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Il 1453 costituisce una data di notevole importanza non solo nella storia politica, ma anche

militare. La caduta di Bisanzio, le cui mura vengono distrutte dopo 40 giorni di


cannoneggiamento, impone all’attenzione del mondo un ‘invenzione destinata a
rivoluzionare il modo di condurre la guerra: la polvere da sparo.
Le armi da fuoco fanno la loro comparsa già nel XIV secolo, ma il suo non è un ruolo da
protagonista. Le prime colubrine sparano proiettili di pietra poco efficaci contro le mura dei
castelli e dispongono di sistemi di caricamento scarsamente affidabile. Nella prima metà del
XV secolo si registra una evoluzione, che trasforma le prime colubrine, in un’arma
affidabile. Rese più facilmente trasportabili con l’applicazione di ruote; in grado di sparare
proiettili metallici, le artiglierie si rivelano un’arma d’importanza fondamentale, destinata a
cambiare non solo il volto della guerra, ma anche gli equilibri politici e sociali.
Colubrine e bombarde, infatti, sono in grado di sfidare con i loro proiettili le mura inviolate
dei castelli e delle città. La nobiltà feudale e i corpi municipali orgogliosi della loro
autonomia si trovano di conseguenza disarmati di fronte all’artiglieria dei re, i soli in grado
di utilizzare su larga scala le nuove armi, estremamente costose. Anche la diffusione delle
armi da fuoco portatili, contribuisce a ridimensionare il primato militare della cavalleria.
Pistole, archibugi e fucili a miccia e a ruota, moschetti a pietra focaia, affiancandosi alle
colubrine, determinano sui campi di battaglia una trasformazione destinata a incrinare il
prestigio della nobiltà. Ne deriva un aggravamento della crisi della nobiltà feudale, che, oltre
a vedere ridimensionate le proprie rendite, vede anche ridotto il suo prestigio sui campi di
battaglia. Ne risulta anche un’ulteriore spinta al perfezionamento delle tattiche e delle
strutture militari nel corso del 15 secolo, vengono poste le premesse per la nascita del futuro
esercito moderno.
Già nel corso del 200 i sovrani avevano iniziato a rafforzare la loro posizione ottenendo da
molti nobili, in luogo del servizio militare, il pagamento di una tassa, con cui potevano
retribuire al loro posto dei soldati mercenari, cosi chiamati parchè in cambio della loro opera
ricevevano un soldo, una mercede. Più tardi il ricorso a soldati di mestiere, diviene di
ordinaria amministrazione in moltissimi paesi europei. Mercenari reclutati nelle aree
geografiche più povere a partire dalla montuosa Svizzera, rafforzano i principali eserciti del
continente.

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Lo stato moderno
Un nuovo esercito, però, presuppone innanzitutto un nuovo stato. Questo nuovo modello
politico non è, naturalmente, un ‘invenzione della seconda metà del 400, ma piuttosto la
risultante di un lento processo. A caratterizzarlo è la tendenza a un accentramento del potere,
che accumuna sia le principali monarchie nazionali dell’occidente, sia le maggiori
repubbliche aristocratiche. Più forti da un punto di vista militare ed economico, i sovrani
possono limitare l’indipendenza dei signori feudali e l’autonomia dei principali centri urbani.
In questo modo il potere dello stato- identificato con la persona del monarca- ottiene
obbedienza da tutti gli ordini della società e da ogni territorio del regno.
Questo processo di accentramento del potere statale non deve essere tuttavia sopravvalutato.
Sarebbe un grave errore pensare allo stato del 500 come a uno stato moderno. Nelle
monarchie nazionali fra il 400 e il 500 la nobiltà non perde tutto il suo antico peso: conserve
molte prerogative di tipo feudale.
Con il fenomeno dell’assoggettamento dei comuni e delle signorie minori ai centri più
importanti nasce lo stato regionale che viene a sostituirsi allo stato cittadino. Sull’inizio del
400 la Signoria Viscontea era pervenuta a dominare tutta la Lombardia e giunse fino a
minacciare lo stato di Firenze. Comunque i tempi non erano ancora maturi per un’unità
politica, infatti, anche se l’unità spirituale italiana creava nella vita politica una certa
esigenza unitaria impediva con il patriottismo locale ogni tendenza a un ‘unificazione
politica, in questo modo l’esigenza degli stati regionali si faceva tramite alleanze e leghe. In
questo modo quelli che oggi sono dei alleati potevano diventare nemici a proposito di un
certo problema, il giuoco delle alleanze e delle rotture delle parti si traduceva con guerre
numerose e continue.
Di contro alla signoria che da Milano governava le terre lombarde, crebbero gli altri stati
maggiori della penisola e si consolidarono oltre a Milano, Venezia, Firenze, Roma, degli
stati-città che estesero la loro egemonia sulle regioni limitrofe.
Venezia la vecchia repubblica aristocratica era fino alla metà del 300 regionalmente limitata
parchè aspirava soprattutto a formare un vasto dominio coloniale e marittimo comincia dopo
il trecento ad allargarsi nel continente. Infatti, stretta dalla necessità di assicurare degli
sbocchi continentali ai suoi commerci si costituì sulla terra ferma uno stato potente che
perveniva fino alla regione lombarda da ovest e si è estesa fino alla Dalmazia e l’Istria da est.
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Firenze nel XIV secolo dominava quasi tutta la toscana, verso la metà del XIV secolo
s’impegnerà a consolidare lo stato e a dargli una forma di signoria; Cosimo dei Medici ( il
vecchio) grande mercante e banchiere dalle tendenze democratiche s’impadronì
indirettamente delle strutture politiche della repubblica fiorentina. Alla fine del 15 secolo
Firenze era ormai governata dai Medici, il loro regno comincia verso il 1479. il fondatore
della dinastia medicea sarà Cosimo che senza appartenere all’aristocrazia fiorentina pervenne
ad impadronirsi della repubblica.
La protesta civile del papato fu contrastata dai condottieri al servizio dei Visconti e fu
contesta anche dalle ribellioni popolari ( in realtà dalle grande famiglie romane che avevano
per padroni, gli Orsini e i Colonna). Però il Papa Niccolò V pervenne ad imporrere la sua
autorità politica. Lo stato della chiesa si estende fino a Bologna e al regname di Napoli
inglobando il Lazio e le Marche.

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L’Italia dopo la pace di Lodi e la politica dell’equilibrio.
La «Lega italica» La tregua fra gli stati italiani

La caduta di Costantinopoli e la perdurante minaccia turca non restano prive di


conseguenze neppure nella penisola italiana travagliata dai continui contrasti interni fra i
maggiori stati. L’esigenza di concentrare tutte le proprie forze nella lotta contro gli ottomani
induce, infatti, Venezia, scoraggiata anche dall’ostilità di Firenze, a desistere dal conflitto
per la successione al ducato di Milano e a stipulare nel 1454 la pace di Lodi. Con questo
trattato, sottoscritto da tutti gli stati della penisola coinvolti nei conflitto, Francesco Sforza
viene riconosciuto signore della Lombardia, mentre il confine fra questa e la repubblica di
San Marco viene fissato lungo la linea del fiume Adda. Venezia, così, rimane padrona di un
vasto dominio che dall’Adriatico settentrionale si estende alle Alpi e nella pianura padana
include i territori compresi fra l’Adda e il Po, con l’esclusione di Cremona, Mantova e
Rovigo. La Serenissima inoltre controlla I’Istria, la Dalmazia, molte isole del Mar Ionio, del
Mar Egeo e del Mediterraneo orientale. Restano esclusi dai suoi domini, però, il principato
ecclesiastico di Trento, e Trieste, che, insieme al relativo hinterland, continua, a far parte dei
domini asburgici.
Gli accordi raggiunti con la pace di Lodi sono sanciti solennemente lo stesso anno 1454 da
un trattato di alleanza stipulato dai cinque più importanti stati della penisola, la «santissima
lega», o «lega italica». Questa, come indica il termine, viene presieduta dal pontefice,
anch’egli, come la classe dirigente veneziana, preoccupato per l’espansionismo turco e
timoroso che le divisioni fra gli stati cristiani pongano le premesse perché la stessa Roma
possa fare la fine di Costantinopoli. Milano, Venezia, Firenze, lo stato della chiesa e il regno
aragonese vi partecipano su un piano di parità, pur riconoscendo la superiorità morale del
papa. Attraverso di essa perseguono una politica dell’equilibrio ispirata anche alla
preoccupazione di scoraggiare le ingerenze straniere nella penisola.

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La repubblica di Venezia e il ducato di Milano.
Venezia, lo stato più «moderno» d’Italia.

Ben presto, tuttavia, la costruzione politica iniziata a Lodi e proseguita a Roma


incomincia a mostrare le prime crepe, dovute sia alla debolezza e ai contrasti interni di alcuni
stati italiani, sia alle perduranti ambizioni di altri.
Fra tutti gli stati della penisola, quello dotato di strutture politiche più moderne ed efficienti è
anche il più antico: la repubblica di San Marco. Ormai consolidatasi come repubblica
aristocratica in cui il potere è nelle mani dei duemila membri del Maggior Consiglio,
Venezia alla fine del secolo dispone di un’amministrazione accentrata, di magistrature
specializzate nella gestione delle finanze e della giustizia, di un sistema di rappresentanti
diplomatici che non ha rivali per efficienza e ampiezza.
Gli abitanti dei territori assoggettati sulla terraferma, pur non avendo voce in capitolo
nell’amministrazione dello stato, conservano le loro autonomie locali: anche per questo
motivo, nell’ora del pericolo rimarranno fedeli alla repubblica.
Le inquietudini interne negli altri stati

Ben diversa la situazione negli altri stati italiani, in cui i progressi dell’accentramento
amministrativo da parte del potere centrale sono spesso contrastati dal prevalere delle forze
centrifughe. Piccoli e grandi signori della penisola si circondano di splendide corti,
proteggono artisti e letterati e arricchiscono le loro capitali di solenni edifici. Ma non sempre
riescono a consolidare il proprio potere e a garantirsi il consenso popolare, anche perché le
enormi somme impiegate per grandiose opere urbanistiche e architettoniche impongono un
appesantimento del carico fiscale e una riduzione delle spese produttive.
A Milano, così, alla solida signoria di Francesco I succede il governo tirannico di suo figlio
Galeazzo Maria. Più tardi il potere è usurpato da Ludovico il Moro; questi, sottratta la
successione al legittimo erede Gian Galeazzo Maria, che ha sposato una nipote del re di
Napoli, regge con pugno di ferro il ducato. A Firenze, la trasformazione del dominio
personale di Cosimo il Vecchio in una signoria ereditaria provoca l’insofferenza delle
principali famiglie del patriziato cittadino. E analoghi problemi di successione si registrano

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nel regno aragonese di Napoli, da cui anzi provengono i primi seri colpi alla «lega italica» e
all’equilibrio politico faticosamente uscito dalla pace di Lodi.

Le difficoltà del regno aragonese e il nepotismo pontificio


Lo stato del sud fra mene dinastiche e rivolte nobiliari
La morte di re Alfonso, nel 1458, dopo uno sfortunato tentativo d’impadronirsi di Genova,
provoca infatti una guerra di successione in cui intervengono sia gli angioini, sia quasi tutte
le maggiori potenze della penisola, dal papa a Venezia. Mentre la Sicilia, con 1’Aragona, va
al fratello di Alfonso, Giovanni, dopo lunghe e complesse vicissitudini, il conflitto si
conclude con i’insediamento a Napoli dell’erede designato Ferdinando, figlio illegittimo di
re Alfonso.
Più tardi, nel 1485, la fragilità dell’apparato statale nel Mezzogiorno è confermata dalla
congiura dei baroni. Ostile alla politica di re Ferdinando, che ha cercato di guadagnarsi
l’appoggio della borghesia commerciale e artigiana, la nobiltà feudale del regno insorge. La
rivolta, che sarà comunque stroncata nel sangue, gode dell’appoggio del pontefice Innocenzo
VIII.

Il papato fattore di squilibrio nella politica italiana


Come e più della repubblica di Venezia, lo stato della chiesa è, infatti, una fra le principali
forze perturbatrici dell’equilibrio politico italiano. Come sovrani temporali i pontefici
cercano non solo di consolidare i loro domini, frammentati, in un mosaico di signorie feudali
e città autonome, ma anche di estendere la loro influenza e la loro autorità sui territori
confinanti. Non mancano, certo, anche in questo periodo personalità maggiormente
preoccupate delle esigenze della cristianità, come l’umanista Enea Silvio Piccolomini che,
salito ai soglio pontificio con il nome di Pio Il, cerca di coalizzare le potenze cattoliche
contro la minaccia turca, o il suo successore Paolo Il. Ma la pratica del nepotismo costituisce
una costante per la maggior parte di questi «papi del Rinascimento». Preoccupati di
assicurare domini personali ai loro parenti, consolidando le fortune delle rispettive famiglie,
molti cardinali giunti al pontificato muovono guerre e stringono alleanze al solo scopo di
assicurare ai «nipoti» una signoria a spese dei vicini.

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La congiura dei Pazzi
Le opposizioni a Cosimo il Vecchio
Non deve di conseguenza meravigliare se il papato non rimane estraneo a un altro grave
tentativo di incrinare la stabilità politica di uno stato confinante: la repubblica fiorentina.
Qui, fino al 1464, ha governato, formalmente da privato cittadino, di fatto da signore, l’abile
Cosimo de’ Medici, detto Cosimo il Vecchio, stimato per la sua attività di mecenate,
protettore di letterati e artisti, oltre che per i suoi interventi a difesa dell’equilibrio politico
della penisola. Alla sua morte il potere viene ereditato da suo figlio Piero, detto il Gottoso,
debole e malaticcio e, alla scomparsa di questi, nel 1469, dai di lui figli Giuliano e Lorenzo.
Ma la trasformazione del governo personale di Cosimo in una signoria ereditaria suscita
l’ostilità del patriziato cittadino, che guarda con diffidenza al consolidamento del potere
centrale e si erge a difensore delle antiche libertà repubblicane, considerate una garanzia del
suo antico predominio sulla vita cittadina. Da questo malcontento tenta di trarre vantaggio il
pontefice Sisto IV, che, desideroso di assicurare una signoria a un proprio nipote, incoraggia
nel 1478 l’aristocratica famiglia fiorentina dei Pazzi ad assassinare i due successori di Piero
mentre assistono alla messa nel duomo cittadino.

La vittoria dei Medici


La congiura dei Pazzi si risolve però in un fallimento: sotto il pugnale dei cospiratori
cade soltanto Giuliano, mentre Lorenzo riesce fortunosamente a salvarsi e il popolo
fiorentino, favorevole ai Medici, fa giustizia sommaria dei ribelli e impicca a una finestra del
palazzo dei priori, l’odierno palazzo della Signoria, Francesco Salviati, arcivescovo di Pisa,
ritenendolo complice dell’assassinio. Papa Sisto IV, deluso nei suoi propositi, approfitta
dell’uccisione dell’ecclesiastico per lanciare una scomunica contro Firenze e cerca di attrarre
te Ferdinando di Napoli in una guerra contro di essa. Anche Lorenzo, però, approfitta della
situazione per insediarsi come signore a pieno titolo della città toscana, forte anche del
consenso dimostratogli al momento del pericolo dal popolo fiorentino, e per opporsi
efficacemente al pontefice. Dopo avere rifiutato l’appoggio del re di Francia contro re
Ferdinando, egli infatti riesce a far desistere quest’ultimo dalla lotta e ad impostare un’intesa
sia col regno aragonese sia col ducato di Milano per tenere a freno le tendenze
espansionistiche dello stato pontificio e di Venezia.
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La guerra di Ferrara e gli anni dell’equilibrio
I risultati di questa alleanza si manifestano nel 1482, quando il pontefice Sisto IV si allea con
la repubblica di San Marco per spartirsi i domini della casa d’Este, titolare del ducato di
Ferrara, rinomata per la sua splendida corte, e di vasti territori nel Polesine, nella pianura
padana e in Garfagnana. La guerra di Ferrara, che ne deriva, vede Milano, Firenze e Napoli
schierate contro le ambizioni espansionistiche dei due aggressori. Alla fine del conflitto
Venezia ottiene la signoria sul Polesine, ma il resto del ducato rimane agli Estensi e
l’equilibrio politico della penisola è ancora una volta salvo.

Lorenzo il Magnifico
In questi ultimi anni che precedono la scomparsa di Lorenzo il Magnifico, nel 1492, l’Italia
può così godere di un periodo di stabilità, destinato a venire esaltato nei decenni successivi,
in cui la penisola si trasformerà in un campo di battaglia fra potenze straniere. Abile
negoziatore, al punto da venire considerato l’«ago della bilancia» della politica italiana,
protettore delle lettere e letterato egli stesso, Lorenzo, soprannominato il Magnifico, è il
personaggio più rappresentativo di questa che sarà considerata un’età d’oro della vita politica
italiana, ma che d’oro in realtà non è. L’equilibrio raggiunto fra le ambizioni dei diversi stati
è, infatti, troppo precario per potersi considerare stabile e soprattutto, i regimi politici della
penisola sono troppo fragili per poter reggere il confronto con le potenti monarchie nazionali
che si affacciano sullo scenario politico europeo.

Tra la fine del Quattrocento e la prima metà del secolo successivo, la civiltà del
Rinascimento in Italia raggiunge la sua più completa maturazione, beneficiando anche del
mecenatismo dei principi, e si esprime in uomini come Niccolò Machiavelli e Francesco
Guicciardini nel campo della storia e della trattatistica politica, in artisti come Tiziano e
Michelangelo, in letterati come Ludovico Ariosto, nel genio universale di Leonardo da
Vinci.
Questa cultura estremamente raffinata riposa tuttavia su una base in fondo assai fragile. I ceti
popolari sono in buona parte estranei, così come sono estranei o addirittura ostili ai regimi
politici alla cui ombra essa si è sviluppata, La scarsa coesione interna, il distacco fra popolo
e principe, fra governanti e governati, l’incapacità da parte di molti signori italiani di
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guadagnarsi l’appoggio di mercanti e manifattori costituiscono per gli stati della penisola
altrettanti fattori di inferiorità rispetto alle nascenti monarchie nazionali. Ad aggravare la
situazione si aggiunge l’instabilità diplomatica, provocata dallo scontro fra le tendenze
espansionistiche di vari organismi politici ancora in fase di assestamento.

Carlo VIII in Italia. La frattura di un delicato equilibrio


Ludovico il Moro
Il faticoso equilibrio italiano non sopravvive, infatti, che pochi mesi a colui che ne è stato il
maggiore artefice. Nel 1424, appena due anni dopo la morte di Lorenzo il Magnifico, il
signore di Milano Ludovico il Moro sollecita l’appoggio francese contro gli aragonesi di
Napo1i e contro il papa Alessandro VI, che persegue una politica espansionistica. Nel farlo,
egli non ha nessuna intenzione di aprire le porte della penisola allo straniero; anche perché
straniero il re di Francia non può essere considerato in Italia più degli aragonesi, in quanto
erede dei diritti dinastici angioini.

La passeggiata Carlo VIII


Ed è proprio per mire di carattere dinastico oltre che per ambizioni cavalleresche, che il
giovane sovrano d’oltralpe Carlo VIII raccoglie l’invito di Ludovico il Moro, inizialmente
condiviso anche da altri stati della penisola, e discende in Italia. Sua ambizione è fare del
Napoletano, sottratto agli aragonesi, la base per una crociata contro i turchi. Alle sue spalle
ci sono molti cadetti della piccola nobiltà in cerca di gloria e di ricchezze da guadagnarsi sul
campo di battaglia, ed anche vari commercianti desiderosi di buoni affari nella ricca
penisola. Rimarranno delusi gli uni e gli altri. Quella di Carlo VIII - dalle Alpi alla Toscana,
da Roma al regno di Napoli, conquistato senza colpo ferire - è una passeggiata militare, tanto
incruenta nel suo svolgimento quanto priva di durevoli risultati: nel 1495 una lega di stati
italiani sostenuta dal re di Spagna e dal1’imperatore costringe i francesi a battere in ritirata,
affrontandoli a Fornivo di Taro. Ciò nonostante l’impresa del sovrano d’oltralpe è sufficiente
a far emergere conflitti sociali e tendenze centrifughe a lungo compresse dalle classi dirigenti
dei nascenti stati regionali.

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La reazione degli italiani: particolarismi e disgregazioni
La calata di Carlo VIII, infatti, dà fiato ad alcune spinte autonomistiche, a diversi
particolarismi locali. E quanto avviene a Pisa, dove il re francese viene accolto come un
liberatore, felici di scrollarsi di dosso il dominio di Firenze. La borghesia commercia1e
guarda, infatti, con simpatia nella maggior parte dei casi al sovrano d’oltralpe, perché sa che
la sua dinastia ha sempre praticato una politica di protezione delle industrie e dei traffici che
la seconda generazione dei signori italiani (la generazione dei Lorenzo il Magnifico e dei
Ludovico il Moro, succeduti ai Cosimo dei Medici e ai Francesco Sforza ) ha ormai da
tempo cominciato a trascurare.
Ma il fenomeno più indicativo della fragilità dei regimi politici italiani (oltre che della scarsa
presa della cultura ufficiale sulle masse) si verifica a Firenze. In questa città dove sino a due
anni prima ha dominato la personalità di Lorenzo il Magnifico, il passaggio dei francesi fa da
occasione per un’insurrezione repubblicana, con la cacciata del successore di Lorenzo, Piero,
e un breve tentativo di resistenza a Carlo VIII. A capitanare la rivolta è il priore del convento
domenicano di San Marco, fra Girolamo Savonarola, che nelle sue infuocate prediche tuona
contro la corruzione della chiesa la licenza dei costumi, l’arte profana del Rinascimento la
«tirannide» dei Medici.

Savonarola e la crisi di Firenze, «prima città borghese»


Il dominio mercantile a Firenze
Il successo di Savonarola non è casuale. E soprattutto non è casuale che si verifichi proprio a
Firenze. Nel capoluogo toscano il rapporto fra i tre grandi centri della vita municipale la
cattedrale, polo della vita religiosa, il palazzo comunale, sede del potere politico, e la loggia
dei mercanti, centro delle attività economiche si è da tempo alterato a tutto vantaggio di
quest’ultima. Una borghesia commerciale dominata dalla preoccupazione dell’utile
economico più che da scrupoli religiosi ha realizzato la propria egemonia sullo stato, prima
in forma oligarchica, poi attraverso il predominio di una famiglia di banchieri.
La loggia dei mercanti ha finito così per prevalere sul palazzo comunale, o meglio se ne è
impadronita. Ne ha fatto, in altri termini, lo strumento per la tutela dei propri interessi
economici, identificati con quelli dell’intera cittadinanza, travasando nella classe politica il

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suo linguaggio asciutto formatosi nella tenuta dei libri contabili, la sua mentalità pragmatica,
i suoi valori utilitaristici.

Il riemergere del millenarismo popolare


In questa che per il suo precoce sviluppo economico verrà definita la «prima città borghese
del mondo moderno», Savonarola si fa portavoce dell’insofferenza popolare contro il signore
banchiere, cui contrappone il modello della città medievale, «stretta moralmente intorno alla
cattedrale, dove il popolo ascoltava la parola di Dio» (Mastellone). E con foga mistica egli
reagisce al pericolo che l’equilibrio fra le tre diverse funzioni della città civile, religiosa ed
economica si spezzi a tutto vantaggio delle attività mercantili e a tutto svantaggio della
religione. In un periodo nel quale predominano la corruzione del clero e le mire
temporalistiche del papato, il frate domenicano raccoglie consensi facendosi promotore di
una riforma dei costumi che riconduca all’antica purezza, insieme alla città di Firenze,
l’intera chiesa. Nella città dove l’arte profana del Rinascimento e la cultura umanistica hanno
raggiunto le massime espressioni, egli pur godendo dell’amicizia di molti letterati ed artisti si
riannoda a un filone mai interrotto di cultura popolare a sfondo millenaristico, che assicura il
consenso delle masse ai suoi disegni di rinnovamento civile e morale.

La repressione della repubblica Savonaroliana


Obiettivo di Savonarola è, infatti, proprio l’instaurazione di una sorta teocrazia
populista, attraverso alcune riforme istituzionali di portata, per la verità, abbastanza ridotta
sotto il profilo sociale. Ma è un sogno di breve durata. Sono contrari al domenicano sia la
curia romana, attaccata dalle sue prediche, sia l’oligarchia commerciale fiorentina,
preoccupata delle ripercussioni sui suoi traffici dell’ostilità papale e timorosa che il
riformismo del frate si cali anche sul terreno politico ed economico. La scomunica,
comminata al predicatore dal papa Alessandro VI per questioni di diritto canonico, e non di
natura dottrinaria, apre la via alla riscossa oligarchica contro il partito dei «piagnoni»,
favorevoli al Savonarola.
Il frate domenicano viene processato, condannato e impiccato, prima di essere bruciato sul
rogo, nel 1498: la sua fortuna politica è durata appena quattro anni. Ma il fatto che per
quattro anni, nella città che era stata la protagonista dell’umanesimo e del primo
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Rinascimento, un predicatore forte solo della violenza delle sue invettive e di qualche
profezia fortunata abbia potuto esercitare un simile controllo sulle masse è di per sé
indicativo delle profonde contraddizioni e lacerazioni che, sul cadere del XV secolo,
contraddistinguono la società italiana e ne accrescono la debolezza di fronte ai più compatti
organismi politici delle monarchie nazionali.

Verso il trattato di Noyon e il predominio franco-spagnolo sulla penisola.


La discesa di Luigi XII e il tentativo del Valentino.

A partite dal 1499, la monarchia d’oltralpe e la corona spagnola si contendono la penisola.


E lo fanno attraverso una serie di conflitti che vedono i maggiori stati italiani, compreso
quello pontificio, schierati ora dall’una ora dall’altra parte, con rapidi rovesciamenti di
fronte.

I sovrani italiani alla ricerca di protettori stranieri in questo periodo trova conferma quella
che sembra ormai la sorte della penisola: essere oggetto di contese e di spartizione ad opera
di potenze straniere, senza che i suoi abitanti riescano a esprimere né un concreto spirito
d’indipendenza né una resistenza solidale, anche perché il sentimento unitario è scarsamente
sviluppato e su esso prevalgono localismi dinastici, rivalità di campanile o anche e piuttosto
spesso ambizioni familiari o personali.

Il tentativo di formare una monarchia italiana: il Valentino


Nel frattempo matura il tentativo di un figlio di papa Alessandro VI —Cesare Borgia, detto il
Valentino di costituire un solido stato accentratore fra Umbria, Romagna e Toscana, sulle
rovine di molte signorie locali e domini feudali. In un primo tempo il Borgia ha successo
grazie all’appoggio del padre e dei francesi oltre che ai metodi spregiudicati con cui prevale,
senza indietreggiare di fronte al tradimento, su molti avversari, fra cui il duca di Urbino. Ma
non è neppure d’escludere che la sua politica accentratrice gode in certi casi dell’appoggio
delle popolazioni, in quanto ridimensiona lo strapotere dei signorotti locali.

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Dalla Lega di Cambrai alla «lega santa». Venezia dopo Agnadello.
La fine del Valentino
Le fortune del Valentino sono comunque di breve durata: a far crollare il suo edificio politico
è infatti sufficiente la morte del padre, cui succede nel 1503 Giuliano della Rovere, deciso
avversario della famiglia Borgia. Il nuovo papa, che assume il nome di Giulio II, persegue,
infatti, una politica di deciso intervento nelle vicende politiche italiane, come del resto la
stragrande maggioranza dei pontefici rinascimentali. Non solo, infatti, egli riconquista i
domini del Valentino, ma trovatosi in urto con Venezia, che nel frattempo ha occupato parte
della Romagna promuove un’alleanza internazionale contro la Serenissima, la cui espansione
sulla terraferma ha suscitato notevole allarme nelle potenze confinanti. Viene stipulata così
la lega di Cambrai, cui partecipano tutti gli stati preoccupati dalle recenti conquiste della
Serenissima: l’impero, cui Venezia ha sottratto Fiume e Trieste; la Francia, minacciata
dall’annessione veneziana di Cremona, in Lombardia; i duchi di Ferrara e di Mantova e lo
stesso re di Spagna.

La battaglia di Agnadello
Gravemente sconfitta ad Agnadello nel 1502, la repubblica di San Marco vive una delle ore
più drammatiche della sua storia; a salvarla dalla disfatta sono la lealtà delle popolazioni
contadine dell’entroterra, assoggettate di recente, ma fedele alla Serenissima da cui sperano
un alleviamento delle loro condizioni feudali, e anche la tradizionale abilità della sua
diplomazia. Questi, infatti, riesce a sfruttare le divisioni fra i suoi nemici, stipulando paci
separate sino alla dissoluzione della lega.

L’Italia verso il condominio franco-spagnolo


A dare il colpo definitivo all’alleanza è del resto lo stesso Giulio II. Egli nel1511,
preoccupato per le ingerenze d’oltralpe in Italia, si fa promotore di una «lega santa», in
funzione antifrancese, cui aderiscono la Spagna, l’Inghilterra e gli stati della penisola. Dopo
alterne vicende, i francesi si ritirano dalla Lombardia, consentendovi il ritorno del figlio di
Ludovico il Moro.
Nel frattempo, nel 1512, si verifica un’altra restaurazione, con la caduta della repubblica
fiorentina (divenuta a carattere oligarchico dopo il supplizio del Savonarola ) e il ritorno al
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potere dei Medici, che l’anno dopo accrescono la loro influenza con l’elezione al soglio
pontificio del figlio di Lorenzo il Magnifico, Giovanni, con il nome di Leone X.
Il nuovo assetto della penisola non è tuttavia definitivo: ne1 1515 infatti, il nuovo re di
Francia Francesco I riprende la sua politica di espansione n Italia, grazie anche all’alleanza
di Venezia, riesce a sconfiggere le truppe avversarie, r in particolare la potente fanteria
svizzera, a Melegnano. Risultato di quest’ultima campagna, e di un ventennio di guerre per il
predominio in Italia, il Trattato di Noyon, concluso nel 1516 tra Francesco I e Carlo
Asburgo, per il momento re di Spagna con il nome di Carlo I, dopo la morte di Ferdinando.
Con esso trova sanzione il principio del condominio franco-spagnolo nella penisola: il
Milanese va alla Francia, il Napoletano alla Spagna. Un principio che continuerà a valere
sino a quando il rapporto di forze fra i due contendenti non conoscerà vistose alterazioni.

Carlo V in Italia e la ripresa del conflitto


La guerra con Francesco e la battaglia di Pavia
L’intervento di Carlo V in Italia non si dovrebbe tradurre in una conquista militare, ma
nell’affermazione di un’egemonia politica e nella realizzazione di una riforma morale della
stessa chiesa. Il raggiungimento di questi obiettivi passa attraverso la lotta con il re di
Francia per il controllo della penisola. In un primo tempo il conflitto, ripreso nel 1521, è
decisamente favorevole all’imperatore, che può contare sull’appoggio di Enrico VIII, re
d’Inghilterra, del papa Leone X e di un grande feudatario francese, il Conestabile di
Borbone. Il sovrano spagnolo riesce a sottrarre a Francesco I, oltre a Genova il Milanese,
insediandovi uno Sforza, non senza soddisfazione delle popolazioni locali, insofferenti del
governo francese. I ripetuti tentativi del monarca d’oltralpe di riconquistare il ducato vanno
incontro al fallimento, finché nel 1525 nella battaglia di Pavia lo stesso Francesco I subisce
una rovinosa sconfitta e viene preso prigioniero. Il successivo trattato di Madrid è la logica
conseguenza della disfatta. Con esso lo sfortunato sovrano, in cambio della propria libertà,
s’impegna a rinunziare alle sue pretese sul Milanese e sul Napoletano, a cedere a Carlo V i
suoi domini in Borgogna e a consegnargli in qualità di ostaggi i suoi figli.
Le sorti del conflitto franco-spagnolo potrebbero sembrare ormai segnate, ma non è cosi.
Appena libero Francesco I si affretta a ripudiare i patti sottoscritti in prigionia e a riprende le
ostilità, in una lotta a tutto campo
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La Riforma protestante: La riforma delle anime. Da Gioacchino da Fiore a Martin
Lutero, il mito della restaurazione della chiesa primitiva. Un clima millenaristico.

Anche se è destinato a esercitare un peso determinante nel fallimento dei tentativi di


Carlo V, il movimento di contestazione interna che divide la cristianità ai primi del
cinquecento non nasce in funzione anti-imperiale, ma piuttosto, mira a realizzare una
moralizzazione della chiesa, una «riforma delle anime» che la coscienza europea ha a lungo
atteso dall’autorità imperiale. La speranza di una purificazione delle strutture ecclesiali ad
opera della suprema autorità politica della cristianità era stata a lungo uno fra i maggiori
motivi della fortuna incontrata dal mito del sacro romano impero presso la cultura e la
sensibilità popolare. Già nel XII secolo, Gioacchino da Fiore aveva espresso l’auspicio di un
sovrano salvatore che punisse la chiesa corrotta del suo tempo. Dopo di lui, man mano che,
dopo la rinunzia di Celestino V, veniva meno la fiducia nell’elezione al papato di un
«pastore angelico», si era venuta rafforzando la fede nell’avvento di un imperatore
riformatore e restauratore, capace di ricondurre la cristianità all’antica purezza evangelica.

Erasmo da Rotterdam
L’umanista Erasmo da Rotterdam si fa interprete dell’esigenza di una riforma morale della
chiesa. Nella sua opera L’elogio de//a follia uscita nel 1509 e presto accolta da un vasto
successo egli non si limita a descrivete con ironia le aberrazioni e le storture mentali presenti
sia presso i governanti che presso i diversi ceti della società, ma critica a fondo le vuote
superstizioni, le dispute teologiche sottili quanto inutili, le ambizioni temporali degli alti
prelati. Ad esse egli contrappone quell’ideale di una religiosità tollerante e serena, capace di
conciliare messaggio evangelico e cultura umanistica, che aveva presentato come modello
per l’educazione del «principe cristiano» Carlo V. All’interno della stessa chiesa romana, del
resto, non erano mancati gli sforzi per un rinnovamento, inteso come ritorno alla originaria
purezza. Lo dimostra, fra l’altro, il diffondersi nei paesi settentrionali di confraternite di
sacerdoti e di laici che praticavano una nuova forma di devozione detta, appunto, la devotio
moderna consistente soprattutto nell’imitazione di Cristo e nella ricerca di una comunione
mistica con lui.

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La paura di peccare ed il terrore dell’aldilà. Verso b scandalo delle indulgenze
Crescita di spiritualismo
Alle origini di questa contestazione come di molti altri movimenti religiosi a carattere
ereticale dal Mille in poi, non è infatti una crisi della fede, ma una generale crescita della
tensione spirituale, e soprattutto della religiosità popolare. L’episodio di Savonarola a
Firenze non è un caso isolato. Tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento specie
fra gli strati più umili della popolazione, la fede è più che mai viva; ed è vissuta nelle sue
forme più drammatiche sincere, spettacolari. Aumentano in questo periodo le processioni, il
culto delle reliquie, i pellegrinaggi. Aumentano anche, e specie al nord, i processi per
stregoneria. E una fede concreta e favolosa al tempo stesso, lontana dalle sottigliezze dei
teologi, tenuta desta dalla violenta eloquenza dei predicatori. Inferno e paradiso, Satana e
Dio, demoni ed angeli vengono avvertiti come forze presenti nella natura, non come oggetto
di astrazioni filosofiche. E una fede, soprattutto, incentrata di un continuo confronto con la
morte. Si diffondono in questo periodo i trattati sull’ars morendi, sull’«arte» cioè, di ben
morire, di morire cristianamente. Si ha timore, anzi terrore dell’inferno, con i suoi castighi
dipinti negli affreschi delle chiese e dei campisanti, con i suoi demoni scolpiti in pietra che si
protendono dalle guglie delle grandi cattedrali del nord. Si ha timore dell’inferno; e anche
del purgatorio, in cui pure l’anima di chi è riuscito a morire cristianamente dovrà comunque
scontare i peccati commessi soffermandovisi per un numero imprecisato e per questo ancor
più spaventoso di anni.
Conseguenza di questa crisi generale della società e di questa angoscia del singolo dinanzi
alla vita e alla morte è un diffusa ricerca di quelle garanzie religiose di fronte all’altro mondo
che la chiesa viene considerata in grado di assicurare. Matura in questa atmosfera quello che
passerà alla storia sotto il nome di scandalo delle indulgenze.
All’origine si intendeva per indulgenza una riduzione della penitenza imposta dalla chiesa ai
peccatori. Questo tipo di indulgenza non veniva concesso, in genere, che a quanti
rischiavano la vita nella lotta contro gli infedeli.
Col tempo, però, l’istituto conosce una duplice alterazione. Esso, infatti, non viene più
applicato solo a chi combatte per la cristianità ma pure a coloro che, anche con offerte in
denaro contribuiscono a cause spirituali ritenute meritevoli, come il finanziamento di
conventi e fondazioni assistenziali, o la costruzione di cattedrali. Nel frattempo, all’autore di
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queste «buone opere» la chiesa garantisce non solo una riduzione delle penitenze da essa
inflitte, ma insieme una remissione dei peccati da parte di Dio: in altri termini una sorta di
abbuono, di «sconto» sugli anni da trascorrere in purgatorio. La concessione viene
giustificata con la possibilità, detenuta dal sommo pontefice, di «spendere» il patrimonio di
buone azioni accumulato in questa terra da Cristo e dai santi.
Naturalmente una prassi di questo genere apre la strada agli abusi, se non è un abuso essa
stessa. E di abusi, in questo periodo, ne vengono commessi effettivamente molti. Le
crescenti esigenze economiche dei pontefici romani che necessitano di denaro per le loro
opere architettoniche, le loro attività di mecenatismo e le loro imprese militari aprono la via
ad una vera e propria «venalizzazione della grazia divina», spesso attuata, specie in
Germania e nei paesi del nord, tramite la mediazione delle grandi famiglie di banchieri
internazionali, o con l’ausilio dei governanti locali, che si trattengono una percentuale del
ricavato.
Per lungo tempo, il sistema funziona e frutta.. La ricerca di garanzie religiose di fronte
all’aldilà è troppo forte in tutti gli strati sociali. Ma quando, inflazionando, oltre che
venalizzando, la grazia divina, il papato finisce per spendere buona parte della sua credibilità
d’istituzione, la questione delle indulgenze apre la via a una contestazione di portata assai
più vasta.
Questa contestazione non chiederà più al sacro romano imperatore la riforma della chiesa o
la restaurazione del diritto all’interno della cristianità, ma al contrario si farà forte contro la
chiesa e l’impero del crescente sentimento antiromano della nazione tedesca.

Martin Lutero e la denunzia dello scandalo delle indulgenze.


Le 95 tesi di Wittenberg.

Protagonista di tale protesta, che sfocia nella richiesta di una riforma della chiesa, è
Martin Lutero (1483 - 1546), un monaco agostiniano dalla tormentata esperienza religiosa,
che dal 1508 è professore di teologia biblica all’università di Wittenberg, in Germania.
E lui che nel 1517, anno in cui papa Leone X ha affidato a una casa bancaria un’ulteriore
raccolta di elemosine, affigge alle porte del duomo di Wittenberg 95 proposizioni o tesi, in
cui contesta l’opportunità di applicare la dottrina delle indulgenze, visti gli abusi cui essa può
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dare luogo. Il gesto non ha carattere scismatico o rivoluzionario: l’uso delle pubbliche
discussioni in materia di fede è all’epoca diffuso, specie da parte di specialisti della materia
come i docenti di teologia. Inoltre, Lutero non si stacca con le sue affermazioni dalla dottrina
cattolica. Sole più tardi, infatti, le polemiche in cui si troverà coinvolto nei pubblici dibattiti,
spingeranno a sbilanciarsi fino alla negazione di molti dogmi; per il momento la sua
polemica contro la venalità ecclesiastica e la corruzione dei chierici lo pone semmai
all’interno di quella grande corrente che dal moto riformatore di Cluny, attraverso
Gioacchino da Fiore e Jacopone da Todi, prosegue sino al Savonarola. Come tutti questi
esponenti del cristianesimo medievale sviluppatosi a partire dal Mille, egli non contesta la
chiesa romana perché essa pretende troppo dall’uomo, semmai perché ne chiede troppo
poco. Dagli altri rappresentanti di queste tendenze lo distingue tuttavia una diversa forma-
zione culturale, e il diverso, e più favorevole, clima politico in cui viene a maturare la sua
rivolta.

La riforma politica.
Dal mito della riforma della chiesa alla creazione di una serie di chiese riformate
Dal dissenso allo scisma.
L’appoggio dei principi tedeschi alla rivolta di Lutero
Lutero scomunicato
Le 95 tesi di Lutero, divulgate dai seguaci del monaco forse contro la sua stessa
volontà, suscitano numerose polemiche. In Germania è un periodo di rivolte antivescovili in
ebollizione e l’ordine domenicano tradizionalmente ligio al papato e coinvolto in prima
persona nella vendita delle indulgenze, si affretta ad attaccare l’ortodossia del monaco
contestatore. Dopo tre anni di dibattiti teologici, che vedono Lutero radicalizzare le sue
posizioni, il pontificie condanna 41 proposizioni dell’agostiniano; poi, di fronte al suo rifiuto
di trattare e ritrattare subentra la scomunica. La dieta di Worms, nel 1521, sanziona il
monaco e il divieto di circolazione dei suoi libri. Ma una condanna destinata a rimanere
senza seguito.

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Il «servo arbitrio»
E un pensiero in cui varie convinzioni che avevano a lungo maturato all’interno del
mondo tedesco vengono condotte alle loro estreme conseguenze così come vengono
radicalizzate le posizioni che il monaco agostiniano aveva già espresso nelle 95 tesi di
Wittenberg. La denunzia dello scandalo delle indulgenze si traduce cosi nell’affermazione
del principio che la salvezza è raggiungibile per l’uomo solo attraverso la fede, non tramite
le opere. Secondo Lutero, infatti, è Dio che rende giusto l’uomo quando questi crede in lui:
pellegrinaggi, digiuni, elemosine per le indulgenze, a nulla valgono se il fedele non è sorretto
dalla grazia divina. L’arbitrio umano di conseguenza, non è libero, ma condizionato dalla
volontà celeste, come Lutero sostiene in un’opera intitolata De servo arbitrio,
contraddicendo l’opposta tesi difesa da Erasmo da Rotterdam nel suo saggio De libero
arbitrio.

Il «sacerdozio universale»
Anche gli interrogativi sui limiti dell’autorità pontificia, che nel 1517 il monaco
agostiniano si era limitato a sollevare, trovano nelle opere successive una risposta radicale.
Lutero infatti non si limita a negare il potere del papa ma giunge a contestare l’opportunità
dell’esistenza del clero come casta separata, unica interprete della verità rivelata. E la
cosiddetta teoria del sacerdozio universale che tra l’altro riconosce a tutti i credenti il diritto
al libero esame della sacra scrittura: diritto che il monaco ribelle si sforza di rendere
accessibile al maggior numero possibile di fedeli traducendo personalmente in tedesco la
Bibbia, sino allora disponibile solo nella versione ufficiale in latino, detta Vulgata.

La contestazione dei sacramenti e dei riti


L’originaria polemica contro il potere salvatore delle opere spinge d’altra parte Lutero
a smantellare buona parte della dottrina cattolica nel campo dei sacramenti. Di essi, il
monaco ribelle finisce per ammettere integralmente solo il battesimo, mentre la penitenza è
conservata, ma senza la preventiva confessione personale al sacerdote, e l’eucarestia o
comunione mantiene un significato quasi esclusivamente rievocativo. Matrimonio, ordine

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sacro, estrema unzione, rimangono come semplici riti che non apportano però alcuna grazia
invisibile, nella riforma della chiesa proposta da Lutero.
Anche la critica agli eccessi superstiziosi della religiosità popolare è portata alle sue estreme
conseguenze. Lutero elimina gli aspetti pin consolatori ed esteriori del cristianesimo
medievale: il culto della Madonna e dei santi, le immagini sacre e le reliquie, i pellegrinaggi
e lo stesso sacrificio della messa. Rimane invece nella sua dottrina la credenza nel diavolo e
nelle streghe, che anzi conoscerà un particolare sviluppo nei paesi protestanti, dando vita a
una vastissima letteratura e assorbendo precedenti tradizioni religiose pagane.

Il diffondersi della ribellione a Roma. Tempi e modi della Riforma


Nonostante le apparenze, la diffusione del luteranesimo non comporta sin dall’inizio
per i fedeli la necessità di una rigida scelta di campo fra due confessioni religiose nettamente
definite, con la loro liturgia, le loto gerarchie, i loro dogmi. Questo pregiudizio indotto dalla
organizzazione rigida che attualmente caratterizza le principali chiese non trova riscontro
nella realtà dei primi decenni del XVI secolo. Nel corso di tutto il medioevo, il dibattito in
materia di religione era stato estremamente vivace, e le gerarchie religiose si erano spesso
viste contestate dai fedeli senza che questo comportasse necessariamente uno scisma. Lo
sviluppo della cultura umanistica, soprattutto nel campo della critica filologica delle fonti
bibliche, accentua anche negli ambienti colti la vivacità del dibattito fra la seconda metà del
Quattrocento e i primi decenni del secolo successivo.
Ma in un primo momento non esiste una netta contrapposizione nell’animo dei fedeli,
spesso, neppure in quello del clero. Per tutto il corso del Cinquecento, molti preti
continueranno ad officiare imparzialmente sia in congregazioni cattoliche che in
congregazioni luterane.

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Il 28 giugno 1519, all’età di 19 anni Carlo venne eletto imperatore con il nome di Carlo V. Il
giovane Carlo V ebbe tra le sue mani ben 3 corone: imperiale, d’Austria e di Spagna e il suo
impero inoltre si estese anche ai paesi bassi , al Regno di Napoli e a tutte le colonie nelle
Americhe restò dunque solamente la Francia e l’Italia da conquistare.

Ripresero dunque conquiste e guerre in Italia, Carlo V nel 1525 sconfisse i francesi nella
battaglia di Pavia così che Francesco I rinunciò a Milano, l’imperatore era dunque in gradoni
dominare su tutta l’Italia e questa situazione preoccupò vari stati italiani come Venezia e
Firenze e lo stato della chiesa allora capitanato da Clemente VII e formarono nel 1526
un’alleanza con la Francia chiamata Lega di Cognac.

Carlo V allora chiamò un esercirò di mercenari tedeschi chiamati i lanzichenecchi ma la


lega di Cognac non fece nulla per bloccare questa l’avanzata di questi mercenari così che
saccheggiarono Roma.

Nel 1530 Francesco I e Clemente VII raggiunsero la pace con l’imperatore Carlo V. Ma
anche questa volta la calma ebbe breve durata infatti Francesco I e il suo successore Enrico II
non si rassegnarono alla supremazia dell’imperatore continuando così a combattere contro
Carlo V, alleandosi dapprima con i principi tedeschi luterani e infine con i Turchi.

Carlo V subì varie sconfitte da parte dei turchi-ottomani sono sempre più consolidati nei loro
territori e Solimano il magnifico (1520-1566) conquistarono l’Ungheria e tutti i territori fino
al Danubio. Il conflitto divenne così sempre più vasto ed emerse l’esigenza di una pace
duratura. La potenza universale dell’impero e il suo voler diffondere il Cristianesimo per
Carlo V divenne un disegno politico e religioso che andò pian piano decadendo sopratutto in
Germania così che nel 1555 si rassegnò e con la Pace di Augusta riconobbe la libertà di
scegliere la propria religione: luterana o cattolica.

Carlo V ormai anziano nel 1556 rinunciò al suo potere dividendo i domini tra il fratello
Ferdinando a cui lasciò l’Impero e L’Austria e il figlio Filippo II a cui donò la Spagna, i
Paesi bassi, i possedimenti italiani e le colonie americane. E’ evidente che ricevette più
eredità il figlio che divenne poi re di Spagna, nel mente Carlo V si ritirò in un convento
spagnolo dove mori nel 1558.
21
Le guerre intanto continuarono per alcuni anni Francia e Spagna si contendevano ancora
l’Italia e riprese la guerra nel 1557 infatti il re di Spagna Filippo II affidò il suo comando al
duca di Savoia Emanuele Filiberto che inflisse una dura sconfitta nello stesso anno nella
battaglia di San Quintino, così la Francia dopo due anni decise di rinunciare all’Italia e
firmò con la Spagna la Pace di Cateau- Cambrésis nel 1559.

L’Italia dunque fu sottoposta al dominazione Spagnola che durò fino all’inizio del Settecento
e intanto proprio a causa della pace di Augusta del 1555 la fede Europea si ritrovò divisa tra
luterani e cattolici.

Cronologia degli eventi italiani del primo Cinquecento.

ANNI FIRENZE MILANO ROMA NAPOLI


1442 Cosimo de' Filippo Maria Niccolò V ( 1447- Gli Aragonesi a
Medici (1434- (1412-1447): 1455 ) Napoli. Alfonso il
1464) lotte con Venezia Magnanimo.
e con Napoli. (1442)

1454 Lorenzo il Repubblica Callisto II ( 1455-  


Magnifico (1469- ambrosiana 1458 )
1492)

  Francesco Sisto IV della  


Sforza (1450- Rovere ( 1471 -
1466) 1484 )

Pace di Lodi: Pace di Lodi : Pace di Lodi: Pace di Lodi:


politica di politica di politica di politica di
equilibrio equilibrio equilibrio equilibrio

      Ferdinando I il
Cattolico ( 1458 -
1494 )
1478 Congiura dei      
Pazzi: morte di
Giuliano de'

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Medici fratello di 1485 : Congiura
Lorenzo il dei Baroni
Magnifico.
1492 Morte di Lorenzo   Innocenzo VII  
il Magnifico Cibo muore nel
1492

Succede Piero Alessandro VI


de' Medici Borgia (1492 -
1503 )

 
Fine della libertà italiana: inizio delle discese straniere e guerre per il
predominio in Italia ( 1494 - 1559 )
1494 Carlo VIII, re Ludovico Il Alessandro VI condanna Carlo VII di
di Francia Moro Sforza, si Savonarola al rogo e rende Francia
caccia i libera del nipote possibile la nascita di una rivendica i
Medici Giangaleazzo, nuova repubblica a Firenze diritti
chiamando in Angioini sul
Italia Carlo VIII regno di
re di Francia Napoli
1495 G.Savonarol Gli
a fonda la Aragonesi
Repubblica lasciano
fiorentina. Napoli
Opposizione
dei Palleschi

    Lega contro
Carlo VIII, e
sua
sconfitta.
    Ritorno
degli
Aragonesi
(1495 )
1498 Repubblica Luigi XII , re di    
di Pier Francia
Soderini rivendica il
( 1498.1512) Ducato di
Milano.

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1499 Machiavelli Alleanza di
segretario Francia e
della Venezia.
Seconda Ludovico il
Cancelleria. Moro
abbandona
Milano.
1503   Pace di Blois: Alessandro VI Borgia ottiene Conquista
Milano ai per il figlio Cesare Borgia da parte di
Francesi l'appoggio di Luigi XII per la LUIGI XII
1504 crezione di uno stato in Spartizione
Romagna del regno
con la
Spagna
  1504:
Spagnoli nel
napoletano

1512 Ritorno dei Ritorno degli Giulio II Della Rovere  


Medici. Sforza a Milano organizza la L.Santa contro
Sconfitta di dopo la Luigi XII
Luigi XII sconfitta di
contro la Luigi XII contro
Lega Santa  la L.Santa.

1513 -1512 Massimiliano Leone X ( Giovanni de' Medici  


Sforza  ) ( 1513-1521 ) Organizza una
Lega antifrancese

    -1512   1516: Pace


di Noyon:
Spagnoli
padroni del
regno di
Napoli
1515   Francesco I    
occupa il
Milanese.
(1515-21)

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1520 Medici a Francesi a Bolla "Exurge domine"  
Firenze Milano contro M.Lutero.

1523 Clemente VII   


  (Giulio de' Medici): 1527 La
L.di
Cognac
dovrebbe
liberare
dagli
spagnoli
Napoli.
  1523- 1534. Organizza la  
L.Cognac contro Carlo V,
aiutato da Guicciardini.

1526 Repubblica Dopo la Sacco di Roma ad opera dei Riconferma


democratica battaglia di Lanzichenecchi di Carlo della
di F.Ferrucci Pavia, sconfitta V( 1527 ) Spagna a
di Francesco I, Napoli.
Milano agli
Sforza

1527
1530 Ritorno dei   1530:Clemente VII incorona  
Medici: imperatore Carlo V:
Ducato di protezione imperiale ai Medici
Toscana
1535 Alessandro 1535: Ritorno 1545:
de' Medici. degli Spagnoli a Concilio di
Controllo Milano Trento
Spagna
   
1559 PACE DI CATEAU CAMBRESIS: Controllo definitivo dell'Italia da parte
della Spagna.

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