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AA.VV., Atlante storico - politico del Lazio. Regione Lazio, Coordinamento degli istituti
culturali del Lazio. Bari, Laterza 1996.
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S.CAROCCI, Baroni di Roma. Dominazioni signorili e lignaggi aristocratici nel
Duecento e nel primo Trecento, “Nuovi studi storici”,23, Istituto storico italiano per il
Medioevo, Roma, 1993.
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devolvevano alla Camera Apostolica parte delle tasse che riscuotevano con
modalità diverse da luogo a luogo.
Questo quadro di gestione del territorio aveva, sia a livello regionale,
sia a livello locale, i confini indefiniti a causa delle alterne dipendenze delle
varie località da diverse famiglie baronali o dalla Camera Apostolica.
Il Patrimonio di S.Pietro copre un’area che è compresa tra il Tirreno e i
fiumi Flora, Paglia e Tevere che sarebbe difficile rappresentare
cartograficamente. Ma proprio a causa della suddetta situazione di incertezza,
per esempio, il governo di Bolsena era retto da un Cardinale legato, di pari
grado di quello di Viterbo. Il governo di queste due località era legato al
governo del Patrimonio di S. Pietro, ma totalmente diverso dal governo di
Orvieto, che dalla fine del XVI secolo verrà considerato esterno al Patrimonio
stesso.
Una delle caratteristische comuni nell’intero territorio pontificio tra il
1400 e il 1700, derivante dall’affermazione di questa struttura amministrativa,
fu il passaggio di dominio delle terre baronali da una famiglia all’altra, con
netta prevalenza dei territori baronali rispetto a quelli direttamente governati
dalla Chiesa.
Nel Patrimonio il rapporto tra località immediate subiectae e mediate
subiectae appare ancora abbastanza equilibrato e le proprietà baronali si
presentavano raggruppate.
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Fonte: AA.VV., Atlante storico - politico del Lazio. Regione Lazio, Coordinamento degli
istituti culturali del Lazio. Bari, Laterza 1996.
La zona del lago di Bolsena, del viterbese fino al mare e del lago di
Vico appare un’area dominata dalle terre immediate subiectae; l’area
dell’Agro Falisco, tra il Tevere e i due laghi di Vico e Bracciano appare
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CIVITA CASTELLANA
NEPI
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CASTEL S.ELIA
Tra il X ed il XIII secolo Castel S.Elia, uno dei più grandi fondi di
Nepi, appartenne al monastero di San Benedetto sub pentoma (forse dalla
pendice in cui si trova, sede delle cinque colonie benedettine presso Roma).
Nel 1258 i Benedettini cessarono di ufficiare la chiesa di S.Elia quando
Alessandro IV la concesse con una bolla al capitolo di S.Spirito in Sassia.
Alla fine del XIII secolo Bonifazio VIII confiscò ai Colonna il castrum
montis S.Heliae dandone infeudazione agli Orsini. Nel 1378 l’antipapa
Clemente VII concesse a Giordano Orsini il Castel S.Elia appartenente a
S.Spirito per il censo annuo di 70 fiorini, concessione che non ebbe effetto.
Passa nel 1540 a Pierluigi Farnese e dal 1650 al governo pontificio.
MONTEROSI
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breve di Calisto III del 1455, col quale si da facoltà ai Nepesini di pascolare
nelle tenute di Ponte Nepesino e di Monterosi.
Dopo esser appartenuta all’abate delle Tre Fontane dal 1469, periodo in
cui il borgo si riprese dopo un periodo di abbandono, divenne proprietà del
principe Del Drago nella seconda metà del ‘500.
MAZZANO
Dopo una serie di donazioni di cui fu oggetto, Mazzano, il cui nome
deriva da un fondo Matianum del gentilizio romano Matius risalente a prima
della fondazione della domusculta di Capracorum, all’inizio del XIV secolo
spettava per metà al famoso Everso I Anguillara e per metà al fratello di lui
Dolce. Nel 1465 passò tutto a Dolce ed ai suoi figli a causa della morte di
Everso. Nel 1549, in una convenzione tra Everso e Flaminio Anguillara,
Mazzano, insieme con Stabia (Faleria) e Calcata rimangono a Flaminio.
Nel 1599 Flaminio Anguillara lo vendette al cardinale Lelio Biscia e al
fratello per 22 mila scudi; nel 1658 passò ai Del Drago come eredi di quella
famiglia.
STABIA (FALERIA)
Da Stabium o Stabia, antica stazione del tempo romano, fece parte del
territorio della domusculta di Capracoro. Nella metà del secolo XIV Stabia
apparteneva agli Anguillara ai quali rimasero fedeli fino al secolo XVII.
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CALCATA
Il nome deriva dal fatto che quivi, sin dal primi del medioevo, esisteva
una “calcara”, ossia un luogo per la produzione della calce ricavata dai
materiali di un’antica città.
Anticamente il Castrum Sinibaldi (Calcata) fu oggetto di numerose
donazioni da parte della Chiesa; solo nel 1266 fu concessa da Clemente IV a
Pietro di Vico (insieme a Nepi e Civita Castellana). Sulla fine del XIII secolo
passò agli Anguillara.
Nel 1420 figura tra i confini di Castelvecchio diruto, affittato da
Giordano Colonna a Dolce ed Everso Anguillara; nel 1427 tra i confini del
castello di Filissano, venduto con Nepi e Monterosi da Rainaldo Orsini ed
Antonio Colonna.
Nel 1549 finisce nelle mani di Flaminio d’Anguillara per una
convenzione con Everso e 50 anni dopo fu venduta ai Biscia da Flaminio
proprio per riscattare Calcata da lui data in pegno. Il castello rimase alla
potente famiglia fino al 1734, quando Carlo d’Anguillara, figlio di Lorenzo e
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Il diverso assetto della proprietà dei terreni tra nord e sud si rileva
anche nelle lotte tra contadini e signori. Come detto, l’eccessivo e
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Nel XVI secolo, alcuni dei territori assunsero, per decisione pontificia,
uno specifico statuto di autonomia, divenendo delle sub regioni che
resistettero a lungo. Tra queste il Ducato di Castro, il Ducato di Bracciano, il
Ducato di Paliano e lo Stato di Montelibretti.
Il Ducato di Castro, eretto dal papa Paolo III Farnese a favore del
nipote Pier Luigi, in perfetta linea con la strategia pontificia di formazione di
cospicui agglomerati signorili familiari, risultava un’entità sostanzialmente
indipendente. Il Ducato trovò comunque una sua specifica ragion d’essere nel
quadro dei difficili rapporti politici con Firenze e i Medici, svolgendo la
funzione di Stato cuscinetto, dotato di ampia autonomia (gli vennero concessi
grandi privilegi, quali l’esenzione da ogni tassazione e la possibilità di battere
moneta), ma pur sempre sottomesso all’autorità eminente della Chiesa.
Un altro motivo di natura politica alla base della creazione del Ducato
farnesiano di Castro stava nella contrapposizione con gli Orsini, proprietari di
ampi feudi, sia in quella parte dello Stato Pontificio sia in Toscana, dove essi
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SEBASTI R. Relazione storica del parco suburbano Valle del Treja. Regione Lazio,
Comuni di Mazzano R. e Calcata 1999.
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avevano buoni rapporti con il granduca. Paolo III seguiva dunque due livelli
diversi nella sua politica, internazionale e interno, assicurando alla sua
famiglia un caposaldo nel Patrimonio di S.Pietro. Questo elemento mette in
luce particolarmente il carattere feudale della concezione dello Stato presso i
papi del Cinquecento.
Al Ducato di Castro,che comprendeva le città di Castro, Valentano,
Marta, Capodimonte, Montalto di Castro, Civitella, Piansano, Cellere, vanno
aggiunte altre due aree: la Contea di Ronciglione con i centri falisci di Nepi 7,
Vico, Caprarola Ronciglione, Borgo San Leonardo (Borghetto), Fabrica di
Roma, Corchiano, Canepina, Vallerano, S.Maria di Falleri, Castel Sant’Elia e
per finire i tre nuclei separati dei feudi farnesiani in Teverina che risultano,
per la maggior parte, esterni all’attuale Lazio, che però ingloba il loro centro
più importante, Castiglione in Teverina.
Estremamente compatto si presentava il Ducato di Bracciano della
famigli Orsini che resistette dal 1560 al 1696. Pio IV riconobbe ad esso uno
statuto particolare e assegnò al duca la piena potestà di governo anche se, dal
punto di vista dei tributi, anch’esso era assoggettato ad alcune tasse camerali.
Anche in quest’ultimo caso l’autonomia era relativa, in quanto tali
territori si venivano a formare per la politica familiare del pontefice, nel
quadro di una struttura amministrativa statale assai poco accentrata, fondata
soprattutto su un rapporto diretto tra il papa e le famiglie baronali che
godevano di maggiore o minore autonomia in dipendenza della figura del
Papa.
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Per pochi anni ne fece parte anche Nepi, prima di essere ceduta da Ottavio Farnese nel
1545.
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Fonte: AA.VV., Atlante storico - politico del Lazio. Regione Lazio, Coordinamento degli
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Dal punto di vista della riscossione delle tasse Pio V lasciò le cose
come stavano, senza dimostrare una particolare iniziativa contro le esenzioni
fiscali, di fatto o di diritto, dei baroni.
Successivamente, il Papa Gregorio XIII (1572-1585), non solo tornò a
confermare esplicitamente il supremo diritto di assegnare signorie e di
aggiornare e modificare le relative concessioni, ma passò anche,
contrariamente ai suoi predecessori, a mettere in pratica tali disposizioni.
Le revisioni di obsolete concessioni costituirono “una sorta di miniera”
per il papa, che entrò in possesso di numerose terre. Nello stesso tempo tali
misure non costituirono un danno eccessivamente grave per i baroni, in
quanto colpirono anche istituzioni ecclesiastiche e cardinali non appartenenti
a grandi famiglie baronali. Continuò quindi questa politica pontificia per
aumentare le entrate, senza però danneggiare le terre sottoposte alla
giurisdizione baronale, le quali costituivano una solida base dello Stato
temporale.
Nel 1596 Papa Clemente VIII creò la Congregazione dei Baroni, allo
scopo di obbligare quei Baroni, che versavano in una situazione economica
critica, a mettere all’asta parte delle loro proprietà, in modo che la Camera
Apostolica potesse impossessarsi dei domini con i connessi debiti. Le grandi
famiglie signorili fecero una forte opposizione alla nuova Congragazione, la
quale ottenne risultati modesti.
Un nuovo controllo dello Stato sulle baronie fu rappresentato dalla
Congregazione del Buon Governo, istituzione fondata da Clemente VIII con
la bolla pro commissa (15 agosto 1592) e preposta al governo civile e
finanziario delle località, sia immediate subiectae che mediate subiectae.
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Fonte: AA.VV., Atlante storico - politico del Lazio. Regione Lazio, Coordinamento degli
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Per comprendere il vertiginoso buco finanziaro creatosi basta fare l’esempio di Civita
Castellana che, prima dell’invasione dei repubblicani, era caricata da un debito di 80.000
scudi a cui furono aggiunti i 50.000 spesi per i francesi ed i 14.000 per i tedeschi.
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Il rubbio era una unità di misura superficiale pari a circa 18.484 mq.
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i vari borghi agricoli, si innerva sulle maggiori arterie della Cassia e della
Flaminia. Quest’ultima, nel 1609, fu fatta transitare a ridosso di Civita
Castellana e successivamente, nel 1709, con la costruzione del Ponte
Clementino, passò all’interno della cittadina.
Negli anni 1787-1789 venne realizzata la Nepesina, che permise un
agevole collegamento tra la Cassia e la Flaminia. Le comunicazioni erano
ancora complicate e malsicure a causa del fenomeno del brigantaggio, tanto
che lungo la Nepesina furono segati numerosi alberi la cui presenza favoriva
evidentemente le imboscate da parte dei briganti.
Il Tevere continua tuttavia a conservare la sua funzione di
completamento dei trasporti via terra nel commercio dei prodotti agricoli con
Roma. I numerosi porti sul tratto fluviale da Orte al porto di Ripetta, e i
materiali trasportati di cui siamo a conoscenza, stanno ad indicare il tipo di
produzione effettuato nei territori.
A Roma giungevano soprattutto carichi di legna da fuoco e fascine con
una quantità che, nel periodo dal 1720 al 1730, era di circa 9800 metri cubi
annui, scesi a 6000 dal 1755 al 1795. Sono cifre che evidenziano il massiccio
taglio di boschi effettuato all’inizio del XIX secolo nell’agro falisco.
Numerosi erano gli scali del Tevere nella zona: la Barca di S.Lucia ad
Orte; la Barca di Gallese; la Barca di Civita Castellana nei pressi di Goliano.
Lungo il fiume, oltre al legname, scendevano altri prodotti: il grano,
l’olio e il vino. Il trasporto fluviale ebbe una flessione nei primi anni
dell’Ottocento, sia per l’assenza di manutenzione del letto e delle sponde del
fiume, sia per la scarsità di produzione del legname. Dal 1810 in poi
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terminarono i carichi di legna partenti da questi porti per Roma e dal 1845 si
verificava il totale abbandono del tronco superiore del Tevere.
Gli sforzi di Pio VII per risollevare l’agricoltura furono piuttosto vani e
la situazione del paesaggio agrario dell’agro falisco restò pressoché invariata,
come denuncia la relazione del Milella sull’agricoltura di Nepi nel 1844.11
A metà del secolo, nel territorio nepesino, i tre quinti della superficie
comunale era composta di terreni soggetti alla servitù di pascoli comunali.
Era evidente come questo stato, peraltro uguale ad altre aree falische,
dovesse portare ad un sottoutilizzo delle capacità produttive dei terreni
lasciati al pascolo e spesso rovinati dai greggi e dagli animali bradi. Le servitù
erano formate dalle bandite, cioè terreni con proprietà d’uso del pascolo di
parte pubblica di cui il comune affittuava annualmente il pascolo dall’8
maggio al 29 settembre, dalle conserve dei buoi aratori, cioè terreni dove i
buoi avevano la possibilità di pascolare liberamente dall’8 settembre al 1
dicembre, ed infine dai pascoli civici, pascoli utilizzati da chiunque su terreni
di altri proprietari da marzo ad ottobre chiamati anche querciati.
Il resto del territorio, con appezzamenti definiti ristretti, era stato
progressivamente sottratto al pubblico uso tramite migliorie e recinzioni di
vario tipo.
Il Milella descrive “…il territorio di Nepi…in gran parte abbandonato
ed incolto”. Le aree coltivate si concentravano attorno al centro abitato e
composte: da vigneti “alcuni dei quali sono tramezzati da filari di aceri,
ossiano oppi campestri, ai quali sono appoggiate le viti, mentre tutte le altre
sono sostenute da pali o da canne”; da poche alberate “…gli olivi, i mori
11
MILELLA M., I Papi e l’agricoltura nei domini della S. Sede. Roma, 1880.
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gelsi, gli olmi, e le altre piante di utile agronomia sono rarissime, e quelle
poche che esistono sono guidate senz’arte, e senza governo”; da presenti aree
di coltivi promiscui “…fra le anzidette vigne sono ancora parecchi
appezzamenti coltivati ad ortaglie con diverse piante di frutta tanto che
bastino pel consumo della limitata popolazione”; da estese presenze di
ristretti boschi “…di querce da frutto, e da scalvo, tramezzate da cespugli di
carpini e di spini…” da notevoli superfici coltivate a cereali e seminate a lino.
Inoltre, ci ricorda il Milella, nessuna famiglia agricola abitava la
campagna e i casali erano deserti ed abbandonati.
Un quadro del territorio che non si discostava dalla visione
anglosassone del Dennis; dall’epoca medievale in poi non vi furono grandi
modifiche nell’evoluzione del paesaggio agrario: boschi, pascoli, ed i pochi
frutteti ed oliveti affondavano infatti le proprie radici negli usi preromani
(vedi la vite maritata ‘a palo vivo’).
La cartografia catastale del 1871 fotografa la situazione agricola, non
dissimile dalle descrizioni precedenti: concentrazione di colture intensive nei
pressi dei centri abitati come vigna, seminativo vitato, seminativo olivato,
orto e prato; un progressivo diradarsi delle colture con seminativo, seminativo
con querce, seminativo cesivo12 a una certa distanza dall’abitato; una presenza
discreta di bosco da frutto e bosco ceduo nelle parti più marginali del
territorio.
La cartografia evidenzia, inoltre, la scarsa presenza di superfici boscate
e il massiccio taglio di alberi fin dentro le forre; così pure una discreta
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Il termina cesa definisce una terra ingombrata di cespugli che vengono tagliati in alcuni
periodi o bruciati per seminarvi il grano o piantarvi alberi da frutta.
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