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Castelvecchio a Verona

prima e dopo gli interventi di Carlo Scarpa (1957-1964)

Il castello viene edificato fra il 1354 e il 1356 da


Cangrande II della Scala.

Dopo un primo periodo di utilizzo residenziale,


ha per lo più una destinazione militare.

All’epoca della
dominazione
francese furono
mozzate le torri
e, tra il 1801 e il
1806, un nuovo
corpo venne aggiunto all’edificio. Rimane caserma
fino ai primi anni Venti, quando si sceglie di
trasformare Castelvecchio in sede delle collezioni
civiche di arte medievale e moderna, prima ospitate
a Palazzo Pompei.

1924-1926: il restauro “in stile” di Antonio Avena


(direttore ) e Ferdinando Forlati (architetto)

Tra il 1924 e il 1926 si avviano i lavori per il ripristino del


complesso, segnato dai precedenti eventi e utilizzi
militari. In linea con il gusto dominante dell’epoca e,
per quel che riguarda Verona, il recupero dei fasti
scaligeri, si procede a un restauro in stile medievale:
vengono rialzate le torri,
ripristinati i camminamenti di ronda e le merlature
ghibelline. Le facciate della caserma vengono
radicalmente trasformate: quella settentrionale con
l’inserimento di finestre e portali gotici; quella
orientale con l’aggiunta di elementi rinascimentali,
provenienti da edifici veronesi ormai distrutti. Gli interni
decorati in stile medievale, talora rinascimentale,
completando i rari affreschi originali.

La sequenza delle prime sale del Museo di Castelvecchio di


Verona nell’ex fortino napoleonico, ora Galleria delle
Sculture, dopo il restauro “in stile” del 1924-1926

Roberto Longhi (1890-1970),


importante storico dell’arte e
critico italiano, sottolineerà la
falsificazione storica insita in un
allestimento del genere parlando
di un ‘restauro’ segnato da “un
gusto da Ristorante Montecchi
e Capuleti”.

Sale con esposizione di dipinti


e mobilio, secondo quel gusto
d’ambientazione già visto al
Kaiser Friedrich Museum di
Berlino.

Al termine del conflitto, in pochi


anni, si ricostruiscono il ponte
(1949-1951) e l’ala di sala Boggian
(1948-1951), ad opera di Piero Gazzola, Soprintendente ai Monumenti, assistito da
Libero Cecchini per il ponte e da Alberto Avesani e Giancarlo Boselli per sala
Boggian, destinata a Salone dei concerti e perciò affrescata da Pino Casarini
con un ciclo dedicato alla musica.

1956-58: la mostra «Da Altichiero a Pisanello» come


base di partenza per l’intervento scarpiano

Salone al secondo piano della Reggia; pavimento in tavole


di noce Mansonia con cordolo sagomato in tufo vicentino
lungo il perimetro; soffitti lignei a cassettoni, lasciati
originari del XVI secolo; alle pareti, lacerti di affreschi
medievali riquadrati da un fondo di intonaco a calce
ribassato di un paio di millimetri rispetto alla superficie
dipinta; in fondo, la collocazione temporanea dell’affresco
staccato con San Giorgio e la principessa di Pisanello,
montato su un telaio di tubi Innocenti e posato a pavimento per consentire la
lettura ravvicinata dei dettagli pittorici.

Sala quarta al secondo piano dell'ala della Reggia;


pavimento in tavole di noce Mansonia con cordolo
sagomato in tufo vicentino lungo il perimetro; pareti con
intonaco a calce grezza leggermente velato in grigio; da
destra, i dipinti San Girolamo in un paesaggio di Bono da
Ferrara e Madonna in trono col Bambino di Pisanello,
esposti su aste rotanti in ferro, fissate con un perno a
pavimento per consentirne la rotazione; posizionata ad
angolo, tavola con Madonna col Bambino di Gentile da Fabriano posta su
cavalletto in palissandro e teak; a parete, tavole scorniciate appartenenti al
Polittico di Valle Romita di Gentile da Fabriano.

L’arrivo di Licisco Magagnato come direttore e gli interventi di Carlo


Scarpa (1957-1964)

I lavori di Scarpa, compiuti sotto la direzione


Magagnato, vedono una serie di interventi volti
a recuperare gli elementi più antichi del
complesso.

Il restauro vede la
rimozione delle
contraffazioni “in
stile”. Vengono però
mantenute le
ricostruzioni di
facciate gotiche veronesi che erano state inserite
dall’intervento Avena-Forlati.

Due elementi di rilievo dell’intervento scarpiano


nella parte esterna

La particolare collocazione
della statua equestre di
Cangrande della Scala

Il Sacello

Le due ali principali, la galleria


e la reggia, sono congiunte da un sistema di scale
e passerelle, collegamento evidenziato dalla
collocazione della statua di Cangrande della Scala.
Il cortile d'ingresso a prato è delimitato da siepi di
bosso. L'ingresso pubblico è sottolineato da due
vasche d'acqua.

Il Sacello, aggettante, si incastra nel secondo grande arco a ogiva, senza


interferire con le paraste laterali e l’arco superiore.

Molto particolare è il rivestimento esterno, creato con un intarsio geometrico in


pietra di Prun (dal nome della località veronese ove si estrae) di differenti colori
(rosa, rosso, bianco) e trattamenti (grezza o levigata), che crea un vibrante gioco
luministico. L’ispirazione per tale idea, secondo alcuni studiosi, giunge dai
mosaici bizantini, mentre altri non mancano di ricordare i rapporti scarpiani con
autori delle avanguardie come Klee e Mondrian, per le opere dei
quali l’architetto aveva curato l’allestimento di importanti mostre in
Italia.

Veduta dell’interno del Sacello illuminato da un’apertura vetrata


sul soffitto. Le pareti sono trattate a calce rasata verde scuro.
Tale ambiente, suggestivo e raccolto, è pensato da Scarpa come
una sorta di - stanza del tesoro, destinata ad accogliere piccoli e
preziosi oggetti.

Galleria delle Sculture, veduta di una sala.

Le statue appaiono diradate e collocate su


supporti creati ad hoc per ciascuna. La loro
collocazione non sempre le vuole rivolte allo
spettatore, che giungendo le trova anche di profilo
o di spalle, fatto che incuriosisce e invita ad
avvicinarsi e ruotare loro attorno.

L’illuminazione naturale giunge lateralmente, da


finestre strombate, mentre le zone d’angolo sono
accese da luce artificiale prodotta da una piantana
di forma essenziale.

Le pareti presentano intonaco di calce grezzo,


mentre il pavimento è in piastre di cemento, leggermente sopraelevato e
contornato da liste in biancone di Prun sagomate a scalino.

Sulle spalle degli archi, compaiono lastroni grezzi in pietra di Prun rosa.

Si notino i serramenti vetrati in ferro e


pitch-pine (un tipo di legno) della bifora e le
finestre quadrate strombate.

A ridosso della parete, compare il gruppo


scultoreo della Crocifissione del Maestro di
Sant’Anastasia della prima metà del XIV
secolo, con le statue della Madonna e di San
Giovanni Battista su supporti metallici e di
Cristo su supporto cruciforme finito a calce rasata. Le pareti
sono finite con intonaco di calce grezzo, mentre il pavimento è in
piastre di cemento listate con biancone di Prun.

Verona, Museo di Castelvecchio, Galleria delle


sculture, sala V.

A sinistra dell’arco, su un basamento finito a calce


rasata e con profili angolari metallici, il San Martino di
Avesa. Si noti l’illuminazione delle zone d’angolo con
luce artificiale prodotta da piantane di forma essenziale.

Sul pavimento compare un’apertura vetrata sul fossato antico


del castello, evidenziata da un parapetto in montanti di acciaio
con terminali in ottone e paletti in legno di iroko.

Sulle pareti a intonaco di calce grezzo, si staglia l’apertura ad


arco dell’uscita, che presenta serramenti vetrati multipartiti in
ferro e legno di iroko. Particolare è la chiusura a cancello.

Particolare è la chiusura, ideata come un cancello in ferro a


quattro telai scorrevoli, con lamine intrecciate a cesto, che
evoca, rivisitandole in chiave moderna, le cancellate medievali.

Verona, Museo di Castelvecchio,


vedute di sale al secondo piano.

Sulle pareti figurano lacerti di


affresco originario dalle forme
geometriche; nella parte superiore
compare una fascia che vede la
ripetizione dello stemma dei signori di
Verona (una scala), mentre la parte
inferiore presenta un trompe-l’oeil che
simula un tendaggio.

Ove non è rimasto l’affresco, le pareti


sono sfruttate come piano espositivo, anche se l’elemento più innovativo è la
scelta di esporre i dipinti – liberati da eventuali cornici false - su essenziali
cavalletti a tre aste lignee su treppiede di metallo.

Il pavimento presenta tavole di noce Mansonia con cordolo sagomato in tufo


vicentino lungo il perimetro.

La statua equestre di Cangrande della Scala

Per motivi legati alla sua conservazione,


la statua era stata rimossa nel 1909 dalle
Arche Scaligere (complesso funerario in
stile gotico della famiglia degli Scaligeri
ubicato nei pressi di piazza dei Signori), e
in seguito trasferita nel museo di
Castelvecchio,
dove tuttavia
non aveva
trovato una

collocazione in grado di valorizzarla.

Uscendo dalla galleria si giunge al


punto nodale del complesso, ossia
l’area espositiva riservata all’effige dell’illustre signore scaligero, che ha alle sue
spalle la Porta del Morbio. La porta, appartenente alla cinta muraria alto-
medievale della città, venne riportata alla luce durante i lavori di restauro degli
anni Sessanta.

Pilastro di fondazione e supporto in calcestruzzo dai profili


metallici - di 7 metri di altezza - con la statua equestre di Cangrande.

Veduta dall’alto del complesso gioco di


passerelle, scale e coperture che permettono di
ammirare la statua di Cangrande da molteplici
punti di vista e coglierne differenti aspetti.

La scenografica collocazione finale scelta da


Scarpa - che aveva fatto diverse ipotesi – tiene
conto della collocazione originaria della
scultura, che ne prevedeva la vista dal basso verso l’alto.

Inoltre, un tetto aggettante, sagomato a misura, creato con lastre di rame e travi
di legno recuperate, si prolunga da quello tradizionale, per proteggere dalle
intemperie l’illustre scultura.

Questa scelta lega strettamente l’opera all’edificio e a quel particolare


posizionamento, trasformando a sua volta l’allestimento scarpiano in un’opera
d’arte, chiusa e immodificabile.

Franco Albini
(Robbiate, Lecco 1905 – Milano, 1977)

Attivo sin dagli anni Trenta con la creazione di allestimenti


all’avanguardia in contesti espositivi quali la Triennale e la
Fiera Campionaria di Milano, si avvicina all’ambito museale
in quegli stessi anni con delle collaborazioni a Brera, che lo
vedono coinvolto nella sistemazione di un’ala napoleonica e
nella creazione per l’allestimento di una mostra d’arte
contemporanea dedicata a Scipione (Gino Bonichi) nel
1941.

Nel contesto dei musei, ricordiamo i suoi interventi a


Genova:

• Gallerie Comunali di Palazzo Bianco, 1949-1951


(ordinamento C. Marcenaro);

• Galleria di Palazzo Rosso, con Franca Helg, 1952- 1962 (ordinamento di


C. Marcenaro);

• Museo del Tesoro di San Lorenzo, 1952-1956

• Museo di Sant’Agostino, con F. Helg, A. Piva, M. Albini, 1963-1979

«Un ambiente moderno è certamente il più favorevole alla


comprensione e al godimento dell’opera d’arte»
(Franco Albini)

Due esempi di allestimenti albiniani per mostre temporanee


Leggerezza, trasparenza, uso di materiali moderni tratti dal mondo
industriale

Allestimento di Franco Albini (con Giovanni Romano) per la Mostra


dell’antica oreficeria italiana alla Triennale di Milano (1936)

Foto Crimella, Mostra dell’Antica oreficeria


italiana, Triennale di Milano, 1936.
Allestimento F. Albini-G. Romano.

La Chioccia con sette pulcini della


Cattedrale di Monza all’interno di

grande vetrina centrale.

L’allestimento è composto da vetrine di


cristallo “securit” tenute sospese da aste
metalliche bianche, le cui strutture risaltano
nel contrasto con pavimento e soffitto neri. Se nelle forme si evidenzia un
richiamo a una precedente di Edoardo Persico e Marcello Nizzoli nel 1934 (Sala
delle Medaglie d’Oro, realizzata nella Mostra dell’Aeronautica), l’allestimento di
Albini segna anche l’invenzione di un sistema espositivo che, attraverso
successivi affinamenti, diverrà un leitmotiv dei suoi lavori.

Allestimento di Franco Albini per la Mostra di Scipione e dei disegni


contemporanei alla Pinacoteca di Brera (1941)

L’allestimento della mostra del pittore Gino Bonichi, detto


Scipione (1904-1933) segna il completo affinamento del
metodo espositivo di Albini. Una maglia quadrata di cavi
d’acciaio ad un’altezza di tre metri sostiene una serie di
montanti in legno a forma di fuso appoggiati al pavimento.
Questi ultimi reggono, oltre alle lampade, tre tipi di supporti:
fondali di stoffa bianca o color nocciola con telai staccati
per i quadri, doppie lastre di vetro per i disegni e, per i
“disegni contemporanei”, piani inclinati protetti da vetri con
fondo a graticcio. Un nastro di carta da disegno, sopra il reticolo dei
tiranti, unisce visivamente le quattro sale della mostra e diffonde la
luce dei riflettori in tutto l’ambiente, mentre lunghi teli di carta da
tappezzeria sono allineati a mo’ di quinte verticali lungo le pareti.

Le tre opere più importanti di Scipione sono collocate sullo sfondo di


esedre in mattoni a vista.

Allestimenti di Franco Albini


in contesti museali

• Milano, Il “corridoio Albini” alla Pinacoteca di Brera (1950)


• Genova, Gallerie Comunali di Palazzo Bianco (1949-1951)
• Genova, Museo del Tesoro di San Lorenzo (1952-1956)

Milano, il “corridoio Albini” alla Pinacoteca di Brera nell’ambito del


riallestimento di Piero Portaluppi (1950)
Aulico e moderno insieme

Al seguito delle Sale Napoleoniche si apre, ora


sistemata in una Galleria continua, la serie delle
Salette della pittura veneta e lombarda del
Rinascimento. Una sequenza di pannelli scandisce
la lunghezza della galleria, creando dei vani. Albini
propone qui un esperimento di doppia
illuminazione: le finestre vengono schermate con
doppie tende avvolgibili per regolare l’intensità della
luce naturale, mentre una soffittatura a due livelli
nasconde fonti di illuminazione artificiale la cui
luce giunge sui dipinti grazie alla presenza di superfici riflettenti.

Genova, Gallerie Comunali di Palazzo Bianco


1949-1951, ordinamento di Caterina Marcenaro, architetto Franco Albini

Il museo di Palazzo Bianco – edificio preesistente del XVI secolo


assegnato nel 1884 al Comune di Genova dalla duchessa Maria
Brignole-Sale De Ferrari - è l’esito della volontà di ripristinare dopo la
guerra i musei secondo un’ottica nuova, trasformandoli in strumenti
attivi di cultura e di educazione e del tentativo, proprio della
museografia italiana, di infondervi anche un nuovo significato spaziale.

Le note distintive dell’allestimento sono una grande austerità e una


cosciente scelta di modernità, lontana da ogni suggestione di
ambientazione.

In accordo con Marcenaro, Albini idea un


allestimento di assoluta purezza, esaltato dalla
geometria degli antichi pavimenti di ardesia a intarsi di
marmo bianco, conservati in quasi tutte le sale. Il rigore
investe anche le cornici dei quadri, rimosse quando non
pertinenti.

Appesi a tondini che scorrono all'interno di guide di


ferro, fissate a ridosso dell'imposta delle volte, o sospesi a
piantane tubolari, sempre in ferro, infitte su rocchi di
colonne antiche, i quadri non intaccano la parete,
consentendo una lettura parallela dell'architettura del palazzo,
mostrato nella sua integrità. Anche per questo Albini evita arredi
fissi e distribuisce nelle sale numerose "tripoline", poltroncine
pieghevoli in legno nero, con snodi in ottone, sedile e schienale
in cuoio naturale, leggere e mobili.

Per la luce artificiale Albini realizza delle semplicissime barre


metalliche, sospese a mezz'aria in
rapporto all'altezza delle opere, tubi
fluorescenti a catodo freddo che creano una sorta di linea
luminosa nello spazio delle sale.

Si noti l’utilizzo di lastre di


ardesia come sfondo per l’Ecce
Homo di Caravaggio

Vedute dell’allestimento di Albini per l’Elevatio


animae di Margherita di Brabante (1313-1314),
frammento di un’opera marmorea di Giovanni
Pisano.

L’opera, che mostra la defunta sollevata dalla


tomba da due angeli-diaconi, viene collocata da
Albini vicina a una fonte di luce naturale,
schermata da tende alla veneziana, e su uno
sfondo grigio di lastre d’ardesia, che le consente
di risaltare.

Il frammento è slanciato
ed evidenziato dal
particolare supporto mobile in acciaio, ideato da Albini,
che permette la rotazione dell’opera (il motore e la
pompa idraulica, che azionavano il meccanismo di
sollevamento e di rotazione, erano nascosti dietro il
rivestimento a lastre di ardesia). La mobilità del supporto,
e la possibilità di girare attorno all’opera, invitano il
visitatore a prendere parte attiva nel processo di
fruizione, scegliendo il punto di osservazione.

Oggi tale allestimento non è più in essere e l’opera


compare al Museo di Sant’Agostino, a Genova.

Genova, Museo di Sant’Agostino, sistemazione del monumento funebre


di Margherita di Brabante.

Con il trasferimento dell’opera al Museo di S. Agostino si è perso il meditato e


accurato progetto di Albini, che rimane ancora oggi un simbolo della
museografia italiana del Secondo
dopoguerra.

Nel 2013 il designer Marco Ferreri ha


realizzato alla Triennale di Milano
un’installazione volta a celebrare il
basamento telescopico e girevole in
acciaio che Albini progettò per
l’Elevatio animae. Nell’installazione,
l’oggetto simbolico del lavoro di Albini,
salvato e riconosciuto, non figura più
come solo supporto, ma viene
celebrato come opera esso stesso, venendo riattivato e collocato su un
basamento circolare.

Albini e il Museo del Tesoro di San Lorenzo a Genova (1952-1956)

Nel piccolo spazio ipogeo della


Cattedrale di Genova Albini
propone una rivisitazione in chiave
moderna (ad es. l’uso di travetti a
vista in cemento, putrelle di ferro
verniciato, teche ideate ad hoc per
ogni opera) del tema delle tombe a
thòlos, di cui si ricorda quella
micenea nota come Tesoro di Atreo o
Tomba di Agamennone.

Sezione di una tomba a thòlos (“a


cupola”). Vano circolare, spesso sottostante a un tumulo di terra e coperto con
cerchi concentrici di blocchi lapidei a costituire una sezione più o meno ogivale.

L’ambiente è basato sul contrasto tra la


brillantezza degli oggetti esposti e la grigia pietra
di Promontorio che riveste murature e
pavimenti. Essendo questa una collezione chiusa,
il museo non necessitava di prevedere tutti quegli
accorgimenti legati al tema della flessibilità,
trasformandosi così in una sorta di intimo
“scrigno” per i preziosi oggetti della raccolta.

1947-1956: l’allestimento dei musei del Castello Sforzesco a Milano

Un museo che andasse incontro “all’intelligenza delle masse, alla


loro spontanea emotività, al loro bisogno di espressioni
spettacolari, fantasiose e grandiose”
(Ernesto Nathan Rogers)

Gruppo
BANFI*
BARBIANO DI BELGIOIOSO
PERESSUTTI
ROGERS

* Gian Luigi Banfi era scomparso nel campo di concentramento di Mauthausen nel
1945

Se Albini (con la direzione di Caterina Marcenaro) a


Genova crea per Palazzo Bianco un allestimento
essenziale e quasi astratto, mentre Scarpa (con la
direzione di Licisco Magagnato) dà sfoggio nel
veronese Castelvecchio della sua attenzione per i
dettagli e i
materiali, i
BBPR (con la direzione di Costantino
Baroni) calibrano le loro scelte in vista di un
allestimento dal forte impatto scenografico
ed emotivo, in grado di coinvolgere il
visitatore e guidarlo nel percorso,
proponendo una fruizione delle opere
impostata nei termini di un dialogo
sentimentale, ove attenti accorgimenti nella
collocazione scenografica e nell’uso delle
luci permettono alla potenza drammatica
contenuta nelle opere stesse di
manifestarsi a pieno, suscitando intensa emozione affettiva e commozione
estetica.

Sul finire dell’Ottocento, dopo diverse proposte su


cosa fare del Castello – assaltato e depredato dagli
stessi milanesi nel 1859, alla fine della dominazione
austriaca - si decide di salvare l’antico edificio. La
complessa opera di restauro e ripristino del
Castello inizia nel 1892, sotto la direzione di Luca
Beltrami; anche in questo caso, come a
Castelvecchio, il complesso per secoli era stato
destinato a uso militare e ridotto a caserma. Si
demoliscono alcune parti ottocentesche, si
riaprono antiche porte, si rialzano i
due torrioni, secondo il gusto
storicistico dell’epoca. Si riscoprono
anche significative tracce pittoriche e
le decorazioni dipinte nella Sala delle
Asse e nella Sala del Tesoro. Tornano gradatamente in luce gli ori della Cappella
Ducale. La Rocchetta e la Corte
Ducale vengono ripristinate nelle forme
originarie e destinate a ospitare
musei e istituti culturali. L’impegno di
Luca Beltrami trova la massima
espressione nella ricostruzione della
facciata del Castello verso la città e

soprattutto
della Torre del Filarete.

Dopo gli interventi di restauro architettonico, si


presterà attenzione alle scelte da operare nei
confronti dei rifacimenti in stile operati da Beltrami,
optando per un loro
rispetto che, tuttavia,
vedrà l’alleggerimento
delle decorazioni interne, solo in parte autentiche. Si
metteranno poi in evidenza alcuni elementi antichi, in
precedenza trascurati.

Castello Sforzesco, Milano.


Visuale dalla scala dell'ingresso al
museo che comprende il banco
informazioni, la Pusterla dei
Fabbri e il book shop (foto 2012).

La porta medievale veniva scelta dai BBPR come


scenografico incipit del percorso.

La Sala degli Scarlioni, prima e dopo i BBPR.


Una cartolina d’epoca che mostra l’allestimento prebellico
della sala, ancora legato al gusto ottocentesco.

L’allestimento BBPR per il Monumento funebre di


Gaston de Foix, opera di Agostino Busti detto il
Bambaia, nella Sala degli Scarlioni.

Si noti come ad ogni opera sia concesso uno spazio


proprio.

Le sculture sono isolate, per facilitarne la lettura, e poste in zone diverse


dell’ambiente (non lungo le pareti), che viene così dinamizzato.

I supporti sono realizzati in forme


semplici, essenziali, e in materiali
quali legno, bronzo, pietra, ferro
battuto.

La luce naturale giunge lateralmente,


mentre quella artificiale è portata da un
sistema di lampade pendenti da soffitto.

Modifiche dell’allestimento BBPR a


seguito dell’acquisto di ulteriori pezzi
scultorei, con conseguente
“affollamento” degli spazi e
snaturamento dell’armonico progetto
degli anni ’50.

La Pietà di Michelangelo nell’allestimento BBPR (1956) nella Sala degli


Scarlioni

Il gruppo scultoreo di Michelangelo giunge da Roma sul


finire del 1952 e resta fino all’estate del 1953 nella Cappella
Ducale del Castello. Il suo arrivo costringe i BBPR a
modificare il primo progetto per la Sala degli Scarlioni,
inizialmente pensata come conclusione del percorso del
Museo d’arte antica con la scultura rinascimentale
lombarda, rappresentata dai capolavori del Bambaia.

Per il nuovo progetto, non si esita a demolire le antiche


volte della sala sottostante. Nello spazio così ottenuto la
Pietà viene isolata attraverso la creazione di una nicchia in
pietra serena raggiungibile scendendo una scalinata .
Nell’allestimento del 1956 la Pietà poggiava su un’ara
romana del I secolo d.C., che aveva costituito il suo
basamento dagli inizi del Novecento.

L’allestimento trovò, fra i critici e il pubblico, appassionati e oppositori.

2015: si inaugura il Museo Pietà Rondanini – Michelangelo nell’Ospedale


degli Spagnoli

Nel 1999 la collocazione della Pietà non pare più


adeguata.

Il Comune bandisce un concorso internazionale per


una nuova proposta di allestimento, che pare trovare
risposta nel progetto di Alvaro Siza; l’idea, tuttavia,
non viene concretizzata.

Nel 2012 l’assessore Stefano Boeri avvia un dibattito museografico che conduce
il Soprintendente del Castello Sforzesco, Claudio Salsi, alla decisione di spostare
l’opera nell’antico Ospedale Spagnolo, collocato nel Cortile delle Armi del
Castello.

Dopo un lungo restauro,


l’edificio è inaugurato nel
2015 come sede del nuovo
museo dedicato alla Pietà
Rondanini, con
l’allestimento di Michele De
Lucchi.

Insieme alla Pietà figurano


una moneta di Leone Leoni
con raffigurato il busto di
Michelangelo, fusa nel tardo
Cinquecento, e il ritratto
bronzeo dello scultore, tratto dalla sua maschera mortuaria in cera, realizzato
dal suo allievo Daniele da Volterra.

L’architetto De Lucchi spiega la sua esitazione nell’accettare l’incarico


relativo al nuovo allestimento della Pietà:
Ho molto esitato ad accettare questo incarico perché l’idea di spostare la
Pietà non mi sarebbe mai venuta in mente e, ammetto, ho faticato molto a
farmene una ragione. La Pietà Rondanini se ne sta in quella piccola abside
creata dai BBPR oramai da sessanta anni, tanti quanti ne ho io più o meno,
in un allestimento che oggi non sarebbe più possibile realizzare perché quello
che era concedibile allora non lo è più oggi, non solo da parte delle
Sovrintendenze ma anche, e soprattutto, dalle coscienze di tutti noi.
Abbiamo infatti negli anni assorbito la sensibilità di un mondo che sta
cambiando troppo in fretta da farci sopportare ulteriori traumi alla poca e
vacillante sicurezza su cui confidiamo. Ho detto no tre volte, a muso duro,
con una scortesia che quasi non conoscevo in me facendo interiormente
appello a quella filastrocca “no, no, ho detto di no, e non lo farò e se per
natura la testa l’ho dura cambiar non si può, ho detto di no....”.
Michele De Lucchi, giugno 2013

Milano, Castello Sforzesco, Sala delle Asse


Milano, Castello Sforzesco, Musei Civici -
Museo d'Arte Antica, Sala VIII o Sala delle
Asse - Allestimento di epoca Beltrami/
Vicenzi. Foto

Anderson.

La Sala delle Asse è caratterizzata da una volta


dipinta con una sorta di trompe-l’oeil che simula
un pergolato di gelsi intrecciati sorretti da possenti tronchi e radici. Tale
decorazione era stata riscoperta da Luca Beltrami e restaurata dal pittore
Ernesto Rusca.

Durante i lavori di ricostruzione e riallestimento, tra il 1954 e il


1956, l’apparato decorativo della Sala delle Asse viene
attribuito a Leonardo e lasciato visibile nel progetto dello
studio BBPR. Unanimi critiche degli storici dell'arte
sull’operato di Beltrami, caratterizzato da un pesante
restauro con colori molto accesi, portarono anche alla
scelta di alleggerire quel suo intervento.

La sala, con il progetto BBPR, viene riservata alle mostre


temporanee.

Qui uno scatto che vede l’allestimento “flessibile” con pannelli


mobili.

Dopo un'approfondita
campagna di analisi sullo stato di conservazione
delle pitture nel 2006, nel 2013 è iniziata una
complessa opera di restauro che ha rivelato nel
2015 nuovi frammenti
di decorazione sulle
pareti.

La Sala delle Asse viene


riaperta nel 2019 dopo
un lungo restauro.

Si noti che la boiserie


degli anni ‘50 è stata
rimossa, eliminando –per ragioni di restauro e studio –
quanto progettato dal gruppo BBPR.
Al di fuori della penisola italiana

Il museo come Landmark


ossia come punto di riferimento,

punto di interesse storico, visuale o paesaggistico, elemento inconfondibile


di un dato quartiere o persino di una città

I precedenti fra le due guerre

Movimento Moderno

In architettura, postulava l’abbandono degli stili storici, dell’eclettismo e del


classicismo a favore di un linguaggio progettuale capace di sfruttare le
potenzialità tecnologiche dei nuovi materiali quali vetro e acciaio, coniugando
essenzialità e funzionalità nell’elaborazione delle forme e nella creazione degli
spazi.

Fra i suoi esponenti più noti figurano Le Corbusier (1887-1965), Walter


Gropius (1883-1969), Ludwig Mies van der Rohe (1886-1969), Frank Lloyd
Wright (1867-1959) e Alvar Aalto (1898-1976).

1959: apre a New York


il Solomon R. Guggenheim Museum
di Frank Lloyd Wright (1867-1959)

Veduta satellitare della zone di Manhattan (New


York) ove compare il Solomon R. Guggenheim
Museum.

Appare già da qui evidente come il museo si


distingua dar resto del tessuto urbano grazie al suo
corpo a pianta circolare.

I protagonisti:
Solomon R. Guggenheim (1861-1949)
Hilla Rebay (1890-1967)
Frank Lloyd Wright (1867-1959)

Hilla Rebay, o meglio la baronessa Hildegard Anna Augusta Elisabeth Rebay von
Ehrenwiesen, in uno scatto del 1929 realizzato da Moholy Nagy. Pittrice tedesca
dedita all’“arte non oggettiva”, Hilla sul finire degli anni Venti conosce
Solomon, divenendo la sua consulente artistica e la direttrice del Museum of
Non-Objective Painting, primo nucleo di quello che sarà poi il Solomon R.
Guggenheim Museum.

Sarà Hilla a sognare un edificio progettato ad hoc per la collezione e, a tal fine,
contatterà nel 1943 Frank Lloyd Wright, architetto che sente affine per il suo
desiderio radicale e quasi mistico di bellezza, parlandogli di un “tempio” dedicato
allo spirito dell’arte. Nel frattempo, nel 1944, si renderà disponibile in Fifth Avenue
l’area su cui poi verrà edificato il museo.

Il magnate americano Solomon R. Guggenheim, che aveva iniziato a


collezionare opere d’arte a partire dal 1890 e aveva creato nel 1937 la Solomon
R. Guggenheim Foundation.

L’architetto Frank Lloyd Wright, fondatore della “architettura organica”, in visita


al cantiere nei primi giorni di lavoro.

L’aspetto del museo si discosta da quello dei grattacieli che


lo circondano, sia per forma che per colore. Esso si presenta
come una costruzione inconfondibile nel panorama quasi
omogeneo di Manhattan. L’idea è quella di una spirale
capovolta che sale dal piano terra e si allarga come un
nastro che viene srotolato
sino alla fine dell’edificio.
La linea curva è
certamente dominante,
anche se le diverse parti del museo sono un vero
assemblaggio di linee e forme geometriche
regolari: triangoli, ellissi, archi e quadrati che
conducono l’osservatore attraverso uno spazio
continuo e armonico.

Nella concezione dell’edificio Wright rifiuta le


regole basilari della tradizione architettonica:
pareti e pavimenti non sono qui inseriti come
piani ortogonali, le pareti sono curve e il
pavimento è in discesa.

Una volta entrato nella hall, che corrisponde alla


grande spirale
leggibile anche
dall’esterno, il visitatore comincia la visita salendo in
ascensore fino alla sommità della struttura, per poi
continuarla obbligatoriamente percorrendo in
discesa una rampa unica, lunga quasi 500 metri. I
dipinti sono esposti lungo i muri della spirale e in
alcune stanze presenti lungo il percorso, che
interrompono per un attimo il flusso della visita. Oltre il
parapetto, invece, il grande vuoto centrale consente
di vivere l’interno espositivo.

La luce naturale giunge dall’alto in modo uniforme e


induce il visitatore a sollevare lo sguardo.

Si assiste qui a una rilettura in chiave moderna del


classico tema della “rotonda”.

Competizione fra contenitore


(museo) e contenuto (opere)!

Molti artisti ritenevano che un “contenitore” di tale impatto


potesse oscurare le opere d’arte esposte; Wright rispose
affermando che il suo intento era quello di rendere
architettura e pittura parte di una ininterrotta sinfonia come
mai si fosse visto nel mondo dell’arte fino a quel momento.

Le trasparenze di
Ludwig Mies van der Rohe
(1886-1969)

Alla fine degli anni Venti Mies van der Rohe progettò e realizzò due opere
considerate tra i capisaldi dell’architettura del movimento moderno. Una è la
casa Tugendhat a Brno (Cecoslovacchia, 1928-30), l’altra è il padiglione della
Germania all’Esposizione internazionale di Barcellona (1929), che racchiude in
sé i principi progettuali costituenti la poetica di questo architetto.

Nel 1930 MvdR fu chiamato da Walter Gropius alla direzione del Bauhaus, che
mantenne fino al 1933, quando la scuola fu chiusa per l’avvento del nazismo. Dal
1937 al 1969, anno della sua scomparsa, MvdR intraprese una prolifica attività
professionale e didattica negli Stati Uniti d’America.

L’ultima opera di MvdR fu la Neue Nationalgalerie di Berlino (1962-68), ulteriore


passo dell’architetto nella ricerca della struttura perfetta.

I precedenti:
1929: Ludwig Mies van der Rohe, Padiglione della Germania,
Esposizione Universale di Barcellona

Nel 1928 Mies van der Rohe viene scelto dal governo tedesco per realizzare il
padiglione che doveva rappresentare la Germania all’Esposizione Universale di
Barcellona del 1929 e ospitare il ricevimento ufficiale presieduto da re Alfonso
XIII di Spagna con le autorità tedesche.

Il padiglione vede l’utilizzo di vetro, acciaio e quattro diversi tipi di pietra


(travertino romano, marmo verde alpino, marmo verde antico della Grecia e onice
dorato delle montagne dell'Atlante), assemblati con precisione per creare un
ambiente di limpide geometrie.

È questa l’occasione per sperimentare alcuni degli elementi che


caratterizzeranno le successive realizzazioni dell’architetto tedesco, come il
pilastro in acciaio e il telaio in acciaio e vetro.

Fondamentali nel progetto sono i giochi di trasparenza, che conferiscono


leggerezza alla struttura. Anche l’acqua è, a tal fine, un elemento importante,
inserito attraverso la creazione di due vasche. La prima, più grande, appare
subito all’ingresso e rispecchia le strutture stesse del padiglione conferendogli
ulteriore leggerezza visiva; la seconda, più piccola, è inserita in un punto meno
visibile e riflette nel suo specchio d’acqua la scultura Der Morgen, opera di
Georg Kolbe.

Il padiglione fu smantellato nel 1930, al termine della rassegna, tuttavia...

Ludwig Mies van der Rohe,


Padiglione della Germania,
Esposizione Universale di
Barcellona (1929),
Barcellona, ricostruzione
filologica realizzata negli
anni 1983-1986 sulla base dei disegni originali e delle foto storiche.

Il basamento del padiglione,


studiato per essere un podio in
travertino, pareva voler
evocare l’immagine classica del
tempio romano.

Ludwig Mies
van de Rohe,
Padiglione
della
Germania,
Esposizione
Universale di
Barcellona,
1929

Il padiglione presenta una “pianta libera”* che permette di spaziare attraverso i


vari ambienti dall’incerto confine, generati da pilastri, vetri e pareti di pietra
disposti in una rigida ma asimmetrica geometria. Il tetto piano è sostenuto da
otto pilastri cruciformi cromati, molto sottili, che danno una forte impressione di
leggerezza e che rivelano il carattere non portante delle pareti**.

* La Corbusier nel 1927 aveva


introdotto la “pianta libera” :
concezione resa possibile dalla
realizzazione di uno scheletro portante
(in cemento armato) che elimina la
funzione delle murature portanti.

** Le Corbusier parlava di Pilotis :


pilastri, per lo più di cemento armato,
che sorreggono un edificio, isolandolo
dal terreno; Le Corbusier li utilizza per
creare uno spazio coperto, libero da
pareti e in diretta relazione con
l’esterno.

La “pianta libera” di Mies van der Rohe libera lo spazio dalla


struttura. Grazie all’uso di vetrate – in linea con l’idea di
“facciata libera” di Le Corbusier* - non c’è più una
distinzione così netta fra esterno e interno. Lo spazio non è
più simmetrico né assiale, è concepito con principi diversi
da quelli della classicità, è pensato e concretizzato come
elemento dinamico, come materia fluida.

*“Facciata libera” : è una possibilità generata dalla presenza di uno


scheletro portante, che consente di realizzare facciate non più
costituite di murature aventi funzioni strutturali, ma semplicemente
da una serie di elementi orizzontali e verticali i cui vuoti possono essere tamponati
a piacimento, sia con pareti isolanti che con
infissi trasparenti.

Scatti relativi all’interno, con veduta sullo


specchio d’acqua che accoglie la scultura Der
Morgen.

L’essenzialità delle linee è compensata dalla


preziosità dei materiali (qui, ben visibile, la
parete in onice dorato).

Si noti la “poltrona Barcellona”, pezzo dal


design moderno realizzato da Mies van der Rohe
in collaborazione con Lilly Reich.

La piscina interna con Der Morgen (Il


Mattino) di Georg Kolbe (replica in
bronzo).

Magistralmente collocata a un'estremità


della vasca, la scultura si riflette non
solo nell'acqua ma anche nel marmo e
nel vetro, creando così la sensazione di
un suo moltiplicarsi nello spazio, mentre
le sue curve contrastano con la purezza
geometrica dell'edificio.

1968: si inaugura a Berlino (Ovest)


la Neue Nationalgalerie
di Ludwig Mies van der Rohe

La divisione amministrativa di Berlino nel 1948


conduce alla realizzazione di una collezione di
arte contemporanea a sé stante nella zona di
Berlino Ovest, inizialmente ospitata in diversi
sedi temporanee. Solamente negli anni ‘60 si
avrà una sede fissa, realizzata da Mies van der
Rohe.

La struttura,
posta su un
podio, è
segnata dalla
grandiosa copertura quadrata che, sorretta da
otto pilastri in acciaio a sezione cruciforme,
chiude il corpo vetrato della sala espositiva,
arretrato rispetto alla linea dei pilastri.

La struttura
evoca un’analogia con lo schema dei templi
classici di tipo periptero: i pilastri
sostituiscono le colonne, la struttura della
copertura – una griglia ortogonale di travi
metalliche - evidenzia l’analogia con il
soffitto a cassettoni, dove la tradizione del
legno viene sostituita da una
sperimentazione reticolare in acciaio.

Le pareti vetrate permettono un’osmosi


visiva con la città.

Se la grande sala vetrata consente di


eliminare il confine tra esterno e interno,
essa non permette di avere un’ampia
superficie espositiva a parete. Tale
compito è
invece
affidato
all’insieme di ambienti interrati ricavati nel
podio, che si affacciano su un giardino per le
sculture.

Anni ‘60: gli anni della contestazione

Nel secondo Novecento, dopo la fase dedicata alla ricostruzione, si assiste a una
serie di mutamenti economici, politici e sociali che portano, in diverse nazioni, a
correnti di opinione e movimenti di protesta, il cui apice di diffusione si ha verso
la fine degli anni ‘60. In particolare il ’68, nato nel contesto della protesta contro
l’intervento americano in Vietnam, vede una forte ondata di agitazioni
studentesche, con la volontà di sostenere istanze antiautoritarie ed egualitarie
e di sottoporre a una critica radicale le istituzioni sociali tradizionali, dalla
famiglia alla scuola e al lavoro.

Anche il mondo dell’arte è investito dalle proteste del ‘68

Un articolo del 24 giugno 1968 da “l’Unità”, ove si narrano disordini veneziani di


quella che viene ricordata come la “Biennale poliziotta”.

Nel solco di questi mutamenti si inserisce la creazione di uno dei più


noti musei parigini
1977: si inaugura a Parigi
il Centre Pompidou
degli architetti Renzo Piano e Richard Rogers
«contestazione», stile high-tech e interdisciplinarietà

Veduta satellitare sul Centre Pompidou.

Già da qui si intuisce il carattere


innovativo dell’edificio, segnato
all’esterno da tubi colorati e da forme
particolari che lo connotano come
un’architettura del tutto nuova per la
sua epoca.

Come il South Kensington Museum era


stato inizialmente nominato “The
Brombton Boilers” (“Le caldaie di
Brompton”) dai suoi critici, così il
Centre Pompidou viene detto “Notre-
Dame-des-Tuyaux” o l’“usine à gaz”
(“Notre-Dame dei tubi” o “centrale del
gas”).

L’idea di questo centro


pluridisciplinare - non solo un museo
dunque - nasce sul finire degli anni Sessanta per iniziativa del presidente francese
Georges Pompidou (1911-1974), che immagina un luogo votato alla cultura in
cui le diverse arti e il loro studio (attraverso un centro di documentazione) trovino
un punto di riferimento e di incontro.

Il progetto ha evidenti scopi politico-sociali:

• Rilanciare Parigi, il cui prestigio nel campo dell’arte


contemporanea era stato oscurato da New York;

• Riqualificare il quartiere parigino di Beaubourg,


all’epoca in una situazione di degrado anche per la
presenza di ruderi generati da demolizioni rimaste
incomplete.

L’area ove oggi sorge il Centre Pompidou (nell’immagine a


sinistra evidenziata in verde) prima dei lavori era utilizzata
come parcheggio (un dettaglio nell’immagine sottostante).

Il concorso internazionale indetto nel 1970 dal


Ministero della Cultura francese vede nel 1971
la vittoria del progetto dello Studio Piano &
Rogers.

L’edificio rappresenta il simbolo dell’estetica high-


tech: esso si caratterizza come una sorta di
edificio-macchina, alla ricerca di funzionalità e di
spazi interni adattabili. È proprio in quest’ottica
che, per mantenere lo spazio
interno il più libero e ampio
possibile, si pensa di collocare
elementi quali gli impianti (elettrici, idrici, di
climatizzazione) e i percorsi (scale, passerelle)
all'esterno dell’edificio.

Il Centre Pompidou si stacca così dall’idea


tradizionale di museo sia
per il contenuto (non è un
museo, ma un centro) che
per il dissacrante aspetto
del contenitore.

Veduta del lato est su Rue


Beaubourg. Particolare
dei tubi colorati relativi ai
vari impianti (rossi = ascensori e scale mobili; blu =
climatizzazione; giallo = impianti elettrici; verde =
impianti idrici).

Dall'esterno, sul lato che affaccia su Place Georges


Pompidou, l’elemento distintivo
dell’edificio - tanto da essere scelto come
logo - è rappresentato dall'enorme scala
mobile, nota come "bruco“. Essa è
l'arteria principale del Centre Pompidou:
pone in collegamento tutti i livelli e,
trasportando il pubblico verso l'alto, offre
con la sua trasparenza una suggestiva
veduta della città.

La piazza funge da
collegamento fra museo e
città, divenendo punto di
incontro per parigini e
turisti.

Parigi, Centre Pompidou,


“Forum”.

Esterno e interno
comunicano visivamente,
grazie alle trasparenze
create dai materiali e dalla
struttura.

Al pianterreno compaiono
aree di sosta, il bookshop
e altri servizi fra cui quelli dedicati ai più piccoli (Atelier
des enfants).

Tra primo e terzo piano, oltre ad alcuni spazi espositivi,


al cinema e al café, compaiono la Bibliothèque Publique d'Information (BPI) e la
Bibliothèque Kandinsky (centro di documentazione e
ricerca).

La presentazione delle collezioni moderne e


contemporanee del Musée National d'Art Moderne si
estende su due livelli (5°-4°), coprendo diverse discipline,
dal 1905 ai giorni nostri. La raccolta è esposta secondo
un percorso con criteri più tradizionali, con
ordine cronologico e sale monografiche,
partendo dal progetto di riallestimento degli
anni ‘80 creato da Gae Aulenti.

Parigi, Centre Pompidou, Restaurant Georges, collocato a sud al


sesto piano del complesso, con affaccio sull’ampia terrazza e
sulla città.

1986: si inaugura a Parigi


il Musée d’Orsay
con l’allestimento di Gae Aulenti

Postmoderno

Termine usato per connotare la condizione antropologica e culturale

conseguente alla crisi e all’asserito tramonto della modernità nelle


società del capitalismo maturo, entrate circa dagli anni 1960 in una fase
caratterizzata dalle dimensioni planetarie dell’economia e dei mercati
finanziari, dall’aggressività dei messaggi pubblicitari, dall’invadenza della
televisione, dal flusso ininterrotto delle informazioni sulle reti telematiche. In
connessione con tali fenomeni, e in contrasto con il carattere utopico, con la
ricerca del nuovo e l’avanguardismo tipici dell’ideologia modernista, la
condizione culturale postmoderna si caratterizza soprattutto per una
disincantata rilettura della storia, definitivamente sottratta a ogni finalismo,
e per l’abbandono dei grandi progetti elaborati a partire dall’Illuminismo e
fatti propri dalla modernità, dando luogo, sul versante creativo, più che a
un nuovo stile, a una sorta di estetica della citazione e del riuso, ironico e
spregiudicato, del repertorio di forme del passato, in cui è abolita ogni
residua distinzione tra i prodotti ‘alti’ della cultura e quelli della cultura di
massa.

Conseguenza di una riaffermazione del legame con la storia, il


postmodernismo, con connotati di ambiguità e ironia, si rivela in una
molteplicità stilistica che riscopre la valenza liberatoria di pratiche
condannate dall’ortodossia modernista, come l’eclettismo e il revival.

Nel XIX secolo l’area è occupata dalla caserma


della cavalleria e dal Palazzo d'Orsay.

Il quartiere viene devastato da un incendio nel


1871, e il complesso rimane per qualche tempo in
rovina.

In vista dell’Esposizione universale di Parigi del


1900, lo Stato cede il terreno alla Compagnia
ferroviaria d’Orléans, che fa costruire lì una stazione, affiancata da un albergo,
su progetto di Victor Laloux. Viene così realizzato un edificio in stile eclettico,
con un’avveniristica struttura in acciaio, ghisa e vetro, secondo le più moderne
tecnologie allora emergenti.

Nel corso dei decenni la stazione perde importanza.

Prima del suo recupero, quando ormai la Gare d’Orsay


aveva perso la sua originaria funzione, l’area era stata
parzialmente adibita a parcheggio.

La struttura rischia anche la demolizione, da cui si


salva grazie all’inserimento nel 1973 nell’elenco
straordinario dei Monumenti Storici.

Nel 1977 si decide la trasformazione della stazione


nel Musée d’Orsay.

Il museo viene inaugurato il 1° dicembre 1986 dal


presidente François Mitterrand.

Gaetana Emilia Aulenti (1927-2012), più


nota come Gae Aulenti, si forma come
architetto e designer al Politecnico di
Milano.

Negli anni ‘60 è assistente di cattedra allo


IUAV di Venezia e al Politecnico di Milano.

Nei primi anni ‘80 è impegnata, sempre a Parigi, nel riallestimento del
Musée National d'Art Moderne al Centre Pompidou.

Nell’ambito della creazione del Musée d’Orsay è lei a curare la


progettazione architettonica degli interni e l’allestimento
museografico vero e proprio, coordinando una squadra di architetti e scenografi,
quali Italo Rota, Piero Castiglioni (per le luci) e Richard Peduzzi.

L’idea guida è quella di interagire con l’architettura originaria, non


prevaricandola e ponendo attenzione all’uso
dei materiali e alle scelte per l’illuminazione.

Il museo ospita la produzione artistica del


mondo occidentale dal 1848 al 1914.

Gae Aulenti stabilisce il percorso nel dettaglio


insieme al conservatore, Michel Laclotte,
creando una sorta di meandro, ove in realtà più
percorsi si intrecciano, proponendo anche
abbinamenti contrastanti e stravolgendo le
posizioni e le gerarchie solitamente assegnate alle
opere del passato nelle pinacoteche tradizionali.

L’allestimento è strutturato in modo da creare vari percorsi espositivi, in una


sorta di intreccio che si sviluppa sia in piano sia nello spazio, grazie a un
ingegnoso gioco di scale interne, ascensori e scale mobili che rendono
possibile l’accesso a diversi livelli. In tal modo, vengono aumentati gli spazi
espositivi, si genera una varietà nei diversi settori e periodi artistici documentati,
si consentono vedute insolite delle vetrate e degli stucchi originali della grande
navata centrale.

Si sceglie una pietra calcarea chiara, che fornisce luminosità sfruttando al


meglio la luce naturale proveniente dalla volta
vetrata che, nello stesso tempo, conferisce
unità all’insieme. La luce artificiale, invece, è
utilizzata al fine di consentire le variazioni
d'intensità necessarie in relazione alle diverse
tipologie di opere esposte.

Le pareti divisorie in pietra creano un


ambiente appartato ma non del tutto
disgiunto dalla navata centrale; esse inoltre
fungono da piani espositivi per i dipinti e, al
contempo, creano delle quinte sceniche che
inquadrano l’opera scultorea collocata al di là
dell’ambiente stesso.

L’architettura interna è stata variamente


definita neobabilonese, neoegizia,
addirittura mussoliniana. Essa si inserisce in
quel fenomeno o corrente architettonica
diffusasi alla fine degli anni Settanta del
Novecento detta “postomodern”, tendente
al superamento dei modelli formali del
cosiddetto ‘movimento
moderno’ (identificabile soprattutto nel
funzionalismo), col recupero di forme e stili del passato in strutture
architettoniche ultramoderne.
1983: a Stoccarda
si conclude la
NeueStaatsgalerie
dell'architetto James Stirling

James Stirling (Glasgow, 1926 - Londra, 1992)

Dal 1945 al 1950 studia architettura all'Università di Liverpool, dove conosce


Colin Rowe, teorico architetto e urbanista, il quale lo guida nell’indagine
dell’intera storia dell’architettura, in modo da ricavarne una fonte di
ispirazione, che dall’antica Roma e dal Barocco giunge alle diverse
manifestazioni del Movimento Moderno, da Frank Lloyd Wright ad Alvar Aalto.

Il successo di Stirling è dato dalla sua capacità di inserire questi sottili rimandi di
gusto enciclopedico all’interno di architetture dalle forme forti e dai tratti decisi.

La sua figura si colloca fra quelle di alcuni giovani architetti che, a partire dalla
seconda metà del Novecento, mettono in discussione e rivoluzionano i precetti
teorici del primo Movimento Moderno.

Nel 1971 Stirling fonda uno studio con Michael Wilford, svoltando verso
l'internazionalizzazione dei progetti e verso uno stile nuovo e altamente
citazionistico, che la critica collocherà nell'ambito del Post-Moderno.

Nei secondi anni Settanta lo studio si impegna nella progettazione di tre edifici
museali per una serie di concorsi in Germania (Düsseldorf, Colonia e Stoccarda),
vincendo quello relativo all’ampliamento della
neoclassica Staatsgalerie di Stoccarda; tale
progetto sarà considerato uno dei più
rappresentativi di Stirling e del gusto
postmoderno.

L’area in cui sorge il museo si trova nei pressi


del centro storico ed è caratterizzata da un
dislivello di circa dodici metri, fattore che ha
inciso nell'edificazione del nuovo complesso.

La Neue Staatsgalerie sorge dunque accanto alla


Alte Staatsgalerie, su un pendio che sale dalla
strada a doppia carreggiata, Konrad
Adenauerstrasse. Sul retro del complesso si trova
invece Urbanstrasse, raggiungibile attraversando il
complesso stesso.

Nel 1977 si tiene un concorso internazionale per progettare, la Neue


Staatsgalerie, che avrebbe rivitalizzato e rinvigorito l'influenza culturale di
Stoccarda. Una delle questioni del concorso era quella di stabilire un
collegamento con la più antica
Staatsgalerie, oltre a risolvere il problema
del pendio del sito. Nel 1979, la giuria scelse
all'unanimità il progetto di James Stirling.

L’edificio fu completato nel 1843. Dopo i


danni subiti nel corso
del secondo conflitto mondiale fu ricostruito, riaprendo già
nel 1948.

È con tale architettura, di stampo neoclassico, che Stirling


deve dialogare.

Veduta del complesso della


Staatsgalerie, con vecchio e
nuovo edificio. Il primo segnato
da una forma ad “H”, il secondo
da due “L” accostate ad
abbracciare una corte
circolare.

Il progetto di Stirling nasce


dall'idea di combinare
elementi tradizionali dei
musei classici del XIX secolo con materiali
industriali moderni che, alla fine, evocherebbero
l'essenza di un arte e di un’architettura senza tempo
ma in continua evoluzione.

L’edificio museale ideato da


Stirling si propone come un
oggetto di contemplazione
estetica. Molti aspetti della
Neue Staatsgalerie si rivelano
essere un omaggio a strutture
storiche, dall’antichità al
modernismo. Si notano, in
particolare, alcune riprese e
citazioni di elementi del museo
classico, come la rotonda, i
timpani, la trabeazione. Visti
nel loro insieme, tali elementi
trasformano il museo in un
luogo che, tra ambiguità e
ironia, riflette sulla propria
storia e il proprio significato.

Se gli esterni, come vedremo, mostrano percorsi sinuosi, volumi stravaganti,


dettagli pop dai colori sgargianti, ma anche ironiche riprese e citazioni, l'interno
delle sale appare invece più ordinato, quasi secondo la tradizionale tipologia a
galleria.

Le forme classiche del tempio vengono qui citate con questa struttura in
metallo colorato e copertura in vetro.

Il dislivello è risolto con la creazione di questo percorso in salita, segnato da tubi


colorati che ricordano quelli del Centre Pompidou.

Attraverso la salita si giunge a questa facciata ondulata


in vetro e acciaio cromato verde, la cui linea curva
contrasta con la rigidità del percorso segmentato e
delle pareti in pietra.

Questa sorta di membrana che divide


esterno ed interno è realizzata nella
linea di base su una circonferenza;
nonostante ciò, la “torsione” della linea della vetrata fa sì che
questa si componga di pannelli rettangolari irregolari, tutti
diversi fra loro.

Le porte d'ingresso non sono visibili, ma nascoste dietro


l'angolo al termine della vetrata ondulata.

L'ingresso principale, collocato sotto il tetto in acciaio


blu e vetro, consiste in due cilindri arancioni con porte a
battente.

La vetrata
ondulata, vista
dall’interno, ove
compare una
zona di sosta
per i visitatori,
vicino al banco informazioni. Il verde scelto per la struttura
della vetrata è richiamato anche all’interno, nel
pavimento in gomma stampata.

Un punto di ristoro, vivacizzato dal verde del pavimento e


dalle linee essenziali ma colorate della struttura
dell’ascensore.

Elemento fortemente classicheggiante dell’edificio di


Sterling è la corte, che richiama alla mente le più note
rotonde del Pantheon e di Schinkel.

Si noti la citazione, sempre classica, delle possenti


colonne che
inquadrano un
ingresso.

Si noti qui un certo


richiamo alla “estetica delle rovine”, con la scelta di lasciare
alcune porzioni di muratura incomplete, come cadute.

Stirling, in tutto il museo, mescola materiali


del passato, come travertino e arenaria, con l'acciaio
industriale colorato. L’intento è quello di creare un dialogo
fra arte e design del XIX secolo e i materiali moderni, idea
che si traduce in un museo unico, postmoderno,
caratterizzato proprio dalla combinazione di elementi storici
con un vocabolario moderno.
Decostruttivismo (o decostruzionismo)

La parola «decostruzione» viene usata per la prima volta nello scritto Della
grammatologia del 1967 del filosofo francese Jacques Derrida. La
decostruzione opera per una distruzione delle griglie logiche, per un
sovvertimento delle gerarchie.

Nel 1988 il MoMA (Museum of Modern Art) di New York ospita la mostra intitolata
“Deconstructivist Architecture”, organizzata e curata insieme da Philip Johnson
e Mark Wigley, nella quale espongono le proprie opere sette
architetti: Peter Eisenman, Zaha Hadid, Daniel Libeskind, Frank O.
Gehry, Bernard Tschumi, Coop Himmelb(l)au e Rem Koolhaas. I
lavori lì esposti sono accomunati dalla volontà di rompere con
l'architettura della fine degli anni '80, evidenziando con forza una
netta discontinuità con la ricerca architettonica moderna ed
anche postmoderna, il cui linguaggio viene letteralmente fatto a
pezzi.

Il Decostruttivismo si ricollega alle sperimentazioni del


costruttivismo russo* nel rifiuto netto della purezza formale della
tradizione modernista, nell’idea di infrangere l'unità, l'equilibrio e
la gerarchia della composizione classica.

*Costruttivismo russo
Il costruttivismo si sviluppò in Russia a partire dal 1917. Al pari delle altre
avanguardie europee, il costruttivismo cercò di rinnovare l'arte, collegandola alla
tecnologia e all'industria. Il suo contributo maggiore si ebbe in campo
architettonico, con proposte di nuovi edifici, caratterizzati da strutture
metalliche e superfici in vetro, che però spesso rimasero allo stato di
progetto, come il Monumento alla Terza Internazionale, progettato
da Vladimir Tatlin per celebrare la fondazione dell'Internazionale
comunista.

Il Monumento alla Terza Internazionale di Tatlin si configurava


come una gigantesca struttura a traliccio d'acciaio spiraliforme,
alta più di 400 metri; al suo interno si trovavano sospesi quattro
grandi volumi in vetro (dal basso verso l'alto un cubo, una
piramide, un cilindro e una sfera) che dovevano ospitare uffici e
sale per congressi e per spettacoli. I volumi potevano ruotare
attorno ai propri assi a velocità diverse, simboleggiando così la
continuità del funzionamento dell'istituzione.

Di questo progetto, mai realizzato, furono costruiti modelli a


grande scala, esposti nel 1920 nelle maggiori città sovietiche e a
Parigi nel 1925.

Con il Decostruttivismo si disegnano allora edifici dalle geometrie instabili,


scomponendo e disarticolando le forme e gli spazi, destrutturando le linee
dritte che si inclinano così senza una precisa necessità compenetrando
interno ed esterno degli ambienti,
sfruttando tutte le potenzialità di torsione
e piegamento di materiali edili
tecnologicamente avanzati come vetro,
acciaio, cemento armato.

Il de-, anteposto al termine


“costruttivismo”, sta a indicare la
“deviazione” dall’originaria corrente
architettonica presa a riferimento.

• Daniel Libeskind, Michael Lee-Chin


Crystal (extension to Royal Ontario
Museum), Toronto (Canada), 2007.

• Zaha Hadid, Zaha Hadid Haus, Vienna,


2005.

• Frank O. Gehry, Casa danzante, Praga,


1996.

• Libeskind, The Contemporary Jewish Museum (addition),


San Francisco Daniel (California), 2008.

• Frank O. Gehry, Ray and Maria State Center, Cambridge


(Massachusetts), 2004.

Questa nuova logica compositiva prefigura un nuovo


scenario compositivo, che sembra essere
caratterizzato dall'uso di spazialità continue,
conformate da superfici che attraverso la loro
complessità definiscono ambienti fluidi e
capaci di entrare in relazione con il contesto e
con l'ambiente fisico.

• Frank O. Gehry, Gehry Tower, Hannover,


2001.

• Frank O. Gehry, Experience Music Project


and Science Fiction Museum and Hall of Fame,
Seattle (Washington), 2004.

• Frank O. Gehry, Walt Disney Concert Hall, Los


Angeles (California), 2003.

• Frank O. Gehry, Lou Ruvo Center for Brain


Health, Las Vegas (Nevada), 2010.

1997: si inaugura
il Guggenheim Museum di Bilbao
dell’architetto Frank O. Gehry

Frank O. Gehry (propr. Ephraim Owen Goldberg; Toronto, Canada, 1929),


architetto canadese nato da una famiglia di ebrei polacchi e naturalizzato
statunitense.

Nel 1954 ottiene un diploma in progettazione urbanistica dalla Harvard University.


Lavora con l’architetto di origini viennesi Victor Gruen. Dopo un soggiorno a
Parigi della durata di un anno circa, durante il quale studia le opere più recenti di
Le Corbusier quanto le cattedrali romaniche francesi e tedesche, rientra negli
USA e apre nel 1962 il suo primo studio.

Gehry è noto per essere uno tra i maggiori interpreti del decostruttivismo:

la sua ricerca è segnata da un processo di scomposizione dell'edificio in


unità volumetriche, riassemblate poi con una solo apparente illogicità, e

dalla predilezione per le linee oblique e per materiali spesso inusuali (rete

metallica, lamiera ondulata ecc.). Le sue opere superano i principi del razionalismo,
manifestando un approccio creativo di tipo scultoreo e organico, con
suggestioni tratte dall’arte contemporanea; la sua architettura rifiuta i vincoli della
geometria euclidea ed esalta i valori plastici dei volumi, in un apparente caos
compositivo.

Alcune delle soluzioni formali di Gehry sono state messe a punto

avvalendosi delle possibilità simulatorie della progettazione virtuale. L'uso

di particolari software derivati dall'industria aeronautica (programma CATIA) gli


ha consentito di sviluppare, nel corso degli anni Novanta, architetture fatte di
forme libere e di materiali diversi in cui viene spinta al limite la dialettica tra
stabilità e squilibrio, da sempre presente nella sua ricerca. La componente
scultorea e la complessità di programma hanno raggiunto un picco con quella che
è stata riconosciuta come una delle sue opere migliori, il già citato Guggenheim
Museum a Bilbao, un’architettura che è stata capace di rilanciare l’immagine di
un’intera città.

Il museo sorge su un ex molo con uso portuale e industriale, collocato su una


curva del Nervión (fiume dei Paesi Baschi che, nel tratto finale, viene anche detto
Estuario di Bilbao). Tale scelta - nella più generale ottica di rinnovamento di Bilbao
operato negli anni Novanta dall’amministrazione locale - ha rappresentato il
recupero delle rive del fiume a
vantaggio della città, riqualificandole
per la cultura e il tempo libero.

Fondato nel 1991 e inaugurato nel 1997,


il Museo Guggenheim di Bilbao
progettato da Frank Gehry si presenta
come una spettacolare struttura in titanio, vetro e pietra calcarea.

Il museo, con 24.000 metri quadrati, di cui


9.000 utilizzati come spazi espositivi, è
dedicato all’arte contemporanea, ospita
mostre organizzate dalla Fondazione
Guggenheim e dal Museo Guggenheim di
Bilbao, nonché selezioni dalla collezione
permanente dei musei Guggenheim
(attualmente a New York, Venezia, Bilbao e Abu
Dhabi in costruzione).

Dopo avere verificato il


comportamento del materiale,
per il rivestimento esterno
dell'edificio Gehry ha scelto il
titanio: circa 33.000 lastre di
titanio estremamente sottili (0,3
mm circa) ricoprono la
struttura. I piccoli affondamenti
della superficie non dipendono
da errori di esecuzione, ma dalla
volontà dell’architetto di creare
una sorta di bugnato,
dall’effetto ruvido e organico,
che aggiunto ai cambiamenti di
colore del materiale a seconda
delle condizioni meteorologiche e
di luce contribuisce a dare alla
struttura un aspetto unico e al
contempo sempre mutevole, dal forte
impatto visivo.

La vocazione per l’arte contemporanea


si evince sin dall’esterno del museo, non
solo dal design audace e innovativo
dell’edificio, ma anche dalla presenza di
una serie di opere installate vicino alla
struttura da artisti come Louise
Bourgeois, Yves Klein, Jeff Koons, Anish
Kapoor.


(1997)

• Louise Bourgeois, Maman, 1999.

• Anish Kapoor, Tall Tree & The Eye,


2009.

• Daniel Buren, Arcos rojos, 2007.

• Yves Klein, Fire Fountain, 1961 • Jeff Koons, Puppy, 1992.


Una volta nella piazza, i visitatori accedono all’ingresso


scendendo un’ampia scalinata, espediente che ha
permesso di risolvere il dislivello tra le aree lungo il fiume
Nervión, dove si trova il Museo, e il livello più alto della città.
In questo modo, Gehry ha creato una struttura
spettacolare che, tuttavia, non appare
incombente elevandosi al di sopra dell'altezza
degli edifici adiacenti.

L’Atrio del museo presenta enormi dimensioni


(650 metri di superficie e 50 metri di altezza). Esso è
segnato dalla presenza di volumi curvi e ampie
facciate vetrate che stabiliscono un dialogo fra
interno ed esterno. Tale ambiente, coperto da un
grande lucernario, appare come uno spazio
inondato di luce.

L’Atrio è il vero fulcro compositivo


del progetto: i tre livelli dell’edificio, tra loro collegati
con passerelle, ascensori in vetro e titanio e scale,
sono organizzati attorno a
tale spazio che, dunque,
funziona come asse per le
20 gallerie, alcune di forma
ortogonale e con proporzioni
classiche e altre con linee
organiche e irregolari.

Gli spazi del museo sono ampi


e permettono di ospitare opere e installazioni di grandi
dimensioni. Qui appare l’enorme sala detta “the Fish”, lunga 170 metri e alta 24,
priva di sostegni intermedi.
2001: a Berlino si inaugura lo
Jüdisches Museum (Museo Ebraico)
dell’architetto Daniel Libeskind
Un museo della memoria ove l’architettura comunica le emozioni

Daniel Libeskind (Łódź, Polonia, 1946), di origini ebraiche, ha una formazione e


un un’attività composita, che lo vede studiare musica e poi architettura,
viaggiare tra Israele, Stati Uniti, Europa e Giappone, essere intellettuale, artista,
architetto e docente.

Nel 1988 fa parte del gruppo di architetti selezionati da per la mostra


Deconstructivist architecture al MoMA.

Nel 1989 si trasferisce in Europa, a seguito della vittoria del concorso per lo
Jüdisches Museum di Berlino, città in cui apre un nuovo studio.

Le sue architetture risentono dell'influsso delle avanguardie storiche e sono


espressione di una ricerca intellettualistica intrisa di costruzioni teoriche, talora
presentate in appositi scritti.

Tra i suoi lavori, si ricorda quello per sviluppare un Master Plan per la
ricostruzione del World Trade Center (2003-2014) dopo l’attacco dell’11
settembre 2001. Si ricordano poi l’ampliamento del Contemporary Jewish
Museum di San Francisco (California) del 2008 e il Michael Lee-Chin Crystal,
ampliamento del Royal Ontario Museum a Toronto, ispirato dalla collezione di
minerali ospitata dal museo stesso.

ARCHITETTURA e MEMORIA

In una intervista del 2011, Libeskind ha parlato del fondamentale legame fra
architettura e memoria, affermando:

“L’architettura riguarda sempre la memoria, non esiste architettura senza


memoria, l’architettura non è un esercizio formale di scultura, particolarmente in
progetti che hanno a che fare con tragedie, con eventi che plasmeranno il nostro
futuro. Bisogna saper comunicare attraverso il linguaggio dell’architettura,
che è il linguaggio della luce, il linguaggio dei materiali, delle proporzioni, il
linguaggio dell’acustica.

Per questo la storia deve essere presa in considerazione seriamente, la storia


ci insegna ma emozionandoci e la memoria per un’opera di architettura,
specialmente in edifici che hanno a che fare con essa, non è solo un questione
secondaria ma un aspetto fondamentale perché senza memoria noi saremo
completamente perduti”.

Nel 1989 Libeskind vince il concorso per


l’ampliamento del Kollegienhaus, edificio
settecentesco che dagli anni Sessanta del
Novecento ospitava le collezioni del Museo
della storia di Berlino (Berlin-Museum). Si
intende infatti creare lì un museo dedicato
alla storia sociale, politica e culturale del popolo ebraico e, in particolare, degli
ebrei in Germania, dal IV secolo ad oggi,
presentando e integrando esplicitamente,
per la prima volta nella Germania del
dopoguerra, le ripercussioni dell'Olocausto.
Un primo museo ebraico era sorto a Berlino
nel 1933, ma già nel 1938 – con la cosiddetta
Notte dei cristalli - era stato chiuso.

L’opera di Libeskind si conclude nel 1999, ma


l’allestimento e l’inaugurazione avvengono
nel 2001 (fatalmente, l’11 settembre, il giorno
del tragico attentato al World Trade Center di
New York).

Il Museo Ebraico esemplifica chiaramente,


sin dall’esterno, la funzione
commemorativa assegnata all’architettura
da Libeskind: la pianta vuole essere un
richiamo al simbolo ebraico della Stella di
David, che qui viene però sconvolto e
decostruito.

Il museo, per la sua forma, è anche noto


come “Blitz” (“fulmine”, “saetta”), in cui
alcuni hanno letto una metafora della
catastrofe che si è abbattuta non solo sul popolo ebraico, ma
sulla storia mondiale (la Shoah).

L’edificio è completamente rivestito con lastre di zinco, tagliate


da finestre allungate che appaiono come lacerazioni, ferite
nell’epidermide metallica.

Tale motivo è stato ispirato a Libeskind dal


racconto di una sopravvissuta, che ha parlato del
suo viaggio nei vagoni piombati verso i campi di
sterminio, dicendo che l’azzurro del cielo
intravisto attraverso le fessure è ciò che l’ha
aiutata a resistere.

L’idea progettuale di Libeskind: “Between the Lines”

Il progetto – come si può comprendere osservando


dall’alto l’edificio - si fonda sull’incontro-scontro tra
una linea retta e una spezzata, dinamica e
aggressiva, che nell’insieme della pianta assume la
forma di una stella di David distorta. Libeskind
immagina la continuazione di entrambe queste linee
attraverso la città di Berlino e oltre.

Nei punti di intersezione di queste linee


Libeskind crea degli spazi vuoti (i “Voids”,
segnati in grigio nel disegno qui sopra), che
salgono verticalmente dal piano terra fino al
tetto.
Questi “vuoti” materializzano la “non
visibilità” della presenza ebraica a Berlino
(presenza nell’assenza).

I “Voids”, lo spazio vuoto della Memoria e le “foglie cadute”

All’interno sono presenti alcuni ambienti vuoti definiti simbolicamente e


architettonicamente “Voids” (“vuoti”). Fra questi, uno ospita l’installazione
“Shalechet” (“foglie cadute”), dell’artista israeliano Menashe Kadihman. Il
visitatore cammina su circa 10.000 piastre di ferro, collocate sul pavimento;
queste raffigurano dei volti umani, spesso con le bocche spalancate. L’opera è
dedicata alle vittime della Shoah e, in generale, a tutte le vittime di guerra e
violenze. Il rumore generato dal passaggio sulle piastre evoca nel visitatore
l’angosciante ricordo di tutti quei morti, facendo desiderare di uscire al più
presto dalla sala, senza tuttavia poter smettere di calpestare le teste delle vittime.

All’edificio creato da Libeskind si accede


dall’adiacente Berlin-Museum - che oggi ospita il
caffè, il punto informazioni, gli uffici ed esposizioni
temporanee - tramite un corridoio sotterraneo che
porta il visitatore in un sistema labirintico di pieni e
vuoti, architettonico e
concettuale.

Il corridoio sotterraneo si
divide in tre assi, metafora
della storia del popolo
ebraico:

1. Il primo è emblema della prigionia e conduce alla


“Torre dell’Olocausto”, uno spazio chiuso, freddo e
buio alto 20 metri simile a un ambiente carcerario;

2. Il secondo simboleggia la fuga verso l’esilio e conduce al “Giardino ETA


Hoffmann” (Giardino dell’Esilio) con 49 steli inclinati di cemento su cui sono
piantati alberi; qui il pavimento è sconnesso per disorientare il visitatore;

3. Il terzo percorso, l’Asse della Continuità, conduce verso le scale che


portano alle sale espositive al piano superiore.

L’Asse dell’Esilio e l’Asse dell’Olocausto nei sotterranei dell'edificio


Libeskind.

In quest’opera Daniel Libeskind utilizza la


comunicatività emozionale del messaggio
architettonico per rendere tangibile la
storia del popolo ebraico e della Shoah. Il
progetto è finalizzato a raccontare
“sensorialmente” il dolore vissuto dalla
popolazione ebrea a causa di tutte le forme di
tortura fisica e psicologica inflitte dal regime
nazista. I corridoi del piano inferiore sono
caratterizzati da pareti e pavimenti inclinati: Libeskind non ha voluto
realizzare un museo piacevole,
accattivante; al contrario, ha voluto
comunicare, attraverso le forme, una
sensazione di disagio.

Torre dell’Olocausto, spazio chiuso,


freddo e buio alto 20 metri simile a un
ambiente carcerario. La sensazione che
qui si genera è quella di una
claustrofobica angoscia.

Il Giardino dell’Esilio, con 49 steli


inclinati di cemento su cui sono piantati
alberi; qui il pavimento è sconnesso per
disorientare il visitatore.

Anche qui ritorna l’idea di


comunicare il disagio
attraverso l’architettura, con la
realizzazione di pareti espositive
fortemente inclinate, che rendono
“scomoda” la visita.

I vari espedienti di Libeskind, come le


numerose finestre-ferita, e l’utilizzo
continuo della linea obliqua generano,
tuttavia, ambienti fortemente dinamici,
contribuendo ulteriormente a tenere alta
l’attenzione del visitatore.

La realizzazione si ispira alle capanne Sukkah che vengono


utilizzate per i raduni durante la festa ebraica di Sukkot.
L'estensione ha un tetto in vetro trasparente e facciate continue
che offrono una vista libera sul giardino. In estate è possibile
aprire le porte scorrevoli lungo il prospetto frontale inferiore per
trasformare il cortile in uno spazio esterno.

La corte vetrata realizzata da Libeskind nel 2007 nell’edificio


storico del “Kollegienhaus”.
Il museo necessitava di un’area multifunzionale che fornisse
spazio aggiuntivo per il ristorante del museo, ma anche per
eventi, per conferenze, concerti e cene.

2000: si inaugura a Londra la


Tate Modern,
frutto di un recupero edilizio progettato dallo studio Herzog&De Meuron

In linea con la volontà di rivalorizzare


l’area disagiata di Southwark, nella zona sud di Londra, negli anni ‘90 del
Novecento furono avviate due importanti iniziative:

• La riconversione della vecchia centrale termoelettrica di Bankside a spazio


museale, impresa affidata nel 1995 dalla direzione della Tate Gallery alloo studio
di architetti svizzero Herzog & de Meuron;

• La realizzazione del Millenium Bridge, su progetto dello studio di Norman


Foster.

Londra, Tate Modern. Veduta tratta dalla riva


nord del Tamigi. Si noti sulla sinistra il
Millennium Bridge
realizzato da Norman
Foster (architetto già
incontrato per la Great
Court vetrata realizzata al
British Museum) e
inaugurato nel 2000. Il
ponte conduce
praticamente davanti alla Tate Modern.

Il progetto di recupero e
rifunzionalizzazione della
struttura industriale vede il
mantenimento dello scheletro
originario dell’ex centrale di
Bankside - progettata nel 1947 e
chiusa nel 1981 - caratterizzata da
mattoni rossi. Parimenti, viene
conservata la svettante
ciminiera, alta 99 metri.
L’esterno vede solamente
l’aggiunta di due piani vetrati
che corrono lungo tutta la
lunghezza del tetto.

L’interno è stato invece


svuotato, così da ottenere una
vasta superficie espositiva,
pari a 14.000 metri quadrati,
votati a ospitare opere d’arte
moderna e contemporanea.

La Turbine Hall è la vecchia sala delle turbine della centrale elettrica.

Dalla Turbine Hall, tramite scale o ascensori, si sale al primo piano, dove ci sono
la biglietteria, il punto informazioni e dei negozi.

La Turbine Hall, grazie alle sua ampie dimensioni, è risultata uno spazio iconico
perfetto per ospitare sculture di grande formato e installazioni site-specific
appositamente commissionate ad autori contemporanei.

2016: Switch House, l’ampliamento della della


Tate Modern

Nel 2016 la Tate Modern ha inaugurato la Switch


House, il nuovo ampliamento - di ben 10 piani e oltre
22.000 metri quadrati - collocato alle spalle dell’edificio
originario e progettato da Herzog & de Meuron, lo stesso studio che si era
occupato del recupero della vecchia centrale.

La struttura in cemento si presenta come una sorta di tronco di piramide che ha


subito una torsione. Reinterpretando la muratura della centrale elettrica in un
modo radicalmente nuovo, la Switch House è rivestita da un reticolo perforato di
336.000 mattoni. Ciò consente alla luce di filtrare all’interno durante il giorno e
di percepire l’illuminazione interna all’esterno durante la sera, trasformando il
materiale solido e massiccio in un velo che copre lo scheletro in cemento del
nuovo edificio.

2009: ad Atene apre il


Museo dell’Acropoli
dell’architetto Bernard Tschumi

Nel 2000 è stato bandito un concorso


internazionale per la realizzazione del nuovo
museo dell’Acropoli: il progetto scelto,
dell’architetto svizzero Bernard Tschumi in
team con lo studio greco di Michael
Photiadis, è stato
realizzato e
inaugurato nel
2009, dotando
così la città di un
museo lungamente atteso. L’architettura vuole essere
minimalista e contemporanea, pensata come
scenografia per valorizzare le sculture senza
sovrastarle. Particolare attenzione è stata data
all’uso della luce naturale.

La particolare posizione dell‘area ha portato a


diverse riflessioni in merito. Collocato ai piedi dell'Acropoli, il sito doveva
dialogare con scavi archeologici sensibili, con la città contemporanea e la sua
griglia stradale e con il Partenone. Queste condizioni, combinate con un clima
caldo in una regione terremotata, hanno condotto al progetto di un museo
semplice e preciso, in linea con la chiarezza matematica e concettuale dell'antica
Grecia.

Da notare la presenza dei lucernari.

L’edificio si articola su tre livelli.


L’ultimo, ospitante la Galleria del
Partenone, è leggermente ruotato
rispetto agli altri.

La base del museo


galleggia su pilotis (pilastri)
sopra gli scavi
archeologici esistenti,
proteggendo il sito con una
rete di colonne. Questo
livello contiene l'atrio
d'ingresso, spazi per mostre temporanee, un
auditorium e tutte le strutture di supporto.

Una rampa di vetro che domina gli scavi


archeologici conduce alle gallerie centrali, a forma di
spettacolare sala a doppia altezza sorretta da alte
colonne.

Le Cariatidi sull’Eretteo (qui sopra)


sono delle copie.

Quelle originali sono conservate al


Museo dell’Acropoli; una, tuttavia, è a Londra, al British
Museum, ove è giunta nel 1816 insieme ai marmi del Partenone
venduti al museo inglese da Lord Elgin.

La luce naturale che filtra dalle grandi


finestre e scende dai lucernari nel tetto crea
la sensazione di uno spazio arioso, evocando
l'atmosfera a cielo aperto del santuario
sull'Acropoli, dove originariamente
figuravano le antiche sculture qui esposte.

Il percorso culmina nella Galleria del Partenone, collocata nella parte superiore
al terzo livello, leggermente ruotata rispetto ai piani
sottostanti.

Lo spazio appare come una vasta sala con pareti di


vetro che avvolgono un nucleo rettangolare.
L’orientamento e le dimensioni di tale spazio
corrispondono a quelli della cella originale del
Partenone.

L’esposizione combina sculture in marmo originali con


copie in gesso di quelle conservate nel British Museum
o in altri musei stranieri. Le pareti di vetro che racchiudono la galleria forniscono
illuminazione naturale e consentono una linea di vista diretta tra le sculture e il
monumento da cui provengono.

Lo sfruttamento della luce naturale è uno degli aspetti più importanti del
progetto di Tschumi. Essendo quello dell’Acropoli, per larga parte, un museo di
sculture, una particolare attenzione alla luce era essenziale per una percezione
ottimale dei reperti, che inoltre dovevano essere fruibili e ben leggibili da
molteplici punti di osservazione. La soluzione è stata di fornire agli ambienti una
buona illuminazione naturale attraverso grandi vetrate distribuite su tutto il
perimetro dell’edificio, e di dotare la Galleria del
Partenone di lucernari.

Per evitare un eccessivo riscaldamento da


irraggiamento, sono state installate speciali
vetrate basso emissive ad elevato isolamento
termico.

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