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Riassunto Libro Letteratura Italiana

Artemisia Bernardi

IL DOLCE STIL NOVO 4


1. Una nuova concezione dell’amore 4

2. I poeti del dolce stil novo 4

DANTE ALIGHIERI 5
1. La giovinezza, Firenze, Beatrice 5

2. La Vita Nova 6

3. Le “Rime” 7

4. L’esilio e i trattati 8

5. Opere latine degli anni dell’esilio 10

6. La “Commedia” 11

FRANCESCO PETRARCA 15
1. Dalla formazione culturale alla corona di poeta 15

2. L’Africa 16

3. Le vicende biogra che dopo l’alloro 16

4. Le opere in latino 17

5. Il “Secretum” 19

6. Le opere in volgare: il “Canzoniere” 19

7. Il poema i “Triumphi” 22

GIOVANNI BOCCACCIO 22
1. La giovinezza e le opere del periodo napoletano 22

2. Le opere del periodo orentino 24

3. Il Decameron 25

4. Dopo il “Decameron” 27

FIRENZE TRA UMANESIMO CIVILE E UMANESIMO LAURENZIANO28


1. I due tempi dell’Umanesimo orentino 28

2. Lorenzo il Magni co 30

3. Luigi Pulci 31

4. Agnolo Poliziano 32

FERRARA E L’UMANESIMO CORTIGIANO 33


1. Matteomaria Boiardo 34

UN UMANESIMO DI TRAPIANTO: LA NAPOLI ARAGONESE 36


1. Alfonso d’Aragona, principe umanista 36

2. Giovanni Pontano e il latino umanistico a Napoli 37

3. “L’Arcadia” di Jacopo Sannazaro 37

4. Masuccio Salernitano, novelliere aragonese 38

LUDOVICO ARIOSTO 38
1. Alla scuola dell’Umanesimo ferrarese 38

2. Poesia latina e in volgare 38

3. Le prime commedie in prosa: “Cassaria” e “Suppositi” 39

4. Al servizio degli Este: dal primo “Orlando furioso” alle “Satire” 39

5. Ariosto morale. Le “Satire” 39

6. L’ultimo “Furioso” e le ultime commedie 40

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7. Ariosto continuatore di Boiardo: la forma del romanzo 40

8. La favola del “Furioso” 40

9. Le novelle e il romanzo 41

10. Le ultime giunte e i “Cinque canti” 41

11. L’ultima stagione delle commedie 42

NICCOLÒ MACHIAVELLI 42
1. Il segretario orentino 42

2. Prima e dopo la caduta 42

3. Fra “Principe” e “Discorsi” 42

4. Il “Principe”: temi, struttura, ideologia 43

5. Dalla “Mandragola” alla “Clizia” 43

6. Machiavelli scrittore di storia 44

7. La ne di Machiavelli 44

FRANCESCO GUICCIARDINI 45
1. Avvocato, ambasciatore, uomo politico: l’ascesa pubblica di Guicciardini 45

2. Uno scrittore clandestino 45

3. Anni di cili: dal sacco di Roma all’assedio di Firenze 45

4. Guicciardini “versus” Machiavelli 45

5. I “Ricordi” 46

6. La ne di Guicciardini 46

7. Guicciardini storico e la “Storia d’Italia” 46

CLASSICISMO E ANTICLASSICISMO CINQUECENTESCO 47


1. Il petrarchismo 47

TORQUATO TASSO 48
1. Gli esordi: dal “Gierusalemme” al “Rinaldo” 48

2. A Ferrara: “l’Aminta” 48

3. Il poema di una vita 49

4. Trama della “Gerusalemme liberata” 50

5. La struttura della favola 50

6. Tematiche e ideologia del poema: i tre livelli del con itto 50

7. I personaggi 51

8. Stile magni co e varietà tonale 52

9. Dentro e fuori da Sant’Anna 52

10. L’ultimo Tasso “Il Re Torrismondo” 52

11. La “Gerusalemme conquistata” 53

LA CULTURA BAROCCA 53
1. Le istituzioni 53

2. La periodizzazione 56

POETICHE E RETORICHE 56
1. Il Manierismo 57

2. Il Barocco 57

GALILEO E LA PROSA SCIENTIFICA 58


1. Galileo Galilei 58

GIAMBATTISTA MARINO 62
1. Da Napoli a Parigi 62

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2. “La Lira” 62

3. Le “Dicerie sacre” 63

4. “La galeria” e “La sampogna” 63

5. “L’Adone” 63

6. Le polemiche sull’Adone 64

IL TEATRO 64
1. Una civiltà teatrale 64

2. La commedia dell’Arte e altri generi comici 65

3. Il tragico 66

4. Nuove forme drammatiche 66

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Argomenti presenti negli appunti delle lezioni:
• La Poesia in Sicilia: la corte di Federico II e i siciliani; Giacomo da Lentini

• Guittone da Arezzo

IL DOLCE STIL NOVO


1. Una nuova concezione dell’amore

Sonetto di Bonagiunta Orbicciani


Voi, ch’avete mutata la mainera
indirizzato a Guinizzelli (Bologna)
Bologna con diverse innovazioni: contenuti, superamento delle regole dell’amor cortese e
il coinvolgimento diretto della personalità e della sensibilità dei poeti-amanti e nel linguaggio
e nello stile
“Nuovo”: si Scavalcamento della Repertorio di immagini chiare e luminose, tonalità
poetica guittoniana: espressiva tenue e delicata, lessico prezioso e
riconoscono in una selezionato, lavoro metrico curato e con soluzioni
nuova avanguardia “Dolce” contro la sua
non arti ciose, ma semplici e comprensibili
letteraria asprezza

Secondo Duecento
Guittone: poesia con responsabilità Stilnovismo: carattere elitario, cultura laica
didattica con spiritualità cristiana ed estranea con intenzione pedagogica e
destinazione politica

Esperienza dell’amore: vissuta nella sua natura di fenomeno interiore, di


elevazione morale e spirituale indicata dall’amata.

Donna: creatura la cui bellezza assume valore etico prima ancora che estetico,
portatrice di virtù; donna-angelo con duplice responsabilità: una, terrena e
mondana, per far manifestare la gentilezza dell’innamorato attraverso il suo
comportamento cortese e virtuoso, è una più alta e spirituale di mediazione tra
uomo e Dio.

2. I poeti del dolce stil novo


1. Guido Guinizzelli

Bolognese, considerato precursore dello stil novo, la cui produzione non è


copiosa. Egli tocca sia il tema dell’amore che provoca angoscia e colpisce a
morte sia la maniera comica.

Al cor gentil rempaira sempre amore, considerata il “manifesto” del dolce stil
novo, perché ne enuncia alcune idee capitali: il principio della corrispondenza tra
amore e cuore gentile, cioè rivalutazione della nobiltà del cuore contro la nobiltà
di sangue e la concezione della donna come gura che rappresenta la divinità.

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2. Guido Cavalcanti

Nato a Firenze, guelfo bianco, condannato al con no per decisione dei priori, fra i
quali c’era anche il suo amico Dante Alighieri, con cui quindi interromperà i
rapporti.

Singolare concezione dell’esperienza amorosa.

Guido è un «loico», un razionale, che nell'amore assiste al rivelarsi di un


fenomeno irrazionale, alla luce di una analisi «scienti ca», all'amore non viene
riconosciuta alcuna prerogativa di sublimazione che, per via morale o religiosa, lo
quali chi come esperienza grati cante, non resta che so rirlo angosciosamente,
in quanto doloroso e mortale.

Concezione secondo cui la sede dell'amore si trova nell'anima sensitiva, al

di fuori dunque dal controllo della ragione. L'apparizione della donna col
folgorante splendore che la fascia e che la rende inconoscibile e l'impossibilità
dell'uomo di costruirsi di lei un'immagine mentale provocano una serie di e etti
psicologici angosciosi, devastanti, devitalizzanti: tremore, paura, smarrimento,
sbigottimento, svenimento, malinconia, pianto.

Nell’analisi degli e etti dell’innamoramento: impressionismo psichico nel


movimento degli «spiriti» e «spiritelli»», sottili entità materiali che si formano nel
cuore e che rendono visibile il processo di distruzione sica e spirituale cui il
poeta soggiace nel subire un turbamento squassante, che simula la morte.

L'atto intellettuale è insieme salvezza e scacco: salvezza perché preserva dal


rischio della caduta nella sensualità, scacco perché l'astrazione della bellezza
nega un possesso del fantasma ideale.

3. Dante Stilnovista

Lo stilnovismo di Dante si fonda sulle premesse guinizzelliane, elaborando in


modo più avanzato l’immagine della donna angelicata.

Canzone-manifesto: Vita nova, Donne ch’avete intelletto d’amore; si de nisce la


sionomia della donna-angelo, intesa come creatura pienamente celeste
provvisoriamente operante nel mondo umano; fase della “lode” in cui Dante si
appaga solo della gioia che dà il celebrare la sua donna.

Inoltre, Dante compone un sonetto che nell’incipit rende omaggio a Guinizzelli


attraverso una citazione e nel secondo verso chiaramente allude al poeta cui fa
riferimento.

DANTE ALIGHIERI
1. La giovinezza, Firenze, Beatrice

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Dante, nato a Firenze nel 1265, il cui padre Alighieri era un uomo d’a ari che
aveva consentito al glio adolescente di ricevere una buona istruzione nella
grammatica e nella logica e di seguire lezioni di diritto, di loso a e forse anche di
medicina presso l’Università di Bologna. Partecipa poi tra le la della

parte guelfa ai combattimenti della propria parte contro i ghibellini.

Tra adolescenza e giovinezza cade il secondo avvenimento signi cativo: l'amore


per Beatrice, che mure nel 1290 e per cui ricostruisce la storia amorosa nel
libretto della Vita Nova.

2. La Vita Nova
1. L’amore giovanile e il “libello” che racconta l’amore

Vita nova, scritto dopo la morte di Beatrice tra il 1293 e il 1295, è la testimonianza

lirica e insieme il ripensamento idealisticamente tras gurato dell'esperienza


amorosa della giovinezza. Beatrice è colei che conduce il poeta al suo
rinnovamento: di natura interiore, psicologica, spirituale, che produce un
ra namento umano e morale, e c'è quello degli strumenti letterari, che consente
il superamento di schemi formali ormai logori in nome di un'originale dolcezza di
stile.

Si tratta di un prosimetro formato da 31 componimenti: 25 sonetti, 4 canzoni, una


ballata e una stanza isolata di canzone. Le poesie vengono collegate tra di loro
mediante la prosa, che da una parte funziona da tessuto narrativo perché serve a
introdurre e a giusti care la circostanza da cui le poesie hanno tratto

ispirazione, e dall'altra è rivolta a spiegare gli aspetti retorici e formali delle liriche.

Protagonista, comunque, è Dante e non Beatrice, che racconta la sua giovinezza


alla luce della determinante esperienza d’amore che l’ha caratterizzata.

2. Dal “saluto” al “gabbo”

Prima volta in cui gli appare Beatrice: a nove anni, e di quando la rivede nove
anni dopo, insistendo su quel numero «nove» come segno di perfezione in
quanto multiplo del tre, chiaramente indicativo della Trinità.

Si passa poi al «saluto» che Beatrice rivolge al poeta da intendersi come


«salvezza», quanto il nome stesso della donna, portatrice di beatitudine.

Primo sonetto: A ciascun’alma presa e gentil core, un sonetto-questione, inviato


a tutti i «fedeli d'Amore» perché risolvano i suoi dubbi, in particolare quello del
macabro spettacolo della donna amata che si pasce del suo cuore.

Amore, sul piano dei rapporti sociali, esige discrezione e segretezza, secondo le
regole dell'amor cortese, cui il poeta si attiene nella prima fase della sua
esperienza e del libretto che la racconta.

Per celare l’identità della donna da lui amata trova come soluzione il simulare e
far credere che ad altra donna sa indirizzato il suo interessamento. Però, quando
la donna dello schermo si allontana da Firenze, il poeta rivolge il suo ttizio amore
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a una seconda donna dello schermo, ma le voci sul suo comportamento
giungono a Beatrice, che lo punisce togliendogli il saluto. Inoltre, la reazione delle
donne che la accompagnano è di scherno, di irrisione, di «gabbo».

A ronta un momento di crisi e di sconforto, con un repertorio d’immagini


cavalcantiano e una descrizione della fenomenologia amorosa dominata dagli
aspetti negativi di turbamento, a izione, pena.

3. Lo “stilo de la loda”

Dante supera la condizione che lo fa so rire attraverso un risolutivo scatto


mentale.

Si determina una svolta poetica. Il poeta liquida la dominante concezione


secondo la quale l'omaggio dell'amante era sollecitato dalla speranza di un
riscontro, quale, ad esempio, il saluto. Ora l'omaggio è insieme mezzo e ne della
devozione amorosa e l'appagamento consiste nella felicità di un canto totalmente
votato alla celebrazione dell'amata, e nella lode della donna trova il suo premio
intero.

Inoltre, si incunea la proclamazione dell'essenza divina della donna attraverso il


presagio del ritorno della «gentilissima» alla sua sede naturale, il cielo.

4. La “donna pietosa” e il ritorno a Beatrice

Dante non racconta la morte di Beatrice: la preannuncia e quando accade,


comunica solo l'evento. Questo per nulla modi ca la sostanza di un amore che
non ha bisogno della presenza della donna, perché si esalta della sua spiritualità
e della sua trascendenza.

Dante si lascia attrarre dalla consolatrice, che insidia nella sua mente la memoria
di Beatrice, e per lei compone quattro sonetti, i cui moduli immaginativi e gurali,
d'impronta cortese e cavalcantiana, la “donna pietosa”.

Il rischio di un cedimento alla possibilità di un nuovo amore viene superato da un


sogno dove gli appare Beatrice, giovane e bella così come la prima volta.

3. Le “Rime”
1. Tra Guittone e Cavalcanti

Le liriche del tempo della Vita Nova escluse dal libro costituiranno in seguito il
libro delle Rime.

2. La tenzone con Forese Donati

Dovrebbero appartenere al periodo del traviamento di Dante dopo la morte di


Beatrice i sonetti della tenzone con Forese Donati, fratello di Corso Donati, il
futuro capo dei Neri, e di Piccarda Donati, che Dante collocherà in Paradiso nel
cielo della Luna. Sono sei sonetti, tre per ciascuno, di botta e risposta,

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in cui i due contendenti non hanno freni nello scambiarsi contumelie e insulti
infamanti, nella logica dell'improperium proprio dello stile comico.

3. Poesia allegorica e didattica

4. Le “rime petrose”

Negli anni che precedono l'esilio, probabilmente nel periodo 1296-98, Dante
scrive quattro componimenti che costituiscono le cosiddette «rime petrose».

All'opposto della dolce e celestiale donna angelicata dello stilnovismo, la «donna


Petra», per la sua durezza, si rivela avversa e crudele; e il controcanto allo
stilnovismo è impostato tanto sull'opzione stilistica (aspro vs. dolce), quanto sul
repertorio di immagini che allestiscono uno scenario adatto a un amore che non è
felice né corrisposto, ma contrastato e respinto.

4. L’esilio e i trattati
1. Dal priorato alla condanna, all’esilio, alla morte

L’altro determinante fatto biogra co che segna la vita di Dante è quello dell’esilio.
Dante entrò a far parte dell’Arte dei medici e degli speziali, che inglobava medici,
loso , poeti e uomini di cultura. In seguito ai contrasti tra guel bianchi e neri (ai
quali lui aderiva ai primi), è costretto a scegliere la strada dell’esilio nel 1300,
durato poi per tutta la sua vita.

Muore nel 1321 in seguito ad aver attraversato le paludi di Comacchio per


raggiungere Venezia.

2. Il “Convivio”

Tra il 1304 e il 1307, scrive due trattati, il Convivio e il De vulgari eloquentia, scritti
anche con la speranza di ottenere, tramite tale contributo dottrinale, il
riconoscimento di meriti culturali atto a rimuovere l'ostilità nei suoi confronti da
parte di chi reggeva il governo di Firenze.

Più di dieci anni separano Vita nova e Convivio ma, per quanto scritte in
circostanze molto diverse, un lo di collegamento corre tra le due opere. Se nella
Vita nova Dante aveva rivisitato attraverso la memoria lirica i suoi anni giovanili,
esaltando l'esperienza amorosa per Beatrice, ora, nel Convivio, ricostruisce la
propria identità collocando al centro dell'interesse la maturazione avvenuta dopo
la scomparsa dell'amata, in «trenta mesi» di frequentazione delle «scuole de li
religiosi» e delle «disputazioni de li losofanti».

Dell'episodio della «donna pietosa» che prova compassione per il poeta dopo la
morte di Beatrice; non una donna reale, a erma Dante nel Convivio, donna
invece che va allegoricamente intesa per la « glia di Dio, regina di tutto e
bellissima Filoso a»;

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Utilizzando la parola latina «banchetto», egli intende allestire una «beata mensa»,
un banchetto di sapere a bene cio dei non letterati, che siano tuttavia dotati di
core gentile e animati da un desiderio di conoscenza che solo con di coltà
riescono ad appagare, in quanto presi da preoccupazioni familiari o da
incombenze pubbliche.

Egli così pensa che sia più conveniente rivolgersi scrivendo in volgare: più
opportuno per l’esposizione di contenuti loso ci e scienti ci.

Dante riconosce l'inferiorità del volgare rispetto al latino, però giusti ca la sua
scelta fondandola su almeno tre buone ragioni:

1) Sarebbe stato sconveniente commentare in una lingua più nobile, il latino,


delle poesie scritte in volgare;

2) Solo attraverso il volgare si sarebbe data prova di liberale generosità


nell'elargire al maggior numero possibile di persone il bene del sapere;

3) Il volgare è la loquela naturale, destinata a raggiungere la perfezione del latino


e a soppiantare il latino stesso.

Il progetto prevedeva un libro ripartito in quindici trattati ma in realtà se ne hanno


solo quattro, restando incompiuto probabilmente perché l’alta fantasia della
Commedia sottrae Dante dall’ analitico lavoro della teoresi loso ca e della
divulgazione enciclopedica.

I capitoli sono trenta ripartiti in due parti: i primi quindici, che costituiscono la
pars destruens dell'argomentazione dialettica, sono diretti a confutare le
de nizioni errate del concetto di nobiltà; gli altri quindici formano la pars
construens e sono rivolti a determinare il signi cato della vera nobiltà e a
enunciare le facoltà che caratterizzano l'uomo nobile.

Qui Dante plasma un periodare così logico e consequenziale, così equilibrato e


simmetrico nell'ampiezza fraseologica, così fermo e sicuro nella tenuta delle
subordinate, così attento agli e etti di proporzione e di armonia, da dimostrare in
concreto come gli argomenti loso ci e scienti ci, ritenuti degni solo del latino,
possano essere espressi anche in volgare.

3. Il “De Vulgari eloquentia”

Pressoché contemporaneo al tempo di stesura del Convivio, trattato progettato


in quattro libri e anch'esso rimasto interrotto al quattordicesimo paragrafo del

secondo libro.

Il proposito di Dante qui è di analizzare i problemi della lingua e di giusti care la


dignità del volgare.

I destinatari del suo intervento dovevano essere principalmente i dotti, i «chierici»,


coloro che nutrivano forti dubbi sulle possibilità d'impiego del volgare, ecco che
Dante scrive in latino.

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Il primo libro tratta argomenti di linguistica generale e storica e così suddivide le
lingue europee in tre famiglie: germanica, greca e neolatina. Su quest’ultima si
so erma e individua la tripartizione in lingua d’oc, d’oil e del sì (il volgare italiano).
Di quest’ultima analizza tutte le sue varietà dialettali allo scopo di ssare una
lingua convenzionale, che di fronte alla varietà e mutevolezza delle lingue naturali
s'imponga con la stabilità delle sue regole generali.

Alla ricerca del «volgare illustre» Dante procede passando in rassegna quattordici
varietà di parlate regionali e fa capire che nessun di queste possiede i requisiti
necessari a imporsi sulle altre.

Prospetta, comunque, la possibilità di un idioma comune, di una lingua che viene


quali cata attraverso quattro epiteti: «illustre», perché perfetta e nobilitante,
«cardinale», perché punto di riferimento e di vaglio per le parlate municipali
«aulica», perché tale lingua sarebbe quella parlata nel palazzo reale qualora gli
italiani avessero una reggia, e «curiale», perché degna del tribunale supremo se
esso esistesse in un'istituzione politica e civile unitaria.

Nel secondo libro, si preoccupa di chiarire le forme e i modi che conferiscono


dignità alla lingua nell'ambito della poesia. I tre aspetti/argomenti della poesia
sono distribuiti in tre categorie: salus, i poemi epici di usi in Francia; venus, la
lirica d’amore praticata dai trovatori provenzali e dagli stilnovisti; virtus, la poesia
della rettitudine delle canzoni morali e dottrinarie dello stesso Dante.

Passando dai contenuti ai problemi di forma, Dante enuncia il principio che alla
dignità dell'argomento corrisponda quella della struttura metrica e dello stile
proponendo una tripartizione: lo stile più basso è l'elegia (o stilum miserorum,
cioè lo stile appropriato all'espressione dell'infelicità), lo stile medio è quello della
comedia, mentre il più alto degli stili è il «tragico», al quale conviene come
adeguata forma metrica la canzone.

È una poetica, quella messa a fuoco da Dante, che riserva alla poesia una
collocazione alta e aristocratica, ssata nella netta separazione tra lingua parlata
e lingua letteraria è governata dall’eccellenza dello stile tragico.

5. Opere latine degli anni dell’esilio


1. La “Monarchia”

Si tratta del solo trattato portato a compimento, scritto in latino in tre libri negli
anni dell’esilio.

Le tre idee fondamentali del suo pensiero politico:

1) L'Impero è l'istituzione provvidenzialmente necessaria per unire politicamente


l'umanità e per garantire il benessere del mondo;

2) Il popolo romano è deputato, per disegno della provvidenza, alla scelta


dell'imperatore;

3) L'autorità imperiale e l'autorità ponti cia discendono direttamente da Dio e


dunque i due poteri sono autonomi.

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Inoltre, per lui, il papa e l’imperatore derivano direttamente da Dio, senza
mediazioni e la loro autorità provvede a un doppio ne: la felicità terrena e la
felicità eterna.

2. Le “Epistole” e le “Egloghe”

Sono tredici le Epistole di Dante che ci sono pervenute, tutte in latino.

Importantissima per i suggerimenti utili all'esegesi della Divina Commedia è


l'epistola XIII, la più lunga tra quelle scritte da Dante e diretta a Cangrande della
Scala per annunziargli la dedica e inviargli il primo canto del Paradiso. L'epistola,
chiarisce le motivazioni poetiche, morali e politiche che sono a fondamento

del poema e ne illustra i criteri per una corretta interpretazione.

Dante distingue tra senso letterale e senso allegorico della visione e rappresenta
lo stato delle anime dopo la morte e il senso allegorico che presenta il destino di
castigo o grazia eterni che l'uomo consegue scegliendo, col libero arbitrio, il male
o il bene. Ai personaggi e agli episodi della Commedia, avverte Dante, sono
a dati un signi cato reale e storico e un signi cato esemplare e morale e il ne
pratico di insegnamento etico e di innalzamento spirituale è raggiunto in virtù
della congiunzione tra verità e allegoria.

6. La “Commedia”
1. Gli anni di composizione

Dante dà avvio alla stesura della Commedia e tale impegno lo accompagnerà,


nelle peregrinazioni dell’esilio, no alla morte.

Inferno: 1306-1307 no al 1314; Purgatorio: no al 1315; Paradiso: 1316 no


circa alla morte.

2. Il titolo

Commedia perché l’inizio è terribile e la conclusione è gaudiosa.

Lo stile è piano e umile ma poi punta in alto, verso la ra natezza e la preziosità


espressiva.

3. L’architettura del poema

Considerando qualche aspetto numerico: i versi della Commedia sono 14223,


distribuiti in cento canti di di erenze misura da un minimo di 115 versi a un
massimo di 100. A loro volta, i canti sono ripartiti in tre cantiche di 33 canti
ciascuna, tranne la prima, l'Inferno, che consta di 34 canti, perché il primo è
introduttivo.

L'equilibrio dell'insieme si fonda su di una serie di corrispondenze strutturali che


si manifestano nel ritornare dei numeri 3 e 10 e dei loro multipli. La terzina
incatenata è lo strumento metrico di scansione degli endecasillabi e al numero

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3 al multiplo di 3, il 9, con a volte l'aggiunta di una unità per formare il 10,
sottostanno altre simmetrie.

Nove sono le parti dei tre regni ultraterreni e in ciascun regno le anime sono
distribuite secondo un criterio di tripartizione. L'Inferno, costituito da un vestibolo
e nove cerchi (1+9), è il luogo della dannazione eterna per incontinenti, violenti,
fraudolenti. Le parti del Purgatorio sono nove, e cioè la spiaggia dove approdano
le anime, l'antipurgatorio, le sette cornici dove si «purgano» i sette peccati
capitali, con l'aggiunta, al culmine, del Paradiso Terrestre (9+1). I nove cieli del
sistema tolemaico più l'Empireo (9+1) compongono il Paradiso.

Inoltre, in tutte e tre le cantiche, ad esempio, il canto VI è di argomento politico e


il vocabolo che chiude le cantiche è lo stesso, “stelle”.

La ricerca di corrispondenze, simmetrie, parallelismi conferisce compattezza e


proporzione a una summa poetica che si adegua alla concezione propriamente
medievale di «libro» come totalità perfetta e armonica.

4. Il viaggio nei tre regni ultraterreni

L’inferno.

Dante descrive in chiave realistica l'esperienza dell'oltretomba. Egli immagina di


compiere il suo viaggio ultraterreno quando è giunto al culmine della sua
parabola esistenziale, a trentacinque anni, nel 1300, anno del Giubileo. Il viaggio
si svolge in sette giorni, a cominciare dal 7 aprile, cioè il Venerdì Santo.

Dante, smarrito in una «selva oscura» (il peccato), pensa di poter trovare salvezza
dirigendosi verso un monte che vede illuminato dai raggi del sole. Il suo cammino
è però ostacolato da tre ere che gli si parano davanti successivamente: una
lonza (l'invidia), un leone (la superbia) e una lupa (la cupidigia).

Gli viene allora in soccorso un'ombra, che si rivela essere quella di Virgilio, inviato
in suo aiuto da Beatrice e dalla Vergine.

La salvezza per lui potrà venire solo dopo che avrà percorso i regni della
dannazione e della puri cazione.

Dante rappresenta l'Inferno come una profonda voragine a forma di cono, che è
stata aperta sotto Gerusalemme da Lucifero quando fu cacciato dall'Empireo
assieme agli angeli ribelli e fu mandato a con ccarsi al centro della terra. I
dannati sono distribuiti lungo i cerchi degradanti di questo imbuto.

A mano a mano che si scende nell'Inferno e che dunque ci si allontana da Dio e


ci si avvicina a Lucifero, cresce la gravità del peccato. Tutti i dannati sottostanno
alla legge del contrappasso, che istituisce una correlazione tra colpa e pena: le
punizioni infernali trovano corrispondenza per similitudine o per contrasto col
peccato commesso.

Primo cerchio: il Limbo, anime di bambini e adulti innocenti che non furono
battezzati. Secondo: lussuriosi. Terzo: golosi. Quarto: avari e prodighi. Quinto:
iracondi. Sesto: eretici. Settimo: violenti. Ottavo: fraudolenti che esercitarono la
loro malizia contro chi non aveva particolari motivi di darsi di loro. Nono: frode
contro chi aveva motivi di darsi di loro.

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Poi raggiungono il centro della terra e qui si capovolgono. Salgono quindi lungo
le gambe del diavolo e, dopo aver attraversato la «natural burella», una caverna
scavata nella roccia dalla natura, giungono all'emisfero australe, ove sorge la
montagna del Purgatorio, che si è formata con la terra uscita dalle viscere del
mondo al momento della caduta di Lucifero.

Il Purgatorio.
La montagna del Purgatorio ha tipogra a articolata seguendo l’ordine dei vizi
capitali.

Dopo averlo percorso, compare Beatrice. Smarrito, il poeta non può trovare
appoggio in Virgilio, che si è congedato da lui: la ragione, rappresentata da
Virgilio, ha assolto al suo u cio e d'ora in avanti il cammino dovrà essere guidato
dalla fede, cioè da Beatrice.

Il Paradiso.
Anche le anime del Paradiso, pur avendo tutte la loro dimora nell'Empireo, più o
meno vicine a Dio a seconda del grado di beatitudine di cui godono, vengono
incontro a Dante seguendo una tripartizione correlativa al loro essere stati in vita
saeculares, activi o contemplativi.

5. Caratteristiche delle tre cantiche

L'Inferno è il regno del male e del negativo, del buio e dell'assenza di speranza,
del supplizio e del dolore eterni.

Entro un'atmosfera cupa e ossessiva, dominata da pianti e lamenti, in un


paesaggio di rocce, spuntoni, scoscendimenti, in uno scenario in cui si
susseguono bufere, piogge di fuoco, laghi bollenti, cavità ghiacciate, si muove
Dante, soggiogato dalla «paura»: e «paura» è parola-chiave del canto iniziale del
poema. Tuttavia Dante si dispone per a rontare una duplice guerra: quella del
percorso attraverso una natura stravolta e impervia e quella dell'incontro coi
dannati, che può risolversi in scontro, ma che può anche generare compassione.

In Dante è costante la consapevolezza della separazione tra piano umano e piano


divino e della subordinazione del primo al secondo.

Dante ricorre all'escamotage della profezia post eventum per cacciare nel buco
infernale, l'uno dopo l'altro, ben tre papi: uno già morto, Niccolò III, e gli

altri due, Bonifacio VIII e Clemente V, ancora viventi. Quanto distingue e separa il
Purgatorio sia dall'Inferno sia dal Paradiso è la dimensione della temporalità,
estranea agli altri due regni.

Gli incontri del poeta con le anime, incontri che spesso sono collettivi, si venano
di nostalgia e si riscaldano del sentimento dell'attesa, si stemperano nella
mestizia e s colorano di speranza.

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La cantica infernale si con gura come la più “umana”, la più vicina alle nostre
categorie di percezione del reale.

Il paesaggio paradisiaco si istituisce sull'incrocio di due coordinate, la luce e i


suoni, la luminosità e la musica che, con il loro intensi carsi, ri ettono la crescita
ascensionale di un amore inteso come caritas. Le tappe di avvicinamento alla
divinità e per rendere percepibile il progressivo perfezionamento della propria
vista, destinata a sprofondarsi nella visione della Trinità.

6. La “Commedia” come “poema totale”

La Commedia assume la con gurazione di un “poema totale” perché in essa


convergono e si integrano le esperienze cruciali di Dante e le sue idee
fondamentali. Viene a strati carsi uno sterminato materiale poetico, di erenziato
nei contenuti e nei temi.

Il ventaglio dei registri espressovi ha un’amplissima apertura, di volta in volta


lirico, drammatico, epico, polemico, ironico, sarcastico, profetico. Una rete di
antinomie con poli di cronaca-utopia, realismo-misticismo, narrativa-lirica, cultura
medievale-pre gurazioni umanistiche.

Un materiale così vasto e contraddittorio trova il suo centro di uni cazione


nell’organico, compatta, consequenziale tessitura narrativa.

Dante è protagonista in prima persona del viaggio nell’aldilà e, ad un tempo, è


anche l’autore-scrittore, lo sceneggiatore e il regista dell’avventura oltremondana.

7. Tra autobiogra a culturale e destinazione politica

Si tratta di un romanzo autobiogra co che ripercorre l’itinerario di salvezza del


poeta, testimone delle tappe di evoluzione e di superamento della sua avventura
intellettuale e, soprattutto, della sua formazione di poeta.

Dante supera i limiti di fronte ai quali i suoi precursori si erano fermati, che è la
poetica dell’amore-verità, dell’amore-carità dell’amore-grazia del Paradiso.
Questa forma di amore viene incarnata da Beatrice, la cui identità risulta
trasvalutata e arricchita rispetto alla giovanile esperienza amorosa al punto da
diventare gura rappresentativa della Fede.

La Commedia non si discosta dalla concezione tipicamente medievale secondo


la quale la vita terrena costituisce solo una fase di passaggio e di preparazione
per la vita eterna, dall'altra, con vitalissimo paradosso, manifesta interesse per la
vita terrena e, in particolare, per la politica.

Dal punto di vista politico vi è la con uenza di più fattori negativi: la con ittualità
fra le fazioni che costituisce il cancro intestino della civiltà comunale, la
corruzione del papato e la secolarizzazione degli ordini ecclesiastici, la debolezza
dell'impero in assenza di una sede u ciale, l'arroganza delle monarchie
emergenti e particolarmente di quella francese.

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L'ideale dantesco è il ripristino del potere delle grandi istituzioni medievali
dell'Impero e del Papato, in collaborazione reciproca, ma con rispetto delle
singole autonomie.

8. Il plurilinguismo, la varietà stilistica, il lavoro metrico

La base è il orentino non municipale, entro il quale il poeta innesta un repertorio


lessicale di di erente provenienza, che conduce alla realizzazione di un
plurilinguismo vario e mobilissimo.

Il numero dei latinismi è vastissimo, siano essi della tradizione classica, siano
invece recuperati dagli autori medievali.

L'adesione al latino è più assidua nel Paradiso, sembra infatti delinearsi una sorta
di progressione lungo le tre cantiche, che può essere percepita nel passaggio dal
termine vecchio, proprio del parlato, che designa Caronte nell'Inferno, al
provenzale veglio, che nel Purgatorio determina Catone, al latinismo puro sene,
che nel Paradiso indica san Bernardo.

Dante, inoltre, è anche creatore di vere e proprie parole. Nei versi coabitano
vocaboli dialettali e lessico dall'uso lirico, parole da trivio e termini aulici, lessico
della pratica quotidiana e neologismi.

Lo schema ABA / BCB / CDC e così via mette in evidenza la particolarità del
meccanismo della terzina, secondo cui il discorso si snoda e si collega
strettamente perché dal cuore di una terzina ne nasce un'altra: il verso centrale
della prima, infatti, diventa il verso iniziale della successiva.

FRANCESCO PETRARCA
1. Dalla formazione culturale alla corona di poeta

Nasce ad Arezzo nel 1304, nel 1312 viene esillato e si trasterisce con la famiglia a
Carpentras, nei pressi di Avignone, perché il padre aveva ottenuto un incarico alla
corte di papa Clemente V.

Studia diritto a Bologna e nel 1326 rientra ad Avignone.

Il 6 aprile 1327, giorno di Venerdì Santo, nella chiesa di Santa Chiara, incontra
Laura.

Prende gli ordini minori e viene assunto al servizio dal cardinale Giovanni
Colonna, in qualità di cappellano.

Dopo il 1330, si avvia una tta corrispondenza epistolare con i dotti del tempo
come lui interessati alla ricerca lologica e all'approfondimento degli studi
umanistici.

Dopo un viaggio a Roma nel 1337 prende dimora in Valchiusa. Nella quiete del
luogo, Petrarca concepisce molte delle sue opere e comincia a scrivere il De viris
illustribus, alcune poesie in volgare e il poema latino Africa.

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Il riscontro favorevole che ottengono alimentano in lui il desiderio di essere
insignito della laurea di poeta. L'opportunità gli viene o erta nello stesso giorno, il
1° settembre 1340, dall'Università di Parigi e dal Senato di Roma. Su consiglio
del cardinale Colonna, il poeta sceglie Roma e la cerimonia si svolge in
Campidoglio l’8 Aprile 1341.

2. L’Africa

Il maggior impegno celebrativo di Roma e della civiltà romana Petrarca lo destina


alla composizione dell'Africa. Il modello di riferimento è"l’Eneide, perché il
poema, che ha per argomento la seconda guerra punica dal momento in cui
Scipione l'Africano sbarca a Cartagine, vince a Zama e viene in ne trionfalmente
onorato a Roma, avrebbe dovuto constare di dodici canti, come il capolavoro
virgiliano. Ma, nonostante le attenzioni del poeta, resta un'opera incompiuta e i
nove libri che ci sono rimasti, di cui il IV e il IX lacunosi, saranno resi pubblici solo
nel 1396.

Nel poema le due anime petrarchesche, quella dello studioso e quella dell'uomo
dall'interiorità complessa ed irrequieta, anziché fondersi, si fronteggiano e non
trovano un ponte che le metta in comunicazione. L'erudito umanista trasferisce in
versi di sorvegliata regolarità le proprie conoscenze storiogra che, per la
massima parte derivate da Tito Livio.

L'attenzione alle glorie del passato si traduce in magni cazione delle sorti di

Roma, il cui momento di maggiore rilevanza è costituito dall'apparizione in


sogno, a Scipione, del padre Publio: è il pretesto per dare avvio alla rassegna
degli eroi che hanno fatto grande Roma e per pre gurare profeticamente il
destino della città nella parabola che ha il suo culmine in Cesare Augusto.

Il confronto fra passato e presente suscita la ri essione sul

rapporto tra la gloria umana e la gloria celeste.

Al poeta interessano non le azioni guerresche e gli atti di eroismo, ma gli stati
d’animo, le perplessità, le pene interiori dei protagonisti.

3. Le vicende biogra che dopo l’alloro

Lavorando al progetto dell'Africa, il Petrarca scrive nel 1338 una vita di Scipione
l'Africano, che costituisce il punto di partenza per una serie di ventitré biogra e di
personaggi illustri del mondo romano, da Romolo a Catone il Censore,

redatte tra il 1341 e il 1343. Il nucleo poi si allarga e, per la destinazione


conclusiva del libro, che viene intitolato De viris illustribus, tra il 1351-53 sono
aggiunti i pro li di dodici gure illustri del passato più remoto, appartenenti alla
Bibbia e alla mitologia classica, da Adamo ad Ercole.

Petrarca poi a Parma elabora Rerum memorandarum libri.

Nel 1347 la sollevazione popolare che porta al potere a Roma Cola di Rienzo,
eletto tribuno del popolo, sottrae il Petrarca al suo otium letterario, nella
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convinzione che nalmente si potessero realizzare una rinascita della Repubblica
Romanae e il ripristino del papato nella sua sede naturale. Così decide di
rientrare in Italia per sostenere Cola di Rienzo, ma non fa in tempo ad arrivare no
a Roma perché, giunto a Genova, è informato del fallimento dell'impresa del
tribuno.

L'anno successivo, trascorso tra Parma e Verona, è il terribile 1348 della peste
che si porta via molti suoi amici ed è anche l'anno della morte di Laura.

Nel 1368, dopo soggiorni a Venezia e a Pavia, si stabilisce a Padova, per


trasferirsi in ne nel paesino di Arquà, sui Colli Euganei, dove il signore di Padova,
Francesco da Carrara, gli aveva fatto dono di un terreno.

Qui, trascorre la parte conclusiva della sua vita, continuando il lavoro di revisione
e sistemazione di molte sue opere, fra cui anche il Canzoniere, no alla morte, nel
1374.

4. Le opere in latino
1. Le epistole

Petrarca è uno scrittore che a da la sua fama alle opere latine, che in verità
rappresentano la massima parte della sua ricca produzione, distribuendosi in vari
generi: dalla storiogra a alla loso a morale, dalla bucolica all' invettiva polemica,
all'epistologra a. La fondazione dell'«epistolario» quale genere letterario dotato di
un suo statuto autonomo si deve proprio a Petrarca.

Per numerose lettere si hanno due e persino tre redazioni che documentano non
solo aggiustamenti e ri niture formali, ma anche cambiamenti sostanziali, come
l'eliminazione di nomi, la soppressione di particolari privati, l'espunzione di
informazioni cronologiche puntuali.

Nella silloge Familiarium rerum libri (350 epistole in latino), ad esempio, il poeta
racconta l’ascesa al monte Ventoux, da lui compiuta assieme al fratello Gherardo,
Sottoposta a rimaneggiamenti dettati dalla decisione del fratello di farsi monaco
certosino, dà quindi risalto al signi cato allegorico racchiuso nella gurazione del
contrasto tra il passo spedito nel procedere verso l'alto del fratello e quello lento
che sembra trascinare verso il basso il poeta: per indicare, in

de nitiva, come il primo sia sospinto da un convinto slancio di fede, mentre il


secondo è impossibilitato all'ascesi spirituale perché imbrigliato dai lacci
mondani. Suggello dell'episodio è la citazione di un passo delle Confessioni di
sant'Agostino, che fa appello alla conoscenza di se stessi, e a non privilegiare

l'amore per le cose terrene.

Scritte tra il 1342 e il 1358 sono le diciannove lettere che

compongono la silloge Sine nomine, così intitolata perché vengono omessi i nomi
dei destinatari: per ragioni di prudenza, in quanto si trattava di lettere di
contenuto politico e ideologico, spesso fortemente polemico nei confronti del
papato e della corrotta corte avignonese. A un orizzonte di temi e di motivi

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delle Familiari ci riportano le 120 epistole distribuite in 17 libri che sono raccolte
nel volume delle Seniles.

L'immagine di sé che Petrarca intende consegnare ai posteri è quella del letterato


che, giunto a conciliare il patrimonio culturale classico con quello cristiano, si
stacca dal contingente, non si contamina con la storia contemporanea, si
esprime in modo compiuto solo nel poema epico, scritto in quella lingua, il latino,
che, riscoperto nel decoro del suo momento aureo, deve costituire la lingua
d'elezione del vero umanista e della nuova cultura.

2. Gli scritti polemici

Capace di inserirsi in animate prese di posizione d'ordine culturale, Petrarca si


segnala anche per alcuni interventi che si caratterizzano per il piglio dell'invettiva
e per il vigore con cui, in reazione a convincimenti ideologici contrari, lo scrittore
a erma le proprie idee.

3. Le opere latine in versi

Petrarca scrive anche una serie di 66 epistole in esametri in latino, raccolte nei tre
libri delle Epistole matrice. Esse per certi tratti si con gurano come sede di
appunti di un diario privato con la presenza anche di alcuni indugi ri essivi
prossimi alla materia e ai toni del Canzoniere.

4. Le opere storiogra che e il manuale tot storico-geogra co

Non portati a compimento sono i Rerum memorandarum libri. Petrarca qui


intendeva allestire una raccolta di aneddoti e di avvenimenti esemplari,
ripartendoli secondo categorie corrispondenti alle quattro virtù cardinali, cui
avrebbe dovuto seguire una sezione imperniata sui vizi opposti. Il progetto ha
una realizzazione parziale, perché non va oltre i quattro libri, che portano gli
esempi della sola virtù della Prudenza.

Esperienze personali di viaggiatore e nozioni libresche ed erudite, conoscenze


storiche e conoscenze geogra che si uniscono nell’Itinerarium breve de lanua
usque ad Ierusalem et Terram Sanctam.

5. Le opere morali

In De vita solitaria, tesse l’elogio di uno dei suoi miti esistenziali più
profondamente avvertiti, quello della vita solitaria. Molte a nità con questo testo
presenta il successivo De otio religioso (1347), il cui tema è quello della
celebrazione dell'ideale monastico.

Il trattato nel quale in misura più complessa Petrarca organizza l'insieme delle
sue ri essioni morali è il De remedis utriusque fortune, un libro sui due volti della
Fortuna, sulla buona e sulla cattiva.

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5. Il “Secretum”

La più analitica indagine introspettiva tesa a mettere a nudo i contrasti che


dilacerano la sua anima è condotta da Petrarca nel Secretum.

Lo svolgimento dialogico, ripartito in tre libri, è sostenuto da una cornice


immaginaria, modellata sul genere delle «visioni»: al poeta appare una donna, la
Verità, accompagnata da un vecchio, sant'Agostino, che per tre giorni lo
sottoporrà ad esame. Si instaura, nella scansione degli interventi, una dialettica
entro la quale Agostino occupa il posto di confessore e Petrarca quello di
penitente, alla presenza muta della Verità.

Nel primo libro l'accusa principale che Agostino indirizza al suo interlocutore
riguarda la debolezza della sua volontà. La meditatio mortis, se da una parte
conduce alla sensibile avvertenza della miseria umana, dall'altra sollecita
l'appello alla misericordia divina, ma il distacco dalle incombenze terrene sembra
arduo da realizzarsi. La acchezza della volontà impedisce al poeta di sottrarsi ai
legami che lo avvincono ai beni terreni e di rivolgere lo sguardo al cielo.

L'analisi diventa più dettagliata nel secondo libro perché l'interrogazione di


Agostino si incentra sui sette peccati capitali.

Nel terzo dialogo Agostino mette alle strette il Petrarca, imputandogli i peccati
per lui più rovinosi: l'amore per Laura e il desiderio di gloria. Per Francesco,

da ultimo, non c'è assoluzione, perché, anche se riconosce i propri peccati, si


dimostra impotente a resistere alle tentazioni: l'attrazione del cielo è forte, ma la
debole volontà non sa sottrarlo ai vincoli dei «mortalia negotia».

6. Le opere in volgare: il “Canzoniere”


1. I “rerum vulgarium fragmenta”: la fondazione del “libro di versi”

La produzione in volgare si riduce a solo due titoli: ma uno è il capolavoro dei


Rerum vulgarium fragmenta, la raccolta di rime cui Petrarca deve la sua fama
universale; l'altro è il poema dei Trion .

Petrarca comincia à scrivere versi in volgare n da quando è studente, a Bologna,


e l'attività creativa è in lui accompagnata da un parallelo lavoro di organizzazione
dei testi. A questa occupazione attenderà no alla morte, impegnandosi in una
fatica ordinatrice che si protrae lungo nove fasi di elaborazione.

Il manoscritto Vaticano Latino 3195 conserva la massima parte autografa, dove il


poeta sistema 366 poesie, di cui 317 sonetti, 29 canzoni, 9 sestine, 7 ballate e 4
madrigali.

Il passo ulteriore che fa Petrarca rispetto a Vita Nova è quello di abolire i raccordi
prosastici e narrativi e a dare alla sola sequenzialità dei testi lirici l'ordine del
racconto e il signi cato complessivo e coerente del discorso amoroso.

Esso si impone immediatamente come modello, destinato a riprese e imitazioni


nei secoli a venire, in Italia e in Europa.

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Due sembrano essere le componenti basilari che caratterizzano un «canzoniere»:
una contenutistica e una strutturale. Al primo aspetto appartiene la peculiare
funzione di ltro lirico dell'autobiogra a di cui è investita la silloge poetica,
ordinata secondo un criterio che pone al centro la soggettività, l'io del poeta.

L'insieme del Canzoniere è costruito su di un accorto collegamento in serie dei


singoli testi, mediante riprese di immagini o di sole parole o addirittura di sole
parole o addirittura di sole clausole ritmiche tra componimenti contigui.

Suddivisione della raccolta in due parti: la prima (I-CCLXIII), «in vita di madonna
Laura»; la seconda (CCLXIV-CCCLXVI) «in morte di madonna Laura».

In realtà la sistemazione non è propriamente così netta, dal momento che la


canzone CCLXIV, I'vo pensando, e nel pensier m'assale, presenta Laura ancora
viva, al pari dei due sonetti successivi. Probabilmente per rendere più morbido e
sfumato il transito di Laura dalla vita alla morte; qui il poeta, sorpreso dal
pensiero della propria morte, si propone di abbandonare Laura, di rifuggire
dall'ambizione della gloria (le due colpe più gravi a lui imputate

da Agostino nel Secretum) e di pensare alla salvezza dell'anima. L'evento


drammatico e luttuoso (la morte di Laura) viene nei fatti subordinato
all'avvertenza di una condizione di crisi morale.

La prima parte racchiude le poesie che traggono ispirazione dagli amori colpevoli
per Laura e per la gloria, mentre nella seconda parte si collocano quei
componimenti in cui manifesta è la consapevolezza del valore labile ed erroneo di
quegli amori e subentra il desiderio di un riscatto interiore e di una puri cazione
spirituale. Tale obiettivo si palesa soprattutto nell'adozione tematica di due
connotazioni dell'amore estranee alla tradizione della lirica romanza.

La prima promuove la condivisione di un amore casto nell'età senile, l'altra è


quella dell'amore per una donna scomparsa.

2. I contenuti del “canzoniere”

Le componenti dominanti sono enunciate nel sonetto proemiale della raccolta,


Voi ch'ascoltate in rime sparse il suono, che si propone come una dichiarazione
di poetica. In una prospettiva ormai di distacco dall'urgenza delle passioni e di
slontanamento della vicenda amorosa, valutata come «giovanile errore»; Petrarca
si apre a un rapporto di confessione e di dialogo con chi avrà modo di leggere i
suoi versi.

Il personaggio centrale della raccolta, Laura, agisce a più livelli nei confronti del
poeta: sul piano sentimentale ed esistenziale suscita i suoi a anni; sul piano
conoscitivo provoca le sue investigazioni psicologiche e la sua analisi interiore;
sul piano poetico è l'ispiratrice dei versi. La sua sionomia viene scolorita nei
tratti generici e al pari delle sembianze esteriori della donna, anche la natura è
sottoposta a un processo di stilizzazione. I paesaggi sono spesso sfumati fondali,

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ricostruiti su immagini desunte e trapiantate dalla tradizione della poesia elegiaca
e bucolica.

La predilezione di Petrarca va per i luoghi solitari, anche perché ritenuti possibili


vie di fuga dell’incombente assillo dell’amore.

La preferenza accordata ai luoghi solitari si rivela in sintonia con le caratteristiche


dell'amore petrarchesco anche sotto un altro aspetto: la solitudine rappresenta lo
scenario più adatto per chi nell'amore non cerca tanto l'appagamento della vista,
quanto la spinta al rimpianto. Amore concepito come assenza e come perdita, e
pertanto si nutre di memoria o sogno.

Laura, col suo stesso nome, richiama per via allusiva, attraverso una percepibile
rete di a nità (laurea, lauro ecc.), l'altro grande desiderio mondano e dunque
l'altro peccato di cui Petrarca si sente colpevole, l'aspirazione alla gloria, il
«giovanile errore» della passione amorosa suscita un processo di immersione
nell'interiorità che tocca una serie di problemi tali da spingere il poeta oltre la
semplice registrazione dell'avventura sentimentale.

La poesia conclusiva del Canzoniere è la canzone Vergine bella, che di sol


vestita, l'invocazione alla Vergine che è stata messa in rapporto con la preghiera
di intercessione nei confronti di Dante formulata da san Bernardo nell’ultimo
canto del Paradiso.

Petrarca si rivolge alla Vergine non con la tensione mistica di chi annega nel suo
grembo i propri a anni, ma con l'umiltà supplice di chi, consapevole di dover
convivere, sulla terra, con il dramma della propria anima scissa, umanamente

invoca la pace: e «pace» è la parola conclusiva dell'intero Canzoniere, con


l'appello del poeta alla Vergine di farsi mediatrice in suo favore a Cristo,
«ch'accolga 'I mio spirto ultimo in pace». E una conclusione che si adegua in
modo esemplare a quell'esigenza di smorzamento d'ogni turbamento e di ogni
con itto e, in parallelo, di desiderio di ricomposizione d'ogni dissidio, di
vocazione alla serenità, di esigenza di tranquillità che, convivendo con la tensione
psicologica, agisce da autentico lo conduttore della trama complessiva del
Canzoniere.

3. Lingua, stile, metrica del “Canzoniere”

Tra Dante e Petrarca vi è una netta di erenza del repertorio verbale dei due.

Petrarca si contraddistingue, rispetto a Dante, per uno smilzo vocabolarietto


frutto di un restringimento dell’area di attenzione “all’io”, cui è su ciente
l’applicazione di una lingua chiusa e selezionata, di un “unilinguismo”.

La ricerca di eleganza e compostezza classica giusti ca l'abbondanza dei


latinismi e i nomi della terza declinazione usati nella forma non tronca.

La qualità delle scelte stilistiche di Petrarca viene meglio messa a fuoco qualora
venga integrata con le misure metriche adottate, che rispondono all'esigenza di
un livello espressivo medio, ma di ra nata stilizzazione. Notevole è l'impiego, di

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gran lunga maggioritario sulle altre strutture, del sonetto. Con la sua misura
chiusa e con il bilanciamento che impone nei rapporti interni tra quartine e
terzine, il sonetto si rivela come la con gurazione metrica più consona ad
accogliere la dialettica contrastiva dell'analisi psicologica del poeta e a
racchiuderla in una compagine di perfetto equilibrio formale.

L’avventura dei sentimenti è per Petrarca anche avventura dello stile: la poesia
come un assoluto che rispecchia e al tempo stesso riscatta il dolore della vita è
concetto che sta a fondamento del Canzoniere.

7. Il poema i “Triumphi”

Trion sta sullo scrittoio del Petrarca per più di trent’anni. Il retroterra letterario
che fa da supporto alla genesi dei Trion è costituito dalle visioni medievali e
dalla letteratura allegorico-didattica.

Petrarca sviluppa la dinamica del suo poema lungo la sequenza di sei quadri che
presentano sei successivi «trion », allineati in senso ascensionale, poiché quello
successivo indica superamento di quello precedente. Al Triumphus Cupidimis,
trionfo d'amore, ove tra le vittime d'amore rinchiuse in un carcere gura Petrarca
stesso, fa seguito il Triumphus Pudicitie, il trionfo della castità, ove i prigionieri
sono liberti da Laura.

La quale Laura, però, nel successivo trionfo, Humphus Mortis, è scon tta dalla
Morte. All’allontanarsi della Morte avanza un'imponente regina, la Fama, che, nel
Triumphus Fume, precede tre cortei, due di insigni uomini d'armi, uno di Illustri
letterati e loso . Ma nel successivo trionfo, il Triumphus Temporis, la Fama viene
vinta dal Tempo, che copre di oblio gli eventi umani. In ne sul tempo trionfa
l'eternità e il Triumphus Eternitatis celebra il trionfo della gloria di Dio.

GIOVANNI BOCCACCIO
1. La giovinezza e le opere del periodo napoletano
1. Le “Rime”

Giovanni Boccaccio nasce a Firenze nel 1313, glio di un mercante che poi si
trasferisce a Napoli e lo segue per essere avviato alla pratica della mercatura.

Incontra Cino da Pistoia, professore di Diritto e tramite lui ha modo di essere


sensibilizzato alla lettura dei poeti dello stil novo e di Dante, mentre procede la
sua formazione culturale, caratterizzata da un vivace eclettismo, che lo porta ad
a ancare agli studi eruditi e scienti ci la lettura dei poeti latini, degli storici del
mondo classico.

L'arricchimento culturale procede con l'avanzamento nell'apprendistato


letterario, che si svolge in latino e in volgare, in prosa e in versi. Ed è soprattutto
sulla sua produzione in volgare che converrà fermare l'attenzione. Autore di
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liriche, Boccaccio non costruì mai un suo canzoniere. Va da sé che il corpus della
sua produzione lirica appartenga alla tradizione delle rime sparse, con in usso
dello stil novo e di Dante. Inoltre, la suggestione petrarchesca si lascia
sensibilmente avvertire soprattutto nei componimenti di meditazione sul tempo,
sulla morte e anche in quelli di invocazione a Dio e alla Vergine.

Le Rime di Boccaccio, caratterizzate da eclettismo tematico svelano un


quoziente di autonomia e di elaborazione più strettamente personale quando il
pretesto poetico coniuga concretezza e misura realistica, anche se persiste il
ltro della tradizione letteraria.

Inoltre, lo sguardo sensualmente attratto dal fascino delle bellezze naturali e delle
bellezze femminili caratterizza la poetica dalle soluzioni più originali di Boccaccio
lirico.

2. La vocazione narrativa: in prosa e in versi

La dimensione narrativa rappresenta la reale vocazione di Boccaccio scrittore; e


lo attesta molto bene la sua prima opera importante, il Filocolo, vale a dire,
secondo un'errata etimologia greca, «fatica d'amores: un lungo romanzo,
articolato in cinque parti, scritto tra il 1336 e il 1338.

Il Filocolo racconta in una prosa d'arte lavorata e preziosa le disavventure e le


peripezie amorose di Florio e Bianci ore che, innamorati e costretti a separarsi
per volontà dei genitori di lui, avversi a una relazione del glio con donna ritenura
non degna per stirpe, alla ne si ricongiungono e si sposano, con gioia e
soddisfazione generale, anche perché viene riconosciuta la nobile casata cui la
giovane appartiene, mentre Florio si converte al cristianesimo e conduce alla
conversione il suo popolo. Primo esempio nella letteratura italiana di quel genere
in verità poco fortunato, almeno no al Seicento, che è il romanzo in prosa.

Testo rappresentativo di un'operazione culturale diretta a congiungere le due


«anime» della cultura della corte angioina, in cui Boccaccio si era formato: una
cultura «alta», scienti ca, naturalistica, erudita, e una cultura «bassa», di svago,
mondana, a ascinata dai versi d'amore e dalle prose dei romanzi. Il progetto di
Boccaccio è quello di saldare i due poli e di approdare a una letteratura
«mezzana», conciliando l'invenzione narrativa con il sapere, nell'ambizione di
amalgamare e richiamare a un unico ambito d'interesse due face di pubblico no
allora nettamente separate: i dotti e le donne.

Il Filostrato, che nell' etimologia greca sta a signi care «vinto d'amore», un
poema in ottave che per argomento risale al mondo omerico, accostato però
attraverso i rimaneggiamenti dell' epica classica scritti in latino e in francese nel
Duecento e nei primi anni del Trecento.

Entro un contesto di avventure d'armi, Boccaccio isola l'episodio relativo al


rapporto amoroso fra Troiolo e Criseida, culminato con la scoperta del tradimento
della donna e con la risoluzione di Troiolo di prendersi immediata vendetta

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del suo rivale, Diomede: ma, entrato furiosamente in battaglia, è in ne ucciso da
Achille.

La tematica della separazione, della lontananza, della disillusione amorosa si


dispone nelle pieghe elegiache, ove il ritmo dell'ottava si rivela come il più adatto
ad accogliere le due direttrici fondamentali del Filostrato: quella narrativa dello
sviluppo della trama e quella analitica della registrazione dei sentimenti e
dell'e usione lirica dei monologhi.

Fra le prerogative del Boccaccio c'è, come si è visto, la disponibilità a


sperimentare nuove forme e nuovi generi letterari.

Si cimenta infatti anche nella stesura di un poema epico, il Teseida. In questo


prevalgono le vicende che vedono la sorella di Ippollita, Emilia, al centro
dell’interesse amoroso di Arcita e Palemone.

Gli eroi del Teseida non sono guerrieri, ma sono cavalieri che, in quanto tali, sono
principalmente al servizio di un ideale d'amore e che alla ne danno
testimonianza, attraverso il gesto magnanimo di Arcita, di un trionfo dell'amicizia.

2. Le opere del periodo orentino


1. L’allegoria: la “Commedia delle ninfe orentine” e “l’Amorosa visione”

Rientra a Firenze e per accostarsi alle direttrici formali e tematiche Toscane


compone la Comedia delle ninfe orentine. Si tratta di un prosimetro, cioè un
componimento misto di prosa e poesia, che per le parti in versi impiega la terzina
dantesca e che svolge un motivo centrale della poetica stilnovista: la forza
puri catrice dell'amore.

Con una più accentuata dimensione allegorica è l'Amorosa Visione, un poema di


cinquanta canti in terzine, in cui Boccaccio si pre gge di seguire le orme di Dante
non solo nella scelta metrica, ma anche nella concezione generale dell'opera
come mirabile visione.

2. “L’elegia di Madonna Fiammetta”

Si tratta di una narrazione in prosa in cui la protagonista, Fiammetta, si rivolge


alle «innamorate donne» per raccontare loro la storia del suo amore
extraconiugale (lei infatti è sposata) per Pan lo.

Si articolano i nove capitoli dell'Elegia, sviluppando le vicende di una tormentata


avventura sentimentale.

Il sistematico recupero dei classici e l'invadenza dei riferimenti mitologici sono


aspetti che, assommati, mettono in luce come il ltro della scrittura temperi il
pathos del vissuto e come quella di Fiammetta sia una «disperazione

dotta». Il comportamento della protagonista produce una rideterminazione del


signi cato di «elegia» rispetto a come l'aveva concepito Dante, Boccaccio da una
parte accetta e conduce a pratica realizzazione l’indicazione del contenuto
dell’eleganza come genere letterario adatto a storie d'amore dolorose, misere,
pietose, mentre dall'altra parte respinge la connotazione «umile» tanto nella
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scelta dei personaggi (Fiammetta è un'aristocratica), quanto nei livelli stilistici che
puntano verso l'altezza espressiva e la perfezione retorica.

Nel genere dell'elegia, il racconto rientra anche per la presenza di una trama non
risolta in modo de nitivo né positivamente né negativamente, come
rispettivamente è nella commedia e nella tragedia. Con una conclusione che non
conclude: la storia d’amore e, con la storia, il libro che la narra rimangono aperti.

3. Il “Ninfale esolano”

Del 1344-45 è il Ninfale esolano, un poemetto di 473 ottave sulle origini


leggendarie di Fiesole, alle quali si risale attraverso la storia di due giovanetti
innamorati, il pastore Africo e la ninfa Mensola.

Qui ripropone l'ambientazione pastorale che aveva sostenuto il disegno


allegorico-morale dell'Ameto per costruire un poemetto eziologico, cioè sulle
origini di un luogo, in cui la componente mitico-leggendaria funziona a punto di
vista privilegiato per osservare i sentimenti naturali degli uomini, primo fra tutti
l’amore.

3. Il Decameron
1. La struttura del libro di novelle

Il Decameron, viene scritto e ordinato dal Boccaccio tra il 1349 e il 1351.

Il contenuto consta di cento novelle raccontate da un gruppo, una brigata, di


sette donne e di tre giovani che si allontanano da Firenze per evitare il contagio

della peste scoppiata nel 1348. Le cento novelle sono ripartite in dieci giornate e
ogni giornata è formata da dieci novelle, raccontate a turno dai componenti della
brigata. Sempre a turno uno dei giovani o una delle donne è nominato re o

regina della giornata e ha il compito di indicare l'argomento al quale i narratori


dovranno attenersi.

L'opera è preceduta da un Proemio in cui l'autore indica esplicitamente come


destinatarie della sua opera le donne, dando così giusti cazione al sottotitolo del
libro, «chiamato Decameron e cognominato principe Galeotto»: come Galeotto si
era rivelato disposto a favorire l'amore di Lancillotto, così Boccaccio si augura di
poter compiacere alle donne innamorate col suo libro, scritto a ni di diletto.
Inoltre, nel Proemio lo scrittore a erma che il suo libro sarà composto di «cento

novelle, o favole o parabole o istorie che dire le vogliamo», intendendo indicare


che la materia sarà mista e i racconti saranno di varia specie.

Poi vi è un'Introduzione, in cui si descrive l'occasione storica, la peste, che


fornisce il pretesto del raccontare. In ne ci sarà anche una Conclusione
dell'autore, in cui Boccaccio delinea alcuni punti della sua poetica, specie quelli
relativi al linguaggio.

2. La peste, la fuga in contado, la scelta del narrare

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Dà inizio alla sua narrazione, «quasi da necessità constretto», partendo
dall'«orrido cominciamento» della rappresentazione di Firenze devastata dalla
peste: solo dalla drammatica registrazione di quell'evento può trovare
giusti cazione l'ingresso sulla scena, per contrasto, della brigata dei dieci giovani
che decidono di allontanarsi dalla città e di trascorrere nella letizia del narrare il
tempo funesto. A un'immagine di un mondo in distruzione viene contrapposta
l'immagine di un mondo che si salva, con il gruppo di giovani i cui componenti,
oltre a essere al culmine della giovinezza, si distinguono anche per bellezza,
decoro, agiatezza economica.

I dieci giovani si attengono alla ragione come metodo normativo della loro
convivenza: a un criterio di razionalizzazione risponde il sistema di ripartizione
delle giornate, con il trasferimento del reggimento alla ne di ogni giornata. La
trasgressione è consentita solamente a Dioneo, al quale viene lasciata la libertà di
esulare dai limiti tematici della giornata e viene anche concessa la facoltà di
raccontare la sua novella per ultimo.

Avviene dunque un creativo scambio dialogico in cui i giovani sono sia produttori
sia fruitori di letteratura: sono, a turno, i creatori di novelle e, sempre, il pubblico
l’uditorio.

Importantissima la prima novella della sesta giornata, la cui funzione di assoluto

rilievo è rimarcata dalla sua stessa collocazione strutturale, vale a dire nell’esatto
punto centrale del libro. Attraverso il racconto di Oretta vengono ssate alcune
regole fondamentali della narratologia. Indica come il ne delle novelle non sia
pedagogico o esemplare, ma essenzialmente ludico; il raccontare deve suscitare
piacere e rivela come questo piacere venga raggiunto non attraverso il contenuto
del racconto, ma grazie alla forma: meno importa quanto si racconta rispetto a
come lo si racconta.

3. Le dieci giornate del “Decameron”

La riprovazione del male, la fortuna, l'ingegno (giornate I-III).

Tragedia e lieto ne nell’amore (giornate IV-V)

I motti e le be e (giornate VI-VIII)

Dalla libertà tematica all’esaltazione della magni cenza (giornate IX-X)

4. I grandi temi: l’amore e il denaro

Amore e denaro, Eros e economia, donne e i mercanti, argomenti tra i più


a rontati.

Manifestazioni dell'amore inteso come forza distruttiva, al punto tale da risolversi


in tragedia, dell'amore che compie il tragitto dall'amore cortese a risoluzione nel
patto matrimoniale, dell'amore come ineluttabile pulsione giovanile, dell'amore
senile, dell'amore come appagamento dei sensi, che coinvolge anche i religiosi.
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La tematica amorosa è signi cativa anche per determinare la sionomia e la
personalità delle gure femminili.

Con atteggiamento di apertura mentale e di consenso Boccaccio considera


quelle donne che, mosse dalla spinta dei sensi, si concedono all'amore; al
contrario, si rivela avverso nei confronti di quelle che agiscono per tornaconto
economico.

5. Le fonti e la parodia

Ampio è il bacino delle fonti mentre Il lo conduttore più robusto e continuo che
percorre per intero il Decameron è quello della parodia, intesa come ribaltamento
comico di precedenti o fonti «alti».

6. Le scelte espressive

L'atteggiamento del Boccaccio nei confronti della realtà ripercorsa e censita


narrativamente appartiene alla mentalità di un «laico» che si accosta al mondo
esterno non con un apparato preconcetto e gerarchicamente strati cato di valori,
ma con l'intenzione di giudicare di volta in volta i fatti, ricavando gli strumenti di
misura dalla loro dinamica interna. Apertura a un giudizio non precostituito sulle
cose e sull'agire degli uomini, come capacità di esporre gli avvenimenti
presentandoli quali problemi e non quali esempi.

Attenzione sulla dinamica dei dialoghi, sul ricorso al lessico parlato, sull'adozione
di un plurilinguismo mobile ed e cace.

Cerca, inoltre, di caratterizzare l'ambientarione delle sue novelle anche per via
linguistica.

Il vertice del divertimento linguistico viene raggiunto quando la forza seducente


della parola stravolta e deformata si dispiega per distorcere il senso reale e
produrre una comunicazione falsata o del tutto arbitraria.

4. Dopo il “Decameron”
1. Le opere in latino

L’incontro fondamentale per Boccaccio è quello con Petrarca a Firenze nel 1350
e diventa per lui modello di vita e letterario, con il quale poi saranno ininterrotti la
corrispondenza epistolare e lo scambio di testi e codici. È un rapporto, quello tra
Petrarca e Boccaccio, non tra uguali, perché in verità il poeta aretino assume un
costante atteggiamento di superiorità, che si risolve nel considerare il sue

interlocutore come a lui subalterno.

Scrive anche alcune opere a carattere storiogra co e Genealogie deorum


gentilium. Ai primi tredici libri, che costituiscono una summa enciclopedica del
vasto materiale dei miti della letteratura classica, l'autore aggiunge
successivamente gli ultimi due libri, rispettivamente dedicati alla difesa della
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poesia e all' apologia del proprio lavoro letterario, entro la quale spicca
l'orgogliosa rivendicazione di essere stato il primo ad allargare gli orizzonti della
cultura umanistica verso il mondo greco.

2. Le opere in volgare

Il libello misogino: il «Corbaccio». L'ultima opera a carattere narrativo dove


l'autore racconta come, sotto forma di visione, a lui innamoratosi di una vedova,
compaia l'ex marito dell'amata, che passa in rassegna tutti i vizi delle donne e
che lo esorta a dedicarsi non all'amore; ma agli studi, più convenienti alla sua età.

Opera nella quale alla liquidazione di alcuni miti del passato si a anca
l'indicazione del cammino più giusto da percorrere e si veri ca l'apertura dello
scrittore verso una cultura seria, destinata a un pubblico di dotti ai quali far
pervenire i risultati della meditazione sui valori morali e i frutti di studi profondi.

Il culto di Dante. Negli anni che vanno dalla conclusione del Decameron alla
morte, l'ammirazione per Dante e la sua opera trova il suo riscontro in un assiduo
impegno di celebrazione dell'esponente più prestigioso della nuova letteratura

in volgare. Due sono le attestazioni di maggiore evidenza. La prima è costituita


dal Trattatello in laude di Dante e il secondo Esposizioni sopra la Commedia.

FIRENZE TRA UMANESIMO CIVILE E UMANESIMO


LAURENZIANO
1. I due tempi dell’Umanesimo orentino

Umanesimo civile e Umanesimo laurenziano si distinguono come i due momenti


storico-letterari successivi del Quattrocento orentino: il primo, che fa capo alla
gura del cancelliere Coluccio Salutati (1331-1406), caratterizzato da un

legame strettissimo fra istituzioni politiche e cultura; il secondo, che gravita


intorno a Lorenzo de Medici (1469-1492), caratterizzato da un mecenatismo che
tende a chiudere gli intellettuali all'interno del potere, allontanandoli da un
impegno attivo nella società.

Il governo di Lorenzo, non segna uno stacco nella collaborazione tra politica e
cultura, ma la prosegue in termini diversi.

È innegabile che il consolidarsi del principato dei Medici modi cò nel profondo la
funzione dell'intellettuale orentino. In un primo momento egli si identi cava con
l'istituzione politica di cui era parte attiva: la repubblica, il governo democratico
della città. In seguito (cioè a partire dalla seconda metà del secolo), l'intellettuale
si realizza al di fuori della gestione diretta della cosa pubblica; egli si concede

alla protezione di un mecenate (Lorenzo) che gli consente di dedicarsi in pace e a


tempo pieno ai propri studi.

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Gli intellettuali operanti nella prima metà del Quattrocento sono dunque ancora
molto legati alle istituzioni repubblicane di Firenze e al regime oligarchico.

Il mecenatismo di Lorenzo, nella sua fase più matura, fu inteso a continuare e


portare a compimento uno dei progetti più ambiziosi già avviati dal suo grande
nonno, Cosimo il Vecchio, primo protettore del Ficino e promotore di un vero e
proprio 'ritorno' di Platone nella cultura occidentale.

1. Il ritorno di Platone

Adesso l'Umanesimo vede la rivincita di Platone, spesso anche attraverso un


aperto e aspro confronto con l'aristotelismo tradizionale.

Figura di Gemisto Platone, dotto bizantino che da lezioni a Cosimo de’ Medici.

Il platonismo (o meglio neoplatonismo) orentino quattrocentesco condivide con


quello di Gemisto sia l'inclusione di Platone all'interno di una più vasta e più
antica catena sapienzale, sia la tendenza a sublimare il cristianesimo, pur mai
rinnegato, all'interno di un misticismo universale sincretistico e di spirito
profondamento conciliativo e paci sta.

Tipicamente umanesimo il credere che l'uomo può comunicare con lo spirito


divino che è presente in diversi gradi in tutta la natura e può così innalzarsi verso
la visione di Dio e lo strumento fondamentale perché tale processo si compia è
l’amore.

2. L’antiumanesimo di Girolamo Savonarola

Girolamo Savonarola: oppositore della cultura umanistica, classicistica e


paganeggiante, in nome di una cultura rigorosamente cristiana; propugnatore
della libertà orentina contro il pericolo di un «tyranno» in cui era naturalmente
molto facile riconoscere lo stesso Lorenzo. In ne fu martire della riforma religiosa,
condannato al rogo.

Anche Savonarola, comunque, partecipa profondamente, a suo modo, all’idea di


una renovatio, di una rivoluzione storica, di un cambiamento epocale.

3. Letteratura popolare del Quattrocento orentino

All'Umanesimo si a anca, e con esso si intreccia, una cultura di diversa origine e


di diversa inclinazione, che possiamo de nire cultura 'popolare'.

Se l'umanesimo greco e latino trova nei Medici i propri mecenati, la letteratura di


gusto popolare è quella caratteristica invece delle grandi famiglie magnatizie, che
si tengono fedeli a un gusto più tradizionalista. Questa letteratura
popolareggiante è esclusivamente in volgare orentino: non sa di greco o di
latino, e si tiene alla larga dalle ra natezze della nuova lologia e del nuovo
classicismo. I suoi generi prediletti sono generi umili, spesso legati a destinazioni
pratiche immediate: scritture di devozione, di immediato intrattenimento, o di
utilità pratica.

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2. Lorenzo il Magni co
1. La prima educazione e gli esordi letterari

Lorenzo nasce nel 1449 da Piero de’ Medici e da Lucrezia Tornabuoni, in un


momento in cui Cosimo il Vecchio ancora guidava la famiglia. Studia greco,
musica, latino, poesia, loso a, ma ha anche un’educazione mondana e cortese,
intonata alla sua altissima posizione sociale.

Alla morte del nonno Lorenzo si trova alla guida di Firenze.

Dall’interno della sua famiglia si può dire che gli venissero, in senso culturale,
messaggi contraddittori: da una parte Cosimo con il neoplatonismo e dall’altra
sua madre tipica rappresentante del gusto popolareggiante, semicolto, in
volgare.

2. La conversione ciniana

Compone il De Summo Bono, sei capitoli in terzine, dialogo tra Lauro (Lorenzo
stesso) e Marsilio e testimonia il rapporto profondo che si è ormai istituito fra il
giovane signore di Firenze e l’antico losofo “di famiglia”, riallacciandosi alla
cultura medicea tradizionale del nonno.

3. Lorenzo poeta lirico e il “Comento”

Scrive poesie di amore, un libro di rime costruito per accomulazione, quasi un


diario poetico, costituito da sonetti, canzoni, sestine, una ballata, che
testimoniano fedelmente l’evoluzione della poesia, dell’esperienza amorosa e
anche del suo pensiero.

4. La congiura de’ Pazzi e l’apogeo della politica laurenziana

1478: momento più Cristo con la congiura de’ Pazzi in cui i congiurati decidono
di attaccare Lorenzo e il fratello Giuliano che cade assassinato.

Scrive per l’occasione in cui va a Napoli per negoziare la ne dell’ostilità


antimedicea, l’antologia di Rime antiche Raccolta Aragonese contenente testi di
Dante, Guinizzelli, Guittone, Cavalcanti, Cino da Pistoia e altri poeti.

5. Trion e canti carnascialeschi

Compone per la vita cittadina un cospicuo numero di canzoni destinate ad


compagnare le mascherate di Carnevale oppure da eseguire su cari trionfali.
Ricondì con carri allegorici in genere ispirati alla mitologia classica, che s lavano
in occasioni festive varie, accompagnati da musiche e canti.

6. La ne di Lorenzo: un ritorno di devozione

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Lorenzo muore nel 1492, in seguito a molti lutti e dolori privati (fratello, madre e
moglie).

3. Luigi Pulci
1. Nella cerchia dei Medici: il “Morgante”

Luigi Pulci, nato da una famiglia di nobili origini ma dalle condizioni precarie; si
avvicina ai Medici. La sua formazione risente della frequenza alle lezioni orentine
del dotto umanista Bartolomeo Scala, ma di fatto le sue conoscenze si limitano ai
rudimenti del latino (appreso sui testi di Virgilio e Ovidio), e le sue letture più
approfondite riguardano Petrarca, Dante e Boccaccio.

Scrive il Morgante; una lettera del 4 dicembre 1470 sembra alludere, anzi, a un
più ampio programma di rifacimento e riscrittura dei titoli più di usi delle saghe
cavalleresche francesi.

2. La trama del “Morgante”

3. Il “Morgante” e il “Cantare di Orlando”

4. L’invenzione di Margutte

Il personaggio di Margutte rappresenta a buon diritto l’invenzione più famosa del


Morgante. In questo personaggio possiamo leggere un attendibile manifesto
dell'ideologia irriverente, ribelle, e della vocazione parodica dell'autore. Margutte
è di sembianze «strane, orride e brutte»; è un gigante cresciuto a metà, dunque
un mostro di natura, anzi un doppio mostro, un gigante abortito. La bruttezza
sica si accompagna ad una bruttezza morale che nella sua autopresentazione
Margutte rivendica e speci ca in dettaglio. Margutte si presenta come il male
assoluto.

5. L’originalità del “Morgante”

L'originalità del Morgante non può essere individuata soltanto nella pur innegabile
felicità delle aggiunte originali al racconto canterino preesistente. L'originalità
dell'operazione pulciana è in realtà tutta di carattere linguistico e stilistico.

Pulci ignora il registro medio della comunicazione: ogni sua parola è drogata,
deformata, comicamente s gurata da una sorta di costante sovreccitazione
espressiva. Neologismi, modi gurati, proverbi, strambe comparazioni, allusioni
cifrate, uso straripante di lessico vernacolare e gergale: è evidente che nel
Morgante non interessa ciò che viene raccontato, ma come viene raccontato. Lo
stile, dunque, va a incidere sul contenuto.

6. Il “Morgante maggiore” e i cantari della dolorosa rotta

Pulci era estraneo aloe sottigliezze teologiche della Firenze contemporanea.

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Gli ultimi cinque cantari del Morgante maggiore, che ne portano il segno
nell'evidente tentativo di rivincita dello scrittore, sul piano della forma come dei
contenuti. Il registro espressivo muta sensibilmente, facendosi più ambizioso,
serio e dotto.

7. Le altre opere di Pulci

Anche nel resto della sua produzione il Pulci si conferma un funambolico


manipolatore di materiali linguistici e stilistici.

Scrive un Vocabolarietto di lingua furbesca, una raccolta di voci commentate con


una lista di circa duecento nomi mitologici e topogra ci, molte lettere, polemiche
in rima, una novella, un corpus di rime volgari.

8. La ne di Pulci

Pulci muore a Padova, durante un viaggio al seguito del suo nuovo signore, per
febbri malariche.

4. Agnolo Poliziano
1. All’ombra del “lauro”: poesia latina e volgare

Angelo Ambrosini ben presto egli diviene il più signi cativo esponente della
cosiddetta «brigata laurenziana», ovvero di quel gruppo di letterati e poeti che si
riuniscono intorno a Lorenzo il Magni co.

La vasta produzione poetica latina è caratterizzata da una ra nata imitazione dei


modelli classici, in cui l'autore mette in luce la sua erudizione e la sua passione
per la ricerca lologica.

In volgare Poliziano, a parte alcune lettere, scrive esclusivamente poesia, in


sintonia con la politica culturale promossa da Lorenzo il Magni co.

Molto poco usate sono invece le forme 'nobili' della canzone e del sonetto,
segno di una non volontà di misurarsi con la tradizione più impegnativa della
letteratura in volgare.

Il testo poetico in volgare più importante rimangono certamente le Stanze per la


giostra, dedicate a Giuliano de' Medici e rimaste incompiute a causa della morte
di quest'ultimo nella congiura de Pazzi.

2. Le “stanze per la giostra”

Per celebrare l'esordio mondano del giovane Medici, con un poemetto intitolato
appunto Stanze per la giostra. Si trattava in pratica di reportages sportivi, appunti
di cronaca cittadina in cui si celebravano la grandezza della città e dei suoi fasti
insieme ai nomi delle illustri famiglie orentine che partecipavano alla gara.

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Nelle sue mani la "giostra' divine un poemetto epico-mitologico, personaggi sono
radicalmente tras gurati e accanto a quelli terreni agiscono i personaggi divini,
segnatamente Amore, Venere, Marte.

Nelle Stanze Poliziano dà così perfetto compimento al suo ideale di una poesia in
volgare non inferiore, per eleganza stilistica, so sticazione formale, ra nato
intarsio di fonti, alla poesia latina, sia classica sia moderna, umanistica.

In ne, anche l'ottava tradizionale esce completamente rinnovata dal cesello


stilistico polizianesco: essa perde un po' della sua energia narrativa originaria e
tende a chiudersi in se stessa, a divenire una forma metrica chiusa,
perfettamente calibrata al suo interno in un giuoco studiatissimo di rispondenze
ritmiche e musicali.

Poliziano si rivela non un narratore, quanto un poeta lirico-descrittivo, interessato


più al cesello del particolare che al usso avvincente del racconto.

3. Da Firenze a Mantova: la “Fabula di Orfeo”

Dopo la congiura de’ Pazzi, Poliziano lascia Firenze e si trasferisce


momentaneamente nell’Italia settentrionale. Compone l’Orfeo, l’unica opera non
orentina del Poliziano in volgare perché fosse meglio compresa dal pubblico.

L’argomento a ronta un mito famoso, squisitamente classico, per il quale


Poliziano si ispira soprattuto a Virgilio e Ovidio.

Secondo le proposte interpretative più recenti, l'opera intenderebbe riattualizzare,


in volgare, la tradizione del dramma satiresco greco.

Caratteristiche di questo genere teatrale erano l'argomento ricavato dalla


mitologia, la presenza di personaggi rustici accanto a personaggi divini o
semidivini, la polimetria, la presenza del coro, il carattere 'mezzano' della trama,
in genere comica ma con esito tragico.

4. Poliziano professore

Rientra a Firenze nel 1480 e ottiene la cattedra di poetica e retorica presso lo


Studio. Dedica i suoi corsi universitari ai più grandi autori classici, latini e greci.

Numero poi assai elevato di scritti di varia tipologia. Gli argomenti a rontati sono i
più vari: l'autore corregge errori presenti nei testi classici ricorrendo a codici
autorevoli e criticamente selezionati, propone interpretazioni testuali, a ronta
questioni grammaticali, svolge indagini storiche, archeologiche e di costume.

Muore a quarant’anni dopo essere diventato canonico.

FERRARA E L’UMANESIMO CORTIGIANO

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1. Matteomaria Boiardo
1. Alla corte degli Este: poesia latina e volgarizzamenti dall’antico

Matteomaria Boiardo nasce nel 1441 e poté godere di una solida preparazione
classica e gareggiare presto con i poeti latini della corte di Borso d'Este.

Tutta la prima parte della carriera poetica di Boiardo è decisamente inclinata sul
versante umanistico: in questi anni i scrittore si impegna a soddisfare le esigenze
culturali del futuro signore di Ferrara, Ercole d'Este, per il quale compie, sin dal
1467, numerosi volgarizzamenti di scrittori classici e medievali.

2. Gli “Amorum libri tres”

Dalla ne degli anni Sessanta, Boiardo estese la sua sperimentazione poetica alla
poesia d'amore in volgare. Il suo canzoniere (concluso entro il 1476) rappresenta,

nel panorama della lirica quattrocentesca, la ripresa più seria e consapevole del
modello petrarchesco. Si tratta infatti di un vero e proprio *libro' di rime, in cui
come nel Petrarca le singole tessere del mosaico contribuiscono a un testo
organico, continuo, compatto.

Il libro di rime si inscrive in uno schema di errore/pentimento, che inquadra


l'amore del poeta nei termini di una disavventura giovanile, a cui è seguito il
ravvedimento dell'età matura. Detto questo, occorre però osservare che gli
Amorum libri boiardeschi sono un'opera di straordinaria originalità, sentimentale
e stilistica, tutt'altro che riconducibili a una vera ortodossia petrarchista. Fino dal
titolo, imitato da Ovidio, Boiardo non guarda solo a Petrarca, ma anche ai poeti
elegiaci ed erotici latini, che parlano di amori più carnali e concretamente
consumati e vissuti rispetto all'astrazione cortese petrarchesca.

Inoltre, a di erenza che nella maggior parte della tradizione lirica in volgare,
l'identità anagra ca della donna amata, Antonia Caprara, è qui dichiarata
dall'autore stesso tramite l'arti cio di due acrostici che interessano le prime
liriche dell'opera.

Il canzoniere si divide in tre libri, corrispondenti alle diverse fasi di una vera e
propria 'storia’ d'amore: nel primo, innamoramento e conquista della donna; nel
secondo, tradimento di lei e delusione del poeta amante; nel terzo, un ritorno di
amma che chiude il libro su una nota dolce-amara, di una schiavitù d'amore
ormai subita senza illusioni e senza speranza di felicità.

Ogni libro si compone così di sessanta componimenti ciascuno; ogni gruppo di


sessanta comprende cinquanta sonetti più dieci composizioni d'altro metro; fra
queste dieci, in ogni libro cinque sono ballate, mentre le altre cinque consistono
in metri più impegnativi, generalmente canzoni.

3. “Orlando innamorato” o “Innamoramento de Orlando”?

D'Orlando innamorato fu pubblicato per la prima volta tra la ne del 1482 e il


principio del 1483. Non si trattava, però, del testo de nitivo.

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Inamoramento de Orlando sembra adeguarsi all'ultima tendenza canterina,
ovvero alla voga degli 'innamoramenti', poemetti che ormai costituivano un
genere letterario vero e proprio e che presentavano anche i più insospettabili
campioni della cavalleria soggiogati dalla passione amorosa.

4. La trama del poema

Alla corte di Carlo Magno, a Parigi, dove cavalieri cristiani e saraceni, durante la
tregua di Pasqua Rosata, sono riusciti a banchetto alla vigilia di un grande
torneo. La festa viene sconvolta dall'arrivo di Angelica, una principessa orientale
di mirabile bellezza, che si o re in premio a chi scon ggerà il cavaliere che
l'accompagna, suo fratello Argalia; i cavalieri battuti e disarcionati dovranno
rendersi suoi prigionieri senza fare opposizione. Ma Angelica è, in realtà, una
maliarda incantatrice, inviata in Occidente per distruggere la corte carolingia.

5. L’ideologia boiardesca e il ritorno dei cavalieri di re Artù

Dal titolo stesso del poema, e dalla sua trama, è evidente l'invenzione primaria
che lo governa: fare innamorare Orlando, e trasformare il più casto e integerrimo
dei cavalieri carolingi, campione di un epos interamente devoto alla causa della
fede, in un amante cortese.

Il poeta per primo, insomma, è consapevole che il sintagma 'Orlando innamorato’


è un ossimoro provocatorio. L'ossimoro però non è soltanto psicologico o
caratteriale, ma narrativo. Innamorandosi, Orlando esce dalla scena epica,
abbandona sicamente il paesaggio della guerra, lascia al suo destino Carlo
Magno e l'armata cristiana, per entrare in un altro spazio e in un altro paesaggio
narrativo: quello bretone della «ventura», disseminato di «prove» magico-
meravigliose.

L'Orlando boiardesco, in altre parole, non arriverà mai a Roncisvalle: dopo


l'iniziale colpo di fulmine, il suo tempo narrativo rimane sospeso, astratto, senza
reale sviluppo, come nell'atmosfera tipica della forte avanture arturiana.

Poema boiardesco: che nascerebbe appunto dalla fusione' dei due maggiori cicli
medievali quello carolingio e quello bretone arturiano.

Nell'Innamorato il cast dei personaggi è carolingio, ma il sistema di valori e di


comportamenti, il mondo in cui quei personaggi si muovono, è arturiano.

Rispetto ad una tradizione che tendeva a privilegiare la cavalleria carolingia nei


confronti di quella bretone il poeta di Scandiano rovescia la gerarchia consolidata
e proclama la superiorità di quest'ultima, e proprio in nome di quella dedizione
all'Amore che ne poteva sembrare, invece, il valore più insidiosamente deviante.

6. La tecnica narrativa e la simulazione di oralità

L’Orlando innamorato inaugura anche un modello narrativo che, ripreso poi


dall'Ariosto, costituisce uno degli archetipi fondamentali della narratività europea.

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Tratto caratteristico della narratività boiardesca, infatti, è la struttura ad intreccio
del racconto, fondata su una continua interruzione e ripresa a distanza dei vari li
narrativi.

Ciò che noi leggiamo non è veramente un racconto, ma la rappresentazione di un


racconto. I canti non sono semplicemente capitoli di un racconto, ma sessioni
performative; il narratore non è uno scrittore, ma un canterino, che declama il
testo ad alta voce.

Di qui le interruzioni continue che, stuzzicandone la curiosità, e tenendolo sulle


spine, si spera ne assicurino l'attenzione e il divertimento e avvengono sempre in
suspense.

Il racconto si colloca in una cornice cortigiana e quindi l’oralità è traslata dalla


piazza, all’aperto, nel chiuso della corte.

La tecnica narrativa boiardesca si disponga secondo tre diverse misure narrative.


La prima, simula la durata di una sessione recitativa o performativa. La seconda è
la sequenza, che si inscrive entro i margini di due interruzioni narrative. La terza è
costituita dall'aggiunta di novelle incastonate nel romanzo.

7. Boiardo novelliere

Le novelle dell’Innamorato sono sette, raggruppabili in alcune tipologie


fondamentali.

8. Boiardo feudatario e funzionario. Il poema interrotto

UN UMANESIMO DI TRAPIANTO: LA NAPOLI ARAGONESE


1. Alfonso d’Aragona, principe umanista

Un caso estremo di identi cazione tra mecenatismo principesco e promozione


della nuova cultura umanistica è rappresentato dalla Napoli aragonese. Il
Quattrocento napoletano, infatti, coincide in pratica con la gura e l'opera di
Alfonso d'Aragona.

Il re vi impiantò subito una corte sfarzosa e di grandi ambizioni intellettuali,


richiamandovi una vera e propria schiera di dotti e diletterati: la sua «collezione di
uomini»: intellettuali, letterati e lologi di provenienza soprattutto centro-
settentrionale.

L'Umanesimo aragonese, ha un po' l'aspetto di un trapianto arti cioso, legato


soprattutto all'energica iniziativa del re, che recluta le migliori forze presenti sul
mercato e che lasciandosi totalmente contagiare dalla cultura dell'Umanesimo
italiano (a lui estranea nché era rimasto in Spagna), raccoglie una splendida
biblioteca, e promuove generosamente le traduzioni dei classici. Tutto si
consuma fra la corte e l'Accademia.

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Importante l'opera di Jacopo Sannazaro, che muovendosi tra latino e volgare
proseguì ben addentro al Cinquecento il bilinguismo tipico del grande
Umanesimo quattrocentesco, con l'Arcadia (a stampa nel 1504), un prosimetro
che si con gura quale testo archetipo della voga pastorale che imperverserà nel
pieno Rinascimento.

2. Giovanni Pontano e il latino umanistico a Napoli

L'opera di Giovanni Pontano rappresenta in modo esemplare la vitalità creativa e


artistica che il latino conserva ancora nel Quattrocento, come lingua di poesia
maneggiata e lavorata in una straordinaria gamma e varietà di generi e di registri
espressivi.

Trascorre l’adolescenza a Perugia e trasferitosi a Napoli divenne personaggio di


spicco presso la corte aragonese: la sua abilità politica lo portò alla carica di
segretario di Stato che ricoprì no all'entrata in Napoli, nel 1495, dell'esercito
francese di Carlo VIII.

Ha una costante dedizione alle lettere, testimoniata da una rigogliosa produzione


che tocca una vastissima gamma di generi poetici: poemi didascalici, le Eclogae
che dimostrano la rinnovata vivacità del genere pastorale, le raccolte lirico-
epigrammatiche in latino umanistico e in prosa trattati morali, retorico-
grammaticali e Dialogi satirici.

3. “L’Arcadia” di Jacopo Sannazaro

Jacopo Sannazaro trascorse a Napoli quasi tutta la vita. Napoletana è la sua


educazione; egli si forma presso l'Accademia pontaniana e ha ruolo attivo
all’interno della corte aragonese presso il re Federico d’Aragona.

L'opera di Sannazaro testimonia e cacemente della la tradizione lologica


quattrocentesca, dedicandosi, specie durante il soggiorno francese, alla scoperta
e allo studio di rari testi latini.

La sua importanza nel panorama della cultura quattrocentesca è duplice: da una


parte essa consacra, sul piano dei contenuti, la centralità della materia pastorale
nell'immaginario letterario della moderna letteratura italiana; dall'altra, con la sua
decisa assunzione di un toscano letterario, essa costituisce un fondamentale
superamento dell'ibridismo linguistico quattrocentesco; in direzione di quel
toscano 'nazionale' in cui il Cinquecento di li a poco identi cherà la lingua
'italiana' tout court. L'opera passò attraverso una complessa gestazione: il
prodotto nale è il risultato di un assemblaggio di parti prosastiche e di ecloghe
poetiche.

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La trama dell’Arcadia è sospesa in un tempo inde nito. Il pastore Azio Sincero
lascia Napoli per recarsi in Grecia dove spera di trovare conforto alle proprie
pene d’amore. Si trova così in uno scenario idillico: i pastori-poeti d’Arcadia si
dedicano alla vita campestre, alle cacce, al pascolo e in gare poetiche.

Nell'Arcadia convivono due mondi: uno ideale, bucolico, e uno reale, quello della
corte napoletana cui rimandano continui riferimenti del testo.

Quindi, il carattere di testo a chiave, apparentemente sospeso in un mondo


idillico di sogno, fuori del tempo, in realtà allusivo a personaggi ed eventi della
vita contemporanea, già riscontrabile nelle ecloghe di Virgilio, in Sannazaro si
accentua ancora di più. Anzi, esso rimarrà tipico del genere bucolico in volgare e,
più in generale, della letteratura europea di ambientazione pastorale.

4. Masuccio Salernitano, novelliere aragonese

Il Novellino di Tommaso Guardati, detto Masuccio Salernitano e rappresenta un


aspetto certamente ben diverso della cultura aragonese. Le sue novelle si rifanno
bensì al nobile precedente decameroniano, ma insistono ossessivamente sui temi
misogini dell'infedeltà e lussuria femminile, e su quelli accesamente anticlericali
della corruzione, ignoranza, immoralità del clero.

Inoltre, l'autore dichiara apertamente la sua ammirazione e dipendenza dal


Boccaccio, ma appunto, senza rinunciare a una fortissima coloritura linguistica
locale, che conferisce al suo dettato un'inusitata forza di rappresentazione
realistica. Si tratta insomma di un boccaccismo ancora 'quattrocentesco' libero e
composito, ben lontano dall'integrale mimesi linguistica che si imporrà nel
Cinquecento ormai imminente.

LUDOVICO ARIOSTO
1. Alla scuola dell’Umanesimo ferrarese

Ludovico Ariosto nasce a Reggio Emilia nel 1474. Frequenta no al 1494, per

volere del padre, corsi di legge allo Studio di Ferrara, ma senza grandi risultati. Ci
sono giunte invece notizie di una sua precoce partecipazione alla fervida vita
teatrale che ruota intorno alla corte estense; nel 1494 poi comincia la propria
educazione umanistica. Di questo suo apprendistato sono frutto i Carmina in
latino e poi in lirica in volgare le Rime.

2. Poesia latina e in volgare

Duplice frequentazione del latino e del volgare.

Tuttavia, i carmi in latino e le rime in volgare toscano si dispongono su piani


molto diversi. I primi, sessantasette, testimoniano soprattutto il giovanile
entusiasmo vicino alla pattuglia dei poeti umanisti ferraresi, oltre che la spiccata
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predilezione per alcuni autori. Per le rime volgari il discorso è di erente. Esse
comprendono canzoni, sonetti, madrigali, e ventisette capitoli in terza rima, due
egloghe in terzine.

La varietà delle forme metriche, a cui si aggiunge quella dei temi, non soltanto
amorosi e autobiogra ci ma, appunto, anche politici e cronachistici, avverte già
che siamo molto lontani da un petrarchismo “ortodosso” e dai metti fantasiosi
della lirica propriamente “cortigiana”.

3. Le prime commedie in prosa: “Cassaria” e “Suppositi”

Nel 1503 Ludovico entra al servizio del cardinale Ippolito d'Este, fratello del duca,

e assume gli ordini minori. La sua condizione di chierico lo obbliga al celibato e lo


lega, almeno formalmente, alla gerarchia ecclesiastica.

Del 1507 sono le prime notizie della composizione di una continuazione


all’Orlando innamorato lasciato incompiuto dal Boiardo con l’Orlando furioso.
Fin dal prologo rivendita la “novità” della sua operazione, non sul piano della
trama o dell’invenzione tipologica o drammaturgica, piuttosto una novità tutta
linguistico-stilistica in cui i giochi linguistici e i moti di spirito, con i quali Ariosto
tenta di fondare una drammaturgia comica in volgare.

4. Al servizio degli Este: dal primo “Orlando furioso” alle “Satire”

Anni di un'intensa attività diplomatica al servizio del duca Alfonso, che si serve
dell'Ariosto come mediatore nella drammatica crisi che oppone il ducato estense
al papa Giulio II.

Nel 1516 esce la prima edizione dell'Orlando furioso. L'opera è dedicata à

Ippolito d'Este, signore e protettore del poeta. Ma appena un anno dopo si


consuma la rottura fra l'Ariosto e il cardinale: Ludovico si ri uta di seguire il
padrone nella sua nuova sede vescovile, in Ungheria, e Ippolito, adirato, lo
cancella dalla lista dei cortigiani. È questa l'occasione della prima Satira, in cui
l'Ariosto difende pacatamente ma fermamente la sua posizione, segnando con
rigore il con ne tra gli obblighi del servizio cortigiano e la sua propria
indipendenza di uomo privato, dedito ai suoi a etti e alla sua vocazione letteraria.

A questa satira ne seguiranno altre sei poi pubblicate tutte insieme postume.

5. Ariosto morale. Le “Satire”

Trova nella forma della satira (in volgare nello stampo dell'epistola in terzine) il
veicolo adatto per esprimere, con autobiogra ca immediatezza, la propria
frustrazione: si pro la un «Ariosto morale», ironico, amaro, spesso spazientito
commentatore, nella prima come nelle altre sei satire che seguiranno, dei costumi
del suo tempo.

Pur nel loro accentuato individualismo, le Satire sono sempre lo sfogo di un


intellettuale cortigiano, che vive i propri malumori all' interno di una più generale

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condizione di precarietà e di una più grande crisi: quella che attraversa ormai
irreversibilmente, nell'età delle guerre d'Italia, le corti della penisola,
sconvolgendo il paci co assetto del sistema d'equilibrio quattrocentesco.

6. L’ultimo “Furioso” e le ultime commedie

Nel 1518 l'Ariosto torna al servizio cortigiano, stavolta alle dipendenze del duca
Alfonso. Pubblica la commedia dei Suppositi e il Negromante.

Nel 1528 viene nominato sovrintendente agli spettacoli ducali, il che gli ispira un
fruttuoso ritorno al teatro, soprattutto, attende a una nuova, ampliata

edizione del Furioso, dopo quella del 1521, che si era limitata a una sommaria
ripulitura linguistica in senso toscano. La terza edizione del poema, in
quarantasei canti esce così nel 1532.

7. Ariosto continuatore di Boiardo: la forma del romanzo

Il capolavoro ariostesco si presenta dunque in primo luogo come un'opera di


fortunatissimo intrattenimento: Ferrara, pubblico di dame e cavalieri al quale il
poema è rivolto e che appare anzi all'interno stesso dell'opera, che si immagina
recitata a puntate successive nel mezzo di un'elegante brigata cortigiana.

In questo senso Ariosto continua Boiardo, non solo perché riprende le la della
trama lasciata interrotta nel suo incompiuto Innamorato, ma anche perché ne
eredita l'arti cio narrativo fondamentale: quello di avere trasportato la «recita»
delle avventure cavalleresche dalla piazza dei narratori canterini all'interno della
corte, invitata a rispecchiarsi nei valori cortesi celebrati dal racconto. Con un
registro morale più pronunciato.

Nel Furioso, ogni canto non è semplicemente il di conseguenza, il "capitolo" di un


racconto, ma costituisce un atto performativo, una sessione orale, ovvero quella
porzione di trama che il narratore ci porge, giorno per giorno; anche nel Furioso,
la gura del narratore è in primo piano, e accoglie il suo pubblico, si congeda da
lui in ne di canto, interloquisce e dialoga, è personaggio accanto e insieme agli
altri personaggi.

La tecnica romanzesca del racconto continuamente interrotto, e dell'intreccio che


ne consegue, induce d'altronde anche a un altro genere di considerazioni.

Ariosto governa la sua materia cavalleresca secondo la regola di un'assoluta,


onnipotente casualità.

Il divertimento consiste appunto nell'impigliare il lettore in un giuoco


svantaggioso, nel lasciarlo smarrire in un labirinto di cui soltanto il sorridente e
reticente poeta possiede la mappa.

8. La favola del “Furioso”

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L'Orlando furioso non si può riassumere. Non soltanto per l'in nita varietà di
episodi personaggi, accadimenti, ma perché l'intenzione del resto, concretizzata
nella sua peculiare costruzione narrativa a intreccio, è quella di non farsi ricordare
dal lettore, ma di smarrirlo, invece, nei labirinti del racconto.

Tuttavia, si possono rintracciare alcune trame principali. Due soprattutto,


imperniate sulle due simmetriche «inchieste d'amore» che percorrono il testo. Si
tratta dell'inchiesta d'amore di Orlando e Angelica, da una parte, e di quella di
Ruggiero e Bradamante, dall'altra.

9. Le novelle e il romanzo

Ariosto eredita la peculiare tecnica narrativa del suo romanzo dal Boiardo.
Boiardesca è la nzione di un racconto 'recitato’ da un poeta-performer di fronte
ad un pubblico cortigiano; boiardesca è, di conseguenza, la trasformazione dei
canti in vere e proprie sessioni di recitazione, così come il costume di rivolgersi
direttamente al pubblico all'inizio dei canto, nei proemi, e alla ne, nei congedi;
boiardesca è la procedura d'interruzione del racconto in suspence; e, in ne,
sempre dall'Innamorato l'Ariosto deriva l'arte di incastonare racconti più brevi -
novelle - all'interno dell'intreccio romanzesco.

Sembra, inoltre, innegabile che Ariosto abbia disposto le sue 'storie dentro la
storia' in una progressione studiata e intenzionale. Si parte infatti nei primi canti
con novelle molto legate alla trama romanzesca, tanto da aspettare da quella
trama, come già detto, il loro nale, si procede con novelle compiute, ma legate
al romanzo da rapporti stretti di causalità, per giungere, nella seconda parte
dell'opera, a novelle che hanno rapporti soltanto tematici con la ‘cornice’
romanzesca, ma i cui personaggi nascono e muoiono nello spazio della novella,
non ria orando più sul piano del romanzo.

10. Le ultime giunte e i “Cinque canti”

L'Orlando furioso, nel complesso, si presenta come un'opera in progress, sia


sotto il pro lo formale (linguistico-stilistico) sia sotto quello narrativo, della trama
e dell'intreccio.

Questo carattere aperto e in nitamente 'continuabile' del poema ariostesco si


coglie con piena evidenza osservando più da vicino il passaggio dalla prima alla
terza edizione. Ariosto, infatti, aggiunge sei canti non attaccandoli in coda, ma
intrecciandoli alla trama preesistente, quindi arricchendo e complicando la
polifonia della narrazione.

Poi vi sarà il lungo frammento dei Cinque Canti pubblicato postumo, e del quale
sono tuttora sotto discussione tanto la data di composizione quanto il rapporto
col poema. Rappresentano un frammento non soltanto stilisticamente più opaco
e più spento rispetto al Furioso, ma anche dominato da presenze negative, da

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comportamenti falsi e immorali: la trama è attivata dal risentimento delle Fate
contro i cavalieri cristiani e vede in primo piano l'Invidia e il Sospetto.

11. L’ultima stagione delle commedie

Gli ultimi, tranquilli anni ferraresi vedono tornare l'Ariosto non solo sul suo
poema, ma anche sulle sue commedie. La Cassaria (1508) e i Suppositi (1509) in
prosa vengono adesso riscritte in endecasillabi sdruccioli sciolti; il Negromante
(1520) viene ripreso e completato, sempre in versi; a queste si aggiunge una
nuova commedia originale, la Lena.

L'Ariosto conferma la sua continua ricerca di una lingua comica adeguata,


scioltamente dialogica ma al tempo stesso ritmica, stilisticamente sostenuta, che
desse adeguata dignità al trapianto in volgare di uno dei più nobili generi della
scena antica.

NICCOLÒ MACHIAVELLI
1. Il segretario orentino

Niccolò Machiavelli nasce a Firenze nel 1469 da una famiglia della borghesia
intellettuale cittadina. Studia la grammatica latina. Viene chiamato nel 1498 a
reggere la seconda cancelleria del Comune e così accumula una notevole
esperienza politica.

Passa anni in viaggi, commissarie, missioni speciali e in questi anni, oltre alla
corrispondenza continua con i suoi superiori orentini, scrive anche opuscoli di
ri essione politica pi distaccata, non immediatamente funzionali ai suoi impegni
di lavoro.

2. Prima e dopo la caduta

La carriera di Machiavelli si divide apparentemente in due periodi ben distinti:


dalla sua «preistoria» no al 1513 (data dell'allontanamento dal servizio di
Segreteria), e dal 1513 alla morte nel 1527.

Il primo periodo corrisponde al Machiavelli 'segretario"; il secondo, corrisponde


alla lunga fase della sua lontananza dalla cosa pubblica. Il primo sarebbe
pertanto un periodo di attività pratica, più che di scrittura; il secondo, un periodo
di forzata inattività e di otium letterario: un otium peraltro non scelto quanto
imposto dalle circostanze.

3. Fra “Principe” e “Discorsi”

Le due principali opere politiche di Machiavelli, il Principe e i Discorsi sopra la


prima Deca di Tito Livio, non potrebbero, all'apparenza, essere più diverse l'una
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dall'altra. L'una tratta dei principati, l'altra delle repubbliche. Il Principe viene
buttato giù di getto nel 1513, in tempi strettissimi, sotto l'urgenza di una
situazione personale drammatica; i Discorsi sono senz'altro il frutto di una
composizione strati cata.

Il Principe, al di là della sua ambizione teorica di de nire e discutere la natura del


potere principesco, è sollecitato da uno scopo pratico di cui Machiavelli non fa
mistero: acquistarsi il favore dei nuovi padroni, tornare a essere impiegato nella
macchina statale; i Discorsi registrano il frutto di lunghe discussion
disinteressate, nell'ambiente fervido e politicamente impegnato ma, almeno per
Machiavelli, non così compromesso con la pratica di governo, come quello degli
Orti Oricellari.

Il Principe detta in apertura il suo proprio disegno, l'ordine degli argomenti e la


loro disposizione strutturale; i Discorsi, al contrario, fanno dipendere la loro
struttura e la successione degli argomenti dagli spunti di commento e di
ri essione che il testo di Livio.

Il Principe considera, attraverso la gura del «principe nuovo», il momento di


fondazione di uno stato, si concentra sull'inevitabile violenza del passaggio e
sulle misure eccezionali che il principe nuovo dovrà assumere per mantenere uno
stato ancora tanto fragile.

I Discorsi invece, tenendo fermo l'obiettivo sugli «ordini», cioè sulle istituzioni
dello stato, puntano a individuare i fattori di durata dello stato stesso,
continuamente prendendo spunto dalla storia di Roma.

Insomma, se al Principe interessa come si fonda un stato, ai Discorsi preme

scoprire come si fa a farlo durare. Va ribadita anche la sostanziale continuità e


omogeneità ideologica tra le due opere.

4. Il “Principe”: temi, struttura, ideologia

La dedica ai Medici, prima a Giuliano, poi a Lorenzo duca di Urbino, conferma lo


scopo immediato e pratico dell'operetta.

Può essere scandito in quattro parti, di assai diseguale lunghezza: dal I all'XI
capitolo, dove si esamina dettagliatamente la varia tipologia de principati
(ereditari, misti, nuovi, civili, ecclesiastici); dal XII al XXIV, in cui si considerano le
«o ese e difese», cioè le ragioni di forza o di debolezza degli stati, con speciale
attenzione al tema delle armi e della «virtù» del principe; il capitolo XXV, che
a ronta il tema della fortuna; il XXVI, consistente nell'esortazione nale a liberare
l'Italia dai barbari.

5. Dalla “Mandragola” alla “Clizia”

La Mandragola procurò a Machiavelli un'immediata popolarità. Portata più volte


sulle scene negli anni successivi, la commedia trovò la sua consacrazione
nazionale soprattutto a Venezia.

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Nella storia del teatro comico rinascimentale, la Mandragola rappresenta lo
scarto più decisivo rispetto al modello classicistico ariostesco, procedendo

verso una modernità inedita di situazioni e di linguaggio. Le sue stesse fonti sono
tutte volgari, giacché si rifanno alla novellistica boccaccesca invece che al teatro
greco o latino: segnatamente, la trama presenta molte a nità con quella della
novella VI della terza giornata del Decameron, da cui deriva il motivo della
sostituzione di persona durante il convegno amoroso, nonché quello del nale
arrendersi della donna alla maggiore e cienza erotica dell'amante rispetto al
marito.

Nata dopo il Principe e i Discorsi, la Mandragola non ne dimentica la lezione:


anzi, proiettando nel microcosmo di una vicenda privata le terre regole dell'utile,
erotico o economico, smascherando la funzione di falsa ideologia assolta cosi
spesso dai valori morali, familiari e religiosi, Machiavelli posa sulla be a
ridanciana in itta a un marito sciocco lo stesso occhio impietoso che aveva
scorto, al di là dell'«imaginazione», la verità e ettuale dei comportamenti umani.

Rispetto alla Mandragola, e alla sua indubbia originalità, pesa sulla seconda
commedia del Machiavelli, la Clizia, il pregiudizio di derivare dalla Casina di
Plauto.

La Clizia non è un volgarizzamento, ma un radicale rifacimento: soltanto a partire


dalla scena quarta dell'atto III la commedia machiavelliana 'traduce’ quella di

Plauto. Il fatto è che Machiavelli trasforma la farsa platina, imperniata su un


vecchio padre di famiglia che s'incapriccia della glia adottiva, in un vero e
proprio, comico si, ma anche amarognolo, dramma familiare.

6. Machiavelli scrittore di storia

La ri essione politica machiavelliana culmina nel Principe e nei Discorsi, ma da


essa si sviluppa anche un tipo di ri essione (e di scrittura) nuova, di carattere
storiogra co.

Scrittura creativa, ri essione politica, storiogra a vengono così a strati carsi nella
carriera di Machiavelli secondo tempi diversi, ma anche largamente sovrapposti,
nendo col comporre un' esperienza umana e letteraria di straordinario spessore
e complessità.

7. La ne di Machiavelli

Nonostante la sua crescente popolarità come scrittore e letterato, Machiavelli


non riesce mai, neppure grazie alle sue nuove aderenze aristocratiche, a ritornare
sulla ribalta della grande politica.

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FRANCESCO GUICCIARDINI
1. Avvocato, ambasciatore, uomo politico: l’ascesa pubblica di
Guicciardini

Francesco Guicciardini nasce a Firenze nel 1483, padre fedele sostenitore dei
Medici che ricopre anche importanti cariche politiche.

Dimostra da subito una forte ambizione politica che lo induce a dedicarsi agli
studi giuridici, prima a Firenze, poi a Ferrara e a Padova.

Intraprende con successo la sua carriera di avvocato anche contro il volere del
padre e ottiene il mandato di ambasciatore della Repubblica presso il re di
Spagna. La legazione è l'occasione per la stesura di alcuni scritti, tra cui si
ricorda il Discorso di Logrogno, una prima, lucida analisi della crisi politica
orentina. A questo periodo spagnolo risale anche il primo nucleo dei Ricordi, la
cui composizione accompagnerà tutta la vita dello scrittore.

Rientrato a casa torna a esercitare l’avvocato e continua la sua ascesa politica.

2. Uno scrittore clandestino

Le sue opere siano in massima parte opere "segrete”, non destinate alla
pubblicazione. L'unica scritta per essere divulgata è, infatti, la Storia d'Italia; ma
la più famosa, i Ricordi, arrivò alla stampa nel Cinquecento solo fortunosamente,
in miscellanee di massime circa il governo dello stato e le regole del vivere
politico e varie altre opere private destinate a non uscire dagli scrittoi e dagli
archivi familiari. In particolare i trattati politici derivano la loro 'non pubblicità' dal
lacerante contrasto fra il pensiero politico che rappresentano e le funzioni
pubbliche rivestite dal loro autore.

Nel pur articolato ventaglio di soluzioni istituzionali che Guicciardini immagina per
la sua città non c'è mai posto per un principato, sia pure mediceo. La sua
proposta contempla un contemperamento di poteri che se da una parte rimanda
al moderno modello veneziano e alla sintesi delle forme classiche di governo
(monarchia, oligarchia, democrazia), dall'altra tiene ben presenti le concrete
condizioni civili e istituzionali di Firenze.

3. Anni di cili: dal sacco di Roma all’assedio di Firenze


4. Guicciardini “versus” Machiavelli

Le Considerazioni intorno ai «Discorsi» del Machiavelli sopra la prima Deca di Tito


Livio sono un puntualissimo commento polemico relativo a trentotto capitoli
dell'opera machiavelliana dov’è mette in luce la propria di erente interpretazione
della storia e della politica.

Contro il «classicismo storico» di Machiavelli, ancora erede dell'ammirazione


umanistico-rinascimentale per le «cose antique», Guicciardini oppone una
concezione relativistica della storia, dalla quale a suo giudizio non può essere
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tratta alcuna regola «ferma», alcun esempio da imitare, perché i fatti nella storia
non si ripetono mai uguali, ma sono sottoposti alla mutazione «delle cose che si
varia secondo la condizione de' tempi, e altre occorrenze che girano».

Tendenza dunque a ri utare teorie assolute e sistemi ideologici astratti.

5. I “Ricordi”

1530, opera che rappresenta al meglio il tipico procedere asistematico del


pensiero guicciardiniano, inso erente di fronte a ogni tentativo di ricomposizione
organica e ideale della realtà, e anzi risoluto ad analizzare di tale realtà proprio
l'aspetto 'variante', il suo sempre diverso riproporsi in forme speci che,
determinate dalle singole circostanze. La s ducia nei confronti di ogni teoria che
prometta una lettura razionale della realtà si approfondisce in questi ultimi anni
dello scrittore, in cui la disavventura personale di Guicciardini coincide con la
grande tragedia di un'Italia ormai piegata e asservita alla potenza spagnola.

Più ancora delle Considerazioni intorno ai “Discorsi” del Machiavelli, i Ricordi


costituiscono il frutto di questa desolata percezione della ne di un'epoca,
l'opera in cui si consuma de nitivamente la rottura con la tradizione umanistico-
rinascimentale del confronto con l'antico e con l'idea positiva di una storia
magistra vitae e uno dei più signi cativi e famosi ricordi guicciardiniani denuncia
proprio l'impossibilità di attingere dal passato regole universalmente valide.

«Il "mondo" di Guicciardini è dunque un mondo in cui le "distinzioni” e le


"eccezioni” prevalgono nettamente sugli elementi di continuità e di regolarità.

Distruzione, inoltre, del principio di causalità: non si può mai essere sicuri del
perché un evento succeda ad un altro, e quindi è impossibile dedurne leggi sse
di funzionamento, che possano essere formalizzate e praticamente applicate.

Tuttavia, questo pessimismo nelle possibilità di antivedere gli sviluppi della storia
non si traduce mai in puro e semplice fatalismo: al contrario l'uomo, proprio
perché messo a confronto con una realtà elusiva e illeggibile, dovrà sforzarsi di
usare il proprio «accorgimento», «pesando bene ogni cosa benché minima»,
ovvero a nando la capacità di lettura della singola e pratica circostanza.

6. La ne di Guicciardini
7. Guicciardini storico e la “Storia d’Italia”

La Storia d’Italia è una sorta di testamento ideologico che Guicciardini consegna


ai posteri. Il quadro della decadenza italiana, segnato dagli eventi luttuosi e
violenti che avevano contraddistinto l'ultimo quarantennio, si ricompone in un
grandioso monumento composto di venti libri, che Guicciardini distende in piena

fedeltà ai canoni della storiogra a classica, con una solennità formale e


un'accuratezza stilistica che denunciano l'intento evidente di assicurare alla sua
opera un posto duraturo nella letteratura volgare.

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Essa ha caratteristiche che la allontanano dalla cultura umanistica.

La storia diviene il terreno su cui sondare la capacità degli uomini di confrontarsi


con la mutevolezza e l'incostanza del destino.

La lezione però non è solo quella dell'impotenza umana; non solo una lezione di

disperazione, ma di orgoglio. La ragione dà all’uomo la forza di resistere alla


seduzione dei falsi dèi, la forza di comprendere la futilità delle proprie ambizioni e
il vero valore delle cose di questo mondo.

Si ritorna comunque alla concezione umanistica del valore morale della storia:
una storia che forse non insegna più a vivere, ma induce l'uomo ad acquistare
coscienza del valore intrinseco della propria esistenza.

CLASSICISMO E ANTICLASSICISMO CINQUECENTESCO


1. Il petrarchismo

Senza Bembo, la lirica in volgare sarebbe continuata nella sua versione


cortigiana, caratterizzata da una lingua ibrida e incerta, e da tematiche
super cialmente mondane e galanti.

È Bembo, invece, che con l'esempio prima delle rime raccolte negli Asolani
(1505), un dialogo sull'amore inframmezzato di poesia e di prosa, e poi col suo
canzoniere (Rime, 1530) traccia la strada della nuova lirica cinquecentesca,
caratterizzata da un'imitazione stretta dell'unico modello petrarchesco. In breve,
scrivere sonetti in stile petrarchesco diventò per i letterati italiani l'esercizio più
comune di addestramento alla lingua è alla letteratura patria.

Il petrarchismo è un fenomeno di costume letterario che ebbe il carattere di un


fenomeno veramente nazionale, uni cante; inoltre, fu un fenomeno, diciamo così,
democratico: non occorreva una complessa educazione linguistica o letteraria o
lologica per scrivere un sonetto, sì che, tipicamente, proprio attraverso il
petrarchismo il Cinquecento vede arrivare alla ribalta della letteratura categorie e
gruppi sociali nora esclusi, come le donne e gli artisti.

Fu anche un fenomeno di alta socialità letteraria: pur se i temi erano sempre


quelli, rigorosamente soggettivi; favorì, di fatto, la comunicazione fra letterati e li
aiutò in modo decisivo a uscire dal loro isolato individualismo.

Prima ancora dei canzonieri singoli, meritano di essere ricordate le antologie di


rime: imprese collettive, che intorno a un progetto editoriale o a una occasione
esterna furono capaci di radunare vere moltitudini di ingegni.

Si parla di petrarchismo a Venezia, a Napoli…

La voce della svolta vera e propria però è quello di Giovanni Della Casa che
rinnova soprattutto attraverso un ricorso sistematico all'enjambement e l'impiego
di una sintassi di grandioso respiro oratorio; tematiche e contenuti.

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In Della Casa infatti culmina un processo di drammatizzazione del petrarchismo
in atto durante tutto il secolo: più che l'amore in questo lone ‘grave' della lirica
cinquecentesca contano i temi esistenziali, di amara e sconsolata ri essione sulla
vita e sul destino dell'uomo.

TORQUATO TASSO
1. Gli esordi: dal “Gierusalemme” al “Rinaldo”

Torquato Tasso nasce nel 1544 a Sorrento e si sposterà a Roma, Pesaro, Urbino
e Venezia. Qui fa il suo esordio nell'epos con le 116 ottave del Gierusalemme. Si
tratta di un frammento rimasto incompiuto e clandestino, ma importante a
testimoniare la precocità dell'idea di un poema eroico ispirato alla gloriosa
materia della prima Crociata.

Si iscrive poi alla facoltà di legge a Padova. Ma la vocazione poetica ha ben


presto la meglio: prende a frequentare i corsi di loso a ed eloquenza, più che di
diritto, e si accosta all'ambiente dell'aristotelismo padovano e ai dibattiti sulla
Poetica di Aristotele.

Nel 1562 esce la sua prima opera a stampa: il Rinaldo, un poema nemente
bilanciato fra omaggio all'avanguardia aristotelica e classicheggiante, e fedeltà al
retaggio romanzesco del genere. Nello stesso anno vengono concepiti anche i
primi nuclei dei Discorsi dell'arte poetica: un momento necessario di ri essione e
chiari cazione teorica, in vista del nuovo, impegnativo progetto di un poema
epico sulla Crociata.

Si trasferisce poi a Ferrara, la capitale per eccellenza del gusto cavalleresco. Qui
coltiva i generi caratteristici del più ra nato gusto cortigiano: la poesia lirica che
nella forma del madrigale è destinata anche all’accompagnamento musicale; e il
teatro, infatti nel 1573 pubblica l’Aminta una favola pastorale in cui culmina la

tradizione squisitamente ferrarese dell'egloga rappresentativa; e in ne il poema in


ottave Go redo.

2. A Ferrara: “l’Aminta”

La vicenda dell'Aminta si svolge in un indeterminato luogo pastorale, assai simile


all'Arcadia classica. Il pastore Aminta ama, non ricambiato, Silvia, una giovane
ninfa seguace di Diana e restia ai legami sentimentali. Dafne, ninfa ormai matura,
cerca invano di convincerla dell'insensatezza di chi ri uta l'amore; Tirsi, pastore
anch'egli non più giovinetto, dopo aver udito Aminta pro- gettare il suicidio per la
durezza di Silvia, decide di aiutarlo a sedurla (I atto)…

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Nell'Aminta il numero e l'ampiezza tipologica dei richiami non lascia adito a dubbi
circa l'allusività della pastorale: dietro ai personaggi della favola si celano infatti
ben note gure di letterati, poeti o semplici cortigiani ferraresi.

Tasso dovrebbe dunque additare al suo pubblico cortigiano lo spazio


dell'innocenza pastorale come uno spazio alternativo, in cui recuperare la
spontaneità e l'autenticità dei sentimenti e dei rapporti umani.

Dal punto di vista delle fonti, ricava numerose suggestioni da autori classici e
umanistici, oltre che da una più speci ca tradizione rappresentativa ferrarese.

Mostra una volontà di aristocratico decoro: elimina ogni intrusione comica,


limitando i suoi personaggi a ninfe costumate e nobili pastori;, concentra il tema
amoroso intorno all'unica coppia dei protagonisti; nobilita il montaggio
drammaturgico attingendo addirittura al modello tragico.

La favola si articola infatti in due parti ben de nite. Nella prima parte, ad
annodare l'intrigo sono i maturi consiglieri, Tirsi e Dafne, quali usano invano la
loro esperienza per vincere le ritrosie di Aminta e Silvia. Nella seconda parte,
escludendo i meccanismi comici, lascia l'iniziativa nelle mani della fortuna, che

entra in scena almeno tre volte e orchestra l'intreccio su aristoteliche «peripezie»,


ovvero attraverso i colpi di scena o mutamenti di sorte che governano, secondo il
losofo greco, la favola della tragedia.

3. Il poema di una vita

Al centro di tutta la sua attività letteraria c’è il poema della Crociata. Esso è
insieme un concreto progetto poetico e il sogno di emulare lo straordinario
successo del più popolare classico moderno, l'Orlando furioso ma con un poema
aggiornato alle richieste di una cultura ben più esigente e teoricamente agguerrita
rispetto a quella della rifondazione letteraria primo-cinquecentesca.

Il Rinaldo invece testimonierebbe l'esitazione e la cautela con cui il giovane poeta


diciottenne si espone per la prima volta al giudizio del mondo. Non più un poema
epico, ma un romanzo; non più un'azione storica, ma il solito repertorio di
'meraviglie’ e di magie; nessun serio rapporto con la storia presente, ma il
racconto idealizzato della prima educazione cavalleresca di uno dei più amati e
tradizionali eroi carolingi, Rinaldo da Montalbano.

I Discorsi dell'arte poetica intervengono subito a superare con aristotelica lucidità


l'esperimento del Rinaldo disegnando già, in ligrana, la machina della Liberata.
Di un poema, cioè, di materia vera, tolta dalla storia e non inventata; intessuto
tuttavia di magie e di incanti, grazie alla formula del «meraviglioso cristiano»; di
ambientazione cronologica né troppo antica né troppo recente, in modo da
salvaguardare al poeta una discreta «licenza del ngere»; di favola intera, una e di

ragionevole grandezza, rispetto alle favole spesso incomplete; di stile sublime,


dunque retoricamente alto e sostenuto come quello della tragedia, ma non
'semplice’ come quello.

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Gierusalemme conquistata è modellata sull'esemplare omerico dell'Iliade, in una
ricerca di grandiosità classicista e di formale ortodossia epica in cui non c'entra
tanto la Controriforma, quanto un gusto poetico ormai radicalmente mutato.
L'assedio di Gerusalemme è ora lucidato attentamente su quello di Troia; i
personaggi sono sovrapposti studiosamente, uno per uno, a quelli dell'Iliade.

4. Trama della “Gerusalemme liberata”

La prima crociata è giunta al sesto anno, ma i principali condottieri cristiani,


perseguendo ognuno il proprio interesse personale, sono incapaci di condurla al
termine.

5. La struttura della favola

I venti canti della Gerusalemme si possono dunque dividere, rispetto alla trama
appena vista, in tre blocchi strutturali: la sacca centrale di eventi negativi (IV-XIII)
e le ali laterali di eventi positivi (I-III e XIV-XX). Nel primo blocco, i crociati
riprendono la guerra dopo un periodo di crisi. Col canto IV entrano in gioco le
forze dell'Inferno, che condizionano la guerra danneggiando i cristiani.

Tra la ne del XIII e l'inizio del XIV le sorti del con itto giungono ad una

svolta. Dunque, la favola del poema presenta una struttura bilanciata sul piano
delle quantità complessive (fase positiva: 3+7 canti; fase negativa: 10 canti) e
asimmetrica sul piano degli sviluppi narrativi (3+10+7). Non a caso, il Tasso, in
una delle Lettere poetiche.

6. Tematiche e ideologia del poema: i tre livelli del con itto

Trama epica disposta su tre livelli di con itto.

Tasso articola il fronte nemico che Go redo deve combattere distinguendo tra
«l'Inferno», «d'Asia e di Libia il popol misto» e, in ne, i «compagni erranti», da
ricondurre sotto i «santi segni» della Crociata. Dunque, Go redo a ronterà non
soltanto il nemico ovvio, visibile, costituito dalla coalizione degli infedeli di
Palestina e d'Egitto, ma anche quello invisibile e soprannaturale costituito dal
diavolo stesso e dalle forze demoniache («l'Inferno») nonché quello, più segreto e
problematico, che si incarna nella riottosità indisciplinata dei suoi stessi
compagni, tutt'altro che compatti sotto il vessillo dell'impresa sacra, e
continuamente bisognosi di essere ricondotti alle ragioni prime, etiche e religiose,
della Crociata. Dunque, su un fronte bellico, esterno, terrestre; un fronte
meta sico, cosmico; un fronte interno, più squisitamente etico-politico.

1. Con itto storico e con itto ideologico

Le origini dell’opera ha trovato stimolo diretto dagli eventi contemporanei.

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Lo scontro fra le due cavallerie, tuttavia, non oppone soltanto pagani da una
parte e cristiani dall'altra, ma attraversa anche lo schieramento cristiano,
incrinandone la compattezza ideologica e aprendo proprio quel terzo fronte di
con itto (i «compagni erranti».) che si è sopra indicato.

Anche all'interno del campo cristiano, il movimento del racconto nasce proprio
dall'«erranza» dei cavalieri, ovvero dalla loro resistenza al moto centripeto della
Crociata in nome della fascinazione centrifuga dei valori cavallereschi tradizionali:
brama di onore individuale, spirito di avventura, vulnerabilità alla passione
amorosa. Ed è proprio questa dialettica che riassorbe all'interno dell'unità epica
del poema anche la varietà romanzesca: demonizzata, però, manipolata come
tentazione fuorviante o come vera e propria insidia demoniaca.

2. Un irrisolto bifrontismo spirituale

Cioè che rende la Liberata un poema moderno capostipiti di una nuova sensibilità
è la compenetrazione e mera e perennemente irrisolta di due impulsi opposti:
l’edi cazione di una struttura inedita in cui si alternano e s’intrecciano momenti
lirici e momenti eroici.

Per bifontrismo spirituale di Tasso si intende quella “dimensione narrativa a


costante doppio registro, rispetto al quale niente è più diverso della uente e
luminosa continuità del Furioso, della sua levigata e irresistibile linearità”

7. I personaggi
1. Nel campo cristiano

All'interno di un sistema testuale costruito sulle discontinuità emotive, sui con itti
che governano i sentimenti degli attori in scena, i personaggi acquistano una
consistenza psicologica e sentimentale no ad ora sconosciuta. Essi diventano
caratteri a tutto tondo, in cui collidono e si chiari cano le varie facce del
bifrontismo tassiano.

Nel campo dei crociati si staglia, monolitica, la gura di Go redo di Buglione.


Capitano dell'esercito per decreto divino, Go redo è il garante in Terra della
missione celeste e, in virtù della sacra investitura, simboleggia l'eroismo nel suo
aspetto più puro e disinteressato.

Accanto a lui troviamo il deuteragonista Rinaldo, il «braccio» dell'impresa (così


come Go redo ne è la «testa» secondo le metafore impiegate dal Tasso stesso
nelle lettere): eroe “fatale”, necessario al compimento dell'impresa e insieme
progenitore mitico della dinastia estense, dunque vettore dell'intenzione
encomiastica del poema.

Poi c’è Tancredi: crociato pressoché perfetto, non fosse per il «folle amor» che ne
inquina la sincera dedizione alla causa. Innamorato di Clorinda, una valorosa
guerriera pagana, in lui la passione si con gura come una sorta di mancamento
interiore, di paralisi, di debilitazione d'ogni forza.

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2. Nel campo pagano

Dentro Gerusalemme stanno asserragliati i pagani. Alla guida della città troviamo
l'anziano re Aladino, un crudele monarca la cui ferocia si è in parte mitigata con
gli anni, ma comunque sempre capace di esercitare duramente il suo potere.

Aladino non può vantare alcun tipo di ascendente etico-religioso sulle sue truppe,
costituite da una congerie disomogenea di popoli e mercenari, nendo col
recitare nel poema una parte secondaria. Al anco del re vediamo il negromante
Ismeno, animatore del soprannaturale di matrice diabolica.

Tra i pagani poi i due campioni Argante e Solimano e tre gure femminili, titolari
delle storie d’amore che s’infrangono sulla barriera insormontabile della diversità
etico-religiosa: Clorinda, Erminia e Armida.

8. Stile magni co e varietà tonale

Continua a ispirarsi al principio della varietà nell'unità.

Come aveva scritto nel terzo dei Discorsi giovanili, infatti, l'epica richiede uno
stile magni co che all'occorrenza, secondo la sionomia della materia, sappia
ettersi verso l'abbondanza di ornamenti della lirica o la semplicità della tragedia:
non, dunque, lo stile mediocre, o addirittura comico, di tanta poesia cavalleresca,
ma uno stile complessivamente alto sebbene non uniforme.

Sul piano retorico, Tasso ricorre preferibilmente ad alcune gure speci che, quali
ad esempio l'ossimoro, il parallelismo, il chiasmo e l'iperbato: gure di doppiezza
o di dissonanza, che ben si accordano a quel sistema di con itti su cui si fonda il
poema.

Notevolissimo il ruolo giocato dall'enjambement: intervenendo con grande


frequenza nel discorso poetico, le inarcature disarticolano le coincidenze
metrico-sintattiche dell'ottava tradizionale (ariostesca) e ne movimentano
l'andamento rompendo e dilatando i versi in modo da creare contrasti ritmici
d'inusitata intensità.

9. Dentro e fuori da Sant’Anna


10. L’ultimo Tasso “Il Re Torrismondo”

Una volta uscito dal carcere Tasso riprende in mano il testo e gli dà forma
compiuta col nuovo titolo Il Re Torrismondo, che esce nel 1587, con dedica al
suo liberatore Gonzaga. La favola descrive i tormenti del re di Gozia Torrismondo,
diviso tra l'amore per Alvida, glia del re di Norvegia Araldo, e la lealtà verso
l'amico Germondo, re di Svezia, innamorato anch'egli di Alvida.

Tasso incrocia nel Torrismondo due tragedie diverse, rispondenti a due diverse
problematiche morali. Da una parte c'è la tragedia "cavalleresca", che vede il

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protagonista lacerato fra gli obblighi dell'amicizia e dell'amore: è una tragedia
tipicamente cortese, in cui si a rontano Amore e Onore e nella quale è messa a
repentaglio l'integrità della gura di Torrismondo come cavaliere e come principe.
Dall'altra parte c'è la tragedia basata sull'incesto, e per di più sull'incesto
inconsapevole: Alvidia è anche sorella del protagonista.

11. La “Gerusalemme conquistata”

La Conquistata è qualcosa di più: è senza dubbio un poema meno fascinoso


della Liberata, ma è anche un progetto faticosamente elaborato e liberamente
perseguito.

A livello della materia, Tasso valorizza l'importanza del vero come base
imprescindibile dell'epica, e orienta le componenti di quest'ultima (storiche e non)
alla produzione di una piacevole meraviglia. In pratica, da una parte accentua la
propria fedeltà alle fonti cronistiche, dall'altra suggerisce un sovrasenso
allegorico-religioso dietro gli episodi inventati.

A livello della favola, Tasso cerca di acquisire linearità narrativa ponendosi ancora
più precisamente sulle tracce dell'Iliade. A questo scopo, aumenta il numero delle
partizioni da 20 canti a 24 libri; inoltre, modi ca lo scheletro della Liberata con
veri e propri calchi dell'Iliade, incrementando l'apparato epico attraverso la
riduzione, anche se non l'eliminazione, degli episodi amorosi, e soprattutto
cercando una minuta corrispondenza di personaggi ed eventi tra la sua nuova
favola e quella omerica.

LA CULTURA BAROCCA
Il Seicento fu un secolo ricco di spinte innovative, segnato dalla volontà di
di erenziarsi dal periodo precedente e dalla consapevolezza che una nuova era
prendeva avvio. Questo non signi cò rinnegare il passato, anzi, in ogni ambito gli
esponenti di spicco della cultura di questo secolo tennero in conto la lezione
degli antichi; il desiderio di sperimentare sorgeva sul fondamento di una
tradizione venerata, ma molte novità, quali gli sviluppi della stampa, gli apporti
dal nuovo mondo, un sistema di e cienti comunicazioni epistolari, nuove
conoscenze naturali, portavano a innovare in ogni campo.

1. Le istituzioni
1. I luoghi del sapere

Uno dei primi eventi caratterizzanti il nuovo secolo in Italia è la nascita


dell'Accademia dei Lincei: un gruppo di giovani studiosi della nobiltà romana nel
1603 fonda un'istituzione destinata a rinnovare il sapere non solo in Italia, ma in
Europa e nel mondo. Ebbe questa come socio anche Galileo Galilei che riesce a
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imporre una nuova epistemologia: lo spirito di osservazione, che essa promuove,
è alla base di nuove conoscenze che soppiantano pseudoscienze come
l'alchimia e l'astrologia. I Lincei si propongono l'incremento e la di usione del
sapere, da cui dovrebbe anche venire un rinnovamento etico.

Poli culturali sono nel Seicento ancora le corti. Centri di potere assoluto, si
servono tuttavia del prestigio che le lettere, le arti e gli spettacoli possono o rire,
e coltivano di conseguenza le attività culturali e artistiche.

Sempre più, però, le città le soppiantano come luoghi di cultura. Le università e le


accademie divengono infatti le vere sedi della produzione e circolazione delle
idee.

Anche i privati con il collezionismo si fanno promotori di sviluppo delle


conoscenze.

Si di ondono le biblioteche pubbliche, si aprono teatri a pagamento cui è


ammesso il pubblico borghese per spettacoli di alta qualità e alto impegno
letterario e tecnico.

Il libro stampato non è più un prodotto raro. In forme molto piccole e per soggetti
di interesse molto largo raggiunge anche un pubblico popolare. Venezia è sempre
uno dei centri più importanti del mercato librario in Europa, ma Amsterdam ha
ormai il primato. Si pubblicano molti libri illustrati, che servono per la propaganda
di collezioni museali, di corti in ascesa e in cerca di prestigio, di nuovi ordini
religiosi.

Si avverte anche il carattere progressivo della conoscenza, soprattutto dopo le


scoperte della scienza sperimentale.

2. La Chiesa

Roma è il punto di raccolta delle forze più vive e attive del mondo ecclesiastico
sia per essere il centro della cristianità. Forte della riforma avviata con il Concilio

di Trento, che le consente di progettare una di usione del cristianesimo su scala


mondiale, Roma ritorna a essere caput mundi. Al suo splendore contribuisce
anche il mecenatismo di papi.

Nel mondo cattolico, però, a causa della censura che grava sulla produzione
libraria e per il divieto di tradurre e discutere il testo biblico in volgare, viene a
mancare quel fecondo rapporto tra fede e conoscenza che aveva rappresentato
la vitalità dell'Umanesimo italiano.

Il ritorno alla scolastica prevale su una spiritualità più interiore, inoltre, la Chiesa è
tutt’altro che uniforme, al suo interno vi sono correnti e voci plurime, a volte in
netta divergenza.

Strumenti di acculturazione nel mondo ecclesiastico divengono i seminari e i


collegi dei vari ordini, soprattutto quelli dei gesuiti, che forniscono anche i quadri
politici del secolo.

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L'impegno della Chiesa è volto anche a formulare degli indirizzi culturali. Accanto
al controllo sui libri si hanno metodi propositivi, che suggeriscono, guidano e
indirettamente disciplinano.

3. La corte e le città

Se la religione è uno dei poli della cultura barocca, l'altro è la politica. La corte
nell'età dell'assolutismo irradia splendore e potere, prestigio e onore. È il centro
da cui dipendono le sorti dei singoli e dei popoli, quello su cui non vi sono
meccanismi di controllo. Ma le corti italiane hanno perso quel primato che
avevano ancora nell'Europa del Cinquecento e vivono di ri esso le decisioni
prese altrove, nelle grandi corti di Madrid, di Parigi o di Londra.

Sola eccezione è Roma, che conosce un periodo di grande splendore. Corte


cosmopolita e ra nata, raccoglie il meglio di musicisti, pittori, scultori, architetti,
poeti, letterati che, attirati da tutta Europa, ne fanno il centro propulsore di nuovi
indirizzi artistici.

Poi Napoli e Milano, legate dallo stesso controllo spagnolo, conoscono all'inizio
del Seicento un'intensa attività culturale, ma sono coinvolte nell'inesorabile
decadenza dell'Impero che le governa e vedono nel secolo declinare le loro
risorse umane ed economiche.

Resiste in modo più deciso al potere spagnolo e romano la Repubblica di


Venezia, la Serenissima, che mantiene salda la sua autonomia anche con uno
scontro contro l'autorità ponti cia.

Nella sua università, a Padova, vige una libertà e una circolazione di idee ignote
negli altri stati italiani.

Nel Seicento Venezia conosce una straordinaria oritura delle arti gurative, della
musica e dello spettacolo, per cui continua ad attrarre stranieri, riuscendo ad
amalgamare le novità importate con la propria cultura. Così maschera il declino
economico e politico, in cui sta inesorabilmente scivolando dopo l'apertura

delle nuove rotte commerciali verso l'Atlantico.

Tramontati centri come Mantova, Ferrara, Urbino, già irraggianti cultura nel
Rinascimento, ora relegati ai margini, solo Firenze, tra le vecchie signorie,
conserva un suo primato culturale cui contribuiscono ancora i Medici.

Nel Seicento si pratica moltissimo l'arte e mera delle feste di corte e sacre.

Lo splendore artistico sembra mascherare quello che fu anche il Seicento, un


secolo di guerre, di pesti ricorrenti, di povertà endemica e di declino sociale,
vissuti drammaticamente dai ceti meno abbienti.

4. La lingua

Il grande evento linguistico del Seicento italiano è la pubblicazione, nel 1612, del
primo Vocabolario dell'Accademia della Crusca.

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Il criterio estremamente selettivo della Crusca dà subito adito a opposizioni e
polemiche dei non toscani contro le ristrettezze della scelta.

Il volgare viene accolto pure in quegli ambiti che erano tradizionale prerogativa
del latino, come nel campo della comunicazione scienti ca, storica e giuridica.

Inoltre, attraverso la predicazione, tenuta ormai per imposizione del Concilio in


volgare, per la prima volta la lingua italiana si presenta uniforme anche ai ceti più
bassi e su tutto il territorio nazionale.

2. La periodizzazione

Il Seicento è l'età del Barocco, ma non è con questo stile perfettamente


identi cabile. All'avvio del secolo le forme del Manierismo ancora perdurano e,
anche quando il nuovo gusto si impone, permangono inclinazioni costanti verso il
classicismo.

La linea di demarcazione cronologica fra Manierismo e Barocco non è facilmente


tracciabile.

Se il Manierismo ri ette un'arte introversa e preziosa, il Barocco partecipa di una


situazione teatralmente grandiosa ed espansiva, rutilante nel suo esibizionismo;
se l'uno persegue un'aulica ra natezza, l'altro mostra anche una tendenza più
popolare ed emotiva, specie nell'attività di proselitismo degli ordini religiosi; se il
primo predilige la concentrazione del virtuosismo, il secondo mira a espandersi
con la lussuria e l'abbondanza esagerata, dissipando i suoi tesori in modo da
stordire e stordirsi in un delirio megalomane.

I caratteri più marcati del Barocco sono la ricerca del nuovo e l'e etto della
meraviglia, l'inedito e il bizzarro, la cui ricerca esasperata si sottomette al gusto
del fruitore. Entra infatti nelle scelte degli scrittori un nuovo criterio: il giudizio e il
gusto del pubblico. Per l'allargarsi del consumo e della circolazione librari, per le
mutate condizioni del mercato, si presta nuova attenzione alle reazioni dei lettori.

Nella crisi del rapporto fra natura e ragione si individuano nuove sistemazioni
della conoscenza, l'«ingegno» diventa la facoltà protagonista, perchè sintetica e
aggregatrice.

Esso incrementa lo stupore e la meraviglia attraverso la costruzione di analogie,


accresce il piacere della conoscenza per mezzo di una costruzione che nasconde
signi cati ulteriori da decriptare.

POETICHE E RETORICHE
In poesia si tratta di scelte più sperimentate che teorizzate, in prosa più frequenti
sono le prese di posizione teoriche. Si confrontano uno stile variato ma
controllato, uno stile laconico e spezzato, e uno stile orito ed esuberante.

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Nonostante le frequenti proposte classicheggianti, il distacco ultimo dal Barocco
si compie solo sullo scorcio del secolo, quando nel clima prearcadico si rinnova il
linguaggio poetico con il richiamo al «buon gusto» e alla tradizione.

1. Il Manierismo

Verso la ne del Cinquecento entra in crisi un modo di concepire la letteratura


che aveva dominato il secolo e che si fondava sul confronto con le teorie antiche,
la Poetica di Aristotele e l'Ars poetica di Orazio soprattutto. Da esse poeti e
scrittori avevano tratto norme e regole che, rielaborate in speci che trattazioni
per i diversi generi letterari, erano poi state impiegate anche per valutare
criticamente la produzione letteraria. Su questo confronto il Rinascimento aveva
formulato la sua idea di Letteratura e la sua classicità.

Anche se la Poetica di Aristotele non è abbandonata, le si a ancano modelli


teorici antichi dall'architettura più parcellizzata.

La ricerca di inconsuete normative sottintende però il bisogno di libertà


espressiva, la volontà di distinguersi dal classicismo, l'irrequieto desiderio di
sperimentare nuove vie. In conformità con quanto avviene per le arti visive,
queste ricerche si de niscono manieristiche.

In letteratura il Manierismo consiste nella critica alla codi cazione petrarchesca,


nell'infrazione dell'armonia ariostesca, nell'allargarsi dell'immaginario poetico a
possibilità inconsuete, nel gusto dell'espressione arti ciosa, nella propensione
per la dimensione patetica.

Non si tratta solo di abbandonare le regole e i modelli della composta armonia


rinascimentale. In discussione è la funzione stessa della poesia: l'equilibrio fra
utile e diletto sembra incrinarsi a favore del diletto; nel rapporto fra poesia e
verità, si fa prevalere il fantastico sul verosimile.

L'Umanesimo n da Petrarca aveva sostenuto il primato della poesia, la sua alta


funzione etica, e la sua valenza gnoseologica, che aveva trovato un ultimo
sostenitore in Tasso. Il nuovo atteggiamento favorisce l'autonomia
dell'immaginazione dal reale, quindi la costruzione di meccanismi arti ciosi del
linguaggio.

2. Il Barocco
1. Meraviglia, metafora, concetto, acutezza

Contro la grandezza, ben riconosciuta, del secolo precedente, l'età barocca


cerca nei campi dell'inedito la propria a ermazione. In mancanza di una verità a
cui rifarsi e in assenza di certezze, a causa anche delle scoperte che dilatano i
con ni del conosciuto, meglio optare per l'insolito, l'inaudito, lo straordinario.

La curiosità diventa una virtù che aiuta a evadere dal prevedibile. Il nuovo,
I’eccesso, l'insolito, lo strabiliante, sono ricercati per causare e etti di meraviglia
e di stupore.

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Sull'impegno etico della poesia, sul docere, prevale il soddisfacimento, il
delectare.

L'imperativo è quello di allettare il pubblico, di soddisfare il gusto del tempo, in


tutti i campi: teatrale, poetico, narrativo, con soluzioni che esaltino l'ingegno
individuale e l'originalità. Le regole ormai sono un ingombro, un ostacolo.

La gura retorica privilegiata come fonte di meraviglia è la metatora, perché fa


vedere insieme più cose, come uno scenario a più piani. La metafora altro non è
che il trasferimento a un oggetto del nome che è proprio di un altro oggetto.

Sulla base della metafora si creano i «concetti»», una parola chiave della retorica
e della poetica barocca, usati nell'oratoria, in poesia, in ogni forma letteraria e
comunicativa. «Concetto» nella retorica barocca indica un argomento arguto.

Il concettismo quindi non è solo questione di stile o di elocuzione, poiché implica


l'impiego di un'ingegnosità che è un atto intellettuale, una forma di conoscenza
non solo sensitiva ma intellettiva, ritenuta esclusiva delle menti ingegnose.

Le manifestazioni del Barocco non sono uniformi, perché la ricerca del mirabile e
dell'inedito, l'impiego di concetti e acutezze devono fare i conti con chi si appella
ai canoni di giudizio della tradizione classica, alla misura, all'equilibrio, al valore
etico della parola.

GALILEO E LA PROSA SCIENTIFICA


La nascita della scienza moderna coincide con la nascita della prosa scienti ca
italiana. Non fu Galileo il primo a usare il volgare per le conoscenze naturali, ma
fu il primo a usarlo con intento divulgativo e con grande maestria retorica, per
difendere le sue scoperte e il loro signi cato.

Il saggiatore, il Dialogo sopra i due massimi sistemi, le lettere hanno un valore


epistemologico e letterario insieme. La sua prosa, che impiega metafore,
similitudini, apologhi, mostra una consapevolezza espressiva inconsueta, su cui
prevale comunque la precisione, che assegna una qualità nuova alla
comunicazione scienti ca.

1. Galileo Galilei
1. Dagli studi pisani al “Sidereus nuncius”

Galileo e i suoi allievi sono i principali protagonisti di quel radicale mutamento


nella conoscenza dei fenomeni naturali che va sotto il nome di rivoluzione
scienti ca. Con le sue osservazioni celesti Galileo trova la via per scardinare il
paradigma aristotelico-tolemaico, riesce a matematizzare le leggi cosmiche e
dinamiche che deduce dalle sue osservazioni, esprime in un linguaggio preciso e
accessibile la sua nuova visione del mondo.

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Con la nuova epistemologia cambia anche il comportamento dello scienziato,
che, da decifratore dei segni che la natura gli o re da interpretare e su cui
esercita un potere magico, passa al rispetto di essa, alla fede nella semplicità e
regolarità delle sue leggi, che non sono più dominabili in toto dall'essere umano,
ma conoscibili in piccole, minute parti.

Galileo (1564-1642) si iscrive alla Facoltà di Arti dell'Università di Pisa, dove non
portò a termine gli studi per la precoce disa ezione verso la scienza tradizionale
e il suo insegnamento. Si avvicinò invece alla letteratura e allo studio della
geometria, e compose studi su Dante, postillò Petrarca, Ariosto e Tasso.

Ma fu la geometria a rivelargli la vocazione per gli studi matematici e nel 1589


ottenne l'insegnamento di matematica a Pisa, che era allora connesso a quello
cosmogra co. Mise mano a nuove ricerche sul moto naturale, sul rapporto tra
peso e caduta dei gravi, pronunciandosi contro l'imprecisione di coloro che si
professavano in linea con la scienza paripatetica e a ermando il primato della
matematica nel discernere nel vero dal falso.

Viene chiamato nel 1592 all'insegnamento delle matematiche all'Università di


Padova, dove poté entrare in un ambiente più aperto.

Nell'estate del 1609 costruì il suo primo telescopio, strumento che ebbe un
impatto straordinario sulla cultura dell'epoca, e che egli conobbe tramite notizie
provenienti dall'Olanda, lo potenziò e lo migliorò.

Scrive il Sidereus nuncius, in un latino scarno vi presentava, con sue illustrazioni,


le scoperte, che concernevano la super cie ineguale della Luna, l'immensità del
numero delle stelle e la natura delle nebulose e della Via Lattea, l'individuazione
di quattro satelliti di Giove, che egli chiamò Medicei.

L'opera suscitò subito ammirazione e aspri dissensi, che non fermarono le


ricerche di Galileo.

2. L’Accademia dei Lincei e Galileo

Viene poi chiamato a Firenze nel 1610 come matematico e losofo di corte e in
seguito a Roma.

Fu ricevuto dal papa ed ebbe confermate le sue osservazioni dal Collegio dei
gesuiti. Non mancarono indizi di dubbi, ma Galileo era troppo preso dal valore di
ciò che proponeva per accorgersi del pericolo in cui incorreva nel promuovere
l'abbandono del sistema tolemaico per quello copernicano.

Nel viaggio romano, inoltre, gli fu o erta anche l'iscrizione all'Accademia dei
Lincei.

3. Le lettere “copernicane” o “teologiche”

Al successo romano di Galileo corrispondeva però a Firenze il maturare di forti


ostilità.

Nel 1613 uscì, con il contributo dei Lincei, la Istoria e dimostrazioni intorno alle
macchie solari.
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Galileo dimostrava l'appartenenza del fenomeno alla super cie solare, arrivando
a calcolare, attraverso il loro moto regolare, il periodo del movimento di rotazione
del Sole intorno al proprio asse. Ciò in ciava ancora una volta la tesi aristotelica
dell'incorruttibilità dei corpi celesti. Contro questa quindi non mancarono gli
oppositori.

Galileo, inoltre, era convinto di avere una missione da svolgere all'interno della
Chiesa, quella di innovare il sapere aprendosi a una cultura al passo dei tempi,
aggiornando il paradigma aristotelico con l'accoglimento delle nuove
conoscenze.

Comprese che le sue idee si potevano difendere solo scardinando l'aristotelismo.


Quindi si recò a Roma per sostenere la sua posizione, ma, nonostante l'abilità
con qui si mosse e l'aiuto che ebbe dagli ambasciatori orentini, il Sant'U zio
procedette alla condanna di due proposizioni copernicane come false, la
centralità del Sole e la mobilità della Terra, e vietò a Galileo di professarle e
insegnarle.

4. Il “Saggiatore”

Nel 1616 scrive il Discorso del usso e re usso del mare, in cui spiega il
fenomeno delle mare sulla base del movimento terrestre, ma non lo potè
pubblicare.

Grassi ribatté con molto livore nella Libra astronomica ac philosophica,

riconosciuta dai gesuiti come sintesi della posizione degli scienziati del Collegio
Romano.

Il saggiatore, assai sprezzante verso l’autore della Libra, non nasconde l’intento
polemico.

Il saggiatore appare oggi non tanto un trattato scienti co, quanto


«un'a ascinante opera di propaganda culturale, di rottura dei vecchi metodi, di
aperta denuncia dello spirito di compromesso che si nascondeva sotto la falsa
modernità della dialettica dei gesuiti».

Il sarcasmo continuo si fonda su diverse tecniche: ironia lessicale, antitesi, forme


alterate. Galileo sperimenta le ricche possibilità metaforiche del linguaggio, si
avvale di espressioni quotidiane e domestiche, attinte al linguaggio locale, usa
forme vicine al parlato aliene dai tecnicismi della scolastica e della loso a
aristotelica.

5. Il “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo”

Prese il via la scrittura del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo,
tolemaico e copernicano, che rispondeva all'idea, a lungo coltivata, di
confrontare e provare la validità della tesi copernicana.

In quattro giornate tre dialoganti, Giovanfrancesco Sagredo, Filippo Salviati e


Simplicio, trattano delle due convinzioni cosmologiche, facendo spazio, con
frequenti digressioni, molti temi. Gli interlocutori non sono semplicentente
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rappresentativi di tesi opposte, ma portano in gioco il loro vissuto di uomini e,
anche il temperamento dell'autore.

Salviati, portavoce di Galileo, si presenta con la severa nobiltà del nobile


orentino, ma anche con la calma, l'autorevolezza, la prudenza dello scienziato,
guidando verso la scoperta della verità con un lento e umile losofare socratico.
Sagredo, come ingegnoso interlocutore non intendente, quindi non corrotto dalle
scuole loso che, con le sue domande movimenta il discorso, introduce delle
deviazioni, orienta la discussione verso questioni laterali ma non secondarie.

Egli porta nel dialogo sia la fervida passione per la conoscenza che era del vero
Sagredo sia la «rapidità arguta» e l' «agilità del ragionamento» proprie di Galileo.
Simplicio è lo sciocco e ostinato difensore delle tesi aristoteliche.

Le prove apportate si riassumono nelle apparenti stazioni e retrogradazioni dei


pianeti, nella rivoluzione del Sole su se stesso provata dalle macchie solari,
dall'alternarsi dell'alta e bassa marea, assurto quest'ultimo a prova principale. Ma
il dialogo si presta anche all'inserimento di molte altre materie, di digressioni che
divagano dal principale argomento, imitando, secondo un gusto caro al Barocco,
la varietà del vero dialogo, aperto ed elastico alla multiforme varietà del reale.

Le dimostrazioni, espresse in linguaggio matematico e geometrico, sono


rigorose, ma vengono sostenute con un discorrere pedagogico, che prende per
mano il lettore incompetente e lo guida a comprendere e familiarizzarsi con i
principi della nuova sica attraverso le molte esperienze descritte. Galileo ama
moltiplicare le prove, si aiuta con similitudini, apologhi e digressioni che
presentano la realtà quotidiana con un linguaggio naturale concreto, quasi
visibile, e un'alternanza di registri notevole.

Simplicio rappresenta i più dogmatici tra gli aristotelici e il suo stesso linguaggio
lo rende oggetto di be a.

La ssità del suo sistema non gli consente nessuna mobilità, nessuna ironia,
mentre le battute ironiche e le occasioni di comicità alle sue spalle sono
numerosissime.

6. Le lettere

Sant'U zio incolpa Galileo di ben otto capi di accusa, che riguardavano la
presentazione della tesi copernicana, l'irrisione della loso a tradizionale, la
parità tra intelletto umano e divino.

Galileo tentò in ogni modo di evitare il viaggio (era ormai settantenne e in cattiva
salute), ma dovette cedere e presentarsi a Roma, dove ricevette in ne una
condanna assai più dura di quanto si aspettasse: doveva abiurare, subire una
pena detentiva, impegnarsi a non trattare più della mobilità della terra e della
stabilità del sole. Il Dialogo venne proibito, l'eliocentrismo, per espressa
dichiarazione papale, fu considerato contrario alla fede, quindi eretico.
Nell'abiura, accettata senza resistenza da Galileo, fallivano tutte le speranze di
rinnovare il sapere fondandolo sulla conciliazione della nuova cosmologia con le
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Sacre Scritture. Alla ne del 1633 gli venne consentito di tornare a casa, ma con il
divieto di ricevere visitatori.

GIAMBATTISTA MARINO
Nel panorama letterario del Seicento Giambattista Marino è gura preminente, in
quanto furono le sue scelte a fare scuola e a determinare il gusto del secolo.
Formatosi nella Napoli di ne Cinquecento, fortemente in uenzata dall'eredità di
Tasso, Marino conobbe i centri culturali più attivi all'epoca: Roma, Venezia,
Bologna, Torino, approdando in ne a Parigi. La sua raccolta di liriche, La lira, fu
tanto ammirata da lasciare un seguito di imitatori de niti poi marinisti; le sue
Dicerie sacre determinarono una svolta nel modo di predicare; l'idillio si può dire
una sua invenzione; La galeria creò un nuovo modo di abbinare pittura e poesia;
L'Adone in ne ebbe larghissima fortuna in Italia e in Europa e rappresentò il
poema del secolo, oltre che il superamento de nitivo dell'epica.

1. Da Napoli a Parigi

Nasce a Napoli nel 1569.

Si trasferisce a Roma e lì approntò una raccolta di liriche che portò a Venezia per
seguirne la stampa presso il più importante editore del tempo. La pubblicazione
nel 1602 delle prime due parti delle sue Rime, ristampate poi con la terza parte
con il titolo La lira (1614), costituiscono il primo evento letterario signi cativo del
Seicento lirico, oltre che un indiscusso e immediato successo per il poeta.

Il canzoniere del 1602 è una cospicua raccolta di più di seicento componimenti.


La prima parte, la più corposa, è costituita da sonetti organizzati in rime
Amorose, Marittime, Boscherecce, Eroiche, Lugubri, Morali, Sacre, Varie, con un

nale gruppo di Proposte e Risposte; la seconda parte, Canzoni e madrigali, è


tematicamente indistinta.

Le rime si caratterizzano per le catene di metafore, per arditi concetti, per gli
e etti cromatici e soprattutto fonici. Nuovi poi sono alcuni temi ricorrenti, come la
predicazione della donna in varie attività, o la canzone e i madrigali dei baci.

2. “La Lira”

La lira uscì sia in edizione singola sia riprendendo i primi due volumi di rime già
edite. Questa terza parte, costituita da altre tre centinaia di componimenti di varie
forme metriche, si suddivide in Amori, Lodi, Lagrime, Divozioni, Capricci.
Si tratta di un canzoniere frammentato, per cui è di cile ricostruire la cronologia
dei componimenti.

Evidente la volontà dell'autore di comporre un'opera grande e di porsi come


innovatore nel superamento del modello petrarchesco e tassiano.

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La volontà di sperimentazione, coniugata con una straordinaria padronanza del
linguaggio poetico.

Senza arti ciosità, senza virtuosismi, senza asprezze giunse a risultati mirabili
grazie alla padronanza della retorica e della metrica e a una naturale musicalità
della sua parola.

Nei versi ricerca un piacere che mira all' e etto intellettuale di sorpresa oltre a
quello melodioso.

I numerosi madrigali indicano come Marino abbia trovato una sua forma
espressiva, giocando con forme più arti ciose, che avranno un enorme successo
presso i musicisti.

Le rime di Marino, che divennero presto rappresentative del gusto lirico del
secolo, sono in realtà caratterizzate da equilibrio ed eleganza nell'uso della
metafora, dalla rinuncia agli estremi gradi del concettismo.

3. Le “Dicerie sacre”

Uscirono le tre prediche ttizie che costituiscono le Dicerie sacre. Esse non
ambiscono a una funzione liturgica ma appartengono a tutti gli e etti all'oratoria

sacra, in quanto sono discorsi che si incentrano su tematiche religiose, anche se


le motivazioni profonde sembrano piuttosto di natura encomiastica e politica.
Ri ettono il clima culturale torinese, sia nella scelta del genere (alla casa Savoia
erano legati gli oratori sacri più in vista), sia nei temi, la Sindone (reliquia
identitaria per il Ducato di Savoia), la musica (i Savoia ebbero notevole attenzione
per la musica sacra) e l'ordine equestre dei santi Maurizio e Lazaro (sabauda è
anche la venerazione di questi santi, oltre che l'istituzione onori ca), sia nella
scelta dei dedicatari, tutti personaggi in vista della famiglia ducale.

Le Dicerie di Marino sono prediche a impresa, che consistono nello sviluppare un


nodo iniziale tematico percorrendolo in tutti i dettagli.

4. “La galeria” e “La sampogna”

La Galeria è una sorta di poesia encomiastica diretta d artisti. Mette a segno una
particolare retorica delle immagini sfruttando il suo creativo amore per le arti
gurative.

La Sampogna invece è una raccolta di dodici idilli sull’impronta della poesia


pastorale come l’Aminta di Tasso.

5. “L’Adone”

Marino si dedica a elaborare una favola mitica, per farne un poema alternativo al
successo tassiano.

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Se inizialmente L'Adone si presenta come un possibile Idillio, già nel 1614 Marino
esprime con chiarezza l'intenzione di farne un «nuovo genere non più tentato da'
volgari».

L'esile trama mitologica, viene arricchita con molti inserti di episodi correlati e
altre favole. L'eroismo è a dato al tema amoroso con una sorta d'inversione:
mentre l'amore normalmente cede alle armi, qui le armi cedono all'amore.

L'Adone può così essere letto come l'epica della pace. Si presenta in venti canti,
più di cinquemila ottave, un testo immenso, tre volte la Liberata, ma architettato
con somma perizia e calcolo. Ebbe subito un grande successo.

L'ispirazione classicista rappresenta l'ossatura del poema, ma traspaiono in


ligrana le altre sterminate lettre mariniane. Il poema si allarga anche a temi
contemporanei.

Anche la materia sacra è inclusa, assunta in chiave mondana dall'agiogra a.

La machina testuale è perfetta anche se smisurata. L'in nità di avventure, che


non incidono sull'avventura principale, muovono i meccanismi narrativi. La
struttura del poema è simmetrica, quasi prendesse a modello un sistema
armonico, che percorre tutti gli stili, con inusuali invenzioni meliche, aperture
lessicali, iconogra e.

6. Le polemiche sull’Adone

L’Adone lasciò dopo la sua uscita un seguito di polemiche che lo portarono


rapidamente all’eclisse.

IL TEATRO
Il Seicento è il grande secolo del teatro: nasce il teatro pubblico, si organizzano
professioni e spazi speci ci per le rappresentazioni, si impone l'impiego della
musica, ma soprattutto il teatro acquisisce quei caratteri di visionarietà,
simulazione, illusorietà, che fanno della scena lo spazio per ogni fantasia che
rappresenti il mondo.

La teatralità spinge verso una cura sempre maggiore della performance, che
porta alla specializzazione dei comici dell'Arte: essi ssano il repertorio, il modo
di recitare, l'uso delle maschere. Accanto alle scritture tradizionali, tragedia e
commedia, nascono e si sviluppano generi nuovi, il dramma pastorale, il
melodramma, l'oratorio, la tragedia cristiana. Quest'ultima, usata in specie nelle
recite dei collegi dei gesuiti, come parte del loro progetto educativo, concilia le
potenzialità catartiche e i miti della classicità con la sensibilità e gli intenti
edi canti del cristianesimo

1. Una civiltà teatrale


1. Lo spettacolo

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Mentre si a erma nel Seicento la moderna civiltà teatrale, il teatro assurge a
metafora, rappresentazione stessa del mondo, inteso come gioco, travestimento,
commedia o tragedia, in cui ognuno recita una parte. Gli e etti illusionistici
teatrali divengono emblema di un'idea della vita umana fondata sul senso della
provvisorietà dell'esistenza, sulla vanità di tutte le forme.

Il rinnovamento della drammaturgia nel Seicento fu determinato però da tre


fenomeni concomitanti: la di usione delle compagnie di attori, la de nizione
dell'edi cio teatrale moderno, il rinnovamento del pubblico, non più costituito
solo da nobili ma da una borghesia pagante.

Per rispondere a un pubblico sempre più esigente, lo spettacolo si arricchì del


contributo di gure specializzate nella costruzione della scenogra a, nella
creazione di macchine stupefacenti per grandiosità e impegno,
nell’accompagnamento di musiche adatte alla scena.

Sebbene sullo spettacolo gravasse la condanna del Concilio di Trento, nella


prassi si applicò, almeno in Italia, una notevole tolleranza. Presto la Chiesa colse
anche tutte le potenzialità educative insite nello spettacolo e, da atteggiamenti di
condanna, passò a distinguere onesto da cattivo teatro, in ne a utilizzarlo
ampiamente.

2. Il teatro dei gesuiti

I gesuiti fecero presto del teatro uno strumento educativo. La recitazione era

considerata un esercizio scolastico regolare, che sfociava in due saggi annuali su


testi in latino preparati dai professori di retorica.

L'obiettivo dei gesuiti era di trasformare la società trasformando l'individuo, per


cui i loro spettacoli rivelavano una ri essione sull'essere umano, sulle sue facoltà,
sui processi di conoscenza e di scelta.

L'eroe delle tragedie dei gesuiti non è, come nelle tragedie classiche, in con itto
fra il dovere politico e le scelte morali o sentimentali, ma è un individuo
totalmente votato al bene, che si trova però in contrasto con il mondo esterno,
malvagio e ostile. La coerenza con se stesso lo conduce inevitabilmente al
sacri cio di sé, no al martirio. I soggetti sono attinti dalla Bibbia, dalla storia del
cristianesimo delle origini, dalle vite dei santi, dalle recenti guerre di religione.

2. La commedia dell’Arte e altri generi comici

Con nalità ben diverse da quelle della rappresentazione gurale e sacra si


svolgevano gli spettacoli di nzione, illusione, intrattenimento ludico praticati
dagli attori-autori professionisti, volti a distrarre, dilettare, illudere, a ascinare.
Tutt'altro che sprovveduti, i comici dell'Arte fornivano un repertorio assai vasto,
che andava dalle commedie ai drammi sacri, alle tragedie.

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I comici dell'Arte recitavano prevalentemente «all'improvviso», cioè con battute
più o meno spontanee innestate su un intreccio ssato da un testo.

L'opera improvvisata è un genere del tutto nuovo, che coordina diversi pezzi,
monologhi, contrasti, pantomime, brani cantati, giochi di destrezza, di cui sono
incaricati diversi attori. In questo modo essi mescolano testi letterari e forme
rappresentative, stili e linguaggi.

Gli attori scelgono per le compagnie nomi di prestigio che le accomunano alle
accademie (i Desiosi, i Gelosi, i Fedeli, i Con denti, gli Uniti), cioè aspirano a
essere considerati intellettuali di alto livello. Sono infatti in possesso di speci che
competenze letterarie e spesso sono autori in proprio.

Comunque, la commedia letteraria ebbe nel Seicento soprattutto una dimensione


cortigiana e regionale.

3. Il tragico
1. La tragedia cristiana. Federico della Valle ed Emanuele Tesauro

La tragedia, sia essa religiosa o storica, è nel Seicento un contenitore atto ad


accogliere ri essioni sull’animo umano, un esemplare modo di ri ettere sui casi
della vita.

La tragedia, che attinge sia a fonti patristiche sia a Seneca, rispetta l'unità di
tempo e di luogo, è divisa in cinque atti, mantiene i cori che introducono gure
allegoriche, come la Discordia, o concrete, come i cittadini. Dal problema della
successione dinastica si sviluppano gli elementi fondanti il dramma classico e
quelli della tragedia cristiana.

2. La tragedia classica. “L’arietodemo” di Carlo de’ Dottori

4. Nuove forme drammatiche


1. Tragicommedia e melodramma

Il grande mutamento che avviene nel Seicento nella cultura e pratica teatrale è
preparato da intensi dibattiti avvenuti alla ne del Cinquecento, nati dal confronto
fra le esigenze del tempo e il rispetto per l'eredità classica. Da una parte ad
esempio Il Pastor do di Battista Guarini causò una polemica, sorta ancor prima
della sua uscita, sulla legittimità di un genere misto come la tragicommedia.
Dall'altra un gruppo di musicisti e di eruditi, riuniti intorno al nobile Giovanni de'
Bardi, nell'impegno di ricostruire l'antica tragedia, nella quale, si sapeva, era
essenziale la musica, portò alla ricostruzione di uno spettacolo musicato che
diede come esito un genere nuovo, il melodramma.

I due dibattiti registravano le attese e la vitalità che si riversavano sulla pratica


della scrittura e della messinscena e produssero due generi di tale successo da
divenire emblematici del secolo.

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2. L’oratorio e il melodramma a Roma

3. L’opera veneziana

Claudio Monteverdi, che aveva ottenuto a Venezia, dopo la morte di Vincenzo


Gonzaga, impiego come maestro di cappella a San Marco, poté trovare nella città
lagunare un pubblico vasto e ricercato, in grado di apprezzare il suo lavoro.

Nel giro di dieci anni di tentativi per stabilizzare il genere si attuò a Venezia la
profonda trasformazione nella produzione e fruizione del melodramma. Musicisti,
librettisti, nobili, accademici, concorsero nell'elaborare e nanziare opere che
attingevano al repertorio mitologico, eroico o storico, epico-cavalleresco.

Pur mantenendo i tre atti, l'opera veneziana abbandona le normative e il decoro


per l'inserzione di personaggi comici, il travestimento e lo scambio tra i sessi,
insieme con i riferimenti alla contemporaneità e soluzioni formali nuove, come il
lamento e i contrasti.

Prima della ne del secolo a Venezia furono aperti ben quindici teatri pubblici e si
a ermò l'uso di portare fuori Venezia lo spettacolo per opera di compagnie che
preparavano un loro repertorio. L'adattamento alle diverse città produsse una
grande varietà di situazioni sceniche e un'apparente assenza di regole, anche
metriche, il complicarsi delle trame, con esito sempre comico e con soluzioni
drammaturgiche ripetitive.

La sceneggiatura si arricchì di assedi, crolli di edi ci, allagamenti, incendi,


quadretti domestici. Comune è lo scarso impegno stilistico dei librettisti
veneziani, che aumentano il numero delle arie e canzonette destinate
all'espressione degli a etti, fatte però più brevi per renderne possibile
l'esecuzione. Sarà nel Settecento. questa tipologia dell'opera veneziana a
invadere i teatri europei.

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