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Cicerone nacque nel 106 a.C. ad Arpino da una ragguardevole famiglia equestre. Fu l’unico in famiglia a tentare la carriera politica e
diventò homo novus, come Mario. Si trasferì a Roma per studiare retorica con:
• Antonio Grifone: Atticista.
• Quinto Ortensio Ortàlo: Asiano.
Il suo primo trattato retorico fu il “De invenzione”, utile per ricostruire le fonti, i maestri, gli esempi della sua formazione. Pronunciò le
sue prime orazioni in pubblico, e nel 79 a.C. fece un viaggio in Grecia:
• Ad Atene: Frequentò la scuola di Antioco di Ascalona.
• A Rodi: Frequentò le lezioni di Posidonmio, e Apollonio Melone sfrondò la sua eloquenza da una certa ridondanza giovanile.
4 anni dopo il viaggio in Grecia, cominciò la sua carriera politica diventando questore in Sicilia. Tanto abile fu la sua amministrazione,
che i siciliani gli affidarono nel l’accusa nel processo contro l’ex governatore Verre. E con la vittoria si proclamò grande oratore. La sua
carriera crebbe, diventando edile, pretore urbano ed infine console. Come tale fronteggiò il colpo di stato di Catilina, rendendolo
inefficace e conquistandosi il titolo di “padre della patria”.
Ma fece un passo falso, che lo condannò all’esilio: CONDANNÒ A MORTE SENZA LA PROVOCATIO AD POPOLUM I CONGIURATI RIMASTI A ROMA .
Tornato a Roma, assunse la difesa di Tito Annio Milone, e, avendo destato il sospetto del triumvirato, fu mandato proconsole in
Cilicia: ormai a Roma era una figura politica di secondo piano. Le cose andavano male sia per la politica sia per la famiglia.
Così poté dedicarsi solo ai prediletti studi filosofici. Alla morte di cesare, egli tornò a difendere la res publica, andando contro
l’erede di Cesare, Marco Antonio: da qui le orazioni dette “Filippiche”. Ma Anonio, con Ottaviano e Lepido, fatte le liste di
proscrizione uccisero Cicerone: gli furono mozzate le mani e la testa al fine di metterle in mostra.

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La straordinaria qualità dell’eloquenza ciceroniana forse deriva dal fatto che rifiutò subito sia la magniloquenza dell’asianesimo
sia la scarna asciuttezza dell’atticismo, elaborando uno stile oratorio personale, attingendo a tutte le risorse dell’arte del dire.
Cicerone definiva il suo maestro Demostene (oratore greco), e si può dire che l’abbia superato di gran lunga. Caratteristiche:
• L’ampio e simmetrico giro della frase.
• I periodi organizzati secondo esatte norme prosodiche e ritmiche.
• Il lessico elegante (privo di arcaismi, grecismi, tecnicismi), preciso e ricco.
• La costruzione dei contenuti logica ed incalzante.

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Tratto dal “De Oratore” di Cicerone, cap 1 vv 30-33. Qui Cicerone ci fa capire esplicitamente l’importanza che ha per lui l’oratoria,
ovvero l’arte di saper parlare riuscendo a convincere chi ascolta le nostre parole. E non solo, ci pone delle domande, che appaiono
quasi retoriche, ma che inducono quasi noi che leggiamo a rispondere a queste domande, e a concordare con la sua tesi. Nel testo
originale latino sono presenti, ad inizio frase, numerosi “Quid” quasi come un’allitterazione. Inoltre è presente spesso anche il
costrutto “tam…quam…”, quasi come se volesse incalzare, e portarci sempre di più a pensarla come lui. In fondo, è Cicerone no? Egli
inoltre sottolinea come l’oratoria sia quella caratteristica che contraddistingue l’uomo da tutti gli altri animali.

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1 Fino a che punto dunque, Catilina, abuserai della nostra pazienza?


Quanto a lungo ancora questa tua follia si prenderà gioco di noi?
Fino a che punto si spingerà la tua sfrenata temerarietà?
Non ti hanno minimamente turbato il presidio notturno sul Palatino, né le pattuglie di guardia in città, né la paura della gente,
né l’accorrere di tutti gli onesti, né questo luogo molto protetto per riunirvi il Senato, né l'espressione del volto di questi?
Non senti che i tuoi progetti sono stati scoperti?
Non vedi che la tua congiura è ormai immobilizzata dalla consapevolezza di tutti costoro?
Chi di noi pensi che ignori cosa tu abbia fatto la notte scorsa, quella precedente, dove tu fossi, chi tu abbia convocato, che decisione tu
abbia preso?

2 Che tempi! Che costumi!


Il senato conosce queste cose, il console (le) vede, tuttavia costui vive. Vive?
Anzi in verità viene persino in senato, è fatto partecipe delle sedute, nota e indica con gli occhi ciascuno di noi per ucciderlo.
Noi d'altra parte, uomini forti, sembriamo fare abbastanza per lo Stato, se evitiamo i folli attentati di costui.
Bisognava che tu, o Catilina, fossi condotto a morte già da tempo per ordine del console, e che su di te sarebbe dovuta ritorcersi la
rovina, che tu macchini contro di noi già da tempo.

3 Se dunque un uomo assai illustre, Publio Scipione, pontefice massimo, da privato uccise Tiberio Gracco che moderatamente
danneggiava la prosperità dello stato: noi consoli sopporteremo Catilina desideroso di il mondo con stragi e incendi?
E certamente vado oltre quelle cose troppo antiche come ad esempio Caio Servilio Ahala che uccise con la sua mano Spurio Melio che si
era dedicato (alle imprese straordinarie) alla rivoluzione.
Ci fu, un tempo in questo stato ci fu tanta virtù che gli uomini forti punivano un cittadino pernicioso con torture tanto orribili quanto il
più crudele dei nemici.
Abbiamo contro di te, o Catilina, una deliberazione del senato, severa e dura, non manca allo stato la saggezza o l’autorità di
quest’ordine: noi, lo dico apertamente, noi consoli gli manchiamo.

Cicerone sa ciò che ha fatto Catilina, ma non ha le prove per dimostrarlo. Quindi cerca di fare un fenomenale bluff, utilizzando
tutta la sua abilità oratoria. Cicerone esordisce rivoltando una valanga di domande con tono di accusa contro Catilina, che incalzano
man mano, e da l’idea che Cicerone si stia davvero adirando sempre più e che parli a braccio, mentre è tutto perfettamente
calcolato. Egli sostiene che i suoi piani sono di dominio pubblico, in modo tale da non esser costretto a darne una descrizione
dettagliata, potendo così continuare il suo bluff. Uno spettacolo di prestigio verbale. In modo da sottolineare la gravità dei fatti,
Cicerone ricorre anche alla tecnica del richiamo a fatti precedentemente accaduti. Il testo evidenzia l’abilità “costruttiva” dei
periodi di Cicerone, e con la brevitas delle sue frasi rende l’impressione di uno sfogo violento e concitato, come se le parole
uscissero così di getto, mentre così non era.
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Lo stato è ciò che appartiene al popolo, ed un popolo non è qualsiasi insieme di persone, ma una società organizzata che ha per
fondamento l’osservanza della giustizia e la comunanza d’interessi. Popolo = unione di cittadini con leggi ed interessi comuni.

La causa prima che spinge gli uomini ad unirsi non è come si potrebbe pensare solo il bisogno di reciproco aiuto, ma bensì una
naturale inclinazione dell’uomo stesso a vivere insieme.

Ogni stato per essere stabile deve essere retto da un’autorità giudicante. Il governo quindi deve essere affidato:
• Ad un uomo solo: Monarchia (degenera in Tirannide).
• Ad uomini scelti: Aristocrazia (degenera in oligarchia).
• Al popolo: Democrazia (degenera in oclocrazia).

Monarchia: Quando tutto il potere è nelle mani di un uomo solo, noi chiamiamo re colui che governa e regno tale forma di
costituzione politica. Tuttavia, nei regimi monarchici, la massa dei cittadini è esclusa dall’esercizio dei diritti politici.

Diremo invece che uno stato è governato dai migliori, quando solo al potere gli uomini più autorevoli ed illustri. Ma, in tali governi,
viene soppressa la libertà in quanto si priva il popolo di una partecipazione effettiva al potere pubblico.

E infine diremo che una costituzione è democratica quando il potere è esercitato da il popolo, condizione per nulla augurabile. Ma in
esse l’eguaglianza dei diritti politici è sbagliata perché non ammette distinzioni secondo meriti individuali.

Nessuna di queste tre forme di governo è dunque perfetta, né migliore delle altre due.

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In questo testo Cicerone esalta la costituzione “mista” di Roma. Essa infatti presenta tutte e tre le forme di stato:
• Nei consoli si rispecchiava la monarchia.
• Nel senato si rispecchiava l’aristocrazia.
• Nei comizi popolari si rispecchiava la democrazia.
Per quanto esse da sole non siano mai perfette né superiori alle altre, insieme permettono una stabilità ed un equilibrio della
distribuzione dei poteri invidiabile, che avrebbero evitato ogni forma di degenerazione. Naturalmente tutto ciò doveva fondarsi sulla
concordia tra i vari ceti sociali e le varie espressioni del potere, infatti è la discordia che minaccia dall’interno uno stato.

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