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Renzo Piano ampliamento del Kimbell Art Museum, Fort Worth

Trascrizione Audio

Siamo in Texas, a Fort Worth, di fronte a un celebre capolavoro della storia


dell’architettura del Novecento: il Kimbell Art Museum, progettato dal maestro americano
Louis Kahn e inaugurato il 4 agosto 1972. Permettetemi il ricordo di una visita di vent’anni
fa. Il sole faceva luccicare le pareti di travertino, mentre il cemento disegnava il ritmo
delle volte, leggermente schiacciate in alto, e la copertura giocava con l’intenso azzurro
del cielo. Sotto i piedi, la terra letteralmente suonava: prima il soffice battito del prato,
poi le note alte della ghiaia ed infine, sotto un portico di fronte a una vasca d’acqua, il
rumore leggero di una lastra di pietra più compatta. Alla fine del cammino c’era un piccolo
bosco, con gli alberi allineati come soldati, e poi dietro una parete di vetro, filtrava
l’interno di uno spazio, inondato da una spettacolare luce argentea. Nell’orgoglio texano,
tra le mucche e il petrolio, c’è anche uno dei più affascinanti musei d’arte del mondo.
Peccato che le sonorità del camminare siano da sempre poco ascoltate su questi territori,
così devoti all’uso massiccio dell’automobile. Ci voleva Renzo Piano per rinnovare
l’esperienza della processione nel paesaggio che Kahn aveva voluto per avvicinarsi al suo
museo. All’architetto e senatore italiano, infatti, è stata affidata la progettazione di un
nuovo padiglione, in un difficile e impegnativo confronto col maestro americano, che tra
l’altro, Piano ha conosciuto di persona. A sinistra del vecchio parcheggio inizia il nuovo
progetto, che si dispone all’ascolto dello storico capolavoro come il visitatore del museo
di fronte alle grandi opere d’arte di questa piccola ma straordinaria collezione. Un lavoro
avviato dai fondatori, i coniugi Kimbell, negli anni Trenta e poi affidato a Richard Fargo
Brown, il direttore che negli anni Sessanta incarica Luis Kahn di disegnare la nuova sede.
Imboccata la rampa, scendiamo in un luminosissimo garage sotterraneo, le cui vellutate
pareti in cemento sembrano luccicare sotto le lampade, anticipando così uno dei motivi
conduttori dell’ampliamento del museo, subito battezzato “Piano pavilion” dai
committenti americani. Saliamo verso l’uscita e ci fermiamo nel primo dei tanti punti di
vista offerti dal nuovo progetto. Siamo a fianco all’ingresso del “Piano pavilion”, ma
l’occhio corre, quasi obbligatoriamente, verso il fronte dell’edificio di Kahn: leggiamo
chiaramente le tre navate che lo costituiscono, con i due “portici” laterali e quello
centrale, arretrato e nascosto da un filare d’alberi. Poi c’è il confronto delle dimensioni:

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300 piedi (circa 91 metri e mezzo) è la lunghezza totale del fronte, perfettamente
tripartito, dell’edificio di Kahn e altrettanto misura il nuovo ampliamento, diviso in tre
parti simmetriche che idealmente prolungano il modulo originale, ma opportunamente
distanziate da una striscia di verde. Mentre l’altezza di entrambi gli edifici si attesta sui
21 piedi (circa 6 metri e mezzo). Così, per non cadere nella “trappola” del prolungamento
del modulo dell’edificio storico, che lo stesso Kahn ventilava, Piano sceglie di staccarsene,
rispettandone le misure. Ed ora entriamo nei nuovi spazi. La lobby è un grande vuoto che
prepara la visita: alle nostre spalle la parete vetrata è un affaccio sull’edificio di Kahn,
mentre quella di fronte conduce alla parte interrata. A sinistra e a destra, oltre le pareti
in cemento, troviamo le due gallerie principali, sotto i piedi abbiamo un pavimento di
legno che ospita gli impianti e in alto vediamo “in esposizione” il sistema costruttivo della
copertura con sette file di doppie travi di legno, che in mezzo stringono le linee
dell’illuminazione artificiale e in alto reggono i voltini semitrasparenti della copertura.
Qui, anche l’occhio meno esperto non può fare a meno di cogliere il raffinato gioco di
rimandi alla lezione di Kahn, che ci piace sottolineare nel dettaglio della doppia trave,
riflesso con funzioni di “spazio servente” sulle pareti e sul pavimento. Una figura che nelle
gallerie si smaterializza grazie all’uso dei teli tirati tra le coppie di travi, lungo il filo
inferiore, in modo da disegnare una copertura piana adatta a filtrare la luce sulle opere
d’arte. Ecco, ora siamo nel cuore del nuovo spazio espositivo. L’impostazione data alla
collezione originale è andata avanti inalterata fino ad oggi, secondo una politica delle
acquisizioni fondata su poche e straordinarie opere. Il colpo più recente è l’acquisto del
piccolo quadro intitolato "Il tormento di Sant’Antonio", attribuito al giovane Michelangelo,
con le conseguenti polemiche degli esperti. Ma è meglio non addentrarci in questo campo,
ancor oggi densamente minato, e invece prendere posizione in un angolo veramente
magico della South East Gallery. Un punto dal quale possiamo godere la vista di uno
spettacolare confronto fra le carte nascoste dagli abilissimi “Bari”, nelle magistrali
interpretazioni di due collerici geni della pittura del Seicento europeo: quella del francese
Georges de la Tour, collocata su un pannello chiaro, e del nostro Caravaggio, sospesa sulla
parete in cemento. Non facciamo in tempo a riprenderci dalla stupefazione quando, sulla
parete opposta, scorgiamo le allegorie virgiliane dipinte da Francois Boucher alla fine del
Settecento, con una partitura cromatica la cui luminosa sensualità è esaltata dalla parete
in cemento che ospita le quattro grandi tele. Potremmo andare avanti ancora molto, ma
dobbiamo concludere la visita con l’ala interrata del “Piano pavilion”. Qui troviamo due
nuovi spazi che svolgono funzioni importanti per progetto. Il primo è una sala

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controsoffittata con opere della cultura mesoamericana, illuminata dalla luce artificiale
e da un cannocchiale di luce naturale. Il secondo è occupato dai due livelli
dell’auditorium, definito dalle poltroncine rosse, dai pannelli di legno per l’acustica e da
una vetrata affacciata su una parete inclinata in cemento. Sappiamo che il dettaglio
costruttivo occupa un ruolo strategico in ogni progetto elaborato dal “Building Workshop”
di Renzo Piano. Qui al Kimbell ci sembra di poter dire che la poetica del pezzo singolo che
costruisce l’opera, lasci il posto a una coro di elementi che suonano le rispettive parti
entro una cassa armonica dove è protagonista l’operad’arte. E visto che tra le nuove opere
d’arte conservate al Kimbell museum ci sono, oltre a quelle già citate i dipinti di El Greco,
Rubens, Tiepolo e Tintoretto, una scultura di Bernini e un’architettura di Louis Kahn che
a sua volta contiene tele di Cezanne, Monet e Picasso, l’opera di Renzo Piano, in continuità
con la grande tradizione museografica italiana, allestisce una geniale macchina espositiva
dedicata alla storia stessa della collezione. La prova risiede nel finale della visita che qui
abbiamo raccontato: torniamo fuori dall’ingresso, giriamo a sinistra verso la strada, e dopo
aver percorso il lato corto dell’edificio, saliamo sul soffice manto erboso sotto il quale c’è
l’auditorium. Qui si vede bene la copertura del Piano pavilion, ma soprattutto, mentre
scendiamo sul lato opposto, lungo il parapetto di cemento, appare di nuovo l’edificio di
Kahn nel suo splendore Guardando la successione delle volte a cicloide, ricordiamo le
parole del maestro americano: “L’edificio si sente, ed è bello sentirsi così, come se io non
avessi nulla da spartire con lui, come se un’altra mano lo avesse fatto. Perché lui è ciò
che viene prima costruito”. Puntiamo ora lo sguardo sulle travi binate del nuovo
padiglione e rileggiamo una bella frase di Renzo di Piano: “credo che la nostra opera sia
sempre un oggetto non-finito: perché l’architetto fa partire qualcosa, ma il futuro
naturalmente gli sfugge”. È questo, oggi, il poetico segreto degli architetti del museo
Kimbell: separati da quarant’anni di distanza, hanno costruito due edifici che interpretano
la storia del proprio tempo, senza alcuna pretesa di lasciare un segno personale nel futuro.

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