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La società Nel corso del II secolo a.C. avvengono profonde trasformazioni sociali, favorite dall'enorme quantità di denaro
romana che le spedizioni in Oriente fanno affluire a Roma. I Romani si trovano ad essere molto più ricchi di quanto lo
verso la fossero stati in passato, ma la ricchezza non è distribuita in eguale misura. I profitti maggiori vanno alle classi
metà del II più agiate e accanto ai ricchi proprietari di terreni, appartenenti per lo più alla vecchia aristocrazia senatoria, si
secolo colloca una nuova classe sociale, la cui ricchezza proviene dagli appalti statali (quelli degli approvvigionamenti
agli eserciti, delle opere pubbliche e della riscossione delle imposte). Questa nuova classe è quella degli equites,
dei cavalieri (ricchi come i senatori ma non impegnanti attivamente in politica), alla quale sono iscritti tutti
coloro che hanno un censo di 400.000 sesterzi, e che accresce continuamente la propria ricchezza con attività
che assumono in questo periodo grande sviluppo, come il commercio marittimo e il prestito a usura. Ai nuovi e
rapidi guadagni non si sottraggono, malgrado il divieto esplicito della lex Claudia del 218, nemmeno molti
esponenti della vecchia aristocrazia: vecchi senatori come Catone, speculatori, affaristi, usurai, corrotti e
corruttori, impegnati sia sul fronte politico che su quello economico, non esitano a influenzare il corso degli
avvenimenti politici per esclusivo interesse personale (si pensi, come esempio, alla distruzione di Cartagine).
Dunque, tutto il potere in mano a pochissimi e ricchissimi uomini, il cui interesse principale, al di là della
retorica del bene dello Stato, era diventare ancora più ricchi e ancora più potenti. In breve, al vertice della
piramide sociale, strutturata in base al reddito, competono tra loro due ordini, quello dei senatori (l’antica
aristocrazia fondiaria) e quello dei cavalieri (la nuova aristocrazia legata agli appalti statali, al commercio,
all’usura). Seguono poi cinque classi intermedie e infine i proletari, o nullatenenti, che non prestano servizio
militare (poiché non possono pagarsi l’armamento). Come animali o oggetti di proprietà venivano, per ultimo,
gli schiavi. Il problema per Roma, che portò alla fine della Repubblica, fu l’assoluta incapacità della stragrande
maggioranza dei suoi rappresentanti politici di pensare in termini di giustizia sociale. L’esempio più eclatante è
quello della cosiddetta questione agraria. Solo una minima e irrisoria parte delle terre conquistate erano destinate
a soddisfare le esigenze sempre più urgenti dei contadini: la maggioranza dei nuovi territori venivano
trasformati in ager publicus. “Pubblico” per modo di dire, perché ai ricchi riusciva facile, con la forza o con
l’inganno, allontanare i più deboli dalle terre comuni e accaparrarsele. Le ultime distribuzioni di terra in
proprietà risalgono all’inizio del II secolo: dopo il 180 non si fece più nulla del genere, e grandi estensioni del
territorio italiano rimasero agro pubblico, non sorvegliato dalle autorità e man mano occupato abusivamente da
senatori e cavalieri. Come immediata e tragica conseguenza scompare quasi del tutto la piccola proprietà
contadina, rovinata:
dall’ arruolamento obbligatorio: la progressiva decadenza della classe contadina rende sempre più difficile
il reclutamento degli eserciti; infatti solo i proprietari sono soggetti al servizio militare, e poiché il loro
numero diminuisce è necessario tenere più a lungo sotto le armi le stesse persone, il che provoca un sempre
maggiore disagio;
dalle tasse e dai debiti: i lunghi periodi di servizio militare tengono le braccia più valide lontano dai poderi,
che spesso devono essere venduti a basso prezzo ai ricchi latifondisti (che non sono coltivatori, ma
imprenditori e speculatori) per la necessità di pagare i tributi e i debiti nel frattempo contratti;
dalla concorrenza della manodopera servile: sul solo mercato degli schiavi di Delo vengono trattati in certi
periodi fino a 10.000 capi al giorno; il mercato fornisce questa merce a prezzo talmente basso che il lavoro
dei salariati non è più conveniente; scacciati dalla terra, ex-proprietari e braccianti confluiscono a Roma,
dove accrescono la massa dei sottoproletari che vivono a spese di uno Stato che dona sotto forma di
elemosina ciò che toglie come diritti politici e giustizia sociale.
Il partito degli affaristi è incontestabilmente il più forte, e può contare, paradossalmente, su di una magistratura
che era stata creata per difendere gli interessi del popolo: il tribunato della plebe. Nel secolo II a.C. questa
magistratura è controllata dall'aristocrazia senatoria. Fra i dieci tribuni in carica è sempre possibile, mediante
minacce o corruzione, trovarne qualcuno disposto a diventare lo strumento della classe di potere, e a favorirne
gli interessi mediante proposte di legge o l'uso del diritto di veto.
Una Dunque, verso la metà del II secolo, dopo la fase dell'impetuosa espansione nel Mediterraneo, Roma si trovava
situazione in una situazione politica bloccata, poiché la nobiltà senatoria che controllava il potere appariva arroccata in
bloccata difesa dei propri privilegi. Rifiutava
di affrontare il problema della distribuzione dell'agro pubblico ai contadini, impoveriti o diventati
nullatenenti;
di concedere la cittadinanza romana agli Italici, per paura di non controllare più le assemblee popolari;
di associare i cavalieri alla gestione del potere, per timore di perdere la propria supremazia politica.
Il ceto senatorio mostrava insomma un'incapacità di rinnovamento rispetto alle profonde trasformazioni
economiche e sociali che erano avvenute in un secolo di conquiste. All'interno dell'oligarchia dominante lo
scontro politico - che aveva per oggetto la conquista delle magistrature e le scelte del senato - consisteva nella
lotta tra fazioni di nobili, basate (come sempre a Roma) sulle appartenenze familiari e aggregate intorno a leader
di prestigio. All'interno della nobiltà c'era chi si rendeva conto della necessità di introdurre alcune riforme, per
migliorare la condizione dei ceti poveri e più in generale per evitare il rischio che i cambiamenti che si erano
prodotti sfociassero in tensioni non controllabili. Si contrapposero così due schieramenti:
gli ottimati (optimates, da optimi, i "migliori"), come si autodefinivano con superiorità i membri della
nobiltà senatoria conservatrice;
i popolari (populares), ovvero la minoranza riformista, che godeva dell'appoggio dei cavalieri, dei ricchi
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plebei, degli Italici.
La plebe oscillava dividendosi tra i due schieramenti secondo i rapporti di clientela e appoggiava ora gli uni ora
gli altri, in base ai vantaggi immediati che poteva trarne.
II progetto I fratelli Tiberio e Caio Gracco, legati da rapporti di parentela agli Scipioni (la loro madre, Cornelia, era figlia
dei Gracchi dell'Africano), erano due aristocratici riformatori. I Gracchi compresero che l'immiserimento dei piccoli
proprietari espropriati della terra poteva compromettere il funzionamento dell'esercito, quindi la sopravvivenza
stessa della repubblica. Le legioni erano infatti costituite dalla massa dei contadini-soldati e la scomparsa della
piccola e media proprietà agricola rischiava di privare Roma dei suoi legionari. Occorreva quindi attuare una
riforma agraria e mettere mano alla ridistribuzione dell'agro pubblico, suddividendolo in appezzamenti da
assegnare ai contadini e al proletariato urbano, in modo che questi potessero trarne i mezzi di sussistenza. Si
sarebbe così rinvigorito il ceto dei piccoli contadini, risanata la vita delle miserabili plebi urbane e, al tempo
stesso, limitato lo strapotere dei grandi proprietari, perché le terre sarebbero state espropriate a partire dai
Tiberio e la latifondi
Il maggiore più dei
estesi.
due fratelli, Tiberio Sempronio Gracco (162-133), presentò questi progetti di riforma facendosi
riforma eleggere nel 133 tribuno della plebe. Avrebbe potuto così far approvare leggi a cui il senato non aveva il potere
agraria di opporsi. Impressionato dallo spopolamento delle campagne italiche, coltivate ormai soprattutto da schiavi,
(133) Tiberio propose una legge agraria:
che limitava il possesso di agro pubblico da parte di un cittadino a 500 iugeri (125 ettari), più 250 iugeri per
ogni figlio, fino a un massimo di 1000 iugeri;
che obbligava chi ne possedesse di più di restituirli allo stato, che avrebbe ridistribuito la terra alla plebe in
piccoli lotti di circa 30 iugeri, inalienabili (cioè invendibili), per evitare che i ricchi se li ricomprassero;
che poneva una netta distinzione fra proprietà dell'agro pubblico, che rimaneva statale, e usufrutto, che
poteva essere concesso ai privati: questo toccava ancora di più gli interessi dei latifondisti (soprattutto
senatori) che si consideravano proprietari a tutti gli effetti dell'agro pubblico loro assegnato.
La legge, anche se non penalizzava molto i grandi proprietari ai quali sarebbe rimasta una quota cospicua di
terre pubbliche, suscitò la drastica opposizione del senato: quando Tiberio la sottopose all'assemblea della plebe
il senato cercò di bloccarla, inducendo l'altro tribuno, Ottavio, a porre il veto. A questo punto Tiberio fece
destituire il collega dai comizi, in base al principio, del tutto nuovo per le istituzioni romane, che un
rappresentante del popolo potesse essere destituito dal popolo stesso. Poi fece approvare la legge dai comizi e
propose inoltre che il tesoro lasciato in eredità a Roma dal re di Pergamo Attalo venisse utilizzato per finanziare
l'avvio delle coltivazioni nei lotti di nuova assegnazione. L'anno seguente Tiberio sfidò la legge che impediva la
rielezione consecutiva alla stessa magistratura ripresentando la propria candidatura a tribuno. Gli avversari
ebbero buon gioco ad accusarlo di voler instaurare un potere personale: un mattino egli è assassinato a colpi di
sgabello da un gruppo di senatori e dai loro sgherri protetti dall'immunità statale. Il suo cadavere è trascinato per
la città e gettato nel Tevere. L’assassinio politico entrava così nella vita romana: la politica non era più in grado
di risolvere il conflitto di interessi sorto in seno alla repubblica. Si noti che l’aristocrazia conservatrice non
ignorava affatto la gravità della crisi agraria, e sapeva bene che da essa derivavano le difficoltà sempre maggiori
nel reclutamento degli eserciti. Ma per uscire dalla crisi aveva la sua ricetta, che era molto diversa da quella
graccana: cioè abbassava il livello di ricchezza necessario per l’iscrizione alla quinta classe. In tal modo i
cittadini che avevano così poca terra, o così poco denaro, da essere confusi coi proletari, erano arbitrariamente
promossi nella categoria dei possidenti, e diventava possibile chiamarli alle armi. In origine, erano iscritti alla
quinta e ultima classe coloro che avevano un patrimonio di almeno 11.000 assi (l’asse era una moneta di
bronzo); dopo la seconda guerra punica il limite era stato abbassato a 4.000 assi; in età graccana scese ancora,
alla cifra irrisoria di 1.500 assi. E’ chiaro che a questo punto il principio del cittadino che si arma a proprie spese
in caso di guerra doveva essere abbandonato, e perciò lo stato forniva armi e vestiario a tutta la fanteria.
Così lo storico Plutarco (I-II secolo d.C.) ricorda Tiberio Gracco: “Eppure, benché la riforma fosse tanto mite e
il popolo se ne contentasse, dimenticando il passato, pur di essere sicuro dell'avvenire, i ricchi e i facoltosi,
presi dall'avarizia, avversarono profondamente la legge e si sdegnarono ostinatamente contro il legislatore,
tentando di ingannare lo stesso popolo, dicendo che Tiberio proponeva quella divisione per mettere a
soqquadro la Repubblica e per sconvolgere ogni cosa. Ciò nonostante nulla ne ricavarono. Perché Tiberio,
contendendo con essi per una legge tanto giusta e buona con la forza della sua eloquenza, era inesorabile e
invincibile quando, salito sul podio e attorniato da gran folla di popolo, parlando in favore dei poveri diceva
che perfino le belve in Italia si satollavano, avevano pane e covili per ricoverarsi; mentre quelli che
combattevano e affrontavano la morte per difendere la stessa Italia, non avevano altro che l'aria e la luce,
mancavano di casa e di luoghi dove riposarsi e andavano vagando qua e là coi figli e con le mogli; che i
comandanti di eserciti mentivano quando nelle battaglie incitavano i soldati a difendere i sepolcri e gli altari
dei loro numi, perché neppure un solo Romano povero vi era che avesse un sepolcro di antenati e un altare
La politica paterno;
Un ma più
decennio tuttitardi,
morivano pervenne
nel 123, procacciare agli altri
eletto tribuno gioiedie Tiberio,
il fratello piaceri; Gaio
e mentre erano Gracco
Sempronio chiamati signori del
(154-121). La
di alleanze tragica esperienza del fratello gli aveva fatto capire che doveva assicurarsi più solide alleanze politiche,
di Gaio altrimenti nessuna riforma avrebbe mai superato l’opposizione dei senatori. Con un’apposita legge Gaio:
(123-121) aprì ai cavalieri l’accesso al tribunale che giudicava gli abusi dei magistrati nelle province, fino ad allora
composto solo da senatori, con il risultato di ridimensionare il potere senatorio e accrescere il peso politico
dei cavalieri;
a favore del proletariato urbano fece passare una legge frumentaria che prevedeva la vendita di grano a
prezzi controllati; per ridurre la disoccupazione avviò opere pubbliche; progettò di assegnare la terra ai
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meno abbienti attraverso la fondazione di nuove colonie;
affrontò il problema della concessione della cittadinanza romana agli alleati italici, che da tempo la
chiedevano: con moderazione e prudenza, propose che intanto venisse riconosciuta ai latini.
Gaio venne rieletto tribuno nel 122 (grazie a una nuova legge che lo permetteva) e, confidando sul consenso che
riteneva di avere conquistato, riprese il progetto di riforma agraria del fratello Tiberio. La nobiltà senatoria riuscì
però a presentare l’estensione della cittadinanza agli Italici:
come un danno per il proletariato romano, che avrebbe dovuto dividere con loro il lavoro e i benefici
derivati della legge frumentaria;
come un danno per i cavalieri, che avrebbero perso il monopolio negli appalti e altri vantaggi economici a
favore di commercianti e affaristi italici.
Plebe urbana e cavalieri, pur tenendosi stretti i benefici offerti loro da Gaio, gli voltarono le spalle. Nel 121 a
Gaio non riuscì la terza elezione al tribunato e quando scoppiarono disordini il senato affidò ai consoli poteri
straordinari: nella repressione molti graccani vennero uccisi e lo stesso Gaio, vistosi perduto, si fece uccidere da
un suo servo.
La riforma Mario era un uomo nuovo, cioè il primo della sua famiglia a giungere al consolato; più ancora della vittoria
dell’esercito contro Giugurta ebbe grande importanza la riforma dell'esercito che egli introdusse appena ottenuto il consolato.
Vista la difficoltà ad arruolare la plebe contadina, sempre meno numerosa, egli aprì il servizio militare a tutti
coloro che si fossero offerti come volontari, anche se nullatenenti; i legionari, dopo una ferma di 16 anni,
avrebbero ricevuto all'atto del congedo un appezzamento agricolo. Si creava in tal modo il primo nucleo di un
esercito professionale, più efficiente, con soldati regolarmente pagati, in servizio permanente e quindi meglio
addestrati, ma anche un esercito che poteva diventare uno strumento nelle mani di generali ambiziosi: un rischio
che si tramuterà presto in realtà.
Le vittorie Nel 104 Mario fu rieletto console e, fatto senza precedenti, rimase in carica per cinque anni consecutivi, con il
su Cimbri e compito di combattere contro i Cimbri e i Teutoni. Queste due popolazioni di stirpe germanica nei loro
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Teutoni spostamenti compivano incursioni e razzie tra la Spagna e la Gallia e ora minacciavano l'Italia settentrionale,
(102-101) risvegliando nei romani le vecchie paure legate al saccheggio dei Galli del 390. Mario sconfisse i Teutoni ad
Aquae Sextiae (l'odierna Aix-en-Provence) nel 102, e i Cimbri ai Campi Raudii, presso Vercelli, nel 101. Anche
se legati a una situazione di emergenza militare, gli anni di consolato di Mario costituirono una svolta storica.
Tradizionalmente il comando militare apparteneva ai consoli in quanto uomini politici, ora era un comandante
ad assumere, e per lungo tempo, il massimo potere politico in virtù delle sue capacità militari.
Il ritiro di Le vittorie di Mario ingigantirono il suo prestigio presso le masse romane e rafforzarono la fazione dei popolari.
Mario dalla Il tribuno Saturnino, leader dei popolari e alleato politico di Mario, propose nel 100 una legge che assegnava ai
vita politica veterani di Mario cospicue estensioni di terra nelle province, con una clausola che impegnava i senatori a non
(98) abrogare in futuro la legge. Il provvedimento suscitò l'ostilità del senato e sollevò gravi disordini, che Mario, in
qualità di console, fu costretto a reprimere, andando contro agli interessi dei suoi stessi soldati; perse così
l'appoggio dei ceti popolari. Nel 98 egli decise perciò di ritirarsi dalla via politica (momentaneamente, come
vedremo).
La riforma Come abbiamo più volte ricordato, gli Italici premevano per ottenere la piena cittadinanza romana. Per la nobiltà
fallita di italica la cittadinanza significava la possibilità di partecipare al governo, per i commercianti una tutela politica e
Druso (91) giuridica pari a quella dei loro colleghi romani; gli Italici dovevano inoltre versare tributi, a differenza dei
romani, ma restavano esclusi dalle distribuzioni di terre e di grano. La salita al potere di Mario riaccese le
speranze degli Italici, ma la questione venne posta all'ordine del giorno solo con Marco Livio Druso, tribuno
della plebe. Nel 91 Druso presentò un progetto di riforma che prevedeva la cittadinanza per gli Italici, oltre
all'ampliamento delle distribuzioni pubbliche di grano, per favorire la plebe urbana. Si trattava di una riforma
moderata, che mirava ad allentare le tensioni sociali. Ma l'opposizione degli ottimati fu ancora una volta
durissima: Druso venne ucciso da un sicario e la sua legislazione venne cancellata.
La Guerra La fine di Druso fece comprendere agli Italici che il senato non avrebbe mai accettato le loro richieste. Non
sociale (90- rimaneva loro che impugnare le armi contro Roma. La guerra, che durò tre anni, dal 90 all’88, fu chiamata
88) “sociale” (da socii, alleati) o “italica”, perché gli Italici erano i più pericolosi fra gli insorti e si dimostrarono i
più tenaci. La guerra sociale fu forse la più difficile mai combattuta da Roma, perché gli eserciti nemici erano
composti di uomini che per molto tempo avevano militato al fianco dei legionari romani, ed erano abituati a
usare le stesse armi e la stessa tattica. I ribelli erano scesi in campo per conquistare con la forza il diritto di
cittadinanza, che non avevano potuto ottenere con mezzi legali. Ma ben presto fra gli Italici si affermò uno
scopo ben diverso: la separazione da Roma e la formazione di uno stato federale indipendente . Furono emesse
monete con la scritta “Italia” (si noti che questo nome acquistava per la prima volta un significato politico, dopo
essere stato usato in senso puramente geografico). Roma si salvò perché alcuni alleati rimasero fedeli: i Latini
(che godevano già di molti privilegi), le poleis della Magna Grecia che, orgogliose delle loro tradizioni, non
avevano mai chiesto la cittadinanza; i popoli della pianura padana (Galli, Veneti, Liguri). Le province non si
mossero. Dopo aver subito varie gravi sconfitte la Repubblica affidò il comando degli eserciti schierati sui vari
campi di battaglia ai suoi migliori generali, come Gaio Mario e Lucio Cornelio Silla, e infine costrinse i ribelli
alla resa. Tuttavia, mentre ancora si combatteva, erano state emanate alcune leggi che concedevano la
cittadinanza agli alleati della penisola rimasti fedeli e altre che promettevano la cittadinanza ai ribelli che si
fossero arresi. Roma dunque vinse la guerra sul piano militare, ma la perse sul piano politico. L’Italia si avviò
comunque a diventare un'unica entità politica, senza più barriere o differenze giuridiche interne, e lo Stato
romano venne a comprendere l'intera penisola a sud del Po.
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avversari di Silla dai tempi della guerra sociale. La guerra civile, violentissima, si concluse sul piano
strettamente militare, con la vittoria dei sillani nella battaglia di Porta Collina (82). Silla si fece nominare
dittatore a tempo indeterminato con potere di legiferare. Era una carica inedita, che snaturò del tutto la
tradizionale funzione della dittatura, essenzialmente militare, non politica, e di durata in ogni caso limitata a sei
mesi. Silla ebbe così mano libera per eliminare fisicamente gli avversari attraverso le cosiddette liste di
proscrizione, cioè elenchi pubblici di cittadini dichiarati traditori dello stato, che chiunque era autorizzato a
uccidere impunemente; i beni dei proscritti venivano confiscati dallo stato, i lori figli privati della cittadinanza.
Si aprì una feroce caccia all'uomo, che fu l'occasione anche per vendette personali e per arricchimenti ottenuti
con l'assassinio: un quarto dei senatori e 1600 cavalieri furono uccisi senza processo, i loro beni confiscati e
distribuiti tra i sostenitori di Silla. Costituì nella pianura padana una nuova provincia col nome di Gallia
Cisalpina. Il confine fra la provincia e il territorio amministrato direttamente da Roma era segnato dai fiumi
Rubicone (sul versante adriatico) e Magra (sul versante tirrenico). Il dittatore si preoccupò anche di evitare che
altri potessero seguire il suo esempio, cioè imponessero la propria volontà al senato con la forza delle armi;
perciò estese a tutta la penisola appenninica, dal Magra e dal Rubicone fino allo stretto di Messina, la zona in cui
era vietata la presenza di truppe regolari. Silla poi confiscò le proprietà dei suoi nemici e distribuì le terre cosi
ottenute ai suoi veterani, per assicurarsi la loro fedeltà anche in futuro. Convinto di avere agito per il bene della
repubblica, nel 79 Silla si ritirò spontaneamente dalla vita politica e l'anno seguente morì.
L'ISTRUZIONE FAMILIARE. A Roma vi era la consuetudine di deporre i bambini appena nati ai piedi del padre: il padre, se
accettava il figlio e lo riconosceva come tale, sollevava da terra il neonato e gli faceva toccare con i piedi il pavimento a
simboleggiare che lo avrebbe guidato nel cammino della vita con il suo esempio e i suoi insegnamenti fedeli al mos maiorum.
Fino all'età di sette anni i bambini e le bambine venivano affidati alle cure della madre, alla quale la società romana riconosceva
un ruolo fondamentale nell'educazione dei figli: nell'ambiente familiare i figli ricevevano la prima educazione improntata al
rispetto della religione e delle tradizioni.
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Nei tempi più antichi della repubblica, i bambini verso i sette anni ricevevano la prima istruzione da parte del padri, che, in
genere, esercitavano la loro funzione di educatori con grande coscienziosità e sollecitudine. Così si comportarono molti
personaggi illustri della storia romana che non esitarono a sottrarre tempo agli incarichi pubblici per dedicarsi all'educazione dei
figli; ad esempio Catone il Censore, vissuto alla fine del III sec. a.C., oltre a istruire personalmente il figlio Marco, compose per
lui, a caratteri grossi e facilmente leggibili, una specie di enciclopedia e una storia di Roma.
L'insegnamento dei figli maschi delle classi elevate riguardava tutto ciò che sarebbe stato utile alla formazione del futuro
cittadino: oltre agli elementi di cultura generale, essi imparavano le prime nozioni della scienza giuridica, dell'amministrazione del
patrimonio e delle proprietà, ma anche l'equitazione, il nuoto e l'arte delle armi. Le bambine, invece, apprendevano soprattutto le
attività legate alla vita domestica, ma quelle di famiglia aristocratica ricevevano, in genere, soprattutto a partire dalla tarda
repubblica, un'istruzione esauriente e completa in tutti i campi.
L'ISTRUZIONE CON PRECETTORI PRIVATI. Dopo i contatti con il mondo ellenico e la profonda influenza esercitata dalla sua
cultura, le famiglie benestanti adottarono la consuetudine di affidare a precettori greci l'educazione dei propri figli, così che il
modello educativo tradizionale venisse affiancato da una formazione greca. D'altra parte tra gli schiavi greci giunti a Roma a
seguito delle conquiste, ve ne erano molti dotati di una buona preparazione culturale, tanto che alcuni di essi divennero non solo
stimati maestri, ma anche esponenti prestigiosi del mondo intellettuale romano. La formazione culturale divenne allora bilingue,
anzi spesso i bambini affidati a nutrici greche imparavano la lingua greca prima ancora di quella latina. Inoltre, si andò sempre più
diffondendo tra le classi elevate e agiate l'abitudine di inviare i propri giovani in centri culturali prestigiosi, come Atene e Rodi,
perché approfondissero la preparazione.
LA SCUOLA PUBBLICA. Le famiglie che non potevano permettersi dei precettori privati mandavano i loro figli alla scuola
pubblica: non si trattava però di una scuola statale, ma di un'istituzione privata, i cui maestri erano pagati dagli stessi genitori degli
allievi. Solo l'imperatore Vespasiano, allo scopo di poter esercitare un controllo sull'istruzione e quindi sulla formazione degli
intellettuali, istituì la figura dell'insegnante dipendente dallo stato e, di conseguenza, diede vita alla scuola pubblica in senso
moderno. L'istruzione scolastica si articolava in tre ordini che, grosso modo, corrispondevano alla contemporanea nostra scuola
elementare, media e superiore. L'anno scolastico prevedeva dei giorni di riposo periodico, le nundinae, che cadevano ogni nove
giorni in coincidenza con il giorno di mercato, e altri giorni festivi, dies festi, in occasione di ricorrenze religiose e civili.
Probabilmente la scuola rimaneva aperta anche d'estate, ma doveva essere poco frequentata dal momento che nei mesi più caldi le
famiglie preferivano portare i figli in campagna. La durata delle lezioni era di circa sei ore, con un intervallo verso il mezzogiorno,
durante il quale i ragazzi ritornavano a casa per consumare il prandium, che non era il pasto principale della giornata, ma solo una
colazione.
LA SCUOLA ELEMENTARE, che i fanciulli frequentavano tra i sette e gli undici anni, era un edificio per nulla accogliente e
poco predisposto all'uso, costituito in genere dalla stanza di una bottega che era separata dalla strada per mezzo di una semplice
tenda. Gli allievi non disponevano di banco, ma stavano seduti su uno sgabello (sella) appoggiando sulle ginocchia le tavolette su
cui scrivevano; il maestro sedeva invece su una sedia con schienale (cathedra), posta talora su una pedana. A esercitare la
professione di maestro (litterator, magister ludi) erano uomini di estrazione sociale estremamente bassa, per lo più schiavi o
liberti, e il loro lavoro, faticoso e mal pagato, godeva di scarsa considerazione e prestigio. Forse anche per questo il maestro si
trovava spesso nella necessità di rivendicare la sua autorità sugli allievi ricorrendo a punizioni piuttosto violente come le frustate;
a questo proposito abbiamo la testimonianza del poeta Orazio che definisce plagosus, cioè «prodigo di sferzate», il suo maestro.
Nella scuola elementare gli allievi imparavano a leggere, scrivere, far di conto e successivamente anche la stenografia, cioè un
sistema grafico per abbreviare la scrittura latina. I metodi e i procedimenti utilizzati erano di tipo puramente meccanico e
ripetitivo: gli scolari imparavano a memoria dei testi, tra cui le Leggi delle XII Tavole e alcune fra le massime più note; per la
scrittura ripercorrevano con lo stilo più volte il solco tracciato che rappresentava le lettere; per il calcolo contavano per ore sulle
dita o con l'abaco, una specie di pallottoliere. Alla conclusione del primo ciclo di studi l'alunno non aveva acquisito altro che
nozioni mnemoniche, non aveva evidenziato alcun tipo di interesse e di propensione e probabilmente i suoi unici ricordi erano
quelli delle continue ripetizioni e delle percosse ricevute in abbondanza a seguito dei suoi errori.
LA SCUOLA DEL GRAMMATICUS. Terminato il ciclo elementare verso i 12 anni, i figli delle famiglie meno abbienti e le
bambine abbandonavano gli studi; i ragazzi delle famiglie che ne avevano la possibilità, invece, entravano nella scuola del
grammaticus, un ordine di studi che si diffuse dopo 1'afferrnazione della cultura greca. Questa scuola si avvaleva dello stesso
calendario e di ambienti non molto dissimili da quelli della scuola primaria; la figura del grammaticus però godeva di un prestigio
che, se non altissimo, era decisamente superiore rispetto a quello del magister ludi e percepiva uno stipendio maggiore. Questo
corso di studi impartiva un'istruzione quasi esclusivamente letteraria: i giovani studiavano la lingua e la letteratura latina e greca;
imparavano a leggere in modo perfetto dei passi scelti, soprattutto di poesia, scandendo i versi con grande precisione, rispettando
le pause e assumendo l'intonazione più adatta all'argomento; commentavano e analizzavano i testi, li esponevano oralmente e per
iscritto e ne scrivevano dei riassunti. Gli autori studiati erano in primo luogo Omero e Virgilio, poi Cicerone, Orazio e Ovidio,
le cui opere entrarono nelle scuole quando essi erano ancora in vita. La storia, la geografia, l'astronomia, la filosofia non erano
materie indipendenti e non venivano studiate in modo autonomo, ma solo in funzione dei testi letterari analizzati: ad esempio la
lettura dell'Eneide forniva 1'occasione per studiare la storia antica, quella dell'Odissea di affrontare argomenti geografici a partire
dai viaggi di Ulisse.
LA SCUOLA DEL RHETOR. A1 termine di questo ciclo e all'età di 16 anni, i ragazzi iniziavano a frequentare la scuola del
rhetor, la « scuola superiore» che avrebbe fatto di loro degli oratori. Il rhetor era uno specialista dell'arte oratoria, cioè un esperto
conoscitore delle norme stilistiche e delle tecniche espressive, e godeva di un prestigio e di una retribuzione decisamente maggiori
rispetto ai maestri delle scuole inferiori. Lo studio della retorica latina e greca era finalizzato ad acquisire la capacità di ben parlare
e di convincere: perciò in epoca repubblicana era frequentata da tutti coloro che intendevano intraprendere la carriera politica, nel
cui cursus honorum era prevista l’attività forense, mentre in epoca imperiale, dopo la perdita della libertà politica e la fine dei
grandi dibattiti forensi, si trasformò in uma scuola che proponeva solo vuote esercitazioni di stile su vari argomenti, per lo più
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futili e lontani dalla realtà. Questo genere di scuola richiedeva notevole impegno e grande applicazione, oltre che una vasta
cultura: l'aspirante oratore perfezionava la conoscenza della letteratura latina e greca, soprattutto delle opere in prosa,
approfondiva lo studio delle regole di retorica, le imparava a partire dall'analisi e dall'imitazione dei testi dei grandi oratori
(Demostene tra i Greci e Cicerone erano i maestri riconosciuti) e si esercitava in esposizioni orali e in componimenti scritti.
Inoltre, per prepararsi a discutere su qualunque argomento, egli era chiamato ad argomentare da due punti di vista diversi e tra
loro contrari sulla stessa materia, inventando casi astrusi sui quali dibattere in orazioni dette suasoriae, in cui cercava di
convincere l'uditore prima di una tesi, poi della antitesi, o controversiae, in cui disputava riguardo questioni giuridiche: ad
esempio i giovani erano chiamati a impersonare Annibale, cercando di dimostrare 1'opportunità di attraversare le Alpi, o ad
accusare tiranni per aver emanato editti sull'obbligo dei figli di tagliare la testa ai padri. Infine, a conclusione di questo ciclo di
studi, i figli delle famiglie più ricche andavano in Grecia per approfondire le loro conoscenze di filosofia o a Rodi per
perfezionare le loro capacità retoriche o ad Alessandria per studiare medicina.
APPROFONDIMENTO 2. LA RELIGIONE
IL RUOLO DELLA RELIGIONE. La religione aveva un ruolo fondamentale nella società romana, perché contribuiva alla
coesione dello stato: tutte le pratiche religiose, infatti, erano investite di una tale importanza da entrare a far parte non solo della
vita privata, ma anche della vita pubblica e da costituire uno strumento di potere politico o di controllo sociale. Una caratteristica
del mondo romano fu quella di essere sempre estremamente tollerante verso le religioni dei popoli stranieri, purché queste non
intaccassero i principi fondamentali dello stato e della tradizione (questo fu ad esempio il motivo dell'ostilità e della repressione
attuata nei confronti dei riti orgiastici connessi con il culto di Dioniso e del Cristianesimo). Inoltre, la società romana fu sempre
molto aperta ad accogliere i culti stranieri adattandoli e assimilandoli ai propri; la fusione di diversi culti, fenomeno chiamato
sincretismo religioso, portò alla formazione di un ampio pantheon di divinità di varia origine.
LE DIVINITÀ ROMANE. Alcune divinità, di origini antichissime, risalivano ai tempi in cui gli antenati dei Latini vivevano a
nord delle Alpi, a contatto con altri popoli indoeuropei: si trattava di divinità che presiedevano ai fenomeni naturali,
all'agricoltura, al commercio, alle arti, alla pace, alla guerra, alla fecondità. Tra queste vi erano: Giove, il «cielo padre», una forza
quasi impersonale che si identificava con la vasta distesa del cielo, la luce del sole, il fulmine, il tuono e la pioggia che dà vita e
prosperità (per questo veniva celebrato coli l'appellativo di Giove Pluvio); Diana, dea delle selve; Vesta, dea del fuoco, sul cui
altare, considerato il focolare comune del popolo romano, ardeva una fiamma perenne.
Dagli Etruschi i Romani derivarono il complesso apparato liturgico e l'arte della divinazione, cioè la capacità di interpretare la
volontà degli dei attraverso segni naturali che essi consideravano come messaggi divini inviati appositamente agli uomini.
Ma fu soprattutto la religione greca, talora attraverso la mediazione degli Etruschi, a esercitare un'influenza determinante su
quella romana: i miti e le leggende degli dei colpirono l'immaginazione dei Romani che ripresero dai Greci le forme di culto, la
consuetudine di innalzare templi e soprattutto la antropomorfizzazione degli dei, cioè la loro rappresentazione con fattezze e
caratteri umani. Molte divinità romane vennero allora assimilate a quelle greche e ne derivarono i tratti fondamentali: Giove
(Iuppiter, Iovis) assunse i connotati del greco Zeus, padre degli dei e degli uomini, protettore dei giuramenti e delle leggi, sposo
infedele di Giunone, la greca Era, protettrice della donna, della fecondità e del matrimonio, regina del cielo e madre degli dei;
essi, assieme a Minerva, antica divinità italica poi identificata con Atena e considerata protettrice delle scienze e delle arti,
formarono la triade capitolina, cui venne dedicato un tempio sul Campidoglio nel 509 a.C. Altri dei comuni ai Latini e agli Italici
erano: Marte, dio della guerra e anche dell'agricoltura, perché proteggeva i campi dalle incursioni nemiche; Cerere, dea dei
cereali; Mercurio, protettore dei mercanti; Giano, protettore di quanti passavano attraverso la porta della città e quindi anche dei
soldati che uscivano dalle mura per andare a combattere; Venere, poi assimilata alla greca Afrodite, che in origine impersonava la
magia e l’incantesimo e poi la seduzione della bellezza femminile; Apollo, dio degli oracoli, dal cui santuario di Cuma furono
portati a Roma i Libri Sibyllini (così chiamati dal nome della Sibilla, sacerdotessa di Apollo), custoditi da un collegio di sacerdoti,
che li consultava su richiesta del senato. Dal rapporto con le colonie della Magna Grecia i Romani derivarono la figura di Ercole
e, non avendo essi il concetto tipicamente greco di semidio o di eroe, lo venerarono come un dio, difensore degli uomini e
uccisore di belve, particolarmente onorato dai legionari che tornavano incolumi dalle campagne militari.
LE CERIMONIE RELIGIOSE. Il concetto di fede intimista, in cui il rapporto tra il singolo individuo e l'essere soprannaturale è
spontaneo e informale, era assolutamente estraneo ai Romani, per i quali la parola fides non indicava la fede nel senso in cui la
intendiamo noi, ma «la lealtà» e «il rispetto della parola data». Il rapporto tra l'uomo e le divinità era, invece, di tipo utilitaristico
e quasi contrattuale: il fedele, consapevole della straordinaria forza delle divinità, le venerava, offriva loro riti e doni votivi a
scopo propiziatorio sia per ottenere la loro benevolenza da cui trarre vantaggi nella vita terrena, sia per impedire che con la loro
ira ostacolassero il raggiungimento dei suoi scopi. Le forme del culto erano molteplici: si recitavano formule, si facevano solenni
processioni da un tempio all'altro della città, si offrivano agli dei le primizie del raccolto, si versavano sugli altari libagioni di latte
e vino o si sacrificavano animali domestici (victima, hostia).
Tutte le cerimonie religiose, pubbliche e private, dovevano seguire un preciso rituale, che per ogni cerimonia era fissato in modo
estremamente rigido e ripetitivo e prevedeva formule e gesti da rispettare fin nei minimi particolari (sbagliare anche una sola
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parola della formula poteva far adirare gli dei e comprometterne il favore). In questo panorama estremamente complesso i
sacerdoti si configuravano come tecnici esperti delle pratiche e dei rituali religiosi, con il compito di celebrare personalmente i riti
o di seguire i magistrati che officiavano le cerimonie pubbliche o il paterfamilias che presiedeva alle forme di culto privato.
IL CULTO PUBBLICO E I COLLEGI SACERDOTALI. Al culto pubblico erano addetti numerosi collegi sacerdotali:
Collegium pontificum: era formato da sedici membri e nominava il pontifex maximus, il presidente del collegio eletto a vita
e la massima autorità religiosa che godeva degli stessi diritti degli alti magistrati. A questi sacerdoti, depositari della
tradizione religiosa ed esperti dei rituali e del diritto sacro, spettavano l'avallo religioso delle decisioni prese dallo stato, la
compilazione delle liste dei magistrati e dei pontefici, del calendario e degli Annales, in cui erano registrati tutti gli
avvenimenti significativi accaduti durante l'anno;
Augures (da augere, «far crescere»): erano esperti nell'arte divinatoria. Con le loro indicazioni essi esercitavano un'influenza
determinante sulle scelte dello stato: infatti, per ogni questione di politica estera o interna, essi dovevano accertare
l'approvazione degli dei tramite l'interpretazione di segni naturali (auguria) come lampi, tuoni, fulmini, temporali o ricercati
nel volo e nel canto degli uccelli. Inoltre, in tempo di guerra essi risiedevano in una tenda vicina a quella del generale: il loro
campito, infatti, era quello di esaminare il modo in cui i polli sacri mangiavano il becchime e su questa base suggerire quali
comportamenti si dovevano adottare nelle operazioni belliche;
Vestales: costituivano l'unico collegio sacerdotale femminile; il Pontifex Maximus le sceglieva fra le bambine di età inferiore
ai dieci anni e le poneva sotto la sua potestas. Esse rimanevano in carica per trent'anni e avevano il dovere di alimentare
costantemente il fuoco sacro della dea Vesta e di mantenere la loro verginità per tutto il periodo del sacerdozio; nel caso
avessero mancato a uno di questi obblighi sarebbero state condannate a essere sepolte vive;
Flamines: erano sacerdoti preposti ciascuno a una diversa divinità. Il più importante, che era sacerdote di Giove, era
sottoposto a una serie di strane restrizioni: non andare a cavallo, non togliersi il tipico berretto che lo contraddistingueva, non
indossare abiti di lana, e altre simili;
Haruspices, indovini-sacerdoti provenienti dall'Etruria e quindi stranieri, non facevano parte dei sacerdoti romani né avevano
autorità religiosa pubblica; essi esaminavano le viscere (exta) degli animali sacrificati, soprattutto il fegato, e ne traevano
auspici per l'esito di eventi futuri.
LE CORPORAZIONI DI SACERDOTI. Oltre a questi collegi, vi erano delle corporazioni di sacerdoti addetti al culto di divinità
specifiche o a determinate cerimonie:
Salii, eletti a vita tra i patrizi, erano sacerdoti di Marte; si distinguevano per l'abbigliamento militare e tenevano le loro
cerimonie sacre a marzo e ottobre, mesi di inizio e di fine delle campagne militari;
Fetiales: erano esperti del settore del diritto che riguardava le relazioni con gli altri popoli. Era affidato a loro il complesso
cerimoniale per stipulare trattati di alleanza o fare dichiarazioni di guerra; in particolare essi avevano il compito i recarsi
presso i nemici con un fascio di erbe sacre a garanzia della loro incolumità, nel tentativo di risolvere pacificamente i dissensi;
Fratres Arvales, eletti a vita e appartenenti ai ceti più alti, celebravano riti per propiziare la fertilità della terra;
Luperci: presiedevano a riti di purificazione per propiziare la fecondità dei campi, delle greggi e delle donne.
GLI ALTRI CULTI. A partire dal I sec. a.C. accanto ai culti ufficiali si diffusero a Roma numerose religioni orientali, che fecero
presa soprattutto sugli strati medio-bassi della popolazione. La religione tradizionale era ormai diventata un insieme di cerimonie
stereotipate ed esteriori e non riusciva a rispondere ai bisogni spirituali degli individui. I culti misterici (dal greco myso: «stare
chiuso», «tacere»), invece, con i loro riti misteriosi e coinvolgenti, cui potevano partecipare solo gli iniziati, proponevano un
rapporto con la divinità intimo e personale ed erano quindi in grado di appagare l'esigenza di spiritualità e di offrire la speranza in
una nuova vita dopo la morte. Tra queste nuove forme religiose vi erano i culti di Dioniso, di Cibele e Attis, entrambi di
derivazione greca, di Iside e Osiride, di origine egizia, di Mitra, che fu importato dai soldati di ritorno dalle campagne militari in
fOriente. In epoca imperiale venne introdotto anche il culto degli imperatori defunti, cui era dedicata una cerimonia di
deificazione: gli imperatori giudicati indegni dal Senato e dal popolo, come Nerone e Domiziano, furono invece colpiti dalla
damnatio memoriae che ne cancellava ogni forma di ricordo. In questo variegato panorama il Cristianesimo sarebbe poi andato
incontro a un grande sviluppo e a una sempre crescente diffusione.
IL CULTO PRIVATO. Oltre alle cerimonie pubbliche era largamente diffuso a Roma il culto privato: in queste forme rituali,
celebrate da ciascun paterfamilias, venivano onorate le seguenti figure protettrici:
Genius (da gignere, «generare»), il protettore personale che accompagnava per tutta la vita ciascun individuo maschio; il
Genius dell'imperatore divenne anche una forma di culto pubblico;
Lares, numi tutelari della casa e della famiglia, le cui immagini, rappresentate con dipinti o statuette, erano venerate talora in
piccole cappelle innalzate nei campi o ai crocicchi delle strade;
Penates, a cui il paterfamilias portava giornalmente delle offerte di cibo in una piccola cappella (aedicula) a loro dedicata,
posta vicino alla cucina;
Manes, gli antenati defunti, a cui venivano dedicati riti e varie offerte votive, con l'intento di renderli felici e benevoli nei
propri confronti.
APPROFONDIMENTO 3. LA SUPERSTIZIONE
SUPERSTIZIONE E RELIGIONE. La religione, romana presentò fin dalle origini aspetti legati alla magia e alla superstizione.
Dalla religione etrusca i Romani avevano ereditato la credenza che sulla terra circolassero spiriti (lemures); pensavano che vi
fossero case infestate da fantasmi di persone uccise o assalite a tradimento; credevano nell'esistenza dei lupi mannari, uomini
trasformatisi in lupi che di notte facevano preda di pecore; favoleggiavano che certe vecchie si trasformassero in uccelli, che
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esistessero nei mari settentrionali dei mostri metà uomo e metà belve, che streghe e vampiri penetrassero nelle case dove c'era un
cadavere per depredarlo e mangiargli il naso.
Le forme di superstizione, ugualmente condivise dagli strati più bassi della popolazione e dagli uomini colti, erano dovute alla
credenza religiosa che nella vita dell'uomo ci fosse l'intervento provvidenziale della divinità: la forma più alta per comunicare con
il dio era quella religiosa della consultazione dell'oracolo, ma i modi per capire la volontà divina attraverso segni tangibili erano
infiniti. I Romani, infatti, interpretavano come l'espressione di un presagio fausto o infausto qualsiasi segno si presentasse loro
durante la giornata: per esempio, inciampare sulla soglia uscendo di casa era di cattivo augurio; il canto di un gallo durante un
convito era considerato un segno negativo che richiedeva i debiti scongiuri; un brutto sogno prima di un impegno importante ne
causava sicuramente il rinvio.
LE PRATICHE MAGICHE. Per rendere propizie potenze oscure ed eliminarne gli effetti dannosi esistevano pratiche magiche di
origine antichissima: ad esempio era consuetudine diffusa stornare il malocchio ricorrendo a precauzioni e amuleti di varia forma
e scrivere sulla porta arseverse (in etrusco: “allontana il fuoco!”) per scongiurare incendi; inoltre, essi evitavano regolarmente di
varcare la soglia con il piede sinistro e di sposarsi in particolari giorni considerati infausti e, se in cielo vi erano dei lampi,
fischiavano. Estremamente diffusa era la stregoneria finalizzata a creare filtri amatori per attirare a sé l'uomo amato: la donna
vittima di un amore infelice ricorreva a qualunque genere di incantesimo e di rito magico e soprattutto cercava di far bere
all'amato strane pozioni ottenute con ogni specie di sostanza, viscere di rana o di rospo, ossa di serpente, erbe sepolcrali e perfino
potenti veleni. Altre pratiche, simili alla magia nera, servivano, invece, a danneggiare in qualche modo le persone odiate, fossero
esse rivali in amore o nel lavoro, debitori insolventi o avversari politici. Gli archeologi hanno ritrovato molte defixiones, cioè
lamine di piombo con nomi propri incisi e accompagnati da formule di maledizione, che erano bucate nel centro e sotterrate
oppure nascoste in luoghi considerati vie d'accesso agli Inferi.
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