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LE RIFORME (FALLITE) DEI GRACCHI

La società Nel corso del II secolo a.C. avvengono profonde trasformazioni sociali, favorite dall'enorme quantità di denaro
romana che le spedizioni in Oriente fanno affluire a Roma. I Romani si trovano ad essere molto più ricchi di quanto lo
verso la fossero stati in passato, ma la ricchezza non è distribuita in eguale misura. I profitti maggiori vanno alle classi
metà del II più agiate e accanto ai ricchi proprietari di terreni, appartenenti per lo più alla vecchia aristocrazia senatoria, si
secolo colloca una nuova classe sociale, la cui ricchezza proviene dagli appalti statali (quelli degli approvvigionamenti
agli eserciti, delle opere pubbliche e della riscossione delle imposte). Questa nuova classe è quella degli equites,
dei cavalieri (ricchi come i senatori ma non impegnanti attivamente in politica), alla quale sono iscritti tutti
coloro che hanno un censo di 400.000 sesterzi, e che accresce continuamente la propria ricchezza con attività
che assumono in questo periodo grande sviluppo, come il commercio marittimo e il prestito a usura. Ai nuovi e
rapidi guadagni non si sottraggono, malgrado il divieto esplicito della lex Claudia del 218, nemmeno molti
esponenti della vecchia aristocrazia: vecchi senatori come Catone, speculatori, affaristi, usurai, corrotti e
corruttori, impegnati sia sul fronte politico che su quello economico, non esitano a influenzare il corso degli
avvenimenti politici per esclusivo interesse personale (si pensi, come esempio, alla distruzione di Cartagine).
Dunque, tutto il potere in mano a pochissimi e ricchissimi uomini, il cui interesse principale, al di là della
retorica del bene dello Stato, era diventare ancora più ricchi e ancora più potenti. In breve, al vertice della
piramide sociale, strutturata in base al reddito, competono tra loro due ordini, quello dei senatori (l’antica
aristocrazia fondiaria) e quello dei cavalieri (la nuova aristocrazia legata agli appalti statali, al commercio,
all’usura). Seguono poi cinque classi intermedie e infine i proletari, o nullatenenti, che non prestano servizio
militare (poiché non possono pagarsi l’armamento). Come animali o oggetti di proprietà venivano, per ultimo,
gli schiavi. Il problema per Roma, che portò alla fine della Repubblica, fu l’assoluta incapacità della stragrande
maggioranza dei suoi rappresentanti politici di pensare in termini di giustizia sociale. L’esempio più eclatante è
quello della cosiddetta questione agraria. Solo una minima e irrisoria parte delle terre conquistate erano destinate
a soddisfare le esigenze sempre più urgenti dei contadini: la maggioranza dei nuovi territori venivano
trasformati in ager publicus. “Pubblico” per modo di dire, perché ai ricchi riusciva facile, con la forza o con
l’inganno, allontanare i più deboli dalle terre comuni e accaparrarsele. Le ultime distribuzioni di terra in
proprietà risalgono all’inizio del II secolo: dopo il 180 non si fece più nulla del genere, e grandi estensioni del
territorio italiano rimasero agro pubblico, non sorvegliato dalle autorità e man mano occupato abusivamente da
senatori e cavalieri. Come immediata e tragica conseguenza scompare quasi del tutto la piccola proprietà
contadina, rovinata:
 dall’ arruolamento obbligatorio: la progressiva decadenza della classe contadina rende sempre più difficile
il reclutamento degli eserciti; infatti solo i proprietari sono soggetti al servizio militare, e poiché il loro
numero diminuisce è necessario tenere più a lungo sotto le armi le stesse persone, il che provoca un sempre
maggiore disagio;
 dalle tasse e dai debiti: i lunghi periodi di servizio militare tengono le braccia più valide lontano dai poderi,
che spesso devono essere venduti a basso prezzo ai ricchi latifondisti (che non sono coltivatori, ma
imprenditori e speculatori) per la necessità di pagare i tributi e i debiti nel frattempo contratti;
 dalla concorrenza della manodopera servile: sul solo mercato degli schiavi di Delo vengono trattati in certi
periodi fino a 10.000 capi al giorno; il mercato fornisce questa merce a prezzo talmente basso che il lavoro
dei salariati non è più conveniente; scacciati dalla terra, ex-proprietari e braccianti confluiscono a Roma,
dove accrescono la massa dei sottoproletari che vivono a spese di uno Stato che dona sotto forma di
elemosina ciò che toglie come diritti politici e giustizia sociale.
Il partito degli affaristi è incontestabilmente il più forte, e può contare, paradossalmente, su di una magistratura
che era stata creata per difendere gli interessi del popolo: il tribunato della plebe. Nel secolo II a.C. questa
magistratura è controllata dall'aristocrazia senatoria. Fra i dieci tribuni in carica è sempre possibile, mediante
minacce o corruzione, trovarne qualcuno disposto a diventare lo strumento della classe di potere, e a favorirne
gli interessi mediante proposte di legge o l'uso del diritto di veto.
Una Dunque, verso la metà del II secolo, dopo la fase dell'impetuosa espansione nel Mediterraneo, Roma si trovava
situazione in una situazione politica bloccata, poiché la nobiltà senatoria che controllava il potere appariva arroccata in
bloccata difesa dei propri privilegi. Rifiutava
 di affrontare il problema della distribuzione dell'agro pubblico ai contadini, impoveriti o diventati
nullatenenti;
 di concedere la cittadinanza romana agli Italici, per paura di non controllare più le assemblee popolari;
 di associare i cavalieri alla gestione del potere, per timore di perdere la propria supremazia politica.
Il ceto senatorio mostrava insomma un'incapacità di rinnovamento rispetto alle profonde trasformazioni
economiche e sociali che erano avvenute in un secolo di conquiste. All'interno dell'oligarchia dominante lo
scontro politico - che aveva per oggetto la conquista delle magistrature e le scelte del senato - consisteva nella
lotta tra fazioni di nobili, basate (come sempre a Roma) sulle appartenenze familiari e aggregate intorno a leader
di prestigio. All'interno della nobiltà c'era chi si rendeva conto della necessità di introdurre alcune riforme, per
migliorare la condizione dei ceti poveri e più in generale per evitare il rischio che i cambiamenti che si erano
prodotti sfociassero in tensioni non controllabili. Si contrapposero così due schieramenti:
 gli ottimati (optimates, da optimi, i "migliori"), come si autodefinivano con superiorità i membri della
nobiltà senatoria conservatrice;
 i popolari (populares), ovvero la minoranza riformista, che godeva dell'appoggio dei cavalieri, dei ricchi
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plebei, degli Italici.
La plebe oscillava dividendosi tra i due schieramenti secondo i rapporti di clientela e appoggiava ora gli uni ora
gli altri, in base ai vantaggi immediati che poteva trarne.
II progetto I fratelli Tiberio e Caio Gracco, legati da rapporti di parentela agli Scipioni (la loro madre, Cornelia, era figlia
dei Gracchi dell'Africano), erano due aristocratici riformatori. I Gracchi compresero che l'immiserimento dei piccoli
proprietari espropriati della terra poteva compromettere il funzionamento dell'esercito, quindi la sopravvivenza
stessa della repubblica. Le legioni erano infatti costituite dalla massa dei contadini-soldati e la scomparsa della
piccola e media proprietà agricola rischiava di privare Roma dei suoi legionari. Occorreva quindi attuare una
riforma agraria e mettere mano alla ridistribuzione dell'agro pubblico, suddividendolo in appezzamenti da
assegnare ai contadini e al proletariato urbano, in modo che questi potessero trarne i mezzi di sussistenza. Si
sarebbe così rinvigorito il ceto dei piccoli contadini, risanata la vita delle miserabili plebi urbane e, al tempo
stesso, limitato lo strapotere dei grandi proprietari, perché le terre sarebbero state espropriate a partire dai
Tiberio e la latifondi
Il maggiore più dei
estesi.
due fratelli, Tiberio Sempronio Gracco (162-133), presentò questi progetti di riforma facendosi
riforma eleggere nel 133 tribuno della plebe. Avrebbe potuto così far approvare leggi a cui il senato non aveva il potere
agraria di opporsi. Impressionato dallo spopolamento delle campagne italiche, coltivate ormai soprattutto da schiavi,
(133) Tiberio propose una legge agraria:
 che limitava il possesso di agro pubblico da parte di un cittadino a 500 iugeri (125 ettari), più 250 iugeri per
ogni figlio, fino a un massimo di 1000 iugeri;
 che obbligava chi ne possedesse di più di restituirli allo stato, che avrebbe ridistribuito la terra alla plebe in
piccoli lotti di circa 30 iugeri, inalienabili (cioè invendibili), per evitare che i ricchi se li ricomprassero;
 che poneva una netta distinzione fra proprietà dell'agro pubblico, che rimaneva statale, e usufrutto, che
poteva essere concesso ai privati: questo toccava ancora di più gli interessi dei latifondisti (soprattutto
senatori) che si consideravano proprietari a tutti gli effetti dell'agro pubblico loro assegnato.
La legge, anche se non penalizzava molto i grandi proprietari ai quali sarebbe rimasta una quota cospicua di
terre pubbliche, suscitò la drastica opposizione del senato: quando Tiberio la sottopose all'assemblea della plebe
il senato cercò di bloccarla, inducendo l'altro tribuno, Ottavio, a porre il veto. A questo punto Tiberio fece
destituire il collega dai comizi, in base al principio, del tutto nuovo per le istituzioni romane, che un
rappresentante del popolo potesse essere destituito dal popolo stesso. Poi fece approvare la legge dai comizi e
propose inoltre che il tesoro lasciato in eredità a Roma dal re di Pergamo Attalo venisse utilizzato per finanziare
l'avvio delle coltivazioni nei lotti di nuova assegnazione. L'anno seguente Tiberio sfidò la legge che impediva la
rielezione consecutiva alla stessa magistratura ripresentando la propria candidatura a tribuno. Gli avversari
ebbero buon gioco ad accusarlo di voler instaurare un potere personale: un mattino egli è assassinato a colpi di
sgabello da un gruppo di senatori e dai loro sgherri protetti dall'immunità statale. Il suo cadavere è trascinato per
la città e gettato nel Tevere. L’assassinio politico entrava così nella vita romana: la politica non era più in grado
di risolvere il conflitto di interessi sorto in seno alla repubblica. Si noti che l’aristocrazia conservatrice non
ignorava affatto la gravità della crisi agraria, e sapeva bene che da essa derivavano le difficoltà sempre maggiori
nel reclutamento degli eserciti. Ma per uscire dalla crisi aveva la sua ricetta, che era molto diversa da quella
graccana: cioè abbassava il livello di ricchezza necessario per l’iscrizione alla quinta classe. In tal modo i
cittadini che avevano così poca terra, o così poco denaro, da essere confusi coi proletari, erano arbitrariamente
promossi nella categoria dei possidenti, e diventava possibile chiamarli alle armi. In origine, erano iscritti alla
quinta e ultima classe coloro che avevano un patrimonio di almeno 11.000 assi (l’asse era una moneta di
bronzo); dopo la seconda guerra punica il limite era stato abbassato a 4.000 assi; in età graccana scese ancora,
alla cifra irrisoria di 1.500 assi. E’ chiaro che a questo punto il principio del cittadino che si arma a proprie spese
in caso di guerra doveva essere abbandonato, e perciò lo stato forniva armi e vestiario a tutta la fanteria.
Così lo storico Plutarco (I-II secolo d.C.) ricorda Tiberio Gracco: “Eppure, benché la riforma fosse tanto mite e
il popolo se ne contentasse, dimenticando il passato, pur di essere sicuro dell'avvenire, i ricchi e i facoltosi,
presi dall'avarizia, avversarono profondamente la legge e si sdegnarono ostinatamente contro il legislatore,
tentando di ingannare lo stesso popolo, dicendo che Tiberio proponeva quella divisione per mettere a
soqquadro la Repubblica e per sconvolgere ogni cosa. Ciò nonostante nulla ne ricavarono. Perché Tiberio,
contendendo con essi per una legge tanto giusta e buona con la forza della sua eloquenza, era inesorabile e
invincibile quando, salito sul podio e attorniato da gran folla di popolo, parlando in favore dei poveri diceva
che perfino le belve in Italia si satollavano, avevano pane e covili per ricoverarsi; mentre quelli che
combattevano e affrontavano la morte per difendere la stessa Italia, non avevano altro che l'aria e la luce,
mancavano di casa e di luoghi dove riposarsi e andavano vagando qua e là coi figli e con le mogli; che i
comandanti di eserciti mentivano quando nelle battaglie incitavano i soldati a difendere i sepolcri e gli altari
dei loro numi, perché neppure un solo Romano povero vi era che avesse un sepolcro di antenati e un altare
La politica paterno;
Un ma più
decennio tuttitardi,
morivano pervenne
nel 123, procacciare agli altri
eletto tribuno gioiedie Tiberio,
il fratello piaceri; Gaio
e mentre erano Gracco
Sempronio chiamati signori del
(154-121). La
di alleanze tragica esperienza del fratello gli aveva fatto capire che doveva assicurarsi più solide alleanze politiche,
di Gaio altrimenti nessuna riforma avrebbe mai superato l’opposizione dei senatori. Con un’apposita legge Gaio:
(123-121)  aprì ai cavalieri l’accesso al tribunale che giudicava gli abusi dei magistrati nelle province, fino ad allora
composto solo da senatori, con il risultato di ridimensionare il potere senatorio e accrescere il peso politico
dei cavalieri;
 a favore del proletariato urbano fece passare una legge frumentaria che prevedeva la vendita di grano a
prezzi controllati; per ridurre la disoccupazione avviò opere pubbliche; progettò di assegnare la terra ai
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meno abbienti attraverso la fondazione di nuove colonie;
 affrontò il problema della concessione della cittadinanza romana agli alleati italici, che da tempo la
chiedevano: con moderazione e prudenza, propose che intanto venisse riconosciuta ai latini.
Gaio venne rieletto tribuno nel 122 (grazie a una nuova legge che lo permetteva) e, confidando sul consenso che
riteneva di avere conquistato, riprese il progetto di riforma agraria del fratello Tiberio. La nobiltà senatoria riuscì
però a presentare l’estensione della cittadinanza agli Italici:
 come un danno per il proletariato romano, che avrebbe dovuto dividere con loro il lavoro e i benefici
derivati della legge frumentaria;
 come un danno per i cavalieri, che avrebbero perso il monopolio negli appalti e altri vantaggi economici a
favore di commercianti e affaristi italici.
Plebe urbana e cavalieri, pur tenendosi stretti i benefici offerti loro da Gaio, gli voltarono le spalle. Nel 121 a
Gaio non riuscì la terza elezione al tribunato e quando scoppiarono disordini il senato affidò ai consoli poteri
straordinari: nella repressione molti graccani vennero uccisi e lo stesso Gaio, vistosi perduto, si fece uccidere da
un suo servo.

L’ASCESA DI MARIO, LA GUERRA GIUGURTINA E LA GUERRA SOCIALE


La guerra I problemi sollevati dalle riforme tentate dai Gracchi restavano irrisolti. La nobiltà più conservatrice liquidò la
contro legislazione riformistica, con l'eccezione dei provvedimenti utili a tenere sotto controllo i ceti poveri, come le
Giugurta leggi frumentarie. Nel 118 morì il re di Numidia Micipsa e il regno venne diviso in tre parti fra i suoi figli,
(112-105) Iempsale e Aderbale, e il nipote Giugurta, che aveva combattuto a Numanzia a fianco di Scipione Emiliano.
Giugurta si proclamò unico re: prima eliminò Iempsale poi, nel 112, conquistò la città di Cirta, dove si era
rifugiato Aderbale, massacrandone la popolazione, compresi numerosi mercanti romani. Il fatto scatenò le
proteste dei cavalieri contro il senato, accusato di arrendevolezza, anche perché non era un mistero il fatto che
Giugurta corrompeva i senatori affinché gli fosse lasciata mano libera. Il senato si risolse a dichiarare guerra, ma
l'intervento contro Giugurta fu condotto in modo pessimo e senza convinzione. Il discredito della nobiltà
cresceva sempre di più. I popolari colsero l'occasione per riaprire la loro lotta politica: nel 107, con l'appoggio
dei cavalieri, fecero eleggere console Caio Mario (157-86), appartenente a una famiglia italica di rango equestre.
Mario ebbe il comando della guerra giugurtina e impresse una rapida svolta al conflitto: due anni dopo, nel 105,
condusse in trionfo a Roma Giugurta incatenato.

La riforma Mario era un uomo nuovo, cioè il primo della sua famiglia a giungere al consolato; più ancora della vittoria
dell’esercito contro Giugurta ebbe grande importanza la riforma dell'esercito che egli introdusse appena ottenuto il consolato.
Vista la difficoltà ad arruolare la plebe contadina, sempre meno numerosa, egli aprì il servizio militare a tutti
coloro che si fossero offerti come volontari, anche se nullatenenti; i legionari, dopo una ferma di 16 anni,
avrebbero ricevuto all'atto del congedo un appezzamento agricolo. Si creava in tal modo il primo nucleo di un
esercito professionale, più efficiente, con soldati regolarmente pagati, in servizio permanente e quindi meglio
addestrati, ma anche un esercito che poteva diventare uno strumento nelle mani di generali ambiziosi: un rischio
che si tramuterà presto in realtà.
Le vittorie Nel 104 Mario fu rieletto console e, fatto senza precedenti, rimase in carica per cinque anni consecutivi, con il
su Cimbri e compito di combattere contro i Cimbri e i Teutoni. Queste due popolazioni di stirpe germanica nei loro
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Teutoni spostamenti compivano incursioni e razzie tra la Spagna e la Gallia e ora minacciavano l'Italia settentrionale,
(102-101) risvegliando nei romani le vecchie paure legate al saccheggio dei Galli del 390. Mario sconfisse i Teutoni ad
Aquae Sextiae (l'odierna Aix-en-Provence) nel 102, e i Cimbri ai Campi Raudii, presso Vercelli, nel 101. Anche
se legati a una situazione di emergenza militare, gli anni di consolato di Mario costituirono una svolta storica.
Tradizionalmente il comando militare apparteneva ai consoli in quanto uomini politici, ora era un comandante
ad assumere, e per lungo tempo, il massimo potere politico in virtù delle sue capacità militari.
Il ritiro di Le vittorie di Mario ingigantirono il suo prestigio presso le masse romane e rafforzarono la fazione dei popolari.
Mario dalla Il tribuno Saturnino, leader dei popolari e alleato politico di Mario, propose nel 100 una legge che assegnava ai
vita politica veterani di Mario cospicue estensioni di terra nelle province, con una clausola che impegnava i senatori a non
(98) abrogare in futuro la legge. Il provvedimento suscitò l'ostilità del senato e sollevò gravi disordini, che Mario, in
qualità di console, fu costretto a reprimere, andando contro agli interessi dei suoi stessi soldati; perse così
l'appoggio dei ceti popolari. Nel 98 egli decise perciò di ritirarsi dalla via politica (momentaneamente, come
vedremo).
La riforma Come abbiamo più volte ricordato, gli Italici premevano per ottenere la piena cittadinanza romana. Per la nobiltà
fallita di italica la cittadinanza significava la possibilità di partecipare al governo, per i commercianti una tutela politica e
Druso (91) giuridica pari a quella dei loro colleghi romani; gli Italici dovevano inoltre versare tributi, a differenza dei
romani, ma restavano esclusi dalle distribuzioni di terre e di grano. La salita al potere di Mario riaccese le
speranze degli Italici, ma la questione venne posta all'ordine del giorno solo con Marco Livio Druso, tribuno
della plebe. Nel 91 Druso presentò un progetto di riforma che prevedeva la cittadinanza per gli Italici, oltre
all'ampliamento delle distribuzioni pubbliche di grano, per favorire la plebe urbana. Si trattava di una riforma
moderata, che mirava ad allentare le tensioni sociali. Ma l'opposizione degli ottimati fu ancora una volta
durissima: Druso venne ucciso da un sicario e la sua legislazione venne cancellata.
La Guerra La fine di Druso fece comprendere agli Italici che il senato non avrebbe mai accettato le loro richieste. Non
sociale (90- rimaneva loro che impugnare le armi contro Roma. La guerra, che durò tre anni, dal 90 all’88, fu chiamata
88) “sociale” (da socii, alleati) o “italica”, perché gli Italici erano i più pericolosi fra gli insorti e si dimostrarono i
più tenaci. La guerra sociale fu forse la più difficile mai combattuta da Roma, perché gli eserciti nemici erano
composti di uomini che per molto tempo avevano militato al fianco dei legionari romani, ed erano abituati a
usare le stesse armi e la stessa tattica. I ribelli erano scesi in campo per conquistare con la forza il diritto di
cittadinanza, che non avevano potuto ottenere con mezzi legali. Ma ben presto fra gli Italici si affermò uno
scopo ben diverso: la separazione da Roma e la formazione di uno stato federale indipendente . Furono emesse
monete con la scritta “Italia” (si noti che questo nome acquistava per la prima volta un significato politico, dopo
essere stato usato in senso puramente geografico). Roma si salvò perché alcuni alleati rimasero fedeli: i Latini
(che godevano già di molti privilegi), le poleis della Magna Grecia che, orgogliose delle loro tradizioni, non
avevano mai chiesto la cittadinanza; i popoli della pianura padana (Galli, Veneti, Liguri). Le province non si
mossero. Dopo aver subito varie gravi sconfitte la Repubblica affidò il comando degli eserciti schierati sui vari
campi di battaglia ai suoi migliori generali, come Gaio Mario e Lucio Cornelio Silla, e infine costrinse i ribelli
alla resa. Tuttavia, mentre ancora si combatteva, erano state emanate alcune leggi che concedevano la
cittadinanza agli alleati della penisola rimasti fedeli e altre che promettevano la cittadinanza ai ribelli che si
fossero arresi. Roma dunque vinse la guerra sul piano militare, ma la perse sul piano politico. L’Italia si avviò
comunque a diventare un'unica entità politica, senza più barriere o differenze giuridiche interne, e lo Stato
romano venne a comprendere l'intera penisola a sud del Po.

MARIO CONTRO SILLA OVVERO LA PRIMA GUERRA CIVILE (88-78)


Gli Dopo la morte di Alessandro il Grande, e soprattutto dopo la decadenza della Siria, in Asia Minore si erano
antefatti: la formati numerosi regni indipendenti; nel I secolo a.C. essi avevano accettato, più o meno spontaneamente, la
guerra supremazia di Roma. Mitridate VI, re del Ponto, concepì il disegno di modificare la situazione a proprio favore:
contro occupò la provincia romana di Asia e subito dopo ordinò alle città greche dell'Asia Minore, che nella grande
Mitridate maggioranza si erano schierate dalla sua parte, di mettere a morte tutti i Romani e gli Italici che si trovavano
(88-85) presso di loro (88 a.C.): il massacro fu terribile (decine di migliaia di morti). Mitridate inviò una parte delle sue
forze in Grecia, ove trovò nuovi entusiastici sostenitori (fra l'altro ad Atene).
La Prima Nel corso dell' 88 Roma si accinse alla riconquista dei suoi domini orientali: il comando dell'esercito fu affidato
guerra a uno dei due consoli, Lucio Cornelio Silla. Questa scelta suscitò le ire di Mario poiché Silla era un esponente
civile (88- fra i più intransigenti degli ottimati, e i suoi seguaci riuscirono con la violenza a far votare nell’assemblea della
78) plebe la sostituzione di Mario a Silla nel comando dell'esercito. La reazione di Silla andò molto oltre tutti gli
episodi precedenti: egli si rifiutò di cedere il comando, marciò su Roma con le sue legioni, e occupò
militarmente la città. Per la prima volta truppe regolari romane entravano nella capitale come in una città
nemica. Mario, con grande stento, riuscì a fuggire. Poi Silla parti per la Grecia. Approfittando della lontananza
di Silla, a Roma i popolari ritornarono al potere, perseguitando gli avversari politici e richiamando in patria
Mario, eletto ancora una volta console. Mario morì però nell'86, poco dopo l'elezione, lasciando i popolari senza
una guida autorevole. L'avvicinarsi del ritorno di Silla riaccese lo scontro tra le opposte fazioni e quando Silla
sbarcò in Italia nell’83, forte dei successi ottenuti, delle ricchezze accumulate in oriente e con un esercito di
fedelissimi, si aprì nuovamente la guerra civile. Con Silla si schierarono le truppe guidate da due giovani ma
abili comandanti: Marco Licinio Crasso e Gneo Pompeo; i popolari si allearono invece con i Sanniti, irriducibili

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avversari di Silla dai tempi della guerra sociale. La guerra civile, violentissima, si concluse sul piano
strettamente militare, con la vittoria dei sillani nella battaglia di Porta Collina (82). Silla si fece nominare
dittatore a tempo indeterminato con potere di legiferare. Era una carica inedita, che snaturò del tutto la
tradizionale funzione della dittatura, essenzialmente militare, non politica, e di durata in ogni caso limitata a sei
mesi. Silla ebbe così mano libera per eliminare fisicamente gli avversari attraverso le cosiddette liste di
proscrizione, cioè elenchi pubblici di cittadini dichiarati traditori dello stato, che chiunque era autorizzato a
uccidere impunemente; i beni dei proscritti venivano confiscati dallo stato, i lori figli privati della cittadinanza.
Si aprì una feroce caccia all'uomo, che fu l'occasione anche per vendette personali e per arricchimenti ottenuti
con l'assassinio: un quarto dei senatori e 1600 cavalieri furono uccisi senza processo, i loro beni confiscati e
distribuiti tra i sostenitori di Silla. Costituì nella pianura padana una nuova provincia col nome di Gallia
Cisalpina. Il confine fra la provincia e il territorio amministrato direttamente da Roma era segnato dai fiumi
Rubicone (sul versante adriatico) e Magra (sul versante tirrenico). Il dittatore si preoccupò anche di evitare che
altri potessero seguire il suo esempio, cioè imponessero la propria volontà al senato con la forza delle armi;
perciò estese a tutta la penisola appenninica, dal Magra e dal Rubicone fino allo stretto di Messina, la zona in cui
era vietata la presenza di truppe regolari. Silla poi confiscò le proprietà dei suoi nemici e distribuì le terre cosi
ottenute ai suoi veterani, per assicurarsi la loro fedeltà anche in futuro. Convinto di avere agito per il bene della
repubblica, nel 79 Silla si ritirò spontaneamente dalla vita politica e l'anno seguente morì.

GLI ANNI DI POMPEO E DI CRASSO, LA RIVOLTA DI SPARTACO E LA CONGIURA DI CATILINA


Quinto L'autorità del senato, restaurata con la forza, doveva tornare a essere, nelle intenzioni di Silla, il perno della vita
Sertorio e politica romana. Ma il senato non era più in grado di garantire una guida salda: il potere a Roma si giocava
l’ascesa di sempre più nei termini di un dominio personale sulle istituzioni, come lo stesso Silla aveva dimostrato. Gli anni
Pompeo successivi alla morte di Silla (78) videro la repubblica alle prese con nuove difficoltà:
(76-72)  in Spagna era in corso un'insurrezione guidata da Quinto Sertorio;
 in Italia scoppiò un'estesa ribellione di schiavi capeggiata dal gladiatore trace Spartaco;
 in Oriente Mitridate aveva riaperto le ostilità, alleandosi con i pirati che infestavano il Mediterraneo.
Le contromosse di Roma ebbero come protagonisti Gneo Pompeo e Marco Licinio Crasso. Pur non avendo
percorso la carriera politica, Pompeo ricevette dal senato l'incarico di reprimere in Spagna la rivolta di Quinto
Sertorio, un generale di Mario che, non riconoscendo il regime di Silla, aveva gestito la provincia come un
territorio di fatto autonomo: aveva offerto rifugio a numerosi partigiani di Mario e si era alleato con le
popolazioni indigene in lotta contro Roma per l'indipendenza. Pompeo giunse in Spagna nel 76 e si trovò
coinvolto in una guerra impegnativa, in cui riportò pochi successi. Soltanto grazie al tradimento di un ufficiale,
Sertorio fu sconfitto e ucciso (72): Pompeo tornò a Roma vincitore e il suo prestigio ne risultò accresciuto.
Spartaco e Già nel II secolo a.C. i grandi proprietari romani e italici impiegavano, nell'agricoltura e nella pastorizia, quasi
l’ascesa di esclusivamente schiavi, che costavano poco, e, diversamente dai liberi, potevano essere sfruttati senza alcun
Crasso limite. Si trattava, in generale, di prigionieri di guerra; ma anche in tempo di pace la richiesta di schiavi era
(73-71) altissima, e i mercanti se li procuravano facendo scorrerie nei paesi confinanti con le province romane, oppure
acquistandoli dai pirati del Mediterraneo orientale: in certi periodi le autorità tolleravano la pirateria per non
ostacolare questo lucroso commercio. Crescevano perciò la disoccupazione e la miseria tra i lavoratori liberi, e
intanto si formavano, specialmente in Italia e nella provincia di Sicilia, grandi masse di schiavi, che dalla loro
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triste condizione e dalla coscienza del loro numero erano facilmente spinti a ribellarsi. Infatti le rivolte - che non
erano un fatto nuovo - dall'età graccana in poi divennero così pericolose, e così difficili da reprimere, che si
parlò di vere e proprie «guerre servili». Una categoria particolare tra gli schiavi era costituita dai gladiatori. I
duelli di gladiatori ebbero origine in Etruria, dove si svolgevano in occasione di cerimonie funebri. Da principio
Roma imitò il costume etrusco ma col tempo quello che era stato un rito divenne un puro e semplice spettacolo.
Gli schiavi destinati a questa attività erano i più temibili, sia perché si sceglievano tra i più forti, sia perché,
dovendo comunque farsi uccidere, era facile che preferissero rischiare la vita nel tentativo di riacquistare la
libertà. L’ultima e la più grande rivolta servile cominciò nel 73, in una “scuola” presso Capua dove i gladiatori
si allenavano. Il primo nucleo dei ribelli comprendeva solo una settantina di uomini, ma fra questi c’era un capo
di eccezionali qualità militari e organizzative, il trace Spartaco. Egli trascinò ben presto al suo seguito gli schiavi
di varie regioni del Mezzogiorno ed anche molti uomini liberi, soprattutto tra i braccianti agricoli (si calcola che
il suo esercito arrivasse a contare fino a 120.000 uomini). La generale situazione di miseria faceva dunque
cadere la barriera che separava gli schiavi dai liberi, e creava una solidarietà tra tutti i diseredati. Sospendendo il
divieto imposto dalla legge sillana, il senato autorizzò i consoli a mobilitare un esercito in Italia, ma essi furono
più volte battuti. I gladiatori fuggitivi incominciavano a fare davvero paura! Spartaco ed i suoi uomini erano
inizialmente diretti verso le Alpi. Probabilmente da lì sarebbero poi usciti dall’Italia, magari raggiungendo la
Tracia o tentando di uscire dalle regioni sotto il controllo di Roma, con buona pace di Roma stessa, che
probabilmente non sarebbe più intervenuta. Tuttavia, per ragioni a noi del tutto sconosciute, Spartaco, ormai
vicino alle Alpi, forse sotto richiesta dei suoi uomini, decise di fare marcia indietro, compiendo scorribande e
saccheggi e provocando ancora l’intervento dell’esercito romano. Questa volta il senato affidò il comando a
Marco Licinio Crasso: schierando ben otto legioni (ogni legione era formata fa circa 6.000 uomini) egli riuscì
nel 71 a sconfiggere i ribelli presso il fiume Sele, in Campania. Spartaco morì combattendo eroicamente, con la
maggior parte dei suoi; i prigionieri (circa 6.000) furono crocifissi lungo tutta la via Appia da Capua a Roma.
Il consolato Rientrati a Roma vincitori, Pompeo e Crasso chiesero il consolato per l'anno 70. Non ci furono opposizioni, né
di Pompeo e potevano essercene con gli eserciti dei due generali non ancora smobilitati. Il senato diffidava del potere
Crasso (70) crescente di Pompeo e Crasso, ma stava attraversando una fase di particolare debolezza perché era investito da
scandali per il malgoverno nelle province. Clamoroso fu, proprio nel 70, il processo contro Gaio Verre, corrotto
propretore in Sicilia nei due anni precedenti. La causa era patrocinata da un giovane avvocato, Marco Tullio
Cicerone, stimato per la sua onestà, che trasformò il processo in un atto d'accusa contro il governo provinciale
senatorio. Seppure cresciuti tra le file dei sillani, Pompeo e Crasso, per allargare le proprie alleanze,
smantellarono le riforme di Silla:
 restituirono pieni poteri ai tribuni della plebe;
 ampliarono le frumentazioni a favore del popolo;
 consentirono nuovamente ai cavalieri di accedere ai tribunali per i reati di corruzione.
Pompeo Scaduto il mandato consolare, Pompeo e Crasso per qualche tempo non ricoprirono cariche pubbliche. Nel 67
contro i una legge proposta dal tribuno Aulo Gabinio e molto contrastata dal senato istituì un comando militare con
pirati (67) e poteri eccezionali per risolvere l'assillante problema della pirateria, che minacciava l'approvvigionamento
contro alimentare di Roma. Il destinatario, anche se non nominato, era Pompeo (in quel momento privato cittadino),
Mitridate che infatti ottenne l'incarico: con un gran numero di uomini, navi e il potere militare assoluto (imperium
(66-65) proconsulare maius) su tutte le terre affacciate sul Mediterraneo, fino a 80 km dalla costa, Pompeo riuscì in
pochi mesi a debellare i pirati, che, risospinti in Cilicia, furono costretti ad arrendersi. Grazie al brillante
successo, nel 66 Pompeo ottenne pieni poteri nella guerra contro Mitridate, re del Ponto, che era tornato a
minacciare i possessi romani in Oriente. Nel giro di due anni Pompeo sconfisse Mitridate: il Ponto fu aggregato
alla provincia di Bitinia e vennero create le provincia di Siria e di Cilicia. La sistemazione dei domini orientali,
dunque, accrebbe enormemente il potere personale di Pompeo, mentre a Roma proseguiva la lotta politica.
Crasso cercava di rafforzarsi e a lui si opponeva in senato la nobiltà tradizionalista, tra i cui leader vi era il
conservatore intransigente Catone Uticense, nipote di Catone il Censore (che a suo tempo aveva combattuto gli
Scipioni e l'apertura di Roma all'Oriente). La posizione di Marco Tullio Cicerone, uomo nuovo originario di
Arpino, in Italia centrale, era più duttile, perché propugnava un'alleanza tra la nobiltà e i cavalieri come unica
via per salvare l'ordine sociale e la repubblica. Dopo avere percorso la carriera politica fino alla pretura,
Cicerone fu eletto console nel 63, segno che la nobiltà senatoria aveva deciso di concedergli fiducia. Un altro
giovane e ambizioso politico, Caio Giulio Cesare (100-44), discendeva invece da una delle più antiche stirpi
romane, benché decaduta, la gens Giulia. Era imparentato a Mario per parte materna e aveva sposato Cornelia,
figlia di Lucio Cornelio Cinna, esponente di primo piano dei mariani. Cesare apparteneva alla fazione dei
popolari, si mosse con spregiudicatezza per trovare di volta in volta gli appoggi giusti per la sua ascesa politica.
Protetto da Crasso, scalò tutte le tappe del cursus honorum e attendeva l’occasione giusta per farsi eleggere al
consolato.
Cicerone e Nel 63 un grave episodio turbò Roma, a testimonianza di quanto fosse degradata la vita politica della città. Tra i
la congiura politici che cercavano di emergere c'era Lucio Sergio Catilina, presentato dalla tradizione storiografica, per lo
di Catilina più a lui ostile, come un nobile decaduto e ambizioso, che aveva tutte le qualità e i vizi di un capobanda e che,
(63-62) fin dagli inizi della sua attività, aveva mostrato la sua ferocia, sia durante le proscrizioni di Silla, sia, come
propretore, al governo della provincia d'Africa. Respinta dal senato la sua candidatura al consolato, egli cercò di
raggiungere il potere con l'appoggio dei veterani di Silla, di nobili indebitati, di avventurieri che speravano di
trarre profitto da un sovvertimento politico. Un primo complotto, cui non furono estranei Crasso e Cesare, fallì
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nel 65 a.C. Viste deluse anche, nel 64 e nel 63, le sue candidature legali al consolato, decise di ricorrere alla
forza e ordì una congiura che si proponeva la conquista del potere con un'insurrezione in Roma, sostenuta
all'esterno da un esercito raccolto in Etruria, tra i contadini disperati dalle continue vessazioni dei latifondisti. Il
piano sedizioso fu denunciato da Cicerone, allora console, con una celebre orazione e Catilina, abbandonata la
capitale, raggiunse l'esercito del suo luogotenente Caio Manlio in Etruria. I complici rimasti a Roma e scoperti,
nonostante il parere contrario di Cesare, furono condannati a morte e, senza regolare processo, immediatamente
giustiziati. Catilina fu vinto e ucciso a Pistoia nel 62, dopo aver combattuto con un coraggio che lo riscattò in
parte dal suo torbido passato e che può confortare l'opinione di quanti credono che la sua causa mirasse a
ragionevoli riforme politico-sociali, scaltramente eluse dalla classe politica egemone. L’interpretazione della
congiura va cercata ben al di là dei fatti. Catilina non è che l’ennesima manifestazione di un malessere profondo
prodotto da un sistema politico e economico ingiusto e corrotto. Cicerone e le classi sociali da lui rappresentate
fecero di tutto per illudersi che la congiura fosse la causa e non l’effetto della degenerazione politica. Ma la
lezione che si trae da quegli avvenimenti è semplice: la classe dirigente repubblicana non merita di sopravvivere
perché non è più in grado di governare. E non è più in grado di governare perchè non ha più fede nella libertà e
nel diritto, non ha più fiducia in quelle istituzioni che proprio lei è preposta a difendere. La congiura di alcuni
nobili rovinati non avrebbe dovuto costituire di per sé un grave pericolo. Assai più grave sarebbe dovuta
apparire un'altra circostanza: per la seconda volta in dieci anni i contadini erano stati spinti dalla miseria a
ribellarsi, dapprima nel Mezzogiorno con Spartaco, ora in Etruria con Catilina. L’aristocrazia non fece nulla per
porre rimedio al problema sociale, ignorato dai tempi degli “omicidi di Stato” dei Gracchi, ed anche in tal modo
firmò la propria condanna.
II ritorno di In quel 62 Pompeo rientrò dall'Oriente, carico di bottino e di gloria. Ci si poteva attendere (e il senato lo temeva)
Pompeo a un atto di forza contro le istituzioni, ma Pompeo, sbarcato a Brindisi, sciolse l'esercito, limitandosi a chiedere al
Roma (62) senato la ratifica dei provvedimenti presi in Oriente e la concessione di terre ai suoi veterani. Il senato considerò
un segno di debolezza l'atteggiamento di Pompeo e si oppose alle sue richieste, con l'intento di riaffermare la
propria autorità sulle questioni di politica estera e di compromettere il prestigio di Pompeo agli occhi dei suoi
soldati. I senatori si preclusero così la possibilità di trovare un accordo con la personalità politica più autorevole
del momento, accordo che fu invece trovato da Cesare, più lungimirante dei senatori a capire l’aria che stava
tirando.

IL PRIMO TRIUMVIRATO: CESARE, POMPEO E CRASSO PADRONI DI ROMA


Il primo Nel 60, infatti, di ritorno dalla Spagna Ulteriore come propretore, Giulio Cesare colse l'occasione delle tensioni
triumvirato tra il senato e Pompeo per proporre a quest'ultimo un accordo politico. Pompeo lo avrebbe sostenuto
(60) nell'elezione a console (dato che Cesare, favorevole ai popolari, non poteva contare sul favore del senato) e in
cambio Cesare avrebbe dato corso alle richieste avanzate da Pompeo al senato. Il matrimonio di Pompeo con la
figlia di Cesare, Giulia, sancì il patto, che coinvolse anche il ricchissimo cavaliere Crasso, anch'egli ostile al
senato, che godeva di grande influenza negli ambienti dei pubblicani e dei finanzieri. L’alleanza avrebbe dovuto
essere estesa anche a Cicerone, ma l’oratore rifiutò, intuendo che l’accordo fra i tre uomini costituiva un
pericolo per la Repubblica. L’accordo venne chiamato primo triumvirato e si trattò di un patto privato, per un
certo tempo segreto, fra tre uomini che pianificavano il controllo dello stato al di fuori di ogni procedura
istituzionale. Varrone, un erudito che visse al tempo dei fatti, definì il triumvirato "il mostro a tre teste" e
secondo lo storico Svetonio (I-II secolo d.C.) lo scopo dei triumviri era "impedire che nella repubblica si facesse
qualunque cosa a loro sgradita": in ogni caso, il triumvirato segnò un ulteriore passo nell'agonia della
repubblica. Ottenuto il consolato nel 59, Cesare diede corso agli accordi stabiliti:
 vennero distribuite terre ai veterani di Pompeo e fu ratificato l'assetto dell'Oriente;
 a favore di Crasso e dei cavalieri fu ridotto il canone d'appalto pagato dai pubblicani allo stato;
 per se stesso, invece, Cesare fece una mossa sorprendente: ottenne, allo scadere del consolato,
l'assegnazione del proconsolato della Gallia Cisalpina e Narbonese, province di ben poco rilievo rispetto a
quelle ricche orientali, che tutti aspiravano a governare per arricchirsi. Cesare aveva un progetto preciso,
che spiega le ragioni di questa scelta. Intendeva avviare una grande campagna di conquista in Gallia, per
guadagnare gloria, ricchezze e il controllo di un proprio esercito, premesse indispensabili per mettersi alla
pari con la forza di Pompeo e Crasso e poter realizzare le sue ambizioni di potere.
Poi, nel 56, con l’accordo di Lucca, i patti furono ulteriormente perfezionati:
 Cesare avrebbe avuto il proconsolato in Gallia per altri cinque anni, durante i quali si impegnò a consolidare
ed estendere il dominio romano. Oltrepassò fra l'altro il Reno, per respingere incursioni in territorio gallico
di tribù germaniche, e compì anche due brevi spedizioni esplorative in Britannia, cioè nell'odierna
Inghilterra. Era questo un territorio lontanissimo e misterioso per i romani e la notizia dell'impresa, giunta a
Roma, accrebbe ulteriormente la fama di Cesare. Ma la Gallia non era sottomessa. Tra il 53 e il 52 Cesare
dovette affrontare la sollevazione di molte tribù, guidate dal valoroso capo degli arverni Vercingetorige, che
giunse a mettere a rischio tutti i risultati fin lì ottenuti da Cesare. La battaglia decisiva, capolavoro tattico
della campagna cesariana, si svolse nell'assedio di Alesia, roccaforte dei galli; Vercingetorige fu costretto
alla resa, catturato, e la Gallia venne definitivamente sottomessa a Roma;
 Pompeo ottenne il consolato per il 55 e il governo della Spagna dal 54, dove però non si trasferì,
governando la provincia per mezzo di luogotenenti: egli preferì rimanere a Roma, seguendo da vicino gli
sviluppi della situazione politica pronto a trarne vantaggio;
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 Crasso ottenne pure lui il consolato per il 55 e il governo della Siria dal 54, per muovere guerra ai Parti (che
avevano fondato un vasto impero in Mesopotamia e minacciavano i domini romani) e procurarsi quella
gloria militare che gli mancava. L’impresa fu però sfortunata: morì in una imboscata a Carre, Mesopotamia,
nel 53.
Le bande I triumviri non dimenticarono che Cicerone si era rifiutato di collaborare con loro. Non volevano però schierarsi
armate di apertamente contro di lui e si servirono, per sbarazzarsene, di un suo nemico personale, il patrizio Publio
Clodio e Claudio Pulcro (che, per atteggiarsi a uomo del popolo, usava la forma popolare del suo nome, Clodio).
Milone Divenuto tribuno nel 58 grazie all’appoggio di Cesare, subito attaccò Cicerone per la grave illegalità che aveva
(58-52) commesso alcuni anni prima, condannando a morte i seguaci di Catilina senza concedere loro l'appello al
popolo. Dopo aver chiesto, ingenuamente, l'aiuto di Pompeo, che non mosse un dito in suo favore, Cicerone fu
costretto all'esilio e si ritirò in Macedonia. Clodio lavorava, in realtà, per se stesso, e gettava le basi di una
propria scalata al potere. Come tanti altri prima di lui, Clodio usava la violenza per dominare le assemblee; ma
superò i suoi predecessori, che si erano affidati all'improvvisazione e avevano mobilitato i loro seguaci solo nel
momento in cui erano necessari; egli invece creò una organizzazione stabile di bande armate e continuò a
servirsene anche negli anni successivi al tribunato, quando era un privato cittadino. Crasso e Pompeo (dal 58 in
poi Cesare era in Gallia come proconsole) non tardarono a pentirsi di aver lasciato mano libera a Clodio, un
alleato che stava diventando un pericoloso rivale. Riuscirono a far eleggere per il 57 vari tribuni della plebe
disposti a battersi contro Clodio. Uno di essi, Tito Annio Milone, organizzò a sua volta nuove bande armate con
cui contese all'avversario il dominio delle strade e delle piazze. Per infliggere un altro duro colpo a Clodio,
Pompeo e Crasso decisero di annullare la legge che condannava all'esilio Cicerone: questi, verso la fine del 57,
fu richiamato in patria. Cicerone, che prima dell'esilio si limitava a predicare un'alleanza fra senatori e cavalieri,
negli anni successivi tentò di mobilitare in difesa della Repubblica tutte le classi sociali (concordia ordinum),
compresi i piccoli proprietari delle campagne e perfino i liberti, cioè gli ex schiavi. Non smise però di credere
che la società romana fosse bene organizzata così com'era, respingendo di conseguenza ogni idea di riforma. Il
suo tentativo fallì dunque perché era difficile convincere a battersi per la Repubblica coloro che da essa non
avevano mai avuto, né si aspettavano, alcun soccorso. Intanto a Roma i disordini prodotti dalle bande rivali di
Milone e di Clodio continuavano. Nel gennaio del 52, durante un'ennesima rissa, Clodio fu ucciso dagli uomini
di Milone; i suoi seguaci cercarono di vendicarlo, e la città divenne un campo di battaglia. Il senato,
riconoscendo definitivamente la propria incapacità di governare, si rivolse a Pompeo perché ristabilisse l'ordine,
e lo autorizzò ad arruolare truppe. La presenza dei legionari riportò immediatamente la calma. Milone fu
processato, condannato e costretto all'esilio.

CESARE CONTRO POMPEO OVVERO LA SECONDA GUERRA CIVILE (49-44)


Lo scontro Come abbiamo visto, nel 53 Crasso si era recato in Oriente dove i Parti, molto più forti del previsto, l'avevano
tra Cesare e sconfitto e ucciso nella battaglia di Carre, in Mesopotamia. Pompeo invece, contravvenendo agli accordi, non si
Pompeo era allontanato da Roma, per controllare la situazione nella capitale. Il triumvirato, ridotto a due soli
(49-48) protagonisti, era finito. Tra Cesare e Pompeo si profilava un conflitto per il potere, anche perché a Roma
l'anarchia ormai imperava. Nel 52 il senato, che ormai considerava Cesare il suo più pericoloso nemico, assegnò
a Pompeo un incarico senza precedenti, quello di console senza collega, vale dire di console unico. Un altro
principio fondamentale dell'ordinamento romano, la collegialità delle magistrature, veniva così violato.
Formalmente la decisione era giustificata dall'esigenza di riportare l'ordine, ma in realtà il senato pensava di
utilizzare la forza di Pompeo contro Cesare e intanto si preparava a chiamarlo in giudizio per gli atti di slealtà e
di inutile ferocia compiuti contro i Galli e i Germani. La situazione si fece critica quando Cesare, allo scadere
del mandato quinquennale in Gallia, chiese di tornare a Roma non come privato cittadino ma dopo essere stato
nominato console, poiché sapeva di trovarsi esposto alle vendette del senato e di Pompeo. Il senato gli intimò
invece di sciogliere le legioni e di presentarsi a Roma da privato. Cesare, in quel momento acquartierato a
Ravenna, fece un ultimo tentativo di compromesso e si dichiarò disposto a congedare le legioni se anche
Pompeo avesse congedato le sue: il tentativo fallì e il senato, su pressione di Pompeo, dichiarò Cesare nemico
della repubblica. Non restava che la via delle armi: nel 49 Cesare superò con le sue legioni il Rubicone, che
segnava allora il confine fra la Gallia Cisalpina e l'Italia, violando la norma stabilita da Silla e dando inizio alla
seconda guerra civile. Pompeo, che non disponeva in Italia di forze sufficienti, scelse per combattere il terreno a
lui più favorevole, l'Oriente, dove poteva contare sulle vaste clientele che si era procurato al tempo della guerra
mitridatica e siriaca. Abbandonò dunque l'intera penisola a Cesare e si ritirò in Grecia, seguito da circa una metà
dei senatori. Cesare affrontò Pompeo a Farsàlo (48), in Tessaglia, vincendolo. I superstiti dell'esercito sconfitto
furono lasciati liberi: il vincitore pensava già al futuro. La sua politica si rivelò efficace: nei mesi seguenti alcuni
dei repubblicani più illustri, fra i quali Cicerone, Marco Giunio Bruto e Gaio Cassio Longino si arresero, e
furono accolti amichevolmente. Pompeo, per il quale una resa era impensabile, cercò riparo in Egitto. Qui
regnavano insieme, ma in contrasto fra loro, il giovanissimo Tolemeo XIII e sua sorella Cleopatra: quest'ultima
era stata espulsa da Alessandria e stava raccogliendo truppe con l'intento di far valere i suoi diritti. I consiglieri
del re fecero uccidere a tradimento Pompeo, sperando di ottenere la gratitudine di Cesare (il cui arrivo era
imminente) e il suo appoggio contro la regina. Cesare invece si adirò per questo crimine, che nuoceva alla sua
fama di clemenza e offendeva il prestigio di Roma: del resto Cleopatra, sfuggendo audacemente alla stretta
sorveglianza dei suoi avversari, raggiunse il generale romano ad Alessandria e lo conquistò alla sua causa. I
fautori del re insorsero — durante gli scontri fu incendiata la famosa biblioteca di Alessandria — ma furono
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sconfitti e lo stesso Tolemeo fu ucciso in battaglia. Cleopatra rimase unica regina d'Egitto; la relazione di Cesare
con la regina (dalla quale ebbe un figlio, Tolomeo Cesare detto Cesarione) servì al vincitore per tenere sotto
controllo l'Egitto senza dover assumere il compito di amministrarlo direttamente.
Verso un Dopo la sconfitta di Farsàlo, Marco Porcio Catone (pronipote di Catone il Censore), che aveva seguito Pompeo
regime in Oriente, si rifugiò in Africa e rimase al comando del presidio di Utica (città 30 km a ovest di Tunisi) mentre i
monarchico pompeiani affrontavano di nuovo Cesare nella africana Tapso (46). Alla notizia della disfatta preferì suicidarsi
(48-44) piuttosto che accettare il perdono del vincitore (per questo è ricordato come “Uticense”). Portavoce e guida
riconosciuta delle tendenze più conservatrici del senato, tenace assertore della severità degli antichi costumi e
seguace dell’etica stoica, Catone fu uomo di proverbiale e inflessibile rigore morale. Avverso ad ogni forma di
potere personale e attaccato ai valori della libertà repubblicana, condusse una battagli priva di efficacia a causa
della sua scarsa duttilità politica: fu, in sostanza, il rappresentante di un conservatorismo chiuso a ogni
compromesso ma anche alla comprensione delle nuove realtà. Venne molto presto idealizzato dagli ambienti
repubblicani e anticesariani come simbolo dell’opposizione irriducibile alla tirannide. L’anno seguente Cesare
affrontò a Munda (45) in Spagna l’ultima resistenza pompeiana, organizzata dal figlio di Pompeo, Gneo
Pompeo: il primogenito fu sconfitto e ucciso, la città invasa e distrutta. Ma, già dopo Farsàlo, Cesare era
divenuto il solo e assoluto padrone della repubblica e aveva iniziato a manovrare per gettare le basi di un regime
monarchico. Nel 44 l’evoluzione verso la dittatura si accelerò, e gli scopi di Cesare apparvero chiari anche ai più
ottimisti: un folto gruppo di repubblicani, guidati da Marco Giunio Bruto e Gaio Cassio Longino, decise in
segreto di attentare alla sua vita. Cicerone non fu informato del progetto, ma molti dei congiurati dovevano
considerarlo come proprio maestro e ispiratore. Occorreva colpire prima che Cesare partisse per la guerra contro
i Parti: il giorno delle idi di marzo del 44 (il 15 del mese) i congiurati lo assalirono mentre si recava in senato, e
lo pugnalarono mentre passava davanti alla statua di Pompeo. Ma l'assassinio di Cesare ebbe tutt'altre
conseguenze che il ritorno alla libertà e alla legalità repubblicane: aprì invece la strada alla fine della repubblica,
come vedremo.
Lo scenario
della
Seconda
Guerra
Civile tra
Cesare e
Pompeo:
49-44 a.C.

APPROFONDIMENTO 1. L’EDUCAZIONE E L’ISTRUZIONE

L'ISTRUZIONE FAMILIARE. A Roma vi era la consuetudine di deporre i bambini appena nati ai piedi del padre: il padre, se
accettava il figlio e lo riconosceva come tale, sollevava da terra il neonato e gli faceva toccare con i piedi il pavimento a
simboleggiare che lo avrebbe guidato nel cammino della vita con il suo esempio e i suoi insegnamenti fedeli al mos maiorum.
Fino all'età di sette anni i bambini e le bambine venivano affidati alle cure della madre, alla quale la società romana riconosceva
un ruolo fondamentale nell'educazione dei figli: nell'ambiente familiare i figli ricevevano la prima educazione improntata al
rispetto della religione e delle tradizioni.

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Nei tempi più antichi della repubblica, i bambini verso i sette anni ricevevano la prima istruzione da parte del padri, che, in
genere, esercitavano la loro funzione di educatori con grande coscienziosità e sollecitudine. Così si comportarono molti
personaggi illustri della storia romana che non esitarono a sottrarre tempo agli incarichi pubblici per dedicarsi all'educazione dei
figli; ad esempio Catone il Censore, vissuto alla fine del III sec. a.C., oltre a istruire personalmente il figlio Marco, compose per
lui, a caratteri grossi e facilmente leggibili, una specie di enciclopedia e una storia di Roma.
L'insegnamento dei figli maschi delle classi elevate riguardava tutto ciò che sarebbe stato utile alla formazione del futuro
cittadino: oltre agli elementi di cultura generale, essi imparavano le prime nozioni della scienza giuridica, dell'amministrazione del
patrimonio e delle proprietà, ma anche l'equitazione, il nuoto e l'arte delle armi. Le bambine, invece, apprendevano soprattutto le
attività legate alla vita domestica, ma quelle di famiglia aristocratica ricevevano, in genere, soprattutto a partire dalla tarda
repubblica, un'istruzione esauriente e completa in tutti i campi.
L'ISTRUZIONE CON PRECETTORI PRIVATI. Dopo i contatti con il mondo ellenico e la profonda influenza esercitata dalla sua
cultura, le famiglie benestanti adottarono la consuetudine di affidare a precettori greci l'educazione dei propri figli, così che il
modello educativo tradizionale venisse affiancato da una formazione greca. D'altra parte tra gli schiavi greci giunti a Roma a
seguito delle conquiste, ve ne erano molti dotati di una buona preparazione culturale, tanto che alcuni di essi divennero non solo
stimati maestri, ma anche esponenti prestigiosi del mondo intellettuale romano. La formazione culturale divenne allora bilingue,
anzi spesso i bambini affidati a nutrici greche imparavano la lingua greca prima ancora di quella latina. Inoltre, si andò sempre più
diffondendo tra le classi elevate e agiate l'abitudine di inviare i propri giovani in centri culturali prestigiosi, come Atene e Rodi,
perché approfondissero la preparazione.
LA SCUOLA PUBBLICA. Le famiglie che non potevano permettersi dei precettori privati mandavano i loro figli alla scuola
pubblica: non si trattava però di una scuola statale, ma di un'istituzione privata, i cui maestri erano pagati dagli stessi genitori degli
allievi. Solo l'imperatore Vespasiano, allo scopo di poter esercitare un controllo sull'istruzione e quindi sulla formazione degli
intellettuali, istituì la figura dell'insegnante dipendente dallo stato e, di conseguenza, diede vita alla scuola pubblica in senso
moderno. L'istruzione scolastica si articolava in tre ordini che, grosso modo, corrispondevano alla contemporanea nostra scuola
elementare, media e superiore. L'anno scolastico prevedeva dei giorni di riposo periodico, le nundinae, che cadevano ogni nove
giorni in coincidenza con il giorno di mercato, e altri giorni festivi, dies festi, in occasione di ricorrenze religiose e civili.
Probabilmente la scuola rimaneva aperta anche d'estate, ma doveva essere poco frequentata dal momento che nei mesi più caldi le
famiglie preferivano portare i figli in campagna. La durata delle lezioni era di circa sei ore, con un intervallo verso il mezzogiorno,
durante il quale i ragazzi ritornavano a casa per consumare il prandium, che non era il pasto principale della giornata, ma solo una
colazione.
LA SCUOLA ELEMENTARE, che i fanciulli frequentavano tra i sette e gli undici anni, era un edificio per nulla accogliente e
poco predisposto all'uso, costituito in genere dalla stanza di una bottega che era separata dalla strada per mezzo di una semplice
tenda. Gli allievi non disponevano di banco, ma stavano seduti su uno sgabello (sella) appoggiando sulle ginocchia le tavolette su
cui scrivevano; il maestro sedeva invece su una sedia con schienale (cathedra), posta talora su una pedana. A esercitare la
professione di maestro (litterator, magister ludi) erano uomini di estrazione sociale estremamente bassa, per lo più schiavi o
liberti, e il loro lavoro, faticoso e mal pagato, godeva di scarsa considerazione e prestigio. Forse anche per questo il maestro si
trovava spesso nella necessità di rivendicare la sua autorità sugli allievi ricorrendo a punizioni piuttosto violente come le frustate;
a questo proposito abbiamo la testimonianza del poeta Orazio che definisce plagosus, cioè «prodigo di sferzate», il suo maestro.
Nella scuola elementare gli allievi imparavano a leggere, scrivere, far di conto e successivamente anche la stenografia, cioè un
sistema grafico per abbreviare la scrittura latina. I metodi e i procedimenti utilizzati erano di tipo puramente meccanico e
ripetitivo: gli scolari imparavano a memoria dei testi, tra cui le Leggi delle XII Tavole e alcune fra le massime più note; per la
scrittura ripercorrevano con lo stilo più volte il solco tracciato che rappresentava le lettere; per il calcolo contavano per ore sulle
dita o con l'abaco, una specie di pallottoliere. Alla conclusione del primo ciclo di studi l'alunno non aveva acquisito altro che
nozioni mnemoniche, non aveva evidenziato alcun tipo di interesse e di propensione e probabilmente i suoi unici ricordi erano
quelli delle continue ripetizioni e delle percosse ricevute in abbondanza a seguito dei suoi errori.
LA SCUOLA DEL GRAMMATICUS. Terminato il ciclo elementare verso i 12 anni, i figli delle famiglie meno abbienti e le
bambine abbandonavano gli studi; i ragazzi delle famiglie che ne avevano la possibilità, invece, entravano nella scuola del
grammaticus, un ordine di studi che si diffuse dopo 1'afferrnazione della cultura greca. Questa scuola si avvaleva dello stesso
calendario e di ambienti non molto dissimili da quelli della scuola primaria; la figura del grammaticus però godeva di un prestigio
che, se non altissimo, era decisamente superiore rispetto a quello del magister ludi e percepiva uno stipendio maggiore. Questo
corso di studi impartiva un'istruzione quasi esclusivamente letteraria: i giovani studiavano la lingua e la letteratura latina e greca;
imparavano a leggere in modo perfetto dei passi scelti, soprattutto di poesia, scandendo i versi con grande precisione, rispettando
le pause e assumendo l'intonazione più adatta all'argomento; commentavano e analizzavano i testi, li esponevano oralmente e per
iscritto e ne scrivevano dei riassunti. Gli autori studiati erano in primo luogo Omero e Virgilio, poi Cicerone, Orazio e Ovidio,
le cui opere entrarono nelle scuole quando essi erano ancora in vita. La storia, la geografia, l'astronomia, la filosofia non erano
materie indipendenti e non venivano studiate in modo autonomo, ma solo in funzione dei testi letterari analizzati: ad esempio la
lettura dell'Eneide forniva 1'occasione per studiare la storia antica, quella dell'Odissea di affrontare argomenti geografici a partire
dai viaggi di Ulisse.
LA SCUOLA DEL RHETOR. A1 termine di questo ciclo e all'età di 16 anni, i ragazzi iniziavano a frequentare la scuola del
rhetor, la « scuola superiore» che avrebbe fatto di loro degli oratori. Il rhetor era uno specialista dell'arte oratoria, cioè un esperto
conoscitore delle norme stilistiche e delle tecniche espressive, e godeva di un prestigio e di una retribuzione decisamente maggiori
rispetto ai maestri delle scuole inferiori. Lo studio della retorica latina e greca era finalizzato ad acquisire la capacità di ben parlare
e di convincere: perciò in epoca repubblicana era frequentata da tutti coloro che intendevano intraprendere la carriera politica, nel
cui cursus honorum era prevista l’attività forense, mentre in epoca imperiale, dopo la perdita della libertà politica e la fine dei
grandi dibattiti forensi, si trasformò in uma scuola che proponeva solo vuote esercitazioni di stile su vari argomenti, per lo più
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futili e lontani dalla realtà. Questo genere di scuola richiedeva notevole impegno e grande applicazione, oltre che una vasta
cultura: l'aspirante oratore perfezionava la conoscenza della letteratura latina e greca, soprattutto delle opere in prosa,
approfondiva lo studio delle regole di retorica, le imparava a partire dall'analisi e dall'imitazione dei testi dei grandi oratori
(Demostene tra i Greci e Cicerone erano i maestri riconosciuti) e si esercitava in esposizioni orali e in componimenti scritti.
Inoltre, per prepararsi a discutere su qualunque argomento, egli era chiamato ad argomentare da due punti di vista diversi e tra
loro contrari sulla stessa materia, inventando casi astrusi sui quali dibattere in orazioni dette suasoriae, in cui cercava di
convincere l'uditore prima di una tesi, poi della antitesi, o controversiae, in cui disputava riguardo questioni giuridiche: ad
esempio i giovani erano chiamati a impersonare Annibale, cercando di dimostrare 1'opportunità di attraversare le Alpi, o ad
accusare tiranni per aver emanato editti sull'obbligo dei figli di tagliare la testa ai padri. Infine, a conclusione di questo ciclo di
studi, i figli delle famiglie più ricche andavano in Grecia per approfondire le loro conoscenze di filosofia o a Rodi per
perfezionare le loro capacità retoriche o ad Alessandria per studiare medicina.

APPROFONDIMENTO 2. LA RELIGIONE

IL RUOLO DELLA RELIGIONE. La religione aveva un ruolo fondamentale nella società romana, perché contribuiva alla
coesione dello stato: tutte le pratiche religiose, infatti, erano investite di una tale importanza da entrare a far parte non solo della
vita privata, ma anche della vita pubblica e da costituire uno strumento di potere politico o di controllo sociale. Una caratteristica
del mondo romano fu quella di essere sempre estremamente tollerante verso le religioni dei popoli stranieri, purché queste non
intaccassero i principi fondamentali dello stato e della tradizione (questo fu ad esempio il motivo dell'ostilità e della repressione
attuata nei confronti dei riti orgiastici connessi con il culto di Dioniso e del Cristianesimo). Inoltre, la società romana fu sempre
molto aperta ad accogliere i culti stranieri adattandoli e assimilandoli ai propri; la fusione di diversi culti, fenomeno chiamato
sincretismo religioso, portò alla formazione di un ampio pantheon di divinità di varia origine.
LE DIVINITÀ ROMANE. Alcune divinità, di origini antichissime, risalivano ai tempi in cui gli antenati dei Latini vivevano a
nord delle Alpi, a contatto con altri popoli indoeuropei: si trattava di divinità che presiedevano ai fenomeni naturali,
all'agricoltura, al commercio, alle arti, alla pace, alla guerra, alla fecondità. Tra queste vi erano: Giove, il «cielo padre», una forza
quasi impersonale che si identificava con la vasta distesa del cielo, la luce del sole, il fulmine, il tuono e la pioggia che dà vita e
prosperità (per questo veniva celebrato coli l'appellativo di Giove Pluvio); Diana, dea delle selve; Vesta, dea del fuoco, sul cui
altare, considerato il focolare comune del popolo romano, ardeva una fiamma perenne.
Dagli Etruschi i Romani derivarono il complesso apparato liturgico e l'arte della divinazione, cioè la capacità di interpretare la
volontà degli dei attraverso segni naturali che essi consideravano come messaggi divini inviati appositamente agli uomini.
Ma fu soprattutto la religione greca, talora attraverso la mediazione degli Etruschi, a esercitare un'influenza determinante su
quella romana: i miti e le leggende degli dei colpirono l'immaginazione dei Romani che ripresero dai Greci le forme di culto, la
consuetudine di innalzare templi e soprattutto la antropomorfizzazione degli dei, cioè la loro rappresentazione con fattezze e
caratteri umani. Molte divinità romane vennero allora assimilate a quelle greche e ne derivarono i tratti fondamentali: Giove
(Iuppiter, Iovis) assunse i connotati del greco Zeus, padre degli dei e degli uomini, protettore dei giuramenti e delle leggi, sposo
infedele di Giunone, la greca Era, protettrice della donna, della fecondità e del matrimonio, regina del cielo e madre degli dei;
essi, assieme a Minerva, antica divinità italica poi identificata con Atena e considerata protettrice delle scienze e delle arti,
formarono la triade capitolina, cui venne dedicato un tempio sul Campidoglio nel 509 a.C. Altri dei comuni ai Latini e agli Italici
erano: Marte, dio della guerra e anche dell'agricoltura, perché proteggeva i campi dalle incursioni nemiche; Cerere, dea dei
cereali; Mercurio, protettore dei mercanti; Giano, protettore di quanti passavano attraverso la porta della città e quindi anche dei
soldati che uscivano dalle mura per andare a combattere; Venere, poi assimilata alla greca Afrodite, che in origine impersonava la
magia e l’incantesimo e poi la seduzione della bellezza femminile; Apollo, dio degli oracoli, dal cui santuario di Cuma furono
portati a Roma i Libri Sibyllini (così chiamati dal nome della Sibilla, sacerdotessa di Apollo), custoditi da un collegio di sacerdoti,
che li consultava su richiesta del senato. Dal rapporto con le colonie della Magna Grecia i Romani derivarono la figura di Ercole
e, non avendo essi il concetto tipicamente greco di semidio o di eroe, lo venerarono come un dio, difensore degli uomini e
uccisore di belve, particolarmente onorato dai legionari che tornavano incolumi dalle campagne militari.
LE CERIMONIE RELIGIOSE. Il concetto di fede intimista, in cui il rapporto tra il singolo individuo e l'essere soprannaturale è
spontaneo e informale, era assolutamente estraneo ai Romani, per i quali la parola fides non indicava la fede nel senso in cui la
intendiamo noi, ma «la lealtà» e «il rispetto della parola data». Il rapporto tra l'uomo e le divinità era, invece, di tipo utilitaristico
e quasi contrattuale: il fedele, consapevole della straordinaria forza delle divinità, le venerava, offriva loro riti e doni votivi a
scopo propiziatorio sia per ottenere la loro benevolenza da cui trarre vantaggi nella vita terrena, sia per impedire che con la loro
ira ostacolassero il raggiungimento dei suoi scopi. Le forme del culto erano molteplici: si recitavano formule, si facevano solenni
processioni da un tempio all'altro della città, si offrivano agli dei le primizie del raccolto, si versavano sugli altari libagioni di latte
e vino o si sacrificavano animali domestici (victima, hostia).
Tutte le cerimonie religiose, pubbliche e private, dovevano seguire un preciso rituale, che per ogni cerimonia era fissato in modo
estremamente rigido e ripetitivo e prevedeva formule e gesti da rispettare fin nei minimi particolari (sbagliare anche una sola
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parola della formula poteva far adirare gli dei e comprometterne il favore). In questo panorama estremamente complesso i
sacerdoti si configuravano come tecnici esperti delle pratiche e dei rituali religiosi, con il compito di celebrare personalmente i riti
o di seguire i magistrati che officiavano le cerimonie pubbliche o il paterfamilias che presiedeva alle forme di culto privato.
IL CULTO PUBBLICO E I COLLEGI SACERDOTALI. Al culto pubblico erano addetti numerosi collegi sacerdotali:
 Collegium pontificum: era formato da sedici membri e nominava il pontifex maximus, il presidente del collegio eletto a vita
e la massima autorità religiosa che godeva degli stessi diritti degli alti magistrati. A questi sacerdoti, depositari della
tradizione religiosa ed esperti dei rituali e del diritto sacro, spettavano l'avallo religioso delle decisioni prese dallo stato, la
compilazione delle liste dei magistrati e dei pontefici, del calendario e degli Annales, in cui erano registrati tutti gli
avvenimenti significativi accaduti durante l'anno;
 Augures (da augere, «far crescere»): erano esperti nell'arte divinatoria. Con le loro indicazioni essi esercitavano un'influenza
determinante sulle scelte dello stato: infatti, per ogni questione di politica estera o interna, essi dovevano accertare
l'approvazione degli dei tramite l'interpretazione di segni naturali (auguria) come lampi, tuoni, fulmini, temporali o ricercati
nel volo e nel canto degli uccelli. Inoltre, in tempo di guerra essi risiedevano in una tenda vicina a quella del generale: il loro
campito, infatti, era quello di esaminare il modo in cui i polli sacri mangiavano il becchime e su questa base suggerire quali
comportamenti si dovevano adottare nelle operazioni belliche;
 Vestales: costituivano l'unico collegio sacerdotale femminile; il Pontifex Maximus le sceglieva fra le bambine di età inferiore
ai dieci anni e le poneva sotto la sua potestas. Esse rimanevano in carica per trent'anni e avevano il dovere di alimentare
costantemente il fuoco sacro della dea Vesta e di mantenere la loro verginità per tutto il periodo del sacerdozio; nel caso
avessero mancato a uno di questi obblighi sarebbero state condannate a essere sepolte vive;
 Flamines: erano sacerdoti preposti ciascuno a una diversa divinità. Il più importante, che era sacerdote di Giove, era
sottoposto a una serie di strane restrizioni: non andare a cavallo, non togliersi il tipico berretto che lo contraddistingueva, non
indossare abiti di lana, e altre simili;
 Haruspices, indovini-sacerdoti provenienti dall'Etruria e quindi stranieri, non facevano parte dei sacerdoti romani né avevano
autorità religiosa pubblica; essi esaminavano le viscere (exta) degli animali sacrificati, soprattutto il fegato, e ne traevano
auspici per l'esito di eventi futuri.
LE CORPORAZIONI DI SACERDOTI. Oltre a questi collegi, vi erano delle corporazioni di sacerdoti addetti al culto di divinità
specifiche o a determinate cerimonie:
 Salii, eletti a vita tra i patrizi, erano sacerdoti di Marte; si distinguevano per l'abbigliamento militare e tenevano le loro
cerimonie sacre a marzo e ottobre, mesi di inizio e di fine delle campagne militari;
 Fetiales: erano esperti del settore del diritto che riguardava le relazioni con gli altri popoli. Era affidato a loro il complesso
cerimoniale per stipulare trattati di alleanza o fare dichiarazioni di guerra; in particolare essi avevano il compito i recarsi
presso i nemici con un fascio di erbe sacre a garanzia della loro incolumità, nel tentativo di risolvere pacificamente i dissensi;
 Fratres Arvales, eletti a vita e appartenenti ai ceti più alti, celebravano riti per propiziare la fertilità della terra;
 Luperci: presiedevano a riti di purificazione per propiziare la fecondità dei campi, delle greggi e delle donne.
GLI ALTRI CULTI. A partire dal I sec. a.C. accanto ai culti ufficiali si diffusero a Roma numerose religioni orientali, che fecero
presa soprattutto sugli strati medio-bassi della popolazione. La religione tradizionale era ormai diventata un insieme di cerimonie
stereotipate ed esteriori e non riusciva a rispondere ai bisogni spirituali degli individui. I culti misterici (dal greco myso: «stare
chiuso», «tacere»), invece, con i loro riti misteriosi e coinvolgenti, cui potevano partecipare solo gli iniziati, proponevano un
rapporto con la divinità intimo e personale ed erano quindi in grado di appagare l'esigenza di spiritualità e di offrire la speranza in
una nuova vita dopo la morte. Tra queste nuove forme religiose vi erano i culti di Dioniso, di Cibele e Attis, entrambi di
derivazione greca, di Iside e Osiride, di origine egizia, di Mitra, che fu importato dai soldati di ritorno dalle campagne militari in
fOriente. In epoca imperiale venne introdotto anche il culto degli imperatori defunti, cui era dedicata una cerimonia di
deificazione: gli imperatori giudicati indegni dal Senato e dal popolo, come Nerone e Domiziano, furono invece colpiti dalla
damnatio memoriae che ne cancellava ogni forma di ricordo. In questo variegato panorama il Cristianesimo sarebbe poi andato
incontro a un grande sviluppo e a una sempre crescente diffusione.
IL CULTO PRIVATO. Oltre alle cerimonie pubbliche era largamente diffuso a Roma il culto privato: in queste forme rituali,
celebrate da ciascun paterfamilias, venivano onorate le seguenti figure protettrici:
 Genius (da gignere, «generare»), il protettore personale che accompagnava per tutta la vita ciascun individuo maschio; il
Genius dell'imperatore divenne anche una forma di culto pubblico;
 Lares, numi tutelari della casa e della famiglia, le cui immagini, rappresentate con dipinti o statuette, erano venerate talora in
piccole cappelle innalzate nei campi o ai crocicchi delle strade;
 Penates, a cui il paterfamilias portava giornalmente delle offerte di cibo in una piccola cappella (aedicula) a loro dedicata,
posta vicino alla cucina;
 Manes, gli antenati defunti, a cui venivano dedicati riti e varie offerte votive, con l'intento di renderli felici e benevoli nei
propri confronti.

APPROFONDIMENTO 3. LA SUPERSTIZIONE

SUPERSTIZIONE E RELIGIONE. La religione, romana presentò fin dalle origini aspetti legati alla magia e alla superstizione.
Dalla religione etrusca i Romani avevano ereditato la credenza che sulla terra circolassero spiriti (lemures); pensavano che vi
fossero case infestate da fantasmi di persone uccise o assalite a tradimento; credevano nell'esistenza dei lupi mannari, uomini
trasformatisi in lupi che di notte facevano preda di pecore; favoleggiavano che certe vecchie si trasformassero in uccelli, che

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esistessero nei mari settentrionali dei mostri metà uomo e metà belve, che streghe e vampiri penetrassero nelle case dove c'era un
cadavere per depredarlo e mangiargli il naso.
Le forme di superstizione, ugualmente condivise dagli strati più bassi della popolazione e dagli uomini colti, erano dovute alla
credenza religiosa che nella vita dell'uomo ci fosse l'intervento provvidenziale della divinità: la forma più alta per comunicare con
il dio era quella religiosa della consultazione dell'oracolo, ma i modi per capire la volontà divina attraverso segni tangibili erano
infiniti. I Romani, infatti, interpretavano come l'espressione di un presagio fausto o infausto qualsiasi segno si presentasse loro
durante la giornata: per esempio, inciampare sulla soglia uscendo di casa era di cattivo augurio; il canto di un gallo durante un
convito era considerato un segno negativo che richiedeva i debiti scongiuri; un brutto sogno prima di un impegno importante ne
causava sicuramente il rinvio.
LE PRATICHE MAGICHE. Per rendere propizie potenze oscure ed eliminarne gli effetti dannosi esistevano pratiche magiche di
origine antichissima: ad esempio era consuetudine diffusa stornare il malocchio ricorrendo a precauzioni e amuleti di varia forma
e scrivere sulla porta arseverse (in etrusco: “allontana il fuoco!”) per scongiurare incendi; inoltre, essi evitavano regolarmente di
varcare la soglia con il piede sinistro e di sposarsi in particolari giorni considerati infausti e, se in cielo vi erano dei lampi,
fischiavano. Estremamente diffusa era la stregoneria finalizzata a creare filtri amatori per attirare a sé l'uomo amato: la donna
vittima di un amore infelice ricorreva a qualunque genere di incantesimo e di rito magico e soprattutto cercava di far bere
all'amato strane pozioni ottenute con ogni specie di sostanza, viscere di rana o di rospo, ossa di serpente, erbe sepolcrali e perfino
potenti veleni. Altre pratiche, simili alla magia nera, servivano, invece, a danneggiare in qualche modo le persone odiate, fossero
esse rivali in amore o nel lavoro, debitori insolventi o avversari politici. Gli archeologi hanno ritrovato molte defixiones, cioè
lamine di piombo con nomi propri incisi e accompagnati da formule di maledizione, che erano bucate nel centro e sotterrate
oppure nascoste in luoghi considerati vie d'accesso agli Inferi.

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