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Storia, le signorie

Dopo un lungo periodo di crescita economica e culturale, a partire dalla metà del XIII secolo la civiltà
comunale fiorita in Italia entrò in una crisi irreversibile, causata in gran parte dall’incapacità delle istituzioni
municipali di allargare le loro basi politiche e di accogliere le richieste di quelli strati sociali più modesti che
rivendicavano il diritto di partecipare al governo cittadino.

Nel corso del Duecento, infatti, l’evoluzione degli ordinamenti comunali in senso “popolare” aveva
avvantaggiato soltanto i nuclei più facoltosi e intraprendenti della borghesia, i quali, dopo aver ottenuto il
controllo politico sulle città al prezzo di rovinose lotte, si erano opposti all’acquisizione del medesimo diritto
da parte dei ceti meno abbienti.

Una volta giunto al potere, il cosiddetto popolo grasso si trovò a contrastare non solo il popolo minuto, che
rivendicava un ruolo nella vita politica, ma anche quelle famiglie di nobili che difendevano i propri privilegi
e che continuavano ad essere presenti nelle magistrature comunali. Perciò, nel corso del Trecento, le lotte
interne finirono per divenire degli scontri tra diverse famiglie all’interno della stessa élite. A questo genere
di contese si aggiungevano le rivendicazioni dei salariati e dei manovali (operai addetti ai lavori manuali).

Per fronteggiare gli aspri conflitti sociali che laceravano il complesso comunale, in alcune città le classi
dominanti scelsero di affidare il governo a un unico signore, che esercitasse i suoi poteri non per un solo
anno, come avveniva per i podestà, ma finché si fosse protratta la situazione di emergenza.

Nella seconda metà del Duecento iniziò dunque ad affermarsi una nuova forma di governo, la Signoria.
L’avvento di un signore, detentore di un potere pressoché assoluto, poteva avvenire sia in seguito a un
generale consenso che costui si era procurato in vario modo, ma di solito per meriti militari, sia attraverso
un’azione di forza con la quale un personaggio abile e spregiudicato si imponeva sulla collettività. Durante il
governo signorile le magistrature comunali continuarono in numerosi casi a esistere e funzionare. Per lungo
tempo infatti il signore riceveva da parte delle istituzioni comunali una sorta di delega della loro autorità.

La nascita delle prime Signorie risale alla seconda metà del XIII secolo, dove si erano per esempio instaurate
a Ferrara, in Toscana, a Lucca, a Pisa. A Firenze invece la Signoria fece la sua comparsa solo nel XV secolo,
quando si impose la famiglia Medici.

Infatti, nonostante le violente lotte interne che la agitarono fra XIII e XIV secolo, Firenze riuscì a mantenere
le proprie istituzioni comunali più a lungo di qualsiasi altra città italiana. A partire dal Duecento la città
toscana era divenuta uno dei più importanti centri manifatturieri d’Europa, specializzato nella produzione
di ricercati panni di lana. La fioritura economica aveva consentito una maggiore partecipazione al governo
della città dei diversi gruppi sociali, favorendo in particolare il popolo grasso. Dopo aver definitivamente
sconfitto la fazione ghibellina nel 1266, Firenze si trovava a essere la roccaforte guelfa d’Italia e i rapporti
privilegiati con Roma avevano favorito le grandi famiglie di banchieri, come i Bardi e i Peruzzi, ai quali fra
l’altro era stata affidata la gestione dei traffici finanziari che ruotavano attorno alla corte pontificia. Nel
1282, attraverso una riforma costituzionale, era stato inoltre creato il Priorato delle Arti, un organo
supremo formato da sei magistrati, i Priori, scelti fra le Arti maggiori. Si trattava di un’istituzione che
rappresentava gli interessi dei grandi mercanti della lana e della seta, dei finanzieri e dei banchieri. Mentre
il popolo minuto, si trovava tagliato fuori dal governo delle città, i magnati (cittadini ragguardevoli per
autorità e prestigio nella vita politica ed economica del proprio paese) continuavano a esercitare il potere.
Le rivendicazione contro i magnati trovarono un convinto sostenitore in Giano della Bella, un aristocratico
fiorentino divenuto per ragioni politiche favorevole al “popolo” che, una volta eletto priore, promulgò nel
1293 i cosiddetti Ordinamenti di Giustizia. Il provvedimento condizionava l’accesso alle cariche pubbliche
all’iscrizione a una delle Arti e in questo modo i magnati, che non erano iscritti a nessuna delle corporazioni,
furono del tutto esclusi dalle magistrature comunali. Ma in seguito Giano della Bella venne esiliato e la
riforma emendata: per poter accedere al governo si stabilì che fosse sufficiente anche la sola iscrizione a
un’Arte, senza l’esercizio effettivo della professione. In tal modo i magnati, inserendosi formalmente nel
sistema delle corporazioni, continuarono a dominare saldamente la scena politica della città. Fu questo
anche il caso di Dante Alighieri che si iscrisse alla corporazione dei Medici e degli Speziali. Nuove rivalità
vennero ben presto insorgendo fra le famiglie magnatizie, provocando una spaccatura all’interno del
guelfismo fiorentino. Alcune, infatti, coalizzate intorno alla famiglia dei Donati e alla fazione dei Neri,
miravano a una restaurazione integrale del potere aristocratico. Altre, invece, erano favorevoli a una
maggiore partecipazione politica della ricca borghesia cittadina e avevano quale loro punto di riferimento la
famiglia dei Cerchi e la fazione dei Bianchi. Intervenne anche papa Bonifacio VIII che appoggiò i Neri e
giunse a imporre a Firenze quale mediatore e pacificatore il principe Carlo di Valois, fratello del re di Francia
Filippo il Bello. Costui mandò in esilio i maggiori esponenti della fazione dei Bianchi, fra i quali lo stesso
Dante (1302). Dopo la partenza del principe francese, i Neri aprirono di nuovo le porte alla grande
borghesia. Continuarono invece a essere completamente ignorate da qualsiasi gruppo di potere le
rivendicazioni degli artigiani minori. Era venuta meno qualsiasi possibilità di ascesa sociale e si andavano
aggravando le disparità politiche tra le diverse componenti della città. A fare le spese di questo stato di cose
erano soprattutto i lavoratori dipendenti, privi di qualsiasi diritto non solo all’interno degli organismi
comunali, ma anche nelle associazioni corporative. Tra di essi i più numerosi e agguerriti erano i salariati
dell’Arte della lana, i cosiddetti Ciompi, addetti alla cardatura e alla pettinatura. Mal pagati e sottoposti a
orari di lavoro durissimi, costoro si ribellarono una prima volta nel 1345 per ottenere l’autorizzazione a
costituirsi in una corporazione autonoma e una seconda volta nel 1378 scatenando quella sollevazione nota
come “tumulto dei Ciompi”. Gli insorti, che rivendicavano libertà di associazione e il diritto per i loro
rappresentanti di partecipare al governo della città, riuscirono sulle prime a imporsi e ottennero la
creazione di tre nuove corporazioni (dei Tintori, dei Farsettai, dei Ciompi), dette “Arti del popolo di Dio”.
Tuttavia la grande borghesia riprese ben presto il sopravvento e le corporazioni dei Ciompi nel giro di due
soli mesi vennero abolite. Per scongiurare nuove ribellioni da parte dei ceti più poveri fu restaurato un
governo oligarchico, che fra il 1382 e il 1434 fece capo alla ricca famiglia degli Albizi. In questo periodo
Firenze riuscì a contrastare con successo le minacce espansionistiche di Gian Galeazzo Visconti. Dopo aver
conquistato Pisa e acquisito il controllo su Livorno, la città giunse a controllare le vie terrestri e i porti
toscani di cui si avvaleva per esportare più agevolmente i proprio prodotti. Proprio nei primi decenni del XV
secolo, la casata degli Albizi si trovò ad affrontare l’opposizione interna dei Medici, una famiglia di banchieri
provenienti dal contado decisa a scalzare la vecchia classe magnatizia. Dopo alcuni scontri in cui i Medici
parvero avere la peggio, il capo famiglia Cosimo il Vecchio riuscì ad acquisire l’unanime benestare del
Comune e a decretare l’esilio dei suoi avversari (1434). A Firenze venne così delineandosi un regime
signorile, anche se rimasero formalmente inalterati gli ordinamenti comunali: Cosimo il Vecchio, infatti, non
assunse mai il titolo di signore ma controllò saldamente il governo cittadino grazie alla presenza di
esponenti di sua fiducia in tutte le principali magistrature e si garantì il consenso del popolo anche grazie
alla sua attività di benefattore e di mecenate.

La caratteristica della politica di Cosimo il Vecchio è di una guida sapiente, prudente, diplomatica. Non
assume cariche eccezionali e non introduce modifiche istituzionali, ma si limita a esercitare un ferreo
controllo sulla vita politica cittadina, collocando uomini di fiducia nei posti chiave. Sebbene durante il
trentennale potere di Cosimo (1434-1464) cambiano gli uomini, Firenze resta dominata da una ristretta
oligarchia.

In altre parole, Firenze diventa una signoria de facto: il governo di Cosimo viene infatti chiamato “signoria
mascherata”, nonostante Cosimo si guardi bene dal farsi chiamare signore visto il forte legame del popolo
col precedente periodo repubblicano. L’autorità di Cosimo non verrà mai riconosciuta da alcun titolo legale:
l’unico riconoscimento simbolico, che ottiene nel 1465, un anno dopo la sua morte, sarà quello di pater
patriae, padre della patria.

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