occorre guardare gli autori che
ne furono i maggiori interpreti.
Se ALESSANDRO TASSONI rivendica al poeta il compito di innovare per adeguare i modelli
classici alle affioranti esigenze di maggiore libertà espressiva, GIOVAN BATTISTA MARINO
rifiuta di subordinare il piacere estetico all’utilità pedagogica, e la rottura delle regole diventa
così, esercizio sperimentale.

Nel giustificare le proprie prese di posizione, MARINO porta spesso l’argomento della
“svogliatura” del secolo (ossia la stanchezza del gusto causata dalla ripetività delle convenzioni)
che allontana i lettori dai testi tradizionali, spingendoli a prediligere opere più ardite,
stuzzicanti, come di fatto si presentavano le opere di Marino.
Marino visse nello sforzo costante di affermarsi in una temperie storica altamente instabile: in
qualità di poeta di corte, infatti, il suo ruolo era costantemente in pericolo data la precarietà
politica a cui erano soggetti ducati, principati e piccoli regni durante il ‘600.
Ma, soprattutto, la sua posizione era vincolata all’arbitrio e agli umori dei principi.
Marino seppe però distinguersi e a guadagnarsi autorevolezza.

L’instabilità del mondo postridentino, le sue contraddizioni, le scoperte scientifiche e la


repressione morale e religiosa, spingono Marino e gli intellettuali, come lui sostenitori del
rinnovamento, a ripensare le forme espressive in senso moderno, contrapposto, cioè, alle rigide
categorie dell’antichità classica.
Gli scrittori stimolano il lettore al ragionamento sottile e acuto.
Obiettivo del poeta è “far inarcar le ciglia”, immagine eloquente che esprime l’emozione provata
nel cogliere, all’improvviso, significati impliciti e sotterranei.

Nel suo “Cannocchiale aristotelico”, il gesuita EMANUELE TESAURO, individua nella metafora lo
strumento retorico irrinunciabile ai fini dell’espressione della nuova sensibilità, estendendone le
potenzialità di utilizzazione a ogni forma di comunicazione.

LA LIRICA IN ITALIA

MARINO E I MARINISTI
La tensione all’innovazione che contraddistingue marcatamente l’opera di Marino gli garantisce un
ampio successo di pubblico.
“Marinista” è di fatto in Italia sinonimo di “barocco”; la maggior parte dei lirici italiani del secolo
sarà in qualche misura marinista.
Sull’esempio di Marino, tutta la produzione lirica italiana del secolo barocco presenta
un’accentuata varietà di temi.
È nella poesia d’amore che la spinta all’innovazione si fa più frequente.
Nei lirici barocchi si riscontra infatti un ampliamento della gamma delle raffigurazioni femminili.
Accanto alla bellezza femminile dai capelli castani e neri, della donna nera e dell’orientale, il
poeta barocco celebra donne che si segnalano per particolari inconsueti e non riconducibili a un
canone estetico di armonia, come la vecchia, la zoppa, la cieca.
La donna è colta nell’atto di pettinarsi, remare, annaffiare i fiori: gesti banali che il carattere
alto del genere aveva tradizionalmente escluso dalla rappresentazione.
Gli oggetti legati alla donna (pettini, ventagli) diventano particolari preziosi su cui l’attenzione del
poeta si esercita per trasformarli, attraverso la metafora, in elementi del mondo naturale.

LA STRUTTURA DEI CANZONIERI E DEL SONETTO


La CASISTICA AMOROSA proposta nei canzonieri barocchi “non è tanto quella del Petrarca
quanto piuttosto quella del Tasso lirico”.
Essa non si rivolge, cioè, a cogliere stati d’animo ma a fissare atteggiamenti e movenze esteriori.
Anche la struttura del singolo componimento riflette queste caratteristiche generali.
La costruzione tipica del sonetto marinista sviluppa la metafora iniziale in una serie incalzante di
immagini che a loro volta alludono ad altre immagini riferibili a una realtà più ampia, allo scopo di
rafforzare il sentimento di sorpresa.

LA POESIA CLASSICISTA
Anche la produzione apertamente antimarinista degli autori che si riallacciano all’esperienza dei
classici, come GABRIELLO CHIABRERA, risulta fortemente condizionata dalla tendenza
all’effetto, propria del gusto barocco e affine alla lirica marinista.
Di fronte alla pretesa di Marino di guardare al patrimonio classico come a un semplice repertorio
di temi poetabili, il classicismo riaffermava, invece, l’autorità dei modelli del passato individuando
in essi i riferimenti formali a cui la libertà del poeta doveva subordinarsi.
Ma nella pratica la poesia dei classicisti del ‘600 non potè riprodurre fedelmente gli ideali di
ordine e di equilibrio che i grandi intellettuali del Rinascimento avevano perseguito.
Il classicismo dell’epoca barocca può piuttosto considerarsi una CLASSICITA’ MODERNIZZATA.
Il rinnovamento metrico perseguito dal Chiabrera mette in discussione la metrica tradizionale.

L’ESPERIENZA ISOLATA DI TOMMASO CAMPANELLA


All’ambito barocco appartiene anche la poesia potente e oscura del frate calabrese
CAMPANELLA.
L’intento etico e il rigore intellettuale con cui Campanella persegue la costruzione di un mondo
nuovo, in cui realizzare un cristianesimo radicale capace di superare egoismo, superstizione e
violenza, si realizzano in uno stile vivace e denso di metafore, fortemente personale, che trova
precedenti solo nella Bibbia e in Dante.

GIOVAN BATTISTA MARINO

Nato a Napoli nel 1569, abbandonò a venti anni gli studi legali per dedicarsi all’attività letteraria.
Incarcerato dapprima per aver sedotto una ragazza, morta poi di parto, fu di nuovo imprigionato
con l’accusa di aver falsificato documenti per scagionare un amico imputato di omicidio; nel 1600
evase e riparò a Roma.
La pubblicazione delle “Rime” gli valse un impiego presso il cardinale Aldobrandini.
Con lui fu a Ravenna poi a Torino alla corte di Carlo Emanuele I.
Nel 1615 fu accolto alla corte parigina di Maria dè Medici.
Osannato come il più grande poeta vivente, ottenne una lauta pensione che gli permise di
dedicarsi pienamente a rivedere le numerose opere iniziate negli ultimi anni.
Tra queste la “Galeria” (raccolta di componimenti dedicati a una collezione ideale di disegni,
stampe, dipinti, statue); la “Sampogna” (raccolta di 12 idilli mitologici) e infine l’ “Adone”,
vastissimo poema di argomento mitologico e di impianto lirico.
Marino trascorse a Napoli gli ultimi anni.
Morì nel 1625.

Marino seppe conquistarsi il primato come poeta di riferimento sulla scena letteraria grazie
anche alla sua ambizione.
I mezzi che adottò si possono individuare nella sagace amministrazione della propria abilità,
nell’uso accorto delle relazioni strette con i maggiori esponenti della letteratura vecchia e nuova
e con i potenti protettori e in un’accortezza singolare nel mantenere desta su di sé l’attenzione
dell’intero mondo letterario attraverso polemiche, scandali.
Ma l’opera di Marino non avrebbe riscosso tanto successo se non avesse risposto con raro
tempismo alle mutate esigenze sociali e civili che si andavano affermando.
Marino diede luogo a un volontario processo di RINNOVAMENTO STILISTICO.

CLAUDIO ACHILLINI

Nacque a Bologna nel 1574 e vi morì nel 1640.


Celebre giurista e stimato professore di diritto, svolse importanti missioni diplomatiche.
Amico di Marino, concertò gli interventi dei suoi sostenitori nella polemica scoppiata in occasione
degli appunti mossi da un detrattore del poeta alla sua competenza mitologica.
Le sue “Poesie” furono pubblicate nel 1620.

GABRIELLO CHIABRERA

Nato a Savona nel 1552, fu educato a Roma dove, presso i Gesuiti, studiò retorica e filosofia.
Egli visse una lunga esistenza da gentiluomo fra le corti di Torino, Firenze e Mantova, impegnato
nella creazione delle proprie opere.
Morì nel 1638.
La sua attività è caratterizzata dall’incessante sperimentazione di tutti i generi poetici, dal
poema eroico (la “Goteide”) al poemetto sacro e profano, dalla canzonetta erotica al poema
encomiastico (l’ “Amedeide” che narra le imprese di Amedeo V di Savoia).
La sua fortuna presso i contemporanei è dovuta alla continua ricerca di nuovi metri e stili che
caratterizza le “Rime”.
Chiabrera fu senza dubbio stimolato dalla lettura dei poeti della classicità greca e della
contemporanea scuola francese della Pléiade, che si rifaceva anch’essa agli stessi modelli.
Il ricorso ai classici però non implicò un ritorno all’antico.

LA LETTERATURA DEL BAROCCO EUROPEO

In SPAGNA la poesia lirica diviene tra le forme privilegiate per esprimere la crisi in atto e la
percezione che gli autori hanno sempre più drammatica della distanza che intercorre tra la realtà
concreta della vita di ogni giorno e i valori della morale e della bellezza.
GONGORA e QUEVEDO finiscono per affermare l’autonomia della poesia da qualunque regola
estranea a essa.
La poesia è per loro capace di rappresentare una realtà più profonda di quella concreta delle
cose.
I due autori raggiungono esiti complementari: Gòngora (prediligendo le sensazioni pure) canta il
colore della vita.
Il GONGORISMO sostituì alla rappresentazione concreta degli oggetti la suggestione della
metafora e diede origine a un linguaggio sofisticato e colto, ricco di allusioni mitologiche.
Nel CONCETTISMO di Quevedo e dei suoi seguaci, invece, gli elementi fondamentali sono le idee
nella loro più rigorosa purezza.

L’INGHILTERRA offre, con la poesia di JOHN DONNE, (poeti metafisici) una delle esperienze di
punta della letteratura barocca.
I METAFISICI furono così definiti dai loro contemporanei per aver introdotto nelle loro liriche
una più energica presenza di temi intellettuali.
Nella poesia di Donne è forte la tendenza a instaurare un collegamento sistematico tra gli oggetti
dell’esperienza sensibile e il mondo della riflessione intellettuale e morale, della speculazione,
cioè, intorno ai grandi temi dell’esistenza umana quali l’amore, la morte, alla luce anche delle
recenti scoperte scientifiche.
LA DISSOLUZIONE DEL POEMA TRADIZIONALE

Nel pieno Rinascimento Ariosto aveva consacrato il genere del poema cavalleresco, incentrato
sulla molteplicità di avventure di numerosi eroi, in cui il poeta proiettava le passioni e le
aspirazioni degli uomini del suo tempo.
Di contro al modello del poema cavalleresco, nel secondo ‘500 Tasso, con la “Gerusalemme
liberata”, vuole RESTAURARE il poema epico tradizionale, rifacendosi alla lezione classica di
Omero e Virgilio e alle regole aristoteliche: abbandona la materia romanzesca traendo
l’argomento dalla storia, mira a conferire al poema una struttura rigorosamente unitaria e chiusa
contro la dispersione delle avventure cavalleresche.
Tuttavia nel poema tassesco si manifestano profonde ambivalenze, che cominciano a mettere in
crisi la struttura epica tradizionale: la solennità propria dell’epica è compromessa da episodi
patetici.
In opposizione ai valori religiosi appare evidente nel poema il fascino esercitato dai valori laici.
Il BIFRONTISMO interno della Gerusalemme liberata è la più chiara manifestazione di questa
crisi.
La crisi si aggraverà nel ‘600.

Il ‘600 presenta una ricca produzione di poemi eroici modellati sulla Gerusalemme: si possono
ricordare la “Croce conquistata” di FRANCESCO BRACCIOLINI o ancora “Il conquisto di
Granada” di GIROLAMO GRAZIANI.
I modesti risultati delle opere citate denunziano la progressiva decadenza a cui il modello
tassiano è ormai avviato.
Ma è con Alessandro Tassoni e Marino che l’epoca barocca sancisce il definitivo abbandono del
poema epico-eroico: nel primo caso, attraverso un genere ibrido, il POEMA EROICOMICO; nel
secondo, con la costruzione di un monumentale POEMA LIRICO che perde ogni legame con il
genere della tradizione.
Alessandro Tassoni, nella “Secchia rapita”, adopera ancora la narrazione epica, fondata sul fitto
intrecciarsi delle azioni dei personaggi allo scopo di svuotarne il senso originario per immettervi
elementi parodici.
Marino con l’ “Adone” giunge invece a dissolvere del tutto l’elemento principe dell’epica, vale a
dire la narrazione delle azioni.

ALESSANDRO TASSONI

Nacque a Modena nel 1565, di nobile famiglia.


Dopo una giovinezza scapestrata, entrò al servizio del cardinale Ascanio Colonna.
Divenne segretario dell’ambasciata romana di Carlo Emanuele I.
Al 1602 risale la stesura delle “Considerazioni sopra le Rime del Petrarca”, la prima espressione
della rivolta secentesca contro la riproduzione pedissequa del modello petrarchesco.
Notevoli poi risultano i “Pensieri diversi”.
Tassoni afferma senza mezzi termini la superiorità dei temi moderni sugli antichi.
Ma la fama dell’autore è affidata alla “Secchia rapita”, poema eroicomico in ottave completato nel
1618 con l’aggiunta di 2 canti ai 10 della prima stesura.
Lo schema dell’azione (le vicende di una guerricola medievale tra Modena e Bologna) ripropone
l’impalcatura del poema eroico teorizzata da Tasso.
Ma Tassoni innesta sulla materia epica e sul suo modello “alto” (la guerra di Troia cantata da
Omero nell’Iliade e in particolare la vicenda del rapimento di Elena) elementi destinati a sminuire
il significato più nobile di quei valori eroici così come erano stati recepiti dal genere nella sua
evoluzione cinquecentesca.
Lo scopo perseguito è chiaramente il diletto.
LA LETTERATURA DRAMMATICA NEL ‘600

IL TEATRO EUROPEO

La funzione sociale e pubblica del teatro è, rispetto alle altre arti, molto più immediata e per
questo imprescindibile, per via dell’evidente coinvolgimento che si instaura tra spettatori e scena.
Durante il ‘600 si pongono le basi teoriche del teatro moderno.

IL TEATRO IN ITALIA
È grazie alla spettacolarità introdotta con le recite A SOGGETTO dei nostri comici che i pubblici
indifferenziati di tutta Europa conobbero per la prima volta il teatro d’attore.
A fianco di questo imponente fenomeno di cui l’Italia fu culla, non va dimenticato il nascere del
melodramma o dramma per musica che, partito da circoli artistici circoscritti, si afferma e
guadagna progressivamente un ruolo privilegiato.
Il monopolio ecclesiastico e l’impegno propagandistico della Chiesa spiegano il fiorire e il
diffondersi del teatro gesuitico.
Non a caso due tra gli autori drammatici del barocco italiano più degni di menzione ripropongono
nelle loro opere alcune delle tematiche care alla spiritualità gesuitica: CARLO DE’ DOTTORI e
FEDERICO DELLA VALLE.
Il primo, ricordato soprattutto per l’ “Aristodemo”, rifacendosi ai tragici della classicità ne
ricalca il rigore dell’unità d’azione, di spazio e di tempo, e il tema principale della lotta dell’uomo
contro il destino infausto.
Federico Della Valle da un punto di vista tematico tenta di adeguare la materia classica (i miti
antichi) a soggetti della contemporaneità e al rigore di una moralità cattolica cercando
nell’esemplarità degli eroi biblici i suoi riferimenti.

FEDERICO DELLA VALLE

Disponiamo di poche notizie sicure sulla sua vita.


Nato intorno al 1560 nell’Astigiano visse a Torino, alla corte della duchessa Caterina, figlia di
Filippo II di Spagna e moglie di Carlo Emanuele I di Savoia.
Dopo un esordio del genere lirico, si concentra sul genere tragico.
Le 3 tragedie a cui è legata la sua fama non furono mai rappresentate.
Fu Benedetto Croce a riscoprirle e a far sì che l’autore fosse annoverato nel panorama
seicentesco come il maggior tragediografo italiano.
Delle 3 tragedie, due di esse ripropongono vicende tratte dall’Antico Testamento: la “Iudit” narra
la storia di Giuditta che uccide Oloferne per salvare il popolo ebraico dalla sottomissione a un
prepotente nemico; l’ “Ester” narra la vicenda della sposa ebraica del re assiro Assuero la quale
salva il popolo dallo sterminio.
Con la “Reina di Scotia” Della Valle ricostruisce gli ultimi momenti della vita di Maria Stuarda
mandata a morte da Elisabetta d’Inghilterra dopo 19 anni di prigionia.

IL TEATRO IN SPAGNA

La letteratura drammatica spagnola del ‘600 non può leggersi alla luce della pesante egemonia
culturale esercitata dalla cultura controriformistica, di cui la penisola iberica fu patria
indiscussa.
Il genere drammatico è infine fortemente influenzato dalla tradizione della pratica scenica
popolare e di corte.
Ai vertici del teatro si colloca l’opera di LOPEZ FELIX DE VEGA CARPIO, la cui massiccia
produzione drammatica è segnata dalla maestria nel costruire intrecci avvincenti.
I suoi drammi inscenano avventure amorose e d’onore e si chiudono sempre con un lieto fine.
L’umanità è rappresentata in tutte le sue varianti sociali.
L’autore dimostra poi una particolare abilità nel tratteggiare i ruoli femminili e a lui si deve
l’invenzione del personaggio del semplicione, che verrà adottato nella successiva produzione
drammatica.
Tra le opere più celebri “Fuente Ovejuna”, che narra la rivolta popolare di un intero paese;
“L’acciaio di Madrid”.
Il terzo grande autore spagnolo del ‘600 fu PEDRO CALDERON DE LA BARCA, teologo, militare e
sacerdote.
Spicca “Il gran teatro del mondo”; “La vita è sogno”.

TIRSO DE MOLINA

Nacque a Madrid nel 1579 da una famiglia di umili origini.


Studiò teologia e divenne frate.
A Toledo conobbe Lope de Vega e iniziò un’intensa attività di drammaturgo.
Contiamo 80 lavori che spaziano dal genere tragico a quello comico.
Caratteristici del suo teatro comico sono un linguaggio vivo e dalla comicità raffinata e il gusto
per la complicazione dell’intreccio grazie ai frequenti travestimenti.
In “Marta la devota”, ad esempio, attraverso la protagonista che si finge pia e fervente, l’autore
conduce una pungente satira sociale dimostrando la superficiale spiritualità dell’ambiente
religioso.
Nel genere “serio”, poi, Tirso dimostra una particolare attenzione agli avvenimenti della
contemporaneità di cui fanno parte la “Trilogia dei Pizarro” e la famosa “La prudenza nella donna”,
in cui è riflessa la coscienza del declino dell’età di Filippo II, un’epoca corrotta e violenta.

PEDRO CALDERON DE LA BARCA

Nacque a Madrid nel 1600.


Figlio di un funzionario di corte, ricevette dalla famiglia l’educazione raffinata che si imponeva ai
figli dell’alta società.
Studiò Diritto e Teologia.
I suoi primi drammi risalgono al 1623 e furono scritti per i CORRALES (edifici gestiti perlopiù da
confraternite religiose che in principio assolvevano provvisoriamente alla funzione di spazi
scenici).
Da qui ebbe inizio la sua intensa attività di drammaturgo.
Nel 1651 prende gli ordini sacerdotali senza interrompere l’attività letteraria.
Di Calderòn ci restano 120 commedie, diversi lavori minori e 80 brevi rappresentazioni.
Attraverso OPPOSIZIONI SIMBOLICHE, Calderòn costruisce una rappresentazione del mondo
che dimostra con grande potere espressivo l’angoscia tipica dell’uomo barocco.
Nei suoi drammi i personaggi incarnano le contraddizioni della condizione umana.

IL TEATRO IN FRANCIA

In Francia il dibattito religioso si intreccia con lo scontro tra interessi e progetti politici
fortemente contrastanti: a un modello ideologico e conformista si contrappone l’austero ideale
cristiano.
Le due tendenze trovano espressione rispettivamente nei capolavori di PIERRE CORNEILLE e di
JEAN RACINE.
L’altro grande autore del ‘600 teatrale francese è MOLIERE, che nelle sue commedie esprime
posizioni laiche tese a liberare il campo dai condizionamenti dottrinali della religione che egli vive
come un freno inibitore delle potenzialità del libero pensiero.
Pierre Corneille nelle sue tragedie mette in scena il valore eroico incarnandolo in personaggi
dall’umanità complessa: sono i protagonisti delle 4 tragedie (“Il Cid”, “Orazio”, “Cinna”, “Poliuto”).
Tutte di argomento storico.
Le prime tre esaltano l’onore, l’amore di patria e la grandezza d’animo, la quarta, la santità di un
martire cristiano.

JEAN RACINE

Nato nel 1639 da una modesta famiglia, studiò cultura greca alla scuola del convento di Port-
Royal dove ricevette un’austera educazione cattolica.
Il severo pessimismo del pensiero di Sant’Agostino trovava nel convento di Port-Royal la sua
traduzione pratica in una religiosità fervida e lontana dalle convenzioni del costume gesuitico
imperante che attribuivano estrema importanza ai gesti esteriori di devozione.
Entrambi gli elementi dovevano influenzare lo sviluppo della sua personalità.
Mentre Corneille proponeva personaggi che incarnavano eroicamente i valori del libero arbitrio in
vicende che esaltavano l’onore, l’amor di patria, Racine rivelava la sua volontà di scandagliare i
recessi più profondi della coscienza per dimostrare con quanta forza le passioni agitino la vita
dell’uomo.
Lo strepitoso successo di “Andromaca” e di “Britannico” fece si che Racine fosse accolto con
grande favore anche a corte.
Con “Fedra” toccò il vertice della propria arte.

MOLIERE (JEAN-BAPTISTE POQUELIN)

Nato nel 1622 da un facoltoso tappezziere parigino, studiò presso un aristocratico collegio.
Con la famosa attrice (e sua compagna) MADELEINE BEJART, fondò la compagnia dell’
ILLUSTRE TEATRO, tentando invano di imporsi sulla scena teatrale parigina.
Dopo aver conosciuto il carcere per debiti, lasciò Parigi per divenire comico in compagnie di giro
(girovaghe) per quasi 14 anni.
Nelle “Preziose ridicole”, opera con cui ha inizio la serie di commedie di costume, Moliére
rappresenta in chiave comica la manie e le mode del tempo.
Con “Sganarello”, “La scuola dei mariti”, “Il cornuto immaginario”, il commediografo affronta per
la prima volta lo scottante tema dei rapporti matrimoniali, provocando lo sdegno dei benpensanti.
Sia “Tartufo” sia “Don Giovanni” suscitarono un tale scalpore da spingere il re a consigliare la
sospensione delle repliche.
Con il “Misantropo”, attraverso la figura del protagonista, un giovanotto leale e sincero che si
allontana dall’egoismo crudele del bel mondo, Molière porta la commedia a sfiorare i confini del
dramma.
La scrittura drammatica di Molière rispecchia l’apertura di un intellettuale diffidente nei
confronti di ogni schematismo astratto, attento invece alla concretezza della vita
contemporanea.
La comicità di Molière fa emergere il ridicolo di chi tenta di nascondersi dietro una delle
innumerevoli maschere che le convenzioni sociali propongono all’individuo.

WILLIAM SHAKESPEARE

Le notizie sulla vita sono lacunose.


Di certo si sa che nacque a Stratford nel 1564 da un padre commerciante di pellami.
I primi studi li fece alla locale GRAMMAR SCHOOL dove apprese il latino e i rudimenti del greco.
Alcune difficoltà economiche familiari lo costrinsero presto ad affiancare il padre nella sua
attività.
Diciottenne sposò Anne Hathaway, di otto anni più anziana, che gli diede presto una figlia, Susan,
e due gemelli (il secondo morto precocemente).
Sin da giovane dovette preoccuparsi del mantenimento della propria famiglia, del padre e di 4 tra
fratelli e sorelle.
Fu forse per necessità, oltre che per indubbio talento, che di dedicò presto all’attività di
scrittore per il teatro.
Nel frattempo era entrato attivamente nella vita teatrale londinese divenendo comproprietario,
nonché attore e poeta, della compagnia del Lord Ciambellano.
Giacomo I, succeduto a Elisabetta I, prese poi sotto la sua diretta tutela la compagnia che
divenne LA COMPAGNIA DEL RE.
Morì nel 1616 e fu sepolto nella chiesa della sua città natale.
Sulla sua lapide si legge: “Buon amico, per amor di Cristo, non cavar fuori la polvere qui racchiusa!
Benedetto chi rispetta queste pietre e maledetto colui che rimuove le mie ossa”.

LE LIRICHE

I POEMI E LE LIRICHE MINORI


I drammaturghi dell’epoca solevano definirsi POETI DI TEATRO, ma per Shakespeare “poeta”
definì anche l’effettiva attività di composizione lirica in cui fu impegnato durante i primi 30 anni
della sua carriera.
La produzione poetica shakespeariana è attraversata da due tendenze differenti: quella
“pubblica” dei poemi narrativi di materia classica, che annovera “Venere e Adone” e “Lucrezia
Violata” e che venne dedicata da Shakespeare al conte di Southampton per ottenerne stima e
protezione; quella “privata” che raccoglie 154 Sonetti.

I “SONETTI”
La raccolta di 154 Sonetti, pubblicata nel 1609 consiste in composizioni che adottano il modulo
metrico corrente del tempo (decasillabi disposti su tre quartine e un distico).
I materiali si organizzano in due grandi sezioni: la maggior parte dei Sonetti si rivolge a un bel
giovane la cui personalità è descritta con accenti che muovono a tratti dalla passione, a tratti
dall’amicizia; la seconda a una dama bruna che sembrerebbe raffigurare la parte oscura e malata
della tensione erotica e amorosa.
Manierista e raffinata nei poemetti la poesia di Shakespeare si fa nei Sonetti intensa e inquieta.
L’OPERA TEATRALE: DALL’APPRENDISTATO ALL’AFFERMAZIONE SULLE SCENE (1588-1594)

La tendenza della filologia critica è quella di distinguere lo sviluppo della produzione teatrale di
Shakespeare in 4 fasi: dagli inizi all’affermazione sulle scene (1588-1594); l’attività artistica con
la compagnia dei Lord Chamberlain’s Men (1594-1603); quella con i king’s Men (1603-1608); il
periodo del Blackfriars (1608-1616).
Nei due anni in cui Londra fu devastata dalla peste Shakespeare si trovò a dover rinunciare alla
professione di attore e di collaboratore alla stesura di copioni teatrali delle varie compagnie
operanti sulla scena londinese dal momento che l’epidemia costrinse le autorità a chiudere tutti i
teatri pubblici.
Fu questa l’occasione per lui di dedicarsi alla composizione di poemi e sonetti.
In questa fase iniziale Shakespeare dimostra una spiccata propensione alla sperimentazione di
forme e modelli desunti dalla tradizione.

IL “TITO ANDRONICO” E LE COMMEDIE EUFISTICHE


La tragedia “Tito Andronico” è la prima prova che Shakespeare dà alle scene cimentandosi con la
materia tragica classica.
Il modello senecano è rimodellato in direzione di una maggiore drammatizzazione dell’azione, che
nella tragedia di Seneca era invece per lo più affidata agli interventi del coro.
È riconducibile a questo periodo anche la composizione delle cosiddette COMMEDIE
EUFISTICHE.
Il preziosissimo retorico dell’eufemismo assume, tuttavia, un’inequivocabile funzione critica in
Shakespeare.
In “La bisbetica domata”, “La commedia degli equivoci”, “I gentiluomini di Verona” e “Sogno di una
notte di mezz’ estate” Shakespeare si avvale infatti dei consueti artifici retorici (metafore,
giochi di parole) ma ne smaschera il virtuosismo fine a se stesso, allo scopo di mettere in risalto i
sentimenti più autentici dei personaggi.

LA TRAGEDIA LIRICA “ROMEO E GIULIETTA”


Composto tra il 1592 e il 1594, il dramma lirico “Romeo e Giulietta” rappresenta un passo
successivo dell’autore verso la sperimentazione di nuove forme drammatiche.
La vicenda dei due amanti, tratta dalle Novelle di Bandello, è un soggetto che Shakespeare
conosceva in traduzione francese e inglese.
Durante la pestilenza che infestò Londra e che costrinse le autorità a chiudere i teatri pubblici,
le uniche occasioni di rappresentazione restavano quelle di corte.
Si spiega quindi il taglio che Shakespeare volle dare al dramma, privilegiando argomenti raffinati
e uno stile lirico (l’86% del testo è in versi), per incontrare maggiormente i gusti di un pubblico
nobile.
Il linguaggio degli amanti è quello dell’amore cortese ed è espresso nei versi dei sonetti tanto cari
alla letteratura inglese dell’epoca.

L’OPERA TEATRALE: LA COMPAGNIA DEI LORD CHAMBERLAIN’S MEN (1594-1603)

Tra il 1599 e il 1601 si consuma il periodo di massimo sviluppo creativo dell’intensa carriera
dell’autore.
Il 1599 vide infatti il trionfo sulle scene di “Enrico V”.
Nello stesso periodo escono il “Giulio Cesare” e l’ “Amleto”, l’opera che segna la grande svolta
drammaturgica shakespeariana e che influenzerà il teatro di tutta Europa.

LE STORIE INGLESI
Sempre in questo periodo Shakespeare si dedica al ciclo dei drammi ispirati alla storia inglese.
Il primo di essi, “Re Giovanni”, dà inizio alla lunga narrazione diluita in 10 drammi delle storie dei
monarchi inglesi: “Riccardo II”; “Enrico IV”; “Enrico V”; “Enrico VI”; “Riccardo III”.
In questi drammi l’autore dimostra una grande abilità nel far proprio un genere, quello storico
appunto, molto frequentato dalla cultura inglese, che metteva in scena le vite e le leggende dei
suoi re, le rivalità fratricide, le guerre secolari.

LE COMMEDIE ROMANZESCHE
In questo periodo Shakespeare dà anche alle scene 5 commedie che vengono comunemente
definite ROMANTICHE perché in esse sono rintracciabili i temi amorosi della letteratura
cortese.
“Il mercante di Venezia”, “Molto rumore per nulla”, “Come vi piace”, “La dodicesima notte o quel
che volete” e “Sir Falstaff e le allegri comari di Windsor”.
Ma già da questa vivace fase compositiva Shakespeare preannuncia il suo futuro distacco dalla
commedia per approdare alla forma ibrida della tragicommedia.
“Il mercante di Venezia”, ad esempio, fu scritto in una temperie politica particolare, quella accesa
dall’accusa di attentato alla vita della regina Elisabetta rivolta al suo medico, un ebreo
portoghese convertitosi al cristianesimo.
Ma non è nell’odio antisemita che va ricercato il nucleo drammatico della vicenda, quanto
nell’affiorante sensibilità dell’epoca moderna: “Antonio [il mercante veneziano] incarna il nuovo
ideale cavalleresco della società borghese e trasferisce nel nuovo contesto la gran virtù dei
cavalieri antichi: altruismo, generosità”.
IL MITO DI ROMA E IL MONDO CLASSICO
Il “Giulio Cesare” costituisce la prima di un ciclo di 3 tragedie di ambientazione classica romana .
“Antonio e Cleopatra” e “Coriolano” furono infatti scritti tra il 1606 e il 1609.
Gli elisabettiani conoscevano la storia romana soprattutto attraverso Plutarco.

I DRAMMI DIALETTICI (PROBLEM PLAYS)


La critica fa rientrare nella definizione generale di DRAMMI DIALETTICI 4 opere.
L’ “Amleto” è certamente un soggetto tragico.
All’opposto, la collocazione in un genere preciso di “Troilo e Cressida”, in cui la leggenda di Troia è
rivisitata in chiave cavalleresca, ha rappresentato a lungo un problema critico di ardua soluzione.
L’opera infatti non segue né un canone tragico (i protagonisti non muoiono) né tanto meno uno
comico (non vi è fatto alcun lieto fine).
La questione è stata risolta adottando la definizione di DARK COMDIES (COMMEDIE NERE) che
accomuna il “Troilo” a “Tutto è bene quel che finisce bene”, sorta di novella drammatizzata sul
modello boccaccesco, e a “Misura per misura”, anch’essa di impianto novellistico rinascimentale,
che trae la propria vicenda dalla quinta novella dell’ottava decade degli “Ecatommiti” di Giovan
Battista Giraldi Cinzio.
L’elemento sostanziale che accomuna le tre opere shakespeariane è dato da un pessimismo di
fondo che la critica fa risalire alla crisi politica di quegli anni: la malattia è successiva morte della
regina Elisabetta e le inquietudini per la sua successione, la fine della stabilità socio-economica.

L’OPERA TEATRALE: I KING’S MEN (1603-1608)

L’ascesa al trono di Giacomo I significò per Shakespeare e i suoi attori la prestigiosa promozione
a Compagnia sotto la diretta protezione del Re in persona (KING’S MEN).
Di questo complesso universo tragico shakespeariano fanno parte “Otello”, il dramma della
passione amorosa che mostra qui il suo lato oscuro e distruttivo; “Re Lear”, la tragedia che
inscena l’esperienza atroce della follia e lo sconvolgimento radicale dei rapporti familiari (le figlie
malvagie di Lear che si uccidono); e “Macbeth”, la più essenziale delle tre, in cui si assiste alla
trasformazione di un uomo coraggioso e leale in usurpatore fedifrago del regno.
È per bocca di Macbeth che Shakespeare ci consegna una delle riflessioni più eloquenti sul
significato della sua opera e sulla sua visione del teatro come metafora del mondo: “La vita non è
che un’ombra che cammina; un povero attore che si pavoneggia e si agita per la sua ora sulla scena
e del quale poi non si ode più nulla; è una storia raccontata da un idiota, piena di rumore e di
furore, che non significa nulla”.
L’OPERA TEATRALE: IL PERIODO DEL BLACKFRIARS (1608-1616)

IL “TIMONE D’ATENE”
Nel 1608 i King’s Men ottengono l’autorizzazione a riaprire alle pubbliche rappresentazioni la sala
del refettorio del convento dei frati domenicani.
Da allora in poi il Globe verrà utilizzato solo nei mesi estivi e la compagnia dovrà adattare il
repertorio drammatico anche ad un pubblico più sofisticato.
È in questa nuova prospettiva che parte dalla critica ritiene di collocare la stesura del “Timone
d’Atene” in cui si espone allegoricamente un messaggio di moralità.
Timone è cittadino ateniese di grande virtù a cui tocca scontrarsi con la meschinità di una
comunità incapace di vivere il bene comune.

I DRAMMI ROMANZESCHI
Nell’ultima fase Shakespeare privilegia le ragioni della fantasia, in quelle che genericamente si
possono definire tragicommedie e con più esattezza DRAMMI ROMANZESCHI, i cosiddetti
ROMANCES.
“Pericle, principe di Tiro”, “Ciambellino, re di Britannia”, “Il racconto d’inverno”, “La tempesta” e
“I due nobili congiunti” sono opere ibride in cui il contrasto non è abolito, ma superato almeno in
parte da un atteggiamento che nel momento in cui accetta i misteri insolubili della vita sceglie di
non manifestarsi attraverso la rinuncia e la disperazione.

CARATTERI GENERALI DELL’OPERA SHAKESPERIANA

Shakespeare non curò l’edizione a stampa delle proprie opere teatrali.


I suoi copioni presero a circolare in edizioni pirata di costo contenuto.
A sette anni dalla morte dell’autore venne fatta una raccolta di 36 opere pubblicate in un volume
di grande formato sotto il titolo di “Commedie, Drammi storici e Tragedie del Signor William
Shakespeare”.

L’immaginario letterario dell’Inghilterra di fine ‘500 era ancora impregnato di suggestioni


medievali.
Questo retaggio ibrido restituisce sfumature del tutto particolari all’opera di Shakespeare.
Elementi magici e meravigliosi corrono paralleli alle narrazioni sulla storia antica e inglese.
Si pensi a come uno dei temi cardine del gusto un po’ morboso elisabettiano, l’insistita
rappresentazione della morte in scena, diventi per Shakespeare un’occasione di riflessione
complessa: nei suoi drammi la morte è infatti uccisione dei colpevoli, evasione ultima della realtà.
Un altro grande tema centrale e ricorrente è quello politico, della ragion di Stato:è alla base di
tutto il ciclo delle storie inglesi, ma nel drammaturgo non è mai una presa di posizione ideologica
(basata cioè su convinzioni politiche preconcette) quanto piuttosto spunto drammatico per la
rappresentazione del conflitto fra pubblico e privato, ulteriore prospettiva a cui guardare e
indagare la natura umana.
A quest’ultimo tema si lega quello della vendetta: con Amleto Shakespeare abbandona il filone
della tragedia di vendetta per far posto alla rappresentazione del conflitto interno al
personaggio investito di questa gravosa missione: alla certezza subentra il dubbio che pervade
l’uomo di fronte a una realtà che sfugge alla comprensione e alle categorie espresse dagli antichi
valori.

“AMLETO”

Shakespeare scrisse l’ “Amleto” tra il 1600 e il 1601, esattamente al volgere del nuovo secolo.
Non si tratta solo di una suggestiva coincidenza cronologica.
Amleto è l’opera in cui Shakespeare prende pienamente coscienza della crisi del mondo antico,
che in Inghilterra coincise appunto con il passaggio dalla fiduciosa vivacità dell’epoca
elisabettiana alla disincantata epoca giacobina.
Nella finzione drammatica della vicenda del principe di Danimarca la crisi viene assunta
soprattutto dal punto di vista del protagonista di cui, per la prima volta nel teatro europeo, è
rappresentata la sofferta e complessa interiorità.

L’Amleto conobbe 4 diverse edizioni: 1603, 1604-1605, 1611 e 1623.


La prima copia pirata del 1603 era la trascrizione di alcune recite di provincia della “Tragica
storia di Hamlet principe di Danimarca” ovvero una versione popolare.
L’Amleto originale fu invece scritto per spettatori colti e infatti presenta sì la vendetta come
tema cardine, ma in realtà apre ampi spazi di riflessione sulla liceità di un tale gesto fino a
sovvertire quasi del tutto l’impalcatura della tragedia di vendetta.
Per comporre la vicenda del principe di Danimarca, Shakespeare attinge alla storia e alla
letteratura passate.
In questo caso lo spunto è tratto dalle HISTORIAE DANICAE LIBRI di Saxo Grammaticus
pubblicata nel 1514.

La struttura dell’Amleto è ripartibile in 3 macrosequenze:


1) PRIMA MACROSEQUENZA. Coincide con il I atto e con la prima giornata del tempo della
narrazione drammatica. Comincia dalla mezzanotte (il re di Danimarca è morto e il suo
spettro appare a Mercello e Orazio sui bastioni del castello) e arriva alla successiva notte
(in cui è il principe Amleto a incontrare il fantasma del padre, il quale gli rivela di essere
stato avvelenato dal fratello Claudio, che ne ha sposato la vedova, usurpando il trono al
nipote) e si chiude all’alba.
2) SECONDA MACROSEQUENZA. Dalla prima scena del II atto alla quarta del IV. Copre un
arco temporale di due giornate consecutive. È la sequenza dell’ INCHIESTA, il nucleo
fondamentale del dramma dove si rappresenta l’indagine di Amleto per scoprire la verità in
merito alle inquietanti rivelazioni dello spettro. Amleto simula a questo scopo, la pazzia,
per potere più agevolmente smascherare i colpevoli e vendicare il padre. Per accertare la
veridicità delle affermazioni del fantasma Amleto organizza anche la rappresentazione di
un dramma (l’ ASSASSINIO DI GONZAGO) in cui inserisce alcuni versi scritti di suo
pugno riproducendo i particolari rivelatigli dallo spettro. L’inquietudine che pervade
Claudio durante la recita è per Amleto la conferma della sua colpevolezza.
3) TERZA MACROSEQUENZA. V atto. Quest’ ultima sezione è a sua volta divisa in due parti,
delimitate dai due diversi ambienti di riferimento: il cimitero (nella scena della sepoltura
di Ofelia che, impazzita e in preda al delirio per essere stata respinta da Amleto, si era
lasciata scivolare nel fiume morendo annegata) e la corte (dove si consuma il finale
tragico). Il primo richiama il mondo degli spiriti e dei morti e rimanda all’iniziale
apparizione dello spettro del re morto. La sala della corte ospita invece le ultime tragiche
scene dove la vendetta è infine portata a compimento. Claudio, fingendo di voler
rappacificare Amleto e Laerte, intenzionato a vendicare la morte della sorella Ofelia e del
padre Polonio, propone loro di misurarsi in modo incruento, ma fa avvelenare la punta della
spada di Laerte e il vino che intende offrire ad Amleto. Il duello finale degenera in una
vera ecatombe: il principe, benché ferito, uccide Laerte, che confessa l’inganno, e muore
anche la regina Gertrude, che beve il vino destinato al figlio. Prima di morire Amleto
uccide lo zio e affida all’amico Orazio il compito di narrare la sua storia. L’arrivo del
valoroso Fortebraccio, principe di Norvegia, e presto nuovo re di Danimarca, sancisce
l’inizio di una nuova e pacifica era.
MIGUEL DE CERVANTES SAAVEDRA

Miguel de Cervantes, il più grande romanziere spagnolo, nacque nel 1547 nella Nuova Castiglia.
Fu il quarto di 7 figli di un modesto medico.
A Madrid fu allievo dell’umanista de Hoyo, fervido ammiratore di Erasmo da Rotterdam.
Nel 1569 raggiunse l’Italia, dove condusse la vita errabonda dello studente e del piccolo
cortigiano, soggiornando a Roma e a Napoli.
Si arruolò nel 1570 contro l’impero ottomano; combattè da valoroso nella battaglia di Lepanto.
Durante il viaggio che doveva riportarlo in Spagna fu catturato dai pirati berberi e venduto come
schiavo ad Algeri.
Qui trascorse 5 anni.
Liberato rientrò in patria.
Qui non lo attendevano gli onori sperati ma ingratitudine e decenni di stenti.

LE OPERE MINORI

LA “GALATEA” E LE OPERE PER IL TEATRO


La “Galatea”, romanzo in prosa e in versi, testimonia fin dal suo esordio la natura sperimentale
della scrittura di Cervantes, che intreccia ai temi e all’ambiente pastorale elementi avventurosi
tratti dal romanzo ellenistico e il motivo della peregrinazione, che ricomparirà spesso nelle sue
creazioni.
Oltre alla ventina di commedie scritte prima dell’esordio letterario, l’opera teatrale comprende
“Otto commedie e otto intermezzi” raccolte per la stampa in vecchiaia e mai rappresentate.

LA PROSA
Le “Novelle esemplari” pubblicate nel 1613 raccolgono la maggior parte delle prose brevi scritte
nei primi anni del ‘600.
Si tratta di opere in prosa modellate sulla novella italiana.
Anche se unificati da un tema di fondo (l’amore), i motivi ispiratori delle vicende narrate
risultano estremamente vari e diversificati.
La novella finale (“Il colloquio dei cani”) permette all’autore di affidare alla voce di due cani il
dibattito conclusivo, nel corso del quale il primo (Berganza) passa in rassegna la varia umanità dei
personaggi delle vicende via via presentate, mentre il secondo (Cipiòn) interloquisce riproponendo
le obiezioni tipiche del moralismo tradizionale.
Nel “Dottor Vetrata” compare il tema della follia: il protagonista è persuaso di essersi
trasformato in un uomo di vetro e si sente esposto in ogni momento a danni irreparabili.
Frutto di anni di lavoro, “Le peripezie di Persile e Sigismonda” furono pubblicate postume nel
1616.
Le peregrinazioni dei due promessi sposi, che li portano dall’Islanda a Roma, dove la vicenda si
scioglierà con il trionfo dell’amore, riprendono il modello del romanzo bizantino e offrono
l’occasione per intrecciare alla vicenda principale una serie di novelle dallo svolgimento autonomo.

“DON CHISCIOTTE DELLA MANCIA”

Cervantes ebbe sicuramente presente il racconto burlesco pubblicato anonimo in Spagna dal
titolo “Entremès de los romances”.
Quest’opera narrava la vicenda di un contadino che, a forza di leggere ROMANCEROS (raccolte
di romances) si era persuaso di essere un cavaliere come quelli conosciuti nelle sue avide letture.
Così il folle abbandona la giovane moglie e si avventura in peripezie, collezionando umiliazioni.
Alla base del DON CHISCIOTTE sta sicuramente un meccanismo parodistico simile.
La prima parte del romanzo esce nel 1605 con il titolo “L’ingegnoso cavaliere Don Chisciotte della
Mancia, composto da Miguel de Cervantes Saavedra”.
La seconda è pubblicata nel 1615 col titolo “Seconda parte dell’ingegnoso cavaliere don Chisciotte
della Mancia. Di Miguel de Cervantes Saavedra, autore della sua prima parte”.
Come si vede ci sono 2 varianti tra il primo e il secondo titolo: HINDALGO (signorotto di
campagna) è diventato CABALLERO (gentiluomo), differenza semantica che stabilisce una lieve
promozione sociale, come se l’autore avesse voluto, nel riprendere le avventure di Don Chisciotte,
innalzarlo di rango.

Sebbene il Don Chisciotte venga pubblicato in due periodi ben distinti e distanti della vita di
Cervantes, l’opera mantiene a tutti gli effetti una struttura organizzativa organica e unitaria.
La prima parte è quindi suddivisibile in 4 grandi sezioni:
1) Presentazione dell’eroe e sua prima uscita in cerca di avventure;
2) Ingresso di Sancio Panza e seconda uscita;
3) Primo ciclo di avventure;
4) Secondo ciclo di avventure.
La seconda parte:
1) Dalla partenza di Don Chisciotte per la sua terza uscita fino all’incontro con i duchi;
2) La permanenza a palazzo dei duchi di Chisciotte e il parallelo governo di Sancio sull’isola di
Barattaria;
3) Dal viaggio per Barcellona dei due compagni riuniti fino al rinsavimento e alla morte di Don
Chisciotte.

Partiamo dal PROLOGO del 1605: è qui che Cervantes dà notizia della “vera” paternità del
romanzo, scritto dallo “storico arabo” Cide Hamete Benengeli.
Perché Cervantes affida nella finzione letteraria proprio a un “Infedele” la paternità della sua
opera?
Perché questo gli permette di “dare scherzosamente la responsabilità di ciò che è narrato a un
miscredente mentre il secondo autore, Cervantes, può atteggiarsi ora a relatore irresponsabile,
ora a critico che contesta o limita le affermazioni della sua fonte”.
Quindi, nel gioco delle narrazioni fittizie, lo scrittore reale passa dal ruolo di padre a quello di
patrigno del romanzo e, in qualità di curatore, finge di aver recuperato da un mercante di Toledo
lo scritto originale dell’autore arabo.
Compare poi un terzo soggetto narratore: il traduttore del manoscritto di Cide dall’arabo al
castigliano.

Parallelo alla moltiplicazione dei narratori, corre un altro procedimento volto alla frantumazione
del racconto lineare degli eventi, che si sostanzia nella tecnica della DIGRESSIONE.
Tali espedienti assumono di volta in volta forme differenti:
 Il racconto A SCHIDIONATA (da “schidone”, spiedo). Il termine indica una tecnica
narrativa per cui alcuni episodi secondari vengono “infilati” uno dopo l’altro nella
narrazione principale: le peripezie del cavaliere e del suo fedele scudiero in tal modo
risultano continuamente spezzate e sospese, ma mai veramente interrotte; è la serie
continua di racconti nel racconto.
 Le INCURSIONI dei narratori nella storia: quella dello scrittore “reale” finto curatore
del presunto manoscritto originale, quella del primo autore Cide e quella del “falsario”
Avellaneda. Tali incursioni creano un vorticoso efetto a spirale nella narrazione che
moltiplica all’infinito i punti di vista.
 Vi sono poi le digressioni in cui al personaggio è affidato il commento di temi trattati nella
storia. Principalmente di queste divagazioni è autore l’ingenioso Don Chisciotte che si
sofferma volentieri su questioni di ordine morale.
Il dialogo è lo strumento principe a cui Cervantes affida la lenta ma progressiva trasformazione
dei due personaggi lungo l’intera vicenda.
La critica continua ancora oggi a sviscerare la questione delle differenti visioni esistenziali che il
cavaliere e lo scudiero incarnerebbero; l’idealismo utopico di Don Chisciotte contrapposto al
grezzo materialismo di Sancio Panza.
Ma prima di astrarre i due personaggi a simboli, è bene capire quale sia la loro vita nello spazio e
nel tempo della narrazione.
La loro differenza è marcata innanzitutto dal LINGUAGGIO che adottano per esprimersi.
Chisciotte è portatore di uno stile alto, ricercato.
Sancio è un contadino senza istruzione, custode di una saggezza popolare che si esprime a suon di
proverbi e di modi di dire.

Nel finale del Don Chisciotte Cervantes fa pronunciare al suo ALTER EGO letterario, Cide, le
seguenti parole: “Il mio desiderio non è stato altro che quello di far venire in uggia rendere
insopportabili alla gente le false e stravaganti favole dei libri cavallereschi, che in virtù del mio
Don Chisciotte già cominciano a zoppicare e finiranno certamente col cadere del tutto”.
Il Don Chisciotte rappresenta il TRAPASSO dalla prosa letteraria, che incontrava ancora i gusti
stanchi e logori di gran parte del pubblico spagnolo, alla piena consapevolezza della necessità di
una rappresentazione del mondo non più sorretta dai valori che l’epica cavalleresca aveva reso
immortali e immutabili e per ciò stesso inadeguati a interpretare una società in repentina
trasformazione come quella che si affacciava al nuovo secolo.
La vera condanna dell’autore non colpisce il genere cavalleresco, ma piuttosto la confusione tra
letteratura e realtà.
GALILEO GALILEI

Nacque a Pisa nel 1564 da una nobile famiglia fiorentina.


Studiò nel convento fiorentino di Santa Maria di Vallombrosa e poi all’università di Pisa.
Nella sua città natale condusse soprattutto studi scientifici applicandosi dapprima alla medicina,
poi alla matematica.
Nel 1585 abbandonò l’università per poi rientrarvi come docente di matematica.
Molto più fertile fu il periodo trascorso all’Università di Padova.
Nel vivace ambiente intellettuale della città entrò in amicizia con lo storiografo Sarpi e Sagredo
e avviò corrispondenze epistolari con grandi personalità straniere.

Si trasferì poi a Firenze come PRIMARIO MATEMATICO DEL GRANDUCA DI TOSCANA.


L’appoggio dell’insigne scienziato gesuita Clavio non bastò a porre fine al conflitto apertosi con
molti esponenti della Chiesa, preoccupati dalle ripercussioni delle scoperte di Galilei in ambito
teologico; Galilei decise allora di ricorrere nei suoi scritti al volgare per permettere a un pubblico
più vasto di studiosi non legati all’insegnamento universitario, di partecipare al dibattito.
Nel 1616 la teoria eliocentrica fu condannata come incompatibile con la fede cristiana.
L’elezione al soglio pontificio di papa URBANO VIII (uomo di mente aperta) fece sorgere in
Galilei nuove speranze e lo indusse a portare a termine un’opera a cui lavorava da anni: “Dialogo
sopra i massimi sistemi”, nel quale Galilei, scrivendo in volgare e in uno stile piano e lineare che
rendeva il testo accessibile al largo pubblico, proponeva il contrasto tra le opposte tesi
cosmologiche tolemaica e copernicana.
Il pontefice, tuttavia, premuto da circostanze politiche lasciò che i Gesuiti condannassero le tesi
esposte da Galilei.
Questi, vecchio e malato, fu costretto a comparire davanti al tribunale dell’Inquisizione.
Morì nel 1642.

L’ELABORAZIONE DEL PENSIERO SCIENTIFICO E IL METODO GALILEIANO

L’evoluzione del pensiero scientifico galileiano prese le mosse dalle opere di Euclide e Archimede.
La prima ricerca di Galilei fu una relazione sulla bilancetta idrostatica da lui ideata per
determinare il peso specifico dei metalli nell’aria e nell’acqua.
Al 1610 risale l’osservazione, per mezzo del telescopio, dei satelliti di Giove; nelle feroci
polemiche che seguirono l’annuncio della scoperta, egli potè contare sull’appoggio offertogli dal
grande astronomo tedesco Kepler.
La sua versatilità lo portava intanto ad escogitare un nuovo strumento destinato ad ampliare
enormemente il campo dell’osservazione scientifica: adattando infatti il cannocchiale alla visione
ravvicinata inventò il MICROSCOPIO.
Nonostante i numerosi ostacoli che le opere, dal “Sidereus nuncius” al “Saggiatore”, al “Dialogo
sopra i due massimi sistemi del mondo” incontrarono a causa dell’avversione della Chiesa, Galilei
proseguì con determinazione le sue ricerche dedicandosi, nell’ultima fase della vita, agli studi di
meccanica.
Ne propose un’acuta sintesi nella più rivoluzionaria delle sue opere, “Discorsi e dimostrazioni
intorno a due nuove scienze”, del 1638.
L’opera, nella quale compaiono gli stessi interlocutori presenti nel “Dialogo”, pose le basi su cui si
svilupperanno la fisica e la scienza moderne.
Nei Discorsi e dimostrazioni Galilei formula per primo, sia pure in modo non esaustivo, il
PRINCIPIO DI INERZIA (in assenza di forze un corpo si muove con velocità costante) e le leggi
del moto accelerato di un corpo sottoposto all’azione di una forza costante.

La sua ricerca va intesa come un radicale passo verso la modernità per l’atteggiamento
metodologico che la caratterizza.
Il metodo galileiano è una sintesi rigorosa di ragionamento matematico.
Fu questo principio metodologico a suscitare l’opposizione più intransigente della Chiesa, la quale
rifiutava l’ipotesi di poter attribuire ad una disciplina tradizionalmente coltivata come ancella
della teologia il compito di descrivere e definire le strutture del mondo.
Galilei giunse infatti a definire la natura come libro scritto in caratteri matematici.
Lo scienziato pisano sosteneva la veridicità della teoria eliocentrica, mentre la Chiesa era
disposta a riconoscerne la validità e coerenza interna, a patto che la teoria non pretendesse di
proporsi come spiegazione veritiera della realtà.

IL “SIDEREUS NUNCIUS”

Con il “Sidereus nuncius”(Avviso astronomico), redatto in latino nel 1610, Galilei annunciò al mondo
le sconvolgenti scoperte effettuate con il nuovo strumento, il telescopio.
Le scoperte annunciate sono sensazionali: i 4 satelliti di Giove, denominati pianeti medicei in
onore del granduca di Toscana, Cosimo II dè Medici, suo allievo e futuro protettore, le macchie
della Luna e l’irregolarità della sua superficie, fino ad allora creduta levigata e perfetta.

“IL SAGGIATORE”

La comparsa di tre comete nel 1618 fu l’occasione di uno scontro con i Gesuiti, brillantemente
risolto a proprio favore da Galilei con il polemico e vivace “Il Saggiatore” (il bilancino di
precisione degli orefici).
Si tratta di un’epistola scientifica, indirizzata all’amico sacerdote Cesarini, con cui lo scienziato
rispondeva alla “Libra” (la bilancia) del padre gesuita Orazio Grassi, il quale intendeva confutare
le teorie di Galilei sulla natura delle comete.
L’opera è particolarmente importante per le considerazioni di Galilei sulla metodologia della
ricerca scientifica.
In particolare egli sostiene che lo scienziato nelle sue indagini deve attenersi all’esperienza
derivata dai dati sperimentali.
Dal punto di vista della strategia espositiva si segnalano l’inserimento di una favola per rendere
più gradevole e al tempo stesso convincente l’esposizione dei fondamenti del nuovo metodo
scientifico.

“DIALOGO SOPRA I DUE MASSIMI SISTEMI DEL MONDO”

Galilei ne terminò la composizione nel 1630.


L’autore ottenne l’autorizzazione alla pubblicazione dal pontefice Urbano VIII, al quale aveva
sottoposto preventivamente la struttura e i contenuti del Dialogo, accettando di proporre le due
tesi (quella tolemaica e quella copernicana) come teorie “astratte” e di mantenere nell’esposizione
un atteggiamento di neutrale equidistanza.
Il Dialogo, suddiviso in 4 giornate e ambientato a Venezia, luogo che, nell’esperienza di Galilei,
rappresenta il centro della vivacità culturale e della libertà di pensiero, è il contributo
letterariamente più efficace e originale dello scienziato pisano e segna l’apice nella sua opera di
divulgatore.

Gli interlocutori sono delineati come veri e propri personaggi, ciascuno con una personalità ben
definita.
L’inserimento del nobile veneziano Sagredo come terzo “attore” del confronto dialettico, che
media tra il sostenitore della teoria copernicana e il difensore delle dottrine aristoteliche,
permette all’autore di sfumare la disputa e offre a Salviati un’occasione verosimile per
trasportare sul terreno dell’esperienza quotidiana, comune a Sagredo e ai lettori, l’esposizione
dell’ipotesi copernicana e del metodo galileiano.
Sagredo, l’interlocutore “neutrale”, è animato da una naturale curiosità di sapere.
Ciò induce nel lettore una reazione di simpatia che lo spinge a identificarsi con il personaggio.

La grande innovazione formale di Galilei risiede nel ricorso a una lingua vicino all’uso comune,
accessibile perché non tecnicistica e in grado di avvicinare un ampio pubblico.

L’ETA’ DELLA RAGIONE E L’ARCADIA

Con il ‘700 giunge a piena risoluzione la catena di conflitti apertisi nel ‘600 con la crisi dei modelli
tradizionali.
Il metodo d’indagine scientifico-matematico derivato dalle scienze naturali è dal ‘700 applicato a
tutto lo scibile.
Nessun settore dell’esperienza umana sfugge al vaglio critico della ragione.

Dall’alleanza instauratasi tra intellettuali progressisti e sovrani assoluti aperti all’innovazione


nasce una politica di intervento riformatore dall’alto (ASSOLUTISMO ILLUMINATO),
ampiamente diffusa nell’Europa del primo ‘700.
Singolare e tipico della situazione italiana, in apertura di secolo è invece il carattere politico che
l’organizzazione della cultura aspira a darsi nel momento in cui un intellettuale come MURATORI
chiama a raccolta le energie di intellettuali progressiste disperse nella penisola per indirizzare gli
studiosi italiani alla soluzione dei problemi pratici del paese attraverso la costituzione di
un’accademia nazionale, la REPUBBLICA DEI LETTERATI D’ITALIA, modellata sull’esempio
galileiano.
È un invito pressante alle élites intellettuali affinchè si assumano il compito di avviare la società
italiana a recuperare ordine e dinamismo.

La frammentazione politica e la parallela varietà di situazioni sociali, politiche ed economiche in


cui l’intellettuale italiano si trova ad operare fanno si che la cultura italiana del tempo non
presenti quella uniformità di fondo che caratterizza Inghilterra e Francia, dove una forte
borghesia in ascesa demanda all’intellettuale il compito di elaborare modelli conoscitivi ed
operativi, adatti a trasformare in azione i nuovi principi ideali.

L’ ACCADEMIA DEI PUGNI , che riunisce molti dei nostri “illuministi” e l’innovatrice, anche se più
moderata, ACCADEMIA DEI TRASFORMATI, di cui è membro Parini, nascono a Milano, centro di
un’area in cui l’agricoltura si avvia a quella modernizzazione che costituisce la premessa dello
sviluppo civile e culturale dell’Europa settecentesca.
Mentre Muratori, Giannone e Vico scrivono per un pubblico limitato di eruditi, gli illuministi attivi
nella seconda metà del secolo si rivolgono a un pubblico potenzialmente molto più ampio, non
necessariamente abituato al latino e all’uso della lingua letteraria.

CLASSICISMO è così nei nostri grandi autori del ‘700 (Metastasio, Parini, Goldoni) non solo
fedeltà ad un modello di chiarezza e concretezza, ma apertura critica alla realtà, visione
problematica e proposta fattiva di un ordine e di una moralità possibile, di cui solo la creazione
letteraria costituisce nella nostra realtà sociale un esempio concreto e comunicabile al nuovo
pubblico della letteratura e soprattutto dei teatri.

LA TRATTISTICA E LA PROSA DI PENSIERO

Ciò che accomuna l’opera di studiosi come MURATORI, PIETRO GIANNONE e GIAMBATTISTA
VICO è la tendenza a ricostruire il passato secondo criteri e prospettive nuove.
La loro opera inaugura un nuovo modello di indagine fondato sul rigore scientifico e orientato alla
pubblica utilità.
Questa tendenza caratterizza tutto il ‘700 europeo.
Ludovico Antonio Muratori adotta il latino per la stesura della sua monumentale raccolta dei
documenti della storia italiana (“Rerum Italicarum Scriptores”) ottenendo peraltro il risultato di
renderla disponibile al pubblico internazionale degli specialisti, dal momento che il latino era la
lingua condivisa dagli intellettuali di tutta Europa.
Nata da esigenze professionali, la “Storia civile del Regno di Napoli” di Pietro Giannone si
trasforma in una vasta inchiesta giurisdizionale, scritta in una prosa tecnico-specialistica che
propone all’attenzione di giuristi una documentatissima ricostruzione dei rapporti giuridici reali
intercorsi nei secoli tra Stato e Chiesa.
Un caso a parte è rappresentato dalla scrittura di Gianbattista Vico che esprime in modo
esemplare la crisi della coscienza dell’uomo di fronte alle più recenti scoperte delle scienze
fisiche e matematiche del ‘600.
Due segnali dimostrano peraltro la disponibilità dei nostri intellettuali a muoversi nella direzione
di una più vasta divulgazione delle loro opere.
Il primo è la riduzione a 12 volumi e la traduzione in italiano dei Rerum Italicarum Scriptores ad
opera dello stesso autore; il secondo è il largo successo che arrise al trattato, sempre di
Muratori, “Del governo della peste e delle maniere di guardarsene”.
In esso lo studioso raccolse tutte le nozioni utili a organizzare la difesa della società civile dalle
pestilenze.

LUDOVICO ANTONIO MURATORI

Nato nel 1672 (Modena) da genitori contadini e analfabeti, il giovane Muratori studiò a Modena
grammatica e umanità e si laureò in Filosofia e Diritto.
Nei “Primi disegni della Repubblica letteraria d’Italia” pubblicati sotto pseudonimo nel 1703,
propone un’organizzazione del lavoro intellettuale che superi i limiti delle accademie secentesche.
È il primo abbozzo di un progetto di rinnovamento culturale del paese.
Con le “Riflessioni sopra il buon gusto nelle scienze e nelle arti” il progetto entra nel merito delle
singole discipline umanistiche e scientifiche.
Base e scopo dell’impegno intellettuale deve divenire la revisione critica delle certezze
tradizionali.
Responsabile dal 1700 degli archivi e della Biblioteca Estense di Modena, nel 1708 è nominato dal
duca Rinaldo I d’Este, suo consulente giuridico e politico.
Dalla consultazione di numerosi archivi emiliani, toscani nascono le “Antichità estensi”.
Il successo induce il ricercatore a concepire un progetto ben più ambizioso: la raccolta di tutti i
documenti reperibili negli archivi italiani che permettono di ricostruire la storia politica e civile
dell’Italia negli anni tra il 500 e il 1500.
L’opera storiografica di Muratori costituisce ancor oggi un efficace strumento di lavoro per gli
studiosi.
Tra le opere minori risultano interessanti il trattato “Della perfetta poesia” e le “Osservazioni
alle rime del Petrarca” in cui Muratori espone un nuovo ideale di poesia.
La creazione poetica deve essere subordinata all’azione di controllo dell’intelletto e del buon
gusto.

GIAMBATTISTA VICO

Nacque a Napoli nel 1668 da un modesto libraio.


Dopo gli studi di logica e metafisica presso i Gesuiti, la sua formazione proseguì da autodidatta.
Ottenne la cattedra di Retorica presso l’Università; i modesti proventi gli permisero di aprire una
piccola scuola privata e mantenere la numerosa prole.
La sua vita non conobbe altri avvenimenti di rilievo fino alla morte nel 1744.
“L’antichissima sapienza degli italici” scritta nel 1710, testimonia già l’emergere di un’esigenza
largamente diffusa nella cultura italiana del tempo: la presa di distanza dalla teoria cartesiana a
causa della sua astrattezza intellettualistica.
Rifiutando Cartesio, Vico rifiuta di accettare il predominio incontrastato del metodo matematico
e del modello proposto dalle scienze naturali e rivendica la rilevanza delle discipline umanistiche
che avevano perso la centralità goduta fino a tutto il rinascimento.
La “Scienza nuova” apre la via alla fondazione delle moderne scienze umane (psicologia,
psicoanalisi, antropologia).

Dal 1723 in avanti Vico fu completamente assorbito dall’elaborazione dei “Principi di una scienza
nuova”, pubblicati a sue spese.
L’opera propone un’interpretazione generale della storia delle attività umane, dei principi
fondamentali della società e della sua evoluzione dalle origini prime fino agli esiti moderni.
Secondo la concezione di Vico la storia generale dell’umanità segue un’evoluzione simile a quella
del singolo.
Ai 3 stadi delle modalità conoscitive sviluppatesi nel tempo (“Gli uomini prima sentono
senz’avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con
mente pura”) corrispondono le 3 età dell’essere umano: la FANCIULLEZZA, governata dai sensi e
dall’immaginazione; la GIOVINEZZA, in cui prevalgono la fantasia e le passioni; e la MATURITA’,
segnata dal prevalere dell’intelletto.
A queste, a loro volta, si associano 3 fasi distinte della civiltà: l’ ETA’ DEGLI DEI; DEGLI EROI;
DEGLI UOMINI.
La prima è segnata dal prevalere dei sensi e dal nascere della fantasia: la comunità
corrispondente a questa età è dominata dal timore degli eventi naturali e dalle credenze
religiose; il diritto su cui si fonda è quello divino e i governi sono teocrazie (in cui il potere è
affidato alle caste sacerdotali); l’età degli eroi è animata dalla fantasia e dalle passioni, produce
un’organizzazione sociale e un diritto regolati sulla forza e i governi sono di tipo guerriero e
aristocratico; la terza età sviluppa una civiltà temperata dall’intelligenza e propone un diritto
dettato dalla ragione umana e dà origine a governi umani.

La scrittura di Vico si distingue per la concentrazione di immagini altamente suggestive e per la


sua estrema concretezza in una tensione continua che scardina i limiti sintattici e che allo stesso
tempo perviene a punte di estrema e lucida sintesi.
Nello sforzo di superare i limiti conoscitivi imposti dal linguaggio corrente, la pagina vichiana è
ricca di latinismi e connotazioni erudite.

Rifiutata dai contemporanei per la sua OSCURITA’ la Scienza nuova circolò ampiamente negli
ambienti illuministi napoletani.

LA POESIA LIRICA E DRAMMATICA DELL’ETA’


DELL’ARCADIA

IL MODELLO PETRARCHESCO
La rezione agli eccessi del marinismo di fine ‘600, e la conseguente riforma poetica in direzione
di un recupero classicistico, giunge dalla compagine di intellettuali e letterati riunitisi a Roma nel
1690 intorno all’ACCADEMIA D’ARCADIA.
Tra i suoi fondatori compaiono i nomi di Crescimbeni, Leonio, Gravina e Zappi.
La prima fase dell’Arcadia si pone all’insegna dell’IMITAZIONE PETRARCHESCA, prediligendo
come strumento espressivo il sonetto.
Petrarca e il petrarchismo sono assunti quali modelli di buon gusto e chiarezza in opposizione alla
stravaganza barocca.
In questo si manifesta anche in intento moralistico: la poesia deve esprimere solo sentimenti sani,
in modo da esplicare la propria funzione moralizzatrice.
Il mondo affettivo non è negato ma sottoposto a un rigoroso controllo razionale.
Tipico rappresentante del petrarchismo arcadico fu GIAMBATTISTA FELICE ZAPPI.
Tema prediletto della letteratura arcadica è quello PASTORALE, già caro al Rinascimento, come
testimonia il nome stesso assunto dall’Accademia, che faceva riferimento alla mitica regione
cantata dai poeti bucolici antichi, l’Arcadia, appunto.
In quel mondo pastorale gli arcadi proiettano il vagheggiamento di una vita ideale, isolata dalla
realtà storica, dove regnano la semplicità della natura e l’eros galante.
Questa dimensione idilliaca prelude al grande mito settecentesco che vedrà nello STATO DI
NATURA, contrapposto al progresso tecnico e scientifico della civiltà, la condizione ideale
all’espressione autentica dei sentimenti più profondi e spontanei dell’uomo.
Con la poesia lirica e drammatica di METASTASIO la musicalità del verso raggiunse esiti formali
di grande valore, esemplari per la lirica dell’epoca e per la futura poesia ottocentesca.
Altro poeta rappresentativo della tendenza alla cantabilità fu PAOLO ROLLI, autore di “Rime” e
“Canzonette e cantate”.
Un posto a parte occupa GIOVANNI MELI: le sue composizioni propongono una lingua fresca e
vigorosa, nata dall’incontro del lessico arcadico con il dialetto siciliano.

PAOLO ROLLI

Nacque a Roma nel 1687.


Come Metastasio fu allievo di Gravina.
Durante la lunga permanenza in Inghilterra fu precettore di re Giorgio II e portavoce della
cultura italiana e classica (tradusse e pubblicò Boccaccio, le commedie di Ariosto).
Con la traduzione del “Paradiso perduto” dell’inglese John Milton contribuì a far conoscere in
Italia la grande letteratura inglese del ‘600.
A Londra fondò l’ACCADEMIA REALE DI MUSICA che favorì la diffusione del melodramma
italiano.
GIAMBATTISTA FELICE ZAPPI

Nacque a Imola nel 1667.


Fu tra i fondatori dell’ACCADEMIA D’ARCADIA, praticò l’avvocatura e tenne a Roma un salotto
letterario.
La pubblicazione delle “Rime”, postuma, risale al 1723.

LA LETTERATURA DRAMMATICA

LA RIFORMA DEL MELODRAMMA


Accanto all’eleganza, all’effusione sentimentale, all’evasione bucolica, la letteratura arcadica
manifesta anche aspirazioni eroiche, espresse nel vagheggiamento di gesti magnanimi e
nell’esplorazione dei contrasti passionali che agitano l’animo umano.
Tali tendenze si espressero nel genere che nel ‘700, secolo musicale per eccellenza, ebbe una
vastissima diffusione: il MELODRAMMA.
I letterati del primo ‘700 intesero riformare il genere ereditato dal secolo barocco.
La riforma si ispirava a due esigenze: ridare dignità letteraria e autonomia al testo poetico (il
LIBRETTO), nel ‘600 del tutto subordinato alla musica, e immettervi temi eroici che potessero
equipararlo ai modelli tragici classici e alla contemporanea drammaturgia francese.

LA COMMEDIA
Il riformismo dell’Arcadia si manifestò anche nella commedia.
Si trattava di ricondurre il genere entro i confini del buon gusto.
La Commedia dell’Arte, che conobbe il suo periodo di maggior splendore proprio nel secolo
barocco, era vista dagli arcadi come una degenerazione verso la pura spettacolarità, tutta
incentrata com’era sull’abilità improvvisata.
La riforma vera e propria si attuò essenzialmente nel mondo dello spettacolo, ad opera dell’autore
Riccoboni e del commediografo Carlo Goldoni.

PIETRO METASTASIO

Pietro Trapassi nacque a Roma nel 1698 da una famiglia di modeste condizioni.
Nel 1708 il filosofo e letterato calabrese Gravina gli accordò la sua protezione e lo indirizzò negli
studi dopo averne scoperto le eccezionali doti d’improvvisazione poetica.
Nel 1717 il giovane poeta romano fu accolto in Arcadia e assunse il cognome grecizzato di
Metastasio.
Grazie alla frequentazione di musicisti si avvicinò al dramma per musica: la sua prima opera,
“Didone abbandonata” ottenne un successo clamoroso.
Nel 1730 fu chiamato alla corte di Vienna e subentrò ad Apostolo Zeno nell’incarico di poeta
ufficiale della corte imperiale.
I 10 anni successivi costituirono il periodo più intenso e prolifico della sua produzione teatrale,
che diede alle scene ben 11 melodrammi: tra questi il “Demetrio”, “L’Olimpiade” e il “Demofoonte”
indicati come i suoi capolavori.
L’educazione cartesiana che Metastasio ricevette fu centrale per lo sviluppo della sua poetica.
Stando alla lezione di Cartesio, l’espressione dei sentimenti è nell’uomo fonte di contraddizione e
ambiguità a causa dei limiti e delle insidie che il desiderio amoroso incontra nel suo manifestarsi,
soggetto a mutazioni continue, finzioni e fraintendimenti.
Tuttavia, per Metastasio, anche in un campo così insidioso come quello delle passioni, la ragione
può intervenire a far chiarezza.
Ed è appunto attraverso la lente della razionalità che Metastasio indaga tra le pieghe
dell’insensatezza che governa i sentimenti, portandone alla luce la complessità mediante un
linguaggio chiaro e lineare.

A Napoli Metastasio diventò acclamato autore del genere drammatico musicale, di cui la città
partenopea era patria indiscussa.
L’interesse di Metastasio per le meraviglie del melodramma risiedeva nella natura composita di un
genere in cui si intrecciano recitazione, canto, musica strumentale, danza e poesia.
L’interesse e la curiosità di Metastasio per le PASSIONI UMANE rendevano inoltre le sue
opere, nella scelta dei temi, vicine al gusto del pubblico tanto borghese quanto aristocratico.

Come Apostolo Zeno, Metastasio mantiene la distinzione tra le “ARIETTE” cantabili dai versi
brevi, e i “RECITATIVI” endecasillabici.
All’alternarsi del metro corrisponde l’alternanza degli effetti psicologici: di commozione nelle
ariette, di riflessione nei recitativi.
L’innovazione apportata dal poeta romano rende però strettamente interdipendente il rapporto
tra le prime e i secondi.
Infatti, sebbene le ariette abbiano una loro autonomia, esse restano funzionali allo svolgimento
drammatico dell’azione, non rappresentando semplicemente delle parentesi liriche tra un
recitativo e l’altro.
Dopo la “Didone”, Metastasio sviluppò ulteriormente questo schema.
I melodrammi del decennio 1730-40 sono caratterizzati da un perfetto equilibrio tra sviluppo
dell’azione e effusione del sentimento.
Se in un determinato momento del dramma paiono prevalere gli elementi irrazionali, sicuramente
nello sviluppo successivo finiranno per prevalere quelli razionali.
Il melodramma di Metastasio poteva così rappresentare e soddisfare le aspirazioni artistiche di
una società che, come quella della prima metà del ‘700, ambiva a contemperare emotività e
razionalità, effusione sentimentale e decoro.
La critica distingue due tipi di melodramma: D’INTRIGO ed EROICO.
Nell’Olimpiade i personaggi conoscono il dolore del conflitto fra dovere e passione: la struttura
dell’opera, in cui le scene e l’effusione sentimentale affidata alle arie creano dei nuclei
drammatici a sé stanti, spezza e riproduce continuamente la tensione tragica.
È invece il tema della grandezza eroica a dominare l’ “Attilio Regolo”.
Anziché sulla simmetria, nel melodramma eroico l’organizzazione della vicenda si fonda sulla
presenza costante dell’eroe.
A lungo il pubblico dimostrò di apprezzare l’opera eroica altrettanto, se non più di quella di
situazione, attribuendo anzi alla prima una superiore dignità letteraria.
Caratteristica del procedimento creativo di Metastasio è la coerenza tra forma
dell’organizzazione generale e forma costruttiva dei singoli elementi in gioco.
Essa implica una sicura padronanza degli strumenti tecnici e degli effetti, e un ricorso costante
alle figure retoriche.
L’ILLUMINISMO

Si definisce abitualmente ILLUMINISMO quel movimento, sviluppatosi in Europa nella seconda


metà del ‘700, che si propone di lottare contro tutti i residui irrazionali nella vita politica,
economica, sociale, morale, intellettuale e contro l’ignoranza, i pregiudizi, le superstizioni che
valgono a perpetuarli.
L’arma assunta per questa lotta è la RAGIONE: gli illuministi sono persuasi che basti diffondere i
“lumi”, i principi irrazionali, per spazzare via le cause di oppressione e infelicità degli uomini.
Confidando nella forza della ragione, gli illuministi guardano al passato (soprattutto al Medio Evo)
come a una lunga serie di errori e di aberrazioni e ne sottopongono a critica tutti gli istituti
politici, giuridici, culturali e religiosi.
L’atteggiamento di apertura degli illuministi verso qualunque civiltà, anche lontana dalla propria e
la disponibilità di accettare serenamente e senza pregiudizi l’altro, nella sua diversità, derivano
dalla convinzione che la ragione sia una prerogativa presente in tutti gli uomini.
Una tale propensione viene definita COSMOPOLITISMO: l’uomo razionale è cittadino del mondo,
le barriere nazionali sono convenzioni artificiose che vanno superate mediante la volontà di
conoscere ciò che è diverso, mediante una disposizione fraterna verso l’umanità intera.
Al cosmopolitismo è infatti strettamente congiunto il FILANTROPISMO illuministico, cioè la
disponibilità ad amare e a soccorrere gli altri uomini, in quanto tutti egualmente portatori di
ragione.
Scaturisce di qui anche lo spirito di TOLLERANZA verso gli altri.
La tendenza a privilegiare le sensazioni e i sentimenti si instaura in particolare a partire dalla
seconda metà del secolo quando il razionalismo è corretto dal SENSISMO.
La filosofia sensista riconduce ogni contenuto e atto del conoscere all’esperienza sensibile, quella
che allora veniva chiamata “natura”; l’esperienza è anche il criterio di verità, per cui qualsiasi idea
o teoria che non si fondi su di essa, quali la teologia e la metafisica, non produce alcuna
conoscenza.

INGHILTERRA
L’intellettuale inglese, suddito asservito alla corte, diviene progressivamente libero
professionista.
Nell’attività degli scrittori e dei pensatori illuministi riflessione teorica e impegno civile e politico
si fondono: grandi scienziati (come Newton) e filosofi come Locke e Hume giungono a demolire i
presupposti metafisici della conoscenza tradizionale (su cui l’antico regime aveva fondato la
propria egemonia culturale), rivoluzionando i metodi della ricerca, che essi incentrano sui risultati
dell’indagine sperimentale.
DANIEL DEFOE , studioso di economia e uomo d’affari, fu un geniale osservatore della realtà.
In queste circostanze matura l’invenzione delle due forme di comunicazione destinate a
rivoluzionare modi e tempi della circolazione delle idee e della creatività intellettuale e
letteraria: il FOGLIO PERIODICO che propone annunci economici, notizie e saggi sull’attualità, di
cui il primo esempio è fornito dal “The Rewiew” (La Rivista) da lui fondata nel 1704, e il “romanzo
realistico moderno”, cioè, dalla realtà vissuta e inteso come documento obiettivo di un’esperienza
esistenziale.

FRANCIA
La situazione politica impose agli intellettuali progressisti soluzioni diverse da quelle adottate in
Inghilterra, dove invece la libertà di stampa costituiva uno dei pilastri del nuovo assetto politico
e culturale.
L’intellettuale dissidente francese sceglie quindi di raggiungere il suo pubblico attraverso brevi
opere saggistiche (PAMPHLETS) stampate in clandestinità.
Lo stile del pamphlet si caratterizza per la brevità e il taglio divulgativo a dimostrazione di una
scrittura dinamica e immediatamente ricettiva nei confronti dell’attualità.
Lo scopo perseguito dall’intellettuale è infatti quello di convincere i propri destinatari della
fondatezza delle tesi sostenute.

L’ENCICLOPEDIA fu un’opera capace di produrre col tempo una rivoluzione degli spiriti.
Per i contemporanei il termine “enciclopedista” diventa sinonimo di “philosophe” e “illuminista”, a
dimostrazione della centralità che il Dizionario assunse nella cultura dell’epoca.
L’opera comprende 17 volumi di testi di ampio formato.
Alla realizzazione del progetto insieme a D’Alembert, dedicò buona parte della sua vita Diderot.
Nonostante la mole e il prezzo, l’Enciclopedia ottenne immediato e vasto successo.
La presenza di un ampio apparato di tavole illustrative fu ragione non trascurabile dell’alto
gradimento da parte del pubblico.

ITALIA
Se l’illuminismo francese prende le mosse dall’esempio e dalle elaborazioni teoriche inglesi, quello
italiano si sviluppa certamente sotto lo stimolo della combattività degli intellettuali francesi e
della loro efficace opera di divulgazione.
Nonostante questo, l’illuminismo italiano si caratterizza poi in base ai contesti culturali dei singoli
Stati.
Le principali città in cui la cultura illuministica italiana ebbe modo di fiorire furono Napoli e
Milano.
A Napoli le nuove tendenze culturali trassero impulso dalla politica di riforme inaugurata dalla
dinastia dei Borboni che diede vita a uno Stato finalmente autonomo.
Gli intellettuali illuministi appoggiavano le iniziative giurisdizionaliste dei sovrani, intese a
rivendicare i diritti dello Stato contro i secolari privilegi della Chiesa.
Tra questi Antonio Genovesi, Galiani e Filangieri.
A Milano il dominio austriaco favorì il sorgere di un movimento illuministico che, per impulso dei
sovrani illuminati Maria Teresa e Giuseppe II, condusse un’opera di svecchiamento delle
strutture feudali, di incremento delle attività industriali e commerciali.
Intellettuali come i fratelli Verri e Cesare Beccaria guardavano con favore al riformismo
asburgico e collaboravano col governo, entrando spesso nell’amministrazione pubblica.
Se l’Illuminismo napoletano si formò in ambito accademico-universitario, senza mai realmente
distaccarsene, quello lombardo si preoccupò invece, di divulgare le nuove idee presso un pubblico
di non letterati mediante lo strumento giornalistico.
Durante il ‘700 il lavoro intellettuale conosce una progressiva evoluzione verso la
professionalizzazione.
Nel rapporto di collaborazione con il sovrano, l’intellettuale guadagna via via autonomia in ragione
dell’importanza delle funzioni a lui delegate.
Ma il rapporto si interromperà quando sarà chiaro che sovrani e intellettuali perseguono scopi
diversi: un riformismo contenuto e dettato dall’alto, per i primi; la volontà di soddisfare le
richieste di autentica eguaglianza sociale provenienti dai ceti sociali emergenti, per i secondi.
La divulgazione delle idee progressiste si avvale di un nuovo strumento di comunicazione: il
PERIODICO, di cui è esempio per eccellenza “Il Caffè”.
Legata al circuito dell’insegnamento universitario è invece l’azione dei pensatori napoletani che
fiancheggiano e dirigono il processo di ammodernamento e laicizzazione dello Stato iniziato dai
Borboni.

LA NASCITA DEL ROMANZO MODERNO IN INGHILTERRA

La maggior parte degli autori che animano il ‘700 letterario inglese sono direttamente coinvolti
nella vita pubblica, sia perché tendono a fare dell’impegno intellettuale una vera e propria
professione, sia perché sovente provengono da attività come il giornalismo, la finanza, il
commercio.
Questo contatto diretto con la società spinge gli scrittori inglesi a prediligere da un lato
narrazioni in prosa in cui, attraverso l’invenzione fantastica, conducono una profonda critica dei
costumi del tempo; dall’altro, a scrivere opere le cui vicende sono desunte dalla cronaca
contemporanea, incentrate quindi sul verosimile e sul reale, nuovi elementi di poetica in grado di
restituire alla narrazione vivacità.
Sono questi i principali caratteri del ROMANZO MODERNO che prende forma proprio in
Inghilterra.
Grandi letterati come JONATHAN SWIFT e DANIEL DEFOE, affrontano con singolare
efficacia alcuni temi di fondo del pensiero del tempo.
Anche se può sembrare un paradosso, sia il protagonista dei “Viaggi di Gulliver” sia l’eroe del
“Robinson Crusoe” agiscono in uno scenario realistico.
Anche l’ambientazione fantastica del romanzo di Swift infatti (il regno di Lilluput, dei giganti e
dei saggi Cavalli) rinvia allegoricamente alla realtà concreta e attuale dell’oppressione esercitata
sull’Irlanda cattolica dalla protestante Inghilterra.

JONATHAN SWIFT

Nacque a Dublino nel 1667, da genitori inglesi; orfano di padre fu affidato alla madre e a parenti
che ne ebbero scarsa cura.
Divenne segretario del potente sir William Temple, in casa del quale conobbe Esther Johnson
(Stella), che gli restò a fianco per tutta la vita.
Presi gli ordini religiosi divenne uno dei più attivi e influenti protagonisti della vita religiosa,
culturale e politica della capitale inglese.
Nominato decano della chiesa di Saint Patrick a Dublino, difese con feroce determinazione le
ragioni degli Irlandesi contro i soprusi del governo inglese.
La morte di Stella segnò l’inizio della decadenza fisica e morale di Swift.
Tra le numerose opere polemiche spiccano la “Favola della botte”, intelligente parodia delle
diverse Chiese cristiane, e la “Modesta proposta” in cui l’autore suggerisce a mò di provocazione,
e paradosso e nella forma apparentemente obiettiva del trattato economico, che i bambini poveri
irlandesi vengano utilizzati come cibo per i ricchi dominatori inglesi così da annullare d’un colpo
povertà, sovrappopolazione, oppressione e ribellismo in Irlanda.

DANIEL DEFOE

Mercante, giornalista, agente segreto e affarista, Defoe fu un autore versatile e pubblicò più di
500 opere.
Nacque a Londra nel 1660; avviato dal padre alla carriera ecclesiastica, l’abbandonò per darsi al
commercio.
Viaggiò per tutta Europa.
Finì anche in prigione a causa di un audace libello antigovernativo.
L’esposizione alla gogna fu l’occasione per un sarcastico “Inno alla gogna”, che andò
immediatamente a ruba.
Ridotto in miseria, accettò l’incarico di informatore governativo infiltrato nei circoli
dell’opposizione politica.
Collaborò a 26 testate giornalistiche.
Nel 1704 fondò “THE REWIEW”.
Defoe praticò il giornalismo fino alla morte.
I romanzi di Defoe sono tutti di avventura.
Destinati a un pubblico popolare essi aprono la strada al romanzo moderno.
Al 1719 risale il primo successo, “La vita e le strane e sorprendenti avventure di Robinson Crusoe,
di York, marinaio”.
La vicenda è tratta dalla cronaca, pubblicata pochi mesi prima, delle peripezie del marinaio
inglese Selkirk, abbandonato sull’isola Juan Fernandez, al largo delle coste cilene.
Nel Robinson Crusoe, Defoe disegna l’archetipo stesso dell’uomo del suo tempo.
Sorretto da ottimismo, tenacia e ingegno, Robinson si rivela infatti capace di ricostruire quasi dal
nulla, nell’isola deserta in cui approda, le condizioni essenziali della vita civilizzata.
Isolato dal naufragio, il protagonista è costretto, per sopravvivere, a percorrere in prima
persona le tappe che portarono l’umanità dallo stato primordiale all’attuale stadio di sviluppo.
Del 1722 è “Moll Flanders”, spregiudicata autobiografia di un’avventuriera animata da una
consapevole e ferrea volontà di elevazione sociale.
La protagonista rievoca la propria vita dal punto di vista della donna soddisfatta nelle proprie
ambizioni e non mostra alcun segno di pentimento per il male commesso per raggiungere i propri
scopi.
Il “Diario dell’anno della peste” è invece la rievocazione potente di un vasto dramma collettivo:
l’epidemia londinese del 1664.

HENRY FIELDING

Fielding nacque nel 1707 da una famiglia aristocratica.


Studiò lettere e diritto in Olanda.
Fu giornalista e autore di opuscoli politici satirici e umoristici.
Dedicò gli ultimi anni a curarsi la gotta malanni che infine lo condussero alla morte a Lisbona,
dove si era recato alla ricerca di un clima più favorevole.
Esordì come narratore nel 1741.
“La storia delle avventure di John Adrews e del suo amico signor Abraham Adams”, ripropone la
situazione di inferiorità sociale di Pamela (e i tentativi di violenza del padrone), ribaltandoli su un
protagonista maschile di grande virtù morale.
La figura del signor Adams, parroco anticonformista e persona di cuore, propone un modello
umano che unisce in sé libertà di pensiero e carità cristiana.
Lo scopo dell’opera è quello di costruire un’EPOPEA COMICA IN PROSA.
Con la “Storia della vita del fu Jonathan Wild il grande”, Fielding propose poi la rievocazione delle
imprese di un famoso delinquente, morto sulla forca 20 anni prima.
Lo studio dell’ipocrisia e dell’egoismo che si celano sotto le convenzioni del moralismo
conservatore sta al centro dell’opera più famosa: “Tom Jones”.
Il romanzo narra le vicende del simpatico e onesto trovatello che un nobile di indiscussa onestà
adotta come figlio, ma poi allontana di casa perché ingannato dal cognato, che intende così
assicurare al proprio figlio l’intera eredità.

L’ILLUMINISMO IN FRANCIA

Dopo il regno del re Sole, Luigi XIV, e la successiva reggenza del nipote Filippo d’Orléans, nella
Francia dei successori Luigi XV e XVI perduravano ancora gli antichi privilegi del clero e
dell’aristocrazia.
Non è un caso che i più illustri pensatori e intellettuali del periodo spesso intraprendessero viaggi
nel resto d’Europa per conoscere, confrontandoli con quello francese, altri sistemi sociali e di
governo.
La politica progressista della monarchia inglese divenne il modello a cui gli illuministi francesi si
rifecero nelle loro riflessioni.
Gli scritti storico-politici di Voltaire, Montesquieu e Rousseau, influenzati dalle teorie
empiristiche di Locke e dal materialismo, segnano una svolta decisiva nella concezione dello Stato
e prospettano riforme tese a garantire una maggiore libertà dell’individuo nel rispetto del bene
comune dell’intera cittadinanza.
Nasche il PHILOSOPHE una nuova figura di intellettuale che allarga il proprio campo di indagine a
ogni ambito della conoscenza umana, mosso da un’idea di cultura che esce dal campo esclusivo
dell’erudizione per diventare strumento concreto a vantaggio dell’utile sociale.
Questi presupposti presero corpo nell’opera divenuta il simbolo dell’Età dei Lumi, l’
ENCICLOPEDIA voluta da Diderot.
Le stesse tendenze si ritrovano nella narrativa: il ROMANZO FILOSOFICO è la forma
privilegiata per veicolare, attraverso la finzione letteraria, quegli stessi principi che ispirano
l’opera filosofica in senso stretto, permettendone così la diffusione presso un pubblico più ampio.
Il romanzo filosofico si caratterizza per le dimensioni contenute.
Spesso gli autori scelgono ambientazioni esotiche che permettano l’osservazione e l’indagine della
realtà da un punto di vista straniato: è il caso del “Candido o l’ottimismo” di Voltaire, e delle
“Lettere persiane” di Montesquieu.

DENIS DIDEROT

Nacque nel 1713 da un fabbricante di coltelli.


Conseguì la laurea in Lettere.
Le opere d’esordio, tra cui “Pensieri filosofici”, furono osteggiate dal potere ecclesiastico e gli
costarono la detenzione.
Dai tardi anni ’40 fino al 1772 si occupò quasi esclusivamente della progettazione
dell’Enciclopedia.
Al 1745 risale il progetto editoriale dell’Enciclopedia portato a compimento dopo un ventennio di
duro impegno.
L’ENCICLOPEDIA era la prima monumentale catalogazione critica delle acquisizioni del sapere
moderno redatta a scopo di divulgazione.
Alle difficoltà tecniche interne, dovuta all’esigenza di coordinare l’apporto dei numerosi
collaboratori, si sommavano le ostilità da parte del potere costituito e delle istituzioni culturali
più reazionarie.
Terminato l’impegno Diderot si dedicò alla letteratura pubblicando i “Gioielli indiscreti”, romanzo
libertino sui vizi nascosti dell’alta società; “La monaca”, fosca descrizione della vita claustrale; “Il
nipote di Rameau” (dialogo filosofico-morale).

VOLTAIRE

Nacque a Parigi nel 1649 da una famiglia di avvocati e magistrati; educato dai Gesuiti abbandonò
presto la carriera legale raggiungendo il successo con le tragedie “Edipo” e “Marianna”.
Visse due anni a Londra, apprezzandone il progresso e il grado di civiltà.
La pubblicazione delle “Lettere filosofiche”, in cui elogiava la tolleranza politica e religiosa che
regolava la vita inglese, gli costò, al suo rientro in patria, un mandato di cattura.
Riconquistata la libertà si dedicò attivamente a studi storici, tragedie e romanzi.
Nel 1750 fu ospite di Federico II di Prussia.
Abbandonato il rifugio prussiano, il filosofo si stabilì dapprima in un monastero, poi nella
campagna presso Ginevra.
A questi anni risalgono “La pulzella” (parodia in versi delle vicende di Giovanna d’Arco); “La legge
naturale” e il “Saggio sui costumi e sullo spirito delle nazioni”, rivoluzionaria interpretazione laica
della storia.
Per quanto concerne i romanzi, in “Zadig”, “Micromégas” e “Candido o l’ottimismo” Voltaire giunge
alla trasposizione del suo pensiero nella forma romanzo.
Tali opere si presentano come esemplificazioni allegoriche di ipotesi filosofiche, di cui l’autore
dimostra infondatezza o pericolosità attraverso il procedimento paradossale di accettarle per
svilupparne le premesse fino all’assurdo.
È quel che avviene nel più famoso dei suoi romanzi filosofici, “Candido”, attraverso il personaggio
di Pangloss che incarna l’assurdità dell’ottimismo astratto.

CHARLES LOUIS DE MONTESQUIEU

Nacque nel 1689.


Dopo gli studi in Legge entrò alla corte di giustizia della sua città divenendone a 27 anni
presidente.
Al 1721 risale la pubblicazione ad Amsterdam del fortunato romanzo epistolare a tesi, le “Lettere
persiane”.
I viaggi in Europa gli fornirono preziosi spunti di riflessione per la sua opera.
Pubblica le “Considerazioni sulle cause della grandezza dei Romani e della loro decadenza”, e nel
1748 il trattato sullo “Spirito delle leggi”, l’opera più notevole del pensatore politico, posta
all’Indice nell’anno della sua morte.

Nelle LETTERE PERSIANE (romanzo epistolare) l’autore dà corpo a un’immaginaria


corrispondenza che due persiani giunti in Francia, il saggio e coraggioso Usbek e il giovane amico
Rica, scambiano con i loro compatrioti.
L’adozione di un PUNTO DI VISTA STRANIATO permette all’autore di offrire un efficace
quadro critico della società e dei costumi francesi del tempo.
Alle lettere che i viaggiatori si scambiano, si intrecciano quelle che Usbek scambia con le mogli
rimaste in patria e con gli enunchi che le custodiscono.
La tragica conclusione di questa vicenda (la moglie prediletta, Rossane, offesa dalla crudeltà
dell’abbandono lo tradisce e si uccide) sottolinea l’urgenza della ridefinizione della morale
sessuale e coniugale.

JEAN-JACQUES ROUSSEAU
Nacque a Ginevra nel 1712 da una famiglia ugonotta.
Orfano di madre e abbandonato dal padre, a 16 anni lasciò Ginevra per un lungo viaggio.
Dopo un soggiorno a Torino si convertì al cattolicesimo.
Il rapporto sentimentale con la baronessa de Warens si concluse nel 1738, e Rousseau si trasferì
a Lione e poi a Parigi dove conobbe Condillac, Diderot e Voltaire; ne derivò una lunga
collaborazione all’Enciclopedia, per la quale curò le voci musicali.
Nel “Discorso sulle scienze e sulle arti” Rousseau sostiene che arti e scienze nascerebbero da un
progressivo snaturamento della sensibilità primitiva e originale dell’uomo.
Il “Discorso sull’origine e il fondamento della disuguaglianza tra gli uomini” propone
un’interpretazione profondamente innovatrice del mito del paradiso perduto.
L’uomo ha perso il suo antico stato di natura: su questo presupposto Rousseau giudica gli esiti
dell’evoluzione storica dell’organizzazione sociale e politica come un processo inesorabile di
decadenza, iniziatosi con l’avvento della proprietà privata e la tendenza a sviluppare
un’intelligenza di tipo razionale.
Il progresso ha condotto poi all’organizzazione sociale, che ha allargato la disuguaglianza tra gli
individui.
Nel “Contratto sociale”, Rousseau identifica in un nuovo accordo tra ricchi e poveri, reso possibile
dagli insegnamenti di una corretta educazione, l’unico strumento che permetterà la
ridistribuzione delle ricchezze, ristabilendo condizioni di vita autenticamente umane.
Dopo la rottura con Diderot e Voltaire, Rousseau pubblica “Emilio o dell’educazione” in cui
dimostra a quale indebolimento vengano sottoposte le energie originarie del bambino da parte di
un’educazione “civile”, tesa a modellare la sensibilità dei giovani per predisporli ad accettare
come naturale il sistema di vita alienato che regge la società moderna.
Il romanzo è il primo ad affrontare la psicologia del bambino e dell’adolescente, privilegiando il
punto di vista dell’allievo rispetto a quello dell’insegnante.
Da questi presupposti si svilupperà buona parte del pensiero pedagogico ottocentesco.
Dopo la condanna dell’Emilio da parte della censura, l’autore, isolato e ridotto all’indigenza, diede
pubblica lettura a Parigi di alcuni brani delle Confessioni, suscitando commenti imbarazzanti per
la straordinaria sincerità della rievocazione autobiografica, intessuta di riflessioni e particolari
intimi scabrosi.

L’ILLUMINISMO IN ITALIA

A partire dai decenni centrali del ‘700, i governi europei godettero di un periodo di distensione
nei rapporti internazionali che favorì il dialogo tra le nazioni.
In Italia l’Illuminismo inglese e quello francese trovarono un fertile consenso in cui attecchire là
dove gli Stati erano guidati da sovrani riformatori: la Milano di Maria Teresa d’Austria e la Napoli
di Carlo di Borbone.
Fu infatti in queste città che si formarono gli esponenti più illustri dell’Illuminismo italiano.
Nella Milano austriaca si realizza un felice confronto tra intellettuali e governo.
Il gruppo di letterati e pensatori che animano la vita culturale della capitale lombarda gravita
dapprincipio intorno all’ACCADEMIA DEI PUGNI, poi alla rivista IL CAFFE’ fondata da Pietro e
Alessandro Verri.
Con il contributo del filosofo e letterato Cesare Beccaria, il periodico divenne il principale
strumento di diffusione del pensiero illuministico italiano.
Sul piano stilistico, gli intellettuali illuministici si battono per sgravare il linguaggio dalla pedante
erudizione accademica a favore di un registro linguistico che favorisca una ricezione più
immediata e agevole da parte di un pubblico socialmente eterogeneo.
Particolarmente accesa è la polemica contro il PURISMO dei cruscanti, mossa da Alessandro
Verri .

CESARE BECCARIA

Primogenito di un’influente e nobile famiglia, nacque a Milano nel 1738, studiò a Parma presso i
Gesuiti e si laureò in Legge.
Il matrimonio con la vivace Teresa Blasco, di umili origini, gli costò un aperto scontro con i
genitori; dall’unione nacque Giulia, futura madre di Alessandro Manzoni.
Il saggio “Dei delitti e delle pene”, scritto di getto tra il 1763 e il 1764 sulla scia di animate
discussioni con i fratelli Verri, conobbe un successo travolgente.
L’opera non dimostra solo le barbarie dei sistemi inquisitoriali e carcerari del tempo ma poneva la
questione fondamentale del fine della pena; annullava la tradizionale identificazione tra peccato e
reato e collegava in modo estremamente persuasivo quegli orrori con la struttura stessa dello
Stato tradizionale e il dispotismo che questo realizzava nelle istituzioni e nelle sue modalità di
intervento.

PIETRO VERRI

Nato nel 1728 da una nobile famiglia milanese, entrò presto in conflitto con il padre e con la parte
più retriva dell’aristocrazia cittadina.
Filosofo ed economista, trasse spunto dal pensiero sensista di CLAUDE-ADRIEN HELVETIUS e
CONDILLAC, secondo i quali la sensazione è la fonte esclusiva di ogni conoscenza, la quale si
sviluppa attraverso il linguaggio, da Condillac definito come fenomeno storico e sociale.
Nelle “Meditazioni sulla felicità” e nel “Discorso sull’indole del piacere e del dolore”, Verri
definisce l’azione umana come continua tensione nella ricerca del piacere, il quale, a sua volta, non
è che frutto della cessazione del dolore.
Alla ricerca filosofica si affianca l’impegno di funzionario pubblico e di economista, che lo vede
adoperarsi nell’analisi rigorosa della realtà lombarda e promuovere riforme mirate a ridurre
inefficienza e corruzione nella macchina statale.

ALESSANDRO VERRI

Nacque a Milano nel 1741; aderì giovanissimo all’ ACCADEMIA DEI PUGNI e fu tra i
collaboratori più assidui de Il Caffè.
Nei suoi 32 articoli Verri mirò a dimostrare l’inadeguatezza del sistema giuridico, i difetti del
costume letterario e i pericoli del tradizionalismo cruscante.
Visse a Parigi, maturando un giudizio nettamente negativo sugli ambienti intellettuali progressisti,
e a Londra dove conobbe Sterne.

CARLO GOLDONI

Nacque a Venezia nel 1707 da una famiglia borghese.


Studiò Legge a Pavia e fu ospite del prestigioso collegio Ghislieri ma ne fu cacciato in seguito a
una satira da lui composta sulle donne della città.
Seguirono anni inquieti di continui spostamenti e avventure amorose.
Riprese gli studi in Legge.
La morte del padre lo mise dinanzi alla necessità di provvedere alla madre.
Affrettò il conseguimento della laurea e si avviò alla professione di avvocato.
Nel frattempo però aveva preso corpo quella prepotente vocazione teatrale che si era
preannunciata in lui sin dai primi anni.
In una delle sue peregrinazioni conobbe il capocomico IMER, grazie a lui ottenne l’incarico di
scrivere i testi per il teatro veneziano di San Samuele.
In questa prima fase della sua produzione per il teatro scrisse nei più vari generi: tragicommedie,
melodrammi, intermezzi.
Ma Goldoni si provò presto anche nel genere comico, che gli era più congeniale, e, in polemica con
la Commedia dell’Arte che ancora dominava le scene, avviò una radicale RIFORMA DEL TEATRO
COMICO,che portò avanti con prudente gradualità.
Dalla sua attività di scrittore per il teatro non ricavava però ancora di che vivere.
Si recò a Pisa dove riprese l’attività forense ed entrò nella locale colonia dell’Arcadia.
Non smise però la sua produzione di testi per il teatro.
Conosciuto a Livorno il capocomico MEDEBAC fu da questi convinto a impiegarsi come poeta per il
teatro presso la sua compagnia, con un contratto stabile che prevedeva la stesura di 8 commedie
all’anno, e dietro un certo compenso fisso.
Così Goldoni lasciò definitivamente l’avvocatura.

Goldoni è lo scrittore che vive dei proventi della sua professione intellettuale.
In questo anticipa la figura dello scrittore quale si imporrà a partire dall’ ‘800.
Non solo, ma Goldoni non scrive più esclusivamente per un pubblico di letterati, bensì per il
mercato.
Il teatro è un’impresa commerciale: agli spettacoli il pubblico accede a pagamento.
Lo scrivere commedie deve dunque obbedire alle leggi del mercato e ai gusti del pubblico.
Il mercato implica anche concorrenza e Goldoni dovette affrontare quella del suo collega PIETRO
CHIARI, uno scrittore spregiudicato e disinvolto che, per ottenere successo, ricorreva a tutti i
mezzi e praticava tutti i generi di commedie.

GOLDONI E L’ILLUMINISMO
A Venezia i ceti burocrati vengono a conoscenza delle idee più innovatrici e introducono in patria i
primi saggi di una filosofia dei lumi, ed anche i nobili, attraverso i viaggi, divengono il tramite di
un aggiornamento culturale.
A Venezia è inoltre intensa la produzione libraria .
Goldoni, pur non essendo un uomo di vasta cultura, risentì del clima generale attraverso gli intensi
contatti con la realtà del suo tempo.
La borghese antipatia per il privilegio porta Goldoni a vagheggiare un’uguaglianza primitiva degli
uomini al di là delle gerarchie sociali stabilite.
La mentalità di Goldoni è PRUDENTEMENTE RIFORMATRICE: lo scrittore rispetta l’ordine
gerarchico delle classi e auspica una tranquilla convivenza tra i vari ceti, ciascuno con la sua
fisionomia, le sue diverse virtù.
Per questo Goldoni ammira le società mercantili del Nord, dove i borghesi partecipano alla vita
politica accanto ai nobili, e le idoleggia come la sede di tutte le virtù morali e civili, dell’onestà,
della mancanza di pregiudizi.
La dimensione della vita cittadina è quella in cui meglio si può affermare questa pacata
socievolezza dell’uomo: la città è la sede delle più varie attività, dei traffici, degli scambi.
Questa visione ispirata ad un’aperta socievolezza induce Goldoni a vedere negativamente ogni
chiusura retriva, che mortifichi la libera espansione della personalità nei suoi rapporti con gli
altri.

LA RIFORMA DELLA COMMEDIA


Quando Goldoni intraprese la sua attività di scrittore per il teatro la scena comica era ancora
dominata dalla Commedia dell’Arte, che aveva trionfato nell’età barocca e in cui gli attori
impersonavano le maschere tradizionali (Arlecchino, Brighella), improvvisando le battute senza
seguire un testo interamente scritto, ma solo sulla base di un sommario canovaccio.
Nei confronti di questo tipo di teatro, Goldoni assunse atteggiamenti molto polemici.
I motivi del suo rifiuto erano: la volgarità buffonesca, la rigidezza a cui si erano ridotti i tipi
umani rappresentati dalle maschere, la ripetitività della recitazione degli attori che
riproducevano sempre gli stessi lazzi, le stesse azioni mimiche.
Il bisogno di una riforma si originava nel clima della cultura arcadica.
Il razionalismo arcadico aveva già ispirato, prima di Goldoni, tentativi di riforma ma si collocavano
ad un ambito puramente letterario ed erano rimasti confinati nel chiuso delle accademie.
Goldoni al contrario non era un puro letterato: era un autentico uomo di teatro che viveva e
lavorava a contatto diretto con il pubblico e ne conosceva perfettamente gli umori e i bisogni.
In questo era favorito dal fatto di vivere a Venezia, che era una vera capitale europea del
teatro.
Goldoni da un lato vuole produrre testi che piacciano al pubblico, dall’altro aspira a una commedia
che sia VERISIMILE, che rifletta realisticamente la società contemporanea.
Per questo egli ritiene che non siano più utilizzabili le maschere tradizionali.
Le maschere costituiscono tipi fissi.

I CARATTERI GOLDONIANI sono sempre radicati in un contesto sociale.


Secondo Goldoni i sentimenti, i vizi, le virtù degli individui assumono una diversa fisionomia a
seconda dell’ambiente sociale in cui essi si sono formati e vivono.
La gelosia, egli sostiene, è una passione comune a tutti gli uomini ma si manifesta in modi diversi a
seconda dei vari ceti sociali.
Si sogliono in genere distinguere nella produzione di Goldoni le COMMEDIE DI CARATTERE,
intese a delineare una figura, e le COMMEDIE D’AMBIENTE, intese a descrivere un particolare
settore della vita sociale.
Ma è una distinzione convenzionale: sempre le commedie goldoniane sono al tempo stesso di
carattere e d’ambiente, in quanto i due poli non possono mai venire isolati: sempre un carattere
evoca intorno a sé un determinato ambiente.

Da quanto è emerso finora si può comprendere perché l’improvvisazione della vecchia Commedia
dell’Arte non fosse più praticabile da Goldoni.
Gli attori non improvvisavano dal nulla, in ogni recita, battute e testi: la loro improvvisazione era
resa possibile dal fatto che essi si basavano su elementi fissi, ricorrenti: i canovacci, con le loro
vicende meccanicamente ripetute, i lazzi.
Il modulo della Commedia dell’Arte era fatto per ottenere altri effetti ma non era adatto alla
rappresentazione realistica del vissuto alla quale Goldoni mirava.

Nel condurre la sua battaglia per la nuova commedia Goldoni incontrò molti ostacoli.
Innanzitutto da parte degli attori, che, essendo abituati a recitare all’improvviso e con le
maschere, si trovavano a disagio nel mutare radicalmente moduli di recitazione.
Goldoni non si lanciò in una rivoluzione radicale con atteggiamenti di rottura ma adottò una
tattica prudente e graduale, che gli consentì di vincere a poco a poco tutte le resistenze sia degli
attori sia del pubblico.
Goldoni cominciò con lo stendere per intero solo la parte del PROTAGONISTA, lasciando
all’improvvisazione tradizionale tutto il resto.
La prima commedia così strutturata fu il “Momolo cortesan”.
Solo nel 1743 (5 anni dopo) l’autore arrivò a comporre una commedia in cui tutte le parti erano
scritte, “La donna di garbo”.
Venivano nel frattempo ancora conservate le maschere ma con sottile abilità esse venivano
trasformate dall’interno, in modo che sotto la maschera cominciava a delinearsi un carattere
individuale.
Al termine di questo processo anche le maschere vennero eliminate.
Un altro ostacolo Goldoni lo trovò nella situazione politica della Repubblica di Venezia.
Se egli voleva rappresentare criticamente in scena i vizi della nobiltà, era costretto ad
ambientare le sue commedie in altre città, in modo da evitare ogni sospetto che le sue critiche
potessero indirizzarsi alla nobiltà veneziana.
Ne abbiamo un esempio nella “Locandiera” in cui è ravvisabile una critica tagliente a certi costumi
nobiliari, ma in cui gli aristocratici sono rispettivamente un cavaliere pisano, un marchese
romagnolo e un conte napoletano.

L’ITINERARIO DELLA COMMEDIA GOLDONIANA


In realtà il mondo che si riflette nella commedia goldoniana è essenzialmente la società veneziana
contemporanea.
Venezia è una repubblica oligarchica in cui il potere è in mano ad una ristretta cerchia di famiglie
nobili ma possiede anche un solido ceto borghese.
Nella prima fase della sua commedia, dagli esordi ancora incerti sui confini degli scenari della
Commedia dell’Arte, come il “Momolo cortesan” e “La bancarotta”, per tutto il periodo in cui
lavora per la compagnia Medebac al teatro Sant’Angelo, il mercante veneziano ha un rilievo
centrale nei suoi copioni.
Il mercante, che si presenta ancora sotto la maschera di Pantalone ma assume già una sua
concreta fisionomia individuale, è una figura positiva, portatrice di tutta una serie di valori:
schiettezza, puntualità e rispetto degli impegni.
In questa celebrazione del mercanti si manifesta anche una contrapposizione polemica alla
nobiltà, in testi come “La putta onorata”, “La buona moglie”, “Il cavaliere e la dama”.
La nobiltà è colpita dalla critica goldoniana in quanto superba e prepotente, oziosa e dissipatrice.
Goldoni non è tuttavia da scambiare per un rivoluzionario per un ancitipatore della violenta
opposizione antinobiliare, vorrebbe piuttosto smuovere i nobili dall’inerzia e riportali alla dignità
di una vita attiva.
Egli ritiene che i nobili abbiano il dovere di partecipare alla vita economica del loro paese,
contribuendo così alla pubblica felicità.

La seconda fase della commedia goldoniana, che va dal 1753 al 1758, ed è segnata dal passaggio al
teatro San Luca, è più incerta.
Goldoni si trova di fronte a varie difficoltà: una sala molto più vasta, meno adatta alla
rappresentazione della vita quotidiana, attori meno noti e meno bravi, un impresario non facile da
trattare.
Ma la difficoltà maggiore è la volubilità del pubblico che sembra tornare a preferire un teatro più
fantasioso, come le commedie esotiche e avventurose del Chiari e le fiabe di Carlo Gozzi.
Perciò Goldoni , per non lasciarsi sfuggire il successo, deve inseguire questi umori mutevoli
sperimentando vari generi.
Nelle commedie di carattere, che pur continua a vivere, all’esaltazione della figura positiva del
mercante, guardato con affettuosa e bonaria simpatia, Goldoni preferisce sostituire una galleria
di personaggi tarati, maniaci in preda ai tic più impensati, ritratti con un impegno satirico duro e
sarcastico.
Sono eloquenti già solo i titoli: “La donna vendicativa”, “La donna di testa debole”, “Il vecchio
bizzarro”.
In questa fase si collocano però anche varie commedie di ambiente popolare, “Le massère”, “Il
campiello”.
Si tratta di commedie corali, in cui l’azione nasce da esili pretesti, equivoci, pettegolezzi.

LA LINGUA
Opere come le commedie goldoniane, che volevano ritrarre dal vivo la realtà quotidiana, i
personaggi e i fatti comuni, e che dalla scena parlavano direttamente a un pubblico vasto e
socialmente eterogeneo, composto non solo di letterati, non potevano certo usare la lingua della
tradizione letteraria, una lingua libresca, irrigidita nel suo lessico aulico e nella sua sintassi
complessa e latineggiante: per rendere il dialogo delle situazioni reali della vita dovevano
ricorrere alla lingua della conversazione quotidiana.
Cosa che non era affatto facile: data la secolare frammentazione politica della penisola non
esisteva in Italia una lingua unitaria d’uso quotidiano.
Le lingue dell’uso erano i dialetti.
La lingua di Goldoni comunque rivela consistenti residui dialettali, provenienti non solo dalla lingua
madre dell’autore, il veneziano, ma anche da altre parlate settentrionali.
Quando poi Goldoni si rivolge più direttamente al pubblico della sua città usa il dialetto veneziano.

“LA LOCANDIERA”

Spicca offrendosi come il capolavoro dello scrittore veneziano.


Ne sono state proposte nel tempo infinite mese in scena.
Dando alle stampe la commedia, Goldoni premette una prefazione, “L’autore a chi legge”, in cui
insiste sul fatto che nella vicenda di Mirandolina ha voluto dare un esempio della barbara
crudeltà e dell’ingiurioso disprezzo con cui le seduttrici si burlano dei miserabili che hanno vinti.
Il suo fine è dunque mettere in orrore la schiavitù che si procurano gli sciagurati e rendere
odioso il carattere delle incantatrici Sirene.
Per questo ritiene che fra tutte le commedie da lui composte “La locandiera” sia la più morale.
Queste dichiarazioni rispondono all’intento di compiacere il moralismo benpensante del pubblico,
e con ogni probabilità nascono anche dal moralismo dello stesso autore, un atteggiamento che
appare lontano dal nostro modo di accostarci alle opere letterarie; tuttavia le parole citate
possono egualmente essere un’utile chiave di lettura del testo, perché testimoniano come Goldoni
non guardi con simpatia e compiacimento la sua protagonista.

GIUSEPPE PARINI

Giuseppe Parino (che preferì più tardi modificare il proprio cognome in Parini) nacque nel 1729 in
Brianza da una famiglia di modeste condizioni.
A 10 anni fu condotto a Milano presso la prozia che, morendo, gli lasciò una piccola rendita annua,
a condizione che divenisse sacerdote: così giovane intraprese la carriera ecclesiastica.
Nel 1754 fu ordinato sacerdote.
Nel frattempo a 23 anni aveva pubblicato una raccolta di liriche, “Alcune poesie di Ripano
Eupilino) (Ripano era l’anagramma di Parino, Eupili il nome latino del lago di Pusiano, presso cui il
poeta era nato), che contribuirono a farlo conoscere negli ambienti letterari e gli valsero
l’ammissione all’ACCADEMIA DEI TRASFORMATI.
Era questo uno dei centri più importanti della cultura milanese, in cui conveniva la nobiltà più
aperta alle nuove istanze illuministiche, con posizioni però moderate, aliene dagli atteggiamenti
polemici ed eversivi dell’Accademia dei Pugni dei fratelli Verri e di Beccaria.
Nello stesso 1754 entrò al servizio del duca Gabrio Serbelloni, come precettore dei figli.
Casa Serbelloni era un ambiente culturale molto vivo: la duchessa che di fatto era separata dal
marito ed aveva una relazione con Pietro Verri, era una donna colta, che seguiva con interesse la
cultura illuministica francese.
Tuttavia il giovane abate di umili origini e di idee avanzate, convinto assertore del principio di
eguaglianza, doveva nutrire un senso di fastidio e di risentimento per quel mondo nobiliare
superbo dei suoi privilegi.
In seguito a una discussione con la duchessa si licenziò e l’anno dopo divenne precettore di Carlo
Imbonati, il giovane figlio del conte Giovanni Maria (colui che aveva riportato in vita l’Accademia
dei Trasformati).
Nel frattempo aveva pubblicato due poemetti satirici contro la nobiltà oziosa, il “Mattino” e il
“Mezzogiorno”, che gli valsero grande prestigio.
Il governo austriaco della Lombardia vedeva con favore gli intellettuali di orientamento avanzato
e tendeva ad offrire loro incarichi di responsabilità.

PARINI E GLI ILLUMINISTI

L’opera letteraria di Parini, per lo meno nella sua prima fase, negli anni ’60, appare in sintonia con
il clima riformistico instaurato dall’assolutismo illuminato di Maria Teresa d’Austria.
Parini, professore e poi sovrintendente nelle scuole pubbliche, può a buon diritto essere collocato
nell’ambito di questa intellettualità avanzata, illuministica e riformatrice, che collabora con il
potere.
Tuttavia i suoi rapporti con l’illuminismo in generale, e con gli ambienti illuministici lombardi in
particolare, se esaminati più da vicino, non appaiono così lineari, e necessitano di un’analisi più
dettagliata, che metta in luce le peculiari posizioni del poeta all’interno del più vasto movimento
riformatore.
Problematico è invece il suo atteggiamento verso l’ILLUMINISMO FRANCESE.
Parini ne respinge le posizioni antireligiose ed edonistiche, di cui parla in termini molto duri in un
fondamentale passo del “Mezzogiorno”.
È vero che è ostile a ogni forma di fanatismo religioso, giudica negativamente la Controriforma,
ritiene empie le guerre di religione.
Tuttavia crede profondamente nella religione, sia come indispensabile freno allo scatenarsi delle
passioni umane, sia come rivelazione del significato ultimo dell’esistenza umana e come garanzia di
salvezza.
Perciò ritiene che le teorie libertine dei philosophes siano molto pericolose e pronuncia contro di
esse un’aspra condanna.
D’altro canto accoglie i principi egualitari illuministici.
Da questo nucleo di idee e sentimenti scaturiscono le posizioni di Parini nei confronti della
nobiltà, quelle posizioni che danno vita alla satira del “Giorno”.
Il poeta critica duramente la classe aristocratica in quanto è oziosa e improduttiva.

LE PRIME ODI

CRONOLOGIA ED EDIZIONI DELLE ODI


La prima raccolta di versi, “Alcune poesie di Ripano Eupilino”, ci rivela un Parini ancora immerso
nel clima dell’Arcadia primo-settecentesca, isolato dalle correnti della cultura contemporanea,
rigorosamente fedele ad un’idea tradizionale di letteratura e ai modelli classici.
Le prime manifestazioni della battaglia per il rinnovamento civile da lui condotta sono alcune odi
degli anni 50-60 unitamente alle prime due parti del “Giorno”.
L’ode era un genere lirico già introdotto dall’Arcadia, riprendendo modelli della poesia greca e
latina.
A differenza della canzonetta l’ode assumeva contenuti elevati e toni più solenni.
La forma metrica però non era molto diversa, in quanto constava di versi per lo più brevi, in
genere settenari.
Parini scrisse parecchie odi.
Solo un fedele discepolo pubblicò una prima raccolta organica di 22 odi con l’approvazione del
poeta nel 1791.
Le odi possono essere divise cronologicamente in 3 gruppi.
Quello più folto va dal 1756 al 1769 e comprende i testi maggiormente legati alla battaglia
illuministica : “La vita rustica”, “La salubrità dell’aria”, “Il bisogno”, “La musica”.
Dopo il 1769 si ha una lunga pausa: per trovare altre odi bisogna arrivare al 1777 con “La laurea” e
“Le nozze”.
Dopo un’altra lunga interruzione si colloca un ultimo gruppo di odi non più civilmente impegnate ma
ispirato al classicismo: “La recita dei versi”, “La caduta”.

LE ODI ILLUMINISTICHE
Il primo gruppo ha una fisionomia abbastanza omogenea.
Gli argomenti sono costituiti da problemi di attualità.
Nella “Vita rustica”, accanto alla tradizionale visione idillica della campagna come sede di una vita
quieta, si coglie già una visione nuova del lavoro dei contadini, inteso come attività produttiva e
socialmente utile da cui nasce benessere.
Nell’ “Impostura” il poeta si scaglia contro ogni forma di ipocrisia e di finzione, delineando una
serie di macchiette e di figurine di impostori con un’ironia vicina a quella del Giorno.
Nell’ “Educazione” viene affrontato il problema centrale della cultura illuministica, quello
dell’istruzione: il rinnovamento della società e del costume infatti non poteva non passare
attraverso l’educazione, che doveva formare l’uomo nuovo.
“L’innesto del vaiuolo” esalta la scienza moderna contro ogni forma di pregiudizio e di
oscurantismo, come fattore essenziale non solo dell’incremento delle conoscenze teoriche, ma
anche del rinnovamento dell’umanità e del progresso delle sue condizioni di vita.
Come indica la semplice rassegna degli argomenti, sono odi di battaglia che affrontano problemi
attuali.
LE NOVITA’ FORMALI DI ISPIRAZIONE SENSISTICA
Nell’affrontare argomenti di così stringente attualità a Parini si presentava il problema non facile
di conciliarli con la dignità formale.
La teoria del SENSISMO risaliva al filosofo inglese John Locke.
Secondo il sensismo tutta la vita spirituale dell’uomo ha origine dalle sensazioni fisiche
attraverso cui egli entra in contatto con la realtà esterna.
I suoi sentimenti fondamentali sono perciò il piacere e il dolore.
Anche l’arte contribuisce a stimolare tale vitalità interiore, destando in noi forti sensazioni,
attraverso le idee e i sentimenti accessori che si accompagnano a quelli principali del discorso.
Di qui deriva, secondo la poetica del sensismo, la ricerca della parola precisa, icastica, cioè capace
di suscitare immagini e sensazioni molto vivide.
In altri termini, per stimolare la sensibilità la parola deve essere energica e realistica.
Parini quindi utilizza espressioni vivacemente realistiche.

“IL GIORNO”

I CARATTERI DEL POEMETTO: IL “MATTINO” E IL “MEZZOGIORNO”


Negli stessi anni in cui componeva le ODI ILLUMINISTICHE Parini lavorò ad un poema in
endecasillabi sciolti che mirava a rappresentare satiricamente l’aristocrazia del tempo: l’opera si
collegava quindi all’impegno civile e illuministico delle prime odi.
Il poema aveva per argomento la descrizione della giornata di un GIOVIN SIGNORE della nobiltà
milanese e nel progetto originario doveva articolarsi in 3 parti, il Mattino, il Mezzogiorno e la
Sera.
Le prime due parti furono pubblicate, mentre la Sera non venne terminata.
Più tardi si sdoppiò a sua volta in due parti, il Vespro e la Notte, alle quali Parini continuò a
lavorare sino ai suoi ultimi anni, senza però portarle a compimento.
Nel frattempo continuava a rivedere e correggere il Mattino e il Mezzogiorno, ma anche qui
senza terminare il lavoro e senza arrivare a una nuova edizione, per cui ci restano solo delle
redazioni manoscritte.
Il Giorno rientra nel genere della POESIA DIDASCALICA.
Il poeta, presentandosi come PRECETTOR D’AMABIL RITO afferma di volere insegnare al giovin
signore come riempire piacevolmente i vari momenti della sua giornata, vincendo la noia che lo
affligge.
L’impianto del poema, quindi, più che narrativo è descrittivo: non viene individuata una particolare
vicenda, ma viene descritta una giornata tipo dell’aristocrazia.
Nel Mattino il nobile viene colto nel momento in cui si corica, all’alba, dopo una notte trascorsa a
teatro o al tavolo da gioco; vengono quindi descritti il suo risveglio a mattina inoltrata, la
colazione, la lunga e laboriosa toeletta.
Alla fine il giovin signore è pronto per uscire e recarsi a trovare la sua dama.
Uno dei motivi centrali della rappresentazione pariniana è infatti il fenomeno del CICISBEISMO,
per cui ogni donna sposata aveva il diritto ad un cavalier servente che l’accompagnasse
costantemente in luogo del marito.
Nel Mezzogiorno il giovin signore viene seguito in visita alla dama, poi durante il pranzo si
intrecciano conversazioni di vari argomenti, quale il pensiero dei nuovi philosophes.

GLI STRUMENTI DELLA SATIRA


Tutto il discorso del precettore è impostato in chiave ironica e si fonda sulla figura
dell’ANTIFRASI, secondo la quale viene affermato il contrario di ciò che si vuole fare intendere.
Il precettore finge di accettare il punto di vista del giovin signore e del suo mondo, di
condividerne i gusti e i giudizi, perciò la vita futile e vuota della società viene celebrata in termini
iperbolici, come la vita eccezionale e superiore di veri e propri semidei terreni, e i gesti più
banali, come sbadigliare o bere una tazza di caffè, divengono eventi portentosi, degni di essere
cantati in termini alati; in realtà la vera essenza di quel mondo, cioè la sua frivolezza, traspare
dietro l’ironica enfasi celebrativa, e alle spalle della figura mellifua e servile del precettore si
delinea chiaramente quella del poeta, con il suo atteggiamento di sdegnata condanna.
La critica pariniana si vale però anche di altri strumenti, come ad esempio di un particolare
trattamento del tempo e dello spazio.
Innanzitutto non viene scelta una giornata particolare ma una tipo, uguale a tante altre e già
questo basta a dare il senso di una vita banale.
Inoltre il tempo in cui si collocano gli eventi è piuttosto breve, poche ore eppure alla lettura si ha
l’impressione di un tempo lunghissimo; l’effetto è creato dall’indugio descrittivo estremamente
lento.
Un effetto analogo ottiene la rappresentazione dello spazio.
Si tratta di uno spazio ristretto, quasi sempre chiuso: la scena è la prima all’interno del palazzo
del giovin signore, in seguito si sposta in quello della dama.

LA PLURALIRA’ DEI PIANI


Nella descrizione della giornata del giovin signore si inseriscono però, in alcuni punti, altri piani di
realtà.
Alla nobiltà oziosa del presente viene contrapposta talora quella rude del passato, che, lungi
dall’adagiarsi nelle mollezze, si gettava ferocemente nella battaglia (si veda ad esempio il
paragone tra il giovin signore avvolto da una nuvola di cipria nella sua toeletta ed il guerriero
immerso tra il fumo dei cannoni e la polvere del campo).
Anche qui scatta il meccanismo ironico, in quanto il precettore finge di provare orrore per quella
barbarica ferocia e di esaltare le pacifiche operazioni della nobiltà d’oggi.
Ma nel presente stesso si apre un altro piano di rappresentazione: quello delle classi popolari.
All’ozio vano e corrotto dei nobili si contrappone la vita operosa e sana del contadino e
dell’artigiano.

LE FAVOLE
L’inserzione di questi due piani (la nobiltà del passato e le classi inferiori) ha l’effetto di rompere
la continuità di una rappresentazione che non solo dà il senso del vuoto soffocante del mondo
aristocratico, ma rischia di essere monotona e soffocante essa stessa.
Al medesimo fine tende l’inserimento delle cosiddette FAVOLE, brevi racconti di carattere
mitologico, trattati con squisita grazia, che servono ad illustrare le origini di certi costumi sociali.
Tra di esse è significativa la favola di Amore e Imene, che spiega le origini del cicisbeismo:
Amore e Imene, figli di Venere, un tempo andavano d’accordo e univano i corpi e le anime dello
stesso tempo.
Poi, in seguito alla ribellione di Amore, ebbero dalla madre compiti diversi: Imene, dio del
matrimonio, regnò sulle anime durante il giorno, Amore invece regnò sui corpi durante la notte.
La favola allude al fatto che nella società nobiliare il matrimonio si riduce a pura facciata
esteriore mentre l’amore è riservato esclusivamente ai rapporti adulteri tra il cavalier servente e
la dama.

L’AMBIGUITA’ VERSO IL MONDO NOBILIARE


Se l’atteggiamento del poeta verso il mondo nobiliare, sia pur dietro il velo dell’ironia, è di
condanna, è tuttavia ravvisabile in esso una sottile ambiguità.
Parini indugia minuziosamente sugli aspetti della realtà aristocratica, riempie i suoi versi della
descrizione di una serie interminabile di oggetti preziosi.
Ma se tutto questo, attraverso l’artificio della celebrazione ironica, dovrebbe dare il senso della
futilità vuota di quell’ambiente sociale e dovrebbe caricarsi di un segno fortemente negativo, in
realtà dal discorso traspare una sorta di compiacimento sensuale del poeta che, nelle sue squisite
descrizioni, sembra accarezzare gli oggetti, come se fosse affascinato dall’eleganza, dalla grazia
di quel mondo.
IL “VESPRO” E LA “NOTTE”
La decisione di scindere in 2 parti il terzo dei poemetti progettati, la “Sera”, risale
probabilmente al decennio 70-80, ma il poeta vi lavorò a lungo senza portare a compimento
l’opera, sicchè il “Vespro” e la “Notte” si presentano frammentari e incompiuti.
Nel VESPRO il precettore (che però ha quasi del tutto smesso di impartire precetti di
comportamento mondano al suo pupillo e si è trasformato in semplice narratore e descrittore)
accompagna il giovin signore e la sua dama, dopo il corso, in visita ad un amico malato e ad
un’amica ce ha appena avuto un attacco di nervi, suscitando nel bel mondo infiniti pettegolezzi.
Nella NOTTE i due amanti si recano poi ad un ricevimento serale in casa di un’anziana dama.
Qui essi non sono più al centro dell’attenzione del narratore: il suo obiettivo passa minutamente
in rassegna i vari personaggi che popolano il salone, indugiando particolarmente su una serie di
imbecilli e sulle loro sciocche manie.

In queste ultime parti del Giorno la polemica antinobiliare si fa più tenue.


Resta parimenti l’impianto ironico.

GLI ASPETTI NEOCLASSICI


Scompaiono nel Vespra e nella Notte le arditezze linguistiche, l’uso di immagini che colpiscono i
sensi.
Si avverte la volontà di smorzare lo scontro tra il linguaggio classicistico e vocaboli più realistici
di ispirazione sensistica.

LE ULTIME ODI

L’ABBANDONO DEI TEMI CIVILI


Poiché le prime odi erano state tutte suggerite da problemi attuali, ora vi è un distacco nei
confronti della politica riformatrice.
“La recita dei versi” difende la dignità del poeta contro l’uso di leggere versi a mensa, tra la
disattenzione generale; vi si trova una definizione della poesia che è densa di significato, in
riferimento alla nuova direzione intrapresa dalla poetica pariniana.
“Il pericolo”, “Il dono”, “Il messaggio” sono odi galanti, in cui balenano immagini sensualmente
vagheggiate della bellezza femminile, fissate in linee di scultorea perfezione.
Il poeta non affronta più temi civili e sociali ma temi più universali.
VITTORIO ALFIERI

Nacque ad Asti nel 1749 da una famiglia della ricca proprietà terriera.
Nella tipologia dell’intellettuale del ‘700 rappresenta dunque la figura dello scrittore che può
dedicare tutto il suo otium alla letteratura.
Della nascita nobile infatti Alfieri si compiaceva perché, garantendogli l’indipendenza economica,
gli consentiva di non essere subordinato a nessuno.
Uscendo dall’Accademia di Torino, seguendo un costume diffuso tra i giovani aristocratici del
tempo, quello del GRAND TOUR, compì numerosi viaggi per l’Italia e l’Europa.
Ma il giovane non si spostava indotto dalla curiosità di vedere, di conoscere luoghi, costumi ma
come spinto da una smania febbrile di movimento, da un’irrequietezza continua, inappagabile, che
non gli consentiva di fermarsi in alcun luogo, ed era perpetuamente accompagnata da un senso di
scontentezza, di noia.
Si delinea così il profilo di un animo tormentato.
Nel 1775 si colloca la svolta fondamentale, la sua CONVERSIONE come lo scrittore la chiama
usando una terminologia religiosa.
L’anno prima, spinto da un impulso non ben definito, aveva abbozzato una tragedia, “Antonio e
Cleopatra”, dimenticandola subito.
Ritornatogli in mano il manoscritto per caso, egli scopre la somiglianza tra la propria relazione con
la Turinetti e quella tra Antonio e Cleopatra, e si rende conto di come proiettare i propri
sentimenti nella poesia costituisca l’unico mezzo per trovare un superamento dei propri tormenti,
una catarsi.
La tragedia, portata a termine, viene rappresentata al teatro di Torino nel 1775, ottenendo
grande successo.
Data l’insufficienza dei suoi primi studi, gli è però indispensabile munirsi dell’adeguato bagaglio
culturale: con volontà si immerge nella lettura dei classici latini e italiani.

I RAPPORTI CON L’ILLUMINISMO

Gli autori che egli aveva letto nella sua giovinezza continuano anche in seguito a determinare il
suo orizzonte mentale.
Ma, nei confronti di quella cultura del secolo, che tutto sommato resta anche la sua cultura, prova
una sorda, confusa sofferenza.
Innanzitutto egli ripugna il culto della scienza, ha orrore per l’evidenza gelida e matematica, per i
gelati filosofisti, il freddo razionalismo scientifico.
Alfieri si ribella a questo controllo razionale ed esalta la passionalità sfrenata, senza limiti.
L’illuminismo sottoponeva a critica implacabile e corrosiva la religione tradizionale, approdando in
certi casi ad un vago deismo.
Alfieri, pur non avendo una fede positiva, respinge tali posizioni ed è mosso da un fondamentale
spirito religioso, che si manifesta nel bisogno di assoluto.
Se il progresso scientifico lo lascia freddo e scettico, tanto meno lo alletta il progresso
economico.
Egli vede nello sviluppo economico solo l’incentivo al moltiplicarsi di una massa di gente meschina e
arida, incapaci di alti ideali e forti passioni.
LE IDEE POLITICHE

Anche le idee politiche di Alfieri (avversione contro la tirannide e il culto della libertà)
possiedono una matrice illuministica, traggono spunto dalla lettura di Montesquieu, Voltaire,
Rousseau.
Ma anche in questo caso lo scrittore si stacca nettamente dalla cultura del lumi.
La lettura dei philosophes non ha altra funzione che consentirgli di portare alla luce e di
organizzare formalmente un groviglio di impulsi profondi le cui radici sono anteriori ad ogni
sistemazione razionale e ideologica.
È l’ambiente in cui nasce e si forma a suscitare il suo radicale rifiuto: il Piemonte sabaudo,
caratterizzato da un assolutismo paternalistico che esercita un rigido controllo su tutte le forme
di vita associata, da un’aristocrazia devota e ligia alla corona, legata alle cariche militari e
burocratiche, da una situazione economica e culturale arretrata.
Da questo ambiente soffocante il giovane Alfieri fugge, vagando per 5 anni tra i vari paesi
europei, ma ovunque si scontra con il clima opprimente dell’assolutismo monarchico.
L’odio contro la tirannide, che è il punto centrale di tutta la sua riflessione, non è la critica di una
forma particolare di governo, colto nella sua specificità storica e giuridica, ma il rifiuto del
potere in sé, in assoluto e in astratto, in quanto ogni forma di potere è oppressiva, possedendo
una facoltà illimitata di nuocere.
Per questo Alfieri non ha da contrapporre a quell’idolo polemico alcuna concreta alternativa
politica, alcuna proposta di ordinamento migliore effettivamente praticabile.
Quindi nel pensiero di Alfieri non si scontrano due concetti politici, tirannide e libertà, ma due
entità mitiche e fantastiche: da un lato un bisogno di affermazione totale dell’io, al di là di ogni
limite e di ogni vincolo esterno, dall’altro la percezione di forze oscure che, nell’io stesso, si
oppongono a questa espansione, la minano e la corrodono.
Già nelle opere propriamente politiche si delinea dunque il TITANISMO alferiano, un’ansia di
infinita libertà che si scontra con tutto ciò che la limita e l’ostacola.
In quest’immagine di un io gigantesco, che vuole spezzare ogni limite, si proietta miticamente la
stessa condizione storica di Alfieri: il suo conflitto con una realtà politica e sociale mediocre,
l’estraneità al suo secolo.
Il TIRANNO non è solo la trasfigurazione mitica di una condizione storica oppressiva ma è la
proiezione di un limite che Alfieri trova in se stesso, e che rende impossibile la grandezza:
tormenti, angosce, incubi.
LE OPERE POLITICHE

“DELLA TIRANNIDE”
È un breve trattato steso di getto nel 1777 e tutto pervaso di un fremente impeto passionale.
Inizialmente Alfieri si preoccupa di definire la tirannide, identificandola con ogni tipo di
monarchia che ponga il sovrano al di sopra delle leggi, e conduce una critica veemente contro
l’ideale settecentesco del dispotismo illuminato e riformatore: le tirannidi moderate, a suo avviso,
velando la brutalità del potere, tendono ad addormentare i popoli; quindi sono preferibili quelle
estreme e oppressive perché, con i loro abusi, suscitano il gesto eroico dell’uomo libero,
provocando così l’insurrezione del popolo e portando, attraverso la violenza, alla conquista della
libertà.
Lo scrittore passa poi a esaminare le basi su cui si poggia il potere tirannico, e le individua nella
nobiltà, nella casta militare, mediante cui i sudditi sono oppressi e viene soffocata ogni possibilità
di ribellione , e nella casta sacerdotale, che educa a servire con cieca obbedienza.
Alfieri affronta inoltre il modo di comportarsi dell’uomo libero sotto la tirannide: per non farsi
contaminare dalla generale servitù, questi potrà ritirarsi dalla vita sociale, chiudendosi nella più
totale solitudine, potrà ricorrere al gesto eroico del suicidio, oppure potrà uccidere il tiranno.
Nel discorso alferiano si delineano due figure gigantesche, il TIRANNO e il LIBER’ UOMO, in
fondo molto simili fra loro, in quanto entrambe tese all’affermazione assoluta della loro
individualità superiore.

IL “PANEGIRICO DI PLINIO A TRAIANO” E “DELLA VIRTU’ SCONOSCIUTA”


Nelle opere più tarde questo impeto rivoluzionario e questo impegno attivo si affievoliscono.
Nel Panegirico, Alfieri vagheggia un principe che spontaneamente deponga il potere, facendo dono
della libertà ai cittadini e guadagnandosi così eterna gloria.
Nel dialogo Della virtù sconosciuta, dedicato alla memoria di un amico, sviluppa un tema toccato
nella Tirannide, la necessità per l’uomo libero, al fine di non essere contaminato dalla servitù
dominante, di ritirarsi in sdegnosa solitudine.

“DEL PRINCIPE E DELLE LETTERE”


È l’opera politica più impegnativa.
I 3 libri, ideati sin dal 1778 ma compiuti solo nel 1786, e dedicati ad esaminare il rapporto tra lo
scrittore ed il potere assoluto.
Mentre nella Tirannide, Alfieri celebrava la superiorità dell’agire sullo scrivere e presentava la
letteratura come ripiego, con un amaro rimpianto per l’azione impossibile, ora invece proclama la
superiorità assoluta dello scrivere su ogni altra forma di attività.
Omero è più grande di Achille, perché questi, pur avendo compiuto azioni sublimi, non sarebbe
stato capace di dare perenne fama a se stesso, mentre questa fama gli è assicurata dal poeta; e il
poeta, per cantare l’eroe, deve essere eroe egli stesso.
ALFIERI E LA RIVOLUZIONE FRANCESE: IL “MISOGALLO”
In un primo tempo Alfieri aveva guardato con simpatia alla rivoluzione come affermazione di
libertà, ma poi, dinanzi al precisarsi di concrete rivendicazioni sociali ed economiche, dinanzi
all’avanzata di ceti emergenti, si chiude in un atteggiamento di acredine esasperata, ritenendo
che quei rivoluzionari borghesi contaminino con la loro bassa avidità di potere e ricchezze il
purismo ideale di libertà, e che alla libertà vera ne sostituiscano una falsa, sotto cui si cela in
realtà una tirannide peggiore di quella monarchica.
Questa violenta reazione alle tendenze della storia contemporanea, si manifesta in scritti che,
pur non essendo espressamente politici, possiedono una forte valenza politica.
Il più significativo è il “Misogallo”, un’opera dall’impianto curioso, che mescola insieme prosa e
versi.
Essa esprime un odio profondo contro la Francia, che in realtà è odio contro la Rivoluzione, contro
i principi illuministici.
Alfieri difende i privilegi della casta nobiliare, soprattutto il diritto di proprietà, respinge ogni
turbamento dell’ordine sociale, riserva solo ai nobili il pieno godimento dei diritti politici e
l’esercizio del potere.

LE SATIRE E LE COMMEDIE

L’acre polemica contro la realtà contemporanea compare anche nelle SATIRE, scritte in terzine
tra il 1786 e il 1797.
Nei “Grandi” il poeta riprende la polemica antiaristocratica, ma la indirizza solo su aspetti
marginali, la frivolezza e l’ozio, e per contro ribadisce la naturale supremazia della classe
nobiliare e la sua funzione di guida nella società.
“La plebe” e “La sesquiplebe” (cioè la borghesia, che è plebe una volta e mezzo) sono una
requisitoria durissima contro la gente nuova, la borghesia emergente, a cui Alfieri non riconosce
alcun diritto se non quello di restare al proprio posto e di obbedire.
Nell’ “Antireligioneria” il poeta difende ad oltranza la religione contro la critica voltairiana,
affermando la necessaria funzione consolatrice delle credenze religiose nella vita dell’uomo.
Insomma nelle Satire si manifesta la radicale opposizione di Alfieri allo spirito del secolo, ai suoi
orientamenti democratici, progressisti.
La delusione e la crisi degli ideali si esprime ancora più radicalmente nelle sei Commedie, vengono
messe a nudo le autentiche motivazioni dell’agire umano, ambizione, egoismo, vanità, interesse
materiale, che si mascherano dietro generosi e disinteressati principi.
Nascono così le 4 COMMEDIE POLITICHE, “L’uno”, “I pochi”, “I troppi”, “L’antidoto”, che sono
una satira allegorica delle varie forme di governo, rispettivamente quello monarchico, quello
oligarchico e quello democratico, a cui si contrappone infine l’antidoto, una forma alternativa che
per Alfieri deve essere un governo misto che contemperi tutte e tre le altre forme.
Tuttavia lo scrittore esclude sempre la plebe dalla vita politica e la relega ad una condizione di
sudditanza, in quanto l’elaborazione delle leggi spetta esclusivamente all’aristocrazia.
Le commedie sono testi mediocri che rivelano un poeta ormai stanco, chiuso in un’amara,
scontrosa cupezza.
Più felice è forse “Il divorzio”, una satira del cicisbeismo, collocata in ambienti borghesi e nella
società contemporanea.

LA POETICA TRAGICA

Nell’impegno della scrittura tragica Alfieri trova la catarsi della sua oscura inquietudine.
A scegliere la forma tragica come espressione del suo mondo interiore il poeta è indotto da vari
motivi.
Poiché tradizionalmente la tragedia rappresentava figure umane eroiche ed eccezionali in forme
di vertiginosa sublimità, essa appariva il genere poetico più adatto ad esprimere il titanismo
alferiano, la tensione verso una grandezza senza limiti.
Nel costruire i suoi eroi proiettava se medesimo.
I principi che lo ispiravano nel lavoro di composizione delle tragedie furono enunciati da Alfieri in
vari scritti: la “Risposta dell’autore” ad una lettera sulle prime quattro tragedie inviatagli da
Ranieri dè Calzabigi, poeta e autore di libretti per melodramma, le “Note” in risposta a una
lettera di Melchiorre Cesarotti, ed infine la “Vita” che è essenzialmente la storia della sua
vocazione alla poesia tragica.
Alfieri si colloca in posizione polemica nei confronti della grande tragedia classica francese.
Ai tragici francesi lo scrittore rimprovera le eccessive lungaggini che rallentano l’azione
raffreddando l’interesse, il patentismo sentimentale.
Secondo Alfieri alla base dell’ispirazione poetica vi deve essere un veemente slancio passionale.
Il meccanismo tragico deve recare l’impronta di questo calore, che si manifesta nel dinamismo
dell’azione, nella tensione incalzante che precipita verso la catastrofe, senza mai essere
interrotta da indugi e rallentamenti.
La rapidità della struttura si traduce anche nello stile, che deve essere egualmente rapido,
conciso, essenziale.
Le battute sono in prevalenza brevi.
Lo stile tragico, per Alfieri, deve distinguersi nettamente da quello lirico e da quello epico: questi
tendono al canto mentre la tragedia esprime conflitti fra individualità, idee e passioni, quindi non
può “cantare”.
Per evitare la cantilena, che per lui è indizio di una caduta di tensione passionale e quindi di
freddezza,di languidezza, il poeta punta su uno stile duro, aspro.
Gli strumenti che impiega a tal fine sono le continue variazione di ritmo, la presenza continua di
pause e di fratture al loro interno intesi anch’essi a spezzare il ritmo.

L’EVOLUZIONE DEL SISTEMA TRAGICO

LE PRIME TRAGEDIE
Nelle prime tragedie si proietta il sogno di grandezza sovraumana, lo slancio titanico di
affermazione dell’io al di là di ogni limite.
Nel “Filippo” sotto le vesti del sovrano spagnolo del ‘500 Filippo II compare per la prima volta il
mito del tiranno, quale sarà subito dopo delineato nel trattato “Della tirannide”, immagine
polemica di un potere che esercita una feroce, mostruosa oppressione.
Nella sua volontà di imporre il suo incontrastato dominio, anche a costo di uccidere il figlio Carlo
che gli si oppone, Filippo è la prima incarnazione tragica dell’individualismo alferiano, del suo
bisogno di grandezza.
Con il “Polinice” la scelta del mito classico libera l’ispirazione alferiana dalle esteriori motivazioni
politiche, lasciando a nudo il significato simbolico e metafisico.
Nei due fratelli rivali, Eteocle e Polinice, nati dall’incesto di Edipo con la propria madre,
l’ambizione di regno diviene brama di grandezza.
Ma al tempo stesso vi è un senso oscuro e tragico del fato che grava sulla stirpe colpevole di
Edipo e si manifesta come legge che condanna all’infelicità.
La successiva “Antigone” costituisce un ideale secondo momento della stessa tragedia.
Vi viene approfondito il tema del fato.

LA CRISI DEFINITIVA DELL’INDIVIDUALISMO EROICO


Nel “Saul” l’esasperato individualismo alferiano entra in crisi.
Il vecchio re d’Israele, alla vigilia dello scontro con i Filistei, sente tutto il peso dell’umana
insufficienza e debolezza.
Disperato, Saul cerca di reagire a questo senso di sconfitta con un estremo gesto di ribellione a
Dio, nella speranza di riaffermare la sua volontà titanica contro le forze che la ostacolano, ma
subito assume coscienza della vanità nel tentativo e va incontro deliberatamente alla morte, vista
come unica forma di liberazione dal suo tormento e come unico modo di ristabilire la sua dignità.
Col Saul, Alfieri giunge alla consapevolezza della reale miseria della condizione umana.
Il titano orgoglioso scopre la sua intima debolezza, il suo destino di sconfitta.
Dopo il Saul il poeta tace per due anni.
Sono anni tormentosi, segnati da sofferenze e delusioni.
Di qui nasce nel poeta un più urgente bisogno di rapporti umani, di solidarietà nel dolore.
Dalla crisi dell’individualismo eroico nasce una tematica nuova.
La “Mirra”, insieme al Saul, costituisce il vertice della produzione tragica del poeta.
L’argomento è tratto dal mito classico, ma la vicenda si svolge in realtà in un interno famigliare, in
un ambiente che potremmo definire borghese.
L’eroina nutre una passione incestuosa per il proprio padre.
In questa tragedia Alfieri effonde la sua pietà per l’infelice sorte degli uomini, simboleggiata da
Mirra, innocente e colpevole, vittima di un qualcosa che si sviluppa dentro di lei e di cui non è
responsabile.

SAUL

Saul rappresenta una figura di eroe del tutto nuova.


Non è l’eroe monolitico nella sua forza ma un eroe intimamente lacerato e perplesso.
Per un aspetto si ripresenta in Saul la fisionomia di tanti altri tiranni delle precedenti tragedie di
Alfieri, Filippo, Eteocle, Lorenzo dè Medici.
Ma la novità di Saul consiste nel fatto che questa volontà titanica si scontra con un limite
invalicabile, la superiore volontà di Dio.
L’affermazione della propria grandezza si trasforma in una sfida a Dio e scatena la terribile
collera della divinità, che grava inesorabile sull’eroe, destinandolo alla sconfitta.
Lo scontro dell’eroe con la dimensione trascendente costituisce la novità clamorosa del Saul
rispetto alla precedente produzione alferiana, in cui dominano solo conflitti tra individui e
volontà.

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