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Premessa: siamo quattro studentesse di Scienze Politiche, Aly Susan, Grassi Alessandra, Migali Mirea e Stazi Vanessa.

Quello che abbiamo tentato di sistemare è un manuale lungo e complesso. Noi quattro ci siamo divise i capitoli, potreste
quindi notare differenze nei modi di sottolineare o alcuni più dettagliati rispetto ad altri. Inoltre, ammettiamo che ci siam o
aiutate con dei riassunti già circolanti online. Ci sono parti che saranno identiche a questi, altre leggermente modificate n ella
forma e nella sintassi. Buono studio!

Storia moderna
dalla formazione degli Stati nazionali alle egemonie internazionali -Aubert e Simoncelli

Capitolo 1 - Verso l’accentramento nazionale: l’Europa alla fine del Quattrocento

L’immagine geopolitica dell’Europa che oggi fa parte del quotidiano bagaglio d’esperienza politica individuale
è un’immagine che nulla ha a che fare con l’Europa delle origini dell’età moderna. Tre erano infatti i ceppi
religiosi diffusi nel continente: prevalente quello cristiano (nella sua ancor duplice divaricazione, fino al 1439,
tra chiesa romano-latina e greco-ortodossa). Diffusa poi a macchie di leopardo la religione ebraica, costretta a
continua scomposizione e ricomposizione geografica da persecuzioni d’ordine non solo religioso ma anche
politico-economico. Infine il ceppo islamico radicato nel regno di Granada, secondo tradizione sunnita e, nei
Balcani, secondo tradizione sciita.

I confini politici erano d’una mobilità estrema e la pluralità di insediamenti ex feudali, divenuti statali, ne
moltiplicava le facili possibilità di scomposizione e ricomposizione: basti pensare, per fare appena qualche
esempio, che nella penisola iberica erano presenti 5 distinti regni: di Portogallo, d’Aragona, di Castiglia e di
Navarra, oltre quello “moro” di Granada; e che nel giro di pochi decenni ne sarebbero rimasti solo due
(Portogallo e Spagna).

1 L’Europa orientale

Dalle steppe russe alla penisola iberica, l’assetto geopolitico d’Europa viene completamente ridisegnato nel
volgere di pochi decenni.

È una tendenza generale che non lascia esente neanche una terra lontana come la Russia: non ancora entità
statale, ma agglomerato di grandi feudi principeschi; monaci bulgari avevano diffuso il cristianesimo ortodosso,
e l’influenza religiosa di Costantinopoli-Bisanzio aveva aperto alla vasta regione la cultura proveniente dal tardo
Impero latino. Dalla precedente dominazione di Gengis Khan e soprattutto del successore Batù che instaurò
nella Russia sud orientale il Regno dell’“Orda d’oro”, il Principato di Mosca acquisì una esplicita primazia tra
tutti gli altri principati russi. Questo gran principato territorialmente si incuneava tra il Regno di Svezia a ovest e
il Regno del Kazan a est. Il gran Principato di Mosca appariva dunque destinato economicamente e militarmente
a fungere da centro politicamente unificante della Russia.

Padre politico di questo nuovo aggregato statale, Ivan III, usò la diplomazia e forza (matrimoni) per estendere
progressivamente verso Occidente, verso la Lituania, l’acquisizione di nuovi territori.
La Lituania si trovava sotto la protezione del principe di Tver, che non voleva assolutamente cedere il suo
vastissimo feudo al gran Principato.
Vano il tentativo di assoggettare quella regione, malgrado Ivan III concludesse il matrimonio di sua figlia Elena
col gran duca Alessandro di Lituania, la spinta militare offensiva riprese fino a riportare il confine moscovita al
fiume Soj.
Giovò enormemente al nuovo stato e al suo assetto interno la caduta di Costantinopoli in mano turca nel maggio
1453. Ivan III volle infatti sposare allora in seconde nozze Sofia Paleologo nipote dell’ultimo imperatore
romano d’oriente, Costantino XII, superando così anche l’opposizione del Papa Niccolò V. Il matrimonio
consentì a Ivan di proporsi come il nuovo legittimo imperatore e a Mosca non fu importato soltanto il fastoso
cerimoniale bizantino, ma la città divenne la “terza Roma” (dopo la Roma capitale dell’impero d’occidente e la
Costantinopoli capitale dell’impero romano d’oriente).

La dinastia boema regnante in Polonia dall’inizio del XIV secolo non era riuscita a condurre, in anticipo sui
tempi, una lotta interna vittoriosa sulla nobiltà locale e la successione al trono nel 1370 - spenta senza eredi la
dinastia boema-, del re Luigi d’Ungheria comportò la necessità di accordi con la nobiltà polacca. È questa
l’origine dei pacta convinta, cioè di accordi preventivamente stipulati e giurati dal sovrano con l’aristocrazia
locale che sarebbe sopravvissuta all’accentramento monarchico. Se uno strumento giuridico del genere consentì
inizialmente un forte sviluppo del paese, alla lunga costituì un elemento di grave debolezza politica dello Stato
polacco. La fusione coi lituani, spinti dalle rive del Baltico verso sud dall’aggressività dell’Ordine teutonico,
avvenne socialmente grazie alla loro conversione al cattolicesimo, contrattata per successione ereditaria alla
morte di Luigi d’Ungheria: la figlia del re, Elisabetta, andò in sposa a Jagellone di Lituania in cambio della sua
professione di fede cattolica e conseguente diffusione popolare.

Nel 1499 veniva formalmente programmata l’unione indissolubile lituano-polacca. Quel vasto territorio era
tuttavia politicamente soggetto, come visto, alle pressioni da est del Principato di Mosca, e da ovest dai teutoni
con cui i conflitti sarebbero stati da allora tristemente tragicamente ricorrenti.

L’ordine teutonico nato come ordine monastico militare impegnato contro i turchi alle crociate, conclusa
quell’epopea era stato trasferito nel 1226 dall’imperatore Federico II nella regione tra la Vistola e il Baltico, col
compito di cristianizzarla e colonizzarla. I cavalieri teutoni, persa progressivamente la vocazione monastica - ma
non quella militare - cristianizzarono a forza la regione (è rimasta tristemente nota la “caccia” ai lituani allora
ancor pagani).
La Prussia e i popoli rivieraschi del Baltico orientale furono così segnati dalla civiltà teutonica e dal
cristianesimo. Con la battaglia di Tannenberg del 1410 (contro le forze polacco-lituane) l’ordine subì una
sconfitta. Successivamente però con la pace di Thorn del 1466 il re Casimiro III consentì che l’Ordine
continuasse a mantenerne l’amministrazione solo per fare un investimento feudale e tutta la Prussia orientale
con Danzica divenne polacca.

Per quanto riguarda il Regno di Ungheria, esso si pose - sotto la guida del re Sigismondo - come il confine
politico-militare europeo, l’antemurale cristiano, che avrebbe dovuto fronteggiare l'avanzata dei turchi ottomani
musulmani. La politica dinastica di Sigismondo era molto attenta: fece sposare la figlia Elisabetta con Alberto II
d’Asburgo, che gli successe alla morte. Ad Alberto seguì successivamente Federico III.

Non accettando il fatto di essere governati da un re tedesco, quest'ultimo ultimo venne disconosciuto dalla
nobiltà ungherese, che nominò sovrano Ladislao III di Polonia (1440-44), mentre la dinastia boema riconobbe
come proprio reggente Giorgio Podiebrad.
Era l’inizio di un momento critico nel continente. Si produsse uno scontro, nel 1444, fra le forze cristiane
(polacche e ungheresi) e le forze turche a Varna: Ladislao III morì nello scontro e a lui prese il posto il generale
Hunyadi, seguito, dopo lunghe dispute dinastiche, suo figlio Mattia Corvino.
La successione al trono ungherese di Mattia Corvino comportò un mutamento della tradizionale strategia
politico-militare, che ora era diretta contro l’Impero Asburgico e non più contro i turchi. Mattia col pretesto
della scomunica del Podiebrad acquisì il regno di Boemia e marciando contro Federico III d’Austria, giunse
persino a conquistare Vienna. Fu il momento di massimo fulgore ungherese.
Questa nuova strategia, che metteva in secondo piano il "problema musulmano" dei turchi, pose fine alla
solidarietà internazionale cristiana vigente fino a quel momento.

I turchi rappresentano l’immaginario negativo per eccellenza nella psicologia collettiva europea e cristiana.
Essi portarono il fanatismo religioso islamico cui erano stati convertiti in Europa, ma erano vittime a loro volta
di devastazioni subite, più ad oriente, ad opera dei mongoli guidati da Tamerlano.
Solo alla morte di quest'ultimo gli ottomani poterono riappropriarsi dei territori persi in precedenza in Anatolia
e dilagarono anche in zona balcanica. Alla fine del XV secolo, l'Impero Ottomano si era espanso fino a
raggiungere le coste del basso e medio Adriatico, a danno anche di alcuni presidi veneziani, mentre più a Nord
i suoi confini raggiungevano i territori che la politica dinastica di Massimiliano aveva fatto riacquistare agli
Asburgo dopo l’epopea di Corvino.

2 L’Europa centro-occidentale

La vastissima estensione territoriale dell'Impero tedesco (Sacro Romano Impero) rendeva molto complicato
un controllo omogeneo e coerente da parte della sovranità politico-istituzionale dell'imperatore.

Un esempio importante di ciò è il processo che portò all'indipendenza della Svizzera, che iniziò grazie
all'aggregarsi dei diversi valli e cantoni, che condividevano l'obiettivo di rendersi autonomi dall'Impero. Il tutto
finì per definirsi con il Patto di “confederazione perpetua” del 1291, che sanciva l'autonomia della
confederazione svizzera rispetto alle mire imperiali.

Vano fu il tentativo dell’imperatore Massimiliano I alla Dieta di Worms del 1495 di reinserire organicamente
la Confederazione nella struttura politica dell’Impero; col trattato di Basilea se ne staccava del tutto (anche se il
riconoscimento internazionale dell’indipendenza svizzera si sarebbe avuto solo con la pace di Westfalia nel
1648).

Anche all'interno dell’Impero era presente una forte instabilità politico-istituzionale che si traduceva
nell'esistenza di un numero elevato di compagini territoriali, fra cui figuravano le c.d. città libere* (che erano
all’incirca settanta e consistono in municipalità che vantavano diritti di gestione di governo autonomo fin dalla
metà del XIII) e grandi feudi che costituivano una sorta di veri e propri stati nello Stato.

*: l’origine delle città libere va individuata nel preliminare sviluppo economico di origine borghese, e dunque mercantile a
capitale mobile, che per favorire i relativi traffici commerciali spinge alla necessità di liberarsi dai vincoli della struttura
feudale-aristocratica. Questa “libertà”, che aveva dunque un’origine nelle necessità dell’economia capitalistico-borghese, si
risolveva in un rapporto di dipendenza diretta (consistente in privilegi giuridici e fiscali) praticamente si esaurì lasciando
pienamente libere le città.

Per risolvere questa instabile situazione, l'imperatore Carlo IV con l’emanazione della Bolla d’oro (1356),
decise di istituire l’elezione imperiale riunendo in un’assemblea, dal punto di vista giuridico-istituzionale, sette
grandi elettori (tre membri ecclesiastici: Arcivescovi di Colonia, Treviri e Magonza; quattro membri laici: Re
di Boemia, Duca di Sassonia, Marchese del Brandeburgo e Conte del Palatinato) che avrebbero assolto al
compito di eleggere il nuovo imperatore.

Intorno all'Impero intanto, si andavano formando alcuni dei più importanti nuclei politico-sociali dell'età
moderna: la Scandinavia e il Regno di Borgogna.
La prima entità territoriale era composta da tre diversi regni: Danimarca, Svezia e Norvegia, che poi si unirono
nell'Unione di Kalmar nel 1397, grazie al matrimonio fra la regina danese Margherita e il sovrano norvegese
Haakon VI. Grazie all'azione della regina Margherita di Danimarca in tutto il territorio era presente un forte
predominio socio-culturale danese.

In Francia lo scontro secolare con l’Inghilterra aveva promosso la nascita d’un sentimento politico nuovo e
tipico dell’età moderna, il sentimento nazionale, facilitato dalla presenza d’un nemico comunemente avvertito
geograficamente distante e diverso; sentimento per di più sviluppatosi, non a caso, nel momento in cui
peggiori erano le sorti della guerra: Giovanna d’Arco, non nobile ma umile borghese di Domrémy (in Lorena)
e la sua azione politico-militare anti-inglese ne è un simbolo ormai classico. E il re che combatte (o per cui si
combatte) è avvertito combattere non per interessi dinastici privati, ma di interesse generale, nazionale; la
corona unisce nazionalmente ceti e interessi divisi e contrapposti.

Molto importante nella vita politica francese era l'Assemblea degli Stati Generali: assemblee convocate dal
sovrano per comporre e organizzare gli interessi dei tre rappresentanti del regno, vale a dire Corona,
aristocrazia e borghesia (Terzo stato).
Nel corso del XV secolo furono convocati gli Stati Generali diverse volte e i più importanti furono: quello del
1439 a Orleans e nel 1468 a Tour. Nella prima si decretò che soltanto il sovrano francese (a quel tempo Carlo
VII, 1422-61) deteneva il diritto di arruolare, governare gli eserciti e di detenerne, i mezzi economici; inoltre
l'imposizione fiscale unica nel territorio nazionale fece cadere l'intera struttura del privilegio aristocratico,
avvicinando il Terzo stato alla Corona: questa insolita alleanza fra Re e borghesia continuò anche con il
successore di Carlo VII, suo figlio Luigi XI (1461-83).
Ovviamente gli aristocratici si risentirono e richiesero nuovi Stati generali per riaffermare le proprie
prerogative. La reazione aristocratica si tradusse nella costituzione della “Lega del bene pubblico”, in cui
confluirono i maggiori feudatari del regno. Il nemico esterno borgognone in questo caso diventava alleato utile
degli aristocratici per combattere il re. Ne nacque una lotta intestina da cui uscirono vittoriosi la Borghesia e il
sovrano.
Gli Stati generali del 1468 a Tour sancirono la prosecuzione della guerra ai feudatari in rivolta e l'appartenenza
della Normandia alla Francia, territorio conteso con l’Inghilterra, al termine della guerra dei Cent'anni.

Intanto le frizioni con Carlo il temerario e il suo regno di Borgogna si intensificarono e produssero nuovi
scontri: le sconfitte di Grandsom e Morat (1476) unite alla disfatta nell'assedio di Nancy portarono alla morte
di Carlo e al recupero francese della Borgogna da parte di Luigi XI (trattato di Arras, 1482). Tuttavia, la vita
dello Stato borgognone fu salvaguardata dall'accordo matrimoniale siglato fra l’imperatore Massimiliano I e la
figlia di Carlo il temerario, Maria di Borgogna; gli interessi imperiali si spostassero dai Balcani al confine
occidentale con la Francia. Re Luigi XI morì nel 1483 e lasciò il trono al figlio, Carlo VIII (1483-98).

L’Inghilterra e il Galles erano regioni politicamente unite e contigue, avversate dal settentrionale e autonomo
regno di Scozia che nella politica internazionale costituiva l’asse d’una alleanza tradizionale con la Francia in
funzione antinglese.
L’Irlanda era considerata ancora regione pressoché sconosciuta e selvaggia, dove la durissima dominazione
anglo-normanna, efficace solo attorno a Dublino, non era riuscita a domare l’autoctona etnia gaelica che s’era
ritirata, lontano dai centri urbani, quasi isolata da una striscia territoriale, il Pale.

La perdita della Normandia alla fine della guerra dei Cent'anni sancì la fine dell'influenza inglese sul
continente e l'inizio del periodo di isolamento. La fine della guerra comportò anche conseguenze di carattere
sociale ed economico: generò una crisi all'interno dell'aristocrazia (a causa della caduta delle rendite fondiarie e
alla crisi dei prezzi del mercato agricolo) e all'interno dell'economia agricola inglese, che vide lo scontro fra il
“mercante di fondaco” (che godeva del monopolio dell’esportazione della lana) e “mercante avventuriero” (che
trasse vantaggio sui mercati europei dal crollo dei prezzi agricoli – e dunque, anche dalla lana -).
Si concepì all'interno di questa situazione uno scontro politico interno (la Guerra delle 2 rose, 1450-1484) fra
gli York (con a capo Riccardo II di York), esponenti delle prerogative parlamentari avverse ai privilegi feudali,
e i Lancaster, nobili aristocratici uniti alla corona inglese. I primi riportarono alcune sconfitte a Blore Heath e
Ludlow (1459), ma la loro vittoria riportata nella battaglia di Northampton (1460) determinò la caduta della
dinastia dei Lancaster. Il re Enrico VI (1422-61, infermo mentale) era tenuto prigioniero a Londra, ma un colpo
di stato monarchico mise fine alla vita di Riccardo di York; per circa 20 anni suo figlio Edoardo IV York
(1461-83) assunse il controllo del regno. Alla sua morte si aprì una lotta fratricida che fu vinta da Riccardo III
York (1483-85). Lo scontro finale si ebbe a Bosworth (1485), fra le forze degli York, comandate da Riccardo
III e le forze Lancaster, guidate da Enrico Tudor, che dopo la vittoria divenne il nuovo sovrano inglese con il
nome di Enrico VII Tudor (1485-1509): si sposò simbolicamente con Elisabetta di York. Egli diede inizio alla
ricostruzione interna del paese e pose fine alle contese fra Corona e parlamento, a vantaggio della prima: il Re
aveva il potere di approvare e far riscuotere nuove tasse e dal 1485 al 1509 (anno della morte di Enrico VII) il
Parlamento venne convocato soltanto 2 volte.

3 Penisola iberica

Al margine sud-occidentale dell'Europa, anche la penisola iberica si avvia a completare e perfezionare il


percorso che la porterà all'accentramento nello stato nazionale.
Il regno del Portogallo manteneva una forte individualità politica grazie alle peculiarità che lo
caratterizzavano: 1) gli stretti rapporti commerciali con l'Inghilterra e 2) la proiezione marittima aldilà dello
stretto di Gibilterra (le c.d. Colonne d'Ercole). Alla metà del XV secolo, i portoghesi erano i padroni dei mari e
le loro esplorazioni, malgrado l'incremento di strumenti tecnici quali bussole o carte nautiche, avvenivano
soprattutto grazie a dati empirici e grazie all’esperienza dei marinai. Durante il regno di Re Giovanni I Aviz
(1385-1433) e con suo Enrico il Navigatore (1394-1460) si incentivò l'espansione nei mari e celebri furono
alcune imprese, come quella di Vasco da Gama che arrivò a toccare il vertice basso della penisola indiana ed
aprì così la Via delle Indie.

Nella sua espansione marittima e commerciale il Portogallo dovette fare i conti con la presenza musulmana dei
turchi : dopo lo scontro navale di Diu (1509), per continuare l'espansione coloniale in Asia, i portoghesi
dovettero allearsi con l'impero persiano. Tuttavia la particolarità di questa colonizzazione era che fosse limitata
soltanto alla fondazione di porti commerciali nei territori scoperti, senza una vera penetrazione all'interno del
territorio (a eccezione del Brasile e di alcuni territori africani colmi di miniere d'oro). Nonostante ciò la
proiezione marittima e colonizzatrice del Portogallo lo allontanarono, a differenza di altri stati Europei come la
Spagna e l'Olanda, per molto tempo dalle convulse situazioni politico-militari presenti in Europa.

L'accentramento nazionale in Spagna invece si basò soprattutto sull'unione delle corone di Castiglia e
Aragona, sancita dal matrimonio fra Isabella e Ferdinando (1469); tuttavia quest'unione non fu di per sé
silenziosa: infatti dapprima l'esistenza dell'ancora re di Aragona Giovanni II, padre di Ferdinando, poi l'ostilità
delle aristocrazie e delle nobiltà nei confronti del matrimonio, infine la presenza di una doppia
amministrazione (clausole del matrimonio comportavano la sopravvivenza di una duplice e separata
amministrazione) rallentarono questo processo di unione. Per di più i regni cristiani della penisola erano
impegnati a combattere contro la presenza musulmana dei Mori a sud. Morto Giovanni II, poteva avviarsi il
vero processo di unificazione.

Una peculiarità del regno di Castiglia-Aragona non presente negli altri regni della penisola era la ramificata
presenza di comunità etnico-religiose ebraiche e musulmane, che spesso si erano trovate in contrasto con i
cristiani. Per quanto riguarda gli ebrei, essi disponevano di unità auto-amministrate concentrate soprattutto
nella zona settentrionale della penisola; le mansioni svolte erano soprattutto di carattere mercantile (prestito a
interesse e attività usuraie), medico e artigianale. La comunità musulmana veniva tollerata per mezzo di
imposizioni fiscali più alte rispetto ai cristiani e con dei segni di riconoscimento (mezzaluna sulla spalla
sinistra) e praticavano maggiormente lavori agricoli. Entrambe le comunità rimanevano comunque abbastanza
discriminate, sia dal punto di vista etnico-religioso (antigiudaismo), sia da quello giuridico, si assistettero per
questo a “conversioni di convenienza”, in cui l'ebreo o il musulmano di turno adottava in pubblico i modi di
fare e le abitudini cristiani, mentre nell'ambito familiare continuavano a professare la propria originaria
religione (fenomeno del Criptogiudaismo).

La presenza costante di discriminazione e dei resti dell'ex regno musulmano di Granada comportò una
profonda reazione di assemblaggio sociale, consistente in: 1) un senso arroccato di appartenenza ad una stessa
regione e gruppo etnico, 2) la riesumazione di miti nuovi e antichi, come la Reconquista e infine 3) un nuovo
sentimento di identificazione nazionale e del desiderio della limpieza del sangre.
Questo processo diede avvio alla costituzione dell'Inquisizione spagnola per reprimere il fenomeno del
criptogiudaismo, su richiesta della Corona castigliana nei confronti del Papa Sisto IV (1471-84), che l'approvò
con una bolla Exit sincerae devotionis del 1478. L'inquisizione iniziò la propria opera di conversione forzata
soltanto nel 1480, poiché precedentemente si ricorse ai normali metodi cattolici di conversione
(evangelizzazione delle zone musulmane, diffusione del catechismo nelle diocesi, ecc.).
L'opera dell'inquisizione (roghi di eretici, confische e condanne per chi offriva loro protezione) scatenò alcuni
conflitti sociali che vennero mitigati dall'opera del pontefice che riconobbe il potere di designazione degli
inquisitori locali ai sovrani spagnoli.

La conquista e la capitolazione del regno musulmano di Granada avvenne definitivamente nel 1492.
Diverse erano le forze politico-sociali che spingevano alla guerra: oltre all' aristocrazia e al clero - che
vedevano nella conquista l'aumento delle proprie ricchezze e dei propri privilegi economici e territoriali -,
anche gli ebrei e gli esattori delle tasse spingevano all'occupazione del regno, in quanto erano i finanzieri
dell'impresa e ne avrebbero ricavato cospicui guadagni. La conquista cristiana fu favorita dalle divisioni interne
presenti nella dinastia islamica e Granada cadde nel gennaio 1492 proprio grazie al tradimento di uno dei
sultani del regno, Boabdil. Nei successivi anni di regno i sovrani cristiani Ferdinando e Isabella imposero il
rispetto della libertà di culto e l'autonomia giudiziaria islamica, basata sulla Sharia (legge islamica), e si
impedirono le conversione forzate. Contemporaneamente però prendevano avvio le misure legislative
d'espulsione a danno degli ebrei, mirate a risolvere definitivamente i problemi nati col fenomeno del
Criptogiudaismo e dell'attività usuraie perpetrate dagli giudei nei confronti dei cristiani.
A concludere il processo politico di accentramento nazionale della Spagna moderna mancava ancora la
regolamentazione di alcune questioni di frontiera con la Francia. La Spagna voleva raggiungere l'annessione del
montuoso Regno di Navarra. Dopo aver rettificato l'acquisizione di Cardagne e Rossiglione al confine francese
(accordo Carlo VIII-Ferdinando d’Aragona, gennaio 1493), la politica spagnola si diresse all'indebolimento del
regno controllata dalla dinastia filo-francese dei d'Almbret-Foix: Ferdinando ottenne facilmente dal pontefice la
scomunica dei sovrani di Navarra solo perché alleati politici d’uno scismatico re francese. Alla scomunica seguì,
prima ancora della conquista militare, il riconoscimento da parte pontificia della nuova sovranità spagnola.

4 Il nuovo mondo

Il marinaio genovese Cristoforo Colombo (1451-1506) militava nella marina portoghese, e nel 1485 espose il
proprio progetto di aprire da occidente la Via delle indie al re portoghese Giovanni II (1481-95), che però
respinse la richiesta. Successivamente Colombo si rivolse alle repubbliche Marinare di Genova e Venezia e
anche all'Inghilterra, ricevendo sempre risposte negative. Furono i sovrani spagnoli ad accogliere il progetto
nell’aprile del 1492: le Capitolazioni di Santa Fé, dal nome della località in cui vennero firmate, nominavano
Colombo Grande ammiraglio dell'oceano e viceré delle terre che avrebbe scoperto. Salpato da Palos il 3 agosto
del 1492 con 3 caravelle, Colombo sbarcò nella notte fra l'11 e il 12 ottobre su un’isola che chiamò San
Salvador, che si pensava fosse essere una delle tante isole dell'arcipelago antistante la regione cinese del
Cipango.

Lasciata San Salvador, toccate le Antille, Colombo giunse a Cuba (qui conobbe abitanti aggressivi e dediti al
cannibalismo) e sull’isola Hispaniola (oggi Haiti). Ai primi di gennaio del 1493 salpava alla volta delle coste
iberiche portando con sé oggetti in oro, piante e soprattutto alcuni indigeni per testimoniare gli effetti del
viaggio e della scoperta.

Alle Azzorre, sotto sovranità portoghese Colombo fu forzato a trattenersi più del previsto, per poi doversi recare
a Lisbona ad incontrare personalmente il re Giovanni II.

Giovanni II contestò a Colombo di aver preso possesso delle nuove terre in nome dei sovrani di Spagna e per
tale ragione voleva bloccare il suo viaggio di ritorno per Barcellona. Resosi però conto della possibile crisi
diplomatica, lo lasciò andare.

La controversia fra Spagna e Portogallo venne poi risolta dall'intervento di Papa Alessandro VI Borgia (1492-
1503) che con le due bolle Inter Caetera (1493) fissava gli obblighi e limiti della potestà politica sui nuovi
territori: i territori pagani, secondo la tradizione giuridica medievale, erano da considerare terre da sottoporre
all'evangelizzazione cristiana, quindi sotto il controllo della Santa Sede; per cui vennero assegnate ai sovrani
cattolici di Spagna tutte le isole e terre trovate e da trovare, scoperte o da scoprire nella parte verso occidente e
mezzogiorno. Veniva così fissata la linea detta della Raya che divideva la sovranità coloniale spagnola da quella
portoghese. Ai portoghesi veniva riconosciuta la sovranità sul Brasile.

Colombo salpò per una seconda volta nel settembre del 1493, al comando di una flotta e di un numero di uomini
enormemente maggiore rispetto al primo viaggio. Facendo sosta alle Canarie, si spinse più a sud della prima
esplorazione, scoprendo i Caraibi e le Isole Vergini (Porto Rico) e stabilendosi nuovamente a Hispaniola: la
seconda permanenza in quest'isola fu più conflittuale, poiché la guarnigione che aveva lasciato sul posto l'anno
prima era stata annientata; tuttavia scoprì le prime miniere d'oro. Nel giugno 1496 era di ritorno in Spagna. Nel
terzo viaggio scoprì finalmente il continente americano meridionale e nel quarto e ultimo viaggio (1502-1504)
si spinse a nord fino a Nicaragua e Panama.

Maggiore fu l'opera di esplorazione di Amerigo Vespucci, ammiraglio fiorentino al servizio della corona
spagnola, che arrivò a scoprire il Rio delle Amazzoni e a toccare le punte meridionali della Patagonia, per poi
tornare in Spagna toccando anche le isole Falklands (1499-1500); fu lui a dare il nome di America al nuovo
continente, confutando le tesi di Colombo di aver colonizzato la parte più orientale dell'Asia.

Alla scoperta di nuove terre, era sopraggiunta la conquista vera e propria, attraverso mezzi militari: nei primi
territori scoperti (Cuba, Hispaniola, Portorico ecc.), la presenza europea superò quella indigena. I conquistatori
divennero poi i primi governatori delle nuove terre, e la ricerca dell'oro e di nuovi miti costituivano le
motivazioni principali di conquista degli europei.

La prima, vera, circumnavigazione del globo fu operata da Fernando Magellano e Sebastiano del Cano.
Entrambi erano al servizio della corona spagnola e, proposto e ottenuto il consenso per il loro progetto di
navigazione dall’amministratore della Casa de Contratacion (il centro di smistamento del commercio spagnolo),
salparono il 20 settembre del 1519 da Cadice. Tra la fine di novembre e l'inizio di dicembre l'America era già
stata superata (dalla parte meridionale della Patagonia, in quello che poi venne chiamato lo stretto di Magellano)
e davanti agli europei si stagliava l'enorme oceano Pacifico (chiamato così proprio da Magellano per la notevole
calma delle acque.). Nel marzo 1521 le prime navi costeggiarono le isole Marianne e le Filippine, ma in uno
scontro con gli indigeni locali Magellano restò ucciso; al suo posto prese posizione Sebastiano del Cano. La
traversata finale fu aspra e piena di insidie, toccato il capo di Buona speranza, l'ultima nave rimasta (la Victoria)
risalì le coste occidentali dell'Africa e sbarcò finalmente a Sanlucár nel settembre 1522, tre anni dopo l'inizio del
viaggio.

Tutte queste nuove, fondamentali conoscenze geografiche proiettano sulla cultura europea l’ombra grave della
ricerca empirica, sperimentale, come diversa e avversa al principio d’autorità. Autorità intellettuali, morali,
religiose furono d’improvviso revocate in dubbio dal fatto; e non solo per la necessità di rifare ogni genere di
carte nautiche e di ridisegnare i confini del “noto”. Jean François Fernel, ad esempio, nella sua Cosmotheoria
giungeva alla conclusione logico-sperimentale della sfericità della terra. Infine le nuove scoperte favorirono la
nascita di nuovi miti e leggende riguardanti i nuovi territori (Eldorado, la fonte della giovinezza, il Paradiso
terrestre, ecc.).

Capitolo 2 - La crisi italiana e le nuove concezioni della politica e dello Stato

1 Gli Stati italiani nel Quattrocento e la politica dell’equilibrio

L'Italia nel XV secolo era un territorio omogeneo dal punto di vista culturale, ma profondamente diviso sul lato
economico, politico e sociale. La penisola era spaccata in 2: al nord era presente una delle aree più urbanizzate e
sviluppate dell’Europa, in cui le maggiori città (Milano, Venezia, Genova ecc.) avevano accresciuto il proprio
potere nei confronti delle campagne circostanti e delle piccole nobiltà feudali che ancora governavano nei
contadi, mentre all'interno di queste città erano le oligarchie mercantili a tenere il controllo governativo. Al sud
e nelle isole, la realtà sociale era prevalentemente agricola e dominavano i latifondi a base feudale. Le uniche
basi istituzionali delle regioni del sud erano lo Stato della Chiesa e il Regno del Napoli.

Il governo del Ducato di Milano, nel corso del Medioevo, era passato dalla famiglia dei Visconti alla famiglia
Sforza (dal 1450). Al suo interno era già in atto, all'inizio del ‘400, un processo di accentramento
amministrativo e giudiziario che aveva eliminato i privilegi e le immunità di stampo feudale, sebbene questo
processo avesse incontrato le resistenze dei feudatari e di alcune comunità locali, ancora aggrappate al dominio
del governo locale. Dal punto di vista economico, la regione settentrionale milanese era ampiamente sviluppata
sia dal punto di vista agricolo, in cui la meccanizzazione dell'agricoltura, la rotazione delle colture e la bonifica
idraulica di ampie aree lacunose favorì la nascita di colture produttive, mentre nell'ambito dell'industria era il
settore manifatturiero, in particolare tessile e metallurgico, a fare la voce grossa.
La repubblica di Venezia era retta dal Doge eletto a vita, da un Maggiore Consiglio e dal Consiglio Minore
(il Senato): una delle particolarità di questo regno era la solidità istituzionale e politica, affidata a un gruppo
oligarchico mercantile e aiutata anche dalla particolare posizione geografica della capitale, inespugnabile.
Inoltre, Venezia era uno snodo commerciale fondamentale al centro dell’Europa, poiché collegava i paesi
cristiani con i Turchi ottomani. Unito a ciò l'espansione territoriale nella pianura padana favorì il commercio
fra l'impero asburgico e i ducati centro-settentrionali dell'Italia.

Nello Stato fiorentino, benché le strutture istituzionali rimanessero ancorate al modello repubblicano, sin dal
1434 governava il gruppo oligarchico dei Medici, famiglia di stampo borghese arricchitasi grazie a vantaggi
commerciali e bancari. La repubblica aveva assoggettato diversi comuni locali, fra cui Arezzo e Pisa,
incrementando la propria influenza nel centro Italia.

Lo Stato della Chiesa deteneva 2 tipi di potere: ovviamente potere spirituale, in quanto il pontefice era il
Capo della Chiesa e il Vicario di Dio sulla terra, e il potere temporale, determinato dal fatto che il Papa era
anche il capo di una comunità statale. Enormi risorse economiche erano disponibili per lo Stato pontificio,
dovute alle riscossioni dei tributi di tutti i paesi cristiani che dovevano versare una certa somma nelle casse
papali.
Questa grande disponibilità di denaro generò corruzione nelle file del clero e nell'ordine dei cardinali, e
l'elargizione di benefici ecclesiastici a volte non soddisfaceva le pretese di alcuni Stati cristiani. Il potere
papale, inoltre, dovette scontrarsi più volte anche con le famiglie baronali romane (Orsini, Colonna, Caetani
ecc.), che cercavano in ogni modo di assumere il controllo della Città eterna, e con i comuni che non erano
sottoposti sotto il diretto controllo della Chiesa (terrae mediate subiectae), che quindi richiedevano maggior
autonomia.
Ad ogni modo, la Santa sede deteneva il controllo di alcuni punti nevralgici nel Lazio e più generalmente
nel centro Italia (Viterbo, Orvieto, Macerata, Ancona).

La situazione di altri stati minori nella penisola rifletteva la profonda influenza esercitata dalle potenze
nel Bel Paese.

Nel Regno di Napoli, governato ancora alla metà del XV secolo da un ramo della famiglia aragonese,
frequenti erano gli scontri fra i baroni napoletani nelle provincie e gli esponenti del potere centrale. Il regno
era sotto la tutela del Papa e non di rado nacquero accordi fra le 2 entità statali, soprattutto dopo la cacciata
della dinastia francese degli Angiò (1442).

Il Ducato di Savoia era profondamente frammentato, sia dal punto di vista territoriale (territori distribuiti tra
la fascia transalpina e sub-alpina) che dinastico, ed era plagiato dalla vicina presenza dello Stato francese. Le
famiglieche si contendevano il potere in questo ducato erano soprattutto due, 1) la famiglia dei Savoia, di
stampo aristocratico-feudale e filo francese, e 2) una componente piemontese, proveniente dagli ambienti
mercantili e urbani.

La Repubblica di Genova, altra grande potenza marinara di quel tempo, rivale di Venezia e dotata di una
potente flotta militare, era però danneggiata da 2 fattori: 1) l'instabilità politica interna, generata dai contrasti
tra la fazione dei popolari e dei nobili che cercavano di contendersi il controllo della città e che avevano
divergenti opinioni riguardo la distribuzione del potere, e 2) la debole forza militare di terra, che non era in
grado di contrastare gli eserciti del Ducato di Milano, che più volte nel corso del XV secolo la sottomisero.

La Repubblica di Siena (lacerata da profondi contrasti interni tra le famiglie gentilizie), la Repubblica di
Lucca (il potere era in mano a un ristretto gruppo oligarchico, composto da ricchi mercanti e banchieri), il
ducato di Ferrara(dominato dagli Este) e il ducato di Mantova (sotto il controllo dei Gonzaga), entrambi
permeati da elementi feudali, completavano il quadro generale di un Italia profondamente frammentata nel
suo entroterra regionale.
Fino alla Pace di Lodi (aprile 1454) e alla successiva costituzione della Lega Italica (marzo 1455), la
penisola fu sconvolta da lotte per l'egemonia nel territorio. Tuttavia, fino alla fine del XV si ebbe un periodo di
relativa stabilità in cui la politica degli Stati fu guidata dal principio dell'equilibrio del potere statale.

Alla frammentazione delle entità statali/locali italiane, si aggiungeva pericolo rappresentato dall'espansione
turca: dopo la conquista di Costantinopoli (29 maggio 1453) ad opera del Sultano Maometto II (1451-81) i
musulmani annessero anche la Bosnia nel 1463, e l'allora Papa Pio II (1458-64) cercò di unire i disgregati
apparati statali italiani per fronteggiare la minaccia turca, ma soltanto i Veneziani risposero all'appello del
Pontefice, più per interessi propri (gli Ottomani minacciavano i presidi veneziani nell'adriatico e nella Pianura
padana) che per un reale sforzo di combattere l'Islam.

Già 4 anni dopo dalla Pace di Lodi tuttavia, il sistema dell'equilibrio degli stati italiani venne messo in
crisi. Innanzitutto dalla guerra di successione napoletana (1458-62) e poi dalla guerra di successione fiorentina,
scoppiata alla morte di Cosimo de Medici (1464) e aizzata dai repubblicani. Il governo del suo successore, Piero
de Medici, non fu brillante e alla sua morte il potere fu diviso fra i 2 suoi figli, Giuliano e poi Lorenzo il
Magnifico: si produsse però una congiura anti-medicea (la c.d. Congiura dei Pazzi) sostenuta dal Papa Sisto
IV. In seguito alla reazione veemente dei filo-medicei, il Papa, alleatosi con Venezia, Milano, Siena e Regno
di Napoli, scatenò una guerra anti-medicea che si concluse con una vittoria diplomatica di Lorenzo il
Magnifico, il quale riuscì a rompere l'alleanza fra Regno di Napoli e Santa Sede, e a concludere la pace nel
1480. Da quel momento in poi Lorenzo si pose come garante della politica dell'equilibrio.

2 La fine dell’equilibrio e la discesa di Carlo VIII

Alla fine del Quattrocento, il ducato di Milano si rese protagonista di una critica situazione interna che ebbe poi
ripercussioni in tutta la penisola.

Un gruppo di nobili congiurati anti-monarchici nel 1476 posero fine alla vita di Gian Galeazzo Sforza, a cui
immediatamente successe suo figlio Gian Galeazzo II. Lo zio di quest'ultimo, Ludovico Sforza detto il Moro,
approfittando del fatto che il nipote fosse troppo giovane per poter governare, lo reclude a Pavia e si
impadronisce del governo (1479). Galeazzo II era sposo della nipote Isabella del re di Aragona, per cui la
potenza aragonese espresse il suo sostegno a favore di Galeazzo → ciò ruppe il rapporto fra il ducato di Milano
e il regno di Napoli, il quale costituiva uno dei pilastri della politica dell' equilibrio italiana.
Ludovico strinse accordi diplomatici ambigui: dapprima con il re francese Carlo VIII di Valois, che già da
tempo stava preparando una incursione in Italia per vendicare la cacciata degli Angiò dal regno di Napoli. Poi
si accordò con l' imperatore Massilimiano I Asburgo (1493-1519) in funzione antifrancese. Tuttavia,
godendo dell'appoggio sia della Repubblica di Venezia che della Santa Sede (pontefice Alessandro VI Borgia),
ritenne ormai inutile l'alleanza francese, ma i preparativi per la discesa in Italia delle truppe Transalpine erano
ormai pronti. Gli accordi diplomatici si ribaltarono: Venezia e Roma si unirono alla causa napoletana e
Ludovico il Moro cedette alle richieste avanzate da un emissario di Carlo VIII. La scelta della Santa Sede di
allearsi con il regno aragonese di Napoli fu condizionata dai timori condivisi con la repubblica Fiorentina (con
la quale il Papa si unì in alleanza), la quale nutriva profonde preoccupazioni per quanto riguarda un possibile
schiacciamento tra il Ducato di Milano e un regno di Napoli sotto il controllo francese.

L'imminente discesa di Carlo VIII aprì quella fase della storia italiana in cui la penisola divenne terra di
conquista per le monarchie nazionali europee.
Carlo VIII decise di sfruttare queste debolezze, giustificando i suoi desideri di conquista in quanto dall'Italia
sarebbe poi ripartito per riportare alla cristianità Gerusalemme. Nel settembre del 1494, tutelando gli interessi
francesi con una politica di accordi internazionale (pace di Etaples con gli inglesi, 1492; trattato di
Barcellona con la Spagna - cessione di Rossiglione e della Cerdagne -, 1493 ; trattato di Senlis con l'Impero -
cessione della Franca contea e dell' Artois, 1493) e sostenuto da una potente artiglieria, superò le Alpi.

Dopo aver attraversato senza troppi problemi il Ducato di Savoia e sconfitta la flotta aragonese a Rapallo (8
settembre 1494), nella regione toscana Carlo di Valois incontrò il primo ostacolo: Piero de Medici, nuovo
signore della città, che cercò di trattare col nemico per dissuaderlo dai suoi intenti. Tuttavia, non ottenendo
alcun appoggio da città importanti quali Arezzo e Pisa, favorevoli alla cacciata dei Medici, non poté opporsi al
rifiuto di Carlo VIII e dovette inoltre cedere alcune fortezze al nemico (tra cui l’importante porto di Livorno).
Fra il 31 e il 1 gennaio 1495 Carlo entrò a Roma e da lì si diresse velocemente nel regno di Napoli, forte del
via libera del Papa. Ferdinando II dovette ritirarsi in Sicilia.
Tuttavia la discesa di Carlo si arrestò a Napoli, dove ricevette notizie di un importante coalizione
internazionale (composta da Impero, Venezia, Spagna e le truppe di Ludovico il Moro, il quale dopo la
morte di Gian Galeazzo non aveva più motivo di guerreggiare con l’Aragona) che era nata con lo scopo di
sconfiggere le armate francesi in terra italiana: nello scontro di Fornovo sul Taro (luglio 1495) senza né
vincitori né vinti, il re francese perse gran parte delle sue truppe e infine ripiegò in patria. Ferdinando II
rientrava a Napoli.

3 Girolamo Savonarola e la Repubblica fiorentina

La discesa di Carlo VIII in Italia, anche se fallita provocò sgomento e preoccupazione in tutto il
territorio della Penisola. Iniziarono a diffondersi predizioni di carattere astrologico e profetico che vedevano
nella discesa del Re francese come a un evento millenario, che poneva fine ad una fase religiosa dominata dai
peccati e dava inizio a una nuova età dell'oro. Si guardava a Carlo VIII come un liberatore di un paese che
fino ad allora aveva conosciuto soltanto la corruzione e l'avidità della Santa sede.

A Firenze soprattutto queste predizioni si condensarono tutte nella persona di Girolamo Savonarola, un prete
domenicano del convento di S. Marco. Egli aveva dedicato tutta la sua vita alla predicazione e molte volte si
era scagliato contro la curia romana, ritenuta da lui peccaminosa e disonesta. Al momento della discesa in
Italia di Carlo VIII, iniziò a aizzare i cittadini fiorentini per rovesciare il corrotto governo mediceo, predicando
per la nascita di una nuova repubblica fiorentina a larga partecipazione popolare: il 30 novembre 1494 vennero
aboliti alcuni organi di governo dei medici (Il Consiglio dei 70, il Consiglio dei 100, i 12 procuratori, ecc.) e
venne creato un Consiglio maggiore, che aveva funzioni legislative ed era composto da un Consiglio degli 80
e dalla Signoria, entrambi dotati di poteri esecutivi e giudiziari. Di questo consiglio potevano far parte soltanto
i cittadini con almeno 30 anni che fossero considerati beneficiati, ovvero in regola con il pagamento delle
tasse, con almeno 29 anni e che avessero avuti discendenti in politica. La riforma di Savonarola ebbe la meglio
su un altro movimento, quello degli Ottimati che, accettando comunque la cacciata dei Medici, avrebbe
preferito la creazione di un governo oligarchico.

Le lotte intestine a Firenze fra i Piagnoni (seguaci di Savonarola), gli Arrabbiati (Ottimati) e i filo-medicei si
sommarono insieme al clima di profonda austerità propugnato dal frate domenicano. Inoltre l’introduzione
dell’imposta fondiaria e di quella progressiva sul reddito, unita a un ondata di peste del 1497, fecero
sprofondare la città nel pieno disordine. I contrasti con la Santa Sede erano talmente intensi che Savonarola
venne scomunicato e costretto al silenzio dal governo fiorentino, il quale, dopo le elezioni dell’aprile ’97, era
composto dai nemici politici del frate domenicano. La parabola del frate domenicano era destinata a chiudersi:
Savonarola fu processato dall'inquisizione secondo le accuse di eresia e di mancato rispetto verso il pontefice
(Alessandro VI). Dopo 3 processi, avvenuti tra il 21 e il 24 aprile, e attraverso i metodi della tortura,
Savonarola fu costretto a confessare i suoi capi d'accusa e infine venne giustiziato il 23 maggio del 1498.

4 La spartizione franco-spagnola dell’Italia e il ducato di Cesare Borgia

Il dissidio fra la Repubblica fiorentina e la Santa Sede non smise di intensificarsi con la morte di
Savonarola, ma si accentuò nel momento in cui il governo fiorentino decise di non partecipare alla coalizione
antifrancese, presente anche dopo la cacciata di Carlo VIII dalla penisola. Inoltre Firenze aveva ben altro a cui
pensare: si stava logorandocon una guerra avversa a Pisa, la quale fu aiutata nei suoi tentativi di ribellione da
Venezia. Nonostante la pace franco-milanese di Vercelli (ottobre 1496) la coalizione antifrancese non si
rinvigorì neanche quando Carlo VIII mandò un esercito ai confini della Lombardia, minacciando il ducato di
Milano (gennaio ’97). Nel 1498, la lega antifrancese perdeva un altro alleato, la Spagna dei sovrani cristiani
(pace franco-spagnola di Marcoussis). Intantoperò in Francia il potere passò da Carlo VIII, deceduto in
quell'anno, a Luigi XII d'Orleans (1498-1515), che rivendicò sin da subito il possesso del ducato milanese, (in
quanto discendente dei Visconti).

Assicuratosi alleanza di Veneziani, Svizzeri e Santa Sede, Luigi XII iniziò a preparare spedizione contro
Milano. Venezia nel frattempo stava combattendo la sua personale guerra con i Turchi: aiutati dalle forze
ostili alla potenza veneta (Milano, Impero, Napoli) gli ottomani ottennero grandi vittorie (conquista di
Lepanto) e si spinsero fino in Friuli e nell’Adriatico. Venezia fu costretta a operare lunghe trattative di pace,
che si conclusero nel maggio 1503
Poiché gli ottomani governavano su gran parte della costa della Dalmazia. Luigi XII decise di agire:
sfruttando anche il favorevole consenso di Alessandro VI, scaturito dal soccorso francese all'impresa di
conquista della Romagna operata dal nipote del Papa Cesare Borgia. Il re francese, attaccando il ducato
milanese nell’estate del 1499, mise in fuga Ludovico il Moro, il quale si rifugiò presso l'imperatore
Massimiliano I. Nuovamente sconfitto a Novara nel 1500, Ludovico venne imprigionato in Francia, dove poi
morì nel 1518.

Conclusasi la vicenda milanese, altro obiettivo di conquista francese era il Regno di Napoli, in cui governava
Federico III di Aragona. Accordatosi con il re spagnolo Ferdinando il Cattolico sulla spartizione dei
territori italiani (trattato di Granada, novembre 1500: Campania e Abruzzo francesi, Puglia e Calabria agli
spagnoli) e concludendo altre promesse di pace con Venezia e la Santa Sede, nell'agosto del 1501 il regno di
Napoli cadeva sotto i colpi degli eserciti francesi, a nord, e di quelli Spagnoli a sud (intanto Federico III
abdicava e riceveva in cambio il ducato d'Angiò). Tuttavia gli accordi franco-spagnoli non erano stati precisi e
si scatenò un conflitto per il controllo di regioni strategicamente vitali come la Basilicata, non menzionata nel
trattato di Granada; il conflitto fu infine vinto dagli spagnoli e Luigi XII fu costretto a rinunciare ai
possedimenti napoletani, mantenendo solo quelli milanesi (armistizio di Lione, 1504).

L'intesa tra Stato pontificio e Francia permise al nipote di Papa Alessandro VI, Cesare Borgia di
conquistare in breve tempo la Romagna e di instaurare lì il suo ducato. Dopo la Romagna e dopo aver
consolidato la neutralità del ducato estense con un attenta politica matrimoniale, conquistò anche le importanti
città di Piombino, Urbino e Camerino. Le conquiste del Borgia iniziarono a impensierire le nobiltà locali delle
città del centro Italia, tanto che si formò una lega di feudatari (maggio 1502) avversi al dominio del Borgia in
grado di riconquistare alcune città, tra cui Urbino e Camerino. Tuttavia Cesare riprese velocemente il controllo
del territorio e sconfisse la lega. Nonostante ciò Il suo potere nel centro Italia restò a lungo condizionato dalla
protezione francese e della Santa sede, e dall'impossibilità delle altri compagni statali di intervenire in qualche
modo (Venezia era occupata nella guerra con i Turchi, Milano era ormai sotto il controllo francese e Firenze era
impegnata a risolvere i propri conflitti interni). Infine il controllo sul Ducato di Romagna non era così
autorevole: i piccoli e medi feudatari godevano ancora di ampie autonomie.

Così la parabola di Cesare Borgia si concluse in poco tempo: con l'improvvisa morte di Alessandro VI (forse
avvelenato) e dopo solo un mese di pontificato dello sfortunato Pio III (22 settembre-18 ottobre 1503). Il
soglio pontificio venne occupato da Giulio II della Rovere (1503-13), aspro nemico della famiglia romana.
Borgia fu catturato e confinato in Spagna, dove morì poi nel 1507 nel corso di una battaglia per la dinastia dei
Navarra.

5 Gli anni di Giulio II e Leone X

La repubblica veneziana aveva accresciuto i propri domini grazie alle conquiste delle terre in mano al Borgia
e questa supremazia nella penisola italiana iniziò a preoccupare sia l'Impero, da sempre in contrasto con la
Serenissima nel controllo del nord Italia, sia il Papa Giulio II che non vedeva di buon occhio un'egemonia
veneziananel nord Italia. Inoltre l'ampliamento territoriale ebbe ripercussioni anche all'interno dello stato
veneto, poiché soprattutto i mercanti marittimi e alcune famiglie patrizie rimasero deluse dalla perdita di
importanza dell'attività mercantile e commerciale nei mari, sostituita dalla nascita di un'aristocrazia terriera ben
radicata e rinvigorita dallerendite fondiarie.
Il contrasto fra il Papa e la Serenissima era anche acuito dal sistema di designazione vescovile e di elargizione
dei benefici adottato nello Stato veneto, che era interamente nelle mani delle oligarchie della città lagunare
(sistema delle Probae). Tuttavia vi era la frangia dei c.d. Papalisti, di cui facevano parte anche alcuni esponenti
delle famiglieveneziane, che desideravano un riavvicinamento con la Chiesa, poiché godevano di alcuni
benefici ecclesiastici e di conseguenza erano contrari a un ampliamento territoriale nel nord Italia sfavorevole
alla Chiesa.

Giulio II passò all'azione: nel settembre del 1504 a Blois formò con Francia e Impero una coalizione
antiveneziana; tuttavia quest'azione non portò sin da subito allo scoppio di una guerra, poiché da una parte
Venezia cercò di accontentare le mire del Papa cedendogli alcuni territori minori della Romagna (1505),
mentre dall'altra Giulio II cercò di rafforzare internamente la sua compagine statale: 1) si riappacificò con
alcune famiglie baronali romane a lui ostili, 2) si impadronì, non senza difficoltà, di importanti città quali
Perugia e Bologna e 3) permise il rientro di alcuni signori nei loro possessi, guadagnandosi la loro fiducia per
un'eventuale prossima guerra.

L'Impero prese la decisione unilaterale di attaccare Venezia, ma la repubblica dimostrò la sua forza
respingendo tutti gli attacchi imperiali (1508). Cosicché alla coalizione anti-veneziana (la lega di Cambrai,
dicembre 1508) si aggiunse anche la Spagna, desiderosa di prendersi i porti commerciali della repubblica, e i
ducati di Savoia, Mantova e Ferrara, i quali avrebbero voluto riconquistare i territori occupati dapprima
dal Borgia e poi dalla potenza veneta.

Nella battaglia di Agnadello (maggio 1509) la coalizione inflisse ai veneziani una dura sconfitta, ma temendo
un rafforzamento troppo grande da parte della Francia, l'anno dopo Giulio II si accordò con Venezia
(restituendole alcuni territori e permettendo il sistema delle Probae) in funzione antifrancese. Tuttavia sia
l'Impero che la Spagna si svincolarono da questa presa di posizione del Papa, il quale conseguì diverse sconfitte
(soprattutto a Genova e Milano). Luigi XII, soddisfatto delle vittorie militari (si era impadronito anche di
Genova nel 1507, aizzando una rivolta popolare contro i signori del posto), decise di attaccare la Santa Sede
anche dal punto di vista clericale promuovendo un concilio religioso scismatico a Pisa, al quale a sua volta
rispose Giulio II istituendo un Concilio in Laterano fra Papa, Venezia e cantoni svizzeri, ostili alla Francia. Il
concilio di Pisa perse sin da subito il suo forte significato morale. Dopo la vittoria francese di Ravenna (aprile
1512), l'avvento delle truppe svizzere nel Nord Italiaindebolì le forze luigine, che dovettero ritirarsi da importanti
roccaforti. A Firenze il Papa, vendicandosi della sceltadella repubblica di accettare il concilio scismatico in terra
propria, rovesciò la repubblica e istituì l'oligarchia medicea.

Nell'agosto del 1512 venne istituito il Concilio di Mantova, con lo scopo di riordinare i territori nel Nord
Italia, protagonisti di sconvolgimenti continui nel corso degli ultimi decenni, e indebolire il dominio francese:
si sancì la restituzione di Milano a Ludovico il Moro, anche se sotto l'influenza dell'Impero e della Spagna, e la
cessione di Parma e Piacenza al Papa; questi ingrandimenti territoriali, fra cui l'acquisizione da parte della
Chiesa del ducato estense di Reggio, comportarono la stipulazione di un'alleanza franco-veneta in funzione
anti-papale, immediatamente avversata da un accordo fra Chiesa e Impero.

Infine nel convegno si sancì il ritorno dei Medici a Firenze. La grande debolezza della città fiorentina era
l'instabilità di governo, causata dalle continue frizioni fra gli Ottimati (aristocratici) e l'ala democratica del
governo: i primi volevano ridimensionare il potere del Consiglio Maggiore, che aveva ampi poteri sulle finanze
del regno, mentre i secondo volevano boicottare l'elezione dei membri del Consiglio dei 10, organo direttivo
della politica estera. Puntando al rafforzamento dell'esecutivo, gli Ottimati spinsero per l'elezione di un
Gonfaloniere a vita, sul modello del doge veneziano e nel 1502 fu eletto Pier Soderini. Con la restaurazione
medicea tuttavia, la carica di Gonfaloniere venne rese bimestrale e vennero riportati in vita i vecchi consigli
(dei 70 e dei 100) e creato un Senato, al posto dei vetusti consigli (Consiglio Maggiore e consiglio degli 80).
Dopo la morte di Giulio II, avvenuta nel 1513, il pontificato venne retto fino al 1521 da Leone X de
Medici. Ovviamente influenzato dai rapporti con l'oligarchia medicea, egli sponsorizzò una lega anti-francese
(alleata con Venezia) capace di impedire il ritorno dei transalpini in Italia (Lega di Malines del 1513 fra
Impero, Spagna, Inghilterra e Santa Sede). I franco-veneziani vennero sconfitti più volte (a Novara e a
Vicenza) e i contrasti si ridimensionarono: con il concordato del 1516 (il primo concordato della storia
europea), lo Stato pontificio riconosceva i diritti della Chiesa gallicana francese, tra cui il diritto del re francese
di poter proporre al pontefice una lista di vescovi francesi da consacrare.

Alla morte di Luigi XII, salì al trono francese il re Francesco I (1515-47). Fra gli obiettivi maggioritari del
sovrano vi erano la riconquista della Lombardia e del Regno di Napoli e il mantenimento dell'alleanza con
Venezia. Intanto il fronte antifrancese ora era costituito da: Impero, Spagna, Ducato di Milano, Cantoni
svizzeri, Repubblica di Genova e Santa Sede.

Francesco I sconfisse nella battaglia di Marignano (1515) i lombardo-svizzeri e si impossessò della Lombardia.
Cosicché seppur riconosciuto finalmente il governo mediceo a Firenze, Leone fu costretto a cedere Parma e
Piacenza al nuovo sovrano francese. Infine dopo la pace di Noyon (1516) tra la Francia e la Spagna (con re
Carlo V), si concluse la spartizione dell'Italia in 4 sfere d'influenza:

1) A nord ovest: Francia


2) A nord est: Venezia
3) Nel Centro Italia: Firenze
4) A sud e nelle Isole: Spagna
Tra le 4, Venezia fu il regno che maggiormente uscì rinforzato dopo l'ultimo decennio di guerre, poiché era
riuscita resistere da sola all'attacco delle forze della Lega di Cambrai (1508), aveva riconquistato i territori
romagnoli sottomessi da Cesare Borgia e godeva di un ottima economia, marittima e terrestre.

6 La riflessione politica

A Firenze, città lungamente travagliata dai conflitti politici interni e da un'endemica instabilità di governo, si
contraddistinse anche per essere la sede della riflessione politica sulla crisi italiana del 500 e sul regime
repubblicano in generale, in difficoltà nei confronti del numero crescente di monarchie assolute formatesi in
Europa. 2 autori in particolare si soffermarono a studiare il rapporto fra Repubblica e Monarchia, collegandolo
allacrisi dello stato italiano nel 500: Niccolò Machiavelli (1469-1527) e Francesco Guicciardini (1483-1540).

Nella concezione politica di Machiavelli la nascita della politica non poteva fondarsi su una legittimazione
divina, come era nella monarchia, ma la religione non era altro che uno strumento di consenso politico.
Soltanto la forza bruta e la guerra potevano reggere i cardini dello stato. Inoltre la dialettica di un principe
governatore si basava non sulle regole della morale cristiana, bensì sul continuo confronto tra Virtù (qualità e
attributi del principe) e Fortuna (l'instabile scorrere degli eventi non controllabili dal principe).

Nella sua opera più nota, Il Principe (1513), Machiavelli enuncia i metodi attraverso cui i sovrani avrebbero
potuto conquistare e mantenere il governo di uno stato, sia nuovo che ereditario e celebrava la discesa di un
Principe in grado di poter stabilizzare la difficile situazione italiana agli inizi del '500 . Questo principe avrebbe
dovuto usare ogni mezzo, legale o illegale, per raggiungere e ottenere questo obiettivo, poiché per risolvere
l'eccezionale situazione italiana c'era bisogno di una virtù extraordinaria che non guardasse alla morale
cristiana.

Uno degli elementi machiavelliani che si diffuse nella repubblica fiorentina fu lo spirito anti-tirannico formatosi
conl'alimentarsi, da parte dello storico fiorentino, del mito di Bruto e Cesare e del ricordi di Savonarola, che
aveva ammesso il ricorso al tirannicidio e la condanna della monarchia. Questi stessi elementi vennero poi
ridiscussi nel cenacolo degli Orti oricellari (famiglia dei Rucellai), a cui lo stesso Machiavelli decise di
partecipare.
Anche Guicciardini ripercorreva i temi affrontati da Machiavelli e mostrò grande nostalgia per la fine della
politicaitaliana dell'equilibrio, in cui a prevalere erano le art i della diplomazia e della moderazione . Anche
Guicciardini come Machiavelli dà spiegazione dei continui rivolgimenti politici e sociali come la
dimostrazione storica dell'impossibilità di reprimere le passioni e le ambizioni dell'essere umano; anche nei
regimi repubblicani, dove di norma era più facile rappresentare la totalità degli interessi politici e sociali, era
presente la libido dominandi dellemonarchie. I nuovi stati moderati sarebbero sorti sull' equilibrio istituzionale
fra i diversi organi di governo e comeprimo obiettivo avrebbero dovuto neutralizzare ogni conflitto interno. La
nascita di questi stati doveva implicare lapresenza di un Senato in grado di fare da equilibrio fra il re (Il
gonfaloniere) e un parlamento (Il Consiglio maggiore).

Capitolo 3 - L’Impero di Carlo V e lo scontro con la Francia

1 Dalla successione spagnola alla nascita dell’Impero

Nel XVI secolo, una delle entità geopolitiche più frammentate, ma allo stesso tempo una delle più solide per la
rigidità delle sue istituzioni e per il suo carattere secolare, era il Sacro Romano Impero che estendeva la sua
sovranità su tutta l'area tedesca, composta da principati e signorie. I vari Stati avevano a capo principi e signori
che esercitavano da tempo diritti di sovranità propri delle monarchie, ma la figura istituzionale – che tutti loro
riconoscevano come tale – che incarnava l'egemonia e il potere nell'area tedesca era l'Imperatore, che veniva
eletto dai 7 grandi elettori e che dal 1438 apparteneva alla casata degli Asburgo.

La società tedesca era tipicamente divisa in ceti, su una scala gerarchica. Considerevole era, inoltre, la presenza
del clero. Tuttavia, la frammentazione territoriale e la debolezza della corona imperiale impedirono in Germania
la formazione di una Chiesa “nazionale” soggetta alle autorità statali e autonoma da quella di Roma, come era
invece accaduto in Francia con la chiesa gallicana, e ciò facilitò il papato nelle nomine dei vescovi e nella
riscossione delle imposte ecclesiastiche. Ma proprio queste maggiori facilitazioni resero più acuta che altrove la
convinzione di essere sfruttati dalla gerarchia romana, contro cui da tempo si erano sollevate accuse e critiche
raccolte nei Gravamine deutscher Nation. Da qui nacque quella particolare aspirazione ad una riforma della
Chiesa da cui trasse forza e capacità di estensione sociale e politica la ribellione di Martin Lutero.

Anche le città in Germania subirono una crisi di trasformazione. Le città tedesche erano centri della borghesia
(ossia quegli strati sociali legati ad imprese commerciali e alle professioni giuridiche, mediche, ecc. ) e si fondavano
sempre di più su ordinamenti tipici del repubblicanesimo, basati sull’idea che all’intera comunità appartenessero
una serie di antiche “libertà” ritenute intoccabili: uguaglianza dei cittadini nel pagamento delle imposte,
partecipazione alla vita politica e formazione degli organi di governo, sì su base oligarchica, ma aperta a nuovi
strati emergenti.

Un contrasto molto duro nacque fra i prìncipi e la corona imperiale. La riforma costituzionale di Massimiliano I
(1493-1519), volta a ridurre i poteri e le prerogative dei prìncipi territoriali, non ebbe successo: l'istituzione di
un Consiglio reale in ogni stato federato e la ristrutturazione dell'amministrazione avrebbero dovuto rafforzare
l'assolutismo imperiale, ma la situazione non mutò di molto; inoltre l'obiettivo di assicurare una pace generale
all'interno dei vari stati non fu raggiunto in quanto né la riorganizzazione della Dieta (assemblea delle autorità
territoriali), né l'istituzione del Tribunale Camerale imperiale (1495) in grado di risolvere le diatribe fra gli Stati,
rappresentarono garanzie sufficienti. Infine la condizione economica dell'impero era caratterizzata da ampi
sprechi di risorse e dalla corruzione generale, proprio per questo l’Imperatore dovette, per molto tempo, fare
affidamento sui prestiti bancari e sull’assistenza dei prìncipi territoriali.

Date queste condizioni la guerra non era strumento preferibile, per cui politica estera imperiale si concentrò
soprattutto su alleanze matrimoniali per l’espansione territoriale (Mattia Corvino, Tu felix Austria nube):

Con successo Massimiliano I aveva incamerato i Paesi Bassi sposando la figlia di Carlo il Temerario, Maria di
Borgogna, e poi, rimasto vedovo, la nipote di Ludovico il Moro, Bianca Maria Sforza, indice del suo interesse
per il ducato milanese. Al fine di contenere l’espansione francese in seguito alla discesa in Italia di Carlo VIII
era stato poi celebrato nel 1497 il matrimonio tra l’erede dei sovrani di Spagna, Giovanni. La precoce
scomparsa di quest’ultimo, tuttavia, fece sì che Margherita andasse sposa nel 1501 a Filiberto II il Bello, duca di
Savoia, sempre allo scopo di ridurre la pressione della Francia. Un altro chiaro significato antifrancese ebbero le
nozze tra l’altro figlio nato dal primo matrimonio, Filippo il Bello, e la figlia del re di Spagna, Giovanna la
Pazza.

La morte di Giovanni (unico successore dei sovrani spagnoli) aprì un periodo di incertezza dinastica per la
compagine iberica: la successione spagnola entrò in un intricatissimo periodo di dispute per il potere La
successione al trono sarebbe spettata alla figlia maggiore dei 2 sovrani, Isabella, che era andata in sposa nel
1497 a Emanuele I, re del Portogallo, affinché si realizzasse la tanto agognata (da parte degli spagnoli)
riunificazione della penisola iberica sotto un'unica bandiera. Isabella muore nel 1498, subito dopo aver
concepito Michele, il quale però rimase in vita solo 2 anni.
A questo punto la successione, di diritto, sarebbe toccata a Giovanna la Pazza, moglie dell'arciduca d'Austria
Filippo il bello, ma il suo squilibrio psichico, secondo la madre (Isabella di Castiglia), non la consentiva di
governare, quindi fino al 1504 fu il marito di Isabella, Ferdinando d'Aragona (Il cattolico) a detenere il potere.
Alla morte di Isabella, nel 1504, la nobiltà castigliana nominò Re Filippo il Bello, di origine fiamminga, in
modo da intensificare i rapporti con i Paesi bassi e preferendolo a Ferdinando, considerato un "Re straniero".
Ferdinando reagì ammogliandosi con la nipote di Luigi XII di Francia, Germaine de Fox, e rinsaldando i legami
fra Aragona e Francia.
Nel 1505, la situazione vedeva un governo tripartito sui domini castigliani-aragonesi con Giovanna la Pazza
(regina secondo il diritto, ma sconfessata dagli altri contendenti), Ferdinando d'Aragona (nominato dalla nobiltà
aragonese), Filippo il Bello (nominato dalla nobiltà castigliana).
Con la morte di Filippo il Bello, e a causa della follia di Giovanna, Ferdinando d'Aragona si appropriava del
potere facendo rinchiudere la figlia pazza in un convento, dove ella morì nel 1555.

Intanto, nei Paesi Bassi, dopo la morte di Filippo il Bello, suo figlio Carlo d'Asburgo diveniva il reggente di
questo fruttuoso territorio. Nel 1516 la morte di Ferdinando senza eredi consentì a Carlo di cingere la corona
aragonese e, di fatto, quella castigliana. Rispetto a quest’ultima, la legittima regina era la madre Giovanna la
Pazza.
Carlo divenne Re di Castiglia e Aragona (col nome di Carlo I) grazie alla dichiarazione dell’entourage
fiamminga (colpo di mano) e sconfessando la povera Giovanna e il Cardinal Cisneros (il reggente della
Castiglia), che accettò tutto per non aprire nel regno una nuova crisi dagli esiti imprevedibili. E così Carlo,
ottenuta la corona, poté riunire i territori aragonesi (Sardegna, Sicilia e Regno di Napoli) e castigliani (le fiandre
e le colonie) sotto un unico vessillo.

Guardato con diffidenza per le sue origini fiamminghe in Spagna (dunque uomo ignaro della realtà del paese che
neppure la lingua conosceva), Carlo colse l'attimo e divenne Imperatore del Sacro Romano Impero. Nel gennaio
1519, infatti, muore il legittimo sovrano Massimiliano I. Carlo eredita i possedimenti degli Asburgo, e la
possibilità di candidarsi a imperatore. L’elezione di Carlo (divenuto con l'unione Carlo V d'Asburgo) al trono
di imperatore, avvenuta alla Dieta imperiale (grazie all’aiuto finanziario dei banchieri tedeschi e fiamminghi e a
quello politico della piccola nobilità) si rivelò un'astuta mossa politica, in grado di circondare la Francia di
Francesco I su due fronti.
2 Organizzazione e problemi dell’Impero di Carlo V

Più forte della Francia, il complesso ispanico-imperiale appariva per capacità militare: una solida flotta, gli
addestratissimi lanzichenecchi tedeschi e l’armata spagnola costituivano i capisaldi di una macchina bellica
difficilmente eguagliabile.
Enormi apparivano poi le potenzialità economiche imperiali, con il controllo del grano siciliano, le colonie
d’oltreoceano, le ricchezze delle Fiandre e le riserve finanziarie dei banchieri tedeschi, fiamminghi e genovesi.

Ulteriore elemento di forza Carlo V fu la capacità di proseguire la politica matrimoniale dei suoi avi. Stabilizzò
il fronte nordico facendo sposare la sorella Isabella con Cristiano II di Danimarca. Riprendendo il disegno dei
Re Cattolici di unificare la penisola iberica, fece sposare un’altra sorella, Eleonora, con Emanuele I di
Portogallo, e un’altra ancora, Caterina, con Giovanni III, erede di Emanuele, 1519. Infine, lui stesso sposò la
figlia di Emanuele I di Portogallo, Isabella di Portogallo, da cui ebbe tre figli.
La politica dinastica non risparmiò i Balcani: già nei piani di Massimiliano I, un’altra sorella di Carlo, Maria,
sposò il re d’Ungheria, Luigi II Jagellone, e una sorella di questi, Anna, si unì al fratello minore di Carlo,
Ferdinando. Queste nozze erano studiate per aspirare alla corona ungherese e rafforzare una frontiera antiturca.

Da qui si evincono i problemi di Carlo V su fronte esterno: arginare la pressione turca nei Balcani e nel
Mediterraneo, e proteggere linee di comunicazione Impero (sia marittime che terrestri).
Effettivamente l’Impero presentava diversi punti deboli, fra cui la disomogeneità geopolitica e religiosa
(riforma protestante), e la vastità dei domini, uniti solamente dalla persona del sovrano. Ciò implicava che ad
ogni necessità Carlo V dovesse costantemente spostarsi nei vari domini. Per questo, tuttavia, si servì anche
delle reggenze dei suoi figli nei vari stati amministrati per sbrigare i propri impegni. Ma soprattutto Carlo si
servì di un elaborato sistema di Consigli per poter "arrivare" fin dove lui non poteva essere in quel momento. I
Consigli si dividevano in Consultivi e/o Competenti su materie o per territorio:

- il Consiglio di Stato, organo consiliare dell’imperatore, più formale che effettivo;

- il Consiglio di Guerra, che si occupava dell'organizzazione militare dell’Impero;

- il Consiglio delle Finanze, istituito dal consigliere e cancelliere di Carlo V, Mercurino da Gattinara giurista e
umanista piemontese;

- i Consigli regionali, come il Consiglio delle Indie per il controllo di questi territori dal centro.
Infine, i singoli territori erano governati in loco da viceré dipendenti del Re che avevano il compito di
respingere le spinte autonomiste delle periferie dell’Impero (Aragona, Navarra, Sardegna, Sicilia, Napoli e
colonie).
Questa lunga catena di comunicazioni politiche ebbe due effetti evidenti: intempestività (ritardi) e burocrazia
pesante.

La volontà di Carlo V di non unificare tutti Stati sotto unico ordinamento (pensando che l’unità politico-
religiosa bastasse) ebbe come conseguenza di lasciare intatte le strutture politico-amministrative precedenti
nei singoli domini. Continuarono a riunirsi le Assemblee (Cortes, Diete, Parlamenti ecc.) in tutti i territori
dell’impero. Questi particolarismi finirono per sgretolare la pretesa universalistica di unire tutta Europa
sotto unico Impero.
Dunque, i grandi grossi freni a una monarchia universale potremmo riassumerli 1) contrasti tra universalismo
della Corona e le realtà locali; 2) difficoltà finanziarie della Corona (che vedremo meglio in seguito); 3) lo
scisma protestante estesosi poi in tutta l’Europa.

Tuttavia, una nota positiva è che fallì il tentativo dei prìncipi tedeschi di limitare potere Imperatore. Infatti Carlo
V fece compromesso con principi tedeschi nel 1519 per ottenere il titolo imperiale : la c.d. “Capitolazione”
assicurava ai prìncipi la compartecipazione al governo della Germania e ripristinava riforme costituzionali e
amministrative di Massimiliano I, fra cui l'istituzione di un Consiglio di Reggenza.
La capitolazione venne ridiscussa e precisata nella Dieta di Worms nel 1521 (la prima di Carlo). Ma negli anni
successivi i nuovi organismi istituiti (come il Consiglio di Reggenza) divennero docili strumenti del potere
asburgico.

Quanto i particolarismi costituissero un problema, Carlo dovette accorgersene non appena salì sul trono di
Spagna. Quando infatti da quel trono dovette momentaneamente allontanarsi, lasciandovi come reggente il suo
consigliere Adriano di Utrecht, per recarsi in Germania a cingere la corona imperiale, gli abitanti dei comuni
castigliani (comuneros) esplosero in una violenta ribellione, capeggiata da un nobile, Juan de Padilla.

Cause della rivolta: ) alta pressione fiscale b) troppi funzionari stranieri c) rivendicazione primato delle Cortes.

Le comunidades castigliane in rivolta si unirono in una Junta e cercarono di liberare Giovanna “la pazza”, nel
tentativo di prendere il potere “legalmente” governando in suo nome.
Contemporaneamente esplose un’altra rivolta a Valencia, sempre di origine anti-fiscale, che assunse però
connotazione radicale e anti-signorile. Gli artigiani si unirono in "fratellanze" armate.
Radicalismo anti-nobiliare impaurì aristocrazia castigliana che non si schiera con i ribelli e lascia la porta aperta
per la violenta repressione guidata da Adriano di Utrecht nel 1521-22.
Insomma il fisco era il nodo cruciale dello scontro.

Carlo V si scontrò con le assemblee dei vari Stati per fissare l’ammontare delle nuove imposte e la loro
riscossione. Nonostante gli sforzi, l’assenza di una razionale organizzazione finanziaria e fiscale fu insieme
causa ed effetto di questa situazione. La crisi economica si faceva sempre più sentire, l’indebitamento pubblico
aumentava e l’imperatore iniziò a drenare in maniera squilibrata risorse dalle aree economiche più proficue.
Così, se poco gravata fu la Germania, il peso maggiore delle finanze imperiali fu sostenuto dapprima dai domini
italiani e dai Paesi Bassi, e poi anche dalla Spagna (Castiglia fu la regione più spremuta fiscalmente).
Ogni tentativo di migliorare la situazione non servì a molto, aumentò il divario tra privilegiati e massa dei
contribuenti e il risultato ultimo fu l’insufficienza del gettito fiscale e la tendenza della monarchia a cercare fonti
alternative di finanziamento.

Altro grande problema costituiva per Carlo V la disorganicità del suo impero, che venne (in un certo senso)
ridimensionata grazie all'opera di unificazione religiosa dell'Europa Cristiana da parte di Carlo, timoroso
soprattutto nei confronti dello scisma della Chiesa Luterana (a cui avevano partecipato molti principi tedeschi).
Questa politica di unificazione religiosa si nutrì e fu incentivata dal dialogo interconfessionale e dal moderato
riformismo religioso professato dal grande umanista olandese Erasmo da Rotterdam. Gli ideali proposti da
Erasmo, il suo irenismo conciliante, si armonizzavano facilmente con la politica di Carlo V, essendo ideali
ispirati da una pace universale tutelata nel mondo da una riforma del Cattolicesimo, in grado riunire tutti i popoli
sotto la stessa religione (e sotto lo stesso comando, quindi, di Carlo V). Queste idee trovarono terreno fertile
soprattutto in Spagna che accolse con favore l'ideale di rinnovamento spirituale del Cristianesimo.

3 Le conquiste coloniali spagnole

Dopo la scoperta del nuovo continente negli anni ‘20 del XVI secolo espansione coloniale spagnola ebbe un
ulteriore impulso grazie all'opera di Hernán Cortés ( che aveva già avuto un’esperienza di colonizzatore ad
Hispaniola e dopo aveva partecipato alla conquista di Cuba). Nel 1519 Cortés partiva dall'isola con un
contingente di 600 uomini per una spedizione militare in Messico. Ma senza alcuna indicazione dalla corona
spagnola, per questo la sua può considerarsi un'iniziativa privata, nata dall'intento di scoprire nuovi giacimenti
auriferi, ormai esauriti in terra cubana.

Il popolo che incontrò Cortés sul suo cammino, gli Aztechi, era internamente diviso e costituito da genti di
diversa provenienza etnica, riunito in una Confederazione di 38 province spesso in conflitto tra loro, con
capitale Tenochtitlan (Città del Messico). Cortés sfruttò queste divisioni interne e, servendosi anche della
leggenda del Ritorno di Quetzalcoatl (secondo cui un antico re che si oppose a sacrifici rituali alle divinità
venne esiliato nell'oceano e divinizzato, e sarebbe poi tornato nella sua patria), riuscì a penetrare nella capitale
azteca e a prendere in ostaggio il re Montezuma. A quel punto, un contingente militare spagnolo, comandato da
Panfilo de Narváez, si diresse contro Cortés, accusato di agire in proprio. Sconfitto Panfilo tuttavia, entrambi i
condottieri unirono le forze per fronteggiare la rivolta della popolazione nella capitale azteca (Montezuma venne
ucciso dagli indigeni poiché accusato di essere totalmente asservito ai Conquistadores.) Grazie anche
all'alleanza con la provincia di Tlaxcala, l'esercito azteco venne sconfitto a Otumba e i Conquistadores poterono
finalmente porre sotto assedio la capitale , che venne conquistata nel 1521. Tuttavia, il lavoro per Cortés non era
finito: egli dovette far fronte a numerose rivolte negli anni successivi, a cui seguirono feroci repressioni.

Un’altra importante e altrettanto sanguinosa spedizione militare spagnola fu avviata da Francisco Pizarro,
stavolta nell'America del Sud. Dopo aver ottenuto il titolo di governatore delle nuove terre che sarebbero state
conquistate, attraverso la stipula di una Capitolazione con Carlo V, Pizarro parti alla volta del continente
sudamericano nel 1531 da Panama, accompagnato dal generale Diego de Almagro. Qui vi trovò la civiltà
precolombiana più evoluta, gli Incas. Questa dinastia venne fondata nel XIII secolo da Manco Capac e si basava
su una rigida struttura sociale gerarchica e sulla presenza di un efficiente sistema tributario. La morte dell'attuale
re Huyana Capac, avvenuta nel 1527, scatenò una serie di lotte intestine per la successione fra i due figli
Huascar e Atahualpa di cui approfittò Pizarro, che catturò Atahualpa. Pur avendo pagato il riscatto per la sua
liberazione, il successore al trono (Atahualpa) venne condannato a morte e ucciso, così Pizarro, dopo aver
conquistato la città di Cuzco , nominò re il fratellastro di Atuhualpa, Manco Capac II, mentre il generale de
Almagro si era rivolto verso sud. Nel 1536 scoppiò una rivolta, capeggiata dallo stesso Manco Capac II a Cuzco,
che venne soffocata da Pizarro soltanto grazie all'aiuto di de Almagro. Dopodiché si scatenò una lotta fra i 2
Conquistadores per il controllo della ricchissima città di Cuzco: alla fine di alterne vicende, il controllo della
città venne affidato a Pizarro, che però venne assassinato da uno dei seguaci di de Almagro, ucciso pochi anni
prima durante queste lotte.

Sia Cortés che Pizarro approfittarono delle capitolazioni ottenute per esercitare un potere indiscusso sulle
spedizioni militare nelle Americhe.
Carlo V dovette riorganizzare la struttura amministrativa e di potere nelle colonie: istituì 2 vice-regni, in
Messico e in Perù con potere affidato ai viceré e l'opera dei Conquistadores era sottoposta a controllo da parte di
particolari ispettori. Venne potenziata l'opera di diffusione religiosa nelle colonie: nacque l'encomienda, un
nuovo istituto giuridico spagnolo che offriva dei benefici economici e territoriali (appezzamenti di terreno,
insediamenti territoriali ecc.) ai prelati ecclesiastici i quali, in cambio della manodopera degli indigeni (attività
che era ritenuta anche moralmente formativa per gli indigeni), offrivano istruzione religiosa e sociale.
Nemici di questo istituto, per lo sfruttamento palese della manodopera locale (anche minorile) cui dava luogo,
furono gli ecclesiastici spagnoli inviati ad evangelizzare le nuove terre. Simbolo di questa opposizione il
domenicano Bartolomé de Las Casas. Las Casas fu uno dei primi, coraggiosi, a denunciare i colonizzatori; la
sua continua attività missionaria nel continente sudamericano e i suoi ripetuti viaggi presso la corte spagnola, il
problema dell’equiparazione giuridica tra colonizzati e colonizzatori come conseguenza dell’eguaglianza del
genere umano assunse pieno e più ampio rilievo ed ebbe nel 1537 il favorevole pronunciamento del pontefice
Paolo III.
Nell’aprile del 1542 Las Casas riuscì ad avere udienza da Carlo V e a convincerlo dell’opportunità di inviare
membri del Consiglio delle Indie per ispezionare le attività dei colonizzatori. Alla fine di quell’anno le Leyes
Novas emanate dall’imperatore proibivano la schiavitù degli indigeni sotto qualsiasi forma si fosse manifestata.
A combattere questa battaglia si affiancò Francisco de Vitoria, che sosteneva la presenza di diritti fondamentali
e della dignità personale anche per gli indigeni, qualora anch'essi decidessero di non convertirsi al Cristianesimo
: quindi doveva venire tutelato anche il diritto di proprietà il quale invece veniva continuamente violato dai
Conquistadores. Esponente antitetico di questa visione, Juan de Sepulveda che credeva invece nella funzione
civilizzatrice dei colonizzatori spagnoli, attuabile anche attraverso la guerra (visione contraria al Vangelo,
secondo Las Casas).

Al di là delle dispute teoriche-religiose, l'evangelizzazione nelle Americhe procedeva bene: furono istituite
"case" e diocesi coloniali che davano impulso al processo missionario dei prelati e si diffusero anche i primi
inquisitori: la loro opera era da una parte indirizzata a impedire la diffusione della fede ebrea nelle Americhe,
dall'altra di condannare chi fra gli indigeni si rifiutava di convertirsi alla nuova fede.

4 La Francia dei Valois

La Francia della prima metà del ‘500, anche se territorialmente e demograficamente inferiore al potente blocco
ispano-imperiale, aveva il vantaggio rispetto a quest’ultimo di essere uno Stato unitario e dotato di un più alto
grado di centralizzazione monarchica.

Anche nello Stato francese erano presenti diversi organi di ausilio del sovrano: Il Consiglio del Re che si
suddivide in varie sezioni fra cui il Gran Consiglio amministrativo (Grand Conseil), che amministrava la
giustizia regia, a cui in seguito venne affiancato il Consiglio delle cause private (Conseil des Parties). Di
particolare rilievo il personale giudiziario, ossia gli Officiers (magistrati), potevano rinviare al re i testi
legislativi non conformi o comunque poco consoni per quella particolare materia, in modo da avere una seconda
lettura più approfondita per quella norma. Ma il re poteva respingere il rinvio, come fece in occasione del
Concordato con la Chiesa.

L'accentramento monarchico, già consolidato con il Concordato con la Chiesa del 1516 (controllo regio su
distribuzione cariche ecclesiastiche) e con la limitazione dei potere degli Stat i Generali (non più convocati dal
1484) venne intensificato con riduzione verticistica delle decisioni politiche al Grand Conseil formato da
pochissimi membri scelti dal Re. I Segretari fungevano da tramite tra Re e Consigli, guadagnando rilievo (fine
anni ’40 erano 4 i Segretari di Stato).
Anche l’amministrazione fiscale si era sviluppata e affinata attraverso l’istituzione di circoscrizioni
(généralité), sottoposte ciascuna ad un tesoriere generale, e di organismi di controllo contabile (Camera dei
Conti). Inoltre, nel 1523 istituita unica cassa nazionale che centralizzò l’amministrazione finanziaria. In più,
l’introduzione della taille (imposta diretta annuale e permanente sulle persone e sui beni) aveva permesso di
formare una burocrazia stabile e un esercito permanente. Insomma la Francia era meglio organizzata e meno
soggetta ai tumulti dei particolarismi locali. Disponeva di un esercito permanente inferiore nel numero ma con
cavalleria ineguagliabile e artiglieria superiore.

Tutto questo permetteva alla Francia di presentarsi sostanzialmente alla pari allo scontro con l’Impero.

5 La guerra in Italia e la Lega di Cognac


Le questioni sulle quali vigevano dei contrasti fra le due potenze erano diverse:

- Il destino della Borgogna, in mano francese ma rivendicata per motivi dinastici da Carlo V;
- Il dominio sul Ducato di Milano, in mano alla Francia, che diveniva di vitale importanza per l'Impero
poiché costituiva il nodo di aggancio fra la Germania e la Spagna;
- Il possesso di Genova, grande scalo commerciale, utile per entrambi le compagini statali, in particolare
per Carlo, in quanto avrebbe potuto unire l’Aragona e l’Italia via mare;
- La rivendicazione francese sui territori imperiali delle Fiandre e della Contea di Artois.

A dare il via alle operazioni belliche non fu tuttavia Carlo V, ma Francesco I, forte della sua egemonia nell’Italia
settentrionale dove poteva contare sull’alleanza della Repubblica di Venezia e sul decisivo aiuto militare degli
Svizzeri.

L’impero poteva contare sull'aiuto dell'Inghilterra dei Tudor e sul Papa Leone X.

Enrico VIII Tudor riteneva opportuna l'alleanza (1521) con l'impero per via dei possedimenti dei Paesi Bassi,
proficui dal punto di vista commerciale, e anche per continuare la normale politica anti-francese inaugurata con
la guerra dei 100 anni. Leone X invece aveva scelto di unirsi con l'Impero per via delle confliggenti mire
espansionistiche tra la Francia e lo stato Pontificio (entrambe volevano estendere i propri possedimenti nell'area
ferrarese e lombarda).

Le prime incursioni furono francesi, prima in Lussemburgo e poi in Navarra (1521), entrambe stoppate dalle
truppe tedesche. La guerra volse sin da subito a favore dell'Impero: nell'estate del 1521 le truppe ispanico-
pontificie occupano Milano, e nel dicembre dello stesso anno Leone X muore e viene eletto pontefice l'ex
reggente di Spagna e consigliere di Carlo V, Adriano di Utrecht, col nome di Adriano VI.

Nel 1522 la Francia provava una controffensiva nel nord Italia, ma con la sconfitta della Bicocca (aprile 1522)
dovette cedere anche Genova agli imperiali. La defezione di uno dei maggiori generali francesi, Carlo di
Borbone (per aver organizzato un complotto nei confronti di Francesco I ed esser passato al nemico), e il
voltafaccia di Venezia, alleatasi con l'Impero (1523), rilevarono la debolezza della monarchia francese e
permisero a Carlo V di creare una grande coalizione antifrancese di cui facevano parte: Impero, Inghilterra,
Stato della Chiesa, Repubblica di Venezia, Repubblica di Firenze, Repubblica di Genova, Repubbliche di Lucca
e Siena (agosto 1523).
Questa vasta coalizione non poteva tuttavia ritenersi sicura, in quanto Venezia pur facendone parte non aveva
sconfessato i passati accordi con la Francia, e il contributo degli inglesi non fu così determinante come pensava
Carlo V. A ciò si aggiunge la morte di Adriano VI e l'elezione del Papa Clemente VII (1523-34), che indirizzò
la sua politica verso l'intesa con Francesco I. Francesco I, nel corso del 1524, aveva ripreso Milano e iniziò ad
assediare la fortezza di Pavia.

Il corso della guerra sembrava stesse cambiando: la Francia riesce a far riavvicinare Venezia (che voleva
impedire un dominio imperiale nel nord Italia) e la Santa Sede (la quale non vedeva di buon occhio il
programma religioso di stampo erasmiano portato avanti da Carlo V) con un accordo nel 5 gennaio 1525.

Ma per la Francia gli eventi precipitarono: sconfitte le truppe che assediavano Pavia (febbraio ’25), i soldati
imperiali catturarono Francesco I, che dovette firmare a Madrid un trattato impietoso (gennaio ’26) che sanciva:
a) restituzione Borgogna all’Impero e b) fine pretese francesi su Italia, Fiandre e Artois.

Ciò però andò a sfavore dell’Impero: gli stati coinvolti nel conflitto iniziarono a temere una egemonia
incontrastata dell'Impero in Europa, e reagirono di conseguenza→ Inghilterra, Venezia e Santa Sede firmarono
delle paci separate con la Francia e si unirono in funzione anti-imperiale. Nacque così la Lega di Cognac
(maggio 1526) di cui faceva parte anche Milano; ma le divergenze strategiche che dividevano i componenti
della Lega vennero a galla (Venezia era interessata alla difesa della zona lombarda, il Papa alla conquista di
Genova) e l'alleanza non seppe organizzare un'unità politica di attacco nei confronti di Carlo V (impegnato a
combattere contro i turchi a Mohacs, agosto ‘26). Intanto il Papa, rimasto senza soccorsi a Roma, vide il
Vaticano saccheggiato da 5000 uomini della famiglia Colonna (settembre 1526), alleata dell’Impero. Turbato
da questi sviluppi Clemente VII cercò di sganciarsi dalla Lega di Cognac aprendo negoziati separati con gli
spagnoli, dai quali ottenne nel marzo del 1527 il ritiro delle truppe imperiali già penetrate nei domini
settentrionali dello Stato ecclesiastico.

6 Dal sacco di Roma alla pace

La notizia della pace separata (marzo 1527) e il ritardo nei pagamenti portarono circa 20.000 soldat i tedeschi, i
Lanzichenecchi, a continuare la discesa in Italia; dopo aver sbaragliato presso Mantova le forze della Lega di
Cognac, giunti alle porte di Roma, 6 maggio 1527 iniziarono un terribile saccheggio della Capitale durato quasi
9 mesi: vennero profanate le chiese, distrutte le opere d'arte e uccisi i prelati. Ciò che li spingevano erano
principalmente risentimenti nazionali e religiosi (la maggior parte dei guerrieri era di fede luterana). Clemente
VII si ritirò nella fortezza di Castel Sant'Angelo.

Il 29 Maggio 1527, a Westminster, Francesco I e Enrico VIII si uniscono in un’alleanza franco-inglese in


funzione anti-imperiale, per attaccare l’esercito asburgico in Italia e difendere il papato. Ma l’alleanza non riesce
a frenare il collasso dello Stato della Chiesa: le altre potenze italiane approfittarono del momento di estrema
debolezza del Papato per occuparne i territori (rimangono solo Reggio e Modena), mentre a Firenze i Medici
(privi di protezione) venivano cacciati alla notizia della resa del Papa, ed al loro posto veniva instaurata la
Repubblica fiorentina.

Clemente VII si consegna agli invasori in Giugno e viene costretto a firmare un trattato di resa (16 Maggio
1527) che gli imponeva neutralità nel conflitto Francia-Impero, e inoltre gli strappa promessa di indire un
concilio.
Nel maggio 1528 l'offensiva francese riparte al comando del Generale Lautrec. L’obiettivo era di rimpossessarsi
Regno di Napoli. Si conclude però miseramente: nell'assedio di Napoli Lautrec muore di peste, e Genova (che
nel 1527 era tornata città francese) con la sua flotta (comandata dall’ammiraglio Andrea Doria) passa
all’Impero.

Clemente VII tentava un riavvicinamento molto difficoltoso con l'Impero, a causa delle divergenze di carattere
religioso e culturale aperte dal saccheggio di Roma, ma che si concretizza con il Trattato di Barcellona del 1529:
1) accettazione da parte del Papato dell'annessione diretta del Ducato di Milano all'Impero; 2) in cambio alla
restituzione delle città di Firenze alla famiglia De’ Medici; 3) aiuto asburgico a recuperare le terre occupate dai
nemici dello stato della Chiesa durante la crisi del 1527.

Agosto 1529 → Pace di Cambrai (Pace delle 2 dame, poiché negoziata da zia di Carlo, Margherita d'Austria, e
da madre di Francesco I, Luisa di Savoia), si giunge finalmente all’accordo fra i 2 grandi contendenti, Carlo V e
Francesco I, che sancì:

- Francesco I 1) rinuncia alle pretese di dominio in Italia, 2) conserva la Borgogna, 3) restituzione dei
figli di Francesco I (ostaggi in Spagna sin dalla cattura di Francesco I a Pavia nel 1525) .La Francia
salvava così la propria integrità territoriale, al costo di lasciare a Carlo V il dominio sull’Italia.
- Carlo V ottiene la supremazia imperiale in Italia e l’annessione del ducato di Milano, sancita dalla Pace
di Bologna del Gennaio 1530, e dalla cerimonia di incoronazione (febbraio 1530) nella quale Clemente
VII poneva sul capo di Carlo V la corona di Imperatore e Re d'Italia.

Capitolo 4 - “La Riforma Luterana”

1 Le premesse

I controversisti cattolici contemporanei di Lutero non ebbero una percezione immediata della novità radicale del
movimento religioso tedesco in tutta l'area centrale del continente europeo; credettero di avere a che fare con una
delle 7 ribellioni dottrinali che sin dal Medioevo avevano osteggiato l'autorità ecclesiastica della Chiesa romana
e che erano state faticosamente represse dall'azione dei missionari e degli inquisitori cattolici. L'unica forma di
eresia ancora fortemente diffusa, nell'area tedesco-renana, era il Libero spirito, mentre l'Hussitismo era stato
appena sradicato in Boemia, suo nucleo territoriale di nascita.
Jan Hus (1369-1415),fondatore dell’Hussitismo, si ispirò per l'elaborazione del contenuto dottrinale dell'eresia,
alle posizioni teoriche del riformatore religioso inglese John Wycliff, ovvero:
● la Bibbia è l'unica fonte di verità rivelata;
● negazione della transustanziazione (la trasformazione reale delle specie eucaristiche del
pane e del vino in corporea presenza di Cristo);
● la Chiesa costituiva una comunità di predestinati.

Queste tesi vennero alla luce in Boemia grazie agli studi di uno studente ceco dell'Università di Oxford, Girolamo
da Praga, e poi vennero assunte da Hus, la cui posizione fu tuttavia più cauta e in certa misura ambigua,
soprattutto riguardo la transustanziazione. Inoltre, Hus criticava la promulgazione di nuove indulgenze di Papa
Giovanni XXIII (1410-1414); così egli venne chiamato dal Concilio di Costanza (1414-1418) a spiegare le sue
controverse posizioni: gran parte delle conclusioni teoriche contenute nel suo trattato “De Ecclesia” vennero
condannate e Hus si rifiutò di ritrattarle; venne condannato al rogo e morì il 6 luglio 1415 a Costanza, e stessa
sorte ebbe Girolamo da Praga l'anno dopo. Ma anziché spegnersi l'Hussitismo dilagò in Boemia e tra i principi
dottrinali venne introdotta anche la comunione “sub utraque specie” cioè l'uso del calice anche ai laici.
Maggiori tensioni religiose nacquero in seguito alla formazione della divergenza teorica del Taboritismo, sotto
corrente religiosa radicale nata nella città di Tabor (sorta nel 1470) grazie all'influenza di Niccolò di Dresda.
Questa sotto-corrente da una parte negava l’esistenza del Purgatorio e rifiutava la prestazione del giuramento
dall’altra predicava il rinnovamento radicale della Chiesa, la creazione di una società basata sui fondamenti della
fratellanza e dell'egualitarismo e la formazione di un regno millenario guidato da Cristo, precedente al giudizio
finale (millenarismo o chiliasmo rivoluzionario). Mentre il radicalismo taborrita sfociava nel chiliasmo
rivoluzionario, lotte e guerre divisero la Boemia fino ad una prima conclusione favorevole all’ala moderata
dell’hussitismo seguita dalla battaglia di Lipany del 30 maggio 1434 e successiva pace di Kutna Hora che consenti
di mantenere la chiesa nazionale hussita e mise fine al dissidio con la Chiesa romana.
È in questo contesto che Lutero (italianizzazione del cognome tedesco di grafia varia: Ludher, Lüder,Luther), che
aveva anche ricevuto una copia del “De ecclesia” di Hus, poté contare per la diffusione della nuova dottrina.
Diverso dunque il terreno di cultura e di diffusione del protestantesimo, individuabile nella tradizione umanistica
e più diffusamente nel “Deutschtum” tradizione popolare-nazionale tedesca e progressivamente anti-romana su
cui si sarebbe inserita e avrebbe avuto effetto detonante la parabola biografica e la riflessione dottrinale di Lutero.
La condanna del passato ci accompagnava all’attesa di un “novus ordo” religioso e politico di palingenesi e di
riforma, cui concorrevano pronostici e oracolo, congiunzioni astrali e predicazioni apocalittiche,
contraddittoriamente assunte nella cultura umanistica come segni rivelatori d’un futuro che si annunciava
dirompente rispetto al passato e alle sue forme tradizionali di vissuto politico e religioso. Questa condanna
umanistica del passato, in campo religioso, non era di per sé una condanna della Chiesa romana quanto dle suo
più recente patrimonio culturale e giuridico da cui la Chiesa non voleva svincolarsi nel timore di perdere la
struttura portante della sua stessa esistenza storica prima ancora che della sua legittimazione all’azione politica.
La polemica anti-curiale e anti-monastica fu uno dei tòpoi della corrosiva koinè umanistica destinato a più facile
diffusione popolare. Una delle armi utilizzate per mettere in discussione l'autorità religioso-politica della Chiesa
romana era la filologia, che permise di destrutturare alcuni punti cardini presenti nella Bibbia che favorivano il
potere della Santa Sede: di capitale importanza si rivelò la critica filologica della presunta Donazione di
Costantino, articolata in un libro, di Lorenzo Valla (1407-1457), con cui fece crollare la base giuridica e il potere
politico-temporale dello stato della Chiesa (venne dimostrato che il testo risaliva all'alto medioevo, VIII-IX secolo
d.C., e non al periodo di regno dell'Imperatore romano Costantino, IV secolo d.C., presunto autore della
donazione). Lorenzo Valla ha simbolicamente posto nella pro-genitura culturale e metodologica della Riforma
protestante.

Martin Lutero nacque a Eislen in Turingia il 10 novembre 1483, da una famiglia di discreta condizione sociale;
il giovane non conserva un ricordo sereno della sua infanzia , caratterizzata da un forte rigore morale, il quale poi
avrebbe condizionato il suo atteggiamento psicologico e, conseguentemente, l'elaborazione dottr inale della
Riforma. Nel 1497, dopo gli studi elementari a Mansfeld, proseguì la sua formazione a Magdeburgo presso la locale scuola
dei “Fratelli della vita comune”; l'anno seguente fu ad Eisenach in Turingia dove rimase fino al completamento degli studi
inferiori,per passare dal 1501 all'Università di Erfurt. Nel 1505 vi conseguì il titolo di magister artium potendosi quindi
iscrivere alla Facoltà di Giurisprudenza. Tuttavia i suoi studi giuridici furono ben presto frenati da un evento che
cambiò radicalmente la vita del giovane Lutero: egli si salvò a una tempesta di fulmini scatenatasi in piena estate,
al contrario di un suo amico che era con lui (rimase fulminato). Così nel luglio dello stesso anno entrò nel convento
agostiniano di Erfurt e fu avviato allo studio della teologia, completato poi ne 1508 a Wittenberg, dove divenne
docente.
Le vicende della tradizione culturale nelle Università tedesche costituiscono una tappa fondamentale per l’analisi
dello sviluppo del pensiero luterano. Fino alla metà del XIV secolo era la Scholastica aristotelica il movimento
culturale-religioso diffuso nelle università europee; dalla metà del XIV secolo e per tutto il secolo seguente, la
corrente nuova, la via moderata, il “nominalismo” interno alla scolastica, venne affiancando la precedente
tradizione culturale detta realismo che astraeva dalla concretezza d’un qualsiasi dato empirico il suo concetto
universale che diventava così il reale oggetto di speculazione; il nominalismo invece non è autonomo ma dipende
dal pensiero del soggetto, che dà al concetto un nome; per cui la conoscenza è universalmente soggettiva, e porta
ad aumentare i contrasti interpretativi tra un soggetto e un altro, in quanto il significato di quel concetto è
soggettivo; per cui i nominalisti credevano fosse necessario l'abolizione degli universali filosofici, affinché
possano essere attenuati codesti contrasti) con il loro portavoce Guglielmo d'Occam (disputa sugli universali). Fra
gli altri teorici nominalisti spiccava Gabriel Biel, al quale si deve l'apertura di alcune Università tedesche a questa
via moderna, fra cui Erfurt. Grazie a Biel si diffuse una tendenza semi-pelagiana che avrebbe portato Lutero a una
posizione diametralmente opposta alla tradizione agostiniana; lo scontro dottrinale tra Agostino e Pelagio risale
al V secolo d.C.:
● Tradizione agostiniana: la salvezza dal peccato dell'umanità deve venire dall’esterno,
dipende dal volere di Dio: la grazie viene concessa da Dio ai predestinati, uomini che non hanno
possibilità di salvarsi da soli;
● Tradizione pelagiana: l'umanità dispone di risorse autonome, le quali gli consentirebbero di
salvarsi e Dio deve soltanto “premiare” i meriti individuali.

Il Concilio di Cartagine (418 d.C.) e il II Concilio di Orange (529 d.C.) condannarono le tesi Pelangiane e
ridimensionarono le l’originario radicalismo id quelle predestinazionistiche di Agostino.

2 Gli inizi della Riforma

Quando nel 1513 viene eletto pontefice Leone X (1513-21) vi fu un intensificazione della pratica indulgenziale
nei vari paesi europei, sopratutto poiché vi era bisogno di nuovi fondi per ristrutturare la basil ica di San Pietro,
già avviata dal precedente papa Giulio II nel 1507. Tuttavia a volte sorgevano delle difficoltà nella contrattazione
economica fra la Santa Sede e le autorità politiche dei paesi cattolici, in quanto quest’ultimi non sempre erano
disposti ad accettare le ingerenze papali nella politica interna. Uno dei primi problemi sorse in a Juteborg, nel
Brandeburgo, dove un sotto-commissario pontificio domenicano preposto alla predica dell'indulgenza, Giovanni
Tetzel, svolse il suo ufficio in una regione in cui non era consentita l'esazione indulgenziale (era invece consentita
nelle provincie ecclesiastiche di Magonza e Magdeburgo, e nel Marchesato del Brandeburgo). Ciò portò alla
scintilla incendiaria della Riforma protestante, infatti Lutero si scagliò contro questa pratica (che si esplicava
nell'acquisto dell'indulgenza all’interno delle regioni in cui era permessa l'esazione indulgenziale; ciò avveniva
attraverso un'offerta pecuniaria e la ricezione di una lettera d'indulgenza, che avrebbe esteso la pratica
indulgenziale anche al di fuori dei territori dove essa era permessa) che vedeva molti cittadini di Wittemberg
(Sassonia), spostarsi dalla Sassonia (dove non era consentita l'indulgenza) a Juteborg, per poi tornare muniti di
lettera d'indulgenza che eliminava ogni loro peccato. La tradizione che vuole Lutero affiggere le 95 tesi è
successiva alla sua morte (18 febbraio 1546) e risale alla Prefazione scritta in quell'anno da Melantone al secondo
volume delle Opere di Lutero; ma dell'affissione non si parla nelle cronache e storie della Riforma precedenti,
scritte dagli stessi protestanti (come nella Storia della Riforma del 1541 di Federico Mekum, detto Myconius). Né
lo stesso Lutero in tutte le sue opere e lettere ne fece mai cenno (e per di più risulta che subito dopo il 31 ottobre
1517 aveva lasciato Wittenberg per Kemberg). Il 31 ottobre del 1517 egli scrisse e inviò una lettera (con allegate
le 95 tesi luterane) all'arcivescovo di Magonza, Alberto di Hoenzollern, per notificargli la funzione del Tetzel e
nei giorni seguenti stessa sorte toccò all'arcivescovo del Brandeburgo, interpellato riguardo la possibilità di
pubblicare le 95 tesi luterane. Entrambi diedero parere negativo alla loro pubblicazione; tuttavia l e 95 tesi vennero
diffuse nei giorni seguenti, nelle università tedesche, a insaputa di Lutero stesso. In queste tesi erano presenti
attacchi alla pratica indulgenziale e all'autorità ecclesiastica in generale, fra di essi i più importanti:
● veniva contrapposta la carità sociale all'esazione indulgenziale;
● l'autorità papale era considerata alla stessa stregua di un vescovo o di un sacerdote;
● erano i vescovi a essere ritenuti responsabili della diffusione delle indulgenze;
● le risposte che avrebbe dovuto dare la chiesa a queste tesi dovevano basarsi su opinioni ragionate
e non su risposte date in base al principio d'autorità medievale.

La formazione dottrinale di Lutero, non avendo egli stesso scritto un trattato di teologia sistematica, inizia il suo
sviluppo attraverso il commento all'Epistola di S. Paolo ai Romani per poi proseguire attraverso prediche,
commenti al neo-testamento e preghiere di grande diffusione sociale. L’opera di sistematizzazione e raccolta dei
suoi scritti avvenne grazie a Filippo Melantone (1497-1560), che operò anche una eliminazione di posizioni
dottrinali più estreme affioranti dalla speculazione luterana e bollate da Melantone come “deliria
maniche”Manicheismo (setta maniche di cui lo stesso agostino aveva fatto parte prima della sua conversione):
presenza di un entità bipolare all'interno di Dio stesso, una derivante dal bene, l'altra derivante dal peccato, dal
male; l'assunzione del peccato in Cristo porterebbero Lutero a non riconoscere l'unità delle due nature in Crist o
ma a parlarne come un compositus; per cui Lutero venne accusato anche di Anti-trinitarismo. Tuttavia malgrado
la sopravvivenza di quelle suggestioni gnostiche, la posizione dottrinale luterana si attesta su capisaldi paolini e
agostiniani, elencati sinteticamente di seguito:
❖ Considerazione del genere umano come un “recipiente di dannazione”, in quanto è
corrotto dal peccato originale: per cui gli uomini non possono redimersi da soli e non
possono cooperare insieme per la salvezza;
❖ Morte di Cristo come salvezza per l'umanità: gli uomini trovano la giustificazione alla
liberazione dal peccato non nelle loro opere, ma nella sola fede (giustificazione ex sola fide);
❖ Grazia di Dio concessa solo ai “predestinati” e non a tutti gli uomini;
❖ Libero arbitrio sempre corrotto corrotto dal peccato originale;
❖ Chiesa come comunità dei fedeli, non vi sono più gerarchie e istituzioni ecclesiastiche e con ciò
viene meno l'autorità papale;
❖ Negazione dell'interpretazione autentica della Sacra Scrittura a favore di
un’interpretazione individuale e libera (libero esame) da parte del singolo fedele;
❖ Riduzione dei sacramenti da 7 a 2: battesimo e comunione consustanziale (contrapposta alla
transunstanzanzione). La presenza di Cristo nelle specie eucaristiche non comporterebbe la loro
trasformazione reale ma le lascerebbe nella forma originaria di pane e vino.

La sistematizzazione di questo impianto teorico portò la Santa Sede ad autorizzare le prime indagini formali,
condotte dal vescovo Ghinucci e dal teologo personale del Papa Prieras. La possibilità di iniziare un vero e
regolare processo venne posticipata da alcuni tentativi di mediazione: il primo ad opera del principe elettore di
Sassonia Federico il saggio, amico sia di Lutero che degli ambienti cattolici; il secondo ad opera del cameriere
pontificio Carlo Von Millitz, entrambi falliti. Nel frattempo Lutero andava aumentando i suoi proseliti e gli furono
rivolte nuove accuse di Hussitismo (in quanto i cattolici credevano che la sua fosse una delle tante correnti interne
alla dottrina eretica di Hus). Il processo si svolse tra la fine del 1519 e il gennaio 1520 e portò alla pubblicazione,
da parte del Papa Leone X della bolla Exurge domine, in cui veniva condannate quasi la metà delle tesi di Lutero,
ma venivano dati 60 giorni di tempo al teologo per ritrattare. La bolla e il suo testo divennero materia dell'opinione
pubblica in Germania, soprattutto nelle Università, dove maggiormente si poteva constatare il favore di cui godeva
Lutero. Approfittando di questo momento, Lutero produsse e pubblicò 3 opere, fra l'agosto e il novembre 1520:

1. Alla nobiltà cristiana di Nazione tedesca (riassunto delle principali posizioni dottrinali
della Riforma);
2. La cattività babilonese della Chiesa (esposizione di una nuova dottrina dei sacramenti);
3. La libertà del Cristiano (esposizione della giustificazione ex sola fide).

Il 3 gennaio 1521 Lutero veniva scomunicato grazie alla nuova bolla papale (Decet Romanum
Pontificem) e venivano interdette (sospensione delle liturgie e dei sacramenti) le città che accoglievano
Lutero. Tuttavia l'opera propagandistica di von Hutten continuava e ormai quasi l'intera Germania stava
abbracciando gli ideali della riforma.

3 La stabilizzazione politica del luteranesimo

La “dieta imperiale” di Worms, convocata nel gennaio 1521 dall’imperatore Carlo V non aveva all'ordine del
giorno il “caso” Lutero, bensì contributi finanziari a Carlo V, governo e tribunale camerale dell’Impero, problemi
di politica estera ecc. ma la tensione sociale provocata da Lutero fece sì che l’imperatore in persona se ne dovesse
occupare. La diplomazia pontificia alla dieta voleva far eseguire la scomunica del teologo tedesco, tuttavia si
accorse delle rilevanti difficoltà politiche che ostacolavano una tale richiesta; prevalevano considerazioni più di
politica che religiosa (sia per la costituzione imperiale giurata da Carlo V sia per il fatto che la sua cancelleria
guidata da Mercurino da Gattinara non era disposta a spingere a fondo per la condanna di Lutero); perciò per
non destabilizzare ulteriormente la struttura sociale tedesca, si volle attuare una politica di tolleranza, come quella
propugnata da Erasmo da Rotterdam (1466-1536), umanista , della cui corrente si fece portavoce. Il suo appello
alla riforma della Chiesa non aveva i toni aspri di contrapposizioni come in Savonarola o come in Lutero,
attraverso la clericalizzazione del laicato e la diffusione della Sacra scrittura, la riforma avrebbe avuto carattere
pacifico; inoltre Erasmo esaltava la spiritualità individuale e gli insegnamenti morali rispetto alla formalizzazione
delle istituzioni e delle gerarchie ecclesiastiche. Nella sua opera, “Encomium moriae” cioè “Elogio alla pazzia”,
egli definisce la “pazzia”, come la vita individuale che si sottrae al formalismo dogmatico della scolastica e le sue
bigotte manifestazioni.
La differenza tra Lutero ed Erasmo è che Lutero era fuori la Chiesa cattolica tant’è che egli era stato condannato
per le sue idee religiose. Nonostante alcune critiche dell'impianto dottrinale della Chiesa Romana (formalismo
religioso, istituzioni gerarchiche e autorità polarizzata nella figura del Papa e dei Vescovi), Erasmo presumeva la
sua diffusione in tutto il globo, insieme alla connessa lingua latina. Egli quindi non voleva provocare fratture
religiose e scismatiche (al contrario di Lutero) e il suo programma dottrinale era ampiamente accettato sia dalla
cancelleria pontificia che da quella imperiale di Carlo V. Da qui l’opposizione di Mercurino allo spedito procedere
anti-luterano richiesto nella prima fase dei lavori della dieta di Worms e a cui l’imperatore sembrava sensibile.
Nel viaggio verso Worms, Lutero, constatò il favore di cui godeva tra la gente ma ciò cambiò all’arrivo a Worms
poiché durante l’udienza preliminare gli fu chiesto se riconosceva come suoi i libri che gli erano stati mostrati e
se era disposto a ritrattare le sue dottrine e i suoi principi religiosi; egli prese tempo ma il giorno seguente (18
aprile 1521) rifiutò pubblicamente di ritrattare, salvo che con l’autorità della Sacra Scrittura non gli fossero
dimostrati gli errori dottrinali imputatigli. L’imperatore rifiutò di convocare ulteriormente Lutero, ma acconsentì
che privatamente si cercasse una elaborazione del caso; comunque il 26 aprile Lutero lasciò Worms. Nel maggio
del 1521 venne elaborato il testo di condanna del teologo, il così detto “Editto di Worms”, a cui seguì il rogo
delle opere luterane; Lutero riuscì a sfuggire all'arresto grazie all'intervento del principe elettore Federic o di
Sassonia, che lo condusse al sicuro nel castello della Wartburg, in Turingia, dove rimase fino al marzo del 1522.
Al riparo dalle persecuzioni della Santa Sede, Lutero compose un’esegesi del Magnificat, raccolse le prediche
domenicali, scrisse sui voti monastici e la messa privata e sopratutto poté tradurre per la prima volta l'intera Bibbia
in una lingua volgare, il tedesco. Un’opera che non solo fondò la lingua tedesca moderna ma che influì
profondamente sulla vita religiosa e culturale della Germania evangelica. Durante questi 10 mesi di soggiorno
presso il castello della Wartburg, Lutero affidò a dei suoi collaboratori il compito di continuare la diffusione della
Riforma al suo posto, fra questi vi erano Filippo Melantone e Carlostadio,il quale a Wittenberg celebrò la “messa
tedesca” di natale del 1521 in abiti secolari distribuendo la comunione sub utraque specie.

Proprio a Wittenberg Lutero tornò nel marzo del 1522 e il suo atteggiamento risultò cambiato; infatti i mesi passati
a Wartburg furono fonte di crisi spirituale, la quale gli fece fare marcia indietro su alcuni novità dottrinali
introdotte. Lutero fu definito nuovo papista da Carlostadio il quale avviò una polemica per la quale fu costretto a
lasciare Wittenberg e a ritirarsi a Orlamünde. Peraltro, la diffusione del luteranesimo era anche sottoposta a
profonde strumentalizzazioni che fuorviavano dal contesto religioso e che favorirono la detonazione di alcune
rivolte locali come nel caso della così detta “guerra dei cavalieri” e della “guerra dei contadini”.

Nella prima accanto a Ulrich von Hutten a rappresentare il ceto dei cavalieri e le loro ambizioni sociali vi era
Franz von Sickingen che ne ha poi capeggiato le bande. I cavalieri costituivano ormai un ceto sociale in declino,
ancorato agli antichi privilegi caratteristici del feudalesimo, i cui poteri venivano ormai limitati dalla progressiva
statalizzazione del contesto sociale. Ultimo tentativo di ribalta per questo ceto fu “l'alleanza fraterna” stretta tra
i cavalieri della Renania e della Francia nel 1522. Il comandante della rivolta Franz diede inizio all'attacco (il
quale avrebbe dovuto provocare l'insurrezione dal basso nei confronti della clero locale) dell'arcivescovato di
Treviri; ma nel girio di pochi mesi l'attacco venne stroncato e Sickingen morì nel 1523 nel suo castello. Alla fine
dell'estate del 1523 il problema sociale della rivolta dei cavalieri era ormai inesistente.

Nella seconda la sollevazione non fu principalmente causata da miseria e dalla disperazione contadina, sebbene i
contadini erano da sempre vessati e indeboliti dalla miseria e dalla precarietà economica, per cui bisogna
analizzare il perché questa rivolta scoppiò proprio negli anni 1524-25. Come successo per i cavalieri, il declino
del sistema giuridico-economico feudale aveva indebolito fortemente le antiche libertà di cui i contadini godevano
(libertà di caccia, di pesca, uso dei boschi ecc; libertà garantite dalla presenza del diritto comune, soppiantato
nell'Impero tedesco dall'introduzione del diritto romano che le aboliva) a favore dell'accentramento burocratico -
statale. Essa quindi fu soprattutto una rivolta socio-politica, poiché la lotta religiosa di Lutero e dei suoi compagni
contro le istituzioni ecclesiastiche si era trasformata in una lotta politica contro le istituzioni imperiali. Capo
morale della rivolta fu Thomas Muntzer che esercitava l'azione pastorale nella città mineraria di Zwickau dove
venne in contatto con la setta profetico-millenaristica del luteranesimo, che profetizzava la venuta del “regno dei
giusti”, ovvero coloro che sarebbero stati Illuminati dallo Spirito santo e che erano rappresentati dai ceti sociali
più tartassati. Questi contenuti Thomas li espresse nel suo “Manifesto di Praga”. I primi violenti moti contadini
scoppiarono a Sthulingen, nel sud della Germania odierna, per poi propagarsi in Renania, Franconia e Turingia;
in particolare in Franconia il movimento contadino assunse carattere militare, in quanto vennero arruolati cavalieri
e soldati feudali, mentre in Svevia era più moderato e diplomatico (vennero stilati I dodici articoli in cui
chiedevano in sostanza la rivendicazione di alcune scelte sociali-religiose, il ripristino dei propri diritti aboliti, la
diminuzione dei carichi fiscali ecc.). Mentre Muntzer continuava la sua predicazione che avrebbe favorito la
nascita di nuovi focolai di rivolta, Lutero si rivolgeva (con la sua Esortazione alla pace) ai principi e ai signori
locali tedeschi imponendogli di comprendere le ragioni dei rivoltosi, in quanto erano loro stessi la causa del male.
Munzter prese il controllo della città di Muhlausen (1525), centro di propulsione della rivolta in Turingia dove il
malcontento e le rivendicazioni dilagavano. Le autorità politiche si risvegliarono dal loro torpore e nel maggio
1525, il langravio Filippo d'Assia, insieme a Federico di Sassonia, assediarono e conquistarono Muhlausen,
facendo strage di 5000 cittadini (tra cui lo stesso Munzter); entro la fine dell'estate la rivolta venne soffocata in
tutte le regioni tedesche in cui si era diffusa. Da Roma, il Papa Clemente VII si congratulava per la repressione
della rivolta, da lui considerata luterana.

Lutero se ne era dovuto occupare già prima che la contingenza drammatica di questa sollevazione contadina lo
spingesse a rivendicare il servizio divino dell'autorità politica. Lutero elaborò la teoria cosiddetta dei “due regni”,
delle due distinte sfere d'autorità attraverso cui Dio governa l'umanità: spiritualmente per mezzo della “parola”, e
secolarmente mediante “l'autorità politica”. Questa autorità politica (che non ha potere d'intervento in campo
dottrinale) è prevista nell'ordine provvidenziale divino contro la disgregazione sociale che è la conseguenza
secolare del peccato originale senza il quale non vi sarebbe stata necessità di autorità politica,e di cui teoricamente
i «veri cristiani» potrebbero fare a meno. Dunque l'autorità politica, concretamente i re, i principi, ogni magistrato
di qualsiasi ordine e grado, espletano una funzione divina. Tanto era espressamente previsto in S. Paolo (che era
la base dottrinalmente portante della teologia di Lutero) nella Lettera ai Romani. Ma proprio questa base dottrinale
paolina comportava l'attribuzione della funzione divina ad autorità politiche anche non cristiane! Ora non solo S.
Paolo in quello stesso capitolo della Lettera ai Romani, ma anche il Vangelo di Matteo riportando espressamente
le parole del Cristo, supportavano la posizione luterana nel negare al popolo cristiano il diritto di resistenza alle
autorità politiche, allo Stato anche non cristiano o tirannico.
Capitolo 5 - Diffusione e sviluppi della Riforma

1 L’area baltica e tedesca

Il Luteranesimo, dopo essersi espanso a macchia d'olio in tutti territori centro-occidentali dell'Europa, arrivò a
lambire anche l'area baltica e scandinava. Una prima spinta determinante verso nord-est si ebbe grazie all'opera
di Alberto di Brandeburgo, gran maestro dell'Ordine teutonico, che venne conquistato dalla propaganda
dottrinale dell'Osiander. Per sottrarsi dal vincolo feudale-religioso e dai contrasti che interessavano appunto
l'ordine Teutonico e rispettivamente la Polonia (vedi cap1, par1) e la Chiesa Romana, il gran maestro decise di
secolarizzare l'ordine e di farne un nuovo dominio, il Granducato di Brandeburgo (1525). Da lì si diffuse la
nuova religione, arrivando a interessare l'intera Prussia, favorita dalla borghesia cittadina, ma osteggiata dalla
aristocrazia e dalla monarchia polacca. Nell'area scandinava furono soprattutto motivi politico-nazionali a
contribuire alla diffusione della nuova confessione: l'unione di Kalmar (che riuniva danesi, svedesi e norvegesi
sotto un’unica corona, nata per formare un forte stato scandinavo) si era infatti disgregata nel 1523, in seguito
alle lotte innescate dagli svedesi nel XV secolo per riottenere la sovranità del loro stato: il re danese Cristiano II
(1512-23) cercò di riequilibrare la situazione a suo favore, ma dopo aver sconfitto il reggente svedese Sten il
Giovane (il c.d. Massacro di Stoccolma del 1520), dovette assistere alla sollevazione della stessa e all'elezione al
trono svedese di Gustavo I Vasa (1523-60), che poneva fine all'unione. In Danimarca venne eletto re di
Danimarca e Norvegia Federico I (1523-33), che mise in fuga il perdente Cristiano II.

Svezia: Il nuovo sovrano cercò di rafforzare l'assolutismo regio con alcune riforme, in grado di indebolire
l'opposizione aristocratica e di mettere a tacere le rivolte dei ceti popolari sottoposti a un duro fiscalismo:
1. riforma dell'amministrazione;
2. introduzione del servizio militare obbligatorio;
3. impossibilità di riunione del parlamento svedese, il Riskdag;
4. trasformazione della monarchia da elettiva ad ereditaria (1540).

Inoltre il bisogno di risollevare le finanze dello stato portò il sovrano ad aderire e a diffondere il Luteranesimo,
in quanto si sarebbe potuto incamerare le proprietà ecclesiastiche.

Danimarca: Non appena eletto, Federico I definì istituzionalmente la questione religiosa, appoggiando la fede
luterana con la dieta di Odense del 1526, per cui i vescovi danesi sarebbe stati consacrati dall'arcivescovo di
Lund, e non dal Papa (scelta che portò a delle dispute teologiche nella città di Copenaghen).

Germania meridionale: La diffusione della nuova credenza in queste regioni comportò una sua rimodulazione
e modifica che ne frastagliò il profilo teologico. Casi di diffusione emblematici in questi termini rappresentano
le città tedesche di Norimberga, Augusta e Strasburgo, in cui l'emanazione del nuovo dogma avvenne
contemporaneamente nei primi anni 20, ma se ne diversificarono gli esiti, in base ai preesistenti filoni politico-
culturali che concernevano le 3 città.
Norimberga: l'azione diffonditrice dell'Osiander venne facilitata dall'adesione al luteranesimo da parte dei
componenti del consiglio cittadino e da un clima politico-culturale radicale, favorito dalla presenza di correnti
mistico-settarie; e lo stesso Osiander iniziò a deviare dall'ortodossia luterana con la dottrina dell'inhabitatio
Christi: nell'anima di ogni fedele vi era la presenza santificante di Cristo.
Augusta: essa poteva essere considerata un crogiolo dottrinale: erano presenti la fede cattolica (la città era
interna alla regione della cattolica Baviera dei duchi di Wittelsbach); l'ortodossia luterana propagandata da
Urbano Reghio; la derivante dottrinale zwingliana e soprattutto anabattista (diramata dall'opera di Hans Deck ).
Strasburgo: caso peculiare, in quanto il passaggio di consegne fra Cattolicesimo e Luteranesimo avvenne senza
particolari tumulti o violenze, e questo grazie a vari fattori:
1. la presenza di una tolleranza religiosa di influenza erasmiana,
2. la presenza di tensioni mistiche collettive e di una forte religiosità popolare controllata da autorità
laiche piuttosto che da autorità cattoliche.

L'opera di indottrinamento luterano venne iniziata da un canonico, Zell, e intensificata da 2 teologi giunti in città
nel 1523, Capitone e Bucero, il primo spiritualista e il secondo anabattista (non aderiva alla tesi eucaristica
luterana della consustanzazione: nel sacramento eucaristico il pane e il vino al tempo stesso mantengono la loro
natura fisica e divengono anche sostanza del corpo e del sangue di Cristo. Differisce dalla transustanziazione
poiché quest'ultima afferma invece la reale conversione di tutta la sostanza del pane nella sostanza del corpo di
Cristo, e di tutta la sostanza del vino nella sostanza del suo sangue). Quest'ultima corrente poté propagarsi negli
ambienti cittadini, in quanto non vennero messe in atto misure repressive.

2 Il contrasto dottrinale svizzero-tedesco e l’anabattismo

Anche la Svizzera con i suoi cantoni e le sue città era permeata da deviazioni dottrinali dall'ortodossia cattolica.
A Basilea, di fede cattolica la presenza di Erasmo da Rotterdam e la sua grande influenza sul consiglio cittadino
e sui circoli intellettuali consentì di frenare il dilagare violento di polemiche religiose; tuttavia l'arrivo in città
del predicatore Ecolampadio, vicino alle posizioni radicale del Luteranesimo, costituite dalla corrente dello
Zwinglismo, portò anche i primi disordini nella città→ nel 1529 moti di piazza borghesi abbatterono il blocco
conservatore-cattolico rappresentato dal consiglio cittadino e la riorganizzazione della vita religiosa venne
affidata proprio a Ecolampadio, con l'appoggio di Erasmo e dei suoi principi moderati. Zurigo invece fu teatro
dell'azione riformatrice di Ulrico Zwingli (1484-1531), di tradizione borghese e umanistica, la quale lo discostò
in parte dai principi dottrinali ricavati da Lutero. Zwingli ricoprì la carica di predicatore del consiglio
municipale e la sua opera influente portò alla promozione di una prima pubblica disputa nel gennaio del 1523
con le autorità cattoliche: fra le 67 tesi da lui proposte, non figuravano ancora dogmi in particolare contrasto con
la religione cattolica romana (ad esempio, l'abolizione della messa non era ancora contemplata), per cui il suo
rapporto con la Chiesa rimase intatto; una seconda disputa marcò più profondamente la distanza fra le correnti
religiose, ma non tanto da sbottare in aperto contrasto fra di esse la riforma religiosa prede piede per gradi:
1. vennero soppressi i pellegrinaggi e le processioni,
2. soppresse le reliquie nelle chiese,
3. nel gennaio 1525 vennero chiusi e convinti e successivamente abolita la messa secondo la tradizione
liturgica romana.

L'opera riformatrice zwingliana iniziò a distanziarsi anche dal Luteranesimo (con cui condivideva ormai soltanto
l'idea della corruzione del genere umano dal peccato originale, la giustificazione ex sola fide e il numero
stabilito dei sacramenti) e in particolare sul tema dell'eucarestia e del battesimo:
1. Eucarestia: per Lutero, nelle specie eucaristiche (pane e vino) vi è la presenza reale di Cristo, in
consustanzazione; per Zwingli le specie eucaristiche rimangono tali senza nessuna presenza di cristo,
hanno la sola funzione di commemorare il ricordo della passione di Cristo;
2. Battesimo: il battesimo, accettato da entrambe le correnti, per Lutero trasmette la fede nell'infante, che
ne è cosciente; per Zwingli non è altro che un giuramento di appartenenza ad una comunità.

Proprio sul tema del battesimo, si innesta la nascita di una corrente dottrinale alternativa, sulla stessa linea
radicale (se non di più) dello Zwinglianesimo, da cui si distacca: l' Anabattismo (tra i componenti di questo
gruppo si distinsero Grebel, Manz e Stumpf) . I punti fondamentali di questa linea dottrinale:
• assenza di Cristo nell'Eucarestia (- Zwinglianesimo);
• Bibbia come unica fonte di rivelazione (- Zwinglianesimo);
• celebrazione austera della messa, senza paramenti e non in templi o in chiese;
• negazione del Battesimo (da cui deriva proprio il termine Anabattismo), in quanto non era previsto
nella Bibbia neo-testamentaria;
• Comunione dei beni (comunismo di consumo) fra tutti gli associati della comunità;
• rifiuto della guerra e sacralizzazione della non-violenza (pacifismo);
• negazione di qualunque autorità religiosa e politica, in quanto la Chiesa era un entità separata dal
mondo.

Venne quindi proposta una pubblica disputa fra i Zwingliani e gli Anabattisti, la quale venne in pochi giorni
liquidata proprio da Zwingli e dalle autorità politiche zurighesi, considerandola socialmente pericolosa. Questa
decisione portò alla prima riunione ufficiale della comunità anabattista nella casa di Manz; paradossalmente, le
espulsioni dei primi predicatori anabattisti favorirono la sua diffusione, soprattutto nella Germania meridionale
(dove Hans Deck aveva già formato un'altra comunità anabattista), in Turingia, Moravia, Tirolo. La questione
anabattista quindi non riguardava più i cantoni svizzeri. Espulsioni ed esecuzioni vennero decretate in Italia
settentrionale, in Germania, e a Zurigo vennero arrestati Grebel e Manz, che poi riuscirono a fuggire di prigione
e che continuarono la loro attività di proselitismo. Era nata una quarta posizione religiosa, dopo quella
Cattolica,Luterana, e Zwingliana.

3 Tentativi di composizione religiosa e politica


La rottura dogmatica venutasi a creare tra Riforma tedesca e svizzera rischiava di mettere intimamente in
discussione l'infiltrazione della Riforma stessa nell'Europa sconvolta dallo scontro fra l'Impero di Carlo V e la
Francia di Francesco I. Era quindi necessario ricomporre la frattura religiosa, e tra le prime idee propugnate (da
Carlo V) per raggiungere l'obiettivo vi era la proclamazione di un concilio universale religioso (a Trento, città
imperiale). All'interno dell'Impero, si erano formati i primi agglomerati politici-religiosi interstatali:
1. cattolico, con la lega di Dessau (con i principi di Magonza, di Brandeburgo ecc.);
2. luterano, con la la Gotha-Thargau (con i principi d'Assia, di Sassonia, di Anhalt ecc.);
3. neutrali rimanevano i principi del Palatinato, di Baviera e di Treviri.

Nella Dieta di Spira (1526) convocata e presieduta dal fratello di Carlo V, Ferdinando d'Asburgo, le leghe
religiose e i principi tedeschi ampliarono il loro potere nei confronti del Papato e dell'Impero stesso: grazie
infatti alla deliberazione del recesso, i principi tedeschi, all'interno del proprio stato e in attesa della
convocazione del concilio universale, avrebbero avuto libertà formale d'azione religiosa (anticipazione del
principio cuius regio, eius religio affermata ad Augusta nel 1555). Tuttavia una seconda Dieta di Spira (1529)
convocata stavolta da Carlo V, ribaltò le decisioni precedenti: si condannò la deliberazione del recesso e il
ripristino dell'autorità religiosa; nell'aprile del 1529 i rappresentanti degli stati tedeschi e di molte contee e città
libere protestarono per la decisione e da allora in poi gli aderenti al luteranesimo iniziarono a essere chiamati
“Protestanti”. Essi si unirono in nucleo di opposizione militare protestante comandato dai principi della Sassonia
elettorale e dell'Assia; a sua volta, Ferdinando d'Asburgo e i cantoni svizzeri cattolici confluirono nella Unione
Cristiana, la quale destò i timori di Zwingli di una repressione della sua corrente: cercò quindi una precaria
ricomposizione religiosa fra le 2 confessioni, luterana e zwingliana. Questa ricomposizione venne
principalmente caldeggiata dal principe protestante Filippo d'Assia, che voleva costituire un vero e proprio
blocco politico-militare che si sarebbe esteso dai paesi scandinavi alla Francia, contrapposti all'impero di Carlo
V. L'incontro fra le 2 correnti venne organizzato a Marburgo nell'ottobre 1529, ma nonostante la mediazione di
Lutero e Zwingli, la volontà di ricompattazione non prevalse, in quanto motivo di contrasto profondo rimaneva
la questione della presenza o meno di Cristo nelle specie eucaristiche. Tornato in Germania dopo 9 anni, Carlo V
convocò una Dieta ad Augusta nell'aprile del 1530, sperando di poter porre fine ai contrasti politici-religiosi che
ormai dilaniavano il suo impero:
1. per parte cattolica era presente il cardinal-legato Lorenzo Campeggio, insieme al nunzio pontificio
della corte imperiale, Vincenzo Pimpinella; poiché il motivo più caro ai pontefici era continuare la
guerra contro i Turchi infedeli, l'unita religiosa dell'Impero costituiva la base politica necessaria alla
guerra anti-Islam;
2. per parte luterana, erano presenti il principe tedesco Giovanni di Sassonia e il braccio destro di Lutero
(il quale, dopo l'editto di Worms del 1521, era stato bandito dai territori tedeschi e non poté
partecipare), ossia Filippo Melantone, la cui posizione irenica (erasmiana) sembrò lasciare spazio alla
prospettiva d'una possibile ricomposizione dello strappo dottrinale con la Chiesa Romana piuttosto che
con gli Zwingliani (-Sacramentari).

Melantone redasse il testo protestante ufficiale: la Confessio Augustana, con cui si cercò di essere il più
possibile conforme ai dettami generali del Cattolicesimo: sui punti essenziali dello scontro con la Chiesa
Romana, predestinazione e giustificazione ex sola fide , erano stati utilizzati termini più moderati e blandi;
venivano condannati gli anabattisti e si insisteva sulla comunione sub utraque specie e sulla separazione della
vita civile da quelle religiosa. Tanto moderatismo risultò inviso a Lutero, che condannò ogni ipotesi di
compromesso con i papisti, i quali risposero con la loro Confessio Catholica, riaccendendo la polemica. Da
Roma intanto, il Papa Clemente VII accettava di convocare un Concilio Universale romano, ma fino ad allora,
imponeva ai protestanti di attenersi agli usi e alle dottrine della religione cattolica; grandi furono le polemiche
sollevate ad Augusta. Così mentre i 2 maggiori esponenti del protestantesimo politico religioso, Giovanni di
Sassonia e Filippo d'Assia, lasciavano Augusta in segno di protesta, Carlo V pose fine alla Dieta imponendo
l'obbligo ai protestanti di convertirsi al cattolicesimo, l'obbligo di osservanza e di culto dello stesso e l'obbligo di
restituzione dei beni ecclesiastici espropriati. La decisione scatenò le reazioni dei protestanti tedeschi, che si
riunirono, appianando e lasciando da parte ogni contrasto confessionale, nella lega anti-imperiale di Smalcalda,
nel febbraio del 1531, comandata da Giovanni di Sassonia e Filippo d'Assia. A questo appello all'unione contro
la potenza imperiale e cattolica non rispose Zwingli, per il quale permaneva ancora un pregiudizio dogmatico
che minava l'adesione alla lega; egli inoltre si stava concentrando sulla liquidazione dei cantoni cattolici alleatesi
nell'Unione Cristiana con Ferdinando d'Asburgo. La politica bellicosa del riformista svizzero venne però meno
con la sua morte, sopravvenuta a Kappel nell'ottobre 1531 proprio in un scontro militare tra zwingliani e
cattolici, che vedeva la vittoria di quest'ultimi e l'imposizione della pace cattolica nella Confederazione elvetica.

Nel luglio 1532 intanto, stretto tra 2 fuochi (a est nella guerra contro i Turchi e a in Germania con i protestanti
tedeschi), Carlo V patteggiò una tregua a Norimberga (1532) per cui, in cambio di finanziamenti e aiuti nella
guerra anti-turca, venivano ripristinate le decisioni della Dieta di Augusta, in attesa delle decisioni del prossimo
concilio. Grazie a questa vittoria diplomatica, la Lega di Smalcalda poté incrementare le adesioni all e proprie
file, rintuzzate dalle fughe di zwingliani dalla Svizzera ormai cattolica.

4 Sette radicali e istituzionalizzazione calvinista

La rottura dogmatica venutasi a creare tra Riforma tedesca e svizzera rischiava di mettere intimamente in
discussione l'infiltrazione della Riforma stessa nell'Europa sconvolta dallo scontro fra l'Impero di Carlo V e la
Francia di Francesco I. Era quindi necessario ricomporre la frattura religiosa, e tra le prime idee propugnate (da
Carlo V) per raggiungere l'obiettivo vi era la proclamazione di un concilio universale religioso (a Trento, città
imperiale). All'interno dell'Impero, si erano formati i primi agglomerati politici-religiosi interstatali:
4. cattolico, con la lega di Dessau (con i principi di Magonza, di Brandeburgo ecc.);
5. luterano, con la la Gotha-Thargau (con i principi d'Assia, di Sassonia, di Anhalt ecc.);
6. neutrali rimanevano i principi del Palatinato, di Baviera e di Treviri.

Nella Dieta di Spira (1526) convocata e presieduta dal fratello di Carlo V, Ferdinando d'Asburgo, le leghe
religiose e i principi tedeschi ampliarono il loro potere nei confronti del Papato e dell'Impero stesso: grazie
infatti alla deliberazione del recesso, i principi tedeschi, all'interno del proprio stato e in attesa della
convocazione del concilio universale, avrebbero avuto libertà formale d'azione religiosa (anticipazione del
principio cuius regio, eius religio affermata ad Augusta nel 1555). Tuttavia una seconda Dieta di Spira (1529)
convocata stavolta da Carlo V, ribaltò le decisioni precedenti: si condannò la deliberazione del recesso e il
ripristino dell'autorità religiosa; nell'aprile del 1529 i rappresentanti degli stati tedeschi e di molte contee e città
libere protestarono per la decisione e da allora in poi gli aderenti al luteranesimo iniziarono a essere chiamati
“Protestanti”. Essi si unirono in nucleo di opposizione militare protestante comandato dai principi della Sassonia
elettorale e dell'Assia; a sua volta, Ferdinando d'Asburgo e i cantoni svizzeri cattolici confluirono nella Unione
Cristiana, la quale destò i timori di Zwingli di una repressione della sua corrente: cercò quindi una precaria
ricomposizione religiosa fra le 2 confessioni, luterana e zwingliana. Questa ricomposizione venne
principalmente caldeggiata dal principe protestante Filippo d'Assia, che voleva costituire un vero e proprio
blocco politico-militare che si sarebbe esteso dai paesi scandinavi alla Francia, contrapposti all'impero di Carlo
V. L'incontro fra le 2 correnti venne organizzato a Marburgo nell'ottobre 1529, ma nonostante la mediazione di
Lutero e Zwingli, la volontà di ricompattazione non prevalse, in quanto motivo di contrasto profondo rimaneva
la questione della presenza o meno di Cristo nelle specie eucaristiche. Tornato in Germania dopo 9 anni, Carlo V
convocò una Dieta ad Augusta nell'aprile del 1530, sperando di poter porre fine ai contrasti politici-religiosi che
ormai dilaniavano il suo impero:
3. per parte cattolica era presente il cardinal-legato Lorenzo Campeggio, insieme al nunzio pontificio
della corte imperiale, Vincenzo Pimpinella; poiché il motivo più caro ai pontefici era continuare la
guerra contro i Turchi infedeli, l'unita religiosa dell'Impero costituiva la base politica necessaria alla
guerra anti-Islam;
4. per parte luterana, erano presenti il principe tedesco Giovanni di Sassonia e il braccio destro di Lutero
(il quale, dopo l'editto di Worms del 1521, era stato bandito dai territori tedeschi e non poté
partecipare), ossia Filippo Melantone, la cui posizione irenica (erasmiana) sembrò lasciare spazio alla
prospettiva d'una possibile ricomposizione dello strappo dottrinale con la Chiesa Romana piuttosto che
con gli Zwingliani (-Sacramentari).

Melantone redasse il testo protestante ufficiale: la Confessio Augustana, con cui si cercò di essere il più
possibile conforme ai dettami generali del Cattolicesimo: sui punti essenziali dello scontro con la Chiesa
Romana, predestinazione e giustificazione ex sola fide , erano stati utilizzati termini più moderati e blandi;
venivano condannati gli anabattisti e si insisteva sulla comunione sub utraque specie e sulla separazione della
vita civile da quelle religiosa. Tanto moderatismo risultò inviso a Lutero, che condannò ogni ipotesi di
compromesso con i papisti, i quali risposero con la loro Confessio Catholica, riaccendendo la polemica. Da
Roma intanto, il Papa Clemente VII accettava di convocare un Concilio Universale romano, ma fino ad allora,
imponeva ai protestanti di attenersi agli usi e alle dottrine della religione cattolica; grandi furono le polemiche
sollevate ad Augusta. Così mentre i 2 maggiori esponenti del protestantesimo politico religioso, Giovanni di
Sassonia e Filippo d'Assia, lasciavano Augusta in segno di protesta, Carlo V pose fine alla Dieta imponendo
l'obbligo ai protestanti di convertirsi al cattolicesimo, l'obbligo di osservanza e di culto dello stesso e l'obbligo di
restituzione dei beni ecclesiastici espropriati. La decisione scatenò le reazioni dei protestanti tedeschi, che si
riunirono, appianando e lasciando da parte ogni contrasto confessionale, nella lega anti-imperiale di Smalcalda,
nel febbraio del 1531, comandata da Giovanni di Sassonia e Filippo d'Assia. A questo appello all'unione contro
la potenza imperiale e cattolica non rispose Zwingli, per il quale permaneva ancora un pregiudizio dogmatico
che minava l'adesione alla lega; egli inoltre si stava concentrando sulla liquidazione dei cantoni cattolici alleatesi
nell'Unione Cristiana con Ferdinando d'Asburgo. La politica bellicosa del riformista svizzero venne però meno
con la sua morte, sopravvenuta a Kappel nell'ottobre 1531 proprio in un scontro militare tra zwingliani e
cattolici, che vedeva la vittoria di quest'ultimi e l'imposizione della pace cattolica nella Confederazione elvetica.

Nel luglio 1532 intanto, stretto tra 2 fuochi (a est nella guerra contro i Turchi e a in Germania con i protestanti
tedeschi), Carlo V patteggiò una tregua a Norimberga (1532) per cui, in cambio di finanziamenti e aiuti nella
guerra anti-turca, venivano ripristinate le decisioni della Dieta di Augusta, in attesa delle decisioni del prossimo
concilio. Grazie a questa vittoria diplomatica, la Lega di Smalcalda poté incrementare le adesioni alle proprie
file, rintuzzate dalle fughe di zwingliani dalla Svizzera ormai cattolica.

5 Lo scisma anglicano

Si parla di Scisma Anglicano e non di riforma in quanto alla base del contrasto fra Chiesa Inglese e Chiesa
Romana non vi era un fondamento dottrinale e/o teologico, bensì soltanto un rifiuto di riconoscere come
legittima l'autorità giuridica, politica e disciplinare della Chiesa Romana. Contingenze private quali la questione
del divorzio del re d'Inghilterra Enrico VIII con Caterina d'Aragona e religiose come la propagazione della
riforma protestante in tutta Europa hanno certamente influito ad influenzare il rapporto tra le 2 Chiese, contrasto
che però si protraeva già dal Medioevo (1164, costituzioni di Clarendon contro i privilegi del clero inglese;
statuti di Provvisores (1351) e di Praemunir (1353) contro il potere del clero inglese). Tuttavia, paradossalmente
il re era stato insignito del titolo di Defensor fidei da parte di Leone X (1521) in quanto era intervenuto (con
l'Assertio septem Sacramentorum) sulla diatriba sacramentaria innescata da Lutero con la riduzione dei
sacramenti da 7 a 2. Fra i ceti sociali favorevoli alla diffusione luterana vi era la borghesia cittadina, che era
sommamente interessata all'acquisizione dei beni e delle proprietà ecclesiastica: simbolo di essa e del clero
inglese era l'arcivescovo di York, cardinal-legato pontificio e cancelliere del re Thomas Wolsey (1473-1530). I
primi scontri sopravvennero, come dicevamo, per la questione del divorzio fra Enrico VIII e sua cognata
Caterina d'Aragona, che era rimasta vedova del fratello del re, Arturo.

Enrico si innamorò di Anna Bolena e, preoccupato di non avere avuto un erede maschio da Caterina, iniziò a
pensare a possibilità legali di far dichiarare nullo il matrimonio dalla Chiesa Cattolica; si cercò di interpretare a
suo favore un passo del Levitico, nell’Antico Testamento (XX, 21: Chi prende la moglie di suo fratello fa cosa
illecita, disonorando il proprio fratello; saranno senza figlioli).

La Chiesa di Roma si mosse con cautela per risolvere la questione, cercando di trovare delle misure moderate in
grado di non spazientire il re che sarebbe potuto giungere a drastiche rotture con la Chiesa (già lacerata dal
Sacco di Roma e dalle lotte confessionali); così fu inviato il cardinal-legato Lorenzo Campeggio (già presente
alla dieta di Augusta del 1530; par.3) per costituire il tribunale apposito a prendere la decisione sulla nullità del
matrimonio. Tale tribunale fu convocato per il maggio 1529. Intanto era stato convocato il parlamento (che si
sarebbe riunito fino al 1536), composto per la grande maggior parte (per quanto riguarda la Camera dei Comuni)
da quella Borghesia cittadina che aspirava ad acquisire le proprietà ecclesiastiche; vittima principale di questa
volontà fu, ovviamente, il cancelliere Wolsey che venne accusato di tradimento, spogliato di tutti i suoi beni, e
condannato a morte.

Al suo posto, Enrico nominò erasmiano Thomas More, il quale non si era mai dichiarato favorevole ad annullare
il suo matrimonio. Continuava così l'opera di smantellamento delle proprietà e dei privilegi fiscali della Chiesa
Cattolica: Thomas Cranmer, filo-luterano e filomonarchico, venne nominato arcivescovo di Canterbury. Nel
1532 Enrico VIII emanò l’Atto di sottomissione con cui la Chiesa Inglese fu privata della potestà legislativa in
campo religioso spirituale; fu ridotto il pagamento delle esazioni fiscali di annate a favore di Roma; e nel
gennaio 1533 Enrico VIII sposava segretamente Anna Bolena, mentre un accomodante tribunale ecclesiastico
presieduto dal Cranmer dichiarava nullo il matrimonio. Il Papa rispose disconoscendo e annullando il
matrimonio con la Bolena e scomunicando il Re. Ciò impresse una svolta drastica ai rapporti fra Re e Papato:
Enrico vietò il pagamento dell'Obolo di San Pietro, regolò la successione dinastica con l'Atto di successione
(rendeva illegittima la figlia avuta da Caterina, Maria, e rendeva legittima la figlia di Anna Bolena, Elisabetta,
futura regina) e infine, il 3 novembre 1534 promulgò l'Atto di Supremazia, con cui Enrico VIII diventava il capo
supremo della Chiesa d'Inghilterra nasceva così la Chiesa Anglicana. Per poter organizzare e incamerare
correttamente tutti i beni ecclesiastici sequestrati alla Chiesa Romana (azione legittimata dall'emanazione
dell'Atto di dissoluzione) si venne a costituire un apposito tribunale. Questa decisione non fu priva di
conseguenze: scoppiarono rivolte (1536) tra i ceti locali per la chiusura dei luoghi di culto cattolici, ma essere
vennero domate all'inizio del 1537.
Intanto Anna Bolena veniva fatta giustiziare dal re, accusata di non aver dato il tanto agognato erede maschio ad
Enrico. Alla fine del 1538 inoltre, con l'emanazione di un 2° Atto di dissoluzione si poneva fine alla millenaria
presenza del monachesimo cattolico e alla vita degli ordini religiosi in Inghilterra.

Capitolo 6 - L’Europa dei conflitti

1 L’Impero ottomano e gli Asburgo

L’Impero Ottomano, alla pari dell’Impero di Carlo V, era portatore di una pretesa universalistica sulla religione
islamica: quest’ultima costituiva un forte fattore di coesione sociale giacché permeava ogni ambito della società
turca, ponendosi non solo come un sistema di culto, ma anche come un complesso di norme che investivano tanto
l’esistenza spirituale quanto quella civile, giuridica e politica.

Una caratteristica in particolare differenziava l’Islam dal cristianesimo, e cioè il concetto di gihàd (“sforzo”). Con
esso si faceva riferimento al precetto della guerra santa prescritto da Maometto, consistente nel dovere di
diffondere con l’uso delle armi il credo musulmano, per il quale chi combatteva in nome di Allah era un martire
destinato al paradiso. Tuttavia, sebbene un precetto simile possa far pensare ad un atteggiamento poco tollerante
nei confronti di altri credo religiosi, al contrario della maggior parte dei cristiani, i musulmani rispettavano le
confessioni cristiane ed ebree, in quanto considerate religioni portatrici di una verità autentica, ormai, però,
superate dalla verità avvalorata dall'Islam.

È chiaro alla luce del precetto della guerra santa come il perseguimento di questo obiettivo accentuasse l'impegno
militare, favorisse il grande espansionismo militare musulmano e influenzasse l’intera struttura economico-sociale
e politica musulmana.

La struttura economica-sociale era incentrata sulla potenza militare, pertanto sull’esercito e sulla marina. Vigeva
un duplice sistema di reclutamento:

1. con il primo si reclutavano corpi di cavalleria (sipahi): in base alle loro prestazioni militari, a ciascun
cavaliere veniva assegnato un feudo vitalizio (Timar), e l'assegnazione dello stesso rappresentava un
incentivo a guerreggiare e ad espandere il territorio;

2. con il 2° metodo di reclutamento (devshirme) si diede vita al formidabile corpo dei giannizzeri: essi erano
schiavi e/o prigionieri di guerra provenienti da famiglie non turche (solitamente cristiane) che venivano
acquistati e indottrinati all'islamismo.

Questa solida struttura sociale-militare consentì la progressiva espansione militare ottomana fra tardo
Medioevo e l'inizio dell'era moderna. Un’espansione che si compì lungo tre direttrici principali: penisola
balcanica, Mar Nero e Mar Mediterraneo, e confini orientali dell'Impero:

· Balcani: tra la fine del XIV e l'inizio del XV secolo gli ottomani sottomisero progressivamente i territori
della Bulgaria (1393), della Serbia (1459), della Bosnia (1463) e dell'Albania (1468), venendo così a contatto
con gli avamposti orientali di Venezia e dell'Impero Asburgico;
· Mar Nero e Mar Mediterraneo: i turchi dovettero scontrarsi dapprima con i coloni Genovesi in Crimea
(conquistata nel 1475 dal sultano Maometto II (1451-81), il conquistatore di Costantinopoli → 1453) e poi
con la repubblica Veneta alla fine del XV secolo, quando grazie al nuovo Sultano Bajazed II (1481-1512)
ottennero il controllo del Mediterraneo orientale. Il mediterraneo occidentale era invece conteso con gli
spagnoli, costantemente attaccati dalle flotte corsare turche, il cui comandante (Khair-Addin, detto il
Barbarossa) dette molto filo da torcere, anche successivamente;

· Fronte orientale: su questo fronte gli ottomani dovettero scontrarsi con la Persia della dinastia dei
Safavidi. In tale contesto venne sviluppandosi un contrasto fra le 2 correnti dell'islamismo: il Sunnismo e lo
Sciismo.

Il sunnismo era la corrente maggioritaria all'interno dell'Islam, e basava il suo fondamento sulla sunna, ossia la
raccolta, aggiunta al Corano, dei detti e degli atti attribuiti a Maometto e costituiva la condotta del profeta
tramandata ai fedeli e modello di comportamento per questi ultimi.

Lo sciismo rigettava la sunna e aveva elaborato una particolare venerazione per l'antica dinastia del quarto califfo,
Alì Talib, considerata l'unica legittima erede della funzione di intermediazione religiosa tra Dio (Allah) e
individuo. Contrariamente ai sunniti, gli sciiti consideravano gli Imam (capi dell’Islam) come figure dotate di
autorità politica ed ANCHE religiosa, ispirate da un particolare rapporto di grazia con Dio.

Gli Ottomani guidati da Selim I (1512-20) nella conquista della Persia, si dichiararono paladini dell'ortodossia
sunnita, contro l'eresia sciita dei Persiani. I Safavidi comunque resistettero e i turchi, conseguentemente, si
concentrarono sull'estirpazione dell'eresia sciita in Siria, Palestina ed Egitto, sottomesse infine nel 1517.

La centralità della religione e della guerra di conquista, tuttavia, si rivelò un ostacolo alla crescita civile ed
economica dell’Impero: la classe sociale predominante era infatti costituita dal ceto dirigente degli altri funzionari
dell'esercito e della religione, cooptati dal Sultano su basi clientelistiche, e non vi era alcuna classe aristocratica
in grado di controbilanciare l'assolutismo di quest'ultimo. Il sultano era al vertice della società turca, disponendo
di innumerevoli titoli (inviato di Dio, capo militare (sultano), successore di Maometto (califfo), imperatore di
Bisanzio (Basileus), ecc..). Ulteriore debolezza era poi la mancanza di specifiche regole per la successione al
sultanato – una mancanza derivante dalla concezione sunnita per cui la successione essendo esclusivamente
politica, non doveva a rigore essere dinastica -. A sopperire tale mancanza si era instaurato il costume di
strangolare i fratelli di ogni nuovo sultano e venne istituito l’harem, concepito per liberare il sultano dagli affetti
familiari. Ciononostante, forti rivalità si verificavano puntualmente in occasione delle “vacanze del trono”.

Alla morte di Selim I (1520), salì al potere Solimano II, detto il Magnifico (1520-66) poiché durante il suo regno
l'impero raggiunse la sua massima espansione militare e il suo apogeo. Egli si preoccupò di perfezionare il sistema
amministrativo, dividendo tutti i territori sottomessi in 8 circoscrizioni.

Per quanto concerne la politica estera espansionistica, Solimano II:

· estese ulteriormente l’Impero ad oriente, ai danni dell'Arabia (1536) e dell'Armenia (1555);


· ad occidente, conquistò l'importante isola di Rodi (1522, bastione religioso cristiano) e i territori della
costa nord-africana, escluso il Marocco (fine anni '20);

· nell'Europa centro-orientale, l'espansione turca si verificò a danno dei magiari, sconfitti a Mohacs nel
1526, che videro lo smembramento del loro stato proprio perché in questa battaglia perì il giovane re di
Boemia e Ungheria Luigi II Jagellone. La tragica scomparsa determinò una forte crisi, della quale profittò
Ferdinando d’Asburgo, sposo della sorella del re defunto, il quale avanzò pretese sulle corone boema e
ungherese. Rispettivamente, in Boemia non sopraggiunse alcun tipo di problematica di fronte a tali pretese,
e di fatto Ferdinando d’Asburgo fu nominato Re nello stesso anno (1526), instaurando un regno centralizzato
e poco tollerante nei confronti delle eresie hussita e utraquista, nonché nei confronti della diffusione del
luteranesimo. In Ungheria, invece, l’opposizione antiasburgica condusse una Dieta per eleggere Re il
governatore di Transilvania, Giovanni Zapolya. Ferdinando d’Asburgo si fece designare da un’altra Dieta.
Tra i due pretendenti al trono, Zapolya rimase sconfitto a Tokaj nel 1527 e lo scontro non appena conclusosi
portò lo sconfitto a riconoscersi vassallo di Solimano il Magnifico. In questo modo, i turchi poterono portare
la loro minaccia direttamente in Austria, assediando Vienna nel 1529, poche settimane dopo la Dieta
imperiale di Spira. Gli Ottomani riuscirono a stabilirsi in Ungheria, nonostante un tentativo di Carlo V di
reprimerli, sicché nel 1533 Ferdinando d’Asburgo si vide costretto a condividere il regno ungherese con il
sultano e con Zapolya. Successivamente, grazie ad una serie di postazioni difensive, Ferdinando riuscì a
contenere l’avanzata ottomana, sconfiggendo le forze turche a Iassy (1538), riappacificandosi con Zapolya e
riconoscendo l’indipendenza della Transilvania nel 1528 col Trattato di Gran Varadino – a tal proposito,
secondo una interpretazione asburgica, alla morte di Zapolya, la Transilvania sarebbe dovuta tornare
all’Impero. Tuttavia, Carlo V, sebbene favorevole ad un accordo simile, si preoccupò maggiormente della
rottura dell’alleanza con i turchi e della rottura dei contatti con la Francia e con i principi tedeschi instaurati
da Zapolya. Conseguentemente la Transilvania non tornò all’Impero. Infatti, alla morte di Giovanni Zapolya
nel 1540, la nobiltà guidata da sua moglie Isabella nominò re d’Ungheria Giovanni Sigismondo, figlio di
Zapolya, chiedendo il sostegno di Solimano, il quale frattempo, nel luglio 1541 raggiunse Buda, ponendo a
capo del governo un pascià e lasciando Sigismondo a capo della Transilvania.

Per il momento era stato posto un freno alla pericolosa avanzata musulmana, ma essendo Carlo V fin troppo
assorbito dal problema tedesco e dalla guerra contro la Francia, una organica offensiva antimusulmana non venne
attuata.

2 Il quadro europeo

Nel contesto propriamente europeo, la Francia del re Francesco I ricominciò a mettere in difficoltà l'impero
asburgico: tra il 1532 e il 1533 si consolidarono i contatti con l'Impero Ottomano e con lo stesso Barbarossa, e
con la Lega di Smalcalda. Francesco I, inoltre, poté sfruttare i contrasti tra Santa Sede e Impero asburgico
scatenati dalla mancata acquisizione papale del Ducato di Ferrara e delle città di Modena e Reggio, assegnate da
Carlo V ad Alfonso I Este (1530). Clemente VII si riavvicinò alla Francia nella speranza di riacquistare le due
città emiliane incontrando Francesco I nell’ottobre 1533 e celebrando un matrimonio fra la nipote, Caterina de
Medici, e il figlio del sovrano, Enrico d’Orléans (il futuro Enrico II). Ulteriore motivo di contrasto tra Impero
e Papato era il ritardo perpetuato dal Pontefice nel convocare il concilio universale che invece era stato già da
tempo richiesto dall'Imperatore, per poter dirimere i contrasti religiosi in Germania.
In un contesto in così rapida evoluzione, i successi asburgici contro i turchi a Tunisi e nei Balcani e i progressi
della corona nei domini imperiali altro non potevano apparire che provvisori. In Spagna il potere monarchico si
era definitivamente consolidato, tuttavia, a seguito della morte di Gattinara (1530), le divergenze politiche tra i
membri della cancelleria imperiale si accentuarono e si delinearono i primi segni di quella che era una scarsa
vitalità economica.

Carlo V, privo del suo consigliere Gattinara, poté però conseguire importanti annessioni territoriali nell'area dei
Paesi Bassi e del Mar Baltico: annessione di Tournai (1521); conquista della Frisia (1524) e di Utrecht (1527)
e la definitiva conferma delle Fiandre e dell'Artois (con il Trattato di Madrid del 1526; vedi Cap3, par.6).
Questa politica di consolidamento delle frontiere settentrionali si tradusse in maggiori problemi di gestione per
Carlo V in quanto si inscenarono una serie di travagliate questioni nei paesi dell’Europa marittima del nord. Uno
stato di incertezza si perpetuò in particolar modo in Danimarca, dove il re Federico I dovette difendersi dai
tentativi di rientro in patria del decaduto re Cristiano II. Sebbene Carlo V avesse a cuore la difesa dei diritti
dinastici familiari, gli interessi economici nei Paesi Bassi nel Baltico impedirono consistenti aiuti a Cristiano II
che, pur di riconquistare il proprio trono, rinunciò alle sue iniziali simpatie per il luteranesimo, ritornando nel
1530 alla religione cattolica e che con il Trattato di Lierre, promise in caso di riconquista del suo regno
incondizionata fedeltà agli Asburgo e assoluta libertà di traffici ai sudditi dell’Impero nei mari del Nord. Una
volta ottenuti i tanto agognati aiuti da Carlo V, tuttavia, Cristiano II fallì miseramente nella sua impresa, aprendo
delle trattative con Federico I, il quale, raggirandolo e attirandolo in Danimarca, lo imprigionò per 27 lunghi anni.
Alla morte di Federico I (1533) e alla conseguente vacanza del trono, rifiorirono gli antagonismi fra danesi e
città anseatiche, in particolare Lubecca. Le guerre dinastiche ripresero: da un lato, Lubecca, la quale cercò di
legarsi nel 1534 alla ribellione sociale e religiosa che infiammava la Danimarca dopo la morte di Federico I;
dall’altro una lega, nata a seguito di tale azione della città anseatica, tra il governo danese, la Svezia e la Norvegia.
Con il fine di contrastare la concorrenza anseatica, i Paesi Bassi favorirono contro Lubecca la successione al trono
del figlio di Federico I, Cristiano III, nonostante le sue simpatie luterane. Alla fine, la fiammata di scontri e
guerre civili si concluse con la successione al trono proprio di Cristiano III in Danimarca, nel 1536. Quest’ultimo
si rese da allora protagonista di una continua lotta contro Carlo V, dell’imposizione del luteranesimo e di una
nuova guerra con l’Hansa, che si concluse nel 1544 con la Pace di Spira, la quale riconobbe definitivamente ai
danesi il diritto di esigere il pedaggio alle navi che attraversavano il Sund.

Problemi più urgenti erano quelli da risolvere in Germania, dove la disputa religiosa interferiva sia sulla questione
della riforma costituzionale tedesca, sia sulle scelte politiche internazionali: in seguito alla repressione della rivolta
dei cavalieri e dei contadini e alla loro adesione al luteranesimo, i prìncipi tedeschi acquisirono un maggior potere
interno, conseguentemente all'incameramento dei beni e delle proprietà della Chiesa Cattolica, mentre il consiglio
di Reggenza previsto a Worms nel 1521 per la cooperazione fra i ceti venne abbandonato alla fine degli anni 20,
a dimostrazione dell’impraticabilità di una rivitalizzazione per via costituzionale dell’autorità imperiale. A tutto
ciò si aggiungevano le difficoltà strumentalmente frapposte dai prìncipi alle continue richieste di finanziamento
necessarie agli Asburgo per finanziare la guerra antiturca e anti-Smalcalda: per ottenere il denaro, Carlo V e
Ferdinando dovettero convenire a delle concessioni ai principi luterani, come fatto con la tregua di Norimberga
del 1532 (vedi cap5, par3). Questa tregua era apparsa come il frutto di un compromesso artificioso, religiosamente
insoddisfacente e tale da risvegliare le parti in lotta molto presto. Non fece altro che rafforzare la stessa Lega di
Smalcalda, alleata oltre che con la Francia, anche con la Danimarca e con l'Inghilterra anglicana di Enrico VIII
(1535). Per fronteggiare al meglio la situazione tedesca, Carlo V, sin dal 1522 e poi formalmente dal 1531, aveva
ottenuto l'elezione di suo fratello Ferdinando a re dei romani, dividendo di fatto i domini imperiali asburgici in 2
aree, quella spagnola e quella tedesca.

Un’ulteriore variabile intervenne nel 1534 a modificare il composito scenario politico europeo: venne eletto al
soglio pontificio Alessandro Farnese col nome di Paolo III (1534-1549), il quale si adoperò sin da subito a
cercare una pace tra la Francia e l'Impero. Le ragioni di tale indirizzo politico sono le seguenti:

1. frenare il pericoloso espansionismo turco nei Balcani, unendo le forze cattoliche francesi e imperiali;

2. dirimere le controversie religiose esplose nel nucleo dell'Impero Asburgico, la Germania;

3. far sì che l'Italia non venisse egemonizzata da nessuna delle 2 potenze continentali.

L'idea di convocare un concilio universale non era caldamente sostenuta dal nuovo Pontefice, in quanto aveva il
timore che la partecipazione dei protestanti allo stesso avrebbe fatto emergere la contestazione all'autorità del
Papato messa in discussione da Lutero.

L'obiettivo di sconfiggere i musulmani venne ridimensionato dalle scelte di politica estera effettuate da Venezia
e dalla Francia: la prima non voleva perdere le fruttuose relazioni commerciali con l'Islam che l'arricchivano
attraverso gli scambi via mare, la seconda cercò volutamente un’alleanza col nemico islamico (raggiunta nel 1536)
per accerchiare l'Impero Asburgico e poterlo attaccare da 2 fronti.

Per quanto riguarda il 2° obiettivo della politica pontificia, Paolo III cercò di riaprire il dialogo con le forze
protestanti, dapprima in terra inglese (ma la tanto attesa nascita dell'erede maschio del re Enrico VIII, il futuro
Edoardo VI, grazie alla relazione con Jane Seymour, stroncarono le possibilità di un nascituro accordo con Roma)
e poi appoggiando il progetto di Francesco I di costruire un'alleanza con le forze luterane tedesche, in funzione
anti-imperiale (scelta però criticata dalle stesso Papa). Si rivelarono fondati quindi i sospetti di Carlo V riguardo
una malcelata volontà pontificia che, dietro la maschera di un'intrapresa neutralità, voleva in realtà perseguire una
politica religiosa svincolata o addirittura ostile all'Impero.

3 Il nuovo conflitto franco-asburgico

La morte del Duca di Milano (1° novembre 1535), Francesco II Sforza, privo di erede, riaccese la miccia del
precario quadro politico europeo, destabilizzando una situazione di apparente tregua fra il Regno francese e
l’Impero asburgico: in ballo nuovamente la questione della successione dinastica nel ducato milanese, da sempre
rivendicata dalla Francia di Francesco I. Tentativi di trattativa per porre a capo del ducato Carlo d’Orléans
risultarono vani e fallimentari. Anzi, la crisi degenerò non appena Carlo V decise di assumere il controllo militare
della Lombardia, provocando l'intervento francese nel febbraio 1536, con l'invasione della Savoia e del Piemonte.
Quest'offensiva - sebbene Francesco I godesse dell’appoggio dell’Inghilterra, oltre che dei turchi - non sortì gli
effetti sperati, traducendosi in una disfatta per Francesco I, il quale dovette subire l'invasione della Provenza.
La Santa Sede – per la quale la ripresa delle ostilità rappresentò un grave colpo - si affrettò a convocare il Concilio
universale a Mantova per l'anno seguente (1537), in modo da esaudire il desiderio iniziale di Carlo V.
Quest’ultimo, però, era ormai poco convinto di tale iniziativa pontificia, tant’è che decise di indire un concilio
alternativo in Germania senza la partecipazione dei Francesi e dei funzionari pontifici. La decisione
dell’imperatore non si avverò concretamente, incontrando le resistenze degli Stati protestanti, alle quali, Carlo V
rispose istituendo una Lega Cattolica (1538), includente ora anche la Baviera, da contrapporre alla Lega
smalcaldica.

Come ipotizzato da Carlo V, la decisione pontificia di indire il Concilio fu un insuccesso, diretto a rilanciare gli
sforzi diplomatici per la pace: nel 1537 la Lega di Smalcalda di fatto rigettò la proposta pontificia. Un analogo
rifiuto venne anche da Francesco I, e frattempo, si ebbe un ulteriore fallimento – altrettanto prevedibile – della
convocazione conciliare a Vicenza (1538).

A favorire la politica pontificia di pacificazione franco-asburgica l'armistizio di Bomy, che pose fine agli inutili
scontri militari nei Paesi Bassi (giugno 1537), e il crescente consenso europeo alla formazione di una lega
antimusulmana - consenso scaturito dal timore del sopraggiungere della flotta turca in aiuto ai francesi nel conflitto
con l'Impero. All'inizio, tuttavia, la formazione della lega fu minata da alcuni ostacoli. Primo fra tutti il diniego
della Repubblica Veneta a farne parte, in quanto fermamente intenzionata a salvaguardare gli interessi
commerciali dell'oligarchia cittadina e a preservare la neutralità nei confronti dell'entroterra italiano.
Paradossalmente, tale atteggiamento neutrale portò la Repubblica veneta alla guerra: il mancato intervento a
sostegno dei francesi nella guerra per il ducato di Milano provocò attacchi navali anti-veneziani della flotta turca.
Non a caso, viste le circostanze critiche, la potenza marinara veneta fu inevitabilmente costretta ad abbandonare
la linea di prudente amicizia con il sultanato e si decise ad accettare la lega anti-ottomana (e quindi antifrancese)
nel settembre 1537.

La politica di alleanza con gli Ottomani costò pertanto alla Francia l'isolamento diplomatico in Europa – tale
indirizzo politico produsse infatti il riavvicinamento dei veneziani e dello stesso Paolo III a Carlo V. Dunque, fu
inevitabile per Francesco I intavolare una serie di trattative di pace: dall'armistizio franco-asburgico di Monçon
(novembre 1537) alla Tregua di Nizza (aprile 1538), sponsorizzata da Paolo III (emarginato a Monçon). La tregua
congelava la situazione attuale (con la Savoia alla Francia e Milano alla Spagna), stabilendo un armistizio di 10
anni e non la pace generale, tanto auspicata dal Papa ma ben lungi dal concretizzarsi. Infatti, di lì a poco,
l'imperatore decise unilateralmente di assegnare al figlio Filippo il dominio sul ducato di Milano (1540),
distruggendo la speranza francese di guadagnare il milanese mediante accordi dinastici.

Si era intanto concretizzata la sottoscrizione della coalizione antimusulmana (Lega santa), costituitasi nel
febbraio 1538 tra Venezia, Santa Sede, la Persia e l'Impero di Carlo V e Ferdinando d'Asburgo. Sebbene
Carlo V volesse rinviare di un anno la spedizione antiturca, Venezia intraprese fin da subito iniziative militari nel
Mar Egeo – in quanto intimorita dalla pressione ottomana in quella zona. Iniziative che però si rivelarono
fallimentari: già nel 1540 i veneti firmarono una pace separata con il Sultano Solimano il Magnifico perdendo
alcuni possedimenti nell'Egeo.
Fallita l’ambiziosa politica pontificia, Paolo III guardò con crescente fastidio i tentativi di Carlo V di giungere ad
un'intesa con la Lega di Smalcalda, resa sempre più necessaria viste le continue pressioni da parte di Francesco I
e anche del re d'Inghilterra Enrico VIII alla Lega stessa per costituire un fronte comune antiasburgico.

In tale contesto, nell'aprile del 1539 si giunse ad un accordo fra Carlo V e la Lega di Smalcalda - accordo di
Francoforte - con il quale si stabilì di convocare in un futuro molto prossimo una conferenza religiosa volta ad
appianare le divergenze dottrinali fra cattolici e protestanti, con l'esplicita esclusione degli esponenti pontifici che,
tuttavia, vennero ammessi grazie all'opera diplomatica del Papa.

Gli incontri religiosi iniziarono a Spira nel 1540 e furono presenziati dapprima da Ferdinando – il quale però fu
richiamato in Austria dai problemi di successione ungherese conseguenti alla morte di Zapolya -. I colloqui
procedettero successivamente a Ratisbona, dove intervenne anche Carlo V, in quanto nuovamente minacciato dai
turchi in Ungheria e intenzionato a riprendere la guerra contro l’Islam nel Mediterraneo. I maggiori problemi
durante i colloqui nacquero all'interno della legazione pontificia, divisa fra intransigenti e moderati:
rispettivamente, tra i primi capeggiava il di-lì-a-poco inquisitore Gian Pietro Carafa; mentre tra i secondi
capeggiava il legato pontificio e cardinale Gasparo Contarini, noto per le sue posizioni favorevoli ad una intesa
dottrinale col mondo riformato. Almeno inizialmente, sembrò raggiunto un accordo fra i moderati e gli esponenti
luterani (tra cui Melantone) sulla dottrina della giustificazione ex sola fide. Tuttavia, questo accordo venne
sconfessato dall'ala intransigente, la quale accusò il Contarini di aver ceduto alle richieste dei luterani. In seguito,
altri ostacoli si frapposero alla pacificazione religiosa generale - in particolare l'impossibilità di arrivare ad un
accordo sul tema dell’Eucarestia – costringendo Paolo III a rassegnarsi all'idea di indire quanto prima il concilio
universale richiesto dall'Imperatore.

Il fallimento dei colloqui di Ratisbona chiuse per sempre le speranze di una riconciliazione dell’Europa cristiana
e non lasciò margini all’azione di Paolo III, il quale nemmeno nel successivo incontro a Lucca con Carlo V
ottenne la pace definitiva. I due, durante l’incontro, optarono di comune accordo per la continuazione dell'opera
di mediazione pontificia con la Francia iniziata con la Tregua di Nizza, onde evitare la rottura proprio di
quest’ultima (apertamente minacciata da Francesco I) e altresì utile a Carlo V in quanto gli avrebbe garantito la
possibilità di concentrarsi sullo scontro antimusulmano nei Balcani e a Sud della Spagna

Approfittando della sconfitta della flotta ispano-imperiale ad Algeri, ad opera del Barbarossa (vedi par.1),
Francesco I si mostrò deciso a riprendere le ostilità: al suo fianco agirono la Danimarca di Cristiano III, la Svezia
e anche la Scozia, che doveva impegnare gli inglesi a nord, i quali avevano intrapreso una politica favorevole agli
Asburgo conseguentemente all'uccisione dell'ispiratore della precedente politica antiasburgica Thomas
Cromwell (1540). Giunse intanto la prima (ma ininfluente) convocazione del Concilio a Trento (maggio 1542):
essa si rivelò un fiasco, in quanto respinta da Carlo V, troppo impegnato a guerreggiare con i francesi sui più fronti
- Artois al nord, Lussemburgo a ovest e Piemonte al sud - e restio dall’infastidire i preziosi prìncipi protestanti
tedeschi con questioni concernenti il conflitto.

Mentre gli inglesi respingevano gli attacchi scozzesi a Solway Moss (1542) e invadevano la Francia da Nord, gli
imperiali inflissero una grande sconfitta ai francesi a Nizza nel 1543 (ironia della sorte, città che aveva accolto le
“temporanee” proposte di pacificazione) e poterono facilmente arrivare alle porte di Parigi. La Francia, stremata
dal duplice attacco anglo-tedesco, si affrettò a concludere la pace di Crepy (settembre 1544), la quale prospettava
delle soluzioni dinastiche alternative per la risoluzione della questione milanese: il figlio di Francesco I, Carlo
d'Orleans, avrebbe sposato una parente di Carlo V, portando in dote alla Francia i Paesi Bassi, altrimenti, se così
non fosse stato, la figlia di Ferdinando d'Asburgo, l’arciduchessa Anna d'Austria, avrebbe ottenuto i possedimenti
del ducato di Milano (alla Francia sarebbero rimasti i territori della Savoia).

Le ragioni strategiche sulle quali si ergevano le decisioni prese da Carlo V erano pressoché due. Conservando il
dominio sul ducato di Milano, l’imperatore avrebbe potuto soddisfare la volontà di Ferdinando d'Asburgo di
acquisire l'eredità degli Sforza a Milano - esaudita dagli accordi di Crepy, contemplanti la possibilità che la figlia
divenisse la regnante su quei territori - e di fatto poi avveratasi nel 1545 con la morte di Carlo d'Orleans; nonché
la volontà della maggior parte degli esponenti di origine spagnola della corte Imperiale, i quali desideravano
mantenere il controllo sul Nord Italia in ragione della preservazione dell’intero Mediterraneo dalle mire
espansionistiche turche.

Se questi accordi da un lato collidevano con l'intesa con Paolo III - da sempre mostratosi preoccupato dall’idea
che una delle due potenze (francese o imperiale) potessero impadronirsi dei territori settentrionali della Penisola
-dall’altro, consentivano a Carlo V di sistemare definitivamente i problemi interni alla Germania rappresentati
dalla minacciosa presenza della Lega di Smalcalda.

4 La guerra di Smalcalda

Carlo V era stato spinto a concludere rapidamente la pace di Crepy non tanto dal desiderio di ridisegnare l’assetto
italiano, quanto più dall’ulteriore aggravarsi della situazione politico religiosa tedesca che, ancora una volta, lo
aveva costretto a “largheggiare” alla Dieta di Spira in concessioni ai protestanti in cambio del loro sostegno
finanziario e militare contro i turchi e nella guerra in corso contro Francesco I.

Una volta stipulata la pace di Crepy e una volta riappacificatosi con i restanti nemici dell'Impero (Danimarca e
Impero Ottomano) Carlo V poté sfruttare questa congiuntura internazionale favorevole e la nuova
convocazione del concilio religioso a Trento per il marzo del 1545 per muovere guerra agli smalcaldici, ai quali
aveva accordato larghe concessioni, nel momento in cui l'Impero necessitava di tutte le risorse possibili per poter
fronteggiare adeguatamente i suoi numerosi nemici, a est (gli ottomani) e a ovest (la Francia). Nel momento in
cui la Lega di Smalcalda si mostrò nuovamente contraria alla partecipazione a quello che bollava come un Concilio
“papale”, i margini di trattativa per Carlo V e la Lega stessa si ridussero ampiamente. Tale atteggiamento fu una
delle ragioni che portarono Carlo V ad intraprendere la soluzione militare del problema tedesco, soluzione già
immaginata a seguito del fallimento dei colloqui di Ratisbona. A questa ragione si accompagnarono le continue
pressioni esercitate dagli smalcaldici sul composito mosaico di principati gravitanti nell’area della Westfalia –
area importante dal punto di vista strategico per Carlo V -.

Ormai, il nord-ovest della Germania era perduto per l’imperatore e la Riforma minacciava di affermarsi anche nei
Paesi Bassi. Per di più i protestanti detenevano i 4/7 del collegio dei 7 principi elettori che eleggevano l’imperatore
(Colonia, Brandeburgo, Sassonia e da ultimo il Palatinato, con il principe Federico II il Saggio; cattolici
rimanevano gli arcivescovati di Colonia, Treviri e Magonza).
Questo insieme di ragioni politico-religiose spinse definitivamente Carlo V a muovere guerra alla Lega di
Smalcalda. L’operazione, inizialmente, fu favorita dalla capacità dell’imperatore di acuire le divisioni interne al
fronte smalcaldico: fu semplice così ottenere la promessa di neutralità di Federico il Saggio e del duca protestante
Maurizio di Sassonia. Successivamente Carlo V si preoccupò di organizzare un esercito: dapprima provvisto di
contingenti pontifici, comandati da Alessandro Farnese e poi ritirati poiché Paolo III temeva che una vittoria
troppo netta degli imperiali avrebbe compromesso lo stesso potere temporale della Santa sede. Malgrado il ritiro
delle truppe pontificie, l'Imperatore inflisse una memorabile sconfitta agli smalcaldici a Mulhberg, nell'aprile del
1547, disperdendo il fronte antiasburgico. La vittoria imperiale, tuttavia, si rivelò soltanto una battuta di arresto
per il fronte protestante tedesco, in quanto essa era maturata dal “tradimento” e dalla defezione di alcuni prìncipi
protestanti, e non si rivelò così utile ad un concreto rafforzamento del potere imperiale. Carlo V indisse quindi
una Dieta ad Augusta (1547-48) con la quale cercò di raggiungere un compromesso religioso quantomeno solido,
riuscendovi parzialmente, ma lontano dal risolvere definitivamente le ferite sociali e spirituali aperte dalla
Riforma: si giunse all’elaborazione del c.d. Interim di Augusta (1548), il quale elargì concessioni sia ai cattolici
– rispetto dei sacramenti, restaurazione dell’autorità vescovile e rispetto della dottrina cattolica della
giustificazione – sia ai protestanti – approvazione del matrimonio dei sacerdoti e della comunione sub utraque
specie – .

5 Carlo V e l’Italia: un’egemonia difficile

Mentre otteneva i suoi più importanti successi in Germania, Carlo V dovette subire l’iniziativa francese in Italia,
la quale metteva nuovamente in discussione l’egemonia spagnola sancita dalle paci del biennio 1529-1530 – Pace
delle due dame; Pace di Bologna (vedere cap. 3 par.6) – ed era favorita dalla conflittualità che divideva e
attraversava dall’interno gli Stati italiani.

Oltre che dalla scena politica internazionale, il predominio asburgico venne messo a repentaglio anche dal
contemporaneo mutamento in corso nella stessa società italiana, attraversata da profonde trasformazioni sociali e
politiche. Nella penisola italiana si assisteva ad un consolidamento dei processi di oligarchizzazione già avviati
nel XV secolo. Si costituirono dei primitivi apparati governativi centrali, composti dagli appena consolidati
patriziati cittadini, ceti non necessariamente omogenei per provenienza sociale, ma unificati dalla detenzione di
un potere politico che, seppur delimitato, rappresentò un termine di confronto ineluttabile per gli apparati
governativi centrali della Spagna e degli Stati della penisola stessa. Questi ultimi si dedicarono al consolidamento
dell'amministrazione e del dominio nelle campagne e sulle città minori.

Un quadro simile difficilmente poté andare esente da profondi contrasti e crisi politiche che, nel nuovo contesto
dell’egemonia spagnola, segmentarono internamente le classi dirigenti italiane fra filoimperiali e francofili,
facendo di Carlo V l’arbitro della situazione italiana e riconsegnando inattese possibilità di azione politica alla
Francia.

Serenissima Repubblica di Venezia

La repubblica veneta aveva da tempo stabilizzato il potere del patriziato e salvaguardato la propria indipendenza,
al costo di una forzata neutralità e alla rinuncia ad ogni ambizione espansionistica in terraferma. Uscita
sostanzialmente ridimensionata dalle paci del 1529-30, la repubblica era attraversata dal desiderio di pacificazione
statale e di rinnovamento culturale ben rappresentati dalle volontà espresse del nuovo doge veneziano, Andrea
Gritti (1523-1538), sotto il cui governo si distinse l'opera dell'umanista Pietro Bembo, che redasse una storia della
Repubblica.

Ducato di Milano

La realtà milanese, dove l’avvento spagnolo e la pace che seguì produssero una graduale ripresa economica,
inizialmente rallentata dal fiscalismo della corona ma pienamente avvertita dalla metà del secolo. La Spagna, nel
quadro delle funzione di baluardo strategico antifrancese affidata alla Lombardia, dovette affrontare problemi di
riordinamento legislativo - nel 1541 venne emanata la prima e organica raccolta di leggi e decreti, le Novae
Constitutiones - e di riassetto politico-istituzionale al fine di legare a sé i patriziati cittadini, in particolare quello
del capoluogo: da un lato, venne garantito un margine di autonomia all'oligarchia cittadina, mantenendo in vita
un Senato composto per 2/3 da patrizi milanesi, e dotato di ampie competenze giudiziarie, amministrative e
legislative; dall'altro, al fine di controbilanciare suddetta autonomia, si assistette ad un rafforzamento dei poteri
del governatore spagnolo, al vertice dell'apparato militare e amministrativo del ducato.

Ducato di Savoia

Sebbene sembrò inizialmente trarre qualche beneficio dall’egemonia imperiale in quanto dalla pace di Cambrai
(1529) guadagnò la contea di Asti, il Ducato di Savoia di Carlo III – passato dalla subordinazione alla Francia alla
neutralità – perse i possedimenti in Svizzera e, soprattutto, non ottenne il desiderato Monferrato, il quale, invece,
finì nelle mani del duca di Mantova, Federico Gonzaga, su ordine di Carlo V – dettato dalla volontà di avere un
fedele alleato verso quel Piemonte che, per di più, a seguito sia della Tregua di Nizza (1538) che della pace di
Crepy (1544) pagava la propria neutralità con l’occupazione francese e la perdita dell’indipendenza per vent’anni
-.

Nella prima metà del Cinquecento quello monferrino fu l’unico ampliamento territoriale per i Gonzaga, impegnati
prevalentemente a consolidare il loro assolutismo e ad integrare nella corte la nobiltà mantovana. Una situazione
analoga a quella di Ferrara, ove però furono le difficoltà finanziarie e le lotte della feudalità reggiana e modenese,
divisa tra filopontifici e filoferraresi, a spingere Alfonso I d’Este a disimpegnarsi dalla politica estera cercando di
mantenere una sorta di neutralità tra Asburgo e Valois.

Repubblica di Genova

L’ammiraglio Andrea Doria impresse alla politica della Repubblica genovese, fin dal suo avvento – avvenuto
nel 1528 -, una improvvisa svolta filoasburgica, consona alla vocazione finanziaria e mercantile della città, il cui
porto intratteneva circa l'80% dei suoi scambi con la Spagna, la quale mantenne strettamente l'alleanza con la
Repubblica, in quanto consentiva alla sua flotta di operare in tutta tranquillità nel Mediterraneo occidentale e in
quanto il controllo su Genova era ritenuto indispensabile per la difesa del Tirreno. In politica interna, la svolta
filoasburgica produsse una forzata riappacificazione della classe dominante genovese, da tempo lacerata dai
dissidi e contrasti fra le antiche famiglie dei “nobili” e le famiglie, di più recente ricchezza commerciale, dei c.d.
“mercanti e artefici”, sui quali si sovrapponevano le lotte fra i francofili e i filospagnoli. La volontà di
superamento di queste divisioni fu rappresentata dall’istituzione dei cosiddetti “Alberghi” – quartieri di residenza
da cui si estraevano i candidati alle magistrature cittadine – un sistema che diede alla Repubblica una sostanziale
stabilità.

Repubblica di Siena

Se nella Repubblica di Lucca l’intervento di Carlo V in qualità di arbitro ordinatore fu determinante nella
risoluzione dei contrasti sociali e nel superamento dei momenti più acuti di crisi, ma diede comunque luogo ad
esiti drammatici, nella Repubblica di Siena portò ad esiti ancor più drammatici. Qui, dopo aver riordinato la
politica cittadina, scossa dagli scontri fra le fazioni filofrancesi e filoasburgiche, Carlo V ottenne il controllo del
territorio nel 1530: Raffaele Petrucci morto nel 1522, fu succeduto dal diciassettenne Fabio Petrucci, portando
la Repubblica di Siena nell’orbita medicea e dell’alleanza con la Francia, voluta da Clemente VII alla vigilia della
Lega di Cognac. L’opposizione interna filoimperiale ed antimedicea cacciò Fabio nel 1524 riaprendo uno scenario
critico, che nel 1525 condusse Siena a schierarsi con la Spagna e ad esiliare i seguaci della Francia. Gli esuli senesi
cercarono di accattivarsi le simpatie asburgiche e consentirono proprio così a Carlo V di imporre un presidio
militare e una riforma dell’ordinamento cittadino, nella speranza di pacificare le fazioni e di insediare al governo
il duca d’Amalfi, che però lasciò la città preda delle sue stesse lotte interne e delle mire espansionistiche della
Firenze medicea e dello Stato pontificio.

La repubblica fu poi oggetto dal 1537 di un duraturo contrasto tra Cosimo I de' Medici, impegnato a proseguire
la tradizionale politica fiorentina di assoggettamento della Toscana, e Paolo III, intenzionato ad annetterlo ai
possedimenti dei Farnese nel Lazio e in Abruzzo, costituendo così uno stato antimediceo ed autonomo rispetto a
Carlo V e al suo Impero. L'Imperatore cercò di raggiungere un compromesso tra la famiglia de' Medici
(filoasburgica) e gli esuli repubblicani (fedeli invece al regno di Francia) per evitare pericolosi ritorni transalpini .
Ma quando questo tentativo naufragò, Carlo V, allora, decise di perpetuare il governo mediceo: ne nacque una
reazione antiasburgica concentrata nel fallimentare tentativo di colpo di stato militare di Filippo Strozzi
nell'agosto 1537 (a capo degli esuli fiorentini repubblicani e di esponenti pontifici). Soffocato il colpo di mano,
come precedentemente pattuito, Carlo concesse a Cosimo I il titolo ducale di Firenze, ottenendo in cambio la
cessione delle piazzeforti di Livorno e Pisa indispensabili alla Spagna per il controllo del Mediterraneo (il c.d.
Stato dei Presidi).

Stato della Chiesa

Indebolito dagli alterni contrasti con la Spagna e l'Impero, lo Stato pontificio non riusciva a completare il processo
di riordinamento politico e amministrativo iniziato all'inizio del XVI secolo. Una iniziale sconfitta politica dovette
subirla per la questione dei domini ferraresi, andati in mano agli Este (con Ercole II) per ordine dell'Imperatore.
Successivamente Paolo III dovette far fronte allo scoppio di una ribellione a Perugia – causata dalla crescente
pressione fiscale incombente e dovuta agli impegni internazionali del papato – riuscendo successivamente a
reprimerla. A ciò si aggiunse l’inizio del conflitto, poi vinto dal pontefice, con una delle famiglie baronali romane
più importanti, i Colonna – la cosiddetta “guerra del sale”, così chiamata poiché correlata all’aumento della tassa
del sale che provocò la ribellione a Perugia. Questo insieme di questioni avvicinarono sempre più il papato alla
corte francese, nel tentativo di cercare nell’Italia settentrionale un contrappeso al dominio imperiale.

Proprio alla luce di questi propositi, Paolo III concesse al figlio Pier Luigi Farnese il titolo ducale per i territori
di Parma e Piacenza, in modo da evitare ogni interferenza nei ducati da parte degli Asburgo. Dapprima Carlo V
non reagì, considerando positivo il fatto che il Pontefice avesse inviato delle truppe per sconfiggere la Lega
Smalcaldica (di fatto necessitava dell’aiuto pontificio). Frattempo, si ebbe una violenta reazione nobiliare nei
ducati di Parma e Piacenza a causa della politica accentratrice del Farnese, la quale si palesò proprio nel momento
in cui il papato ritirò le sue truppe in aiuto all’imperatore. A questo punto, le circostanze determinarono la reazione
di Carlo V il quale agì uccidendo Pier Luigi Farnese (1547), smembrando il ducato e occupando Piacenza, che
divenne territorio asburgico (Parma invece rimase possedimento pontificio). Pertanto, vennero definitivamente
frustate le aspirazioni egemoniche pontificie nell'Italia centrale.

Regno di Napoli

In questo possedimento spagnolo, non si era ancora assestato il rapporto tra la feudalità meridionale e
l'amministrazione spagnola. Nel Regno di Napoli, infatti, si aveva un dualismo istituzionale: da una parte vi
era il potere del viceré spagnolo; dall'altra il potere legislativo dei due organismi dipendenti dal baronaggio
feudale. Rispettivamente il Parlamento, il quale deteneva anche il potere di approvare nuove tasse, e il Consiglio
Collaterale, il quale affiancava il viceré di cui cercare di limitare le prerogative. A seguito del “tradimento” della
feudalità napoletana, passata sotto l'influenza francese del comandante Lautrec, quando quest’ultimo guidò la
discesa francese nel 1528 (Vedi cap3, par6), la repressione spagnola della feudalità francofila non si fece attendere.
Alla dura repressione, seguì – con la nomina a viceré di Pedro Alvarez de Toledo nel 1532 - un'intensa opera di
accentramento statale, riordinamento amministrativo e di disciplinamento sociale che colpì il baronaggio e la
stessa capitale partenopea: riorganizzando l'apparato giudiziario, controllando l'amministrazione finanziaria,
combattendo la corruzione e le immunità, il viceré colpì i privilegi e l'incontrastata indipendenza dei baroni,
suscitando un’opposizione che alle volte lo mise in difficoltà con la corte spagnola, la quale era interessata a
mantenere i contributi donativi (che la feudalità poteva garantire) richiesti dagli impegni bellici dell’Impero.
Tuttavia, il baronaggio napoletano sfruttò le ripetute richieste finanziarie spagnole, in particolare quelle dirette a
sovvenzionare le campagne anti-ottomane, per farne oggetto di contrattazione politica e preservare i propri
privilegi, di fatto riuscendo nell’intento frequentemente. Ad ogni modo, questa politica accentratrice proseguì fino
agli anni 40 e culminò nell'introduzione dell'Inquisizione nel regno (1547), la quale però venne immediatamente
soppressa a causa dei violenti tumulti cittadini scoppiati a Napoli e nei dintorni della capitale.

6 Verso la pace

Il 1547 fu un anno cruciale per gli avvenimenti che coinvolsero l'intera Europa:

1. sconfitta della Lega di Smalcalda;

2. stipulazione di una tregua fra l'Impero Asburgico e l'Impero Ottomano, tra Ferdinando e Solimano II;

3. morte di Francesco I e ascesa al trono francese del figlio Enrico II (1547-59).


Enrico II diede continuazione al programma antiasburgico del padre, favorito sicuramente dall'assenza
dell'intervento dell'Inghilterra in terra continentale, in quanto concentrata a risolvere le questioni religiose interne
dopo la successione ad Enrico VIII di Edoardo VI (1547 – 1553). Ad incoraggiare tale indirizzo furono le
rinnovate possibilità di alleanza con i principi protestanti sconfitti a Muhlberg e riunitisi nella pressoché
fallimentare Dieta di Augusta del 1548: fra i partecipanti a quest'ultima, il principe Maurizio di Sassonia -
precedentemente alleato di Carlo V e timoroso della possibilità di venire attaccato proprio dagli imperiali vista la
grande potenza acquisita dopo lo scontro - sponsorizzò l'accordo di Lochau dell'ottobre 1551 tra la Francia e
principi tedeschi in funzione anti-asburgica. Carlo V non riuscì ad evitare ciò aveva sempre temuto in quanto
confidava che il Concilio di Trento – il quale riprese i suoi lavori nel 1551, grazie ai buoni rapporti tra l’imperatore
e il nuovo pontefice Giulio III (1549-55), il quale rese effettiva quella linea di neutralità di Paolo III rompendo
con gli atteggiamenti antimperiali del suo predecessore - potesse garantire la sottomissione e la
“riappacificazione” con i protestanti.

Proprio ora che Carlo V più faceva affidamento sui rapporti asburgico-pontifici e sul Consiglio, l’evoluzione della
politica francese si mostrò fermamente tesa ad attaccare l’Impero non solo in Germania, ma anche nella penisola
italiana.

Qui, rimaneva irrisolta la questione dei domini di Parma e Piacenza: Giulio III tentò la via del negoziato per la
restituzione di Piacenza, riconsegnando Parma a Ottavio Farnese che, però, si rifiutò di collaborare con l'Impero
e interruppe le trattative, alleandosi con i francesi nel marzo 1551. Ciò si spiega alla luce del fatto che gli accordi
su Parma furono difficoltosi. Questa scelta comportò l'azione militare pontificia contro le truppe del Farnese,
appoggiata dall'Impero, e la frattura dei rapporti con la Francia di Enrico II, il quale intanto minacciava di dar vita
ad un concilio scismatico gallicano. Il Papa si ritrovò costretto a trattare con il re Enrico, riportando Ottavio
Farnese a capo del ducato di Parma.

Se con la questione in Italia, Giulio III dimostrò l’inefficacia della sua politica, egli rese possibile la prosecuzione
dei lavori del Concilio di Trento, i quali – tra il 1551 e il 1552 - videro per la prima e unica volta la partecipazione
di alcuni prìncipi protestanti. Tuttavia, ciò non mutò i risultati fallimentari ottenuti: nessun compromesso
dottrinale si raggiunse, e la prosecuzione dei lavori tridentini venne definitivamente messa in discussione
dall'avvio della campagna militare franco-smalcaldica. Le truppe antiasburgiche attaccarono sia da ovest
(conquista francese dei vescovati di Metz e Verdun) sia da est (progressiva espansione militare di Maurizio
di Sassonia in Franconia e Svevia), mettendo in ginocchio le truppe asburgiche, che tuttavia riuscirono a resistere
fino alla tregua di Passau (agosto 1552) che sospese l'applicazione delle disposizioni (c.d. Interim) della Dieta
di Augusta del '48.

La ripresa dell’iniziativa francese faceva chiudere a Carlo V in maniera fallimentare non solo la questione tedesca:
in Italia si verificarono disordini e ribellioni nei possedimenti asburgici. A Siena si ebbe una rivolta francofila che
cacciò gli spagnoli dalla città, ponendo quest’ultima sotto la protezione della Francia. La vicenda senese si risolse
con l’intervento del duca di Firenze, Cosimo I de’ Medici, il quale riuscì nel 1555 ad annettere la città di Siena
ai domini fiorentini. Contemporaneamente, a Salerno il barone San Severino organizzò – tra il 1551 e il 1553 -
congiure nei confronti di Andrea Doria e del viceré spagnolo del regno di Napoli.
Il tanto ambito sogno universalistico di dominio europeo di Carlo V si sgretolò dinanzi all'evidenza della sconfitta
tra il 1551 e il 1555: non a caso, la pace di Augusta del settembre 1555 assunse il carattere di pacificazione
generale, sia dal punto politico che religioso, fra cattolici e luterani - dall'accordo venivano esclusi lo
Zwinglianesimo, il Calvinismo e l'Anabattismo -. Venne sancito il principio del cuius regio, eius religio, per il
quale ai singoli stati e alle città libere dell'Impero fu consentita la scelta fra una delle due confessioni, imponendole
ai sudditi mentre i dissidenti avrebbero potuto emigrare (beneficium emigrandi). Inoltre, venne anche stabilito il
principio del riservato ecclesiastico (reservatum ecclesiasticum), che poneva termine alla secolarizzazione dei
beni ecclesiastici, cioè il passaggio di proprietà dei benefici e dei terreni ecclesiastici al patrimonio personale del
vescovo o abate che passava al luteranesimo. Con il reservatum ecclesiasticum chi deteneva un beneficio
ecclesiastico vi doveva rinunciare se passato dalla fede cattolica a quella protestante dopo il 1552.

Con la pace di Augusta a tramontare non fu solo il sogno di un’unica monarchia universale, ma anche l’ideale
luterano di una Riforma universale che coinvolgesse tutta la Chiesa, in quanto si affermò invece il principio della
divisione e del particolarismo tipico dell’età moderna. Il riconoscimento del particolarismo si realizzò nel quadro
di una più moderna concezione della funzione del Sacro Romano Impero, il quale abbandonò definitivamente gli
schemi universalistici medievali: la pace Augustana diede ai prìncipi larga autonomia politica, riconoscendoli
come autentici rappresentanti della sovranità statale, e conferì un assetto federale all'Impero, in quanto esso
continuò ad esistere come unitaria realtà sovrastatale preposta alla salvaguardia della difesa verso l'esterno e della
pace interna. In definitiva, dopo Augusta tramontò per sempre l'idea di una Monarchia Universale estesa sull'intera
Cristianità. E la si può considerare come prima tappa del processo di formazione della Germania moderna,
proseguito e definito successivamente dalla pace di Westfalia del 1648.

Questi sviluppi determinarono una presa di coscienza di Carlo V, il quale decise di abdicare da tutte le sue corone
e di sistemare definitivamente il conflitto con la Francia: rinunciò in favore del figlio Filippo - ormai Filippo II
- alla corona di Spagna, con le relative dipendenze americane e italiane (gennaio 1556). Stipulò a Vaucelles con
Enrico II una tregua quinquennale che sostanzialmente lasciava immutata la situazione dei rispettivi domini e
zone di influenza (febbraio 1556) e infine rinunciò alla corona imperiale, la quale passò al fratello Ferdinando,
già re dei Romani, che divenne anche re di Boemia e Ungheria. Le due parti degli immensi domini di Carlo V non
si sarebbero mai più riunite e tutte queste decisioni sanzionarono la fine della sua am biziosa politica imperiale,
fallita nel tentativo di sanare la scissione religiosa tedesca e di instaurare quella monarchia universale di cui
abbiamo ampiamente discusso. Ritiratosi, egli morì il 21 settembre del 1558.

Nelle convulse vicende europee della metà degli anni 50 del '500, non bisogna tuttavia trascurare l'elezione del
nuovo pontefice Paolo IV (1555-59), personalità intransigente e autoritaria, promotrice dell'istituzione
dell'Inquisizione Romana. Sin dai primi tentativi di conciliazione fra l'Impero cattolico e i prìncipi protestanti, si
era sempre opposto ad essi (e quindi all'Impero), considerandoli piuttosto tentativi di incoraggiamento al
protestantesimo. Il nuovo pontefice poté far leva – prima della pacificazione di Augusta e della tregua di Vaucelles
e con la guerra di Siena ancora in corso – sulla volontà di Enrico II di mutare a suo favore la situazione italiana e
di riconquistarvi il Regno di Napoli per realizzare i progetti antispagnoli, stipulando un'alleanza nel dicembre
1555. Intanto, Paolo IV restituì il ducato di Parma ad Ottavio Farnese, e attaccò la famiglia Colonna - fedele
alleata della Spagna - nello stato Pontificio, privandola dei suoi possedimenti. A tale affronto dovette rispondere
il nuovo sovrano spagnolo Filippo II (sposatosi nel 1554 con la regina inglese Maria Tudor), il quale decise di
inviare una spedizione (al comando del Duca d'Alba e viceré di Napoli) dal Regno di Napoli per recuperare i
domini colonnesi. Ottavio Farnese passò dalla parte spagnola, recuperando così Piacenza, e costringendo il Papa
a firmare la temporanea tregua di Ostia (novembre 1556), subito interrotta (1557) dall'arrivo delle attese truppe
francesi.

Intanto il confronto si spostò nei Paesi Bassi: i francesi subirono una grande sconfitta nell'Artois (agosto 1557)
e, a fronte dell'appoggio militare dei Tudor agli Asburgo (poi svanito nel 1558, alla morte della regina), non
aspettavano altro che la stipulazione della Pace, e così anche Filippo II, il quale dovette fare i conti con le prime
bancarotte. Per di più, Enrico II ottenne la separazione dei domini asburgici e dovette iniziare a fare i conti con
gli sviluppi del Calvinismo in Patria - precursori delle future guerre di religione -.

Si giunse così alla pace di Cateau-Cambresis dell'aprile 1559 con la quale si stabilirono i rispettivi domini della
Spagna e della Francia in Europa e in Italia: la trattativa sancì l’annessione della città di Calais alla Francia, i
vescovati di Metz e Verdun. La Francia perse però il ducato di Savoia con il Piemonte che passò ad Emanuele
Filiberto e la Corsica. Sempre la Francia rinunciò alle proprie pretese sul Ducato di Milano e sul Napoletano. Per
quando riguarda la Spagna, quest’ultima annetté alcune piazzeforti senesi sul litorale tirrenico, le quali
congiuntamente costituirono il cosiddetto Stato dei presidi, mentre a Cosimo I de’ Medici venne riconosciuto il
possesso della città di Siena.

Capitolo 7 - Eterodossia e Controriforma in Italia

1 Vecchie e nuove eresie

Al congresso di Worms del 1521 Lutero e i suoi seguaci vennero accusati di essere diffusori un'eresia che si era
ramificata nel corso del Medioevo, il begardismo. Stessa accusa, anch'essa priva di fondamento dottrinale come
per Lutero, venne precedentemente rivolta a Savonarola per mandarlo al rogo. Questo stratagemma utilizzato
dalle autorità ecclesiastiche per giungere più rapidamente alla condanna è da connettere al fatto che, nonostante
il begardismo fosse stato già condannato nel 1311, al concilio di Vienne, esso sia sopravvissuto puntando sul
forte accento mistico e sulle verità dottrinali difficilmente assimilabili che lo contraddistinguevano, e che gli
hanno consentito di rimanere ai margini dei conflitti spirituali.

Il begardismo, poi trasformatosi nel Movimento del Libero Spirito, era sorto e si era diffuso principalmente
nelle aree fiamminghe e della Germania settentrionale, intorno al XIII secolo, in particolare nella componente
fiamminga. Esso era caratterizzato da un tratto fortemente ascetico e penitenziale, basandosi le sue pratiche sulla
mortificazione del corpo: questo percorso penitenziale avrebbe poi riportato l'anima del fedele a ricongiungersi
con Dio, nel c.d. Processo di Indiamento o di annihilamento in Dio. Una volta ricongiuntosi con l'entità divina, il
corpo del fedele poteva tornare a godere di qualsiasi forma di appagamento sessuale ed edonistico e, poiché
l'individuo esisteva direttamente in Dio, egli poteva d'ora in poi fare a meno di interpretare la Bibbia come fonte
di verità rivelata. Il testo cardine di questa eresia era Lo specchio delle anime semplici della “beghina” (eretica)
Margherita Porete, la quale morì al rogo dopo esser stata condannata al concilio di Vienne.

Le figure femminili assunsero un rilievo particolare nel corso del XV e nella prima parte del XVI secolo, in
quanto divennero protettrici dei contadini e dei ceti urbani più impoveriti dalle vicende belliche, i quali erano
diventati estremamente sensibili nei confronti delle profezie catastrofiche, delle predizioni di rovine e dei calcoli
astrologici che popolarono il comune sostrato di idee collettive di quel periodo.
A contribuire ad amplificare questo clima di incertezza che contraddistingueva i confini fra eresia e ortodossia
vi erano le poche certezze dogmatiche che soltanto dopo il Concilio di Trento poterono dirsi nettamente e
rigidamente stabilite.

Altra corrente eretica particolarmente florida risultò essere quella nata in Spagna negli anni 20' del 500 sotto il
nome di Alumbradismo. Caratteristica principale di questa dottrina era l'idea che solo una particolare
illuminazione divina (alumbramiento) potesse garantire una giusta lettura ed interpretazione delle Sacre
Scritture e (garantire) la convinzione che il totale abbandono in Dio permetteva una libertà interiore tale da
svincolarsi dall'osservanza di obblighi cerimoniali e rituali. La centralità dell'esperienza interiore di fede come
unico criterio di verità della rivelazione, favoriva lo sviluppo di un soggettivismo religioso tale da depotenziare
profondamente il ruolo delle autorità e delle istituzioni ecclesiastiche (come il Papa) nell'interpretazione Sacre
scritture. Per gli alumbrados un simile itinerario era percorribile soltanto da ristretti gruppi di iniziati, presso cui
si doveva essere introdotti per gradi e per gradi giungere a quelle consapevolezze esoteriche riservate a pochi
perfetti, fino alla scoperta di quei “segreti” divini che, come tali, non dovevano né potevano essere comunicati
ad altri se non tramite la individuale ripetizione del percorso mistico-spirituale.

Trovò vita facile il predicatore Juan de Valdes, quando, iniziò a catechizzare e ad introdurre i principi
dell'Alumbrandismo in Italia, nel clima di incertezza dogmatica e di sentimenti spiritualistici di cui godeva la
Penisola. E ancora più efficace fu la sua predicazione in seguito al Sacco di Roma del 1527 presso il quale
trovarono spiegazioni tutto quell'insieme di inquietudini religiose, attese profetiche e predizioni rovinose che
contrassegnavano il clima religioso culturale italiano.

2 Istanze di riforma e Ordini religiosi

Invocata da più fronti, agli inizi del '500 la Riforma religiosa della Chiesa non appariva più rimandabile, data la
deplorevole condizione in cui versava l'intera struttura ecclesiastica: i vescovi erano sempre più distaccati
dalle diocesi a cui venivano assegnati; gli Ordini religiosi godevano di anarchia nella predicazione popolana, in
quanto amministrando i sacramenti, e sfuggendo al controllo delle gerarchie ecclesiastiche, si erano ormai
sostituiti al Clero. Quest'ultimo conduceva una vita immorale, violando il divieto di sposarsi, mercificando e
abusando delle confessioni e vendendo i propri titoli religiosi. Gli stessi cardinali conducevano una vita sfrenata
e costosissima, erano sostenuti da vere e proprie corti e utilizzavano le rendite ecclesiastiche vitalizie di cui
godevano per aumentare il proprio potere e la propria ricchezza. Spesso la carriera ecclesiastica era solo un
modo per poter consentire a umanisti e letterati la prosecuzione della propria attività di studio, come nel caso del
celebre.

L’istituzione del Papa venne ridimensionata: egli poteva riscuotere le imposte del clero, emanare leggi valide
per l'intera Cristianità (le c.d. Bolle) e assegnare benefici ecclesiastici, ma erano i sovrani degli stati europei a
controllare e a guidare la nomina vescovile e cardinalizia, in modo da favorire l'elezione di un pontefice
“alleato” (diversa era la situazione in Italia, dove il papato non aveva concesso agli Stati la possibilità di
controllare le nomine vescovili). La stessa assegnazione dei benefici era corrotta: essi molte volte venivano
trasferiti in eredità o venduti in cambio di denaro, e oltremodo concentrati nelle mani dei cardinali più
importanti.

Fu dunque su questo sfondo che sempre più insistenti, in tutta Europa, si fecero gli appelli e le richieste di una
riforma che rinnovasse radicalmente la Chiesa, restituendole il senso più autentico della propria missione
spirituale.

In Francia, l’idea della riforma era penetrata in ogni ambiente, richiesta persino dagli Stati generali e auspicata
dalle Università.
In Spagna, fin dal regno di Isabella e Fernando, l’esigenza dell’unità religiosa contro l’Islam e contro gli ebrei,
incoraggiò sia la repressione dell’eresia sia tendenze alla riforma ecclesiastica.

In Italia, si manifestarono le prime esperienze riformatrici sponsorizzate da confraternite laiche, aperte però alla
partecipazione degli ecclesiastici: fra di esse, si distinse la fondazione (operata da tal Ettore Vernazza), prima a
Genova e poi a Roma, dell'Oratorio del Divino Amore, al quale parteciparono ecclesiastici difensori
dell'ortodossia cattolica e del primato pontificio, ma allo stesso tempo riformisti, in quanto riconoscevano lo
stato di disordine e degrado in cui versava la Chiesa. Fra di essi si distinse il cardinale Gian Pietro Carafa (il
futuro Paolo IV, dal 1555 al 1559), il quale diede prova della sua azione partecipante all'Oratorio dando vita
all'Ordine dei Teatini (1524; Carafa era vescovo di Chieti → chietini, che erano chiamati anche teatini).
Le istanze di riforma presentate alla Chiesa durante i Pontificati di Giulio II (1503-13) e Leone X (1513-1521)
erano state respinte, mentre maggior fortuna ebbero sotto il breve pontificato di Adriano VI (1522- 23), seguace
dei dettami di Erasmo.
Tuttavia, con Clemente VII (1523-34), si ebbe un ritorno al conservatorismo e all'incremento del potere
temporale dei Papi. Ma proprio in questo pontificato si assistette all'esperienza traumatizzante del Sacco di
Roma (1527), che fece maturare nuove spinte e consapevolezze non solo tra chi si avviava ad aderire al
Protestantesimo, ma anche tra coloro che rimasero saldamente ancorati alla difesa della fede cattolica. Queste
spinte riformatrici si concretizzarono durante il pontificato di Paolo III, e nell'azione di alcuni tra gli esponenti
più in vista del riformismo religioso, tra cui figurò Gian Matteo Giberti, vescovo di Verona che riuscì a fuggire
al sacco e a ritirarsi nella sua diocesi, dove riunì un ristretto gruppo di riformisti e iniziò un’opera di riforma
morale e disciplinare.

Istanze di riforma si realizzarono anche all'interno degli Ordini religiosi:


● tra i Benedettini erano già nate all'inizio del '500 delle congregazioni riformate che avevano favorito
la ripresa delle attività prettamente spirituali ed educative;
● all'interno degli ordini Francescano e Domenicano si contrapposero 2 fazioni: 1) gli osservanti, ossia i
sostenitori della regola della povertà nella sua integrità; 2) i conventuali, che invece trasgredivano
frequentemente alla suddetta regola;
● dai Francescani osservanti si staccarono poi i Cappuccini, con l'intenzione di voler restaurare nella sua
purezza l'ideale di San Francesco: il perseguimento della povertà totale era unito alla predicazione
attiva, di stampo locale;
● a questi ordini religiosi, e oltre ai Teatini, si aggiunsero nuove fondazioni, fra cui: Barnabiti; Somaschi;
Camillini; Gesuiti.
In particolare quest’ultimi vennero alla luce dall'attività del loro fondatore, Ignazio di Loyola. Nato nei Paesi
Baschi, intraprese sin da subito la carriera militare, che lo rese zoppo per lungo tempo. Durante la convalescenza
visse una profonda esperienza mistica che lo spinse alla vita religiosa. Nel 1527 fugge dalla Spagna, sospettato
di essere un fedele alumbrados, e si rifugia a Parigi, dove nel 1534 fonda l'ordine (che venne poi formalmente
riconosciuto da Papa Paolo III nel 1540). Ignazio, nel ricordo della sua esperienza militare, impresse alla
Compagnia di Gesù un carattere fortemente disciplinato e rigoroso, connesso alla pratica di una religiosità
militante e fatta di esercizi spirituali: essi consistevano nella contemplazione, da parte di ogni militante
dell'ordine, dell'ascesi spirituale che conduce all'estraniazione del mondo e alla vicinanza psichica con Dio.
Conseguenza di questa esperienza psichica ed esistenziale era l'intervento attivo nel mondo secolare, come
strumenti di Dio. L'organizzazione inoltre era fortemente gerarchizzata e devota al Pontefice, tanto che non tutti
potevano entrare a farne parte, e bisognava superare severe prove di ammissione. Questi elementi costituirono
gli ingredienti per formare una milizia combattiva e preparata capace di praticare un apostolato in vari settori
della società e di divenire poi uno dei cardini della Controriforma. I gesuiti riuscirono ad espandersi rapidamente
in tutta Europa.
Decisiva fu la loro azione anche nelle Università, cui fornirono nuovi organizzativi degli studi con l’esempio dei
collegi gesuitici, presto moltiplicatisi e il cui centro fu il Collegio Romano istituito nel 1551 a Roma.

3 Un bivio emblematico: Gian Pietro Carafa e Juan de Valdés

Espressione esemplare dell'intransigenza ortodossa fu la figura del cardinale Gian Pietro Carafa, futuro Papa
Paolo IV. Anch'egli (come Giberti) era fuggito dal sacco di Roma e si era rifugiato a Venezia, dove poté
dedicarsi alla creazione di un opera nella quale ribadiva il suo pensiero riassumibile nei seguenti punti:

o certezza dogmatica delle dottrine cattoliche;

o primato autoritario del Pontefice e della Sede Apostolica;

o l'azione di ripresa di credibilità e forza dell'istituzione ecclesiastica, condotta attraverso la lotta spietata alla
“peste” luterana e il rifiuto di ogni accordo con i protestanti, e la realizzazione di una serie di riforme dirette a
ridefinire i compiti e le funzioni della curia romana, restituendo autorità ai vescovi e al papato, istruendo il
clero e organizzando un Ordine religioso a forte influenza militare.

Il Carafa legava indissolubilmente, come due facce della stessa medaglia, la necessità di reprimere l’eresia e
l’urgenza di una profonda riforma delle istituzioni ecclesiastiche, il cui stato di corruzione, discredito e
impotenza veniva riconosciuto come principale causa di un dissenso religioso che andava di conseguenza
combattuto non solo con la repressione e il controllo dottrinale, ma anche con un progetto di riforme di vasta
portata. Il Carafa stabiliva dunque un nesso tra riforma e lotta all’eresia che coinvolgeva la difesa di tutti gli
aspetti del potere ecclesiastico, compreso quello temporale.

È evidente che una simile visione era opposta alla politica di conciliazione di Carlo V nei confronti della
Riforma luterana. Di qui la scelta antiasburgica del cardinale e poi Papa Paolo IV, pienamente manifestata nel
suo sostegno politico alla rivolta del 1547 contro l’Introduzione dell’Inquisizione spagnola a Napoli, dove era
arcivescovo nel 1542, e poi nella quella contro la Spagna da pontefice nel 1556.

Insieme al Contarini, il cardinal Carafa lavorò alle commissioni di riforma istituiti da Paolo III prima della
convocazione ufficiale del Concilio a Trento, e i due cardinali pubblicarono un documento molto significativo
(Consilium de emendanda ecclesia, 1537) che elencava per la prima volta, e ufficialmente, tutti i mali della
Chiesa e i rimedi agli stessi. Se tuttavia, di fronte al conservatorismo curiale, il Carafa poteva trovare un
compromesso con il, Contarini nel comune obiettivo di ottenere concreti risultati per la riforma della Chiesa, di
lì a poco le loro posizioni erano destinate a divergere. La frattura divenne inevitabile durante i colloqui
religiosi di Ratisbona nel 1541 dove fu proprio l'ala intransigente capeggiata dal Carafa a provocare il
fallimento della linea moderata perseguita dal Contarini nel rapporto con i Protestanti, linea appoggiata
dall'attuale Papa Paolo III, il quale voleva dimostrare che non era necessaria la convocazione del Concilio tanto
temuto (in quanto i protestanti riuniti avrebbero messo in discussione l'autorità papale) per procedere alla
riforma della Chiesa cattolica.

Riferimento della riforma “moderata” nel Regno di Napoli, era l'esule spagnolo Juan de Valdés, il quale, come
Ignazio di Loyola, era stato accusato in patria di essere un fautore della dottrina Alubrandista. Rifugiatosi nella
capitale del regno fino alla morte, avvenuta nel 1541, condivideva la dottrina luterana della giustificazione ex
sola fide e l'idea pessimistica della peccato mortale, connessa alla svalutazione delle opere umane.
Tuttavia, non screditava la lettura delle Sacre scritture e l'esperienza individuale di fede, sottolineava come
vigesse una sorta di gradualismo esoterico in base al quale si distinguevano diversi livelli di appartenenza alla
Chiesa, strutturata gerarchicamente.
Valdés era divenuto a Napoli un riferimento per chi, pur non aderendo intimamente, in tutto o in parte, a dottrine
non ortodosse, non voleva o non poteva abbandonare la Chiesa cattolica.
A raccogliere la sua eredità spirituale dopo la morte e a diffonderne ulteriormente il messaggio fu il cardinal
Pole, il quale perpetuò l'opera di approfondimento teologico e di cauta propaganda diretta a incanalare un
dissenso religioso italiano assai radicale e a ricomporre la scissione religiosa europea recependo i punti dottrinali
essenziali della Riforma senza provocare però irrimediabili rotture dottrinali.

4 L’inquisizione romana

Il fallimento dei colloqui religiosi di Ratisbona del 1541 aveva provocato il declino della figura del Contarini,
accusato al ritorno in Italia addirittura di essere passato “dall'altro lato della barricata”, e di essere luterano lui
stesso – accuse chiaramente non veritiere.

Le preoccupazioni degli intransigenti ortodossi quindi si rivolgevano , da un lato, alla propaganda riformistica
moderata operata dagli eredi di Valdés a Napoli, ossia Pole, Marcantonio Flaminio, Pietro Carnesecchi e
Giovanni Morone.

Dall'altro lato, queste preoccupazione si concentravano sulla pericolosa diffusione sociale del protestantesimo
in ampi strati della popolazione, soprattutto nelle regioni di confine della Penisola, che si attuava attraverso la
distribuzione di pamphlets satirici, illustrazioni e giornali propagandistici che incentivavano la discussione su
questi temi religiosi. Ora gli strati più umili della società potevano leggere le traduzioni in volgare della Sacra
Scrittura postillate dal commento e comprensibile di carattere protestante.

Due fra i più celebri predicatori popolari del '500 furono Pietro Vermigli e Bernardino Ochino, vicario generale
dei cappuccini. Entrambi abbracciarono il valdesianesimo, diffondendolo in tutta Italia. Nonostante la
moderazione della dottrina, essa non faceva cenno all'apparato devozionale e ai culti (culto di Maria, dei Sant i
ecc.) che costituivano una parte essenziale dell'insegnamento e delle pratiche della Chiesa Romana, per cui
arrivarono le prime condanne (anche da parte dei Teatini del Carafa).

Così nel 1542 le ultime resistenze moderate vennero superate e Paolo III si decise a istituire il Tribunale
romano del Sant'ufficio, ripristinando e riorganizzando, con la bolla Licet ab initio del 1542, l'Inquisizione
medievale (da non confondere con l'Inquisizione Spagnola) che venne affidata a sei cardinali c.d. inquisitori,
fra cui vi erano il Carafa, Juan Alvarez de Toledo e il maestro del Sacro Palazzo Tommaso Badia.

Vennero poi costruiti tribunali periferici e creata una fitta rete di informatori che avevano il compito di
comunicare ai cardinali le persone “sospette”. Concretamente, l'Inquisizione romana agì efficacemente nella
sola Italia, in quanto negli altri stati dovette fare i conti con le resistenze giurisdizionali delle burocrazie
episcopali e con la presenza di simili istituzioni (es: Spagna e Inquisizione spagnola – anche se nei domini
spagnoli in Italia, l’Inquisizione spagnola operò solo nei viceregni di Sicilia e Sardegna, mentre nel viceregno di
Napoli e nello Stato di Milano operò quella romana). I procedimenti di accusa del sospettato potevano avere
inizio d'ufficio, oppure tramite denuncia non anonima. I tribunali periferici dovevano annotare l'avvio dell'iter
processuale e rinviarlo in Giudizio a Roma, se ritenuto necessario. La prima volta che l'imputato veniva
condannato la pena era perlopiù ammonitoria o patrimoniale; la seconda volta, trattandosi di relapso, ricaduta in
errore dopo l'ammonizione, le pene erano più gravi e potevano arrivare alla condanna a morte del sospettato
eretico. Infine, alla condanna dell'imputato seguiva l'esproprio dei suoi beni.

5 Concilio, dissenso radicale, nicodemismo

La conclusione fallimentare dei colloqui di religione di Ratisbona determinò la fase operativa della
Convocazione del Concilio. Un concilio che secondo le volontà dei cattolici in seno al Vaticano avrebbe dovuto
concludersi con la sanzione definitiva del Protestantesimo. Paolo III lo indisse a Trento (assecondando in questo
caso il volere di Carlo V) il 22 maggio 1542 con la bolla Initio nostri huius pontificatus. In ottobre nominava
legati conciliari tre cardinali: Paolo Parisio, Reginald Pole (nonostante le voce e i sospetti che lo reputavano
colpevole di eterodossia valdesiana) e Giovanni Morone. Da questo gruppo partì un robusto programma
editoriale, che comprendeva spiegazioni, commenti e note riguardo i punti fondamentali di contrasto fra cattolici
e protestanti. Tuttavia, il clima religioso si era notevolmente deteriorato con la riorganizzazione dell'Inquisizione
romana e la morte dei due più grandi esponenti dei “moderati” cattolici, Contarini e Giberti, morti nel 1542-43.

La prima riunione ufficiale del Concilio si ebbe nel maggio 1543, alla quale però presenziarono solo una
decina di vescovi. Esso fu poi sospeso diverse volte, in occasione della guerra tra Francia e Impero (risoltasi
poi con la pace di Crépy del settembre 1544), e fu poi inaugurato solennemente nel dicembre 1545.

Dopo aver definito le prime questioni organizzative, e sul diritto di voto, alla IV sessione del Concilio
(febbraio-marzo '46) iniziarono i dibattiti teologici veri e propri: i cattolici respinsero e condannarono la tesi
luterana, affermando che fonte di verità rivelata fosse solo la Sacra scrittura e non la tradizione.

Nella V sessione fu condannata l'idea del peccato originale come corruzione radicale della natura umana e
nella VI sessione si arrivò a discutere della giustificazione ex sola fide: esso rappresentava il punto di maggior
frattura tra le due confessioni.

Infine, nella VII sessione si ribadì la dottrina generale dei sacramenti, ritenuti inviolabili e irriducibili, in
quanto istituiti da Gesù Cristo stesso.

Il concilio divenne un luogo di incontri per un numero considerevoli di monaci, visionari, mistici ecc., ognuno
con la propria idea da proporre, unendo tutti questi individui all'interno di un idealismo radicale, che
gradualmente pervase tutto il Concilio.
A questo fenomeno se ne aggiunse un altro che concerneva le fughe, dell’esilio “religionis causa” più o meno
volontariamente scelto, per andare in terre protestanti e confessarvi manifestamente e liberamente la nuova
religione. L'alternativa alla fuga era la testimonianza pubblica della nuova fede, che avveniva continuando a
sostenere e a commentare gli scritti di Lutero, Melantone, Erasmo, Ochino, il che la maggior parte delle volte
portava alla condanna a morte.
Un'altra via d'uscita a questa drammatica alternativa era la pratica nicodemitica, che si espletava nella
simulazione e dissimulazione religiosa tesa a nascondere la propria vera confessione di fede attraverso
l'adesione puramente formale ed esteriore al cattolicesimo.

Il termine derivava da Nicodemo, uno dei capi dei Giudei, che secondo quanto narrato dal Vangelo di
Giovanni, andava nascostamente da Gesù di notte, per istruirsi sul regno di Dio e sulle condizioni per
accedervi. Sull’argomento e sulla liceità o meno della dissimulazione si discusse a partire dall' intervento
dell'apostolo Paolo che giudicò scandaloso il comportamento di Pietro che aveva simulato la fede ebraica per
giustificare poi il passaggio al Cristianesimo (Lettera ai Galati).

Calvino invece occupò una posizione intransigente per quanto riguarda il nicodemismo: egli aveva già
attaccato chi viveva la propria fede solo nel segreto della coscienza e chi accettava il sacerdozio nella Chiesa
cattolica col fine di propagare il “vero” Vangelo, individuando la radice di questi atteggiamenti simulatori nella
ricerca di una impossibile conciliazione interconfessionale. Individuò tre generi di simulatori:

1) Nicodemiti veri e propri , o c.d. Cripto-riformati, i quali erano i più pavidi e volevano sfuggire alle
persecuzioni dell’Inquisizione Romana;

2) Libertini, essi al contrario dei primi attuavano una simulazione religiosa non tanto per sfuggire alle
persecuzioni (come i primi), ma perché convinti della propria superiorità spirituale interiore;
3) Epicurei, i più pericolosi in quanto non rinnegavano una confessione per praticarne un'altra nascosto, bensì
nell'intimità erano profondamente atei, prescindendo totalmente dalla religione.
Questa severa disamina calvinista sull'argomento ovviamente mise in difficoltà tutti i filo-protestanti italiani
che non optarono per la fuga, speranzosi ancora di poter realizzare la conciliazione interconfessionale tanto
auspicata dallo stesso imperatore Carlo V. Tuttavia, sorse una nuova spiegazione e sistematizzazione dottrinale
che, in un certo senso, scongiurava il pericolo nicodemitico: l'idea, tipicamente Alumbrandista, che vi siano
due livelli di verità accessibili dai fedeli: il 1° livello, quello costituito dalle più alte verità esoteriche e di
difficile interpretazione, accessibile soltanto dagli eletti della fede, gli illuminati o perfetti; il 2° livello, invece,
costituito da una verità accessibile dalla maggior parte dei fedeli.
Cadeva così la stessa accusa di Nicodemismo, poiché non si poteva parlare di simulazione, in quanto le
esoteriche consapevolezze raggiunte dai perfetti non potevano essere neppure comunicate alla massa dei fedeli
che non le avrebbero comprese in quanto non illuminati dalla pura verità. Da ciò se ne deduceva che coloro che
erano considerati eletti potessero continuamente interpretare i testi delle Sacre Scritture, in base ai progressi
dell'illuminazione divina (essa costituiva una posizione valdesiana in netto contrasto con l'affermazione
luterana dell'unicità dei testi sacri come fonte di verità e con l'accusa stessa di nicodemismo, avanzata da
Calvino).
La strategia nicodemitica era intensamente messa in atto in Italia per sfuggire dagli attacchi degli inquisitori
romani, rispetto agli emigrati d'oltralpe che si distinsero invece per aver continuato a cercare quel
compromesso religioso scontrandosi con l'intransigenza delle chiese calviniste.

Intanto il Concilio era stato nuovamente sospeso a seguito dei contrasti fra l'Imperatore e Paolo III.
Quest'ultimo morì nel novembre 1549 e sembrava che prossimo eletto al trono di San Pietro sarebbe stato il
tanto odiato (dall'Inquisizione) Reginald Pole: tuttavia la documentazione accusatoria portata in Concilio dal
Cardinal Carafa ne bloccò l'elezione: venne eletto Giulio III e i lavori vennero ripresi nel maggio 1551.

Sorsero peraltro dei contrasti fra l'Inquisizione e il nuovo Papa, il quale non faceva parte dei fautori della sua
riorganizzazione, e soprattutto aveva impedito il processo ai danni, prima del Vescovo di Bergamo, Vittore
Soranzo e poi del Cardinal Morone. L'opera dell'Inquisizione mostra come ormai essa si fosse assunta il
compito di filtrare e formare la nuova classe dirigente ecclesiastica, dopo decenni di lassismo dottrinale e
morale.

6 Riforme con e senza Concilio

Nonostante i conflitti con l'Inquisizione, come abbiamo visto, i lavori del concilio ripartirono nel maggio 1551,
con Giulio III. Ai problemi interni ai lavori conciliari s’erano d’improvviso aggiunti quelli tra Santa Sede e
Impero all’indomani di un vescovo a Trento: si sospetta un’epidemia. A Giulio III, nonostante il dissenso
dell’Imperatore toccò spostare il Concilio da Trento a Bologna.

Nella XIII sessione (settembre 1551) gli esponenti delle due fedi si scontrarono sul tema dell'eucarestia. Fu
distribuito un elenco degli articoli di Lutero in proposito, si ascoltarono i primi interventi di grande spessore
teologico dei gesuiti, e infine venne riaffermata la dottrina tradizionale della presenza reale e corporea di Cristo
nelle specie eucaristiche e loro relativa trasformazione (“transustanziazione”) con approvazione del culto e
venerazione del “Santissimo Sacramento”. A questo decreto dogmatico s’aggiunse quello concernente
l’ampliamento delle autorità giurisdizionali dei vescovi, contro le cui sentenze non fu più consentito ricorso.

Dall'inizio di novembre parteciparono per la prima ed unica volta anche alcuni rappresentanti delle confessioni
protestanti, che cercarono di imporre la ridiscussione dei decreti fin allora approvati e ribadirono la superiorità
delle scelte del Concilio sull'autorità papale; nondimeno questi pareri resero immediatamente ostili i padri
conciliari e vanificarono la presentazione delle loro confessioni di fede.

Nell'aprile 1552 la ripresa dello scontro franco-asburgico comportò il ritorno dei vescovi protestanti in patria e
la sospensione del concilio. La guerra si perpetuò fino al 1555, anno in cui morì Giulio III e venne eletto Paolo
IV Carafa, il quale non riponendo fiducia nell'assemblea conciliare, si dedicò alla riorganizzazione degli
apparati repressivi, come l'Inquisizione: il Santo Ufficio venne potenziato, sia per i componenti sia per le
competenze. Sotto la giurisdizione inquisitoriale caddero i casi di corruzione e di abusi ecclesiastici come il
cumulo di benefici (eresia simoniaca) e si attuò un controllo severo che si estese, dall'ambito religioso e
dottrinale, anche all'ambito politico e amministrativo.

Vennero presi importanti provvedimenti anche contro i marrani (gli ebrei convertiti) – consapevole che gran
parte delle conversioni erano solo apparenti- e soprattutto gli ebrei stessi, per i quali fu rovesciato il
tradizionale atteggiamento di tolleranza adottato dal papato nei secoli precedenti, in quanto da questi la Santa
Sede riceveva cospicui contributi di denaro: venne istituito il ghetto ebraico a Roma (luglio 1555), imponendo
al contempo una serie di obblighi: divieto di possedere beni immobili, proibizione delle attività commerciali,
riduzione del tasso di interessi, ecc.

Dal punto di vista burocratico, sullo stampo di un profondo rinnovamento istituzionale, il Papa prese diverse
decisioni: revisione delle procedure per l'assegnazione delle diocesi; riforma disciplinare dei conventi e dei
monasteri; riforma della Dataria (l'organo finanziario della Curia, affidata ad esperti inquisitori); convocazione
di una Congregazione che si sarebbe occupata della riforma ecclesiastica.

Un unico tentativo (fra l’altro fittizio) di far ripartire i lavori conciliari fu tentato da Paolo IV in funzione anti-
asburgica (affermazione quantomai paradossale, in quanto si potrà ricordare che più e più volte fu Carlo V a
richiedere la convocazione del Concilio, all'inizio della questione religiosa). Lanciando l'iniziativa di una
prossima convocazione assembleare, il Papa avrebbe tranquillizzato il re spagnolo Filippo II dando nel
contempo respiro al re francese Enrico II, alleato proprio con la Santa Sede. La convocazione però non fu mai
resa effettiva.

Piuttosto effettiva fu invece l'azione inquisitoriale eseguita ai danni della corrente filo-asburgica del collegio
cardinalizio costituita dal cardinale Pole e dal Cardinal Morone, che fu arrestato nel maggio 1557, nel pieno
dello scontro con la Spagna, seguita poi dall'accusa lanciata dal Papa nei confronti del cardinale inglese, che
intanto era tornato in terra inglese per proseguire nella restaurazione cattolica della Regina Maria Tudor. Nel
1558, però, morivano sia la regina che il cardinale.

7 Controtendenze e stabilizzazione

Con l'elezione di Pio IV (1559-65), di natura cordiale e vivace, l'Inquisizione subì una grande sconfitta
politica: tutti gli ecclesiastici che avevano dovuto subire processi e condanne, vennero riabilitati senza alcun
riguardo verso le “prove” pendenti a loro carico; fra di essi, vi era lo stesso Cardinal Morone, che ricoprì
nuovamente incarichi di prestigio di fianco al nuovo Papa. Appena eletto, Pio IV volle porre fine alle critiche
scagliate contro l' Indice dei libri proibiti e ne fornì una versione più moderata: la Moderatio Indicis, che
venne poi completata nel corso dell'ultima convocazione del Concilio.

Una caratteristica di questo pontificato fu il ricorrere abitale alla pratica del nepotismo: Pio IV concentrò in
Carlo Borromeo, figlio di una sua sorella, un cumulo di cariche, onori e benefici mai visto prima, nominandolo
Cardinale a 22 anni e offrendogli anche la Segreteria dello Stato pontificio. Venne messa in atto la liquidazione
(uccisione) degli esponenti della famiglia Carafa: due dei tre nipoti del precedente Papa vennero condannati a
morte nel marzo 1561.

Mentre nel gennaio dello stesso anno venne riaperto il concilio a Trento. In questa nuova sessione si discusse
di 2 temi principali: la residenza dei vescovi e soprattutto la definizione del rapporto tra autorità pontificia e
conciliare: nel luglio 1563 fu votato un decreto che definiva i vescovi come succeduti al luogo degli apostoli e
posti dallo Spirito Santo a reggere la Chiesa di Dio, per cui non si parlava di diritto divino, ma
sostanzialmente lo era. Ai vescovi inoltre furono imposti degli obblighi pastorali e canonici come le visite
periodiche a Roma, cura e istruzione del clero locale e l'obbligo di residenza in diocesi.

Venne poi ribadita l'idea della superiorità del primato pontificio sull'autorità conciliare - in quanto si sancì
l'obbedienza dei vescovi al pontefice -, il riconoscimento della validità dei decreti conciliari con riserva dei
diritti della Santa sede e, infine, la conferma formale di detti decreti con l'approvazione papale.

L'edizione ufficiale dei decreti del concilio tridentino (i cui lavori terminarono alla fine del 1563) venne
ufficializzata dalla bolla papale Benedictus Deus del 30 giugno 1564. L'anno dopo seguì la costituzione di
un'apposita Congregazione del Concilio e l'istituzione del Catechismo Romano (1566) il quale costituì la nuova
struttura funzionale, cui spettava l’interpretazione e l’applicazione dei decreti.
Intanto nel marzo 1564 venne pubblicato, come già accennato, un nuovo testo censorio, riformato e più
moderato rispetto all'Indice originario: risultavano vietate circa 80 opere in meno e fra di esse molte vennero
“ripulite” dei termini più “pericolosi” per l'autorità della Chiesa. Ma nel complesso, questo intervento apportò
un danno paradossalmente ancor più grave, perché portò alla mutilazione o contraffazione di capolavori della
letteratura europea (ad esempio, i frati e suore del Decamerone di Boccaccio vennero sostituiti da messeri e
madame).

Nel gennaio 1566 venne eletto Papa Pio V (morto nel maggio 1572), capo dell'Inquisizione romana, la sua
elezione venne salutata negativamente come la resurrezione di Paolo IV: pose subito mano ai processi
inquisitoriali che Pio IV aveva voluto chiudere, fra i quali quelli del Morone e di Pietro Carnesecchi
(condannato a morte ed esecutato il 1 ottobre 1567); vennero inoltre riabilitati i nipoti di Paolo IV. Sistemate
queste pratiche, Pio V poté dedicarsi all'opera di ricomposizione politica-religiosa inaugurata da Paolo IV (dal
punto di vista religioso) e poi da Pio IV ( dal punto di vista politico): riproposizione energica dell'attività
inquisitoriale e della Controriforma, e perseguimento di una politica filo-asburgica e, in Italia, filo-medicea:

1) dal punto di vista politico grande impatto ebbe la costituzione della lega anti-turca sfociata poi nella
vittoriosa battaglia di Lepanto e l'invio di truppe in Francia nel corso delle guerre di religione – con Pio V si
può dire che la Controriforma avrebbe finalmente avuto un indirizzo unitario -;

2) dal punto di vista religioso quella “Riformata” era ormai una Chiesa dottrinalmente monolitica,
gerarchicamente strutturata e salda: venne impresso grande fervore all'attività missionaria, la quale ebbe grande
impulso a seguito delle scoperte geografiche in tutto il mondo, con l'Ordine dei Gesuiti in primis nell'attività
evangelizzatrice (da ricordare è l'opera missionaria condotta dallo spagnolo gesuita Francesco Saverio, che
cristianizzò le terre dell'estremo oriente, Giappone e Cina). Dopo oltre settant’anni di indefessa attività
missionaria, la Chiesa romana per centralizzare, organizzare e far meglio fronte a tante relative necessità ed
esigenze, istituiva nel 1622 la Congregazione di “Propaganda Fide”.

Mentre alcuni gesuiti andavano in missione nel mondo, altri (assieme ad esponenti dell’Ordine francescano-
cappuccino) andavano in missione nelle plaghe più desolate d’Italia. Centrale risultò anche la rinascita di
confraternite laiche di tradizione medievale dedite ad attività caritativo-assistenziale sotto la direzione
spirituale di ecclesiastici, di cui un esempio particolare è la Confraternita oratoriana fondata dal fiorentino San
Filippo Neri , ed inoltre si diffuse la necessità di far fronte al fenomeno della povertà degli strati sociali più
bassi; tutto concorreva quindi a indirizzarsi verso una centralizzazione di un vero e proprio sistema di
assistenza sociale dell'Età moderna.

Capitolo 8 - Le nuove potenze protestanti e la Spagna cattolica

1 L’Inghilterra dei Tudor: progressi dell’assolutismo e scelte religiose

L’Inghilterra ai primi del ‘500 divenne una realtà di secondo ordine.

Sconfitto il feudalesimo, i Tudor avevano condotto una politica di unificazione nazionale. L’aristocrazia inglese
non costituì un ostacolo ai processi di consolidamento dell’assolutismo tudoriano. I suoi strati più alti, colpiti nel
‘500 dall’inflazione, dipesero sempre di più dal sovrano a causa della politica regia di attirarli a corte mediante
la concessione di incarichi prestigiosi.

Ma il vero sostegno all’assolutismo monarchico venne, almeno fino agli anni ’40, dal ceto in ascesa dei
proprietari fondiari (la gentry), che comprendeva strati sociali di condizione assai diversa.
Al di sotto della gentry si collocavano i grandi mercanti altrettanto interessati a sostenere lo sviluppo
dell’assolutismo dei Tudor, nel quale vedevano un fattore di stabilizzazione dell’ordine interno.

A considerare la monarchia come protettrice stava anche una vasta classe media composta dai piccoli mercanti e
dai contadini indipendenti.
La monarchia fu costretta ad appoggiarsi in particolare alla gentry. Soprattutto Enrico VIII divenne un alleato
della piccola nobiltà di campagna.

In genere appannaggio dei lords, fu invece l’amministrazione centrale dello Stato, di cui il settore più
consistente era lo Scacchiere (da iniziali competenze giudiziarie a competenze di esazione e verifica fiscale).
Accanto allo Scacchiere si collocava la Cancelleria (presieduta da Lord Cancelliere e con funzioni giudiziarie).
L’amministrazione della giustizia era esercitata attraverso la Common Law (diritto consuetudinario fondato
sulle sentenze dei giudici).
Al vertice del sistema giudiziario si collocava la Star Chamber (Camera Stellata), ossia la sezione del Consiglio
privato del re incaricata di giudicare i reati contro le prerogative regie. Anche la Star Chamber non seguiva le
norme della Common Law. Il consiglio privato (Privy Council) rivestiva un ruolo di assoluto rilievo politico
poiché i suoi membri (Lord Cancelliere, Lord tesoriere e pochi altri aristocratici) coadiuvavano il re nell’attività
di governo.

Il crescente potere della corona trovò tuttavia un contrappeso nel Parlamento. I lords e soprattutto la gentry si
contrapposero ai Tudor ogniqualvolta si trattava di salvaguardare i propri interessi; né il re poteva ignorare le
istanze politiche dei ceti presenti in parlamento, né questi potevano e volevano fare a meno delle garanzie
offerte dal potere regio.

Diviso in due camere – quella del lord, composta da lords ecclesiastici (arcivescovi, vescovi e abati) e laici tra i
membri delle famiglie aristocratiche, e quella dei Comuni, che comprendeva i deputati eletti nelle contee e nelle
città, il parlamento aveva ottenuto vantaggi dallo scisma anglicano: riuscì allora a radunarsi consecutivamente
per sette anni, mutando la composizione a vantaggio dei membri laici e aumentando il numero dei deputati della
Camera dei Comuni.

D’altronde le convocazioni parlamentari erano obbligatorie ogniqualvolta il sovrano doveva fissare nuove
imposte. Questo era anche il vincolo maggiore per il sovrano.
Le entrate statali derivavano dal reddito delle terre della corona, ma l’ascesa dei prezzi rese sempre meno
remunerativi questi cespiti. Si fece quindi leva sui dazi doganali.
Le finanze regie erano poi rimpinguate dalla cosiddetta “fiscalità feudale” infatti il feudalesimo aveva lasciato a
crico dei signori una serie di obblighi giuridici che la corona aveva trasformato in obblighi fiscali.
Enrico VIII aveva tratto notevoli vantaggi dall’introduzione dello scisma anglicano, soprattutto grazie agli
introiti derivanti dalla riscossione delle decime ecclesiastiche.

Realizzata da Thomas Cromwell, la riforma dell’amministrazione centrale segnò un ulteriore rinvigorimento


dell'assolutismo monarchico.

Un momento rilevante di questa politica fu nel 1536 l’assoggettamento forzato del Galles alle istituzioni e al
diritto inglese.

Altrettanto si fece in Irlanda, dove radicata era l’ostilità antinglese. Fondando i loro diritti su una bolla papale
del 1169, i sovrani inglesi avevano suddiviso dal 1366 l’isola in una parte orientale sotto il diretto controllo (“la
terra inglese” o Pale) ed una occidentale lasciata alle antiche famiglie gaeliche o normanne, dove si riuniva un
Parlamento irlandese e dove risiedeva un governatore (Lord Deputy) nominato dal re d’Inghilterra.

I problemi che gli inglesi ebbero col regno di Scozia furono complessi. Qui le grandi famiglie feudali avevano
condizionato il potere tramite rivolte e congiure guidate dai clan di origine celtica.
Faceva tuttavia da contrappeso la solida organizzazione della chiesa scozzese. Tuttavia questa funzione della
chiesa cominciò ad incrinarsi in seguito alla diffusione delle idee protestanti.
Sicché, quando venne meno l’unità religiosa, la Scozia entrò in una fase di disordini.

Alla morte di Giacomo V, gli successo la figlia minorenne Maria Stuart. La reggenza quindi venne presa dalla
madre Maria di Lorena, che vedeva negli inglesi nemici i nuovi eretici. Tuttavia, alla morte sul rogo del
riformatore calvinista George Wishart, l’aristocrazia chiamò a predicare il futuro artefice della riforma scozzese,
John Knox.

Tuttavia la vittoria del partito francofilo scozzese permise a Maria di Lorena di concludere il matrimonio della
figlia con il delfino del re francese, un anno dopo che in Inghilterra era salito al trono il minorenne Edoardo VI
(frutto del matrimonio tra Enrico VIII e Jane Seymour).
Fu allora che s’innestò una politica religiosa che mutò radicalmente gli equilibri raggiunti nella Chiesa anglicana
al tempo di Enrico VIII.

Convinto sostenitore di un protestantesimo moderato infatti, il Somerset introdusse riforme religiose di vasta
portata: effetto di queste prime misure fu l’arrivo in Inghilterra di un gran numero di protestanti perseguitati nei
loro paesi d’origine.

A tutto questo si era aggiunto il fenomeno inglese delle enclosures. Queste sono autorizzazioni concesse ai
proprietari terrieri per recintare i campi per destinarli all’allevamento ovino, facendo così perdere ai lavoratori
giornalieri e ai cosiddetti cottagers (braccianti in possesso soltanto delle loro abitazioni) i diritti di pascolo e di
uso delle terre comuni.

Nel 1552, l’approvazione di un nuovo Prayer Book, cui avevano lavorato Bucero e Vermigli, edulcorò tutto ciò
che poteva ricordare la dottrina cattolica ed anche quella luterana del sacrificio eucaristico. Lo stesso anno
Cranmer, aiutato da Vermigli e John Knox, fu in grado di presentare i 42 articoli, una serie di principi teologici
che univano insieme reminiscenze cattoliche, luterane e Zwingliano-calviniste.

Questa trasformazione dell’originario anglicanesimo in una forma riforma dottrinale di stampo dichiaratamente
protestante, coagulò per la prima volta una consistente opposizione cattolica attorno all’erede al trono Maria
Tudor, rimasta fedele alla Chiesa di Roma. E quando nel 1553 EdoardoVI morì, sull’onda di un entusiasmo
popolare Maria mosse su Londra, dove veniva acclamata regina d’Inghilterra. Per questa accoglienza popolare si
convinse che una restaurazione del cattolicesimo fosse possibile. Ai primi provvedimenti da lei adottati, in
effetti, non seguì alcuna reazione del Parlamento, che anzi tra novembre e dicembre 1553 abrogava le leggi
religiose emanate sotto Edoardo VI e ristabiliva la messa cattolica.

La restaurazione tuttavia avrebbe dovuto esser completata dalla riunificazione con la Chiesa di Roma e della
restituzione dei beni ecclesiastici. Fu su questo punto che si ebbe la resistenza della Camera dei Comuni.
Più estesa si fece l’opposizione alla regina in relazione al problema del matrimonio.
Fin dal 1553 si avviarono infatti le trattative per il matrimonio con il futuro Re di Spagna, Filippo II, volute da
Carlo V per contrappore un’unione anglospagnola all’asse francoscozzese.

Quando nel 1554 Maria si accordò per sposare l’Asburgo, venne alla luce una congiura per portare sul trono
Elisabetta, sorellastra di Maria Tudor, ed esplosero una serie di ribellioni preparate dagli oppositori. La
convinzione che una regina cattolica stesse per asservire l’Inghilterra alla Spagna favorì l’anglicanesimo.

Il 1554 segnò per la corona il passaggio a una politica repressiva: Maria ottenne dal Parlamento l’approvazione
dell’accordo nuziale e di severe leggi antiereticali. Intanto la restaurazione cattolica procedeva anche grazie
all’azione del legato pontificio Reginald Pole, il quale arrivava in Inghilterra proprio mentre il parlamento
deliberava per la riunione con la Chiesa di Roma in cambio dell’intangibilità delle proprietà ecclesiastiche già
acquisite dai privati.
Il severo clima repressivo accrebbe le simpatie della popolazione per i protestanti, nonostante la fuga di molti
dei loro esponenti. Una caratteristica degli esuli inglesi e scozzesi fu quella di adottare simili teorie alla
polemica contro le due regine cattoliche che governavano i loro paesi. Knox pubblicò contro Maria Tudor e
Stuart il suo “First Blast of the Trumpet against the Mostruos Regiment of Women”, per dimostrare che Dio
aveva proibito il governo delle donne e che pertanto le due regine potevano essere deposte.

Scomparsa nel 1558 Maria Tudor, designò come erede la sorellastra Elisabetta, alla quale spettò il compito di
portare l’Inghilterra verso una maggiore compattezza interna.

2 La metamorfosi della Spagna cattolica e la politica antiottomana

Castigliano per nascita ed educazione, il re di Spagna Filippo II è passato alla storia come “el rey prudente” a
denunciare i meccanismi di un governo centralistico e burocratico. Filippo II non modificò l’organizzazione
governativa ereditata dal padre, strutturata sui Consigli territoriali e specializzati, sui vicerè e sui governatori.
Questa complessa macchina governativa appariva inadeguata a controllare una realtà multinazionale ancora
vastissima. Lo Stato spagnolo divenne con Filippo II ancor più centralizzato e distante dalle realtà locali: egli
infatti non si spostò mai dalla Spagna per presiedere assemblee e parlamenti locali.
Egli esaminava le relazioni che gli provenivano dai vari Stati, trasmetteva le relative pratiche alla sua segreteria,
le sottoponeva poi ai suoi vari consiglieri e ai vari Consigli e infine prendeva la sua decisione, che doveva essere
comunicata ai vicerè e ai governatori e da questi resa esecutiva.

In Europa si trovò di fronte a una situazione complessa. La pace di Cateau Cambrésis aveva solo
provvisoriamente risolto il confronto tra le due grandi monarchie cattoliche francese e spagnola. Di fronte a ciò
Filippo II legittimò il proprio potere identificandolo sempre più con la difesa del cattolicesimo e della Chiesa
romana.
Le divisioni confessionali agirono nei Paesi Bassi, incisero sulla politica estera spagnola e lambirono la stessa
penisola iberica. Dopo la repressione dell’alumbradismo, era seguito il soffocamento della cultura erasmiana. La
tecnica di identificare gli erasmiani con gli alumbrados e con i luterani favorì il rafforzamento dell’Inquisizione.
I tribunali inquisitoriali, oltre che contro le eresie cristiane, i conversos (gli ebrei convertiti) e i moriscos (di
religione avita), operavano per controllare i comportamenti morali devianti.
Le procedure inquisitoriali rimanevano per lo più segrete e soggette a tempi lunghissimi; le sentenze
prevedevano la confisca dei beni, con la conseguenza di favorire denunce motivate da interessi economici e
vendette. Ciò era incoraggiato dalla prassi di leggere alla popolazione un elenco di pratiche eretiche o sospette,
il cosiddetto “Editto alla fede”, cui seguiva l’invito agli ascoltatori a denunciare i casi di cui erano a conoscenza.
All’imposizione dell’ortodossia, si accompagnò un movimento teso a garantire la cosiddetta “limpieza de
sangre” (purezza di sangue), ossia la tendenza a riservare le cariche politiche e i pubblici uffici a coloro che
potevano dimostrare la loro discendenza dai “vecchi cristiani”, non contaminati con i conversos o con i
musulmani convertiti.

La Spagna di Filippo II non andò tuttavia esente da iniziali contrasti con la Chiesa di Roma, con Pio V. lo
scontro sul caso dell’arcivescovo di Toledo, Carranza, annodò conflitti giurisdizionali e che derivavano dalla
stretta identificazione operata da Filippo II tra il proprio potere e l’Inquisizione spagnola tanto che i decreti del
Concilio di Trento furono pubblicati in Spagna solo nel 1565.
Proprio la severa affermazione dell’ortodossia determinò atteggiamenti intolleranti verso le minoranze etniche e
religiose, in particolare contro i mori. Colpiti nella loro principale risorsa economica, la lavorazione della seta, i
moriscos, dopo decenni di relativa indifferenza, furono oggetto tra il 1550 e il 1560 delle persecuzioni del
Tribunale dell’Inquisizione di Granada.
La stessa chiesa Andalusa trovò nella loro forzata cristianizzazione un motivo di conservazione dei suoi
privilegi, arrivando ad approvare un’ordinanza che proibiva tra l’altro l’uso dell’arabo e imponeva di vestire
abiti castigliani.
Questa ordinanza suscitò una reazione armata. Le autorità spagnole si rivelarono incapaci di una risposta
efficace: la rivolta fu stroncata solo nel 1570 e fu seguita dalla deportazione di migliaia di morì, nel 1609 espulsi
definitivamente dal regno, con nefaste conseguenze per l’economia.

La presenza dei moriscos di Granada rendeva quella zona particolarmente vulnerabile alle incursioni corsare e al
pericolo rappresentato dalla flotta turca nel Mediterraneo. Già nel 1560 c’era stata a Gerba la sconfitta di una
flotta italo-spagnola allestita per fare dell’isola una base per la conquista di Tripoli. L’insuccesso di Gerba
incoraggiò i turchi ad accentuare la pressione. Ciononostante si riconquistò il porto africano di Penòn de Vélez.
L’anno seguente i turchi conquistavano l’isola di Chio, possesso di Genova e Nasso, colonia di Venezia, che nel
1570 perdeva anche Cipro.
A questo punto le potenze cristiane con Filippo II in testa, organizzarono una risposta all’aggressivo
espansionismo turco e formarono una Lega Santa (20 maggio 1571) comprensiva di: Repubblica di Genova,
ducato di Savoia, Cavalieri di Malta, Spagna e Venezia.
Riunita a Messina nel 1571 agli ordini di don Giovanni d’Austria, l’imponente flotta si scontrò con quella
ottomana davanti alla città greca di Lepanto.
La vittoria riportata sui turchi convinse l’Europa cristiana di essersi almeno provvisoriamente liberata dalla
minaccia. In realtà il trionfo si rivelò ingannevole: proprio la sua clamorosa risonanza sollecitò infatti una
virulenta controffensiva dell’Islam. Venezia non riottenne l’isola di Cipro.

La battaglia di Lepanto segnò, unitamente con la morte di Solimano il magnifico, l’inizio del ridimensionamento
dell'espansionismo turco. Da allora fu evidente che il sultano non era riuscito a rappresentare il ruolo di guida.
Fu dunque verso Oriente e verso la Persia che gli ottomani rivolsero la loro attenzione, disimpegnandosi dal
Mediterraneo. Proprio in quel decennio (1570-80), la Spagna faceva altrettanto. Operò uno spostamento verso
l’Atlantico legato all’annessione del Portogallo.

3 I Paesi Bassi: dalla rivolta alla rivoluzione

Scegliendo Madrid come capitale fissa, Filippo II rinunciò alla pratica della sovranità itinerante. Non solo gli
italiani, ma anche i catalani, gli aragonesi e i valenzani guardarono con sospetto a questa crescente egemonia
della Castiglia.
Vennero allora a delinearsi due posizione contrapposte: quella castigliana (favorevole ad una centralizzazione)
e quella dei restanti domini della corona, con in testa l’Aragona (tesa a perseverare l’assetto istituzionale di
ciascun territorio). Questa duplice possibilità si rispecchiò anche a corte e nel governo.
Le diverse fazioni della nobiltà spagnola ebbero modo di manifestare nel Consiglio di Stato, creando un
conflitto tra chi voleva una decisa “castiglianizzazione” della monarchia e chi invece preferiva una soluzione più
articolata, di stampo federalistico. Capeggiati i primi dal potente duca d’Alba, Fernando Alvarez de Toledo e i
secondi dapprima dal principe d’Eboli, Ruy Gomez da Sylva e poi dall’influente segretario di Stato, l’aragonese
Antonio Perez.
I due schieramenti vennero allo scontro in occasione della rivolta dei Paesi Bassi.

Sulla ribellione dei Paesi Bassi incise anzitutto il pericolo rappresentato dalle guerre di religione francesi e in
particolare dagli ugonotti, che trovarono insieme con l’Inghilterra di Elisabette I, motivi di solidarietà politico-
religiosa con i ribelli dei Paesi Bassi; così come vi incise lo sforzo di mobilitazione per contrastare i turchi che
impedì una situazione divenuta esplosiva per una serie di fattori.

Anzitutto fattori politici. I rapporti con i Paesi Bassi, gelosi delle loro prerogative istituzionali, erano apparsi
difficili dall’inizio del regno di Filippo II. Il sovrano affidò le funzioni di governatrice alla sorellastra
Margherita di Parma.
Fin da allora un Consiglio segreto, guidato da Antoine Perrenot de Granville e direttamente dipendente dalla
corte spagnola, aveva svuotato la funzione del Consiglio di Stato, ossia l’organo ufficiale del governo della
regione. Né a risolvere le tensioni innescate da questo atteggiamento riuscì la pur abile mossa di Filippo II di
nominare ai governatori delle singole provincie personalità dell’alta nobiltà locale.
Le popolazioni dei Paesi Bassi videro infatti minacciata una radicata autonomia di cui era considerata garanzia
la struttura di governo e il sistema rappresentativo creati da Filippo il Buono di Borgogna nel 1463. Del tutto
inopportuno si rivelò quindi l’intervento di Filippo II nelle questioni religiose.
La creazione di 14 nuove sedi episcopali di nomina regia, fu giudicata come un primo passo verso la creazione
di quella Chiesa cattolica nazionale che gli Stati Generali ritenevano un’intollerabile intromissione. La
riorganizzazione della Chiesa dei Paesi Bassi mirava a sottoporla al controllo della monarchia spagnola e ad
attrezzarla per la lotta contro la diffusione dell’eterodossia.

In effetti la penetrazione del protestantesimo nei Paesi Bassi si era verificata abbastanza precocemente. Dopo il
luteranesimo, era stato l’anabattismo a trovare terreno fertile.

Particolare importanza rivestì l’azione dell’olandese Obbe Philips, divenuto un riferimento per chi rifiutava la
lotta armata e, più tardi, di suo fratello Dirk Philips. Fu quest’ultimo, insieme col predicatore Menno Simons, a
dar vita a quella corrente dell’anabattismo detta appunto mennonita. Menno Simmons si staccò dalla Chiesa di
Roma all’età di quarant’anni. Si basò allora sul rigoroso primato assegnato alle sacre Scritture.
Il mennonitismo segnò la svolta storica verso l’anabattismo pacifista, rappresentando così un’alternativa di
stampo moderato e liberalistico all’anabattismo radicale e prospettando una concezione ecclesiologica fondata
sull’autonomia delle comunità religiose, idonea alle tendenze localistiche dei Paesi Bassi.
Queste primordiali elaborazioni della libertà poterono fiorire grazie al clima di relativa tolleranza che
continuava a regnare nei Paesi Bassi e che fu interrotto dalla Spagna.
Ai calvinisti riuscì così il consenso di larghe fasce della popolazione. Il successo del calvinismo va ricercato
nella sua capacità di corrispondere alle esigenze delle classi medie urbane. Il credente poteva trovare i segni
della propria salvezza nelle opere: le opere mondane e la soddisfazione che ne derivava potevano indicare che la
salvezza era stata raggiunta. Il successo nel lavoro diventava quindi un segno.
D’altra parte, Calvino aveva elaborato una dottrina del diritto di resistenza alle autorità, al punto di arrivare a
teorizzare per la prima volta nei Paesi Bassi la liceità della disobbedienza al sovrano.
In tal modo si sviluppò tra i calvinisti l’idea che la sovranità popolare fosse dotata di un carattere originario e
fondamentale e che limitasse il potere del re, i cui doveri erano stabiliti da un patto di mutua obbligazione. E che
tale patto esistesse era appunto dimostrato dal teorizzato diritto dei magistrati inferiori a resistere attivamente in
caso di violazione da parte del principe di quegli obblighi. Di qui il passaggio a giustificare la resistenza contro
Filippo II fu breve.

L’opposizione aristocratica antispagnola aveva ottenuto l’allontanamento dal governo del Granville.
Allo stesso tempo, il membro più in vista della nobiltà riformata, Guglielmo d’Orange, aveva avviato un
moderato dialogo con la governatrice Margherita di Parma, supportato dal tentativo di realizzare una tollerante
convivenza con i cattolici e una conciliazione. Ma il rapido degenerare della situazione interruppe questi sforzi.
I ribelli erano entrati armati nel palazzo della governatrice.
All’aumento della tensione contribuì il rafforzamento organizzativo del calvinismo. Con la Confessio Belgica, la
Chiesa calvinista dei Paesi Bassi prese un’accentuazione meno rigorosamente istituzionale e una maggior
autonomia lasciata alla comunità dei credenti.
La ribellione assunse ben presto una piega rivoluzionaria e popolare.

Nell’agosto del 1566 infatti, una straordinaria ondata di violenze scosse tutti i Paesi Bassi. Inevitabile apparve a
Filippo II la decisione di usare la forza, presa nel Consiglio di Stato inviando nei Paesi Bassi il duca d’Alba,
principale esponente dell’intransigente linea “castigliana”. Guglielmo d’Orange e il conte di Egmont tentarono
ancora di impedire uno scontro aperto. Tuttavia il duca d’Alba entrò alcuni mesi dopo a Bruxelles, mentre
Margerita di parma rientrava in Italia. I metodi terroristici del duca d’Alba finirono però per inimicargli anche
molti convinti cattolici, favorendo la nascita di un unitario spirito di identità nazionale. Il fallimento
dell’invasione dei Paesi Bassi che l’Orange tentò allora dalla Germania, fu controbilanciata invece dal successo
delle azioni della guerra corsara intrapresa dai cosiddetti “gueux (pezzenti) del mare” contro i vascelli spagnoli.
I gueux del mare ebbero l’appoggio di una parte dei consigli delle città olandesi, dominati do oligarchi patrizie
cattoliche e fedeli al re ma contrarie alla crudeltà del duca d’Alba; tuttavia, una volta insediatisi nelle ci ttà, i
gueux generalmente epuravano i consigli dai realisti e obbligavano la popolazione a passare al calvinismo.
Con questi metodi riuscirono a controllare diversi territori nelle provincie settentrionali. Qui nel 1572, gli Stati
d’Olanda, Zelanda e di Utrecht, riuniti a Dortrecht, invitarono Guglielmo d'Orange a tornare come stathouder,
ossia come governatore militare. A Madrid, l’insuccesso del duca d’Alba portò in auge a corte la linea aragonese
del principe d’Eboli, fautore di una politica di accordo con i ribelli. Eboli però morì e spettò allora al nuovo
capo della fazione. Antonio Perez, delineare il programma alternativo: abolire la tassa del 10% e il Consiglio dei
Torbidi.
Tuttavia gli avvenimenti erano ormai sfuggiti al controllo spagnolo. Gli Stati a maggioranza cattolica (Barbante,
Artois, Namur, Hainaut, Fiandra) convocarono infatti un’assemblea degli Stati generali di tutte le province,
senza tener conto dell’autorità sovrana, e l’8 novembre 1576 conclusero la “Pacificazione di Gand”, stabilendo
la tolleranza religiosa tra province cattoliche e protestanti sulla base del comune obiettivo di allontanare le
truppe spagnole.
A questo punto il compromesso ottenuto nell’Editto Perpetuo del 12 febbraio 1577, per cui l’evacuazione
dell’esercito spagnolo era accordata in cambio della restaurazione del cattolicesimo in tutte le province, fu
rifiutato da Guglielmo d’Orange. I rapporti tra protestanti e cattolici tornarono così a farsi critici.
La persecuzione anticattolica messa in atto dai calvinisti e la loro offensiva innescò la risentita reazione della
nobiltà cattolica delle province meridionali che nel 1579, con il trattato di Arras, finiva per riconciliarsi con
Filippo II, accettandone la piena autorità e la volontà di restaurare senza eccezioni il cattolicesimo in cambio del
riconoscimento degli antichi privilegi provinciali.
Il fronte delle province calviniste invece costituiva l’Unione di Utrecht, con cui nascevano le Province Unite
(Olanda, Zelanda, Frisia, Utrecht, Cheldria, Groninga e Overijssel), sorta di confederazione retta da un
Consiglio di Stato, una burocrazia e un capo comune: Giovanni di Nassau, fratello di Guglielmo d’Orange.
A favorire questa divisione era stato il nuovo governatore Alessandro Farnese, figlio dell’ex governatrice
Margherita. Il Farnese spezzò i legami politici antispagnoli, iniziando a riconquistare metodicamente le province
ribelli. Intanto gli Stati Generali, ormai autonoma rappresentanza del popolo, cercavano di dare una forma
costituzionale alle Province Unite: dapprima con una monarchia costituzionale, investendo Guglielmo d’Orange
il quale ottenne dagli Stati la nomina a signore dei Paesi Bassi settentrionali del duca d’Angiò Francesco di
Valois. Tuttavia furono gli stessi Stati Generali a dar vita di fatto ad una Repubblica, arrogandosi il diritto di
deporre Filippo II.
Sul piano politico e militare però, la rapida azione di riconquista condotta dal Farnese rendeva la situazione
talmente preoccupante che neppure l’assassinio di Guglielmo d’Orange del 10 luglio 1584 sembrò poterla
peggiorare.

4 L’Inghilterra elisabettiana e gli sviluppi del protestantesimo

Elisabetta era salita al trono nel 1558 senza contestazioni, nonostante le rivendicazioni della regina di Scozia, la
Cattolica Maria Stuart.
Contro una simile eventualità si schierarono sia i protestanti inglesi, che lo stesso Filippo II, consapevole che
l’avvento della Stuart, a causa del suo matrimonio con il delfino di Francia, avrebbe determinato un blocco
antispagnolo tra Inghilterra, Scozia e Francia.
Dunque Elisabetta trovò un appoggio nella cattolicissima Spagna. Richiamato in patria Knox, un’armata
calvinista era riuscita a conquistare Edimburgo, dove si giunse alla firma di un trattato (1560) che impose la
partenza ai francesi. Knox redasse e il parlamento approvò nel 1560 una “Confessione di fede”, di ispirazione
calvinista.
Tuttavia l’assenza di Maria Stuart (allora in Francia dal marito Francesco II) permise alla nuova Chiesa scozzese
di assumere una struttura organizzativa presbiteriana -ossia fondata sui presbiteri composti da pastori e laici- che
affidava la scelta dei pastori al suffragio popolare.
Su questa base nasceva la Kirk, la Chiesa scozzese, retta localmente da un Concistoro, per distretti più ampi da
sinodi provinciali e al vertice dall’assemblea generale dei delegati dei sinodi provinciali.
Tornata in patria, Maria Stuart dovette tollerare la Kirk.

Elisabetta cercò di escludere soprattutto la Camera dei comuni dal trattare una serie di argomenti che riteneva
prerogative della monarchia, tra cui le questioni religiose e i problemi internazionali.
Benché le 13 convocazioni del Parlamento non superassero in totale la durata di 3 anni, il tentativo di
ridimensionamento della funzione parlamentare andò a vuoto.
Mentre un indubbio successo lo incontrò nella sua politica di depotenziamento dell’aristocrazia.
La necessità di fronteggiare la minaccia cattolica obbligò Elisabetta ad una scelta filoprotestante con la
restituzione alla corona delle decime derivanti dai beni ecclesiastici che Maria Tudor aveva riconsegnato alla
Chiesa romana.
Sollevatisi contro questa decisione, l’opposizione dei vescovi cattolici si fece più acuta quando il Parlamento
accordò alla regina il titolo di "governatore supremo” della Chiesa d’Inghilterra con un Atto di suprem azia
(1563). Nel 1559, con lo stesso Atto di Supremazia, venne istituito un tribunale ecclesiastico i cui giudici erano
designati dalla corona.
Lo stesso Parlamento (con un Atto di uniformità) reintrodusse il Prayer Book in una versione intermedia (tra
quella del 1549 e del 1552). Nel 1563 una Convocation dei vescovi anglicani a Canterbury compilò un testo
dottrinale, i Trentanove articoli, in cui si ribadivano i punti fondamentali del protestantesimo con ascendenze
calviniste: superiorità delle sacre scritture, incapacità dell’uomo di giungere da solo alla salvezza, dottrina
della predestinazione, ammissione di due soli sacramenti (battesimo ed eucarestia), carattere spirituale e
simbolico dell’eucarestia, rifiuto della transustanziazione, del purgatorio, del culto delle immagini, delle
reliquie, del celibato ecclesiastico.

Il protestantesimo inglese si irrigidì in vere e proprie correnti contrapposte:

● La tendenza episcopalista: rappresentata dagli arcivescovi di Canterbury, accentuava il carattere


gerarchico della Chiesa anglicana e la sua dipendenza dal potere politico.
● Puritanesimo: convinti che l’opera di purificazione della Chiesa d’Inghilterra fosse ancora incompiuta,
i puritani videro con crescente simpatia la forma presbiteriana assunta dalla Kirk, mentre
dottrinalmente la loro insistenza sulla predestinazione produsse effetti sociali analoghi a quelli dei
Paesi Bassi.

Rispetto ai Paesi Bassi, la regina preferì inizialmente mantenere un atteggiamento prudente.


Più gravi e immediate le ripercussioni delle guerre religiose francesi, a causa dei legami che univano i Guisa a
Maria Stuart. Nel 1562 Elisabetta era intervenuta nei conflitti religiosi francesi in appoggio agli ugonotti,
puntando al recupero di Calais. Questo intervento (fallimentare) mostrò quanto la regina fosse interessata ad una
sconfitta dei cattolici in Francia.

La regina scozzese, risposatasi nel 1565 con il cattolico Enrico Darnley, poteva l’anno seguente avere un erede,
Giacomo, prospettando una continuità della dinastia che minacciava la sicurezza dei protestanti scozzesi e
consolidava le aspirazioni degli Stuart alla corona inglese.
Tuttavia, screditata dal sospetto di aver partecipato all’assassinio del marito e di averne sposato l’assassino, la
Stuart fu costretta ad abdicare il 23 luglio 1567 e a rifugiarsi proprio a Londra da Elisabetta. Qui, pur se in
semiprigionia, continuò a rappresentare una minaccia.
Elisabetta doveva ormai affrontare un’offensiva cattolica antinglese. Nel 1570 la scomunica lanciata contro di
lei dal Pontefice Pio V pose infatti i cattolici inglesi di fronte alla secca alternativa di schierarsi con Roma o con
la regina, spinta perciò a maggiori concessioni ai protestanti: così mentre i cattolici recusants (che si rifiutavano
di partecipare alla liturgia anglicana) venivano esclusi dal parlamento e dalle Università, un anno dopo i
Trentanove articoli, precedentemente non pubblicati, furono ufficialmente accettati come professione di fede
della Chiesa anglicana.

5 Dal Mediterraneo all’Atlantico

Tra la fine degli anni 70 e gli anni 80 il realizzato consolidamento politicoreligioso in Spagna, il progressivo
disimpegno sul fronte antiottomano (nel 1580 Filippo II firmava un armistizio con il sultano), le vittorie sui
ribelli dei Paesi Bassi e permisero al sovrano spagnolo di mutare atteggiamento e di lanciarsi in una politica
imperialistica grazie all’annessione del Portogallo.

I conflitti dinastici avevano indebolito il potere regio portoghese, parallelamente si era andata realizzando
l’unificazione religiosa del paese, con la conversione forzata o l’espulsione degli ebrei. Sopravvivevano i
tentativi di antica data di unire la corona portoghese a quella spagnola. Da questa volontà era scaturito infatti il
matrimonio tra Carlo V e Isabella di Portogallo (figlia del re Emanuele I) da cui era nato Filippo II.
Sebastiano I era re dal 1557. Il Portogallo all’epoca andava manifestando i primi segni di crisi. A frustrare
ulteriormente il paese sopravvenne, nel 1578, la morte di Sebastiano I nella battaglia di Alcazarquivir in
Marocco. Scomparso senza figli, a Sebastiano I successe l’anziano cardinale Enrico. Fu allora che Filippo II
decise di agire per annettersi il regno portoghese, riuscendo a guadagnarsi le simpatie del cardinale Enrico che
dichiarò legittima la successione del sovrano spagnolo in quanto figlio di Isabella del Portogallo e vedovo di
Maria del Portogallo. Contro questa soluzione si erano però subito mobilitate Inghilterra e Francia. Filippo II fu
perciò costretto a richiamare il duca d’Alba per invadere il portogallo e grazie all’appoggio dell’alta nobiltà, del
clero e dei ceti mercantili, fu riconosciuto legittimo re dalle Cortes riunite nel 1581, in cambio concesse di
preservare la più completa autonomia del regno.

Nel frattempo Filippo II si era schierato contro il protestante Enrico di Navarra al fianco dei Guisa. Elisabetta
voleva impedire che questi ultimi salissero sul trono francese rafforzando le pretese dalla Stuart. Di qui perciò la
necessità di eliminarla. Nel 1585 la scoperta di una congiura allo scopo di assassinare la regina, portare sul trono
Maria e appellarsi a Filippo II per garantirle il potere, fornì il pretesto per l’arresto dell’ex regina scozzese, poi
processata e giustiziata nel febbraio 1587.
L’eliminazione della Stuart ruppe il precario equilibrio europeo. La politica inglese si fece più aggressiva contro
la Spagna, sostenendo apertamente la vera e propria guerra corsara intrapresa sulle rotte transoceaniche contro le
navi commerciali spagnole dai navigatori inglesi, in particolare da Francis Drake.

Deciso a stroncare la crescente potenza di Elisabetta, Filippo II si risolse a uno sbarco in forza sul suolo inglese.
Dai pulpiti i predicatori eccitavano la popolazione contro l’”eretica” regina inglese. Una flotta di 130 navi, la
celebre “Invencible Armada”, venne radunata nel porto di Lisbona per raggiungere la manica, con annesso un
corpo di spedizione di 17 000 uomini. Uscita dal porto, la flotta dovette ripararsi nella rada della Carogne a
causa di una tempesta, mentre Elisabetta radunava le sue truppe di terra a Tilbury. L’”Armada” entrò nella
manica otto giorni dopo, ma una nuova tempesta e l’attacco dei vascelli inglesi più mobili, obbligarono la flotta
di Filippo II ad allontanarsi di nuovo e, dopo aver circumnavigato le isole britanniche semre incalzata dalla
marina elisabettiana e dai corsari inglesi, a rientrare in portogallo il 15 settembre 1588, decimata nelle navi e
negli uomini. Questa disfatta consegnò all’Inghilterra elisabettiana il ruolo di grande potenza europea.

La cosiddetta “tregua dei dodici anni” fu conclusa nel 1609 ad Anversa tra lo Spinola e Maurizio di Nassau.
L’intesa significò per la Spagna l’accettazione di fatto dell’indipendenza delle Sette Province ma anche del
ruolo di potenza economica internazionale da esse assunto.
Filippo II era già scomparso da tempo a questo punto, lasciando in eredità al figlio Filippo II uno Stato con un
assolutismo di stampo controriformista che maturava già i segni di una crisi. In particolare fu l’Aragona che
trasse presto il pretesto per ribellarsi provocando la crisi nel 1596.

Elisabetta accentuò la sua politica anticattolica. Non fu casuale se proprio negli anni ’80 i cattolici rimasti nel
regno elaborarono l’idea di una netta distinzione tra potere spirituale e potere temporale, per poter sopravvivere
e rimanere così fedeli al pontefice romano pur accettando l’autorità politica della corona. Elisabetta non aveva
nessun interesse a sopportare il disordinato clima di discussioni e divisioni religiose introdotto da radicalismi.
Neppure le ripetute rivolte della cattolica Irlanda mutarono questa politica. Alle rivolte seguiva un durissimo
programma di inglesizzazione e imposizione dell’anglicanesimo, con la confisca di grandi estensioni di terre
distribuite ad inglesi di sicura fede.
Le Province Unite dopo il 1609

6 Ragion di Stato, tolleranza e giusnaturalismo

Capitolo 9 - La crisi della società e dello Stato in Francia

1 Riformismo gallicano e diffusione protestante

La Chiesa francese risultava essere, ormai da tempo, una delle strutture più stabili e solide nel novero dello Stato
transalpino: la Prammatica Sanzione del 1438, nonché il Concordato tra Stato francese e Santa Sede –
sottoscritto a Bologna nel 1516 dal re Francesco I e dal pontefice Leone X – stabilirono rispettivamente: da un
lato che un terzo dei benefici ecclesiastici sarebbe stato assegnato ai diplomati delle Università del Regno;
dall’altro che Francesco I avrebbe potuto – in base al riconosciutogli diritto di patronato – scegliere i vescovi per
le diocesi dello Stato, sebbene questi ultimi sarebbero comunque stati consacrati da Roma.

I suddetti decreti consentirono la creazione di un leale episcopato nazionale e l’assunzione di un grande prestigio
al clero, nonché potere anche ai gangli della burocrazia statale. Inoltre, le campagne continuavano a mostrarsi
profondamente devote al cattolicesimo e l’Università della Sorbona, congiuntamente al Parlamento parigino,
agivano con un rigido controllo sul diffondersi dell’eterodossia. Alla luce di ciò, è chiaro il fatto che la struttura
ecclesiastica francese si dimostrò in grado di reagire nei confronti di eventuali manifestazioni ereticali.

Esempio tipico in questo senso fu l’azione di riforma avviata da Meaux da Guillaume Briçonnet: un’attività di
tipo pastorale e dottrinale che riuscì in poco tempo a trascendere i confini della diocesi creando un caso politico-
religioso nazionale e storiografico. Infatti, per la fattispecie si è parlato di una “preriforma francese”, nel senso
che già prima della Riforma di Martin Lutero in Germania, erano già stati gettati in Francia i semi della
speculazione dottrinale protestante.
Briçonnet esordì nell’ottobre 1518, quando promosse un sinodo diocesano con il quale richiamava il clero al
perseguimento della disciplina morale della Chiesa, rispettando il dovere di curare e confessare i fedeli, rispettando
le leggi canoniche e praticando la predicazione tra la folla. Tra le sue prime idee vi era quella di suddividere la
diocesi in 32 sezioni ed invitare un predicatore, retribuito dalla comunità locale, in ognuna di esse. Per attuare tale
proposta chiamò in suo aiuto l’umanista francese, Lafevre d’Etaples (morto nel 1536) – noto per la discussione
attorno al sospetto nicodemismo di San Paolo (vedere cap. 7, par. 5) –, il cui volume di commento alle epistole di
San Paolo del 1512 era finito nel vortice inquisitoriale della Sorbona connesso all’intervento dottrinale contro
Lutero nel 1521.

Sebbene in questo scritto, precedente alla predicazione luterana, Lafevre accennasse, per la prima volta, alle tesi
luterane – quali la predestinazione, la grazia come unica fonte di salvezza dal peccato, nonché la svalutazione dei
sacramenti ed altro - l’azione scismatica della Riforma era ancora agli albori, pertanto, rimase all’i nterno della
Chiesa romana, nonostante le prime accuse di eresia, creando una sorta di partito religioso - dottrinalmente
distante dalla Chiesa di Roma, ma comunque interno ad essa - fra cattolicesimo e luteranesimo.

Paradossalmente, proprio in Francia – dove la struttura ecclesiastica si era rafforzata all’inizio del XVI secolo –
la Riforma riuscì a diffondersi anche all’interno della corte francese, in particolare catturò l’attenzione di
Margherita di Valois – sorella di Francesco I e regina di Navarra in quanto sposata con Enrico di Borbone -. La
regina di Navarra fu conquistata dall’opera di Briçonnet e Lafevre, tant’è che questi ultimi riuscirono a farsi scudo
della posizione di prestigio di quest’ultima al fine di perseguire nella loro predicazione. Tuttavia, tra il 1523 e il
1525, l’attività dei due attirò la Sorbona e il suo intransigente rettore, Beda, e conseguentemente, Briçonnet si
vide costretto a fare marcia indietro, vietando di evangelizzare le dottrine luterane. Tale decisione provocò lo
smembramento del suo gruppo al suo seguito – Lafevre morì anni dopo, dopo essersi rifugiato presso la Corte di
Navarra – e, tantomeno, riuscì a scongiurare il suo imminente arresto (1525).

Frattempo, Francesco I – di ritorno al trono dopo esser stato imprigionato da Carlo V a seguito della sconfitta di
Pavia del 1525 (vedere cap. 3, par. 6) – sancì il ritorno ad una stabilizzazione politico-religiosa in territorio
francese: il clero si impegnò a donare un milione di lire per sradicare il luteranesimo e alla fine degli anni ’20,
vennero intraprese le prime moderate misure di riforma interna dei Sinodi provinciali. Tuttavia, una radicale
accelerazione nel rigore antiprotestante si ebbe a seguito dell’affaire des palacards (questione dei manifesti):
nella notte fra il 17 e il 18 ottobre 1534, vennero affissi centinaia di manifesti per le strade di Parigi – sui muri
delle abitazioni, della università, delle chiese e persino sulla porta della camera del sovrano –, i quali inveivano
contro la liturgia cattolica dell’Eucarestia. Tale evento determinò una repressione violenta e profonda. La
questione non poteva di certo passare inosservata: ciò che più fece scalpore fu la concomitanza dell’azione, la
diffusione geografica, la capacità di penetrazione fino a contatto col re che faceva supporre un’organizzazione
perfetta ed una rete di complicità altolocate. L’evento in sé scosse profondamente il Re, il quale ordinò appunto
una severissima repressione.

A testimonianza della violenza insita in questa repressione l’azione militare intrapresa contro i Valdesi di Provenza
– i quali aderirono al protestantesimo nel 1532 col sinodo di Chanforan -. Il rifiuto dei valdesi di pagare la decima
al clero spinse i vescovi locali a misure drastiche, appoggiate dal Parlamento di Ai x, anche nel timore che tale
rifiuto si estendesse a zone cattoliche nel contado. Roghi, galere, reazioni violente caratterizzarono la vita di queste
comunità religiose della Provenza fino a quando il villaggio di Mérindol non si sollevò al completo, provocando,
nel novembre 1540, la condanna alla distruzione di ogni edificio del paese da parte del Parlamento di Aix. Questa
sentenza fu oggetto di un lungo processo di esecuzione, fatto di dilazioni, condizioni, suppliche ecc. Ad ogni
modo, fu la pace di Crepy tra Francia e Impero (vedere cap. 6, par. 3) del 1544 a permettere a Francesco I di
riportare ordine e imprimere concretezza alla sentenza in questione: nella primavera del 1545 colonne militari
francesi occuparono e devastarono i villaggi valdesi in Provenza.

Successivamente non mutarono le condizioni del protestantesimo francese con l’avvento al trono del nuovo
sovrano Enrico II – succeduto al padre nel marzo 1547 -, il quale, anzi, inasprì i metodi repressivi in un crescendo
di decisioni determinanti e sempre più estreme: in primo luogo, nell’ottobre 1547, venne istituita presso i
Parlamenti del Regno una Camera speciale, adempiente la funzione di Tribunale speciale con competenza
giurisdizionale sugli eretici. In secondo luogo, nel luglio 1551, venne emanato un editto regio, il quale stabilì la
composizione di natura regia delle giurie dei Tribunali speciali, nonché l’inappellabilità delle sentenze. In ultimo,
tra il luglio 1556 e l’aprile 1557, venne istituita l’Inquisizione religiosa, delegando la competenza
giurisdizionale ad un organo esterno allo Stato transalpino. Il pontefice Paolo IV Caraga nominò grandi
inquisitori i cardinali Carlo di Borbone, Carlo di Guisa e Odet di Chatillon. Contro quest’ultima misura
protestò il Parlamento parigino in quanto svuotò di potere sia i parlamenti che il clero francese.

Ancora una volta, però, le ben più pressanti e drammatiche esigenze internazionali della politica estera francese –
impegnata nell’ultima fase dello scontro con la Spagna di Filippo II - costituirono lo scudo per ridurre l’incisività
della repressione antiprotestante. Una repressione che tornò ad esser aspra dopo la pace di Cateau-Cambrésis
nell’aprile del 1559, quando Enrico II proclamò a più riprese la sua intenzione di sterminare i protestanti francesi.

Si capisce allora come la morte di Enrico II – occorsa nel luglio 1559 – in seguito alle ferite riportare a causa
del torneo cavalleresco in occasione del matrimonio della figlia, Elisabetta, con Filippo II, fosse considerata dai
protestanti francesi il classico “giudizio di Dio”.

2 Dalle violenze alle guerre

Già negli ultimi anni del regno di Enrico II – colui che aveva instaurato in Francia un cattolicesimo rigido e
repressivo – si manifestò una frattura religiosa all’interno della società francese. I tre stati della società –
aristocrazia, clero e borghesia – si divisero al loro interno fra cattolici e protestanti (occorre specificare che i
protestanti francesi erano i cosiddetti Ugonotti). Se da un lato, nel caso specifico del basso clero, era prevedibile
e comprensibile che tale frattura si generasse in quanto quest’ultimo operava soprattutto nelle regioni di Ginevra,
Strasburgo e Basilea, conquistate dal protestantesimo; dall’altro non era altrettanto comprensibile che la frattura
religiosa interessasse l’alto clero e l’alta nobiltà per il fatto che vi era una forte struttura ecclesiastica in grado di
soffocare prontamente gli abusi.

Tra le fila dell’aristocrazia serpeggiava una forte instabilità. All’interno dell’aristocrazia si contrapponevano
diverse famiglie dinastiche che cercarono di influenzare in modo incisivo l’operato del sovrano: dapprima la
famiglia dei Guisa (della Lorena) – famiglia cattolica illustre, la quale andò progressivamente accrescendo e
radicando la propria influenza dopo che Francesco di Guisa strappò agli inglesi Calais nel 1558 -; la famiglia
cattolica dei Montmorency; la famiglia protestante degli Chatillon – tra cui il cardinale inquisitore Odet e il
comandante Francesco – ed infine, la famiglia protestante dei Borbone – tra cui Antonio di Borbone -.

Il tentativo di contenere l’influenza della famiglia dei Guisa presso la corte, riequilibrare le competenze e
riguadagnare l’attenzione del re ecc. fu la molla che fece scattare l’adesione delle altre famiglie aristocratiche al
calvinismo. Ne derivarono delle manifestazioni pubbliche da parte della stessa aristocrazia: Francesco di Chatillon
venne di lì a poco arrestato – nella primavera del 1558 – ed imprigionato dal sovrano per le proprie simpatie
luterane e successivamente – solo dopo aver giurato fedeltà al cattolicesimo – venne rimesso in libertà. L’arresto
oltre a fare scalpore, provocò reazioni inattese e tipiche degli intrecci sociali che avrebbero caratterizzato i
successivi scontri tra le parti: essendo comandante della fanteria francese, si ebbero dei momenti di tensione nelle
truppe, nonché minacce di ammutinamento e solidarietà dei commilitoni cattolici. Quando fu rimesso in libertà,
dopo poche settimane, provocò scandalo fra i calvinisti.

Il primo sinodo nazionale a Parigi – organizzato dai calvinisti e previsto per il 26 maggio 1559 – fu un
importante segno di frattura in seno alla struttura ecclesiastica francese. Al sinodo vennero discussi due testi di
firma calvinista. Rispettivamente “Confessione di fede” – una guida dottrinale calvinista” - e “Disciplina
ecclesiastica” – in quest’ultima in particolare, si trattava l’organizzazione delle chiese sul modello ginevrino.
Ciascuna chiesa sarebbe stata retta da un concistoro ed ogni gruppo di chiese tra loro limitrofe sarebbe stato
raggruppano in un Colloquio. Più colloqui avrebbero formato una provincia e nessuna chiesa sarebbe stata
preminente rispetto e sulle altre (sistema detto sinodale, consistente nel delegare a ciascuna comunità
l’autogestione) -.

Si sostanziò – anche grazie a tale radicata organizzazione calvinista – uno scontro in seno al Consiglio di reggenza
– sorto alla morte di Enrico II per amministrare il regno al posto del successore designato, ancora minorenne ,
Francesco II – tra le famiglie ugonotte e i cattolici di Guisa. Questi ultimi si resero colpevoli agli occhi degli
ugonotti di aver preso il controllo delle cariche politiche a corte alla morte del re e di esser stati coinvolti nella
durissima repressione antiprotestante perseguita dal defunto Enrico II.

La protesta degli aristocratici ostili ai Guisa, convocati a Vendome, e affidata ad Antonio di Borbone, giunse alla
reggente del regno, Caterina de’ Medici – vedova di Enrico II e madre di Francesco II -, la quale cercò di portare
ad un compromesso le due parti in lotta senza però rilevanti successi. Il fallimento della protesta congiunta dei
nobili ugonotti presso la reggente innescò il passo successivo: gli ugonotti, infatti, prepararono la congiura di
Amboise – diretta da Luigi di Borbone, principe di Condé – volta ad eliminare gran parte dei Guisa. Tuttavia, a
causa della delazione di uno dei congiurati, la congiura si risolse in un fallimento. Ma, c’è da dirlo, da allora il
ricorso a congiure o trame segrete non ebbe più limite.

Caterina de’ Medici dette un diverso segnale politico, nominando alla carica di cancelliere, Michel de l’Hospital
– già consigliere del Parlamento di Parigi – il quale tentò di avviare una politica di equilibrio tra le due fazioni
contendenti, basata sulla tolleranza e sulla separazione tra sfera religiosa e politica. Frutto di tale indirizzo
perseguito dal cancelliere fu la convocazione degli Stati generali a Orléans, inaugurati nel dicembre 1560.
Frattempo, pochi giorni prima, era venuto a mancare Francesco II, cui succedette il fratello minorenne, Carlo IX.
Non per questo la situazione interna registrò un raffreddamento della temperatura: violenze nelle città, bande
militari addette alla repressione anti-ugonotta per intere regioni del regno, timori degli aristocratici calvinisti di
recarsi ad Orléans nel timore di restavi intrappolati e prigionieri.

Alla convocazione degli Stati generali, le tre componenti della società francese non raggiunsero alcun accordo.
Ciononostante, si deliberò la cessazione delle persecuzioni ugonotte, la liberazione dei protestanti prigionieri e la
nomina di Antonio di Borbone a luogotenente generale. Gli ugonotti avvertirono le relative ordinanze come una
sorta di tacita possibilità di praticare liberamente il proprio culto.

La reggente allora convocò nuovamente gli Stati generali nel 1561, a Pontoise, nel tentativo di definire i termini
di una possibile, ancorché tacita, tolleranza reciproca tra le parti. In questa occasione, qualche speranza fu offerta
dalla fase di declino politico dei Guisa a seguito della morte di Filippo II e dell’abbraccio tra Condé e Francesco
di Guisa. Tuttavia, il triumvirato – tra Anne de Montmorency, Francesco di Guisa e Jacques d’Albon (maresciallo
di Saint André) – e le conversioni al calvinismo di Odet de Chatillon e di Jeanne d’Albret (figlia di Margherita di
Navarra) riaprirono le ostilità e portarono ad una rivincita cattolica: l’Editto di luglio proibì agli ugonotti di
professare un culto diverso da quello cattolico, e vietava il diritto di riunione/associazione in assemblea. Ai
colloqui di religione di Poissy si tentò invano e per l’ennesima volta la mediazione: invano a causa della polemica
attorno al sacramento dell’eucarestia.

Nel dicembre del 1561, un gruppo di ugonotti saccheggiò la Chiesa di San Medardo - ove vi erano cattolici riuniti
in preghiera – in quanto convinti che questi ultimi stessero tramando contro di loro -. Il cancelliere De l’Hospital
altro non poté fare se non convocare nuovamente gli Stati generali. Venne emanato l’Editto di Saint-Germaine,
nel gennaio del 1562, il quale costrinse gli ugonotti a restituire i beni ecclesiastici rubati; vietava loro di
propagandare il loro credo e di arruolare truppe ed infine, consentiva loro (almeno) di riunirsi in assemblea –
seppur fuori dalle mura cittadine – e di convocare sinodi – seppur col previo assenso del Re -.

L’Editto di Saint-Germaine, malgrado le restrizioni, permise ai protestanti di professare liberamente il loro culto.
Ragione per cui i cattolici protestarono e, per di più, guadagnarono alla loro causa l’ex protestante, Antonio di
Borbone. Gli eventi precipitarono: il 1° marzo 1562 a Vassy – sia che accadde per un incidente, sia che accadde
per volontà dei cattolici – si compì una strage di ugonotti riuniti in assemblea. Ne fu coinvolto Francesco di Guida
– il quale si era da poco congedato da un colloquio con Antonio di Borbone -. Giunta la notizia a Orléans, gli
ugonotti, al seguito del Principe di Condé, si armarono: era ormai la vigilia della prima delle otto guerre di
religione che avrebbero sconvolto la Francia fino al 1598.

3 Guerre civili e politica estera

1.1. |Prima guerra civile (autunno 1562- primavera 1563) |

Il massacro di Vassy e la conseguente prima guerra civile fra cattolici ed ugonotti innescarono delle reazioni di
politica estera facilmente prevedibili e peraltro già invocate da entrambe le parti: da un lato, a favore degli ugonotti
si schierarono Inghilterra, Stati tedeschi protestanti e gli insorti olandesi – la vicinanza di queste tre regioni favorì
il concentramento di armi e rifornimenti di vario tipo; dall’altro, a favore dei cattolici si schierarono la Spagna di
Filippo II Asburgo e lo Stato Pontificio di Pio IV – il quale contribuì con aiuti finanziari, in cambio
dell’abrogazione di ogni misura legislativa a favore degli Ugonotti (come l’Editto di Saint -Germaine) e il
mantenimento del Concordato del 1516 con tutti i diritti e prerogative in Francia. Per di più tutti gli ugonotti che
ricoprivano incarichi politici presso la Corte francese avrebbero dovuto essere espulsi (la reggente, tuttavia, si
rifiutò di destituire il cancelliere De L’Hospital) -.

Furono solo due gli avvenimenti di un certo rilievo a caratterizzare questa prima guerra. Rispettivamente l’assedio
cattolico di Rouen – durante il quale perì Antonio di Borbone – e la battaglia di Dreux (dicembre 1562) – vinta
dai cattolici del Guisa e in cui venne fatto prigioniero il Principe di Condé. Le truppe protestanti – guidate dal
duca di Coligny – si ritirarono verso nord, mentre il Guisa cadde in un’imboscata ugonotta nel febbraio 1563.

Nel marzo 1563 venne promulgato l’Editto di Amboise, promulgato da Carlo IX. Le clausole di tale Editto
prevedevano:

· L’amnistia generale per gli ugonotti – la quale si tradusse nella liberazione dei prigionieri, fra cui il
principe di Condé -;

· La cessione alla corona francese (cattolici) delle città occupate;

· La libertà di culto in ogni città di baliato, ossia in ogni città con una corte di giustizia, esclusa Parigi;

· Il permesso alla nobiltà con proprio potere di giustizia criminale di praticare il culto calvinista nelle
residenze e castelli coi loro vassalli;

· L’impegno comune per la riconquista del porto di Le Havre;

Suddette clausole convinsero la Chiesa di Roma a sospendere gli aiuti finanziari. Tuttavia, sopraggiunse uno
scontro giurisdizionale quando il Papa depose Odet di Chatillon dalla carica di inquisitore, nominandone altri di
sua fiducia, e successivamente con un’apposita bolla citava a Roma dinanzi all’Inquisizione diversi vescovi . Tale
scontro giurisdizionale fu pericoloso in quanto oppose Roma alla stessa corte francese, intervenuta a difesa del le
libertà della Chiesa gallicana. Intervenne, a tal proposito, Carlo di Guisa, cardinale francese, riuscendo a non far
pubblicare la bolla di condanna papale.

Caterina de’ Medici – pur sapendo di non poter contare sull’approvazione dei suoi alleati-finanziatori, Spagna e
Santa Sede, in quanto intenzionati ad abbattere definitivamente la piaga protestante nel centro Europa – cercò
comunque di sostenere la propria politica di equilibrio avviata prima dello scoppio delle guerre civili. Assieme
alla corte del Re Carlo IX – il quale raggiunse la maggiore età nell’agosto 1563 – iniziò un lungo pellegrinaggio
(il Gran Tour) per il regno, in tutte le zone più “agitate”, sperando di ottenere ulteriori consensi in virtù del
tradizionale attaccamento popolare al sovrano – anche detto Re taumaturgo –. Attraversarono molte regioni,
nonché città: a Lione, città ugonotta dal 1560, Carlo IX proibì il culto riformato nei luoghi ove passasse la corte;
a Bordeaux, al suo passaggio, si formò una sorta di sindacato di difesa cattolica; in Aquitania, a Bayonne, il re
incontrò il duca d’Alba – inviato da Filippo II a sconfiggere gli insorti olandesi -. Tuttavia, alla richiesta del duca
di espellere dalla corte i ministri ugonotti e di dare applicazione ai decreti di Trento, l’incontro si concluse senza
che portasse ad alcuna buona notizia. Anzi, l’incontro produsse piuttosto sospetto tra i protestanti, i quali
organizzarono un colpo di mano – simile a quello del 1560 – ai danni della corte francese, fallendo però
miseramente. In pratica, se politicamente non si approdò a nulla, la notizia di tale incontro allarmò gli ugonotti
che supposero un’intesa segreta ai loro danni. Una supposizione confortata dall’inizio delle ostilità del duca
d’Alba nelle Fiandre, per cui il suo esercito passò per la Savoia e la Franca Contea e Caterina de’ Medici riforniva
le truppe spagnole. C’era a questo punto da temere il peggio. Gli ugonotti pensarono di ripetere quanto tentato
con la congiura di Amboise. Malgrado il silenzio che avvolse la trama ugonotta, con la scorta dei mercenari
svizzeri, Carlo IX e Caterina de’ Medici tornarono a Parigi.

Giunse il 29 settembre 1567: nel giorno di San Michele, gli ugonotti fecero strage della dirigenza cittadina
cattolica a Nimes, mentre Condé invocò l’insurrezione generale delle città protestanti. La seconda guerra civile
stava così iniziando a sconvolgere ancora una volta la situazione.

1.2. |Seconda guerra civile (settembre 1567-marzo 1568) |

Parigi fu assediata nel giro di poco. Mentre cadeva il conestabile di Montmorency, ultimo prestigioso capo
cattolico, dall’estero giunsero rinforzi alle due parti contendenti: ai cattolici giunsero supporti dalla Svizzera e
dall’Italia, sotto il comando del duca di Nevers; mentre agli ugonotti giunsero in aiuto le truppe tedesche di
Giovanni Casimiro, figlio del Principe calvinista del Palatinato.

Il sostanziale equilibrio delle forze in campo fece evitare lo scontro. Ma a subire fu la Corona francese, costretta
a liquidare le truppe contrapposte di tedeschi e svizzeri per fargli lasciare il territorio nazionale. Il 23 marzo 1568
si giunse alla Pace di Longjumeau, la quale si limitò a ribadire l’Editto di Amboise. Michel de l’Hospital fu
costretto a dimettersi dalla carica di cancelliere mentre accresceva il prestigio e l’influenza del cardinal di Lorena,
Carlo di Guisa, nuovo capo riconosciuto del partito cattolico.

In questo contesto in cui fu decretato il fallimento della politica dell’equilibrio: laddove gli ugonotti
riprendevano forze e piazzeforti e dove erano in maggioranza, vennero costituendosi delle “leghe” cattoliche,
delle vere e proprie associazioni di difesa del culto legittimo e della monarchia francese.

Intanto, la situazione interna al paese risentiva delle diverse vittorie del duca d’Alba contro i protestanti olandesi
(vedere cap. 8, par. 3). Frattempo il principe di Condé e l’ammiraglio di Coligny si ritirarono nella fortezza
della Rochelle, supportati dai rinforzi di Navarra Giovanna III (Jeanne d’Albrech), insieme al figlio Enrico di
Borbone.

Sulla base di queste circostanze, la reggente Caterina de’ Medici emanò l’Editto del settembre 1568, con il quale
proibì su tutto il territorio nazionale culti diversi da quello cattolico e ordinò ai pastori calvinisti di las ciare la
Francia entro due settimane. Un editto che - potendo essere attuato solo laddove la parte cattolica fosse in
maggioranza – provocò nuovi odi e guerre.

Rinforzati gli ugonotti dagli aiuti finanziari e dalla flotta di Elisabetta d’Inghilterra, i cattolici dall’arruolamento
di svizzeri e da un contingente pontificio e toscano – che finalmente fu accettato da Caterina de’ Medici – si giunse
nuovamente alla guerra. Iniziava la terza guerra civile.
1.3. |Terza guerra civile (marzo 1569-agosto 1570) |

La terza guerra civile fu più feroce e cruenta rispetto alle prime in quanto, prima dei due maggiori scontri –
rispettivamente a Jarnac nel marzo 1569 e a Moncontour nell’ottobre 1569 (emerse la figura di Enrico di
Valois, duca d’Angiò e fratello del sovrano) -, entrambi favorevoli alle truppe cattoliche, si disperse in scontri
episodici locali in cui la fazione più forte massacrava quella avversaria e in nella pratica delle rappresaglie contro
un borgo, un paese o una città dove poco prima una delle due parti aveva subito perdite militari.

La corte francese, spaventata dalle truppe del Coligny, ormai giunte alle porte di Parigi, concesse la pace di Saint-
Germaine nell’agosto 1570, la quale decretò l’assegnazione delle roccaforti di Cognac, Montauban, Charité e
la Rochelle agli ugonotti, decretandone una parziale vittoria.

Queste concessioni destarono forti timori in Filippo II e Pio V. Per di più, la forza dimostrata dai soldati ugonotti
influenzò pesantemente la politica perseguita fino ad allora dalla corte: il progetto matrimoniale previsto dalla
reggente Caterina de’ Medici per i suoi figli sembrava configurare una prossima dislocazione della Francia come
Stato protestante.

Il progetto matrimoniale prevedeva da un lato che Enrico d’Angiò Valois, fratello di Carlo IX, avrebbe sposato
Elisabetta d’Inghilterra; dall’altro che Margherita di Valois, nata dal matrimonio fra la reggente e il defunto
Enrico II, avrebbe sposato Enrico di Borbone, figlio ugonotto della Regina di Navarra.

Il papato cercò in tutti i modi di scongiurare quello che appariva un vero e proprio tradimento politico da parte di
Caterina de’ Medici, sia inviando diplomatici e cardinale al fine di far desistere la reggente da propositi giudicati
folli, sia mandando in predicazione un gran numero di frati cappuccini e gesuiti, i quali, almeno provvisoriamente,
riuscirono a ricompattare il fronte cattolico, con una efficace opera di proselitismo e controversistica. Tuttavia, il
fronte cattolico, di lì a poco, subì il voltafaccia di Carlo IX, il quale – finito sotto l’influenza dell’ammiraglio
ugonotto Coligny (vedere par. 2) –, nell’aprile del 1572, pattuì il matrimonio fra Margherita ed Enrico di Borbone,
nonché un’alleanza con Elisabetta Tudor. La Francia sembrava esser diventata una nuova potenza protestante.

La stessa Caterina – ricordando che il papa riuscì a convincerla della follia di quanto previsto dal suo progetto
matrimoniale – rimase interdetta da una svolta politica così radicale da sembrare un vero e proprio azzardo: temeva
che l’Inghilterra non avrebbe mai aiutato i francesi per davvero, intimorita dall’idea che questi ultimi potessero
affacciarsi sullo stretto della Manica minacciando lo Stato inglese. A preoccupare la reggente vi era anche il fatto
che i protestanti tedeschi, gelosi delle vittorie “calviniste”, non avrebbero chissà quanto sostenuto la Francia.

Frattempo, le nozze “ugonotte” tra Margherita ed Enrico furono più volte rinviate – morì la regina di Navarra
e venne eletto pontefice Gregorio XIII (1572-85) – ma, infine celebrate il 13 agosto 1572, a Parigi, roccaforte
cattolica per eccellenza…Alla cerimonia si riversarono circa quattromila ugonotti francesi: Caterina non
aspettava altro per sferrare un attacco tale da distruggere il progetto di una prossima Francia protestante. Il 22
agosto organizzò l’attentato a Coligny, il quale però ne uscì solamente ferito. Non soddisfatta, il 23 agosto,
ingannando Carlo IX, convincendolo del fatto che gli ugonotti stessero tramando contro la sua persona, diede
inizio alla strage della Notte di San Bartolomeo – furono risparmiati Enrico di Borbone e il principe di Condé
-: quella notte venne assassinato Coligny e tra i duemila e i tremila ugonotti vennero uccisi per mano dei sicari
cattolici in tutta la Francia (Lione, Tolosa, Orléans ecc.)

Le cancellerie spagnola e pontificia, giunta la notizia dell’accaduto, esultarono, convinte che la Francia fosse
tornata nel novero delle potenze cattoliche. Tuttavia, Carlo IX non aveva alcuna intenzione di troncare i rapporti
con Inghilterra e con l’Impero degli Stati protestanti: il cardinal legato Orsini – inviato dal Papa a Parigi per
restaurare i vincoli di amicizia fra le due potenze – venne bruscamente congedato e rispedito a Roma. Sebbene
avesse avuto un alto valore simbolico, la notte di San Bartolomeo non deviò il corso della politica estera francese.

4 Tre Enrichi fra “politiques” e monarcomachi

1.1. |Quarta guerra civile (fine agosto 1572-giugno/luglio 1573) |

Con la notte di San Bartolomeo (23-24 agosto 1572) si giunse alla quarta guerra civile francese. Le truppe
cattoliche, infervorate dai risultati della strage, assediarono la roccaforte della Rochelle per diversi mesi, ma senza
ottenere grandi risultati. Nel giugno 1573, il comandante delle forze assedianti, nonché fratello di Carlo IX,
Enrico d’Angiò Valois, ricevette la notizia della sua elezione a Re di Polonia, ove si estinse la dinastia degli
Jagelloni.

Un’elezione che può ad un primo sguardo sembrare sorprendente, visti i fugaci e labili rapporti intercorrenti fra i
due regni, Francia e Polonia. Anche questa volta fu la reggente ad intervenire: la Dieta polacca – assemblea delle
aristocrazie del regno – impose il ritorno alla monarchia elettiva e tra i tanti successori della dinastia Jagellone –
le linee austriaca e russa – si impose la linea francese in quanto Caterina de’ Medici inviò il vescovo di Valence,
Jean de Montluc, al fine di contrattare in qualità di ambasciatore straordinario con i nobili polacchi per sostenere
l’elezione al trono del figlio. L’elezione di Enrico d’Angiò al trono polacco risultò miracolosa per gli assediati
della Rochelle poiché il governo francese – per non urtare la sensibilità ugonotta dei nuovi alleati polacchi – decise
di smobilitare le proprie truppe dalla roccaforte in questione. Un nuovo accordo di pace concretizzò quanto detto:
i protestanti avrebbero mantenuto la fortezza di Rochelle, nonché quelle non assediate di Nimes e Montauban, e
chiesero la garanzia del riconoscimento della libertà di culto in tutto il regno.

Tali accordi non mutarono lo scenario di guerra nelle regioni del sud della Francia, dove si costituì un
‘organizzazione politico-militare ugonotta: l’Unione dei protestanti del Midi.

Ciononostante, si cercò nuovamente di favorire la politica di equilibrio, promossa in passato da de l’Hospital,


incoraggiata, ora, da impavidi segni di moderazione da entrambe le parti: Enrico di Borbone – divenuto Re di
Navarra alla morte della madre – sembrò riavvicinarsi al cattolicesimo e Carlo IX – sebbene rimanesse una
personalità ambigua ed indecifrabile sul piano religioso – era prossimo alla morte. Per di più, una parte dei fedeli
cattolici e protestanti – messe da parte le vessazioni finora subite – decisero di unirsi nel cosiddetto partito dei
Politiques, il quale radunava tutti quegli ugonotti moderati che chiedevano solo tutela e rispetto nello Stato, e tutti
quei cattolici – di fatto definiti “scontenti” dall’ala radicale – che volevano ricondurre la monarchia alla sua
posizione super partes di pacificazione e riunificazione nazionale nelle dispute religiose. I Politiques diedero
sviluppo ad una folta libellistica, per la maggior parte tesa a criticare la posizione – giudicata autoritaria e malvagia
– rivestita dalla reggente Caterina de’ Medici durante il corso delle guerre civili. Veniva accusata di aver introdotto
la cultura del “machiavellismo italiano”, fatta di tradimenti e di inganni, nel regno francese – basti pensare
all’ordine che la reggente diede per inaugurare la notte di San Bartolomeo -. I politiques, assieme a Francesco
d’Alençon, Enrico di Borbone-Navarra e Luigi di Borbone Condé, tentarono invano di ribellarsi alla reggente:
vennero infatti arrestati Enrico e Francesco, mentre Luigi di Borbone Condé riuscì a fuggire.

Intanto, il 20 maggio 1574, moriva Carlo IX

1.2. |Quinta guerra civile (giugno 1575-maggio 1576) |

Mentre ritornava dalla Polonia, Enrico d’Angiò Valois, figlio di Caterina de’ Medici (*), il quale, il 13 febbraio
1575 divenne sovrano di Francia col nome di Enrico III d’Angiò Valois, nel giugno 1575 ripresero le iniziative
militari ugonotte.

(*) (N.B. Ricapitolando, Caterina de’ Medici ebbe 4 figli: Francesco II, sovrano successore di Francesco I, morto
nel 1560; Carlo IX, successore di Francesco II, morto nel 1574; Enrico III d'Angiò-Valois, successore di Carlo IX
e morto nel 1589; Francesco d'Alençon, morto nel 1584).

Il nuovo sovrano trovò la patria in condizioni disastrose – sia dal punto di vista sociale che economico – e, in
quanto inerte e vigliacco caratterialmente, non si dimostrò capace di porre fine alle tensioni ed ai conflitti: la
guerra dilagò nel Midi, passando alla guerriglia popolare. Gli ugonotti avanzarono delle proposte di tregua al
sovrano, e cioè chiesero la liberazione dei prigionieri e la professione di fede libera in tutto il regno. Tuttavia,
Enrico III le respinse. La situazione precipitò, portando alla formazione di una coalizione anticattolica nel
marzo-aprile 1576, costituita da Francesco d’Alençon – fuggito dalla corte e passato dalla parte dei protestanti
-, Enrico di Borbone-Navarra, Luigi di Borbone-Condé e Giovanni Casimiro del Palatinato, con le sue
truppe al seguito.

Venne avviata l’invasione dalla regione della Lorena (nord-est) in tutta la Francia. Nel giro di due mesi, le truppe
ugonotte raggiunsero e assediarono Parigi. Il 6 maggio 1576 venne stipulata la Pace di Beaulie, la quale fu un
vero e proprio trionfo ugonotto che impose dure condizioni di pace ad Enrico III: a partire dalla convocazione
degli Stati generali, venne imposta la libertà di culto in tutto il regno, esclusa Parigi; venne prevista l’istituzione
di tribunali misti per le cause religiose, nonché la restituzione dei beni confiscati agli ugonotti, in cambio della
promessa di questi ultimi di ricominciare a pagare le decime ecclesiastiche ed infine venne stabilito che Condé
divenisse governatore della Piccardia e responsabile delle roccaforti dell’Unione protestante.

Lo sdegno del pontefice per questa pace “draconiana” fu ovviamente massimo. A Parigi il fervore religioso anti-
ugonotto si concretizzò nella formazione della Lega Cattolica, capeggiata da Enrico di Guisa, eroe e idolo delle
folle cattoliche. Ancora una volta la capitale vide la diffusione a macchia d’olio di opuscol i, giornali, pamphlet,
in cui si osannava al cattolicesimo e alla restaurazione dell’unità monarchica. A tal proposito, intervenne uno degli
appartenenti al gruppo dei Politiques, il giurista francese, Jean Bordini, secondo il quale la società francese, al
momento, aveva bisogno di un ritorno ad uno Stato centralizzato ed assolutista, in grado di imporsi sul caos e sul
disordine in cui versava il tessuto sociale. Questo nuovo Stato avrebbe dovuto avere come guida un sovrano
adeguato, autoritario ma anche rispettoso dei diritti del popolo e dei diritti divini.
Nel novembre 1576 vennero convocati gli Stati generali, quando ormai la situazione politica era in parte mutata:
Caterina de’ Medici aveva riottenuto il controllo sul figlio Francesco d'Alençon-Angiò – tornato cattolico - ,
mentre Enrico di Borbone-Navarra sembrava ormai indirizzare la propria fede al cattolicesimo. Il tessuto sociale
era ancora in fibrillazione: il terzo stato e i primi ligueur (leghisti cattolici) richiesero la revoca della pace di
Beaulie e il ritorno all’unità religiosa dello Stato. Ancora una volta, tali richieste si contrapposero a quelle degli
ugonotti, i quali, ovviamente, volevano mantenere quanto imposto da suddetto accordo di pace. Ancora una volta
fu guerra.

1.3. |Sesta guerra civile (luglio-novembre 1577) |

Scoppiata l’ennesima guerra civile – la sesta – le forze regolari di entrambe le fazioni erano stremate, anche per
la preminenza della guerriglia popolare. Per di più, la carenza di guide carismatiche tra gli ugonotti – ridotte al
solo Francesco di Chatillon, figlio di Coligny – si tradusse in una riduzione delle stesse iniziative militari. Non a
caso, la guerra – iniziata nel luglio 1577 – già nel novembre dello stesso anno si concluse: venne firmata una
nuova pace a Bergerac, la quale - in questo caso favorevole ai cattolici – sancì la riduzione delle grandi
concessioni previste dalla precedente pace di Beaulie. Venne previsto il riconoscimento della libertà di culto nelle
sole città di baliato e del possesso per otto anni delle roccaforti ugonotte.

A mischiare la carte sul tavolo furono, ancora una volta, le scelte di politica estera francese: Enrico III – temendo
un eccessivo potenziamento del Ducato di Savoia di Carlo Emanuele, il quale, nel maggio 1577, intervenne nel
conflitto inviando truppe cattoliche al seguito del Duca di Nevers e stipulando un’alleanza con i sei cantoni
cattolici della Confederazione Elvetica – decise di riequilibrare la situazione interna alla Confederazione svizzera,
alleandosi con i cantoni protestanti olandesi (maggio 1579). Una scelta simile – unita a quella di Francesco
d'Alençon-Angiò di allearsi con i protestanti olandesi – non fece altro che rinsaldare il legame tra Francia ed
Inghilterra.

1.4. | Settima guerra civile (dicembre 1579-novembre 1580) |

Ripresero le attività militari che – condotte ormai soprattutto nei sobborghi urbani sotto forma di guerriglia –
videro il succedersi di feroci battaglie cittadine fra le parti contendenti. Tuttavia, la pace non tardò ad arrivare –
si giunse ad essa il 26 novembre 1580 – e riconfermò quanto stabilito dalle clausole della precedente pace di
Bergerac (Pace di Fleix).

Intanto, sul piano internazionale si innestò la morte di Enrico III (senza eredi), aprendo una nuova questione
dinastica, mentre da un lato, la Spagna di Filippo II attendeva lo scontro con i francesi, i quali, dal canto loro,
frattempo stavano infliggendo una dura offensiva alle truppe ispaniche in Portogallo e nelle Fiandre, a fianco dei
calvinisti; e dall’altro moriva Francesco d'Alençon-Angiò nel giugno 1584. La linea dinastica dei Valois con la
morte di Enrico III si estinse. L’unico principe di sangue vicino agli Angiò-Valois era Enrico di Borbone-
Navarra – frattempo tornato al protestantesimo –. Enrico di Guisa non venne neanche preso in considerazione. I
cattolici riconobbero come pretendente al trono il cardinal Carlo di Borbone, zio di Enrico di Borbone-Navarra.
Una questione dinastica che – per la possibilità di portare a regnare in Francia un sovrano ugonotto – degenerò in
un ulteriore (ma ultimo) scontro. La Lega Cattolica si preparò a combattere e l’ottava guerra civile si preparava a
sconvolgere ancora una volta la Francia.

1.5. | Ottava guerra civile (1585- maggio 1598), la Guerra dei tre Enrichi |

Alla vigilia dell’ottava guerra civile – Guerra dei tre Enrichi – gli schieramenti vedevano al fianco dei protestanti
i tedeschi, gli svizzeri e gli olandesi, nonché i fiamminghi, gli scozzesi e l’Inghilterra dei Tudor; al fianco dei
cattolici – comandati da Enrico di Guisa – i soldati spagnoli di Filippo II (era stata stipulata l’alleanza con il
Trattato di Joinville nel dicembre 1584), la Santa Sede di Papa Sisto V (il quale dichiarò decaduto il pretendente
al trono calvinista, Enrico di Borbone Navarra) e la Lega Santa cattolica.

I cattolici erano tesi all’instaurazione al potere del cardinal Borbone al fine di avviare la repressione generale
antiprotestante in tutto il Regno ed eliminare i pretendenti al trono eretici. Nel marzo 1585, col Manifesto di
Peronne, la Lega Santa lanciò l’appello nazionale contro l’eretico Enrico III: si trattò di un vero e proprio
proclama di guerra, cui seguì la crescista del potere dei Guisa e l’isolamento di Enrico III a Parigi. Nel luglio 1585
l’accordo di pace stabilì l’abolizione di ogni norma che riconoscesse e garantisse la libertà di culto ai protestanti;
la restituzione delle roccaforti occupate dagli ugonotti ai cattolici ed infine la decadenza del diritto di successione
al trono di Enrico di Borbone-Navarra.

Da un lato, i cattolici volevano sul trono il cardinal Borbone; dall’altro, gli ugonotti volevano Enrico di Borbone-
Navarra. Venne sviluppandosi la teoria monarcomaca – quella teoria che legittimava l’assassinio politico del
sovrano, nient’altro che il tirannicidio -. Il tema era quanto mai antico – basti pensare a Bruto e Cassio che uccisero
Giulio Cesare nell’Antica Roma – e venne sviluppato soprattutto tra gli ugonotti – tributari dell’ideologia
calvinista, in particolare della liceità della resistenza contro il tiranno – con due opere – “De volontaria servitute”
(1576) e “Vindiciae contra tyrannos” (1579) – le quali rendevano lecito rompere il patto di fedeltà stipulato col
sovrano, se questi si fosse dimostrato non curante degli interessi del popolo o addirittura traditore del popolo. Il
popolo in tal caso avrebbe visto riconoscersi il diritto di insorgere e, nei casi più gravi, di assassinare il sovrano.

Per i cattolici anche valeva lo stesso ragionamento se il sovrano avesse infranto il patto con il popolo, avrebbe
altresì tradito le leggi divine e sarebbe dovuto esser castigato.

La situazione nella capitale parigina si infiammò. Di conseguenza, il sovrano, non sentendosi più al sicuro, assoldò
mercenari al fine di rimpinguare le truppe a difesa della città e impedire l’ingresso a Enrico di Guisa. La Lega
Santa rispose con le barricate e attaccò i mercenari svizzeri. Il re fuggì ed Enrico di Guisa entrò trionfante a Parigi
il 12 maggio 1588.

I cattolici trionfanti imposero dapprima il rifiuto di un successore eretico; a seguire l’esecuzione dei decreti
tridentini; la lotta all’eresia protestante e la convocazione degli Stati generali. Enrico III non poté far altro che
adeguarvisi.

Gli Stati generali vennero convocati per l’ottobre 1588: qui, il sovrano venne chiamato a giurare fedeltà al
cattolicesimo di fronte alla nazione. Enrico III sembrò cedere alle richieste cattolica, tuttavia, con l’inganno, il 23
dicembre uccise Enrico di Guisa, e ordinò l’arresto di tutti gli alleati alla famiglia rivale – tra cui lo stesso Carlo
di Borbone –. Alla notizia, Parigi e le maggiori città dello Stato insorsero: una rivolta generale si accanì contro il
sovrano. I due Enrichi vollero, di comune accordo, porre fine alla rivolta parigina, ma il 1° agosto 1589, un frate
domenicano, Jacques Clement, assassinò Enrico III. Si dissolse la dinastia dei Valois e la Francia perse il
proprio sovrano.

5 Enrico IV: il contrastato avvio della ricostruzione

La questione dinastica prodotta dall’estinzione dei Valois si presentò più complicata del previsto poiché, da una
parte, Enrico di Borbone-Navarra non avrebbe potuto cingere la corona sul capo se Sisto V non avesse ritirato la
bolla che lo interdiceva dalla successione; dall’altra i cattolici aveva già acclamato il cardinale Carlo di Borbone
come legittimo sovrano, ma quest’ultimo, nel maggio 1590, morì.

La situazione mutuò a favore del pretendente ugonotto: Enrico circondò la capitale – piena di cattolici – e ne tagliò
i rifornimenti, successivamente, a Tours, venne riconosciuto per la prima volta come nuovo sovrano francese
dall’ambasceria veneziana. Divenne, allora, Enrico IV di Francia.

Filippo II si affrettò ad inviare truppe in aiuto ai cattolici nella capitale e alla Lega Santa – ora capeggiata da
Carlo di Guisa, duca di Mayenne nonché fratello del defunto Enrico di Guisa -. I due schieramenti si scontrarono,
nel marzo 1590, a Ivry, dove ebbe la meglio Enrico IV. Frattempo, a Parigi, si era creato un governo provvisorio,
composto da 16 dirigenti leghisti (ligueurs), 4 per ogni quartiere della città. Il destino della Capitale sembrava
segnato. Tuttavia, il popolo parigino si compattò ancor di più: l’assedio che coinvolse la città a partire dall’aprile
1590 provocò la morte di molti, stremati dalla fame e dalle malattie. I dirigenti leghisti giunsero all’elaborazi one
del diritto di deposizione e all’esaltazione del diritto di elezione rispetto alla trasmissione ereditaria della sovranità.
Nazionalismo e radicalismo democratico si unirono dando vita ad un crogiolo rivoluzionario: nel novembre del
1591, i 16 dirigenti diedero vita al comitato rivoluzionario e prepararono l’insurrezione generale contro gli
invasori.

Dal nord, dalle regioni olandesi discese Alessandro Farnese – richiamato da Filippo II – a dar man forte ai
cattolici assediati. Riuscì a smobilitare l’assedio di Enrico IV. Si assistette ad una serie scontri di ogni tipo e tra
ogni corrente – leghisti, cattolici moderati, ugonotti, truppe straniere ecc. –: la guerra civile fu totale.

Ormai straziato da 30 anni di guerra, lo Stato francese non poteva far altro che stringersi attorno all’unico sovrano
riconosciuto legittimo per ricostituire la pace: Enrico IV di Francia, il quale sconfiggendo Farnese, recuperò la
fiducia della borghesia e della nobiltà, entrambe stremate da anni di conflitti infruttuosi sia sul piano economico
sia sul piano della sicurezza. Carlo di Guisa, anch’egli sconfitto ed isolato, decise di scendere a patti col sovrano,
chiedendogli la conversione al cattolicesimo. Enrico IV, tuttavia, rifiutò la richiesta e convocò gli Stati Generali
per gennaio (1593) a Parigi. In queste circostanze, iniziò a diffondersi la voce dell’abiura protestante e della
conversione al cattolicesimo del sovrano. La diceria divenne realtà quando venne annunciata dall’arcivescovo di
Bourges, nel luglio 1593.

Nel febbraio 1594 si procedette alla consacrazione di Enrico IV. Per bloccare sul nascere ogni eventuale velleità
anticattolica, il sovrano concesse agli ugonotti il ripristino delle clausole della pace di Bergerac del novembre
1577.
Finalmente, il 22 marzo 1594, Enrico IV entrò trionfalmente a Parigi. Tuttavia, ereditò una Francia disastrata
e difficilmente recuperabile, anche perché Spagna e Santa Sede non erano rimaste a guardare Enrico IV
riacquistare la propria influenza e la propria autorità. In sequenza, Urbano VI – cui pontificato durò appena 12
giorni (settembre 1590) –; Gregorio XIV (1590-91), Innocenzo XI – cui pontificato durò appena due mesi
(ottobre-dicembre 1591) – confermarono la scomunica di Enrico IV, aizzati dal “partito spagnolo” presente presso
la corte pontificia.

Solo con Papa Clemente VIII (1592-1605) venne adottata una nuova politica di equilibrio che però, nel momento
in cui un gruppo di gesuiti attentò la vita del re (probabilmente su invito del partito spagnolo), sembrò incrinarsi.

Ad ogni modo, le trattative si conclusero nell’agosto 1595: venne annullata l’assoluzione episcopale avuta dal re
a Saint-Denis (luglio1593) dall’arcivescovo di Bourges e al suo posto prevalse l’assoluzione papale; inoltre,
Enrico IV prese l’impegno di applicare i decreti tridentini e di educare il figlio al cattolicesimo, nonché di
mantenere in vita il concordato del 1516 e di nominare i vescovi, escludendo gli ugonotti.

Intanto, anche gli ultimi focolai della guerra si spensero. I partigiani dei Guisa e una minoranza di ligueurs vennero
fatti prigionieri in Borgogna e con essi anche lo stesso Carlo di Guisa – il quale però venne rimesso in libertà
quando venne ufficialmente sciolta la Lega cattolica (gennaio 1596). Al nord, le truppe spagnole erano riuscite a
conquistare Cambrai e Calais, il sovrano allora accettò anche l’aiuto ugonotto per abbattere le ultime resistenze
spagnole. I protestanti non si accontentarono del mantenimento delle clausole della pace di Bergerac, chiedendo
di più: Enrico IV non poté far altro che accontentare suddette richieste – anche per scongiurare la possibilità di
eventuali e nuove guerre di religione – e quindi, sconfessò in parte gli accordi intrapresi con pontefice nell’agosto
del 1595. Il 15 aprile 1598 venne emanato l’Editto di Nantes, il quale sancì quanto segue:

1. Venne ristabilito, laddove fosse stato dismesso, con la restituzione dei beni ecclesiastici espropriati ai
protestanti;

2. Venne consentito il culto calvinista, ad esclusione di Parigi e laddove alloggiasse la Corte;

3. Venne concesso ai protestanti di accedere alle cariche pubbliche, alle università e venne anche concessa
loro la gestione dei luoghi di istruzione;

4. In ultimo, fu concesso ai protestanti di occupare circa 80 roccaforti per 8 anni, addossando le spese di
mantenimento sull’erario pubblico.

Clero gallicano e Parlamento parigino protestarono contro le disposizioni di tale Editto, pertanto, il re concesse
loro la non-applicazione dei decreti tridentini. Infine – una volta risolte le questioni rimaste in sospeso con la
Spagna con la Pace di Vervins del 2 maggio 1598, la quale riconfermò semplicemente quanto stabilito da Cateau-
Cambrésis nel 1559 (vedere cap. 6, par. 6) aggiungendo solo la conquista di Calais – le guerre civili francesi
volsero finalmente al termine.
Capitolo 10 - Dai contrasti confessionali alla guerra dei Trent’anni

1 Due destini opposti: la Spagna e le Province Unite

Il sistema internazionale europeo sembrava essersi stabilizzato alla fine del XVI secolo, dopo decenni di guerre
intestine, religiose e territoriali: si era giunti alla pace di Vervins (Spagna e Francia, 1598), pace di Somerset
House (Spagna e Inghilterra, 1604) e alla Tregua dei 12 anni (Spagna e Provincie Unite, 1609).

Tuttavia, la stabilizzazione politica si rivelò ben presto effimera: esagerata era la precarietà delle relazioni
diplomatiche tra le potenze protestanti e cattoliche, in quanto le prime accentuarono i processi di chiusura
dogmatica e istituzionale già tracciati con fra il luteranesimo ortodosso e i settarismi estremi; le seconde
abbandonarono le residue posizioni moderate ed erasmiane per affidarsi definitivamente ai rigorosi ideali della
Controriforma. Inoltre, altro elemento di contrasto tra gli Stati europei divenne l'affermazione degli interessi
economici, i quali si intrecciarono con i contrasti confessionali.

Spagna
La Spagna controriformista di Filippo III, appena ventenne quando salì al trono, era ancora potentissima grazie
alla robustezza del suo esercito, il più numeroso d'Europa; alla sua marina, ricostituitasi dopo la disfatta
dell'Invincibile Armada e ai suoi possedimenti coloniali, dai quali continuarono a provenire rilevanti quantità di
metalli preziosi.

Tuttavia, l'economia era tutt'altro che florida: la bancarotta del 1607 confermò le difficoltà ispaniche di far
fronte alla crescente concorrenza anglo-olandese negli oceani. La società spagnola in questo ambito non fornì
molta assistenza: sedotta dai valori dell'onore, della purezza di sangue, del cattolicesimo rigoroso e
controriformistico, la comunità sociale serrò i ranghi e accolse con gioia l'espulsione dei Moriscos dalla penisola
iberica (1609-14), la quale coinvolse circa 300.000 persone e depresse ancor di più l'economia spagnola, ora
priva delle migliori attività mercantili e manifatturiere. I mori, infatti, rappresentavano ormai uno degli strati
economicamente più dinamici.

All’urgenza di realizzare ampie riforme economiche, politiche ed amministrative del resto non mancarono di dar
corpo una quantità, persino eccessiva, di scrittori di politica ed economia, i cosiddetti arbitristas (“suggeritori di
proposte”), che per tutto il secolo tempestarono il governo di suggerimenti tesi a superare lo stato di endemica
crisi della corona e della società spagnola. In alcuni casi prospettarono soluzioni teoricamente efficaci, come il
taglio delle spese pubbliche. In altri, avanzarono idee palesemente assurde, che non permettevano alcuna
evoluzione del sistema politico-istituzionale spagnolo, che, anzi, rimaneva ancorato al vetusto e pachidermico
sistema dei Consigli di Governo, governati da personalità corrotte e insensibili ai concreti problemi sociali.

Si cercò di riformarlo, attraverso l'impostazione di comitati ministeriali più ristretti (Juntas) addetti alle
questioni amministrative, ma anch'essi si rivelarono corrotti e suscettibili di clientelismo.
La svalutazione della moneta (introduzione del Biglione), la ripartizione dei tributi fiscali e la vendita degli
uffici burocratici e giurisdizionali furono tutte mosse ispirate dal consigliere personale del Re, il duca di
Lerma, uomo corrotte con intenti antitetici, ma si rivelarono inefficaci: il duca venne ucciso in una congiura da
suo figlio, il duca di Uceda.

Filippo III morì nel 1621 e gli successe suo figlio Filippo IV (1621-65), il quale però non ebbe mai un carattere
così deciso da non lasciarsi influenzare dall'aristocrazia e, in particolare, dal duca di Olivares, Gaspar de
Guzman: egli cercò di riportare lo Stato spagnolo al vertice delle gerarchie europee, tentando di rendere
operative le riforme proposte dal Duca di Lerma ma mai attuate. L'impegno bellico internazionale e le riforme
interne costituirono dunque per il duca due facce di un unico progetto di mobilitazione delle risorse nazionali,
nel quadro di un nuovo equilibrio tra autorità centrale e realtà particolaristiche dei regni. In parole povere, si
cercò di intensificare l'assolutismo centralistico della corona, compensandolo però con la salvaguardia dei
singoli regni nei limiti ed in funzione dell'interesse generale e collettivo. Tuttavia, questo nuovo equilibrio non
fu raggiunto e il programma dell'Olivares non ebbe successo: fallirono le riforme amministrative introdotte in
Castiglia per ridurre le spese superflue, scoraggiare le importazioni e favorire l'incremento demografico; non
venne a compimento l'opera di consolidamento e di riequilibrio del sistema fiscale, né l'istituzione di un
sistema bancario nazionale; sul piano militare, si volle instaurare invano una collaborazione (la c.d. Unione
delle armi) tra le truppe dislocate nei vari regni sottoposti al dominio spagnolo; venne sospesa l'emissione del
Biglione di rame.

Il 1 gennaio del 1635 il programma riformistico dell'Olivares poteva considerarsi in gran parte fallito: le corti
dei regni erano rimaste fredde di fronte alle sue proposte di riforma, e altro fattore di debolezza il fatto evidente
è che la Spagna, insieme ovviamente alla Santa Sede, era rimasta l'unica vera potenza cattolica nel contesto
europeo.

Provincie Unite

Lo Stato nato in seguito alla rivolta anti-spagnola (proclamatosi Repubblica nel 1588, e indipendente de facto –
non formalmente, in quanto la Spagna gli negava l'indipendenza – dal 1609, anno della Tregua dei 12 anni) era
strutturato in un modo tale da mantenere quell'impronta anti-assolutistica acquisita con la rivolta scoppiata nel
1568: l'organizzazione istituzionale era strutturata su un triplice livello: 1) Stati generali; 2) Stati provinciali; 3)
Consigli municipali.
Ciascuna delle sette Provincie Unite era amministrata autonomamente da un'assemblea elettiva (Stato
provinciale), mentre le città conservavano i loro statuti particolari; la sovranità effettiva era nelle mani
dell'oligarchia mercantile e borghese (i Reggenti) cresciuta con lo sviluppo dell'economia commerciale e dei
traffici oceanici. La più potente fra le provincie era l'Olanda, con capitale Amsterdam, che da sola contribuiva
a versare la metà del bilancio statale, e fu capace per molto tempo di esercitare un ruolo preminente su tutte le
altre. I reggenti governavano coadiuvati, a livello degli Stati Generali, dal Gran Pensionario, segretario
generale che svolgeva funzione di direzione politica per gli affari interni ed esteri. A livello provinciale,
invece, venivano aiutati dai Pensionari.

I compiti di amministrazione civile affidati al Gran Pensionario vennero a scontrarsi spesso con quelli dei
governatori militari delle province, gli stathouders (incaricati della difesa, dell’ordine pubblico), in genere
provenienti dalla fila dell’aristocrazia, e dello stathouder generale, che quasi sempre era olandese. Questo
dualismo istituzionale era espressione in particolare della divergenza d’interessi tra borghesia mercantile delle
città e nobiltà terriera, ed ebbe modo di manifestarsi in due linee contrapposte sia in politica estera sia in
politica interna: quella mercantile, interessata essenzialmente a salvaguardare i traffici intercontinentali, era
fautrice del mantenimento della pace sui mari e perciò contraria a proseguire la guerra contro la Spagna; quella
aristocratica preferiva invece continuare la lotta antispagnola anche a costo di gravi danni economici.

Il dualismo appena spiegato si stava addensando nei contrasti fra i Reggenti e la casata principesca d'Orange-
Nassau, che da tempo si era identificata con l'ideale della guerra anti-spagnola e aveva concentrato a sé la
carica di stathouder, non nascondendo le proprie aspirazioni dinastiche e anti-repubblicane.

I primi conflitti istituzionali sorsero al momento della firma della Tregua con la Spagna (1609), fortemente
voluta dal Gran Pensionario d'Olanda Jan van Olderveldt, ma osteggiata da Maurizio di Nassau, favorevole alla
lotta anticattolica e anti-spagnola (ulteriore motivo di contrasto era proprio l'intransigenza calvinista degli
Orangisti e la moderazione confessionale dei ceti mercantili, influenzata dall'irenismo erasmiano).

Questo “terreno” di tensione continuò a essere “fertilizzato” a causa della questione più controversa della
dottrina calvinista, ossia la predestinazione: da una parte vi era un giovane teologo liberale, Arminio, alleato
con i pacifici ceti mercantili, dall'altra un intransigente ed ortodosso Franz Gomar allineato con le posizione
orangiste.
Lo scontro si infervorò e coinvolse anche la questione dell'intervento dello Stato nelle dispute teologiche, cui si
opponevano fermamente gli orangisti, in contrasto con le idee del consigliere del Gran Pensionario – amico di
Arminio -, Johannes Uitenbogaert, che invitò gli Stati Generali ad intervenire nei contrasti religiosi.

La lotta si fece più aspra: nel 1610 gli arminiani si presentarono agli Stati Provinciali, guidati da Uitenbogaert
ed Episcopius, professore di Leida, per ribadire i loro ideali religiosi (vennero chiamati Rimostranti).

I gomaristi, invece, si fecero protagonisti di una contro-rimostranza, ribadendo i propri concetti.

Nel 1614 gli Stati d’Olanda tentarono d’imporre la pace religiosa vietando le discussioni degli argomenti
controversi con una Risoluzione redatta dal giovane Pensionario di Rotterdam, Ugo Grozio, destinato a
maggior fama come teorico della libertà di navigazione dei mari del diritto internazionale.

Tuttavia, la lotta proseguì, fino a quando i gomaristi non riuscirono a far convocare un sinodo nazionale a
Dordrecht (1618-19) nel corso del quale gli “arminiani” vennero espulsi e le loro tesi condannate. Il Gran
Pensionario d'Olanda Jan van Olderveldt fu giustiziato. Il conflitto religioso venne dunque vinto (nonostante i
dibattiti religiosi continuassero) dagli Orangisti-stathouder e da Maurizio di Nassau in particolare.

2 Uno scenario nuovo: le potenze baltiche e l’Europa orientale

Accanto a quelle religiose, le motivazione economiche emersero progressivamente come spinta decisiva
dell'azione politica europea, manifestandosi soprattutto in quell'area baltica che, tra seconda metà del '500 e
'600, vide per la prima volta affacciarsi sulla scena continentale i paesi Scandinavi, la Polonia e la Russia.

Danimarca e Svezia
In Danimarca dopo la destituzione del Re Cristiano II, si era consolidata la scelta confessionale del
Luteranesimo con i successori Federico I (1523-33) e Cristiano III (1536-59).
Era la nobiltà (ancora di stampo feudale) a dominare sul territorio, in quanto erano loro che eleggevano il
sovrano nel Rigsraad, l'assemblea elettiva.
Tuttavia, il nuovo sovrano Federico III (1559-88), invece si dovette confrontare con l'altra potenza
scandinava, la Svezia, per il controllo del mar Baltico.
Quest'ultima, governata da Erik XIV Vasa (1560-69), al contrario dello Stato danese, aveva conseguito un
consolidamento del potere assolutistico. Il conflitto (1563-70) scaturì dalla volontà del sovrano svedese di
conquistare un accesso sulle coste tedesche e polacche e si concluse con la pace di Stettino, che costrinse gli
svedesi a cedere le isole di Gotland e l'Estonia ai danesi.

La sconfitta avviò una fase di instabilità interna, sia politica che religiosa: il nuovo sovrano svedese Giovanni
III Vasa, cattolico convinto, rinnegò il luteranesimo e si avvicinò dunque alle sorti della Polonia (anch'essa
cattolica), nel quadro dello scontro politico fra protestanti e cattolici. Si sposò con la sorella del sovrano
polacco, Sigismondo II Augusto Jagellone, e da essa ebbe un figlio, che avanzò la propria candidatura al
trono polacco (giurando fedeltà agli ideali cattolici della Controriforma) e fu poi eletto col nome di
Sigismondo III.
Egli dovette giurare piena fedeltà al cattolicesimo e riunì poi la corona svedese a quella polacco-lituana
nel 1592 (anno in cui morì il padre Giovanni III).

Polonia
Il grande regno polacco, comprendente i territori dell'odierna Polonia, Lituania, Lettonia, Ucraina e Prussia
orientale, era dominato dalla piccola e grande nobiltà che assoggettò a sé non solo il potere della corona, ma
anche quello della piccola e media borghesia, a cui era stato proibito di divenire signori fondiari (escludendo
così la possibilità di diventare nobili), e della classe rurale.
Il potere della Dieta assembleare era quindi molto forte: essa deteneva il diritto di eleggere i sovrani e un
esteso potere legislativo.
Con Sigismondo e Sigismondo II il potere nobiliare si acuì ancora di più nel momento in cui s'introdusse, negli
anni 60 del '500, la prassi che le deliberazioni assembleari potessero essere prese soltanto all' unanimità.

Nel 1572 la morte dell'ultimo erede della dinastia Jagellonica comportò la decisione di ripristinare il trono
elettivo e venne incoronato Enrico di Valois-Angio, impegnato nelle sanguinose guerre civili in Francia, ma
pochi mesi dopo l'incoronazione, nel giugno del '74 tornò in Francia per cingere la corona transalpina,
lasciando quella polacca preda del potere nobiliare. Sicché nuovo re divenne Stefano I Bathory di
Transilvania (1575-86) che tuttavia non modificò la preponderanza nobiliare nel regno. Fu in questo
contesto che giunse lo svedese Sigismondo III Vasa ad assumersi la responsabilità monarchica.
Sullo sfondo di questo disordine interno, proprio nell'arco di anni compreso tra l'incoronazione di Sigismondo
II e la fine del suo regno segnò l'apogeo della potenza polacca e insieme l'inizio del suo declino. Proprio in
quegli anni infatti la Polonia raggiunse il vertice della sua vitalità economica e della sua forza politica. Essa
era considerata il “granaio d'Europa” e la maggior parte dei traffici internazionali agricoli passavano per esso.
Ormai Stato divenuto smisurato con l'Unione di Lublino del 1569 (Confederazione Polacco-Lituana) e che
proprio in quegli anni estendeva i privilegi economici giuridici e politici alla nobiltà polacca-lituana.

In quanto compagine molto estesa, era doveroso per i sovrani polacchi assumere un atteggiamento di tolleranza
rivolta a tutte le religioni minori, quali l'ebraismo e il protestantesimo. La tolleranza tuttavia, rimase
strettamente intrecciata ai privilegi nobiliari, come dimostrano la Pacta conventa e la pax dissidentium stipulate
a Varsavia nel 1573, con cui la nobiltà si garantiva una libertà di culto che però veniva negata ai contadini.

Fu in questo scenario di libertà di culto e privilegio nobiliare che Sigismundo III cercò di avviare un svolta
assolutistica e controriformista, favorita dalla duplice circostanza che il culto cattolico era rimasto la religione
ufficiale dello Stato e che i cattolici erano convinti sostenitori dell’autorità regia in contrapposizione ai
protestanti, in genere difensori dell’autonomia dei ceti nobiliari.

Durante questi regni si sviluppò l'azione di evangelizzazione promossa da Gregorio XIII, affidata al gesuita
Antonio Possevino. L'azione era tesa a ricomporre le divergenze polacco-svedesi sul Baltico per riconsegnare
quest'area al blocco asburgico e cementare così un nuova unità cristiana, volta a bloccare l'espansionismo turco
a est. Nondimeno, l'unificazione delle corone polacca e svedese produsse i primi problemi di carattere religioso
nell'area baltica, in quanto i nobili svedesi luterani rifiutarono sin da subito l'idea di un sovrano cattolico che li
governasse, e l'ostilità si riunì nella persona di Carlo di Sodermanland Vasa, ultimo figlio di re Gustavo I: nel
1600 il Riksdag deponeva Sigismondo III e 4 anni dopo saliva al trono svedese Carlo IX Vasa.
Dunque non si formò lo schieramento cattolico auspicato da Gregorio XIII dalla Scandinavia all'Italia. Ma a
questo parziale fallimento tentò di rimediare la cattolica Danimarca di Cristiano IV, con l'attacco agli svedesi
in Lapponia e nel Mar Baltico (la Guerra di Kalmar, terminata nel 1613 con la pace di Knared che sanciva
la cessione di alcuni territori norvegesi ai danesi).

Russia

L'Impero Moscovita alla fine del XVI secolo aveva iniziato a premere sulle coste dell'Estonia e della Livonia,
mentre lo Stato si andava sviluppando sotto il primo Zar di Russia Ivan IV il terribile (1533-1584), succeduto a
Ivan III e Basilio.
Plasmato anch'esso da pretese di dominio universalistico, così come l'impero asburgico e quello ottomano,
nominata Mosca come Terza Roma, l'Impero zarista si era rafforzato sia a sud che a ovest, dove aveva ripreso
a spingere per ottenere uno sbocco sul Baltico.
Riorganizzati l'esercito e le finanze, Ivan il terribile avviò una politica assolutistica nei confronti
dell'aristocrazia boiarda, detentrice di molti feudi ereditari e da sempre ribelle nei confronti
dell'autoritarismo russo: divise il territorio russo in due parti, una comprendente le terre pertinenti allo Zar,
da cui furono espulsi tutti i boiari, e le loro terre furono confiscate e consegnate alla piccola nobiltà, che
divenne una fedele alleata della corona. La seconda parte del territorio era destinata proprio ai Boiari,
trapiantatisi con la forza militare.
Fu ribadita l'imposizione della servitù della gleba sui contadini. Cosicché Ivan poté dedicarsi all'espansionismo
in Occidente (idealmente giustificato dalla tesi che tedeschi e lituani non fossero cristiani), che però venne
bloccato da una coalizione formata da svedesi, danesi e polacchi, con i quali lo Zar arrivò a patti nel 1583, con
la pace di Yam Zapolski (la Svezia otteneva l'Estonia e la Polonia la Livonia).
I fallimentari risultati di questa guerra per il Baltico si sommarono all’esplodere di una grave crisi economica
dovuta alle devastazioni provocate nelle campagne dalla deportazione dei Boiari, per l'inasprimento fiscale e
per le frequenti carestie che misero in ginocchio migliaia di contadini. Alla morte di Ivan IV gli successe
Teodoro I (1584-1598) con il quale si limitò l'espansionismo a occidente.

Al termine del suo regno l'Impero fu segnato da una crisi dinastica innescata dalla nomina a successore di
Teodoro di un potente boiaro imparentato con la zarina, Boris I Godunov (1598-1605), il quale venne accusato
subito di aver assassinato il fratello di Teodoro, Dimitri (accusa probabilmente falsa).
In seguito, un impostore sotto il falso nome di Dimitri, sostenendo di essere proprio il legittimo erede al trono,
cercò di spodestare Godunov il quale venne assassinato nel 1605 insieme al figlio.
Lo stesso Dimitri rimase ucciso in una congiura di boiari ribelli e nel 1606 venne incoronato Zar Basilio Sujkij,
il quale venne poi sfiduciato e dichiarato decaduto nel 1610 da Sigismondo III. Un’assemblea designava nuovo
Zar di Russia suo figlio Ladislao. Si andava così configurando l'incredibile unione della corona polacca
con quella russa, ma la presenza di un re straniero suscitò la nascita di un forte sentimento di riscossa
nazionale che portò alla cacciata delle truppe polacche dai territori russi e alla designazione a nuovo Zar
di Russia Michele I Romanov, imparentato con Ivan il Terribile.

Primo intervento in politica estera del nuovo Zar fu la stipulazione dei trattato di Stolbovo (1617), con cui la
Russia cedeva alla Svezia di Gustavo II Adolfo Vasa la Carelia e confermava il possesso dell'Estonia.
Seguì poi la stipulazione del Trattato di Devlin con la Polonia, che rinunciava alle pretese di rivalsa sulla
corona zarista.
Tuttavia rimanevano aperte le tensioni fra Svezia e Polonia, con Sigismondo deciso a far valere i suoi diritti
sulla corona svedese. Sul piano internazionale, il contrasto con la potenza svedese, sostenuto dalle potenze
cattoliche, proseguì fino al 1629.

3 La crisi dell’Impero asburgico e la guerra europea

Nell'Impero, dopo la pace di Augusta del 1555 e il fallimento del modello centralistico tentato da Carlo
V, il governo effettivo alla fine del XVI secolo era nelle mani degli stati territoriali i quali contribuivano
proporzionalmente alla formazione dell'esercito. Un ventennio di relativa stabilità, garantita soprattutto
grazie al compromesso di Augusta, consentì di avviare un processo di modernizzazione.

Tuttavia, non mancavano forti elementi di squilibrio e di debolezza. Tali rimanevano, anzitutto, le diversità dei
diritti vantati dagli Asburgo sui paesi che formavano i loro domini: i diritti dinastici negli Stati ereditari
(Austria, Stiria, Carinzia, Carniola e Tirolo), diritti elettorali per le corone di Boemia e di Ungheria e per quella
imperiale.

Per superare questa situazione e garantirsi la continuità della dinastia, l’imperatore Ferdinando I (fratello
minore di Carlo V) nominò il figlio Massimiliano re di Boemia e di Ungheria e re de Romani. Quando questi
divenne Kaiser dell'Impero col nome di Massimiliano II, egli terminò l'opera di riordinamento territoriale
avviata dal padre:

1) concesse i territori della Stiria, Carinzia e Carniola al fratello Carlo II;


2) all'altro fratello, Ferdinando, assegnò la regione del Tirolo e lo rese arciduca d'Austria;
3) al figlio primogenito, Rodolfo, concesse il titolo di Re di Boemia-Ungheria.

Inoltre si cercò di seguire la linea della tolleranza religiosa tracciata da Augusta, sviluppatasi con la
pubblicazione della Declaratio Ferdinandea, un provvedimento imperiale che aveva accompagnato la pace di
Augusta e con il quale si autorizzavano città e feudatari dei principati ecclesiastici cattolici a praticare il culto
luterano.

Ma ormai la linea di netta divisione dei fronti religiosi appariva inevitabile, anche perché in tutto l’Impero il
consolidamento interno dei singoli Stati si andava realizzando in larga parte proprio in virtù di quel principio
del cuius regio, eius religio fissato ad Augusta e che aveva sancito la territorializzazione e
confessionalizzazione delle fedi religiose, favorendo l’irrigidimento delle chiese protestanti, sempre più legate
al potere dei principi e sempre meno disposte ad affrontare dibattiti religiosi.

Gli stati cattolici non rimasero a guardare: l'azione controriformistica dei Gesuiti proseguiva sotto la
protezione degli Asburgo. Cuore della cultura cattolica fu la Baviera della dinastia Wittelsbach, che
assumendo la funzione di baluardo della Controriforma tedesca, riuscì ad acquistare un peso politico
alternativo a quello degli Asburgo con i quali era da sempre in concorrenza. Il Duca Alberto V inaugurò così
un corso aspramente controriformistico, ordinando l’espulsione dei dissidenti. Questa politica fu proseguita dai
successori.

Fu proprio in concomitanza con lo sviluppo di questi processi di rafforzamento interno degli Stati e di
creazione di un rigido sistema confessionale che maturarono, tra la metà del XVI e l'inizio del XVII secolo, le
condizioni per la nascita di nuovi schieramenti politici e ideologici da cui sarebbe scaturita una crisi
generale poi esplosa con la guerra dei Trent’anni. Infatti, diverse cause avrebbero poi aiutato a
infiammare la guerra: il mancato riconoscimento del Calvinismo come religione ufficiale nella pace di
Augusta; la necessità del Luteranesimo di riaggiustare i propri fondamenti dottrinali dinanzi alla diffusione del
Calvinismo; e la volontà dei cattolici di ribadire la loro superiorità confessionale.

Le polemiche ideologiche in seno allo schieramento protestante non frenarono. Dopo la morte di Lutero, la
guida del luteranesimo fu assunta dal suo braccio destro, Filippo Melantone. A seguito della morte di anche
quest’ultimo (1560) i seguaci di Melantone formarono un nuovo gruppo dottrinario, i c.d. Filippisti; mentre gli
altri si unirono nel gruppo dei c.d. Gnesioluterani, poiché si ritenevano gli unici luterani legittimi, in quanto
discepoli di Lutero stesso.

L'ortodossia luterana venne poi ricomposta nel 1580, con la pubblicazione del Libro di Concordia nel quale si
raccolsero tutti i testi attorno ai quali si riconoscevano le chiese luterane. Con questo testo il luteranesimo,
seppur al prezzo di una chiusura istituzionale, ritrovò la sua omogeneità, sconfessando ogni possibile
compromesso con le sette estreme e il calvinismo.

Quest'ultimo intanto fece nuovi proseliti in alcune regioni tedesche, quali il Palatinato (con il conte Giovanni
Casimiro, 1611-52), l'Assia-Kassel (sotto il margravio Maurizio, 1572-1632) e il Brandeburgo, di
Giovanni Sigismondo Hohenzollern (1608-19).

I processi di confessionalizzazione e burocratizzazione attuati negli Stati tedeschi aiutarono le irrobustite


istituzioni politico-amministrative a soggiogare le città e i ceti più dinamici e autonomi. Negli Stati protestanti
ciò avvenne con il connubio delle autorità religiose e con la secolarizzazione dei beni ecclesiastici. In quel li
cattolici invece l'azione dei burocrati indirizzata ad acquisire il monopolio di ogni settore della vita sociale
dello Stato (istruzione, sanità, assistenza sociale, giustizia, ecc.) era profondamente influenzata dalla Chiesa
Romana.

Eppure, la confessionalizzazione tedesca non risultò soltanto un processo positivo: determinò squilibri tali da
causare alla fine la crisi di un sistema il cui punto criticò stava nella sproporzione tra frammentazione
geopolitica e debolezza della corona asburgica, ridimensionata al ruolo di realtà particolare.
L’applicazione della pace di Augusta si fece sempre più difficile proprio a causa dell’avviato consolidamento
interno degli Stati.
In questo scenario politicamente e religiosamente multipolare, la corona asburgica fronteggiò con crescente
difficoltà le pericolose linee di frattura che si erano andate delineando.

L'imperatore Massimiliano II tentò di porre fine ai dissidi convocando del 1566 una Dieta ad Augusta per
tamponare la pericolosa ascesa calvinista, ma non vi riuscì: il calvinismo venne definitivamente confermata
la religione ufficiale dello stato del Palatinato.

L'Imperatore morì nel 1576 e a succedergli fu il figlio primogenito di Massimiliano II, Rodolfo – educato alla
severa scuola dei gesuiti spagnola, egli cercò di revocare la politica tollerante del padre a favore di una più
decisa affermazione cattolica.

Nominato Rodolfo II (1576-1612), anch'egli come il padre si occupò sin da subito dell'assegnazione dei
domini ereditari:
- allo zio Carlo II, rimasero la i territori assegnati da Massimiliano (Stiria, Carinzia e Carniola);
- l'Austria passo dalle mani del fratello di Rodolfo, Ernesto, nelle mani dell'altro fratello, Mattia
(arciduca d'Austria e futuro imperatore).

Influenzato soprattutto dal suo medico personale, Crato (che aveva conosciuto personalmente Lutero e
Melantone), Rodolfo non ricusò del tutto l’irenismo, non avendo affatto in simpatia il chiuso e arrogante
dogmatismo entro cui la Controriforma aveva imprigionato il cattolicesimo; dall’altra, però, non potendo
subire politicamente la preponderanza dei protestanti nell’Impero, non poté far a meno di appoggiarsi alla
Chiesa romana.

Particolarmente importante risultava per la ricomposizione religiosa il controllo dell'unica regione rimasta
neutrale ( o comunque non schieratasi) nel novero dei principi elettori che avevano il compito di eleggere
l'imperatore: la Boemia, che non faceva parte né dello schieramento cattolico (arcivescovati di Colonia, Treviri
e Magonza), né dello schieramento protestante (regioni del Palatinato, Sassonia e Brandeburgo), ma accoglieva
al suo interno una pluralità di confessioni, tra cui anche i movimenti nati dalla predicazione di Hus, utraquisti e
Unione dei fratelli boemi. L'importanza del controllo di questa regione fu emblematicamente rappresentato dal
trasferimento della capitale da Vienna a Praga. L'offensiva cattolica su questo fronte si dispiegò su 3 linee: 1)
ripristino della nunziatura apostolica romana (1581) - una sorta di “ambasciata” della Santa Sede in terra
boema -; 2) fondazione di nuovi seminari; 3) predicazione evangelizzatrice.

La definitiva impronta cattolica venne data dall'Imperatore nel 1599, quando decise di licenziare dalla sua
corte tutti i funzionari filo-protestanti favorendo l'assunzione di cattolici ortodossi, tra cui il cancelliere
Lobkovic.

La crisi dell'Impero tedesco però non mutò rotta e si aggravò ulteriormente, oltre che per le solite
difficoltà finanziarie, anche per la rinnovata pressione turca in Ungheria, dove gli Ottomani
ricominciarono a spingere nel momento in cui stipularono una pace con la Persia, coprendosi così le
spalle.
Dopo circa 5 anni di conflitti, la pace con i Turchi fu firmata in Ungheria nel novembre 1606, e contestualmente
fu nominato principe di Transilvania il calvinista Stefano Bocskay, il quale si era reso protagonista di una rivolta
anti-asburgica e anticattolica proprio durante l'offensiva ottomana (1604-1606).

L’esito tutt’altro che entusiasmante della guerra e le concessioni religiose, con l’accettazione delle fedi non
cattoliche, segnarono il crollo della strategia di Rodolfo.
Il tessuto istituzionale iniziò a lacerarsi dinanzi alle divisioni politico-religiose degli stati: la Declaratio
Ferdinandea (che proteggeva la libertà di culto del luterani nei principati ecclesiastici) non venne rinnovata, il
Tribunale Camerale (funzionale alla risoluzione dei conflitti tra gli Stati tedeschi) venne depauperato del suo
potere e la Dieta stessa venne chiusa e svuotata di tutta la sua autorità, conseguentemente al rifiuto
dell'Imperatore di risolvere pacificamente le diatribe tra luterani e cattolici nella città di Donawurth: la crisi
locale venne conclusa con l'intervento militare del ducato bavarese, che annesse la città.
L'intervento bavarese mise in allarme tutti gli Stati tedeschi protestanti e portò la Sassonia a unirsi al blocco
calvinista. Si formarono due blocchi politico-religiosi-militari contrapposti:

1. l'Unione evangelica protestante, fondata nel maggio 1608 egemonizzata dal Palatinato;
2. la Lega cattolica, fondata a Monaco nel luglio 1609, sotto l'egida bavarese.

L'autorità imperiale di Rodolfo II stava andando in pezzi: non poté far nulla per impedire la scissione politico-
religiosa in quanto dovette difendersi dai tentativi del fratello Mattia di spodestarlo dal trono. Il 25 luglio 1608
fu raggiunto tra i due un compromesso secondo cui Rodolfo rimase imperatore e conservò: Boemia, Slesia e
Lusazia. Egli concesse ampia libertà di culto ai boemi e ai cechi con la c.d. Lettera di Maestà del 1609,
istituendo due Diete, una per i protestanti e una per i cattolici, i cui eventuali conflitti sarebbero stati risolti da
un apposito collegio di Difensori della fede - questa mossa era volta a scompaginare il fronte dell'Unione
evangelica, alla quale infatti avevano aderito i protestanti boemi -.

Mentre Mattia ottenne: Austria, Moravia e Ungheria, di cui divenne Re. Concesse libertà religiosa ai
protestanti d'Austria per l'appoggio fornitogli per l'ascesa al potere.

La crisi era ormai ad un passo dal compiersi: nel 1609 la morte del duca di Julich-Kleve, confinante con i
Paesi innescò una lotta feroce per il controllo del ducato (fra l'altro religiosamente diviso).
Considerandola una sfida alla propria autorità e volendo imporre nel ducato un sovrano cattolico, Rodolfo
avocò al Tribunale camerale la questione ed approfittò del rifiuto dei protestanti per ordinare la confisca del
ducato, incaricando l’esercito spagnolo dei Paesi Bassi di eseguire l’ordine. L’importanza strategica dello
Julich-Kleve spinse la Francia a predisporre un intervento militare, ma l'assassinio di Enrico IV (maggio
1610) sventò una possibile guerra europea (per ora). Il ducato venne spartito tra i due principi luterani di
Brandeburgo e il Neurburg, e con la morte di Rodolfo II divenne imperatore Mattia I d'Austria.

Le alleanze religiose si strutturarono sul piano internazionale: l'Unione evangelica si alleò con l'Inghilterra, le
Provincie Unite e, indirettamente, con la Francia che, seppur cattolica, iniziò a sostenere i protestanti tedeschi.
Ma un numero così alto di Stati paradossalmente finì per indebolire il fronte unito ed energico dei protestanti
tedesco, nacque dunque un fronte luterano neutrale costituito da Sassonia, Assia-Darmastd, e
Brandeburgo.

La Lega cattolica era invece maggiormente compatta, nonostante la Baviera continuasse a pretendere un
maggior peso all'interno dell'Impero, e contava sull'alleanza con Spagna e Papato. Proprio la Spagna di
Filippo III, si era interessata alla questione dinastica tedesca, che per ora vedeva Mattia al governo, ma alla
sua morte si sarebbero scatenate le solite guerre dinastiche intestine. Per cui si cercò di indirizzare la prossima
elezione imperiale alla scelta di Ferdinando III di Stiria, cugino Rodolfo II, Carlo II, morto nel 1590 e al
quale proprio Rodolfo aveva riconfermato le terre concesse in eredità da Massimiliano II: gli spagnoli lo
consideravano un alleato più sicuro, in quanto era stato educato dai Gesuiti e avrebbe intrapreso una dura lotta
controriformistica e assolutistica nei confronti dei dissidenti nell'Impero, luterani e calvinisti fra tutti, rispetto
ai più “morbidi” Rodolfo II e Mattia I.

Così il 30 marzo 1617 i due stati stipularono un patto rimasto segreto per decenni che prevedeva una
spartizione definitiva dei territorio controllati dalla dinastia d'Asburgo:
● Ferdinando di Stiria, diventando Ferdinando II Imperatore del Sacro Romano Impero (1619-37) alla
morte di Mattia, avrebbe governato sulle terre ereditarie asburgiche e avrebbe ottenuto anche la
corona boemo-ungherese. Oltre al già menzionato titolo imperiale; la corona boema venne “indossata”
da Ferdinando nel giugno 1617;
● Filippo III di Spagna avrebbe rinunciato definitivamente ai suoi diritti sulla monarchia austriaca,
ottenendo però diritti imperiali sull'Alsazia e sull'Ortenau e in Italia settentrionale. Filippo III avrebbe
beneficiato di questi territori in quanto collegavano la Lombardia spagnola attraverso le Alpi.

In Boemia Ferdinando (ancora Ferdinando III di Stiria), cattolico intransigente, sconfessò la Lettera di Maestà
concessa da Rodolfo ai protestanti, impedendo le riunioni ai Difensori della fede (mentre intanto aveva
trasferito la capitale a Vienna, lasciando a Praga un consiglio di reggenza prevalentemente cattolico): i
Difensori protestanti inviarono a Praga due luogotenenti con una lettera di protesta da consegnare al
sovrano, ma essi non vennero nemmeno ascoltati e lanciati dalla finestra ( Defenestrazione di Praga, 23
maggio 1618). Questo scabroso evento, la “scintilla” della Guerra dei 30 anni, provocò l’arruolamento di un
esercito e la rivolta immediata dei protestanti boemi - che si riunirono in una Dieta -.
Un anno dopo, la morte di Mattia consentì finalmente il compimento del progetto politico asburgico:
Ferdinando venne eletto Imperatore (agosto 1619) e riunì tutti i domini asburgici fin allora separati dalle
divisioni ereditari, così come pattuito nel marzo 1617.
Il conseguente rifiuto dei boemi di riconoscere il nuovo imperatore consentì al principe elettore calvinista
Federico V del Palatinato di assumere finalmente il ruolo di aperto antagonista della corona asburgica,
accettando l’elezione da parte della Dieta ceca a re di Boemia.
Vi erano due re di Boemia, Ferdinando e Federico V): così si concretizzarono le alleanze tra i 2
schieramenti politico-religiosi europei, protestanti e cattolici ed ebbe inizio la famosa Guerra dei 30 anni.
Questa non fu una guerra unitaria e continua, ma piuttosto è da considerare come un insieme di conflitti
separati e inframezzati da paci e tregue. Un dato comune di questa guerra fu il rinnovato confronto franco-
asburgico iniziato dai primi anni del '500.

L'Unione evangelica protestante intanto stava perdendo i primi pezzi: il Brandeburgo se ne staccò e la Sassonia
addirittura passò dalla parte opposta, con l'Imperatore, in cambio della Lusazia. Le prime vittorie militari
furono riportate dai Leghisti cattolici i quali costrinsero i protestanti alla Pace di Ulm del luglio 1620. Grazie a
questa prima vittoria, nonostante i rifornimenti provenienti dalla Transilvania per le truppe protestanti boeme,
quest'ultime vennero nuovamente sconfitte nella grande battaglia della Montagna Bianca (novembre 1620),
vicino Praga, dalle truppe cattoliche del conte di Tilly. Le conseguenze furono disastrose per i protestanti:
l'Unione evangelica si dissolse nel 1621, il Palatinato venne invaso dalle truppe spagnole di Ambrogio
Spinola e lo stato diviso fra Ferdinando II e Massimiliano II di Baviera, il quale assunse anche l'onore di
principe elettore. L'ordine venne riportato in Boemia, che perse l'indipendenza insieme alla sua Dieta, con una
violenta repressione e lo stesso accadeva in Ungheria: in entrambi gli stati veniva ristabilito il cattolicesimo
come religione ufficiale.

4 La guerra dei Trent’anni: dall’Italia al Baltico

Come in passato, la lotta egemonica franco-spagnola ritrovava uno dei suoi baricentri nell’Italia settentrionale.
Lo scontro si infervorò nel 1615, quando scoppiò un primo conflitto tra Repubblica Veneta e Asburgo
d'Austria, per il controllo del mare Adriatico, conflitto poi conclusosi nel 1617 con la pace di Madrid, la
quale non comportò modifiche territoriali. In funzione anti-asburgica, e quindi indirettamente legati alla
Francia, vi erano 1) il Granducato di Toscana, dal momento in cui la nipote del granduca Ferdinando I, Maria
de' Medici, era andata in sposa al re francese Enrico IV; e poi 2) il Ducato di Savoia, che era uscito da quella
condizione di Stato cuscinetto tra Francia e Spagna (nell'Italia settentrionale) che le era stata data con la pace di
Cateau-Cambresis (1559): con il nuovo duca Carlo Emanuele I, il Ducato si ampliò territorialmente
(annessione di diversi territori), privilegiando definitivamente i territori italiani rispetto a quelli d'oltralpe. Fu
proprio questo il motivo che li condusse a scontrarsi con gli spagnoli di Milano e ad avvicinarsi ai francesi.
Inoltre lo scontro si approfondì nel momento in cui si scatenò la disputa riguardo il controllo del Monferrato
(dal 1536 in mano ai Gonzaga), riaperta con la morte di Francesco IV Gonzaga: il conflitto (1614-17) venne
portato vittoriosamente a termine dagli spagnoli.

Altro motivo di scontro fu l’occupazione della Valtellina da parte del governatore spagnolo di Milano, con il
pretesto di una rivolta cattolica contro il predominio calvinista. Immediata fu la reazione della Francia, che
tuttavia preferì agire solo sul piano diplomatico, riuscendo alla fine a far riconsegnare la Valtellina ai Grigione
(pace di Monçon, 1626).

Qual era il vero motivo che si celava dietro il pretesto di occupare la Valtellina solo per liberare i cattolici
sottomessi alla religione calvinista? Il fatto che quella regione, collocata tra il Tirolo austriaco e la
Lombardia spagnola, avrebbe funto da cinghia di trasmissione fra la Spagna, gli Asburgo d'Austria e i
Paesi Bassi.

Altra area essenziale per le sorti della guerra, sta volta in funzione anti-asburgica e anticattolica, sarebbe
risultata l'area baltica: negli anni 20 del '600, efficace era stata l'offensiva svedese contro la potenza cattolica
polacco-lituana, che perse molti possedimenti (Livonia, Curlandia e parte della Prussia orientale) fino alla
tregua di Altmark del '29. Alla metà degli anni 20 del XVII secolo si contrapponevano dunque 2 diversi
progetti di strutturazione del continente europeo:

- il disegno ispanico-imperiale di un blocco contro gli Stati protestanti tedeschi e l'Olanda, che: ad est si
estendesse dalla Polonia, con il suo sbocco sul Baltico, fino all'Ungheria, alla Transilvania e ad ovest
si riunisse con la Spagna e i Paesi bassi attraverso l'indispensabile collegamento dei passi alpini della
Valtellina e della Lombardia;
- il disegno franco-olandese, ideato dal Cardinale Richelieu, che avrebbe configurato un Europa
comprendente gli Stati protestanti tedeschi, insieme agli Stati che controllavano il Baltico, ossia la
Danimarca e la Svezia.

L’ago della bilancia divenne la Danimarca, ancora non schieratasi e rimasta nel limbo, in attesa di valutare le
mosse a lei più congeniali: il re Cristiano IV stimò che l'Impero Asburgico avrebbe, prima o poi, attaccato il
suo Stato, per guadagnarsi nuove sponde sul mar Baltico, in proiezione di un futuro scontro tra Svezia
protestante e Impero cattolico. Inoltre il re danese era interessato ad alcuni vescovati tedeschi, tra cui quello di
Brema, amministrato da suo figlio Federico. Così alla fine del 1625, stipulata l'alleanza con le Provincie Unite,
l'Inghilterra e il principe del Palatinato Federico V, Cristiano invase la Germania l'anno dopo, ma venne
sconfitto dalle truppe del nobile boemo Wallenstein prima a Dessau (aprile 1626) poi a Lutter ad opera del
conte Tilly. In seguito all'occupazione dell'Holstein e della Pomerania, Cristiano firmò la pace di
Lubecca (1629) con cui la Danimarca si estraniava dalla guerra.

La guerra dunque sembrava volgere tutta a favore degli Asburgo, il controllo del Mare del Nord era
infatti lì ad un passo. Ma la storia non va mai come deve andare. L’imperatore Ferdinando II prese 2
decisioni che piegarono gli eventi in direzione opposta: 1) l'emanazione dell'editto di restituzione (1629), il
quale ristabilì l'operatività del reservatum ecclesiasticum, vietando le secolarizzazioni dei beni cattolici e
ordinando quindi il ritorno alla Chiesa cattolica del patrimonio confiscato dai protestanti; 2) il generale
Wallenstein venne nominato Principe del Mecleburgo e ottenne il potere di stipulare trattati.

Entrambe queste scelte, prese dall'imperatore senza neanche consultare gli altri prìncipi tedeschi né la Dieta
imperiale, comportarono la destabilizzazione della già precaria situazione interna tedesca: venne riunita,
senza l'assenso imperiale, la Dieta di Ratisbona (1630), fomentata dalla diplomazia francese.

La reazione dei principi non si fece attendere, respinsero la richiesta dell’imperatore di designare suo figlio
Ferdinando al titolo successorio di Re dei Romani. Inoltre, ottennero la sospensione dell'editto di restituzione
e lo scioglimento dell'esercito di Wallenstein, la “guardia armata” dell'Imperatore.
In politica estera gli Stati tedeschi ostacolarono la lotta asburgica contro le Province Unite, che tra la fine degli
anni 20 e l'inizio del 1630 conquistarono alcune aree strategiche (tra cui Venloo e Maastricht) grazie al loro
comandante Federico Enrico d'Orange-Nassau. Mentre la Francia, sistemata definitivamente la questione
religiosa con la caduta dell'ultima fortezza ugonotta (la Rochelle) nel '29, poteva ora dare vita al quadro anti-
asburgico tanto desiderato stipulando un'alleanza con la Baviera cattolica.

Sul fronte italiano: nel 1626 alla morte del duca di Mantova, Ferdinando Gonzaga, seguì immediatamente
quella del suo successore, Vincenzo II, che aveva designato come suo erede Carlo di Gonzaga-Nevers, del
ramo francese della famiglia. Il duca di Savoia Carlo Emanuele I, però, voleva rivendicare per sé il Monferrato
e si alleò con la Spagna per spartirsi con questa quel territorio e gli Stati gonzagheschi. Tuttavia, l’attacco si
dissolse quando intervenne lo stesso re francese Luigi XIII, insieme a Venezia, sconfiggendo le truppe
ispano-sabaude a Susa e imponendo la pace franco-asburgica di Ratisbona nel 1630, con la quale si
risolse la questione gonzaghesca a favore dei Gonzaga-Nevers, riconosciuti duchi da Savoia e Spagna.
Carlo Emanuele morì di febbre nel luglio di quell'anno, lasciando il difficile compito di gestire la sua
fallimentare politica militare al figlio Vittorio Amedeo I.

L'imperatore dovette richiamare le sue truppe italiane nel nord Europa, per fronteggiare l'offensiva svedese di
Gustavo II Adolfo Vasa che, grazie agli accordi stretti con la Franca di Richelieu e alcuni Stati tedeschi ostili
all'imperatore, ottenne una serie di vittorie militari importantissime grazie all’appoggio della Sassonia e
di Brandeburgo, sul Tilly a Breitenfeld e sullo stesso generale Wallenstein a Lutzen nel novembre 1632.
La vittoria sul Wallenstein però costò a Gustavo stesso la vita. Tramontava, inoltre, anche la stella del
Wellenstein, che, forte dei poteri ricevuti, fra cui quello di stipulare trattati, concluse un armistizio con la
Sassonia e prese contatti con la Francia e la stessa Svezia alle spalle dell’imperatore. Per questo motivo fu
assassinato nel 1634.

La Svezia, ora governata dal reggente cancelliere Oxestierna, riunì le forze tedesche rimanenti con il patto di
Heilbronn (aprile 1633), ma venne sconfitto nel settembre 1634 dalle rinnovate truppe tedesche. Si costituì così
una terza forza in Germania, composta dai principi protestanti tedeschi, tra cui il principe Giorgio di
Sassonia e il principe di Brandeburgo, che firmò la pace di Praga con l'imperatore (30 maggio '35), con
la quale si approvava l'inviolabilità territoriale dell'Impero, il ripristino dell'autorità della Dieta e
l'abolizione dell'editto di restituzione, dando in cambio a Ferdinando II il riconoscimento
dell'ereditarietà della corona boema.

5 L’intervento francese e la pace di Westfalia

L’equilibrio raggiunto in Germania fu però ben presto rimesso in discussione. Anzitutto la pace di Praga aveva
ancora una volta evitato di riconoscere il calvinismo come confessione autonoma. D’altra parte il fatto che fosse
una pace prettamente tedesca era impensabile in un conflitto che ormai era diventato di dimensioni europee.

La Francia, rimasta finora ai margini della guerra rispetto alle altre concorrenti a causa delle questioni interne
relative agli ugonotti, poteva ora dispiegare il suo potenziale bellico in tutta la sua portata e mettere in ginocchio
la resistenza asburgica.
Dichiarata guerra agli spagnoli (19 maggio '35), Richelieu poteva ora unire tutte le potenze anti-asburgiche in
una sola coalizione, comprendente Francia, Svezia, Olanda, Savoia, Ducati di Parma e Mantova. La guerra
divenne totale: le flotte franco-spagnole si affrontarono nei mari, gli svedesi trionfarono a Wittstock (1636) e poi
a Breitenfeld ('42) , gli olandesi distrussero la flotta spagnola a Dover, nella Manica.
Pochissimi furono i successi asburgici: la Spagna di Filippo IV, o meglio, del duca di Olivares, visto il rilevante
ruolo de facto assunto da quest'ultimo nella politica spagnola, stava ormai capitolando sotto i colpi della sua
crisi e la pace generale divenne una necessità, piuttosto che un desiderio:
1. l'inasprimento fiscale in Portogallo e l'intensificarsi della sovranità spagnola negli affari lusitani non si
rivelarono scelte che piacquero al popolo di Lisbona, che si ribellò prontamente nel 1637, supportato
anche dai rifornimenti di Richelieu;
2. scarsi risultati si erano ottenuti dall'offensiva attuata nelle Provincie Unite sin dal 1621, e l'impegno
anche su questo fronte di guerra dissanguò le già esangui finanze spagnole;
3. infine la facile penetrazione militare francese in Catalogna (1639), regione percorsa da un odio
profondo nei confronti del potere centrale, e la successiva rivolta generale, culminata nella presa di
Barcellona (22 maggio 1640), rappresentò il “canto del cigno” spagnolo in questa guerra (il 1640 venne
definito proprio dall'Olivares l'anno più infelice che questa monarchia abbia mai avuto).

Gli eventi precipitarono: il Portogallo riassunse la sua sovranità, grazie all'insurrezione e alla proclamazione,
da parte di un gruppo di nobili portoghesi, del nuovo re lusitano Giovanni IV (1640-56); la Catalogna nel
1641 passava sotto il governo transalpino; l'Olivares venne esiliato dal governo spagnolo (gennaio '43).
Le morti, a poca distanza di tempo, del Cardinal Richelieu e del re francese Luigi XIII (dicembre '42-gennaio
'43), portarono al potere il cardinal Mazzarino. La Spagna poteva così rifiatare, chiudendo gli eventuali fronti
di guerra rimasti aperti e gestendo la pacificazione interna. Gli Asburgo d'Austria dell'Imperatore Ferdinando
III (1637-57) cercarono una soluzione di pace interna con gli Stati tedeschi, pace promossa anche dal
Papa Urbano VIII (1623-44), ma che non ebbe esito alcuno. Nondimeno in Westfalia, nel dicembre '44 si
aprirono 2 separati tavoli di negoziato, uno dedicato ai cattolici e alle questioni tedesco-svedesi, l'altro
destinato a regolare le questioni protestanti e i rapporti franco-asburgici.

La pacificazione generale era dunque in atto:

1) la Svezia, dopo aver attaccato Vienna coadiuvata dall'esercito transilvano di Giorgio Rakozy, stipulò la
pace con i tedeschi a Linz nel 1645;
2) sempre nello stesso anno la Sassonia strinse un accordo di pace con la potenza svedese
3) iniziarono le trattative tra Spagna e Provincie Unite.

Tra il 1645 e il '46 dunque si definirono una serie di accordi che poi, il 24 ottobre 1648 portarono alla firma
definitiva del documento di pace per la Germania:

❖ venne concessa un'amnistia generale a tutti i principi tedeschi e istituito l'ottavo elettore per il
Palatinato;
❖ fu ritirato definitivamente l'editto di restituzione, per cui vennero ammesse le secolarizzazioni dei
beni cattolici operate dai protestanti fino al 1624 (fino alla pace di Augusta del 1555 esse erano
consentite solo fino al 1552)
❖ il calvinismo venne per la prima volta riconosciuto come confessione tollerata nell'Impero;
❖ tutti questi accordi divennero la legge ufficiale dell'Impero (Constitutio Westphalica), la quale
attribuì agli Stati tedeschi (seppur subordinati all'autorità imperiale) il godimento della sovranità
territoriale, ossia la capacità giuridica di stipulare alleanze, di reclutare l'esercito, di amministrare la
giustizia, ecc. l'Imperatore conservava interamente la sua sovranità solamente nei domini dell'Austria e
della Boemia.
situazione confessionale dopo la pace di Westfalia del 1648

In tutti i modi la Francia di Mazzarino cercò di sabotare i piani diplomatici di Westfalia, che la vide
sostanzialmente esclusa e permetteva così agli Asburgo di continuare la loro guerra contro la monarchia
transalpina (la Spagna si era pacificata con le Provincie Unite, riconosciute indipendenti nel 1648). Alla
fine, dopo la pace fra Svezia e Impero dell'agosto 1648 e soprattutto, dopo la rivolta interna della Fronda,
anche la Francia accettò i trattati di Pace, sebbene la guerra franco-spagnola si protrasse fino al 1659 e
alla Pace dei Pirenei. La Francia ottenne il possesso del Pinerolo in Italia, dei vescovati ecclesiastici di Metz,
Toul e Verdun e dell'Alsazia. l'Impero dovette rinunciare per sempre all'idea di una definitiva
restaurazione cattolica e di un'egemonia territoriale in Europa.

La nuova situazione geopolitica europea dopo la pace di Westfalia. 1648

Ma i risultati più importanti delle paci di Westfalia non vanno ricercati nell'ambito delle conseguenze dei singoli
Stati; bensì nell'ambito degli effetti che questa pacificazione generale produsse sul piano internazionale e
nel quadro della storia moderna europea: il 1° effetto fu il riconoscimento dell'equilibrio come fondamento
principale della politica continentale, affidata agli strumenti politico-diplomatici delle cancellerie europee; il 2°
effetto è strettamente collegato al primo e non è altro che la neutralizzazione definitiva della lotta religiosa e il
conseguente riconoscimento della pluriconfessionalità religiosa nella storia moderna internazionale → nacquero
le basi della grande politica europea come l'unico mezzo di confronto tra gli Stati sovrani, e benché la religione
continuasse a rivestire una buona importanza politica, dopo il 1648 fu sostanzialmente rimossa come elemento
generatore di conflitti politici e come fattore determinante nelle relazioni internazionali.

L'età confessionale si era così definitivamente conclusa, lasciando spazio all'equilibrio politico europeo
laicamente inteso, basato sul potere assoluto degli Stati, che ormai andavano sempre più modernizzandosi e
burocratizzandosi, e sul diritto internazionale, il quale, d'ora in poi, avrebbe gestito le relazioni internazionali.

Capitolo 11 - Francia e Inghilterra: assolutismi, rivolte e rivoluzioni

1 Uno stato da ricostruire: la Francia da Enrico IV a Richelieu

Dal 1598, Enrico IV aveva gettato le basi per la ricostruzione dello Stato francese. Punto debole erano le
finanze, che versavano nel caos. La moneta dal 1575 era separatamente coniata dalle azioni ligueurs e ugonotte,
con conseguente crescita dell’inflazione. Non meno preoccupanti le condizioni dell’agricoltura. Altrettanto i
commerci.
L’opera di ricostruzione avviata da Enrico IV fu radicale, soprattutto nel settore delle finanze, affidate a
Maximilien de Béthune, duca di Sully, che riuscì a riordinare il bilancio statale, introducendo nel 1602 una
riforma monetaria che permise di riprendere la coniatura.
Il ricorso all’alienazione delle cariche pubbliche rafforzò lo spirito esclusivo della noblesse de robe, cioè della
casta dei magistrati e dei consiglieri che considerava l’ufficio rivestito come una proprietà privata.
Ma legò anche gli interessi di questo ceto alla monarchia quando nel 1604 fu istituita una tassa regia, la celebre
paulette (dal nome del funzionario Charles Paulet), in cambio della quale la corona consentì ai giudici di
trasformare in patrimoni privati i loro uffici. Con ciò lo Stato guadagnava un’entrata regolare.
Allo stesso modo l’agricoltura fu favorita dall’alleggerimento della taille. Furono inoltre create delle manifatture
protette dal governo a carattere monopolistico.

La politica industriale fu l’aspetto più rilevante dell’applicazione di un indirizzo economico noto come
mercantilismo. Il termine, coniato da Adam Smith nel ‘700, indica un insieme di teorie cinque-seicentesche al
centro delle quali si collocava la volontà di accrescere la ricchezza nazionale e la convinzione che questa
dipendesse dalla crescita delle riserve monetarie; pertanto si riteneva necessario avere sempre in attivo la
bilancia dei pagamenti e di conseguenza la bilancia commerciale.
A questo fine si caldeggiava l’incremento delle esportazioni a danno delle importazioni e l’incentivazione della
produzione locale.

Sotto il nome di mercantilismo passa la stretta relazione tra la potenza di uno Stato e la sua ricchezza materiale.
In questo modo, le politiche ispirate dal nazionalismo economico divennero dalla metà di quel secolo più
sistematiche.
Soprattutto in Inghilterra, presero forma le prime affermazioni mercantilistiche.
Nel 1630 Thomas Mun, dirigente della Compagnia delle Indie Orientali, raccolse le teorie mercantiliste nel suo
England Treasure by Foreign Trade che ribadiva l’importanza del commercio estero.
Di qui l’insistenza su politiche protezionistiche miranti a tenere sotto controllo l’entità delle importazioni e a
sostenere le attività mercantili di esportazione e quella manifatturiere necessarie ad avere prodotti da esportare.
Tanto che Mun appariva consapevole dei rischi inflattivi.
Teorie mercantilistiche con lo scopo dichiarato di assicurarsi cospicue quote del commercio internazionale
vennero elaborate in Francia tra la metà del ‘500 e i primi del ‘600 dai tre principali scrittori di economia
dell’epoca: Jean Bodin, Barthelemy De Laffemmas e Antoine De Montchrestien.

In Francia l’indebolimento del potere monarchico si era riflesso nella semi-indipendenza del clero, degli Stati e
dei governatori provinciali, delle corporazioni e dei Parlamenti.
Sotto Enrico IV la riguadagnata obbedienza di questi corpi intermedi non era ancora sufficiente a ristabilire
l’unità, giacché continuava a rappresentare un problema la presenza degli ugonotti, cui l’Editto di Nantes aveva
riconosciuto un’autonoma esistenza. L’autonomia degli ugonotti costituiva ormai un rischio per la stessa
sicurezza del paese, esposto alla pericolosa vicinanza delle potenze asburgiche.
L’Editto di Nantes, del resto, era considerato solo una tregua provvisoria dai cattolici, artefici di una vasta
azione di riconquista del paese e raccolti sotto le bandiere dei devots, entro cui militavano molti ex ligueurs. I
devots insistevano sulla necessità di ristabilire l’unità religiosa del paese.
La riammissione dei gesuiti in Francia aveva consentito un’intensa attività di propaganda cattolica.
La persistenza di profonde fratture politico-religiose si manifestò apertamente in occasione delle scelte
antiasburgiche operate in politica estera dal re. Enrico IV infatti, nel 1609, al momento della crisi innescata dalla
successione del ducato di Julich-Kleve, era in procinto di intraprendere la guerra contro l’Impero e la Spagna a
fianco dello schieramento protestante (Inghilterra + Olanda + Unione evangelica dei principi tedeschi). L’ex
frate Francois Ravaillac, che assassinò Enrico IV il 14 maggio 1610, era intervenuto ad interrompere questa
linea.
La Francia dovette in buona sostanza ritirarsi dal ruolo di protagonista e impegnarsi nella ricostituzione
dell'unità politico-religiosa. E ancor più immediate furono le conseguenze in politica estera: l’assunzione della
reggenza in nome del minorenne Luigi XIII da parte della regina vedova, Maria de’ Medici, comportò un
mutamento di strategia politica, fondato ora sulla ricerca della conciliazione con le corone cattoliche. Una linea
sugellata dal trattato di Fointainbleu con la Spagna, che prevedeva un’alleanza difensiva decennale contro le
rivolte interne e attacchi esterni e stabiliva un duplice matrimonio tra il nuovo sovrano e l’infanta di Spagna,
Anna d’Austria e tra Elisabetta, sorella di Luigi XIII e il futuro Filippo IV.

I primi anni della reggenza di Maria de’ Medici furono travagliati. Subito infatti la grande nobiltà era insorta,
riunendosi nel 1614 in una lega contro la reggente guidata da Enrico II, principe di Condè, pronto l’anno
seguente a richiedere l’aiuto degli ugonotti per cercare di evitare il matrimonio spagnolo e soddisfare le sue mire
al trono francese. L’opposizione della nobiltà di sangue era stata momentaneamente tamponata con la cosiddetta
“pacificazione di Menehould”, con cui Maria de’ Medici concesse la convocazione degli Stati gnerali che si
riunirono a Parigi nel 1614-15.
Per questo organismo si trattò dell’ultima convocazione, nel corso della quale si capì che ne sarebbero usciti
risultati insignificanti a causa delle accese rivalità tra gli ordini.
Gli Stati Generali del 1614-15 non poterono dunque deliberare nulla in merito alle scottanti questioni della
riorganizzazione politica del regno.
Da ricordare, più che altro, è la comparsa dell’allora vescovo di Lucon e futuro cardinale Armand-Jean du
Plessis de Richelieu, con un moderato spirito controriformista vicino ai devots.
Nel 1616 il principe di Condè si fece autore di un’altra sollevazione armata. La grande nobiltà era intenzionata a
riguadagnare le posizioni perdute, e a contestare la politica filospagnola di Maria de’ Medici, allora largamente
influenzata dal suo consigliere fiorentino Concino Concini. Già introdottosi a corte tuttavia, Richelieu seppe
adoperarsi per riconciliare la reggente con il Condè, il cui successivo arresto provocò però ulteriori rivolte da
parte dei duchi di Guisa, di Vendome, di Nevers e dell’ugonotto duca di Buillion. Ma sedata anche questa
rivolta, l’astio maturato contro Concini sfociò nel suo assassinio per ordine dello stesso Luigi XIII, che
cominciava a dissociarsi dalla politica materna, mentre Richelieu veniva nel 1618 esiliato ad Avignone con
l’accusa di aver partecipato ad una serie di intrighi con Maria de’ Medici contro il sovrano. Nel 1620,
un’ennesima ribellione della nobiltà spinsero Luigi XIII ed il Luynes alla decisione di affrontare militarmente i
rivoltosi, sconfitti a Ponts-de-Cè. Il successo portò il re a cimentarsi con la restaurazione del cattolicesimo nel
Bearn. Gli Stati provinciali del Bearn avevano già nel 1617 ribadito l’immodificabilità della loro costituzione,
col sostegno degli ugonotti di La Rochelle. La scelta di Luigi XIII di usare la forza per imporre il cattolicesimo
al Bearn ed unificarlo alla corona francese sollevò l’immediata reazione di gran parte delle province protestanti.
La guerra che seguì ottenne nel 1622 solo il precario compromesso della pace di Montpellier, con cui l a corona
era ancora obbligata a mantenere l’autonomia di un’ottantina di piazze ugonotte.

Tornò allora in auge il Richelieu, il cardinale nel 1624 prendeva nelle sue mani una situazione quanto mai
complessa. Benché vicino alle concezioni controriformiste dei devots, Rochelieu mise al centro la strenua difesa
della superiore sovranità statale incarnata dal sovrano. Tuttavia l’assoluta preminenza dei supeiori interessi dello
Stato ebbe ragione di questo impianto spirituale e Rochelieu fu decisamente contrario non solo al separatismo
religioso e militare degli ugonotti, ma anche a tutti quei movimenti cattolici che costituivano un ostacolo alla
superiore unità dello Stato. Sicché, pur convinto della necessità di difendere l’ortodossia cattolica come pilastro
dell’autorità regia, Richelieu favorì le spinte disciplinari della Controriforma, subordinando le controversie
religiose alle ragioni della politica.
Poté trovare sostegno nel partito dei “bons francais”, formatosi negli anni di Luigi XIII, per il quale si trattava di
anteporre gli interessi nazionali della corona a quelli internazionali del cattolicesimo.
Certo, l’assolutismo del governo fu più teorico che pratico, non andando esente da inevitabili compromessi con i
corpi sociali. Quella noblesse de robe i cui interessi Sully aveva legato alla monarchia con l’introduzione della
paulette, portarono lo stesso Richelieu a rinunciare all’idea di abolirla, perché il sistema dell’ereditarietà delle
cariche favoriva la sicurezza politica del paese, garantendo il consenso di un ceto parassitario ma, grazie ad essa,
docile.
Richelieu si convinse che l’esistenza separata degli ugonotti doveva essere eliminata e decise di portare l’attacco
alla fortezza di La Rochelle. Dal luglio del 1627 iniziò così il lungo assedio delle truppe regie alla città,
inutilmente appoggiata dagli inglesi. Il 28 ottobre del 1628 riusciva a farla capitolare e ad obbligarla alla
sottomissione al re. Contemporaneamente venivano domate la residua guerra condotta nel sud dal principe di
Condè e la resistenza di Montauban, la cui conquista segnò la definitiva resa degli ugonotti. Il 28 giugno 1629 la
pace di Alés (o Edit de Grace) metteva la parola fine alle guerre di religione, sopprimendo i diritti degli
ugonotti, pur garantendo loro la libertà di culto.

Richelieu mirava a guadagnare il leale consenso politico degli ugonotti, al punto da accettare i servigi del
principale esponente dei Rohan, il duca Enrico.
Proprio la mancata imposizione dell’uniformità di fede finì per rendere esplicita la distanza che lo separava dai
devots. Né si attenuò la molesta pretesa dei Parlamenti, come quello di Parigi, di costruire un contrappeso
all’autorità della corona, condivisa dalla massa degli officiers (tesorieri di Francia) ogniqualvolta la monarchia
sembrava toccare i loro interessi.

Il Parlamento della capitale si era anche assicurato la funzione di custode privilegiato dei diritti dei sudditi. Fu
proprio negli anni 1629-31, mentre la Francia attraversava una crisi economica senza precedenti, che le
opposizioni al Richelieu trovarono motivi di forza. I devots, sentendosi traditi, serrarono le fila di un fronte che
raccoglieva tutte le personalità che a corte si opponevano alla politica di Richelieu.
L’opposizione fu guidata dal guardasigilli del regno, Michel de Marillac, che delineò un programma alternativo
a quello di Richelieu: annientamento degli ugonotti, alleanza con la Spagna e con la Chiesa di Roma,
disimpegno sul fronte internazionale antiasburgico. A corte queste tensioni si rispecchiarono nell’opposi zione
capeggiata da Maria de’ Medici e soprattutto dal fratello del re, Gastone d’Orleans.
Fu proprio Luigi XIII che, compendo in quella che è passata alla storia come la journee des dupes (la giornata
degli inganni), un inatteso atto d’indipendenza, liquidò ogni linea alternativa a quella del cardinale,
convocandolo nel suo padiglione di caccia a Versailles l'11 novembre 1630 per ribadirgli la sua fiducia.
Il successivo allontanamento di Maria de’ Medici (preferì andarsene in volontario esilio) e di Gastone
d’Orleans, e l’arresto del Marillac, sugellarono una svolta politica che ebbe immediate ripercussioni, giacché
consentì alla Francia di intervenire direttamente nelle vicende belliche europee.

Il diffuso clima di agitazione sociale si aggravò quando, nel 1653, la Francia si assunse l’oneroso compito di
entrare in guerra contro Vienna e Madrid. L’inasprimento sociale fu tanto violento da porre intere province nella
condizione di non poter più versare le somme richieste a da obbligare la monarchia a ricorrere all’esazione
coatta e all’indebitamento con i finanzieri, cui venne concessa in pegno la riscossione delle tasse indirette (o
aides).
Il risultato fu di esasperare l’opinione popolare e di convincerla che le imposte fossero percepite ad esclusivo
vantaggio dei traitants o partisans, ossia appunto degli appaltatori. Ad aggravare la situazione intervenne il
tentativo, per riequilibrare la distribuzione della tassazione, di eliminare le sacche di esenzione e privilegio
fiscale.
L’insostenibile pressione del fisco fece da detonatore ad una serie di rivolte popolari e di vere e proprie
jacquieries. A dimostrarlo sta la circostanza che le rivolte furono innescate da nobili e dagli appelli dei
Parlamenti locali. Tuttavia, finché erano controllate dai Parlamenti, le rivolte a carattere urbano furono meno
pericolose, giacché quasi sempre le borghesie provinciali riuscivano a trovare un accordo con il governo.
Diversa era la situazione allorché i contadini prendevano la guida delle sollevazioni.
Benché esteso, però, il movimento insurrezionale rimase privo si un coordinamento in grado di collegare le
diverse province. Un’organizzazione efficiente trovò solo nel Perigord, dove la grande sollevazione dei
Croquants del 1637, la più pericoloso per il governo, fu guidata da un oscuro gentiluomo, La Mothe-la Foret,
capace di radunare un esercito rigidamente disciplinato.
Anche qui, però, la promessa dell’abolizione delle odiate gabelle sul vino, per le quali la rivolta era scoppiata e
poi la sconfitta di un’armata croquante da parte delle truppe regie, spensero rapidamente la sollevazione.
L’intesa tra contadini e classi superiori si verificò invece appieno nel 1639 in Normandia in occasione della
rivolta dei Nu-pieds.
Qui l’eccezionale gravosità dei provvedimenti fiscali e regi, determinarono l’alleanza tra i signori e magistrati,
di cui si fece portavoce il Parlamento di Rouen, che guadagnò in popolarità pronunciandosi contro le nuove
imposte e i loro esattori.
Ma disorganizzata, mal diretta e disertata ad un certo punto dagli stessi strati sociali medio-alti, anche la
sollevazione dei Nu-pieds fu ben presto spenta. Benché altre gravi rivolte si verificassero nel 1642 (in
Guascogna) e nel 1643 (nella Ruergue), nessuna provocò conseguenze tali da impedire lo sviluppo dell’apparato
amministrativo centralizzato.
Proprio nel 1642 i compiti di controllo delle finanze venne attribuito dal governo a una nuova figura di
funzionario delegato dal potere centrale, “l’intendente”. Cominciò in tal modo a farsi strada la concezione di una
funzione pubblica affidata interamente ad agenti sottoposti allo Stato, revocabili in ogni momento, che
rappresentavano su tutto il territorio nazionale la volontà del sovrano, sostituendo gli officiers acquirenti di
cariche venali.

2 Il governo del Cardinale Mazzarino e la Fronda

Quando, nel 1642 Richelieu morì, seguito da Luigi XIII nel 1643, i successi della sua politica interna avevano
gettato le basi dell’assolutismo monarchico. La reggenza assunta dalla vedova, Anna d’Austria, non determinò
nessuna discontinuità nei metodi di governo e nella politica estera, soprattutto grazie al rapido emergere del
cardinale Giulio Mazzarino.
Ben presto inviso all’opinione pubblica, Mazzarino proseguì l’aspra politica fiscale del suo predecessore, mentre
lo stato di ribellione delle campagne non s’interruppe fino agli anni ’70. Un rischio più grave venne però da altri
settori.
La noblesse de robe aveva avvertito un disagio crescente, che divenne tanto più grave quando il sovrintendente
alle finanze, Michel Particelli D’Emery, si fece promotore nel 1644 di un insieme di provvedimenti diretti a
colpire i privilegi della capitale che provocarono la risentita reazione del Parlamento di Parigi, resa ancor più
popolare dalla decisone governativa di sospendere il pagamento degli stipendi dei consiglieri delle corti sovrane,
che suscitò la collera dei magistrati.

Nacque da questo malcontento una delle ricolte più rilevanti del ‘600, quella della Fronda (cosiddetta dalla
fionda usata dai ragazzi parigini per scagliare sassi contro le truppe), durata dal 1648 al 1653.
Nel 1648, infatti, i consiglieri della Cours des aides (esperti di contenziosi fiscali) si accordarono con quelli
della camera dei Conti (controllo contabile) e i deputati dello stesso Parlamento per rigettare in blocco i
provvedimenti del governo. L’arresto di alcuni parlamentari fu seguito dall’insurrezione del popolo e nel corso
di un’assemblea di magistrati riunita nel Palazzo di giustizia, dall’approvazione di un articolato programma che
chiedeva l’annullamento di tutte le innovazioni introdotte negli ultimi vent’anni. Mazzarino, isolato e con le
truppe impegnate alle frontiere non ebbe altra scelta che accettare.
D’un colpo la Francia sembrava ripiombare in una situazione semifeudale dominata da ordini sociali, corpi
territoriali e comunità libere ed autonome.
Mazzarino riuscì però a domare la rivolta assediando la capitale con un esercito comandato dal principe di
Condé, Luigi II di Borbone. Chiusa l’11 marzo con la pace di Rueil, questa prima “Fronda parlamentare” fu
tuttavia seguita dalla cosiddetta “fronda dei principi”.
In questo caso proprio Condé si mise a capo della nuova ribellione, alleandosi con Luigi XIII, Gastone
d’Orleans e con le forze del Parlamento: la corte fu costretta ad abbandonare la capitale.
Inevitabili, però, emersero a quel punto le divergenze tra le due anime della ribellione circa l’assetto da dare al
governo: di fronte all’atteggiamento autoritario di Condé, i parlamentari ricondussero le proprie rivendicazioni
nell’alveo del legittimismo monarchico.
Il risultato di queste divisioni fu perciò di risollevare le sorti della corona, in grado con Anna d’Austria di
rientrare a Parigi il 21 ottobre 1652. Nel 1653 anche Mazzolini ritornava nella capitale. la pace, ristabilita nel
'53, coincise con la definitiva affermazione del Mazzarino come arbitro della politica francese.

3 Gli Stuart in Inghilterra


L’assolutismo incontrò in Inghilterra tali e tanti ostacoli da provocare la prima, grande rivoluzione europee, il
cui esito fu la monarchia costituzionale e parlamentare. Questo equilibrio cominciò a deteriorarsi quando, morta
nel 1603 senza eredi Elisabetta, si estinse la dinastia Tudor e la corona passò al re di Scozia Giacomo VI, che
assunse il nome di Giacomo I.
In questo modo, i regni di Inghilterra, Scozia e Irlanda furono riuniti in un unico complesso, dalle differenti
tradizioni politiche, sociali a religiose. In Scozia, il radicato sentimento d’indipendenza si era sempre
accompagnato ad un robusto pregiudizio antinglese, altrettanto avvertito in Irlanda.
Questi antagonismi nazionali si mescolavano alle differenze religiose che dividevano l’anglicanesimo dal
presbiterianesimo scozzese ed entrambi dal cattolicesimo irlandese.
In Irlanda Giacomo I continuò a contrastare il predominio dei cattolici. Così furono prese misure anticattoliche.
Analoga la sua politica in Scozia per contrastare la tendenza della Kirk a prevalere sulla corona; proprio come re
di Scozia, anzi, Giacomo I aveva cercato di ridurla sotto il suo controllo, tentando d’imporre la restaurazione
dell’ordine episcopale.
Con il riconoscimento nel 1581 della superiorità dei diritti della Kirk su quelli della corona e l’anno dopo con
l’abolizione dell’episcopato, già nel 1584 i vescovi di nomina regia erano stati ristabiliti. Nel 1592, però,
l’assemblea generale della Chiesa scozzese riusciva di nuovo a trasferirli sotto il proprio controllo. Nel 1599 il
riconquistato diritto sovrano di nominare i vescovi dimostrò quanto la scelta del modello ecclesiastico inglese
corrispondesse alle radicate convinzioni assolutistiche di Giacomo I.
Lo Stuart ebbe modo di illustrare le sue idee in un’opera, il Basilikon doron (Il dono del re, 1598), nella quale
teorizzava un integrale assolutismo dei re che dovevano esser posti a capo sia dello Stato che della Chiesa.
Ribadite poi nel 599 in “The Trew Law of Free Monarchies”, dove sosteneva la superiorità del monarca rispetto
alle leggi. I teorici politici di epoca elisabettiana avevano tutt’al più riconosciuto alla regina di poter derogare
alle leggi, ma non che il re potesse tassare, né giudicare senza appello o legiferare indipendentemente
dall’assenso del parlamento.

L’affermazione delle prerogative parlamentari si era del resto andata consolidando con la diffusione di idee
religiosamente non ortodosse. Opinioni di questo tipo erano sostenute dagli “indipendenti” che si battevano per
la libertà di coscienza religiosa e per la netta distinzione tra Stato e Chiesa.
Benché politicamente moderata, la maggioranza dei puritani nondimeno giunse a rompere con la monarchia
perché ritenne che l’assolutismo stuardiano tracimava i limiti nella reciproca collaborazione tra Re e
Parlamento, considerata immodificabile. Le aspirazioni religiose di gran parte del movimento puritano vennero
a rappresentare un pericolo per la corona quando gli strati sociali della gentry, rappresentati nella Camera dei
Comuni, giudicarono la politica assolutistica stuardiana distruttiva del tradizionale equilibrio con il Parlamento.

Le prime difficoltà in questo senso si manifestarono sul terreno delle finanze statali, già dagli anni 80 in gravi
difficoltà per i costi della guerra antispagnola e dimostrando l’urgenza di una riforma dell’intero sistema
tributario.
I già diffusi fenomeni di clientelismo e di inflazione dei tutoli nobiliari si erano dilatati per le esigenze della
monarchia, le cui uscite salirono sotto Giacomo I. E subito consistente fu il risentimento della Camera dei
Comuni.
Né fu sufficiente l’iniziativa presa da giacomo I di convocare una conferenza religiosa ad Hampton Court,
accogliendo le sollecitazioni dei puritani, raccolte nel 1603 nella cosiddetta Millenary Petition (Petizione dei
Mille) che domandava correzioni in sensi anticattolico e una maggior uniformità dottrinale della Chiesa
anglicana. Le opinioni espresse al colloquio, prevalentemente favorevoli ad un episcopalismo moderato, non
preoccuparono il re, tanto da indurlo a nominare nel 1604 arcivescovo di Canterbury un noto avversario dei
puritani, Richard Bancfrt.
Resistevano le speranze dei cattolici, presto disillusi, che invano ricercarono l’aiuto della nemica Spagna, con
cui però proprio nel 1604 Giacomo I concludeva la pace.
Di qui un progetto di cospirazione, noto come “congiura delle polveri”, con il quale nel 1605 alcuni
gentiluomini cattolici cercarono di far saltare il Parlamento nel corso di una seduta cui partecipava anche il re.
Benché sventata, la congiura persuase i deputati puritani circa la pericolosità dei “papisti”, subito perseguitati
con una serie di provvedimenti.

Nel primo Parlamento riunito sotto Giacomo I, i primi dissidi tra la camera dei Comuni e il sovrano erano già
emersi in relazione alla competenza a giudicare sulla contestata elezione dello Speaker (Presidente)
dell’assemblea. Sostenendo che tale competenza spettava alla Cancelleria (ossia al re), Giacomo I dichiarò che i
parlamentari detenevano il loro potere solo in base ad una concessione sovrana, sollevando l’opposizione dei
deputati.
Fu allora che cominciarono ad imporsi le teorie dell’”antica costituzione”, tese a dimostrare l’inalterata
continuità storica del regime costituzionale inglese, a partire almeno dalla Magna Charta e a sottolineare
l’impossibilità per ciascuna componente dell’ordinamento di prevalere sull’altra.

L’impossibilità di ricorrere al Parlamento per chiedere ulteriori sussidi, spinse allora Giacomo I a rendere
efficiente l’esazione dei dazi mediante l’estensione del sistema di appalti: il Great Farm (Grande Appalto) del
1604 per la riscossione dei dazi servì questo e fu concesso a tre uomini d’affari per 7 anni, e permise un gettito
fisso di denaro.
A fronte di un debito pubblico crescente, le decisioni del re non fecero che alimentare una tensione crescente,
tanto che il nuovo Parlamento riunito nel 1610 respinse la proposta del governo, detta “Grande Contratto”, di
votare una concessione annua al re, che in cambio avrebbe ritirato le imposizioni fiscali più impopolari.
Né successive e provvisorie misure, quali la creazione di nuovi titoli nobiliari (es. baronetto), risollevarono le
sorti delle finanze. Mentre il Parlamento, di nuovo convocato nel 1614 e rimasto in vita solo alcune settimane,
non approvava alcun provvedimento, guadagnandosi il titolo di Addled Parliament (parlamento sterile).
Una svolta si ebbe nel 1615, con l’avvento alla direzione del governo di George Villiers, duca di Buckingham.
Subito però si dovette affrontare la complessa situazione della guerra dei Trent’anni, rinnovando lo scontro con
il Parlamento per i crediti militari necessari.

Nel 1618 l’intera Europa si attendeva un intervento militare antiasburgico dell’Inghilterra, per i legami dinastici
che univano gli Stuart all’elettore palatino Federico, marito della figlia di Giacomo I, sia per i sentimenti di
solidarietà confessionale con i protestanti tedeschi e boemi.
Quell’intervento però non ci fu soprattutto perché il sovrano non volle affossare la politica di amicizia con la
Spagna iniziata nel 1604 e da lui considerata l’architrave della pacificazione europea.
Così, alla proposta di una mediazione, Giacomo I fece seguire l’iniziativa di unire in matrimonio il figlio Carlo
con una principessa spagnola. Andato però in fumo questo progetto, l’incerta politica estera del sovrano inglese
tornò ad orientarsi in senso antiasburgico.
Ma a questo punto, ad ostacolare una guerra stava la necessità di richiedere i relativi fondi al Parlamento, con il
quale la tensione toccò livelli preoccupanti nel 1621, quando il re, subito dopo averle convocate, sciolse le
camere e arrestò alcuni membri di quella dei Comuni (come John Pym ed Edward Coke).
Riunito nel 1624, il Parlamento non negò i sussidi richiesti, ma riuscì in cambio a mettere in stato d’accusa il
Lord tesoriere Lionel Cranfield, introducendo il principio della responsabilità dei rappresentanti del governo
davanti all’assemblea. Le prove di forza non vennero meno nemmeno dopo l’ascesa al trono di Carlo I.
Non scemarono i contrasti finanziari, e maturarono i dissidi in tema di politica religiosa, acutizzati
dall’affermarsi delle posizioni arminiane.

Sotto Carlo I, l’arminianesimo cominciò a godere di consensi sempre più larghi tra i vescovi, grazie soprattutto
al sostegno del Buckingham, dietro cui agiva il vescovo di Bath, William Laud.
Conquistando progressivamente posizioni di potere nella Chiesa e nel paese, gli arminiani chiesero ed ottennero
provvedimenti per vietare pubbliche dispute in tema di predestinazione, rispristinarono formule ritualistiche e di
controllo gerarchico bollate dai puritani come “papismo senza papa”.
Questi mutamenti dottrinali ed ecclesiastici allarmarono la rappresentanza puritana nella Camera dei Comuni.
Già sciolto nel marzo 1625 e quindi riconvocato l’anno seguente, il Parlamento attaccò l’operato del
Buckingham. Pronto a difendere il suo ministro, Carlo I sciolse di nuovo l’assemblea.
Ricorse ad un prestito forzoso, arrestando i parlamentari che si rifiutavano di sottoscriverlo, e quando nel 1628,
al momento di intervenire in difesa degli ugonotti assediati a la Rochelle, il re dovette ancora una volta riunire le
camere, i membri di quella dei Comuni presentarono nella primavera una Petition of Right in cui chiesero
formalmente al sovrano di rispettare le leggi, respingendo come illegali i metodi di tassazione non autorizzati e
gli arresti arbitrari.
Accettata da Carlo I il 7 giugno, in cambio dell’approvazione dei sussidi, la Petition fu la vittoria del
Parlamento.

Ma Carlo i proseguì negli arresti e nel sequestro delle merci di chi si rifiutava di pagare i tributi; nel 1629 si
verificarono tumulti in Parlamento, che il re sciolse di nuovo, pur facendo seguire alla eliminazione del
Buckingham la chiamata al governo, come membro del Consiglio privato, di uno degli esponenti più in vista
della Camera Bassa, Thomas Wentworth, deciso a ristabilire l’unità tra Parlamento e corona.
Da questo momento però, i problemi religiosi interferirono direttamente con quelli finanziari: il re, per ottenere
ulteriori sovvenzioni dai parlamentari, avrebbe dovuto guadagnarne il consenso sospendendo il suo sostegno a
quell’arminianesimo che invece, utile al controllo assolutistico sulla Chiesa, negli anni 30 fece progressi
rilevanti.
Riesplosero allora le dispute sui sacramenti. Per sostenere questa politica religiosa la corona doveva trovare
fonti di reddito indipendenti dal consenso parlamentare: nel 1634 Carlo I decise l’introduzione della Ship
Money, obbligando i porti inglesi ad equipaggiare navi per la guerra o versare il corrispettivo in denaro, estesa
poi a tutto il regno senza l’approvazione delle Camere, non più convocate dal ’29.
La Scozia reagì all’emarginazione dal governo inglese e contro i tentativi del re di assoggettare il regno
all’anglicanesimo. Anche qui Carlo I dovette affrontare il dissenso del Parlamento.
Tentò nel 1634, indottovi da Laud, di restaurare l’ordine episcopale anglicano e ppi nel 1637 d’imporre l’uso del
Prayer Book inglese. Nel febbraio dell’anno seguente l’opposizione scozzese formulava uno Scottish National
Covenant, ossia un patto comune per contrastare ogni innovazione religiosa. Nonostante il ritiro del Prayer
Book, la monarchia rispose alla sollevazione inviando nel ’39 un esercito e chiamando dall’Irlanda, dove era da
quell’anno Lord Deputy, Thomas Wentworth.
Per risolvere la crisi scozzese, Carlo I fu costretto nel 1640, dopo undici anni, a convocare di nuovo il
Parlamento.

4 Guerra civile, rivoluzione e regicidio

Riunito nel 1640, il “Parlamento Corto” (Short Parliament) era già sciolto dal sovrano dopo un mese.
Così, mentre si verificavano a Londra tumulti, provocati dalla decisione di imporre l’arminianesimo come unica
forma ammessa nella Chiesa d’Inghilterra, Carlo I, inviso alla gentry, poté raccogliere truppe poco efficienti per
muover guerra agli scozzesi, che dopo una breve tregua a Berwick, le mettevano in rotta, entravano nel territorio
inglese, occupando Newcastle, e obbligavano il re a concludere un trattato (di Ripon, del 21 ottobre 1640) con
cui si impegnava a pagare l’esercito scozzese.
Pressato dalle urgenze finanziarie, lo Stuart decise la convocazione di un altro parlamento, noto come
“Parlamento lungo” (Long Parliament) perché riunito dal 3 novembre 1640 al 20 aprile 1653.
La Camera dei Comuni, modificata ella composizione in favore dei gentiluomini di campagna e di agguerriti
giuristi, trovò una maggiore solidarietà antistuardista anche in quella dei lord (salita a 244 membri).
I parlamentari si sentirono protetti dalla presenza militare degli scozzesi, con i quali si affrettarono ad allearsi. Il
parlamento ottenne la testa di Thomas Wentworth ed avviò un’azione legislativa a vasto raggio, rimuovendo
dalla camera alta i vescovi con un provvedimento del 1642 e la cui applicazione portò all’epurazione di circa
3000 ecclesiastici.
Fu stabilito inoltre che il parlamento dovesse essere convocato ogni tre anni e non potesse essere sciolto nei
primi cinquanta giorni di attività, mentre il re venne privato del diritto di sciogliere le Camere.
Un’altra serie di provvedimenti parlamentari sopprimeva la Star Chamber, l’High Commission ecclesiastica,
abrogava la Ship Money, liberalizzava la stampa e aboliva il potere sovrano di elevare dazi senza assenso
parlamentare. Un programma che si radicalizzò nella pretesa di partecipare anche al potere esecutivo. Infatti la
camera bassa approvava un documento, la “Grande Rimostranza” che invalidava la prerogativa regia di
nominare ministri e consiglieri al di fuori della preventiva approvazione parlamentare.
Incapace tuttavia di delineare progetti più precisi, il parlamento si vide battuto dall’iniziativa del redi recarsi
personalmente in Scozia e concludere qui un accordo.
Nonostante ottenesse in questo modo il ritiro dell’esercito scozzese, Carlo I non riuscì a sottomettere i
parlamentari, anche perché stava maturando un’altra grave crisi: quella in Irlanda.
Infiammata nel ’41 da una rivolta cattolica e indipendentistica.

Neppure stavolta i parlamentari vollero concedere i sussidi necessari per soffocare questa ribellione.
Ad aggravare tutto, Carlo I accusò di alto tradimento cinque deputati, tra cui leaders dell’opposizione, come
John Pym e John Hampden, e persino un membro della Camera dei Lords.
E quando il re cercò di arrestarli, il parlamento fu protetto dalla popolazione londinese e il re costretto ad
abbandonare la città nel ’42 per organizzare militarmente le sue forze.
Il Parlamento a sua volta decideva di controllare l’esercito (Militia Ordinance). Cominciava in questo modo una
guerra civile che non rispecchiò tuttavia nei suoi schieramenti divisioni sociali nette.
La prima rivoluzione inglese vide solo parzialmente emergere un conflitto di classe. Solo schematicamente s i
può dire che il parlamento fu sostenuto dai centri portuali e dai ceti mercantili, per lo più puritani, mentre Carlo
I dai territori più poveri, a tradizione cattolica e feudale dell’Ovest e del nord, dominati da un’aristocrazia in
genere legata all’anglicanesimo episcopalista o fedele al cattolicesimo. Il parlamento era convinto di combattere
per ricondurre la corona ad un corretto rapporto con l’assemblea legislativa.
Per questi motivi il Parlamento fu trascinato in guerra dalle ali più radicali del puritanesimo.

Il crescente timore dei puritani moderati che le forze stuardiste potessero alla fine rivelarsi più deleterie della
stessa monarchia finì per provocare divisioni in seno al parlamento, anche in questo caso solo schematicamente
registrabili come divisioni religiose tra “presbiteriani” e “indipendenti”.
I primi guardavano al modello della Chiesa nazionale scozzese, i secondi miravano al congregazionalismo
radicale che affidava il governo ecclesiastico a tutti i fedeli riuniti in comunità locali.
A mediare tra i due gruppi fu un minoritario assembramento di centro guidato da Pym, che condivideva i timori
dei moderati ma riteneva indispensabile portare fino in fondo la guerra.
Quando i primi scontri dimostrarono la forza delle forze realiste, fu appunto il gruppo di Pym a far passare
l’idea di richiamare gli scozzesi, coi quali il 25 settembre 1643 fu firmato ad Edimburgo un accordo (Solemn
League and Covenant) che prevedeva la riforma in senso scozzese (presbiteriano) della Chiesa inglese,
suscitando la reazione degli “indipendenti” e del comandante dell’esercito parlamentare, il conte di Essex,
Robert Devereux.
Allo stesso tempo avvenne un armistizio tra Carlo I e i ribelli irlandesi e la morte di Pym e Hampden.
Di conseguenza, la Camera dei Comuni fu sempre più divisa e fluttuante tra maggioranze diverse, tuttavia le
sorti della guerra si rovesciarono in favore del Parlamento: le truppe scozzesi e parlamentari riuscirono a
sconfiggere quelle regie a Marston Moore (2 luglio 1644), nel corso di una battaglia che mise in luce un
gentiluomo puritano, Oliver Cromwell, eletto parlamentare nel 1628 e poi nel 1640, vicino alle posizioni di
Pym.

Un’assemblea religiosa riunita a Westminster dal 1 luglio 1643 al 22 febbraio 1648 e composta da 121
ecclesiastici, 10 Lord e 20 deputati della Camera dei Comuni, provvedeva ad emanare una nuova confessione di
fede, terminata il 4 dicembre 1646.
Rivedendo i Trentanove articoli, la confessione del ’46 assunse toni calvinisti, regolando l’organizzazione
ecclesiastica in senso anti episcopalista e presbiteriano, ma senza riconoscere autonomia alle chiese locali.
Dal 1643 agli anni ’50, in un clima di libertà e di non conformismo religioso, si registrò una grande
effervescenza di sette estremistiche: i più moderati battisti (dottrina del battesimo ai soli adulti e chiesa come
comunità di “santi”) si affiancarono gruppi come i Ranters (predicatori esaltati) che giunsero a sostenere
l’inesistenza dei peccati della carne.
In questo clima ebbero possibilità di proliferare gruppi di ispirazione millenaristica, che interpretavano
profeticamente lo svolgersi degli eventi in termini di storia sacra.

Tra questi si distinse il gruppo dei quinto-monarchisti (Fifth Monatrchy Men, fine anni ’40), guidato dal
predicatore Christopher Feake e da thoma Harrison, convinti di scorgere i segni dell’imminente instaurazione
della “Quina Monarchia”, ossia, dopo i regni dell’Assiria, di persia, di Alessandro e di Roma, dell’età
(annunciata nel libro biblico di Daniele) in cui i santi avrebbero regnato per mille anni.
Anche più pericolose si rivelarono le dottrine professate dal movimento dei quaccheri fondato da George Fox,
che guidato da una “Luce interiore”, ritenuta fonte di Fede superiore alle Sacre Scritture, avversò qualsiasi
istituzionalizzazione ecclesiastica, i riti liturgici e ogni gerarchia clericale.
I radicali e i millenaristi trassero la conclusione che lo stesso accesso al potere politico doveva fondarsi sulla
“santità” e che, pertanto, gli esponenti della gentry non avevano maggiori titoli di tutti gli altri per governare il
paese.

Il cuore delle truppe dell’esercito parlamentare era divenuto lo squadrone di cavalleria comandato da Cromwell,
trasformato in un esercito con 11 reggimenti di fanteria e 6.500 cavalieri, gli ironsides (fianchi di ferro) dal
1644-45 organizzato in maniera innovativa e nel quale i soldati erano oggetto di un indottrinamento politico e
religioso che li rendeva disciplinati e motivati.
Il New Model Army, come venne chiamato, diede prova di sé nella battaglia di Naseby (14 giugno 1645),
durante la quale inferse una sconfitta alle forze di Carlo I, che allora cercò l’aiuto degli scozzesi rimastigli
fedeli, battuti però a Philiphaugh (13 settembre 1645) dalle truppe scozzesi antistuardiste, che lo fecero
prigioniero e lo consegnarono al parlamento inglese.

Cromwell stesso, intriso di dottrine puritane, era convinto di essere egli stesso uno strumento di Dio, e fu
accusato di promuovere al grado di ufficiale persone non appartenenti alla gentry e persino un anabattista. In
seno alle sue truppe cominciarono a trovare larga eco i programmi dei levellers (Livellatori), ispirati dalle idee
di John Liburne.
Quello dei Levellers fu un movimento politico capace di tradurre laicamente le aspirazioni sociali latenti. I suoi
leaders professavano opinioni religiose diverse: a tenere uniti era soprattutto la rivendicazione, sociale e politica,
di un’introduzione della democrazia, fondata sulla convinzione che unico legittimo detentore del potere fosse il
popolo, che ne delegava l’esercizio ai governanti.
Su queste basi i Levellers chiesero l’abbandono del criterio censitario per le elezioni parlamentari, la libertà di
stampa e di coscienza e l’elezione popolare dei giudici di pace. Di qui anche il loro forte biasimo verso la gentry
e la critica ai privilegi monopolistici delle grandi compagnie mercantili in nome del libero commercio; e di qui
altresì, le rivendicazioni economico-sociali, come l’abolizione delle tasse sul ceto dei piccoli commercianti e
degli artigiani meno abbienti, l’abrogazione della prigione per i debitori e la richiesta di ridurre il tasso
d’interesse al 6%.
Rivendicazioni esplicitamente avanzate dal movimento dei Doggers (Zappatori), invece, erano un’eguaglianza
che implicava il diritto di proprietà per tutti secondo una tendenza collettivistica accompagnata dalla denuncia
della religione come mistificazione sociale tesa a conservare l’ineguaglianza e lo sfruttamento, come affermava
il loro esponente Gerard Winstanley, apostolo di una verità di fede solo interiore.

La svolta si ebbe tra il 1646 e il 1647. Nel ’46, infatti, sconfitti i realisti, nuove elezioni portavano i parlamento
una maggioranza presbiteriana, ma anche un gruppo di puritani “indipendenti”, sorrette da una rappresentanza, il
Consiglio Generale, composto da ufficiali e soldati delegati da ogni reggimento.
Nel ’47 le truppe cominciarono ad eleggere i propri rappresentanti ,gli Agitators, che monopolizzarono
l’organizzazione politica dei ranghi inferiori dell’esercito ed erano per lo più settari estremisti. Ciò spinse il
parlamento a decidere lo scioglimento delle milizie, cui gli Agitators si opposero sostenendo, appoggiati dagli
ufficiali, il diritto dell’esercito di rappresentare il popolo.
Alla ribellione dei londinesi contro queste richieste, l’esercito rispose occupando la capitale e dividendosi nel
corso dell’assemblea tenuta a Putney (28 ottobre – 1 novembre) tra chi, come Cromwell, sosteneva un limitato
diritto di voto e coloro che, facendo riferimento al programma dei levellers, presentarono un documento,
l’Agreement of the People (il Patto del popolo) che rivendicava il suffragio universale, la libertà di culto, lo
scioglimento del parlamento in carica, l’elezione biennale delle Camere e introducendo così il principio
democratico della sovranità popolare.
Mentre questo testo veniva dichiarato eversivo dalla camera dei Comuni, la fuga di Carlo I e una sua nuova
alleanza con gli scozzesi, ventilarono la possibilità di un accordo tra il sovrano e il parlamento ai danni del New
Model Army. Cromwell però riuscì a bloccare questa operazione, instaurando un controllo sulla Scozia e
deportando nelle colonie i partigiani del re.
Ancor più virulenta fu la sua reazione alle trattative aperte dal Parlamento con Carlo I. Infatti un contingente di
militari arrestò a Westminster 45 parlamentari e impedì l’accesso ad altri 96, tutti presbiteriani o filorealisti, alla
Camera dei Comuni, i cui 78 membri diedero da allora vita al Rump Parliament (ossia troncone). Il 28 dicembre
il Rump, dichiarandosi rappresentante del popolo inglese, approvò la decisione di processare Carlo I, ma senza
l’assenso della Camera alta, che venne poi soppressa (6 febbraio 1649). I 150 membri della corte di giustizia
istituita a questo scopo, sostennero che l’autorità risiedeva nel popolo, da cui il re era delegato a governare
fintantoché avesse rispettato la legge e il bene comune. Il sovrano, riaffermando il suo diritto di monarca
assoluto, si rifiutò persino di presentarsi per difendersi. Condannato il 27 gennaio 1649, Carlo I saliva sul
patibolo tre giorni dopo.

5 Cromwell al potere

Quando il 19 maggio 1649 il Rump Parliament proclamava la Repubblica (Commonwealth), l’Inghilterra era
ancora impreparata per la divisione delle forze sostenitrici del nuovo regime.
Le sorti del paese erano rette da un Consiglio di Stato di 41 membri eletti per un anno e tratti per la maggior
parte dalla camera dei Comuni.
I primi problemi che Cromwell dovette affrontare furono quelli della Scozia e dell’Irlanda.
Gli scozzesi rigettarono dapprima la condanna a morte di Carlo I, quindi proclamarono re il figlio del defunto
sovrano, Carlo II, e altrettanto fecero gli irlandesi.
Subito Cromwell mosse contro le riunificate truppe scozzesi e regie, sconfiggendole a Worchester e trattò la
Scozia come un paese nemico, vietando i sinodi presbiteriani e insediando un Consiglio Governativo simile a
quello inglese.
Molto più difficili i quattro anni della campagna militare in Irlanda, dove si era formata un’alleanza tra cattolici
antinglesi e le forze filomonarchiche e dove le truppe inglesi perpetrarono paventosi massacri.

Dopo queste vittorie, i rapporti tra esercito e Parlamento Rump divennero sempre meno facili, finché esso non
fu sciolto con la forza per ordine di Cromwell. Questa decisione rese non più rinviabile il problema dell’assetto
costituzionale da dare al paese.
Non rappresentò una soluzione l’insediamento senza elezioni di un parlamento di 144 membri designati dal
Consiglio degli ufficiali dell’esercito prevalentemente su indicazione delle chiese congregazionalista di Londra
e con rappresentanti scozzesi e irlandesi.
Questo Parlamento Barebone rappresentò lo sbocco del precario equilibrio stabilitosi tra ke uniche due forze
rimaste in Inghilterra: quella parte della gentry di fede puritana radicata nel governo locale e gli alti gradi
dell0esercito. Due forze contrapposte che potevano convergere solo su Oliver Cromwell. Cromwell poté
consolidare un potere personalistico e semidittatoriale, il Barebone contava poco o nulla, anche perché presto
diviso al suo interno tra una maggioranza moderata e un’attiva minoranza estremista fautrice di un programma
di riforme.

Questo Parlamento rimase un organo debole, perché non poteva eliminare la zavorra costituita dalle correnti
religiose radicali e non conformiste. Cromwell si rese conto di questo, e decise allora di controllare e sopprimere
le residue forme di radicalismo religioso. Cromwell fu pronto ad attuare una vera e propria controrivoluzione
per liberarsi dei movimenti estremisti che rischiavano di sfibrare il consenso al suo governo.
Dopo lo scioglimento del Parlamento Barebone nel ’53, Cromwell si appoggiò agli ufficiali che il 16 dicembre
approntarono una nuova costituzione (Instrument of Government), lo nominarono Lord Protettore
dell’Inghilterra, affidandogli un potere semiassoluto da gestire con un Consiglio di stato i cui membri erano
designati nello stesso instrument (su 13, 9 membri erano alti ufficiali nominati a vita). Dal punto di vista
costituzionale si tornava alla situazione antecedente la guerra civile.
Il Parlamento cercò di limitare le ampie prerogative dell’esecutivo e di sottoporre alla propria approvazione
l’Instrument of Government. Fu per questo dissolto nel 1655, quando, dopo un tentativo di insurrezione
filomonarchica, il controllo delle contee fu affidato ai comandanti dell’esercito e fu convocato un nuovo
Parlamento che si affrettò a dichiarare ereditario il protettorato, accordando a Cromwell un ingente contributo
finanziario.
Tuttavia fu l’antica facoltà del governo d’imporre liberamente dazi a costituire un punto di dissenso anche con
questi parlamentari, i quali presentarono un nuovo testo costituzionale (la Humble Petition and Advice) con cui
invitavano Cromwell ad assumere il titolo di re. Si trattava in realtà di una proposta per diminuirne il potere.
L’esercito si mostrò fortemente contrario alla proposta, ma Cromwell, pur rifiutando il titolo regio, accettò il
testo costituzionale in una forma riveduta che stabiliva il ripristino di una camera Alta e dava al Protettore il
diritto di designare un successore. Così quando nel 1658 egli moriva, la sua carica passò al figlio Richard
Cromwell.
Allorché nel ’59 Camera dei Lords e Camera dei Comuni si riunirono di nuovo, concordarono sulla necessità di
ridimensionare l’esercito, che ancora una volta riuscì a far sciogliere l’assemblea, ma ottenne anche l’effetto di
far rassegnare le dimissioni a Richard Cromwell, favorevole ai parlamentari. Si chiudeva così definitivamente la
lunga parentesi rivoluzionaria inglese.

6 Una problematica Restaurazione

Nel 1660 una parte delle truppe inglesi stanziate in Scozia al comando del generale George Monk si
pronunciarono per il ritorno sul trono inglese de figlio Carlo I ed Enrichetta di Francia, Carlo II.
Entrato a Londra, Monk aiutò la ricostituzione di un Parlamento che indisse nuove elezioni, mentre Carlo II
pubblicava la “Dichiarazione di Breda” (4 aprile 1660) con cui prometteva l’amnistia, tolleranza religiosa e il
pagamento degli arretrati all’esercito. Con una maggioranza monarchica (Cavalier Parliament), il nuovo
Parlamento riconobbe la necessità del ripristino della monarchia e la legittimità di Carlo II, ma nei limiti fissati a
suo tempo dal Lungo Parlamento, ossia controllando solo le forze armate e la politica estera. La Restaurazione
stuardista di fatto lasciava irrisolto il problema dell’estensione e delle forme del controllo delle due Camere
sulla corona. Malgrado ciò, da questo momento il Parlamento divenne l’architrave del sistema costituzionale
inglese. Il potere esecutivo della monarchia fu costantemente esercitato in base alle indicazioni dei deputati, in
grado di ergersi a guardiani delle libertà individuali. Il principio, votato nel 1679 dell’Habeas Corpus, ne fu la
riprova. Carlo II non riuscì neppure a conservare l’esercito permanente ereditato da Cromwell: infatti il
Disbanding Act previde lo scioglimento delle truppe.

Dagli anni ’70 vennero a formarsi in Inghilterra partiti politici coerenti e alternativi nell’ambito della dialettica
parlamentare. Si definirono due schieramenti: uno a tendenza liberale o whig (antiaristocratico) e uno a tendenza
conservatrice o tory, fautore dell’autorità regia come presupposto dell’ordine interno. Espressione della
borghesia mercantile i primi, della nobiltà, dell’alto clero anglicano e dell’esercito i secondi.
L’opera di restaurazione religiosa avviata dalla Chiesa anglicana, ora forte anche dell’appoggio della gentry un
tempo su posizioni puritane, non portò alla riuscita del tentativo di reintrodurre una rigorosa uniformità
anglicana, giacché ormai l’esistenza di comunità protestanti separate era di fatto tacitamente ammessa; ma nel
1661 veniva espulso dalle corporazioni, dall’amministrazione e dal governo chi non faceva parte della Chiesa
anglicana (Corporation Act); e nel 1662 fu ripristinato l’Atto di uniformità.

La politica di relativa tolleranza verso i dissidenti sostenuta da Carlo II per combattere l’opposizione politica, lo
condusse, nel 1672, ad una Dichiarazione d’indulgenza, con cui sospendeva i provvedimenti emanati contro i
non conformisti. L’anno dopo, tuttavia, il Parlamento reagì e con il Bill of Test, accettato dal re per ottenere i
sussidi necessari alla guerra allora in corso contro l’Olanda, stabilì che soltanto chi apparteneva alla Chiesa
anglicana poteva godere dei diritti politici ed accedere alle cariche statali, escludendo così i cattolici dalla vita
pubblica.
Fu in questa situazione che si verificò nel 1667 un evento destinato ad essere carico di conseguenze: fu infatti
concluso il matrimonio tra Maria, figlia del cattolico duca di York e futuro re Giacomo II, e lo stathouder
olandese e calvinista Guglielmo III d’Orange. All’interno la tensione crebbe per la scoperta di un presunto
“complotto papista” che mirava ad assassinare il re e a sterminare i protestanti. L’episodio del complotto
risollevò così una polemica politico-religiosa. Con la volontà del parlamento di evitare la successione del
cattolico duca di York al trono.
Dopo l’elezione consecutiva tra il 1679 e il 1681 di tre Parlamenti rivelatisi non addomesticabili alla volontà
regia, gli anni fino al 1685 segnarono una reazione conservatrice, caratterizzata dalle mancate convocazioni
parlamentari da parete di Carlo II. Da allora riprese nel paese uno spirito d’intolleranza verso il cattolicesimo,
che tuttavia non impedì, alla morte di Carlo II l’indolore successione del fratello, il cattolico duca di York, col
nome di Giacomo II. Questa successione doveva segnare le premesse della seconda rivoluzione inglese.

Capitolo 12 - Luigi XIV e il mito della monarchia universale

1 Dopo Westfalia: guerra franco-spagnola e guerre commerciali

I trattati di Westfalia – benché avessero risistemato l’assetto europeo - non posero fine a tutte le guerre
continentali: proseguiva infatti la guerra franco-spagnola – condotta dalle due potenze ed anche dall’Inghilterra,
la quale ebbe però un ruolo minore. La Spagna ormai non poteva più contare sull’aiuto dei cugini asburgici
austriaci in quanto – oltre al distacco tra i due rami della famiglia - l’Impero doveva fare i conti con la questione
dinastica apertasi alla morte dell’imperatore Ferdinando III, occorsa nell’aprile 1657: in tal contesto, il cardinal
Mazzarino era prontamente intervenuto tentando di far eleggere Ferdinando Maria, Duca di Baviera, nonché suo
alleato. Tuttavia, alla fine venne eletto il secondo genito del defunto imperatore, Leopoldo I (1658-1705), al quale
la Dieta degli Stati territoriali tedeschi impose di non intervenire nel conflitto franco-spagnolo e il rispetto del
potere territoriale dei princìpi tedeschi.
Sullo sfondo di questa azione diplomatica, l’offensiva militare antispagnola sferrata dal generale Turenne
nell’estate 1658 condusse alla vittoria di Dunkerque e all’accelerazione delle trattative di pace –
infruttuosamente avviate già da due anni -. Si giunse, dunque, alla Pace dei Pirenei nel novembre 1659, la quale
sancì:

· L’acquisizione da parte inglese della Giamaica e di Dunkerque (in quanto la guerra si era estesa anche
alle colonie);

· L’acquisizione francese di alcune roccaforti spagnole lungo il confine nord-orientale ed il riconoscimento


del dominio francese sul Rossiglione e sulla Cerdagne e l’Alsazia – quest’ultima sottratta agli imperiali dopo
Westfalia;

· In ultimo, la Spagna ottenne l’amnistia per il principe Luigi II di Condé – passato al servizio della Spagna
nel 1653 dopo la rivolta della Fronda -;

Oltre alla guerra, Mazzarino riuscì nel più importante risultato di unire in matrimonio Luigi XIV e la giovanissima
Maria Teresa d’Asburgo (1660), con l’impegno di rinunciare a tutti i diritti di successione spagnola. La pace dei
Pirenei si tradusse per la Spagna nella rinuncia alle sue secolari pretese di potenza egemone in Europa e sancì
effettivamente il suo declino, già avviato negli ultimi decenni durante il regno di Filippo II. Se Filippo IV era
riuscito, nonostante tutto, a resistere all’ennesima bancarotta verificatasi nel 1662, venne confermando il marasma
delle finanze spagnole, già colpite dal crollo del sistema bancario fiammingo-genovese dopo la disfatta della
guerra dei Trent’anni. Al problema delle risorse si aggiunse il sopravvento – conseguente alla crescente debolezza
della Castiglia – del sistema federalistico di stampo aragonese, favorendo un progressivo scadimento militare e la
dissoluzione del complesso sistema burocratico che – sebbene farraginoso – era stato nel passato un modello per
l’Europa e un vanto per la Corona che ora lo metteva in crisi tornando alla delega di poteri e responsabilità alla
feudalità.

Nel 1665 occorse la morte di Filippo IV, al quale successe il figlio Carlo II (1665-1700), ultimo erede del ramo
asburgico spagnolo. Privo di carisma, il nuovo sovrano venne guidato nel prendere le proprie decisioni dalla
madre, nonché reggente Maria Anna d’Austria e dal tipico sistema clientelistico.

In questo trentennio di disordinata gestione interna, le questioni economiche e la difesa dell'enorme impero
coloniale - sottoposto ai continui attacchi dei pirati inglesi e olandesi - rimasero i problemi più urgenti.
Ciononostante, durante il suo regno, il peso fiscale sui domini si ridusse, incoraggiando l'incremento demografico
e la ripresa della produzione agricola e manifatturiera. Le entrate dell'erario aumentarono, soprattutto grazie alla
vendita delle cariche pubbliche e giurisdizionali. Altra problematica era poi collegata allo strapotere
dell'aristocrazia e dei signori feudali, governanti sui latifondi agricoli, cui ormai si aggiunsero i letrados, ossia i
funzionari amministrativi dello Stato; i quali ricorrevano spesso a ricatti e ultimatum al governo centrale per
accrescere sempre più il proprio potere. Il governo non riuscì efficacemente a far fronte al loro dominio
incontrastato, tant’è che nel 1693, la popolazione rurale e contadina di Valencia insorse, inveendo contro lo
strapotere aristocratico.
Un insieme di processi, questo, dal quale emersero i tratti di una compagine statale in cui l’assolutismo sopravvisse
solo a patto di realizzare un compromesso strategico con la feudalità e di favorire l’aristocratizzazione della
società, la quale legò compattamente entro un’unica struttura oligarchica le élites burocratiche a quell e feudali.

Nel 1644 venne concretizzandosi un altro insuccesso in ambito di politica estera: Filippo IV, ancora in vita, tentò
la riconquista dei territori portoghesi, ormai indipendenti dal 1640. In Portogallo venne restaurata la monarchia
con Giovanni IV di Braganza (1640-1656). Il rafforzamento della corona si concretizzò con i regni dei suoi
successori, Alfonso VI (1656-1667) e Pietro II – reggente fino al 1683 e sovrano fino al 1700 -, ma non gli
corrispose un altrettanto consolidamento economico, il quale necessitava anzitutto della ripresa del controllo sulle
colonie oltreoceano, amministrate dagli spagnoli dal 1580 al 1640, e del riappacificamento dei rapporti/contatti
economici con le altre potenze mercantili. Per di più, il processo di riaffermazione della potenza lusitana in Europa
venne osteggiato da una incombente crisi che si verificò negli anni ’50 del XVII secolo.

Nuovi rapporti economici e diplomatici vennero stretti tra l'Inghilterra di Cromwell e proprio il Portogallo, in
proiezione di un futuro fronte protestante antiasburgico, di cui avrebbe dovuto far parte, oltre che la Francia, anche
le stesse Provincie Unite calviniste, divenute dopo Westfalia una potenza mondiale a tutti gli effetti. Proprio queste
ultime, in ragione del loro strapotere commerciale, fecero maturare in Inghilterra le ragioni di un contrasto
economico latente da anni e alla fine prevalente sulla comune scelta confessionale: sul piano delle scelte di politica
economica, gli inglesi adottavano una politica economica mercantilista e protezionista, mentre gli olandesi anti-
mercantilista e liberista. Tra l’altro, la nascitura disputa tra il giurista olandese Ugo Grozio – il quale mostrò in
“Mare Liberum” il proprio sostegno al principio della libertà dei mari – e il deputato inglese John Selden – al
contrario, sostenitore, come si evinceva nel suo “Mare Clausum”, della teoria secondo la quale gli inglesi
avrebbero dovuto perseguire una strenua difesa delle proprie attività mercantili – spostò il confronto sul piano
ideologico.

Obiettivo di Cromwell era quello di riunire gli interessi dei deputati calvinisti – puritani che vedevano
nell’Inghilterra la “nazione eletta” destinata a dominare il mondo – a quelli della classe mercantile borghese –
interessata alla salvaguardia dei commerci internazionali – di modo da consolidare il proprio governo e accrescere
il prestigio della nazione. L’Atto di Navigazione (Navigation Act) del 1651, approvato dal Rump Parliament,
sintetizzò la correlazione tra interessi economici, ideologia religiosa e politica estera, imponendo alle colonie di
commerciare solo con la Madrepatria e le altre colonie del Commonwealth. Il provvedimento, senz’ombra di
dubbio, voleva colpire proprio gli olandesi, la cui intermediazione nei trasporti marittimi internazionali stava
esautorando quelli di tutti gli altri paesi europei. Tuttavia, lo stesso Cromwell avrebbe voluto evitare uno scontro
aperto con l’Olanda, non tanto per ragioni di solidarietà confessionale, quanto più per privilegiare la guerra
antispagnola che di lì a poco sarebbe stata intrapresa al fianco della Francia ed anche perché gli olandesi avevano
recentemente scalzato nel loro paese il potere degli Orange, principali alleati degli Stuart da quando lo stathouser
Guglielmo II d’Orange aveva sposato la figlia del decapitato Carlo I, Enrichetta Maria.

All’inizio degli anni ’50 del Seicento, nelle Province Unite, morì Guglielmo II (1626-1650), dando luogo alla
caduta dal potere degli Orange e il governo fu affidato al Gran Pensionario repubblicano John de Witt (1651).
La morte di Guglielmo d’Orange non poté che essere accolta positivamente da Cromwell. Essa d’altronde
rappresentò il duro scontro – che affliggeva l’Olanda dall’inizio del XVII secolo – tra tendenza orangista, filo-
assolutista – sostenuta dall’esercito, dai ceti popolari e dai pastori calvinisti -, e repubblicana – sostenuta dalla
borghesia mercantile, urbana e liberale.

De Witt perseguì fortemente la lotta contro gli intransigenti calvinisti e riuscì ad affermare il principio
dell’intervento statale in materia religiosa in modo tale che gli interessi dottrinali non danneggiassero gli interessi
nazionali. Così facendo riuscì a ridimensionare le dispute religiose, anteponendo gli interessi statali a quelli
religiosi e favorì lo sviluppo di una tolleranza religiosa capace di garantire la stabilità interna e dell’iniziativa
economica. A tal proposito, un saggio (“Massime politiche dello Stato d’Olanda”) del 1662 di un mercante di
Leida, Pietro de la Court, sosteneva che la tolleranza religiosa rappresentasse una delle condizioni essenziali alla
prosperità economica di uno Stato. Nonostante il mutamento in seno alla politica interna olandese, gli inglesi non
si sentivano sicuri a causa delle mire espansionistiche e commerciali di questi ultimi, pertanto – dal maggio 1652
all’aprile 1654, quando venne stipulato il trattato di Westminster, sancendo la fine della prima guerra
commerciale anglo-olandese – si ebbero i primi scontri navali tra le due potenze nel canale della Manica. Gli
inglesi ne uscirono vittoriosi e non diedero attuazione alla richiesta olandese di ritirare l’Atto di Navigazione
emanato nel 1651. In vista di un imminente e prossimo conflitto, gli inglesi intensificarono i legami col Portogallo,
dapprima con un’intesa amichevole nel 1654 e successivamente con un’alleanza matrimoniale nel 1661, quando
il Re d’Inghilterra, Carlo II Stuart – che acquisì in ragione di ciò Bombay, in India (Vedere cap.10, par. 7) – e
la figlia di Giovanni IV di Portogallo, Caterina di Braganza si unirono in matrimonio.

Forte dell'aiuto britannico, il Portogallo resistette ai continui attacchi spagnoli, i quali poi dovettero rassegnarsi a
riconoscere l'indipendenza portoghese con il Trattato di Lisbona (febbraio 1668).

Sul fronte inglese, si rinnovarono i provvedimenti protezionistici e anti-olandesi: venne emanato dapprima l'Act
of Frauds (1662) - il quale considerava straniero qualsiasi vascello non costruito e registrato in Inghilterra - e lo
Staple act (1663) – il quale obbligava i vascelli a destinare i beni commerciati con le colonie nei porti inglesi -.

Nel marzo 1665 scoppiò dunque il secondo conflitto commerciale anglo-olandese che – con la partecipazione
francese a fianco dei britannici – si concluse nel luglio 1667 con la pace di Breda, sancendo la sconfitta degli
olandesi che dovettero cedere la colonia americana della Nuova Olanda.

Queste due guerre commerciali ebbero ripercussioni anche nel Mar Baltico – area nevralgica per gli scambi tra
Russia e Occidente - dove Danimarca e, in particolar modo, la Svezia – divenuta una forte forza europea dopo
Westfalia - si contendevano il controllo dei commerci. Infatti, dalla metà del Seicento la lotta tra Svezia e
Danimarca fu condizionata da quella tra Olanda e Inghilterra, così come fu condizionata dalla strategia
mazariniana tesa a neutralizzare i conflitti baltici per garantirsi il controllo dei mari nordici in funzione
antimperiale.

Con Gustavo Adolfo I Vasa (1594-1632) gli svedesi avevano già adottato una politica mercantilista, volta a
difendere le proprie rotte commerciali e a favorire le esportazioni, le quali si potenziarono in ragione di un
sistematico sfruttamento delle risorse naturali (legno, rame, ferro). Inoltre, per ripristinare le disastrate casse
statali, a causa dello sforzo bellico, si dovettero vendere i beni mobili e immobili dello Stato agli aristocratici che,
così, acquisirono sempre più potere. Questi ultimi attorno al 1650 detenevano i ¾ delle terre, al punto che, per
reazione, nel 1655, i rappresentanti del clero, delle borghesie urbane e dei contadini riuscirono ad ottenere la
restituzione allo Stato dei beni venduti. Frattempo, morì Gustavo, succeduto dal reggente cancelliere Oxestierna
(1632-44) e dalla regina Cristina di Svezia, 1644-54).

Nonostante la Pace di Bromesebro (1645) avesse provvisoriamente concluso il conflitto fra Svezia e Olanda da
un lato, e Danimarca dall’altro, per il controllo del Sund (vedere cap. 11, par. 5), il nuovo sovrano svedese Carlo
X Gustavo Vasa (1654-60) riprese la politica di espansione nel Baltico e nel Mare del Nord, avviando una crisi
che coinvolse le maggiori potenze europee. Suo obiettivo era quello di conquistare nuovi possedimenti portuali
nel golfo di Danzica – di dominio polacco -. Una scelta non casuale, giacché allora l’espansionismo della Russia,
temuto dagli svedesi, tornava a premere proprio sulla Polonia, più vulnerabile tra le potenze che si affacciavano
sul Baltico. Infatti, alla metà del Seicento, proprio la Confederazione polacco-lituana era la potenza più debole a
causa di una profonda crisi economica accompagnata da una cronica debolezza della corona rispetto
all’aristocrazia e a contrasti religiosi – questi ultimi scaturiti dall’unione delle Chiese cattolica romana ed
ortodossa (1596), sancita dal pontefice Clemente VIII (1592-1605). Gli ortodossi dissidenti si contrapponevano
agli ortodossi uniati, controriformistici e alleati del Papa.

Neanche col governo di Ladislao IV (1632-48, in successione a Sigismondo III) e di Giovanni Casimiro (1648-
68) la debolezza dello Stato polacco si attenuò, anzi, nuove scintille scoppiarono a seguito della rivolta dei
cosacchi Zaporaghi (o Zaporoghi), popolazione ucraina sottomessa dai polacchi e ridotta in servitù che a seguito
della rivolta passò sotto il controllo dell’impero moscovita (1648-51). Carlo X di Svezia colse l’occasione per
penetrare in territorio polacco, giungendo a conquistare Varsavia. In questa impresa, il sovrano svedese poté
contare sul Brandeburgo, il quale conquistò e ottenne arbitrariamente i territori della Prussia orientale. Infine, i
cosacchi ucraini si unirono alle truppe dello Zar Alessio I Romanov di Russia (1645-76) – successore di Michele
I Romanov (1613-45) – le quali invasero le regioni polacche della Lituania e dell’Ucraina. Successivamente i
russi si scontrarono con gli svedesi per il possesso di uno sbocco sul Baltico, scontro che volse a favore dei primi.

Il potere militare della Svezia mise in guardia la Danimarca, la quale, infatti, nel 1658, al seguito di Federico III
(1648-70), organizzò la formazione di un fronte anti-svedese e anti-protestante, comprendente Danimarca,
Russia, Polonia – la quale frattempo riuscì a respingere, seppur tardivamente, l’invasione svedese –, Olanda –
anche se calvinista, aveva interesse alla salvaguardia dei propri commerci nordici – Brandeburgo – passato
dall’altra parte a seguito del riconoscimento polacco della Prussia orientale – ed infine l’Impero di Leopoldo I.

In un primo momento la Svezia riuscì a resistere agli attacchi danesi-russi, tuttavia, dovette poi arrendersi
all’invasione di un esercito austro-polacco.

Le trattative di pace conseguenti a questi convulsi ed intricati eventi bellici furono condotte ed imposte da Olanda,
Francia e Inghilterra:

· I trattati di Roskilde e Copenaghen (1660) sancirono la cessione da parte danese della Scania alla
Svezia, dalla quale derivò la perdita definitiva del controllo sul Baltico;
· La Pace di Kardis (1661) sancì il riconoscimento russo dei domini svedesi ottenuti precedentemente –
quali Livonia, Carelia e Ingria (vedere cap.11 par. 2) - e la cessione di Smolensk e Kiev da parte polacca alla
Russia;

· La Pace di Oliva (1660) – nonché più importante fra gli accordi qui trattati – sancì il riconoscimento
imperiale del dominio svedese sulla Livonia a patto che la Svezia non avanzasse rivendicazioni sui territori
polacchi;

· Il Brandeburgo ottenne definitivamente i territori della Prussia orientale – sarebbe divenuto la base del
futuro ed influente Stato prussiano nel XVIII e XIX secolo.

La Pace di Oliva riuscì a stabilizzare in modo duraturo la zona nordica dell’Europa e sancì il declino della Svezia
nonché l’ascesa della Russia e del Brandeburgo-Prussia. I regni di Carlo XI (1660-97) e di Carlo XII (1697-1718)
videro oltre ad una galoppante crisi economica, la compagine svedese divenire preda delle influenze straniere –
in particolar modo della Francia – e del potere nobiliare. Alla Danimarca toccò un destino differente: nonostante
la perdita della Scania, Federico III riuscì a contenere lo strapotere aristocratico contrapponendosi ad esso alla
Dieta assembleare, supportato dal clero e dalla borghesia mercantile, e riuscendo altresì a rendere ereditaria la
monarchia. Quest’ultima si consolidò con i Regni di Cristiano V (1670-99); Federico IV (1700-1730) e Cristiano
VI (1730-1745).

2 I nuovi equilibri tedeschi e la casa d’Austria: resistenze e recuperi

Nonostante il breve intervento imperiale nella guerra anti-svedese, l’Impero non intervenne nel conflitto franco-
asburgico e dimostrò un totale disimpegno dalla politica europea, risultanti entrambi dalla sistemazione statale
avviata dai trattati di Westfalia.

La guerra totale europea aveva comportato stragi, carestie, saccheggi nelle città e campagne tedesche e gli Stati
territoriali – divenuti entità politiche dotate di piena legittimità riconosciute dall’Imperatore – dovettero dare inizio
ad un lungo processo di ricostruzione e ricostituzione economica e sociale. Gran parte degli sforzi si concentrarono
nella ricostruzione sociale ed istituzionale dell’Impero federale tedesco, affidata a burocrati e consiglieri
dell’imperatore e dei prìncipi territoli piuttosto che alle Diete.

Gli Stati tedeschi intrapresero scelte di politica economica mercantiliste, basate sull’auto-finanziamento – cioè
aumento della produttività agricola e manifatturiera interna – e sul potenziamento amministrativo. In questi anni
nacque proprio una prima forma di scienza dell’amministrazione pubblica che – nota anche come cameralismo,
termine derivante dalle Camere dei conti, amministratrici delle entrate e spese del principe – unì, in una trattatistica
unitaria, dottrine concernenti il benessere economico dello Stato e la descrizione degli strumenti tecnici del
commercio e dell’amministrazione pubblica, tesi al miglioramento delle entità statali. Il cameralismo – elaborato
dallo scrittore Joachim Becker – avrebbe dovuto addestrare i nuovi funzionari pubblici tedeschi. A tale
cameralismo cattolico di scuola austriaca si affiancò un cameralismo di stampo protestante, legato alla crescente
influenza del Brandeburgo-Prussia che ne fece una bandiera della propria politica nel Settecento.
Alla fine del Seicento, proprio il Brandeburgo iniziò ad assumere sempre più potere all’interno dello Stato federale
tedesco, sebbene fosse stato devastato dalla guerra dei Trent’anni. Col riconoscimento della piena sovranità sulla
Prussia orientale, il principe elettore Federico Guglielmo Hohenzollern poté dedicarsi alla omogeneizzazione
dei propri domini, cui nucleo corrispondeva alla Marca del Brandeburgo – governata dagli Hohenzollern
dall’inizio del XV secolo -. Ad esser frammentata era anche la situazione religiosa, caratterizzata da una forte
presenza calvinista a corte, luterana nella popolazione e cattolica nel Ducato di Kleve. Pertanto, la politica di
tolleranza era l’unica da poter attuare: su questa base fu possibile avviare una ricostruzione incentrata
sull’edificazione di un forte apparato miliare ed amministrativo. Venne poi avviata un’opera di ripopolamento,
attirando l’immigrazione degli ugonotti francesi, per osteggiare il calo demografico incorso a seguito della Guerra
dei Trent’anni.

L’esercito, pilastro dello stato brandeburghese, crebbe di quasi 10 volte in 50 anni, arrivando ad una quota pari a
200.000 soldati nei primi anni del Settecento: un esercito così vasto e meticolosamente addestrato era reso
necessario dal fatto che lo Stato era sprovvisto di particolari barriere naturali in grado di scoraggiare i possibili ed
eventuali invasori esterni, nonché in ragione dell’intervento repressivo intrapreso dal principe nei confronti dei
nobili riottosi. L’aristocrazia venne riportata sotto il governo di Federico Guglielmo grazie al “patto sociale”
stipulato tra principe e aristocrazia, il quale impose alla nobiltà di mettersi al servizio del sovrano in cambio di
nuove terre e privilegi (parliamo a tal proposito di seconda feudalizzazione tradottasi in una rigida demarcazione
tra aristocrazia e borghesia). Venne poi introdotto l’istituto del miles perpetuus, e cioè l’obbligo individuale al
servizio militare e civile permanente.

La burocrazia statale si fondò sulla figura del commissario – dipendente dal sovrano e con un ruolo di controllo e
di legame fra aristocrazia e popolo urbano e/o rurale – delineando una rigida demarcazione oltre che sul piano
sociale, anche su quello amministrativo, tra campagna e città.

Alla morte di Federico Guglielmo, succedette Federico I Hohenzollern di Brandeburgo (1688-1713), il quale,
nel 1701, divenne Federico I Hohenzollern Re di Prussia, ottenendo l’ambito titolo direttamente dall’accordo con
l’imperatore Leopoldo I.

Una incisiva affermazione dello Stato tedesco come questa fu possibile in ragione del fatto che a Westfalia vennero
attribuiti quei diritti di sovranità ai prìncipi tedeschi che, d’altro canto, indebolirono però la funzione coordinatrice
e centralistica della monarchia imperiale, e quindi dell’imperatore stesso. Pertanto, gli imperatori tedeschi,
mancando di questa funzione, preferirono concentrarsi sull’amministrazione delle terre austriache, non
rinunciando però ad influenzare le sorti generali della Germania. I domini asburgici della casa d’Austria si
concentrarono sull’Ungheria e sulla Boemia - regione più ricca tra tutte -. Per riorganizzare suddetti domini, dopo
la guerra dei Trent’anni, l’imperatore Leopoldo I – zelante e coscienzioso – si affidò all’opera controriformistica
della Chiesa tedesca e in particolar modo agli ordini religiosi più influenti – gesuiti e cappuccini – ottenendo
quella comunità di intenti con i nobili che favorì il raggiungimento di un compromesso tra corona e aristocrazia
terriera.

L’assolutismo imperale si fondò saldamente sull’opera controriformistica e sul compromesso con l a nobiltà:
l’Austria divenne il centro di potere del governo, Boemia e Ungheria, invece, mantennero un margine di
autonomia più ampio rispetto alla corona asburgica. In particolare, l’Ungheria – gravata da contrasti religiosi e
dalla resistenza nobiliare – venne ravvicinata, seppur a fatica, dall’imperatore, il quale strinse un’importante
alleanza con le famiglie aristocratiche del luogo, in ragione del fatto che il controllo imperiale sull’Ungheria era
essenziale: il più grande problema dell’Impero era il contenimento del rinascente espansionismo ottomano, non
frenato dalla morte del suo più importante condottiero Solimano il Magnifico (1556).

3 Ripresa espansionistica e decadenza dell’Impero ottomano

Il tanto temuto espansionismo ottomano, nonostante la memorabile sconfitta di Lepanto dell’ottobre 1571, si era
intensificato alla fine del Cinquecento e raggiunse il suo apogeo durante il XVII secolo per poi ridimensionarsi
alla fine dello stesso.

Alla fine del XVI secolo, i turchi ottomani avevano conquistato – grazie all’opera dei sultani Selim II (1566-74)
e Murad III (1574-1595) – la Georgia; l’Iran (sconfiggendo i persiani tra il 1576 e il 1590); l’isola di Ciprio
(1573) e l’isola di Tunisi (1574). Avevano altresì consolidato il loro dominio sugli stati vassalli della Moldavia e
della Transilvania, i quali rappresentavano il bastione antiasburgico. Lo scontro con gli imperiali sembrava
concluso nel 1616 dopo i trattati di Vienna che imposero la duplice sovranità asburgico-turca sulla Transilvania;
tuttavia, esso si riaccese verso la metà del Seicento. Tra gli anni ’20 e ’40 i sultani ottomani – fra i quali Murad
IV (1623-40) – si riaffacciarono sui confini orientali per fronteggiare la rinascente minaccia persiana: i persiani
avevano riconquistato l’Iran e Baghdad. La pace del 1639 ad ogni modo permetteva comunque a Murad IV di
riottenere il controllo sulla capitale irachena e sul Golfo persico.

L’ultimo grande successo ottomano occorso alla fine del 1669 – alla fine della guerra con la Repubblica di Venezia
per il controllo dell’isola di Creta (1644-69) – non poté fermare quella che fu una profonda crisi strutturale
all’interno dei domini ottomani: l’antica solidità delle istituzioni militari e amministrative, unita alla tipica
tolleranza religiosa nei confronti delle popolazioni cristiane sottomesse, venne scemando nel momento in cui la
corruzione del sistema amministravo dilagò, quando gli stessi sultani si dimostrarono sempre più incapaci di
governare sapientemente come del resto aveva fatto Solimano il Magnifico. Il potere dei corpi intermedi si fece
sempre più ingombrante: i giannizzeri – elemento portante dell’esercito ottomano – avevano ormai abbandonato
il severo spirito militare e fideistico verso la corona e vi si erano ribellati. Anche la crisi economica di fine
Cinquecento – provocata dall’inerte passività dei ceti mercantili dinanzi ai commerci olandesi, portoghesi e
inglese - impresse un duro colpo alla struttura istituzionale ottomana, come del resto lo fece una crescita
demografica non coincidente ad una eguale crescita produttiva.

Attraverso un’opera di risanamento amministrativo, finanziario e militare – sotto il sultanato di Maometto IV


(1648-87) – i gran visir Mehmed Pascià e Fazil Ahmed Pascià tentarono di porre rimedio a suddetta decadenza.
Nei territori occidentali riaffiorò lo scontro con gli imperiali a causa della completa sottomissione della
Transilvania a questi ultimi – il principe transilvano Giorgio II Razocky ne uscì sconfitto – mentre la pace di
Vasvar del 1644 confermò la sovranità turca sui territori romeni. L’Impero di Leopoldo I avrebbe potuto allora
dedicarsi a contrastare l’egemonia di quella che ormai era divenuta la più grande e pericolosa potenza continentale:
la Francia di Luigi XIV.
4 La Francia di Luigi XIV

Alla morte del cardinal Mazzarino – occorsa il 9 marzo 1661 – il re di Francia, Luigi XIV, ancora molto
giovane (22 anni), decise che avrebbe governato in solitario, senza alcuna delega di potere ad un primo ministro:
cresciuto con la convinzione dell’intangibilità del diritto divino del re, il regno di Luigi XIV (terminato solo nel
1715) – il Re Sole – divenne l’archetipo del governo assolutistico in senso proprio (ricordiamo che egli arrivò al
punto di affermare la celebre identificazione tra lo Stato e la sua persona: “L’état c’est moi”).

Non bisogna però pensare che la sua amministrazione sia stata tirannica e irrispettosa degli interessi nazionali,
anzi, il sovrano non mancò mai di comprendere gli invalicabili limiti entro cui l’articolata realtà della società
francese permetteva al suo assolutismo di dispiegarsi. Limiti che si concretavano nell’inviolabilità delle
istituzioni, delle leggi e dei privilegi vigenti nel regno. Dunque, evitando finché possibile di sconvolgere la
struttura istituzionale dello Stato, venne raggiunto un compromesso fra corona e corpi intermedi, anch’essi
interessati a perpetuare quella politica di risanamento economico, politico e istituzionale perseguita dai precedenti
monarchi francese fin dalla conclusione delle guerre civili del ‘500. Per di più, quella che risulta essere
un’attenzione a dir poco maniacale allo Stato francese da parte di Luigi XIV durante il suo lungo regno, può esser
spiegata considerandola come un mezzo per conferire gloria e prestigio alla famiglia reale.

In ambito burocratico-istituzionale, lo Stato di Luigi XIV si compose di consigli addetti a materia specifiche –
quali il Consiglio delle Finanze, il Consiglio dei Dispacci (cioè affari interni); il Consiglio degli Affari
ecclesiastici (che si occupava della distribuzione dei benefici-privilegi); nonché il Consiglio del commercio
(Conseil du Commerce) – sulle quali, ovviamente, il sovrano aveva il potere di veto.

Un’altra struttura essenziale del sistema era la corte, la quale rappresentava la cinghia di trasmissione tra il
monarca e la nobiltà, il centro del clientelismo e del favoritismo, tutti indispensabili al buon funzionamento
dell’amministrazione. La nobiltà otteneva privilegi e franchigie dal re in cambio della propria indiscussa fedeltà
alla corona, servendola ed espletando correttamente la propria funzione. A facilitare la formazione di un rapporto
solido e collaudato di questo tipo fu la costituzione di un apparato ideologico-culturale diretto a irretire la nobiltà,
ridimensionandone l’autonomia, senza privarla completamente del proprio potere, il quale poteva esser esercitato
solo per servire lo Stato e la corona francese.

I ministri e i segretari di Stato rappresentavano una estensione del potere esecutivo, nel senso che al sovrano
spettava prendere le decisioni ufficiali del Consiglio Reale, mentre le decisioni “ufficiose” – e cioè per le quali
non vi era necessità della pubblicazione ufficiale – spettavano ad un Consiglio segreto (o Alto Consiglio di Stato)
in cui confluivano il Re e i suoi ministri più capaci (veniva anche denominato Consiglio dei Tre). Tra i ministri
più fidati di Luigi XIV vi furono il ministro degli Esteri Hugues de Lionne; il ministro della Guerra Michelle le
Tellier e il sovrintendente alle Finanze Nicola Fouquet. Quest’ultimo, in carica dal 1653, ebbe il difficile compito
di risanare le casse statali dissanguate dalla Guerra dei Trent’anni e soprattutto dalla guerra franco-spagnola,
conclusasi nel ‘59: dovette affrontare una considerevole opera di riordinamento economico, frenata anche dalle
carestie e dall’indebitamento pubblico. Il risanamento economico intrapreso da Fouquet fu però bloccato nei primi
anni ’60 del XVIII secolo, quando finì tra i sospettati della appena istituita corte giudiziaria speciale (chambre de
justice), cui compito era indagare sui guadagni illeciti conseguiti dai maggiori finanzieri del regno: egli venne
arrestato nel 1661 con l’accusa di abuso di potere e conseguentemente venne esiliato a Pinerolo fino alla morte,
occorsa nel 1680. Al suo posto, Jean Baptiste Colbert (1619-1683), il quale ricoprì la carica di Controllore
generale delle Finanze e di sovrintendente ai beni immobili, manifatture e commercio (1665) e
successivamente, nel 1669, ricoprì la carica di Segretario di Stato per la Marina militare e per la famiglia
reale. Colbert ebbe un notevole ruolo nella caduta di Fouquet, sebbene lui stesso avesse accumulato illecitamente
ricchezze su ricchezze durante il governo di Mazzarino.

In questo modo, Colbert poté perseguire quell’opera di riordinamento finanziario e fiscale già avviata da Fouquet:
dapprima ridusse l’imposta permanente sugli immobili (taille) attraverso l’introduzione della ferme générale, così
da agevolare la condizione economica dei contadini - sui quali l’imposta in questione gravava maggiormente – e
da alleggerire il pagamento dei prestiti allo Stato. Si preoccupò altresì di spostare la pressione fiscale sulle imposte
indirette – quali dazi doganali, gabella del sale e tassa sugli alcolici -; di finanziare le indagini (recherches de
noblesse) volte a rilevare la veridicità dei titoli nobiliari dell’aristocrazia in modo tale da eliminare le esenzioni
fiscali per coloro che risultavano nobili soltanto dalla terza generazione [nota bene: era necessario avere almeno
un bisnonno/a (quarta generazione) di estrazione familiare nobile per godere dei privilegi fiscali: la terza
generazione (nonno/a) non era sufficiente a tal fine] e anche al fine di assoggettare la nobiltà al controllo statale.

Questi provvedimenti portarono ad una riduzione delle rivolte contadine e quelle poche che si verificarono – a
Guascogna, Rossiglione e in Bretagna – vennero represse pubblicamente dalle truppe regie.

Anche gli intendenti (o commissari) – reintrodotti da Mazzarino – ebbero un ruolo importante: divennero
funzionari efficientissimi, capaci di controllare capillarmente il territorio attraverso un’opera di comunicazione
informativa al governo centrale degli eventuali problemi riscontrati/individuati. Si occupavano della riscossione
delle tasse nelle province, di combattere la corruzione, della preservazione dell’ordine pubblico e del
sostentamento della popolazione in caso di carestie o malattie endemiche. Il lavoro svolto nelle province e nelle
città danneggiò l’autonomia finanziaria delle oligarchie cittadine, subordinate anche esse alla figura del sovrano.
I resoconti degli intendenti permisero a Colbert di condurre delle inchieste rispetto ai bilanci delle economie locali,
delle attività manufatturiere e commerciali, chiudendo tutte le falle dell’economia francese – locale e nazionale -
.

Infine, si ebbe un ridimensionamento del potere politico-economico degli officiers (i magistrati) e della noblesse
de robe (la nobiltà di toga) che asservì alla monarchia il mondo di questi ultimi. In pratica, vennero ridimensionate
o eliminate le cariche venali di cui disponevano i magistrati e i togati (1665).

Fu riorganizzata anche la stessa municipalità di Parigi – città ormai talmente cresciuta da esser diventata caotica
e da non godere della più auspicabile igiene -: fu istituito il luogotenente di polizia, dotato di poteri straordinari,
il quale si preoccupò di ammodernare la viabilità, pavimentare le strade, illuminarle e renderle sicure, utilizzando
anche una fitta rete di spie per vigilare sull’opinione pubblica.

Un’opera – quella appena descritta – di riordino centralizzato accompagnata dalla parallela riduzione dei poteri
parlamentari e degli Stati Provinciali - gli Stati Generali, invece, non venivano ormai convocati dal 1614 –. I
parlamenti municipali – tra cui quello della stessa capitale Parigi – accolsero il provvedimento che imponeva la
riduzione dell’esercizio della rimostranza (remontrance), con la quale si potevano proporre modifiche ai decreti
regi prima della loro definitiva approvazione e registrazione (vedere cap. 3, par.4). Alcuni degli Stati provinciali
vennero eliminati, altri, invece, vennero “addomesticati” dalla manipolazione delle nomine dei deputati.

In ambito giudiziario, riprendendo gli appunti già esistenti nel Cinquecento - mediante i quali si sarebbe dovuto
riformare l’intero corpus giuridico del regno – nacquero il Codice di procedura civile (1667); il Codice di
procedura penale (1670); il Codice del Commercio (1673) e il Codice sui traffici con le colonie (1685).

L’opera di Colbert si distinse in tutta Europa per la pragmatica e fedelissima esecuzione dei dettami della teoria
mercantilista: egli condivideva il presupposto secondo cui occorreva incrementare la ricchezza monetaria della
Francia al fine di accrescerne la potenza politica e militare, incrementando il commercio estero e privilegiando le
esportazioni alle importazioni. Una serie di misure, da lui intraprese, indussero gli artigiani ed industriali francesi
ad incrementare quantitativamente e qualitativamente la produzione dei beni primari di consumo. Si preoccupò di
incentivare finanziariamente le attività manufatturiere così che queste dessero il proprio meglio e concesse
privilegi alla manodopera straniera che si insediava nello Stato francese. Il Codice del Commercio – il quale
disciplinava e regolamentava ogni minimo aspetto della produzione industriale – si rivelò utile a tali fini.

Colbert, dunque, prese tutte le decisioni atte a garantire la competitività commerciale dei prodotti francesi. A tal
fine si rese poi necessario provvedere all’espansione dell’influenza commerciale della Francia, obiettivo raggiunto
mediante l’intensificazione della spinta coloniale e la creazione di nuove Compagnie commerciali private.
Altrettanto necessaria anche la creazione di un’adeguata flotta navale – sia militare che mercantile -, un bisogno
che simboleggia la tendenza politica al prestigio internazionale perseguita dal Re Sole e per il quale vennero
incentivate le costruzioni navali e l’uso di legname.

Si assistette anche ad un rinnovo dell’esercito di terraferma grazie all’opera di François le Tellier, marchese di
Louvois (1641-91) nonché ministro della Guerra alla morte del padre: vennero rinnovati e aumentati gli effettivi;
il moschetto venne sostituito dal fucile; vennero ristrutturati i battaglioni e vennero introdotti gli archivi militari e
le uniformi. Inoltre, vennero costruite fortezze difensive ai confini del Regno grazie all’opera dell’ingegnere
idraulico De Vauban.

Complessivamente il lavoro di Colbert si rivelò soddisfacente in quanto consegnò a Luigi XIV uno stato
economicamente e militarmente solido, caratterizzato da una bilancia commerciale in positivo e dall’incremento
delle produttività in generale. Tuttavia, questo rigido controllo sull’economia costituì anche un deterrente per la
creazione di nuove forme organizzative di lavoro e si rivelò anche piuttosto pressante sul piano fiscale, soprattutto
a seguito delle guerre che vennero intraprese, orientate ad accrescere il prestigio internazionale della nazione e la
sua potenza economica come dettato dal mercantilismo e dal disegno regio, e dal fatto che “solo l’abbondanza di
denaro in uno Stato produce la sua grandezza e il suo potere” – Colbert.

5 La “guerra di devoluzione” e la guerra contro l’Olanda

La Spagna di Carlo II d’Asburgo – nonostante si fosse da poco conclusa la guerra con la Pace dei Pirenei (1659)
– fu il primo bersaglio della politica egemonica di Luigi XIV, il quale doveva preoccuparsi anche degli eventuali
attacchi imperiali che potevano sopraggiungere dal confine orientale (province della Borgogna, dell’Alsazia e
del Delfinato). Il Re Sole poté giovare dell’enorme lavoro diplomatico perseguito dal cardinal Mazzarino fino
alla sua morte: aveva ottenuto un’intesa amichevole con l’Inghilterra nell’ambito della guerra franco-spagnola,
mantenuta poi durante le guerre anglo-olandesi degli anni ’50 e ’60; era riuscito ad intromettersi nelle guerre
baltiche, seppur mantenendo un marginale ruolo di mediazione; a differenza dell’Inghilterra di Cromwell, riuscì
ad appoggiare la guerra anti-spagnola dei portoghesi senza scoprirsi esplicitamente ed infine riuscì a creare una
Lega del Reno, nel nord-ovest della Francia, bastione anti-imperiale. Luigi XIV tentò di continuare questo
indirizzo politico sostenendo Portogallo e Lega del Reno; e sempre in funzione antimperiale sostenne la politica
di potenza ottomana nell’est Europa, dove, però, Leopoldo I ne uscì vincitore, contravvenendo allo “spirito di
crociata” che stava rianimando i paesi cattolici – così come avvenne un secolo prima con Lepanto.

Cercò di esercitare una maggiore influenza anche nei confronti della Polonia, dove Maria Luisa Gonzaga-Nevers
si era unita ormai da tempo in matrimonio al Re Giovanni Casimiro (1649), pertanto, cercò di trasformare quella
monarchia elettiva in una monarchia ereditaria alleata allo Stato transalpino, circondando l’Im pero di molti
nemici.

Alla morte nel 1672 di Giovanni Casimiro, in ragione della quale si estinse la dinastia Vasa, il progetto francese
di far eleggere come nuovo sovrano polacco Luigi II di Condé svanì in quanto venne eletto un candidato proposto
dalla potente nobiltà polacca, Michele Wisniowiecki (1669-73), il quale ne divenne un burattino da manovrare
fino a quando non venne eletto un comandante dell’esercito, Giovanni Sobieski (1674-96), divenuto un poi un
fedele subordinato del Re Sole grazie al matrimonio con una principessa francese e in seguito al trattato di
Jaworowo (formale alleanza).

Sul fronte settentrionale, la Francia approfittò della seconda guerra commerciale anglo-olandese per indebolire la
potenza inglese a fianco delle Province Unite (1666). Successivamente, Luigi XIV ordinò l’invasione dei Paesi
Bassi spagnoli, esercitando il diritto di “devoluzione” pattuito con Filippo IV, re di Spagna, nella pace dei Pirenei.

Nota bene: a tal proposito occorre ricordare che la moglie di Luigi XIV, Maria Teresa di Spagna (1638-83),
figlia di Filippo IV, aveva rinunciato ai diritti sull’eredità spagnola in cambio della cospicua dote di 500.000 scudi
d’oro da consegnare alla data del matrimonio. Suddetta dote ancora non era stata pagata e quando Filippo IV
morì nel 1665, gli avvocati di Luigi XIV giustificarono le possibili rivendicazioni del monarca francese asserendo
che – mentre per la legge di successione spagnola il trono sarebbe dovuto passare al figlio di Filippo, Carlo II –
secondo le antiche leggi del Brabante, i Paesi Bassi spagnoli avrebbero dovuto esser devoluti (ius devolutionis)
solo ai figli di primo letto di Filippo IV, la cui unica superstite rimaneva Maria Teresa. Solo i figli di primo letto
erano da considerarsi come legittimi eredi dei beni paterni.

Scoppiò allora la guerra di devoluzione (1667-68), la quale allarmò le Province Unite a causa della vicinanza, e
in ragione di ciò le stesse si unirono in un patto trilaterale con Inghilterra e Svezia. Sarebbe stato arduo affrontare
quattro potenze europee – quali Spagna, Olanda, Inghilterra e Svezia – da solo, pertanto, Luigi XIV cercò aiuto
presso Leopoldo I, attirandolo con la proposta di spartire i domini spagnoli alla morte di Carlo II, la cui salute
versava in uno stato precario. Secondo tale proposta:

· L'impero avrebbe ottenuto la Spagna, tutti i domini coloniali d’oltreoceano e il ducato di Milano;
· la Francia avrebbe ottenuto il Regno di Napoli, la Sicilia, le Fiandre, la Franca Contea e la Navarra.

Non essendo incorso in particolari resistenze nei Paesi Bassi – non a caso l’invasione francese venne denominata
la “passeggiata militare” – e riuscendo ad occupare il territorio della Franca Contea, quest’ultimo venne
utilizzato come “dono sacrificale” nelle trattative di pace svoltesi ad Aquisgrana nel maggio 1668: Luigi XIV
ottenne alcune roccaforti conquistate nei Paesi Bassi – tra le quali Lilla e Charleroi -, mentre la Spagna ottenne,
appunto, la Franca Contea.

I progetti tanto voluti da Luigi XIV si conclusero in questo contesto in quanto Carlo II guarì e Leopoldo I si
distaccò dall’alleanza non appena la Francia invase il conteso territorio della Lorena (1670). Infine, si sfaldò la
Lega del Reno.

La politica di potenza del Re Sole iniziò a fruttare ma ad un prezzo ragguardevole: Lionne, ministro degli Esteri,
nonché il suo successore, Arnauld de Pomponne (1618-99) dovettero ricostruire rapporti diplomatici con mezza
Europa, tuttavia, la pretesa universalistica della monarchia francese e del ministro della guerra, Le Tellier de
Louvon, prevalse vanificando questi sforzi diplomatici. Furono le Province Unite a farne le spese, già bersaglio
dichiarato di Colbert, il quale le colpì più volte con una serie di provvedimenti economici di stampo mercantilista
– quali aumento dei dazi doganali e proibizione all’importazione dei prodotti olandesi -. Inoltre, Luigi XIV, dal
canto suo, si riavvicinò all’Inghilterra – come avvenuto con la guerra franco-spagnole del 1648-59 – stipulando il
patto segreto di Dover nel 1670, il quale legava i destini degli Stuart e Carlo II a quelli della Francia. Si accordò
anche con Carlo XI di Svezia nel 1671, il quale, però, sarebbe intervenuto solo in caso di attacco imperiale ai
danni della Francia.

La guerra scoppiò nella primavera del 1672: dapprima i francesi avanzarono sulla terraferma, aprendo le linee
nemiche, mentre, in giugno, una flotta anglo-francese veniva però sconfitta a Yarmouth (terza guerra
commerciale anglo-olandese). Nonostante ciò, l’esercito francese era inarrestabile: gli olandesi dovettero ricorrere
ad una tattica opposta a quella delle “terra bruciata”, aprendo le dighe e allagando il paese per difendere
Amsterdam. Nel più totale caos, perì il Gran Pensionario De Witt, assassinato durante una sommossa popolare, e
il potere venne preso da Guglielmo III d’Orange, fautore di una lotta ad oltranza contro i francesi, impantanati nel
fango dinanzi Amsterdam.

Conseguentemente, le diplomazie europee si attivarono: nel 1673 accanto alle Provincie Unite scesero Impero,
Brandeburgo, Danimarca e Spagna, nemica per eccellenza dell’Olanda. Inoltre, la Francia sciolse l’alleanza
con la Svezia. Il conflitto si allargò all’Alsazia – difesa dal generale Turenne –, al Baltico – dove la Svezia dovette
soccombere agli attacchi danesi e brandeburghesi – e alla Sicilia, per via navale – dove Luigi XIV approfittò di
una rivolta antispagnola per farsi proclamare re dell’isola. La pace non tardò ad arrivare: fu stipulata a Nimega
(1678-79) e sancì l’ottenimento da parte francese di alcune roccaforti nei Paesi Bassi – tra le quali Cambrai e
Ypres – e della Franca Contea. La Svezia, vincitrice simbolica assieme alla Francia – nonostante le sconfitte subite
– mantenne il controllo sulla Pomerania e sulla Scania, insidiate dal Brandeburgo e dai danesi.

La pace assunse i contorni di una vittoria risicata per i francesi, i quali dovettero fare i conti con le prime rivolte
contadine dovute alla intensa pressione fiscale.
6 Questioni religiose, contrasti giurisdizionali e politica internazionale

Sebbene fosse stata ristabilita la pace provvisoriamente, in Francia si rinnovarono delle problematiche latenti,
rimaste tali fintantoché le guerre furono all’ordine del giorno nell’agenda politica del sovrano francese. Ad
alimentare tensioni e spinte autonomiste vi erano le divisioni religiose e l’infiltrazione della Chiesa di Roma nel
clero gallicano francese: agli occhi dell’assolutista Luigi XIV ugonotti e clero romano rappresentavano una
fastidiosa limitazione al suo sconfinato potere.

Il monarca applicò l’Editto di Nantes (1598) letteralmente, il che si tradusse in una restrizione dei diritti legali
calvinisti, nella distruzione delle chiese erette in violazione dell’Editto; nella proibizione ad ogni possibile
conversione al protestantesimo; nell’istituzione di facilitazioni fiscali per chi abiurava dalla religione pretesa
riformata (religion prétendue réformée) e in ultimo nell’istituzione di una cassa monetaria per invogliare le
conversioni al cattolicesimo con compensi monetari. Le ragioni su cui risiedeva questa incisiva azione
antiprotestante del Re Sole non vanno ricercate tanto nel fatto che quest’ultimo fosse un fervente cattolico, quanto,
piuttosto, nella pretese di una monarchia universale, la quale non poteva esser soddisfatta senza l’uniformità
religiosa dello Stato.

Se da un lato l’alleanza tra papato e sovrano era indispensabile, dall’altro, il Re non voleva che il potere temporale
del pontificato potesse incidere sul suo governo assolutista. Inoltre, la Chiesa francese gallicana costituiva un
corpo intermedio da cui guardarsi, sebbene nello scontro fra sovrano e chiesa romana, i gallicani propendessero
sempre per il primo. Dotata di grandi latifondi, beneficiaria di rendite e decime ecclesiastiche, la Chiesa francese
costituiva il sostrato culturale di cui erano intrisi Parlamenti e noblesse de robe, corpi sociali spesso in conflitto
col potere assolutista. Dunque, Luigi XIV si trovava nella non facile situazione di dover blandire Parlamenti e
magistrati e allo stesso tempo sostenere il “nazionalismo ecclesiastico gallicano”, contenendone le spinte
autonomiste.

Lo stesso cattolicesimo si presentava apertamente diviso da contrasti teologici e dottrinali: in particolare


sull’antica questione tra grazie e libero arbitrio. In questa controversia si scontrarono diversi teologi – quali
Michele Baio (agostiniano per il quale gli uomini privi di grazia divina non potevano che essere malvagi);
Leonard Lessius (pelagiano secondo il quale il libero arbitrio e le opere degli uomini prevalevano sulla grazia
divina) e lo spagnolo Luis de Molina, il quale introdusse la corrente del molinismo che, sulla scia della tradizione
pelagiana favorevole al libero arbitrio, volle diffondere un insegnamento che fosse di conforto ai fedeli e che
favorisse l’azione pastorale e di conversione. All’inizio del Seicento, sia papa Clemente VIII (1592-1605) sia il
suo successore, Paolo V (1605-21) condannarono le opere del Molina e vietarono qualsiasi dibattito sulla grazia
divina.

Proprio su questo sfondo religioso instabile si innestò l’opera religiosa del teologo olandese, Cornelius Jansen,
detto Giansenio (1585-1638), vescovo di Ypres. La sua notorietà derivò dalla sua opera – uscita postuma nel 1640
– “Augustinus”, in cui riproponeva una teologia della grazia fondata sull’insormontabile corruzione prodotta
nell’uomo a causa del peccato originale: secondo Giansenio, prima del peccato originale, all’uomo bastava
ottenere la grazia divina per poter esser salvato dai suoi peccati. Invece, a seguito della corruzione del suo animo
che conduceva al male (concupiscenza), si rendeva necessario un decreto divino che rendesse efficace la grazia
ottenuta dall’uomo, così da salvarlo. Per di più, le opere umane in quanto tendenti al male erano pressoché inutili,
allora, l’uomo poteva contare unicamente sulla sua incrollabile fede. Quest’opera, come anche le dottrine
gianseniste, venne condannata da Urbano VIII (1623-44) con la bolla “In eminenti”.

Un fedele seguace di Giansenio, l’abate di Saint-Cyran, Jean de Hauranne (1581-1643) radicalizzò il pensiero
del vescovo di Ypres, sostenendo che l’ottenimento della grazia divina rappresentasse un vero e proprio
“cataclisma” positivo per l’animo umano, il quale, da quel momento in poi, avrebbe subito una conversione
violenta e uno sconvolgimento dell’anima tali da allontanarlo da tutte le tentazioni del mondo. Negli anni ’30 del
‘600, divenne direttore spirituale del convento di Port-Royale-des-Champs, a Parigi, ove incominciarono a
concentrarsi i cosiddetti solitari, ossia coloro che avevano abbracciato il giansenismo e le sue derivazioni radicali
– tra cui anche Blaise Pascal -. Morto Saint-Cyran nel ’43, l’opera di diffusione del giansenismo venne
proseguita da uno dei solitari, il teologo Antoine Arnauld (1612-94), il quale si scontrò con la Compagnia di
Gesù rispetto al loro formalismo sacramentario: secondo i giansenisti la comunione non poteva essere
somministrata a coloro che avessero commesso peccati mortali e/o non avessero espiato enormi penitenze.

La Chiesa di Roma ovviamente cercò in tutti i modi di reprimere queste controversie eretiche: Innocenzo X (1644-
55) ripudiò le cinque proposizioni gianseniste con una bolla papale, “Cum occasione”. Tuttavia, Arnauld ripudiò
la sanzione eretica in quanto riteneva che i teologi papisti avessero dato un senso diverso da quello che realmente
era stato propugnato da Giansenio. Peraltro, papa Alessandro VII (1655-67) continuò l'azione di condanna dei
principi giansenisti con la bolla “Ad Sanctam” del '56. Anch’essa venne ripudiata da quattro vescovi giansenisti
francesi, fino a che non fosse stata notificata la sostanziale differenza tra la “linea di diritto” - secondo cui, i
giansenisti accettavano la condanna papale senza eccezioni - e la “linea di fatto” - secondo cui invece le cinque
proposizioni non erano in effetti presenti nel testo di Giansenio -. Pascal, abbracciando il pensiero di Arnauld,
arrivò radicalmente a criticare anche la legge dello Stato, la giustizia e l'autorità monarchica, in quanto il peccato
originale aveva corrotto, oltre all'animo, anche la ragione, per cui non era più possibile considerare giusto o
ingiusto un determinato fatto e le stesse norme e leggi dello Stato sarebbero state “inquinate” dall'errata ragione
umana. Il Giansenismo, dunque, covava al suo interno i germi di un individualismo e di uno spirito di ribellione
estremamente pericolosi agli occhi di Luigi XIV.

L’avvento del nuovo papa Clemente IX (1667-69) risolse la prima controversia giansenista in quanto il pontefice
acconsentì a distinguere la linea di fatto dalla linea di diritto.

Una nuova controversia di carattere giurisdizionale, pochi anni prima, nacque tra papa Alessandro VI – il quale
aveva soppresso l’extraterritorialità delle ambasciate francesi a Roma – e Luigi XIV – il quale rispose occupando
Avignone, possedimento pontificio nel sud della Francia, al fine di ottenere la revoca del provvedimento, che di
fatto ottenne. Il re allora volle ricambiare il favore sancendo il diritto monarchico di recepire le entrate
ecclesiastiche delle diocesi vacanti.

Il nuovo pontefice Innocenzo XI (1676-89) condannò duramente la politica regia, scatenando una furiosa reazione
del Re Sole: quest’ultimo convocò in una sessione speciale l’assemblea del clero gallicano, facendo approvare un
documento – la Dichiarazione dei Quattro articoli (Déclarations des Quatres Articles) – con il quale venne deciso
che i pontefici non avrebbero più potuto scomunicare o destituire i sovrani di uno Stato europeo; venne altresì
affermata la superiorità del concilio ecumenico sull’autorità papale e venne imposto ai pontefici il rispetto delle
leggi del regno e della Chiesa gallicana francese.

Il dissidio giurisdizionale ebbe ripercussioni nell’ambito della politica internazionale in quanto il papa avrebbe
voluto Luigi XIV come suo alleato nella battaglia contro l’Islam. Tuttavia, il sovrano si dedicò all’ampliamento
dei confini del proprio regno attraverso le cosiddette réunions – nient’altro che le riunificazioni di territori contesi
con gli Stati confinanti – promosse attraverso l’istituzione di corti speciali – le camere di riunificazione – volte
ad indagare le basi giuridiche dell’annessione di nuovi possedimenti. In pochi anni, di conseguenza, Luigi XIV
riuscì a metter mano ai possedimenti della Lorena, alla città di Strasburgo, al Lussemburgo e alla fortezza italiana
di Casale.

Il re Sole – grazie al fatto che Leopoldo I e il suo impero furono impegnati a combattere l’ultima grande avanzata
ottomana nei Balcani per tutta la fine del XVII secolo – riuscì indisturbato in questa sua opera di annessione
“pacifica”.

A proposito degli ottomani, questi ultimi – una volta reclutato un enorme esercito alle porte di Vienna grazie ad
una forte pressione fiscale – assediarono Vienna nel luglio 1683, sotto il comando del visir Mustafa Pascià.
Tuttavia, dopo pochi mesi, un’armata austro-polacca comandata da Carlo IV di Lorena e dal sovrano polacco
Sobieski smantellò l’assedio turco e sconfissero gli infedeli nella grande battaglia di Kahlemberg, il 12
settembre ’83. Una sconfitta che lese in modo definitivo le pretese universalistiche dell’Impero ottomano e della
sua secolare spinta espansionistica.

Paradossalmente, la Francia non poteva ritenersi soddisfatta di questa vittoria cattolica: a causa del non-intervento,
si guastarono nuovamente i rapporti con la Santa Sede, infliggendo un duro colpo al prestigio internazionale della
monarchia e galvanizzando le truppe imperiali e lo stesso Leopoldo I, ora pronto a contrastare la potenza egemone
in Europa, non prima però di aver definitivamente sistemato la questione ottomana: venne sottoscritta la pace di
Ratisbona (tregua con Luigi XIV) con la quale Leopoldo I si coprì le spalle e successivamente, nel 1684, costituì
una Lega Santa composta da Polonia, Repubblica di Venezia e Impero Russo (quest’ultimo dal 1686) al fine
di intraprendere una contro-offensiva antiturca. Leopoldo I ottenne Buda, Belgrado e l’intera Transilvania;
l’Impero russo consolidò i confini a sud e ad ovest, dove la Polonia riconobbe definitivamente le conquiste di
Smolensk e Kiev.

Negli anni ’80 del Seicento, la “bilancia” del prestigio internazionale pendeva a favore degli asburgici: Leopoldo
I divenne il difensore della fede cristiana e garante della libertà germanica; mentre Luigi XIV assisteva inerme –
politicamente e diplomaticamente isolato – al trionfo dei suoi nemici dalla sua sfarzosa corte di Versailles,
nonostante le annessioni pacifiche gli garantissero comunque di possedere la compagine statale più estesa
d’Europa.

L’obiettivo del sovrano francese era, ora, riguadagnare il prestigio perso a seguito della battaglia di Kahlemberg
e l’unico modo per raggiungerlo, con meno rischi, consisteva nell’abbattimento definitivo e plateale della
minoranza ugonotta in seno allo Stato francese, così da riscuotere il tributo di onore e gloria cattolica da parte del
papa e degli Stati cattolici – Asburgo in primo luogo -. Vennero così avviate delle campagne di conversione
forzata al cattolicesimo, sotto minaccia delle dragonnades – le truppe cattoliche adibite alla conversione delle
famiglie protestanti -. Coloro che si rifiutarono vennero arrestati. La “soluzione finale” era ormai prossima: il 17
ottobre 1685, il Re Sole promulgò l’Editto di Fontainebleau col quale vennero revocate le disposizioni
dell’Editto di Nantes, emanato da Enrico IV nel 1598 al termine delle guerre di religione. I calvinisti furono
costretti ad abiurare o emigrare e coloro che si fossero rifiutati ad una delle due alternative, sarebbero stati
perseguiti ferocemente. Conseguentemente esplosero ribellioni locali, come quella dei camisards, un gruppo di
contadini protestanti dei monti Cevennes. Dei circa 800.000 calvinisti del regno francese (4% della popolazione
totale) espatriarono in 200.000, rifugiandosi nelle Provincie Unite, in Inghilterra, in Scozia e nel Brandeburgo,
con conseguenze negative anche sul piano economico.

L'editto di Fontainebleau non diede i frutti sperati, né sul piano interno, né sul piano estero: rispettivamente, sul
piano interno, nonostante la grande emigrazione degli ugonotti, la maggior parte rimase in patria, continuando a
professare segretamente la fede riformata, mentre gli esuli alimentarono una dura campagna antifrancese; sul
piano esterno, invece, sebbene Luigi XIV con l’Editto di Fontainebleau avesse riguadagnato il tanto desiderato
prestigio internazionale – ovviamente in senso negativo, e cioè destando stupore e paura negli statisti europei -, si
era guadagnato le ostilità delle potenze protestanti – quali Inghilterra e Olanda – e destò preoccupazione nelle
altre potenze cattoliche – quali Spagna e Impero che, nel luglio 1686, si unirono alla Lega di Augusta insieme a
Svezia e Brandeburgo (1687) per ostacolare la prova di forza compiuta dal monarca francese -.

7 La “Gloriosa Rivoluzione” inglese e il declino dell’egemonia francese

Il 1685 non è solo l’anno in cui venne revocato l’Editto di Nantes. Poco più a nord della Francia, l’Inghilterra
accolse il re Carlo II, il fratello Giacomo II Stuart. Fervente cattolico e assolutista, la sua opera di governante si
snodò lungo due direttrici: nel 1687 sospese le leggi penali contro tutti i dissidenti religiosi, compresi i cattolici,
con la Dichiarazione d’Indulgenza. Un atto di forza tale da produrre insofferenza e rassegnazione tra i deputati
puritani – anche perché il nuovo sovrano sembrava governare in maniera più irriverente e irrispettosa nei confronti
del Parlamento rispetto al suo predecessore -. La rassegnazione aumentò nel giugno 1688, quando la moglie,
Maria Beatrice Este concepì un figlio cattolico, Francesco Edoardo Stuart: le fino ad allora uniche eredi al
trono – Maria, sposa di Guglielmo III d’Orange, e Anna, sposa di Giorgio di Hannover – erano entrambi di fede
protestante.

Sia Tory che Whig – espressione dello stesso strato sociale (aristocrazia e gentry) e presenti in Parlamento –
cercarono di arginare la tracotante politica regia, volendo difendere quei diritti civili, nonché politici, ottenuti con
la rivoluzione del 1640-49: così le due componenti parlamentari, nel 1688, si rivolsero a Guglielmo III d’Orange
al fine di tutelare i diritti dinastici della moglie Maria e quindi i diritti dei cittadini e deputati inglesi . Chiaramente,
Guglielmo d’Orange colse l’occasione, prospettando un futuro e glorioso ritorno nelle sue Province Unite, e
accettò la richiesta dei deputati inglesi, sbarcando sul suolo inglese alla testa di 20.000 soldati il 15 novembre
1688: una marcia trionfante, accolta entusiasticamente da civili e soldati e che di fatto non vide spargim enti di
sangue. Nel dicembre Giacomo II fu catturato a Londra.

Tenendo conto degli eventi, le due camere parlamentari – la Camera dei Lords e la Camera dei Comuni – si
riunirono in seduta congiunta alla fine dell’anno (Convention) per discutere la forma costituzionale da dare allo
Stato inglese: di comune accordo, tories e whigs, non curanti della illiceità della loro assemblea – che non aveva
alcun potere decisionale in merito alla forma costituzionale del regno in quanto Giacomo II non aveva abdicato,
nonostante la fuga in Francia ed anche se ciò fosse avvenuto, era comunque presente un legittimo erede, Francesco
Edoardo Stuart, pronto a rivendicare diritti e doveri regi – attuarono una sorta di pacifico “golpe parlamentare”,
il quale produsse la moderna forma costituzionale del parlamentarismo, sebbene fosse una forma costituzionale
particolare – traviata per così dire – in quanto mancava di uno dei due organi fondamentali a renderla tale – cioè
il Re.

Proseguirono con l’approvazione della Dichiarazione dei diritti (Declaration of Rights) (23 maggio 1689), con
la quale i deputati consegnarono la corona a Maria Stuart e a suo marito Guglielmo d’Orange, definendo i contorni
della prima monarchia costituzionale, controllata dal potere parlamentare: il sovrano non avrebbe più potuto
governare senza interpellare le Camere e senza ottenerne il consenso alle sue decisioni. I dissidi fra i due organi
costituzionale non mancarono, ma Guglielmo d’Orange accolse favorevolmente i limiti imposti dal Parlamento.
Più tardi, nel maggio 1689, venne emanato l’Atto di Tolleranza, il quale soppresse le pene previste contro i
dissidenti religiosi che avevano giurato fedeltà alla corona inglese ma non estese la libertà di culto né ai cattolici
romani né agli ebrei.

Mentre si avviava la seconda rivoluzione inglese con lo sbarco di Guglielmo d’Orange sulle coste inglesi, Luigi
XIV diede inizio alla Guerra dei Nove anni contro la Lega Augusta (1688-1697) – anche conosciuta come
Guerra della “Grande Alleanza”: le prime offensive francesi furono indirizzate alla conquista del Palatinato –
utile alla difesa della regione alsaziana, vulnerabile dal lato della regione tedesca – nel quadro di una conquista
strategica, considerata – erroneamente – rapida ed indolore dal sovrano francese. La Lega di Augusta – già
composta da Impero, Spagna, Svezia, Brandeburgo-Prussia e Ducato di Savoia – a seguito dell’offensiva francese,
vide aggiungersi Inghilterra e Olanda, le quali entrarono a far parte della stessa tra il 1689 e il 1690. Come tutte
le guerre che vedono una grande coalizione – per l’appunto la “Grande Alleanza” – confrontarsi con un imponente
nemico, è quest’ultimo, almeno nella fase iniziale, ad avere la meglio poiché non avendo alleati, non deve
coordinare le proprie azioni a questi ultimi.

Si spiega in tal senso la serie di successi incalzanti ottenuta del Re Sole:

1. vittoria di Fleurus contro le truppe ispano-tedesco-olandesi (1° luglio 1690);

2. vittoria sulla flotta anglo-olandese nella battaglia della Manica, a Beachy Head (10 luglio 1690);

3. vittoria a Staffarda contro Vittorio Amedeo II di Savoia e conseguente invasione del Piemonte (agosto).

Il sovrano francese poté contare anche sul diversivo prodotto dai contadini irlandesi nella loro terra madre, dove
diedero filo da torcere agli inglesi con una serie di ribellioni e dove difesero lo sbarco dell'esule Giacomo II Stuart.
Infine, la Svezia, componente della Lega di Augusta, non aveva dato alcun apporto alla coalizione, impelagata
com'era nella difesa dei suoi commerci nel Baltico - insidiati dalla sua nemica di sempre, la Danimarca,
subordinata alle influenze francesi dal 1682 -.
Le sorti della guerra si riequilibrarono rapidamente di lì a poco: Leopoldo I sconfisse, ancora una volta, i residui
ottomani a Szlankamen, successivamente, Guglielmo d’Orange sconfisse i ribelli irlandesi e i seguaci di Giacomo
II (c.d. giacobiti) e Luigi XIV commise il grave errore di comandare, direttamente da Versailles, la sua flotta nella
battaglia di La Hogue (giugno 1692) contro la flotta anglo-olandese. La sconfitta subita dal re Sole fu clamorosa:
la Francia perse gran parte della sua flotta e portò la guerra ad estendersi nelle Antille, in Canada e in India, dove
i pirati anglo-olandesi saccheggiarono i traffici francesi. Il conflitto divenne una sorta di “guerra mondiale”
combattuta da potenze europee.

Nel 1693 la situazione era prossima allo stallo: nessuna delle potenze aveva preso il sopravvento. In Inghilterra,
Guglielmo III d’Orange iniziò a perdere consensi a causa della forte pressione fiscale – accresciuta anche
dall’imposizione delle Land Tax, tassa sulla proprietà fondiaria - e a causa dell’instaurazione di un regime
finanziario di debito pubblico a lunga scadenza. Inoltre, venne anche istituita una banca privata sotto controllo
statale – la Compagnia della Banca d’Inghilterra – nel 1694, non appena il cancelliere whig, Ralph Montagu
ottenne l’accordo e il consenso degli altri esponenti whig sulla questione della convocazione del Parlamento ogni
volta che il Re avesse deciso di utilizzare i fondi della Banca. Venne a prodursi una compenetrazione tra Stato e
Finanza capitalistica, ottenuta con la nascita della Banca d'Inghilterra, che permise sia il consolidamento
definitivo del regime nato dalle due rivoluzioni (la prima 1640-49; la seconda 1686-88), sia la prosecuzione della
guerra contro la Francia.

Altri provvedimenti furono presi allo scopo di consolidare il rapporto Re-Parlamento: il Triennal act (1694), il
quale rendeva obbligatoria la convocazione parlamentare, abrogando così i lunghi periodi di governo
personalistico del sovrano; venne poi prevista nel 1695 l’abolizione della censura della stampa e l’affermazione
dei principi inviolabili della libertà di riunione e petizione nonché dell’inviolabilità della proprietà. Nel 1696
venne promulgato il Bank Act, il quale prorogava la vita della Banca d’Inghilterra, concedendole il monopolio
delle operazioni bancarie con lo Stato ed infine, un’altra legge istituì il Board of Trade, ente incaricato di
provvedere agli interessi dei commercianti.

I whig – espressione del ceto mercantile e proto-capitalistico – divennero dei veri e propri partiti politici, dotati di
un comitato direttivo capace di disciplinare i comportamenti dei deputati in Parlamento. Il clientelismo divenne
un lontano e brutto ricordo a seguito dell’abbandono della pratica di riporre poteri esecutivo e legislativo in uomini
di fiducia del re: ora i componenti del governo rappresentavano esclusivamente le idee del partito di maggioranza.
I tories rimasero ai margini del governo, sebbene avessero sperato nella gloria quando Giacomo II tentò di
assassinare Guglielmo III (Assassination Plot). Al fallimento della congiura, lo Stuart si ritirò definitivamente
dalla vita politica.

La società e l’economia inglese stavano trasformandosi, come del resto anche gli interessi degli inglesi stessi, non
più timorosi al pensiero di partecipare ad una guerra continentale, relativamente lontana dalle proprie coste, ma
anzi, fiduciosi della capacità militare della loro flotta, la quale, ora, oltre al dominio sulla Manica, aveva esteso la
propria influenza anche al Mediterraneo e agli oceani: gli inglesi occuparono l’importante porto commerciale di
Marsiglia a danno dei traffici francesi.
Questi ultimi versavano ormai in condizioni alquanto disastrose: gli sforzi bellici pluridecennali avevano
depauperato i risultati ottenuti dalla politica mercantilista perseguita da Colbert e furono accompagnati da una
grave carestia che, tra il 1693 e il 1694, devastò i raccolti agricoli, riducendo la popolazione contadina alla fame.
Se da un lato la defezione del Ducato di Savoia dalla Lega di Augusta alleggerì il tributo militare francese,
dall’altro, la cessione di Pinerolo e di Casale si tradusse nella rinuncia francese ad espandere i propri domini sulla
penisola italiana.

La pace di Ryswick giunse nel settembre-ottobre 1697 con la quale:

- le Provincie Unite acquisirono il diritto di edificare una catena di fortezze ai confini con i Paesi Bassi
spagnoli e una serie di accordi commerciali favorevoli con la Francia e con gli inglesi;
- l'Inghilterra guadagnò l'abolizione delle pesanti tariffe doganali introdotte da Colbert;
- l'Impero di Leopoldo I si vide restituire i territori trans-renani occupati dalla Francia;
- la Spagna riotteneva i territori occupati dai francesi, sia nei Paesi Bassi che al confine a nord della
penisola iberica (Barcellona, Lussemburgo, Brabante);
- infine, la Francia riconobbe come legittimo sovrano inglese Guglielmo III e le vennero riconosciuti tutti
i possedimenti in Alsazia, compresa la capitale Strasburgo, oltre alla costa occidentale dell'isola di
Hispaniola, in cui venne fondata la colonia di Santo-Domingo.

I trattati di Ryswick si rivelarono vantaggiosi soprattutto per l'Inghilterra e l'Austria Asburgica. Ovviamente,
nonostante l'impegno profuso nella Lega di Augusta e contro le avanzate ottomane, Leopoldo I non divenne
nuovamente Imperatore di una realtà unica, ma consolidò il suo potere nei territori austriaci e magiari. D'alt ronde,
l'Impero era percorso da forze centrifughe interne, costituite dalle spinte autonomiste dei protestanti di Hannover
- i quali avevano ottenuto nel '92 la dignità elettorale -; dei cattolici Wittlesbach di Baviera - da sempre in conflitto
con l'autorità imperiale degli Asburgo – e soprattutto dalle spinte centrifughe della Sassonia protestante, che si era
risollevata dopo le devastazioni della guerra dei Trent’anni. Il suo ambizioso principe Federico Augusto I (1694-
1734) indirizzò le mire espansionistiche ad est, verso lo Stato polacco, il quale nuovamente, dopo la morte di
Giovanni Sobieski (1696), si ritrovava senza una guida. Così, si candidò all'elezione per il trono polacco, aiutato
anche dagli stessi Asburgo d'Austria, i quali avrebbero potuto contare su un nuovo alleato nella lotta anti-turca.
Divenne re di Polonia col nome di Augusto II, battendo l'altro candidato francese Louis de Conti, a costo di
rinnegare la sua fede protestante, pur di ottenere quel trono.

Con la fine della guerra a ovest, nonostante potesse contare su un nuovo alleato, Leopoldo I concentrò tutte le sue
truppe in Ungheria per sconfiggere da solo e definitivamente gli ottomani nella battaglia del fiume Tibisco del
settembre 1697.

Gli ottomani dovettero difendersi anche dagli attacchi russi, tesi ad ottenere lo sbocco sul Mar Nero –
economicamente importante. Già nel 1695 lo Zar Pietro I il Grande (1689-1725) aveva tentato di conquistare la
città portuale di Azov, non riuscendovi. Successivamente, in meno di un anno, costruì un enorme flotta adatta a
sconfiggere e ad eliminare la presenza turca dalla città portuale che venne definitivamente conquistata nel luglio
1696. I musulmani furono così costretti a chiedere la pace, stipulata dal sultano Mustafà II (1695-1703) a
Karlowitz nel gennaio 1699: una pace umiliante che segnò l'inizio del loro ritiro dall'Europa, avutosi
definitivamente nel 1918. L'Imperatore ottenne la quasi totalità dell'Ungheria, la città di Belgrado e la
Transilvania. Alla Polonia spettarono acquisizioni minori – quali Ucraina e Podolia – e la Repubblica di Venezia
acquisì la Morea e alcune fortezze in Dalmazia.

Le paci di Ryswick e di Karlowitz sistemarono così l'assetto strutturale degli Stati europei: in particolare, la Russia
entrava di diritto nel novero delle grandi potenze europee: avrebbe avuto un ruolo fondamentale nella futura
estromissione della potenza svedese dal mar Baltico, insieme a Danimarca e Polonia; l'Inghilterra era divenuta la
garante dell'ordine europeo; le Provincie Unite, con in testa l'Olanda, continuavano a rimanere fondamentali
interlocutrici economiche, ma dal punto di vista militare le guerre del '600 rivelarono la sua cronica debolezza.
L'Impero di Leopoldo I uscì trionfatore da entrambi le paci, consolidando il suo prestigio e il suo potere. Lo stesso
non si poteva dire invece della Francia del Re Sole, la quale, pur essendo rimasta una grande potenza europea,
non poteva di certo aspirare ad esercitare un potere egemonico sulle altre.

La guerra dei Nove anni condusse Luigi XIV ad operare una svolta religiosa nei difficili rapporti con la Santa
Sede: infatti, pur di non continuare ad avere come nemico lo Stato pontificio nel pieno del conflitto in corso con
la Lega di Augusta, il sovrano ricucì i rapporti con Papa Innocenzo XII (1692-1700), presentando una lettera di
scuse, abolendo l'insegnamento dei “quattro articoli” gallicani (1693), risolvendo le controversie nate intorno
all'istituto della regalia - con l'investitura pontificia dei vescovi designati dal re -. Fu così che, nel 1695, si
raggiunse una pacificazione definitiva, con la concessione fatta dal monarca a favore dell'episcopato francese di
fruire di maggiori poteri giurisdizionali sul clero all'interno delle diocesi.

Sebbene la politica religiosa “estera” francese poteva ormai dirsi risolta, quella “interna” si riaccese proprio nel
momento in cui Luigi XIV operò questa svolta: i giansenisti iniziarono a condividere le spinte autonomiste dei
preti gallicani e a rendersi partecipi in movimenti di opposizione alla monarchia. Le dispute dottrinali trovarono
un nuovo ambito di discussione nell'opera del teologo Pasquier Quesnel (1634-1719), “Nuovo Testamento in
francese” (1695), in cui rifacendosi alle concezioni radicali - precedentemente elaborate nel 1611 dal preside della
Facoltà di teologia a Parigi, Edmond Richer e per le quali fu poi condannato dall' Università della Sorbona -
concepiva la Chiesa come una comunità democratica di fedeli, la cui assemblea, unica depositaria dell'autorità
ricevuta direttamente da Cristo, delegava la cura pastorale a sacerdoti e vescovi. Il ruolo del pontefice risultava
fortemente ridimensionato, vedendosi negata l’origine divina del proprio potere. Per i giansenisti “la lettura della
Sacra Scrittura è per tutti” (Quesnel).

Altre controversie religiose scoppiarono nel momento in cui, nel 1701, un parroco francese domandò al vescovo
della diocesi se potesse o meno concedere l'assoluzione dei peccati ad un ecclesiastico che dichiarava di rispettare
la famosa distinzione tra la linea di diritto e la linea di fatto. Sulla questione intervenne papa Clemente XI (1700-
21) che, su richiesta del Re Sole, nel 1705 emanò la bolla “Vineam Domini”, la quale condannava i giansenisti a
riconoscere l'eresia delle proposizioni di Giansenio, presenti nell' Augustinus. La repressione antigiansenista non
si placò, tant’è che 1710 il papa soppresse definitivamente il monastero di Port-Royal-des-Champs. La resistenza
giansenista si coagulò intorno alla persona di Antoine de Noailles, arcivescovo di Parigi e cardinale francese.

L'ultimo passo per eliminare definitivamente questo riottoso partito antimonarchico sarebbe stato quello di
condannare le dottrine del Quesnel. Così, nel 1713 il pontefice condannò 101 proposizioni di Quesnel con la bolla
“Unigenitus”, tuttavia, ormai, le dottrine gianseniste erano penetrate profondamente all'interno della società
francese: il Parlamento di Parigi si rifiutò di registrare la bolla, rendendola così inefficace in Francia, mentre una
folta minoranza di vescovi si rifiutò di pubblicarla nelle rispettive diocesi. L'anziano Luigi XIV tentò di indire un
concilio nazionale, in modo da scomunicare tutti i dissidenti religiosi, ma quest'ultimo non fu mai posto in essere
a causa della morte del sovrano (1° settembre 1715, all'età di 76 anni). Vani furono gli ultimi tentativi di
Clemente XII di impedire l'offensiva giansenista: nel 1717, Noialles convocò un concilio universale per opporsi
alla bolla “Unigenitus”, da cui nacque il partito degli appellanti, che appunto si contrapponevano alla bolla di
scomunica. Di contro erano accettanti coloro che avevano accettato la condanna).

Con l'affermazione conclusiva del giansenismo, divenuto poi movimento politico d'opposizione al governo
centrale e alla Santa Sede, si spegneva anche la figura del Re Sole e con lui il mito della monarchia universale: le
critiche al potere monarchico che si diffusero nell'ultimo decennio del XVII secolo - grazie anche all'affermarsi
dei principi di libertà e uguaglianza dell’Illuminismo - rispecchiavano il sentimento di una borghesia e di una
nobiltà private delle loro funzioni politiche. Le grandi feste organizzate dalla folla nel giorno della sepoltura
dell'ormai ex Re di Francia sembravano seppellire senza rimpianti il mito assolutistico-universalistico della corona
francese.

Capitolo 13 - L’Italia dal Cinque al Seicento

1 Luci ed ombre di un declino

La pace di Cateau-Cambresis del 1559, arrivata al termine delle guerre fra gli Asburgo e Valois, avevano
ridisegnato i confini politici e l'assetto strutturale della penisola italiana, rimasti immutati fino alla fine
del '700. Da quella pace in poi l'Italia godette di un lungo periodo di pace, in quanto le guerre per l'egemonia
europea si spostarono in Francia, e nei domini asburgici.
In particolare, la Spagna disponeva di una grande influenza in Italia, espressa dai domini sul Ducato di Milano,
il Regno di Napoli, i vice-regni di Sicilia e Sardegna, e lo Stato dei presidi, sulla costa toscana. Influenza
indiretta veniva esercitata inoltre sulla Repubblica di Venezia - entrata nell'orbita asburgica col passaggio
dell'ammiraglio Andrea Doria dalla flotta francese a quella asburgica - e sul Ducato di Firenze, dal 1569
Granducato di Toscana, per il fatto che gli spagnoli avevano contribuito alla restaurazione dell'oligarchia
medicea nel 1530. Completavano il quadro le altre realtà statali minori, come il Ducato di Mantova dei
Gonzaga, e il Ducato di Parma e Piacenza dei Farnese, tutte famiglie a stretto contatto con gli spagnoli.

Durante il XVI secolo, l'altra grande potenza europea interessata ai domini italiani, la Francia, impegnata nel
duro confronto interno instauratosi tra gli ugonotti e i cattolici durante le guerre di religione, perse gran
parte della sua influenza, in particolare sul ducato di Savoia, che con la pace di Cateau-Cambresis venne
ceduto al legittimo duca Emanuele Filiberto I. Proprio la Savoia, nel periodo compreso fra il 1559 e il 1630
(con il governo di Carlo Emanuele I) si contraddistinse per l'esercizio di una politica sempre più autonoma
rispetto al blocco franco- spagnolo, insieme alla Repubblica veneta e allo Stato Pontificio, che rimasero più o
meno autonomi e indipendenti nelle loro decisioni. Tuttavia, l'egemonia spagnola sulla penisola continuò a
perpetuarsi per tutto il XVII secolo, nonostante un generale ridimensionamento iniziato con la morte di Carlo V
d'Asburgo (1558).

Vi era dunque un’Italia assoggettata al dominio, diretto o indiretto, spagnolo, soprattutto a causa del fatto che
gli Asburgo di Spagna impressero sulla penisola l'assolutismo della corona coniugandolo con il modello
aristocratico-oligarchico affermatosi nelle città italiane. Non vi furono, per molto tempo, personalità
carismatiche tali da mettere in discussione i fondamenti di questa società conservatrice, chiusa, gerarchica e
socialmente immobile.
Le grandi famiglie aristocratiche italiane (Farnese, Gonzaga, Medici) ruotavano tutte intorno alla corona
spagnola, e i legami con essa erano affidati a solide alleanze matrimoniali.
Altro elemento unificante tra la penisola italiana e la Spagna era costituito dalla cultura contro-riformistica
presente in maniera massiccia in entrambi i paesi, una sorta di “assolutismo ecclesiastico” che pervase sia la
società alta (élites intellettuali e dirigenziali), sia i ceti popolari urbani e rurali.

Espressione di questa articolata realtà italiana era anche la difformità giuridica della struttura governativa
dei domini spagnoli, in ognuno dei quali vennero conservate le antiche istituzioni rappresentative locali:
il Parlamento napoletano, il Senato milanese, ecc., che si posero molte volte in contrasto con le decisioni dei
governanti spagnoli, ossia i viceré nei domini meridionali e il governatore del ducato milanese.
Neanche l'istituzione di un Consiglio d'Italia, ad opera di Filippo II d'Asburgo (1555) consentì di imporre un
indirizzo unitario alla politica spagnola in Italia, in quanto si voleva mantenere la penisola in uno stato di
diversità statale che favorisse dunque la dipendenza dei regni italiani con l'entità statale spagnola.

La decadenza italiana fra Cinquecento e Seicento si esprimeva dunque nella compattazione tra la potenza
egemone, la Spagna, e ceti dirigenti dominanti, i quali volevano mantenere questo stato di “limbo” e di
passività.

La frammentazione territoriale prevedeva che il livello di compattazione variasse tra le varie compagini statali,
e così valeva anche per la crescita economica. Come abbiamo visto, soprattutto 3 Stati italiani mantennero
la loro indipendenza: 1) ducato di Savoia, durante il governo di Vittorio Amedeo II (1675-1730) che nel
1713 ottenne il titolo regio e nel 1720 annesse al suo regno anche la Sardegna; 2) Santa sede, dove il Papa era
il vertice spirituale e temporale dello Stato; 3) e la Repubblica di Venezia, ancorata all'antica struttura
gerarchica e oligarchica di cui si fece sempre portavoce. La crescita economica di quest'area così composita
non differì dai fenomeni di incremento/stabilizzazione demografica e di crescita/ristagno dei prezzi avvenuti
tra il '500 e il '600 nell'intera Europa, il tutto aggravato dalla crisi finanziaria del 1619-20 e dall'epidemia di
peste del 1630-31.
Fu allora che entrò in crisi il modello di sviluppo rinascimentale, concentrato nelle regioni urbanizzate
centro-settentrionali, dalle quali s'irradiava la forza economica del quadrilatero Milano-Genova-
Firenze-Venezia fondato sull'industria manifatturiera, sul commercio e sulle attività bancarie. Le attività
economiche maggiormente colpite dalla crisi furono l'industria tessile, l'industria navale, e l'industria edilizia.
La concorrenza dei paesi del centro-nord d'Europa ridusse in maniera significativa gli introiti derivanti dalle
attività manifatturiere italiane, i cui prodotti venivano venduti a prezzi più alti a causa del loro maggior pregio e
a causa degli antiquati metodi di produzione usati nel Bel Paese. Tuttavia la crisi non si distribuì in maniera
omogenea nei vari Stati italiani e le cause/conseguenze variarono da regione a regione: a Firenze per esempio, la
crisi della produzione laniera venne controbilanciata dalla vendita di prodotti di lusso e dalla decentralizzazione
delle industrie nei centri più piccoli e nelle campagne, che funsero da elemento propulsore delle economie
locali. Il settore tessile e quello delle produzioni artigianali, e le relative industrie subirono quindi un
riadattamento e una trasformazione a favore delle campagne.

La crisi seicentesca trasformò l'Italia da paese esportatore di manufatti e servizi in un paese importatore
di beni industriali, in quanto alla fine del secolo il settore industriale era regredito, l'agricoltura e
l'esportazione invece resistettero alla contrazione economica e alle carestie. Alla metà del '600 si diffusero
nuove colture rispetto alle tradizionali (grano e cereali), quali riso, mais e gelso. Soprattutto in Lombardia e
Piemonte l'attività di bonifica e la commercializzazione dei prodotti coltivati permisero, nella seconda metà del
XVII secolo, una significativa ripresa espansiva dell'agricoltura, che portò a raddoppiare la produzione rispetto
agli decenni della prima parte del XVII secolo. La questione dei divergenti sviluppi economici all'interno della
penisola italiana venne analizzata dallo studioso Antonio Serra, che mise a confronto lo sviluppo industriale ed
economico delle repubbliche settentrionali (Venezia e Genova) con lo sviluppo del Regno di Napoli: secondo lo
studioso l’arretratezza di uno Stato era sostanzialmente determinata dalla scarsità di moneta. Serra individuava
la disparità di condizione tra Nord e Sud nei differenti livelli di produzione agricola e manifatturiere fra le
regioni. Il Mezzogiorno aveva bisogno di rinnovare la sua produzione e le sue esportazioni, grazie all'intervento
dei governi nella sfera economica statale.

2 I domini spagnoli

Più degli altri possedimenti spagnoli, il Regno di Napoli risenti della decadenza economica e politica nel '600:
le istituzioni politiche erano ancora saldate con la struttura aragonese del primo '500. Il governo del regno era
duplice, con un viceré spagnolo affiancato da un Consiglio Collaterale, espressione del ceto dei magistrati e dei
notai, uno dei quali, il c.d. Reggente, era a capo del Consiglio d'Italia. Il Parlamento si riuniva biennalmente ed
era composto da esponenti del baronaggio feudale, che era la forza politicamente più incisiva nel contesto
napoletano. L'intero sistema si reggeva quindi su un compromesso tra corona spagnola, ceto “togato” e
baronaggio feudale, un compromesso consolidatosi dopo la rivolta del 1547 (scoppiata in seguito
all'imposizione nel regno, da parte di Carlo V d'Asburgo, dell'Inquisizione spagnola, provvedimento poi ritirato
proprio a causa della rivolta).
Alla fine del XVI secolo nacque un contrasto fra il baronaggio feudale e il ceto togato, quando la monarchia
spagnola si affidò a quest'ultimo per imporre la formazione di un articolato apparato burocratico. Da questa
scelta, nacque l'opera del letterato Giulio Cesare Caracciolo, Discorso sopra il regno di Napoli, in cui si
criticava proprio la centralizzazione burocratica spagnola e si sosteneva la reazione d'orgoglio congiunta del
ceto togato e dei nobili feudali per spodestare il potere asburgico.
Queste previsioni non si rivelarono concrete, in quanto negli anni 70 del '500 i nobili napoletani vennero
svalutati d'importanza a causa della guerra ispano-turca, culminata a Lepanto nel 1571 con la sconfitta dei
musulmani, al ché l'Italia (e il Mezzogiorno) divenne un mero antemurale difensivo contro le incursioni turche,
al contrario delle previsioni dei baroni, che avrebbero voluto mettere la propria forza militare in campo contro
gli infedeli per acquisire maggior prestigio. Fu insomma nel contesto di questo ripiegamento che i nobili
abbandonarono le pretese di una restaurazione medievale del loro potere, adeguandosi alle strutture
amministrative caratteristiche dello Stato burocratico spagnolo.
Dall'inizio del XVII secolo in poi, il Regno di Napoli divenne strategicamente più importante rispetto agli
altri domini spagnoli, in quanto era dai possedimenti italiani, e in particolare dal Mezzogiorno che si
fornirono truppe alleate agli imperiali durante la guerra dei 30 anni. Il rovescio della medaglia di questa
importanza strategica del Napoletano si evidenziò nello sfruttamento fiscale e militare a cui si indirizzò
la monarchia spagnola durante il governo sul Regno (nonostante le paci con l'Inghilterra – 1605 – e con
l'Olanda – 1609 – permisero al Regno di “respirare” dal punto di vista della pressione fiscale).

Inoltre, nuove riforme fiscali vennero intraprese dal viceré spagnolo (Fernando di Castro, 1610-1616) per
favorire la rinascita delle comunità rurali, gravate da enormi debiti. In seguito, per finanziare la ripresa della
politica estera spagnola, il Duca d'Ossuna (viceré dal 1616-20), richiese un maggior gettito fiscale diretto,
producendo così un deficit finanziario sempre più imponente.
Con il viceré spagnolo conte di Monterrey (1631-36) si inasprirono anche le imposte indirette, gravanti su tutti i
ceti sociali.

Soggiogati a tutte le forze politiche del Regno, il 7 luglio del 1647 si scatenò una rivolta popolare ad opera di
quell'entità sociale urbana, mobile e multiforme (la plebe appunto), costituita da tutte quelle persone povere
che lottavano quotidianamente per la sopravvivenza e per l'auto sostentamento. Essi vennero definiti Lazzari.
Emblematicamente la rivolta fu guidata da un pescivendolo, Tommaso Anello detto Masaniello e dall'abate
Giulio Genoino, in seguito all'ennesima gabella imposta sui beni alimentari (precisamente, sulla frutta).
Nonostante la rivolta fosse di stampo popolare e indirizzata alla sconfessione della nobiltà come forza politica
dominante (e non critica verso la monarchia spagnola, in quanto diversi popolani si ribellarono al grido Viva
Dio e Re di Spagna), ne presero parte diversi strati sociali, anche con interessi politici divergenti e contrastanti:
la borghesia riformista, gli artigiani, i togati, gli anti-monarchici, ecc.
Le richieste popolari, redatte dal Genoino nei Capitoli, vennero presentate al viceré il 13 luglio: abolizione di
tutte le gabelle imposte dopo la morte di Carlo V, parità di voto tra gli eletti del popolo e nobili nei seggi
del governo municipale. Il 17 luglio morì assassinato il Masaniello, forse a causa dell'intervento del viceré
(duca d'Arcuos) e dello stesso Genoiono, timoroso del troppo potere acquisito dal pescivendolo nel corso della
rivolta.
Nell'autunno del 1647, nonostante la morte del loro capo carismatico, i rivoltosi fondarono la Repubblica
Napoletana, mentre le truppe spagnole si erano acquartierate nelle fortezze ai confini della città. Nuovo capo
della rivolta divenne il duca Enrico II di Guisa, intervenuto richiamando l'antico passato angioino del Regno.

Si passa così alla 2° fase della rivoluzione, in cui si distinse l'attività di un esponente della borghesia
professionale Vincenzo d'Andrea, propugnatore di una repubblica di stampo popolare-oligarchico sulla scia
di Venezia e delle Provincie Unite (Provincie Unite che si stavano appena rendendo indipendenti, con la fine
della guerra dei 30 anni).
La repressione spagnola si organizzò soltanto tra la fine del '47 e l'aprile del '48, per il fatto che la monarchia
stava fronteggiando la rivolta catalana e la fine della guerra dei 30 anni in Europa. Il successo di tale
repressione constava del fatto che il movimento insurrezionale rimase privo di un'adeguata direzione politica e
che si difesero interessi diversi e contrastanti, privi di omogeneità politica e sociale.
Da questa sconfitta del movimento insurrezionale non usciva però vincitrice l'aristocrazia feudale, poiché la
corona spagnola tornò a imporsi su quest'ultima, servendosi di essa negli strati burocratici del regno.
Nonostante poi negli anni Sessanta l'aristocrazia riottenne influenza e potere, la nuova ondata di violenze
scaturite da ciò venne messa a tacere dal viceré spagnolo Gaspar de Haro, che scalzò i nobili radicali dalla
burocrazia, lasciando al loro posto solo le componenti più moderate.

Contemporaneamente a quella napoletana, si spegneva anche la rivolta palermitana, scoppiata nel maggio
1647, sempre a causa dello strapotere feudale della nobiltà e del clero, che governavano nel Parlamento del
Regno. Guidata dal capo-popolo Gennaro Annese, essa non si ridusse d'intensità con i provvedimenti
favorevoli al popolo presi dal viceré Pedro Requesens, marchese di Los Velez.
Qui la rivolta venne repressa anche grazie all'azione dell'Inquisizione Spagnola, guidata dal cardinale Teodoro
Trivulzio, che assunse la carica non istituzionale di Presidente del Regno.
Altra insurrezione fu posta in essere dai ceti popolari a Messina nel 1674, spinti anche dagli impulsi dati dal
sovrano francese Luigi XIV a ribellarsi al potere asburgico. La rivolta si svolse sotto la protezione francese e
sfociò nella costituzione di una Repubblica indipendente, che però poi fu costretta a capitolare alla fine della
Guerra d'Olanda (→ guerra di “devoluzione”).

Infine un'ennesima rivolta scoppiò in Sardegna nel 1666, in seguito allo scioglimento del parlamento isolano,
che non aveva concesso i donativi necessari a finanziare la guerra dei 30 anni → priva di unità politica,
anch'essa fu schiacciata, nel 1668.

Molto diversa rispetto al Mezzogiorno italiano, era la situazione che si respirava nel ducato di Milano, dove
non si verificarono quei moti insurrezionali e/o di protesta caratteristici del meridione italiano, per 3 motivi:

➔ la maggior capacità di resistenza dell'economia lombarda: addirittura, buona parte delle risorse
incamerate dai territori spagnoli nel Mezzogiorno erano destinate al ducato milanese;

➔ la funzione strategica assegnata dalla corona spagnola al Milanese, visti gli sviluppi della situazione
internazionale, che fecero del ducato milanese l'antemurale dell'egemonia spagnola nella penisola e il
collegamento fondamentale tra Mezzogiorno ↔ domini asburgici della Casata d'Austria ↔ Paesi Bassi;

➔ coesione della classe dirigente milanese e compattezza dei patriziati urbani: proprio per questo
elemento nel ducato milanese non si registrarono sommovimenti dal 1559 fino alla fine del '600.

3 Il granducato di Toscana

Come abbiamo già accennato, il ducato di Toscana divenne patria dei Medici nel 1530 con Cosimo I (1537-
74), aiutato dalle armi spagnole a insediarsi sul trono. La subordinazione agli Asburgo durò poco più di
un decennio, interrottasi nel '43 con la conquista della repubblica di Siena e delle fortezze costiere
concesse a Carlo V. L'influenza spagnola rimase comunque alta per tutto il secolo. Buoni rapporti vennero
instaurati anche con il Papato, complice la pubblicazione immediata dei decreti tridentini (novembre '64),
l'installazione sul territorio dei tribunali dell'Inquisizione Romana e l'accondiscendenza mostrata verso la rigida
linea di disciplinamento applicata da Roma.

Grazie a tutte queste concessioni, Cosimo ottenne dal Papa il titolo di Granduca (1569); esso poi venne
nuovamente concesso nel 1575 dall'Imperatore Massimiliano II al figlio di Cosimo, suo successore
Francesco I, nonostante gli Asburgo non vedessero di buon occhio questo accostamento Firenze-Roma. La
devozione verso il Papato e i regni assolutistici (come la Spagna) si tradusse internamente nell'abbandono di
ogni velleità repubblicana contraria all'incipiente assolutismo, sia dal punto di vista culturale che politico.

Cosimo pose la cultura al servizio dei Medici: istituì l'Accademia fiorentina e l'Università di Pisa. In
particolare la prima si rivelò uno strumento essenziale del programma di egemonizzazione degli intellettuali, in
quanto i membri, costretti a svolgere solo le attività di studio e ricerca desiderate dal granduca, erano
stipendiati dal governo.

Così l'assoggettamento culturale e ideologico degli intellettuali costituirono uno degli aspetti peculiari
dell'assolutismo mediceo.

La conciliazione tra oligarchia mercantile e struttura assolutistica del governo venne poi consolidata,
oltre che da Francesco I, da Ferdinando I (1587-1609) e da Cosimo II (1609-21). Il governo assolutista
tuttavia non riuscì mai a uniformare, dal punto di vista istituzionale, i domini “vecchi” con quelli
“nuovi” (derivante dall'annessione della repubblica senese).
Nondimeno il controllo dei territori venne intensificato per mezzo di magistrati fedeli al granduca; venne
potenziato l'intero apparato militare (esercito e marina) e, infine, venne riorganizzato il fisco, le finanze e
l'apparato amministrativo. Il personale burocratico del governo centrale (importante era il Primo Segretario,
che coadiuvava il granduca nella sua opera governativa) era cooptato personalmente dal Granduca.

Così strutturato, il granducato non si espanse durante il '600 e rimase fortemente subordinato agli Asburgo
spagnoli tanto da isolarsi completamente rispetto alle guerre europee. Con Ferdinando I si cercò di
intraprendere una politica di maggiore autonomia rispetto alla famiglia asburgica, avvicinandosi alla
Francia di Enrico IV (Ferdinando si sposò con Cristina di Lorena, mentre Enrico con Maria de Medici),
appena uscita dalle guerre di religione. Dopo il tranquillo regno di Cosimo II, a soli 11 anni salì al trono
Ferdinando II (1621-70), ma il suo regno non fu abbastanza autoritario da intraprendere una indipendente
politica estera incondizionata dagli aiuti spagnoli.

4 Le diverse sorti delle Repubbliche: Genova e Venezia

La Repubblica di Genova rimase nell'orbita spagnola sin dall'avvento di Andrea Doria (vedi cap.6, par.5)
e dalla riforma costituzionale che le garantì un periodo di relativa stabilità interna. Alla metà del '500, il
governo era amministrato dal Banco di San Giorgio, il complesso finanziario che disponeva dunque
dell'amministrazione dei territori genovesi, compresa la Corsica, restituita con la pace di Cateau-
Cambresis.

Contrasti interni nacquero tra i nobili c.d. vecchi, sostenitori di una politica filo-spagnola e legati alle attività
bancarie degli asientos (contabili), e i nobili nuovi che invece ritenevano che Genova potesse intraprendere
una politica autonoma, lontana dagli interessi spagnoli. La crisi tra le due fazioni scoppiò nel 1575 quando la
repubblica cadde in una guerra civile che avrebbe potuto comportargli la perdita dell'indipendenza:
tuttavia, si raggiunse un compromesso l'anno dopo sancito dalla promulgazione delle Leges novae,
riforma costituzionale rimasta in vigore fino al 1797 (quando la repubblica cadde sotto i colpi degli eserciti
napoleonici) → venne fuso il patriziato, in maniera tale da eliminare ogni questione di scontro, e venne
riformato il meccanismo elettorale.

L'economia genovese rimase solida per tutto il '500, fino al 1627 quando dovette subire la bancarotta spagnola,
pertanto i nobili cercarono di svincolarsi dall'economia e dalla politica estera spagnola e di perseguire vie
alternative. Ma il calo dell'attività del porto genovese riportarono con i piedi per terra i nobili genovesi. Inoltre,
non furono ottimi i risultati in politica estera: Genova fu costretta a subire le pressioni del Ducato di Savoia e
della Francia (memorabile il bombardamento della città – 17-22 maggio 1684 – da parte di Luigi XIV) per
tutto il XVII secolo. Tutto ciò provocò l'organizzazione delle congiure (la prima nel 1628, la seconda nel 1672,
ad opera di un nobile genovese, Raffaele della Torre).

Come Genova, anche la Repubblica di Venezia, ultimo vero esponente delle libertà repubblicane
subordinò la sua politica estera a quella della Spagna: negli anni ‘80 del '500, in un momento in cui la
Spagna doveva fronteggiare le potenze protestanti nascenti in Europa, Filippo II non poteva tralasciare i
contatti con l'importante repubblica marinara, comandata in quel periodo dal Doge Niccolò da Ponte. Durante
il suo governo si realizzò la stessa scissione nobiliare avvenuta a Genova:

· da una parte i patrizi vecchi: i conservatori, volevano continuare con la usuale politica di neutralità della
repubblica, preferendo dedicarsi ai commerci e rinunciando all'espansionismo sulla terraferma, in modo da
consolidare ancor di più la propria struttura statale e senza essere in conflitto con Spagna e Chiesa;

· dall'altra i giovani: i riformatori, desideravano perseguire una politica estera innovatrice e indipendente
dalle altre potenze europee, e di autonomia rispetto alle pretese della Chiesa Romana.
Inizialmente, prevalse la linea riformatrice dei giovani e immediate furono le ripercussioni in politica estera: la
Repubblica riconobbe Enrico IV come legittimo Re di Francia, non ancora convertitosi al cattolicesimo,
suscitando grande indignazione in Filippo II e il pontefice Sisto V.
I vecchi anche non mancarono di provocare contrasti con Roma e avevano già perso gran parte del loro appeal
con la Spagna dopo aver firmato una pace con gli Ottomani, susseguente alla vittoria cattolica di Lepanto. La
pace scaturì dal timore dei nobili veneziani suscitato dalla rapidissima ricostituzione della flotta turca.
Così i giovani presero il sopravvento, presero le distanze dalla Chiesa, non presero parte alla lega anti-turca
proposta da Clemente VIII, si rifiutarono di pubblicare l'Indice dei libri proibiti, e arrestarono molti membri di
Ordini religiosi. Infine tra il 1604-5 vennero emanate due leggi che vietavano la costruzione di chiese e
altri luoghi pii e l'alienazione dei beni immobili ad ecclesiastici senza la previa autorizzazione del senato.

Il Papa, Paolo V, non aspettava altro che un passo falso dei nemici veneziani per renderli innocui, e
l'occasione fu offerta nel 1605 con l'arresto di due ecclesiastici, un canonico vicentino, Scipione
Saraceno, e l'abate Marcantonio Bragadin, accusati di reati comuni. Il pontefice reagì imponendo un
ultimatum ai veneziani: la consegna dei due arrestati alla Chiesa di Roma e la revocazione delle due leggi del
1604-5, oppure vi sarebbe stata la scomunica del Senato veneziano e l'interdetto su tutto lo Stato veneto.

La virata politica esterna effettuata dai veneti a favore dell'Inghilterra e delle Provincie Unite protestanti,
insieme all'elezione al dogato del giovane Leonardo Donà, produssero il netto rifiuto del Senato Veneziano;
quest'ultimo nominò nuovo teologo canonista il frate Paolo Sarpi, anti-papista. Paolo V si sbrigò a
emanare l'interdetto (aprile 1606) e il Sarpi rispose con una dichiarazione che respingeva il contenuto di
questo, dichiarandolo contrario alle Sacre Scritture. Inoltre, accusò il clero romano di essersi accaparrato le
proprietà fondiarie venete.

Il conflitto giurisdizionale tra i 2 Stati si trasformò rapidamente in un conflitto ideologico riguardo


l'obbedienza dovuta al Papa: Sarpi non mancò di sostenere nella sua polemica che di fronte alle
prevaricazioni ingiuste del pontefice era lecito per un cristiano disobbedirgli.

Alcuni componenti degli Ordini religiosi protestarono per la presa di posizione veneziana e vennero banditi
dalla Repubblica, mentre si diffusero gli scritti del celebre teologo francese Jean Gerson, di epoca premoderna,
che affermavano la superiorità conciliare sull'autorità papale. Il contrasto politico-diplomatico si chiudeva
nell'aprile del 1607 grazie all'intervento del Re francese Enrico IV, che di fatto, seppur non
formalmente, diede ragione ai veneti, permettendogli di mantenere i provvedimenti emanati.

Alla fine dell'anno Sarpi venne chiamato a comparire dinanzi all'Inquisizione romana e, poche
settimane dopo il suo rifiuto di comparire (25 novembre 1606), subì un attacco da parte di sicari della
Santa Sede, riuscendo però a sopravvivere. Altro attentato si verificò 3 anni dopo, sventato anch'esso. Il
corpo ferito e malridotto di Sarpi può rappresentare emblematicamente l'incompiuta affermazione della
sovranità repubblicana nelle materie ecclesiastiche: troppo forte era l'influenza della Spagna cattolica e
controriformistica sulla politica estera veneziana tale da poter inibire ogni possibile azione anti-asburgica
(come il progetto del Sarpi di riunire i protestanti della Boemia-Ungheria-Austria contro la Spagna e la Santa
Sede).

La crisi interna alla fazione dei giovani era dietro l'angolo: nel 1609 Enrico IV intercettò uno scambio di
lettere tra due pastori calvinisti francesi in cui si discuteva al riguardo della diffusione del
protestantesimo nella repubblica lagunare. La missiva venne spedita dal Re a Paolo V che andò su tutte le
furie→ Perché mai un sovrano protestante dovrebbe svelare un piano di diffusione della religione da lui
professata in un paese potenzialmente alleato? Per il fatto che, facendo così, ossia dimostrando di essere fedele
al Papa cattolico, Enrico IV poteva scolorire di ogni connotazione confessionale la lotta che stava per
avviare contro l'Impero nel 1610 e che solo la sua improvvisa morte fece rientrare: lo scontro sarebbe
diventato solo di carattere politico.
Questa astuta mossa politica costò a Venezia il riaprirsi dello scontro interno tra le fazioni dei patriziati, vinto
ancora una volta dai giovani di Sarpi. Il teologo canonista cercò dunque di promuovere una nuova alleanza
anti-cattolica (Venezia, Savoia, Provincie Unite, Unione evangelica tedesca e l'Inghilterra contro Spagna,
Impero e Santa Sede) con l'aiuto dell'ambasciatore inglese Dudley Carleton. Il confronto tra la Repubblica e gli
Asburgo si concretizzò nel 1615, per poi concludersi con la pace di Madrid del 1617 à pace che non
soddisfaceva né scontentava nessuno dei due partecipanti, ma che mise in evidenza le intrinseche debolezze
dell'esercito di terraferma veneto (questa fu l'ultima guerra combattuta dalla Serenissima sui domini di terra).
In seguito Sarpi, cercando di far riemergere il suo paese con una efficace politica estera, strinse alleanze
anti-asburgiche e anti-cattoliche con Savoia, Olanda e riconobbe come re di Boemia il principe Federico
del Palatinato. Ma i successi riportati dalle potenze cattoliche con l'occupazione spagnola della Valtellina
e con la vittoria della Montagna Bianca (1620) costituirono colpi gravissimi per il prestigio veneziano.

Nel 1623 moriva Sarpi, e con lui caddero anche le relative speranze di vittoria nel Nord-Italia: il trattato di
Monçon tra Francia e Spagna chiudeva il conflitto in Valtellina, mentre nel 1629-30 la Francia di Richelieu
conquistava il Monferrato grazie all'alleanza con Venezia e Mantova, strappandolo ai Savoia. La fallimentare
condotta della guerra, viziata dalle carenze tecniche e politiche della Repubblica, la condannò a un
declino internazionale che neanche la resistenza che, praticamente da sola, seppe opporre ai turchi nella
venticinquennale guerra di Candia poté arrestare. La pace di Ratisbona-Cherasco del 1630-31, che non
produsse nessun concreto risultato dal punto di vista territoriale, ma soltanto il declino della sua posizione
internazionale, tagliava fuori la Serenissima dalle vicende europee per molto tempo (fine '700 → guerre
napoleoniche).

5 Lo Stato della Chiesa

Il rafforzamento dell'autorità pontificia realizzatosi nell'età della Controriforma non ebbe solo carattere religioso
ma anche politico: il Papa consolidò e accentrò il suo potere temporale in due direzioni:
➢ ristrutturazione dell'apparato centrale del governo;
➢ trasformazione dei rapporti tra l'apparato centrale e i territori periferici da esso controllati .

Dal primo punto di vista, i pontefici indirizzarono la loro opera all'accrescimento del loro potere temporale: i
limiti a cui doveva soggiacere in presenza del collegio cardinalizio vennero in gran parte eliminati, e le stesse
riunioni Papa-cardinali, i concistori, furono ridimensionate e diventarono mere assemblee di ratifica di
decisioni già prese. Inoltre, privandolo della sua componente internazionale (ossia, difficilmente venivano
ordinati cardinali che non fossero italiani), il “vicario di Dio” avrebbe potuto controllare meglio le varie
componenti.
Furono creati nuovi strumenti di governo alle dirette dipendenze del pontefice, come le Congregazioni
cardinalizie e la Segreteria di Stato. Alcune di queste Congregazioni, come quella dell'Indice dei libri proibiti
(istituita da Pio V, 1566-72), assunsero funzioni giurisdizionali, configurandosi quindi come supremi tribunali
per materie specifiche. In particolare Sisto V (1585-90), aveva ridotto il numero dei cardinali, introdotto un
regolamento di polizia nella capitale della Cristianità, Roma e aveva iniziato la bonifica delle paludi
Pontine.
All'inizio del XVII secolo venne tuttavia bandita dallo Stato Pontificio la pratica del c.d. Grande nepotismo: si
indicava la prassi secondo cui il Papa affidasse ai suoi familiari, ai suoi parenti e amici più stretti le maggiori
cariche nei domini ecclesiastici; questa pratica si sostituì con il c.d. Piccolo nepotismo → il pontefice favoriva
l'ascesa economica, politica e sociale dei membri della famiglia pontificia e della sua clientela. Questa pratica
venne però combattuta da alcuni vescovi, tra cui Innocenzo XII (1691-1700) il quale arrivò a vietarla con
una bolla (Romanum decet Pontificem) del giugno '92.

Altro elemento consolidatosi durante il '600 fu la burocrazia curiale, composta da personale esperto, che aveva
lavorato nelle provincie per lunghi anni e si era formato giuridicamente e religiosamente. Sempre di più e
funzioni con le maggiori responsabilità venivano ricoperte da coloro che erano dotati di competenze giuridiche
e tecniche, rispetto a coloro che erano “infarciti” di saperi umanistici.

La Santa Sede, sempre in questi anni, incrementò il suo potere temporale attraverso l'annessione del ducato di
Ferrara di Cesare d'Este (1597-98): quest'ultimo fu designato successore dal predecessore Alfonso II (1559-
1597, morto senza eredi), ma non venne legittimamente riconosciuto dai pontefici. L'attacco militare venne
condotto da Clemente VIII, e dopo varie trattative diplomatiche, si arrivò alla Convenzione di Faenza (gennaio
1598) che devolveva Ferrara al Papato. Da questo momento in poi il ducato degli Este, ora esteso solo su
Modena e Reggio Emilia, scomparve dalle vicende politiche europee e anche italiane: i successivi duchi non
furono in grado di sviluppare una solida politica urbana, facendo della corte un luogo di intrighi matrimoniali e
feste sfarzose.

Altre due guerre vennero combattute sotto il pontificato di Urbano VIII (1623-44):

1) la prima portò all'annessione di Urbino, ducato dei Della Rovere, nel 1631 (alla morte senza eredi di
Francesco Maria II);

2) la seconda portò all'annessione di Castro e Ronciglione, territori della famiglia Farnese, conquistati
nel 1644. In seguito a questa guerra si creò una coalizione anti-pontificia composta da Venezia, Granducato di
Toscana e Ducato di Modena, che portò alla riconquista del ducato da parte dei Farnese. Alla fine però, nel
1649, Innocenzo X riuscì a riconquistarli definitivamente sconfiggendo Ranuccio II Farnese.

Quindi, come si può evincere da questi sviluppi, dopo la pace del 1559, il Papato si configurò sempre più come
una potenza temporale piuttosto che religiosa; potenza che rimaneva importante in Italia, ma non altrettanto si
poteva dire per l'Europa, dove i dissidi con la Spagna, in particolare, la indebolirono costantemente.

6 Il ducato di Savoia

Dopo aver assunto il ruolo di Stato cuscinetto/neutrale tra Spagna e Francia con la pace del 1559, il ducato di
Savoia, governato da Emanuele Filiberto I (1553-80), fu sottoposto a un'opera di ristrutturazione
interna.

Il duca cercò il consenso della nobiltà per consolidare il potere assolutistico, e a tal fine organizzò l'istituto del
Consiglio di Stato. In seguito s'impegnò a reprimere il banditismo latente nel ducato e a corte si accerchiò di
devoti collaboratori e di una fidata clientela.

Fu riorganizzato l'apparato militare ed economico, soprattutto su quest'ultimo venne dedicato molto impegno
(ristrutturazione della Camera dei Conti e creazione del Tesoriere generale). Seguirono la riforma
amministrativa, che restringeva i privilegi e le immunità dei feudatari locali, e la riforma della giustizia (nuovi
codici giuridici e istituzione del Senato di Torino e delle prefetture nelle province).

Emanuele Filiberto non voleva in alcun modo condurre una politica di neutralità “passiva”, così come
credevano le potenze europee, ma si impegnò sin da subito alla ricerca di preziosi alleati con i quali
intraprendere una lotta contro le egemonie europee, così si diresse dapprima a Venezia, ben lieta di allearsi con
la Savoia, vista la favorevole posizione geografica di cui godeva, e poi in Svizzera, dove Emanuele trovò un
accordo con i Cantoni elvetici cattolici.
Al termine degli anni ‘70 del '500, i Savoia poterono beneficiare dell'abbandono, da parte delle truppe
franco-spagnole occupanti, delle fortezze occupate dopo la pace del '59, per garantire la neutralità del
ducato.

Dal 1580, con il governo di Carlo Emanuele I (1580- 1630), ricostituitasi l'integrità territoriale, il ducato
poteva iniziare una politica espansionistica nei confronti del possedimento francese di Saluzzo, del
Monferrato dei Gonzaga e del dominio genovese di Savona. A favorire questa spinta militare contribuivano
il consolidamento istituzionale e la diffusione di una cultura eclettica, in parte francese in parte italiana, che
concorreva a creare una classe burocratica ben preparata, capace di amministrare egregiamente il territorio
(non scoppiarono infatti particolari rivolte popolari durante il '600).
Così, stipulata un'alleanza con la Spagna, Carlo Emanuele invadeva il Marchesato di Saluzzo nel 1588.

Impegnata nelle ultime guerre di religione, la Francia tardò a reagire: soltanto nel 1592 contrattaccava e
costringeva alla ritirata le forze sabaude.
Firmata una tregua nel '95, tre anni più tardi le ostilità ripresero e si conclusero con il trattato di Lione del
1601: la Savoia (che l'anno prima era stata parzialmente occupata dalle truppe francesi) otteneva Saluzzo e in
cambio cedeva alla Francia alcune roccaforti (Bugey, Gex e Bresse). Una sostanziale vittoria per i Savoia,
che con le cessioni delle roccaforti transalpine, ora poteva intensificare la sua politica di potenza nel Bel Paese.

Il prossimo obiettivo era la conquista del Ducato di Mantova e Monferrato dei Gonzaga: Carlo Emanuele
approfittò della crisi dinastica del ducato di Mantova per invadere i territori gonzagheschi → ne seguì
una guerra (1614-17) che Carlo Emanuele, sostenuto dalla Francia, non esitò ad allargare alla Spagna,
intervenuta a protezione dei Gonzaga. La guerra portò alla “non-vittoria” dei sabaudi, in quanto non
ricevettero nessun nuovo territorio, seppur non perdendone nessuno (vedi cap.11, par.4).

Nel 1618 scoppiava la guerra dei Trent’anni. Carlo Emanuele volle approfittarne per continuare la sua politica
espansionistica, ma quasi obbligata fu a questo punto l’alleanza con i francesi e, in concomitanza con la crisi
della Valtellina, anche con Venezia.

Intanto le truppe sabaude si preparavano all’attacco contro la Repubblica di Genova, attacco che, però, si rivelò
infruttuoso. Ancor più “infruttuosi” furono gli effetti della pace franco-spagnola di Monçon, che chiuse lo
scontro tra le due grandi potenze sulla Valtellina e fu vissuta come un tradimento francese dal duca sabaudo.
Sicché, nella seconda crisi del Monferrato che proprio allora si apriva, Carlo Emanuele I non esitò ad operare
un ulteriore rovesciamento di fronte, schierandosi questa volta con la Spagna.

Tuttavia, sistemate in patria le questioni con gli ugonotti, Richelieu diresse un esercito francese in Italia che
dilagò nei territori sabaudi: Carlo Emanuele morì nel luglio 1630. La sua morte rappresentava
emblematicamente la fine dei sogni di gloria per i Savoia, troppo convinti di poter condurre una
grandiosa politica estera autonoma senza tener conto delle altre e maggiori potenze europee (in
particolare, senza tener conto della Francia, che da sempre aveva voluto allungare i suoi domini sui territori
nord-occidentali italiani). Il figlio di Carlo Emanuele, Vittorio Amedeo I fu costretto a cedere Pinerolo ai
francesi (trattato di Cherasco, 1631) e a dover fare i conti con un erario esausto e con la peste del 1628-
30.

L'opera di ricostruzione statale avviata durò molto poco: già nel 1635 Richelieu richiamava gli alleati sabaudi a
garantire truppe per la guerra anti-asburgica.
Con la morte di Vittorio Amedeo, nel '37, si concretizzarono degli scontri dinastici tra i francofili e i filo-
spagnoli e, dopo due anni di governo del giovane Francesco Giacinto, nel 1638 saliva al trono del ducato il
minorenne Carlo Emanuele II (1638-75), il cui regno fu caratterizzato dalla profonda influenza francese
e dall'intrinseca debolezza del potere sabaudo.
Intanto la lotta tra le fazioni interne continuava e si concluse solo nel 1642: la reggente Cristina di Lorena, filo-
francese, accolse nel suo governo alcuni esponenti filo-spagnoli. Nel 1648 Carlo Emanuele II diveniva
maggiorenne, avviando una blanda politica di ricostituzione dello stato sabaudo, bloccatasi con la
sconfitta nella guerra contro la Repubblica di Genova.

Alla morte di Carlo Emanuele, sua moglie Giovanna Battista di Savoia prese la reggenza, fino alla maggiore
età del figlio Vittorio Amedeo II (1675-1730). Dopo lunghi anni di ostilità tra le due persone, nel 1684, ai 18
anni di Vittorio Amedeo, egli divenne il nuovo duca del regno (col benestare di Luigi XIV, che gli aveva fatto
sposare la nipote Anna d'Orleans - Giovanna Battista morì poi nel 1724, ritiratasi a vita privata).

Di carattere estremamente autoritario e intollerante, Vittorio Amedeo si impegnò a centralizzare il potere del
ducato, rendendolo uno Stato assoluto, e cercò di svincolarsi dall'influenza francese. Obiettivo tutt'altro
che facile: nella primavera del 1686, su richiesta del Re Sole che aveva appena revocato l'editto di Nantes,
Vittorio Amedeo condusse l'impietoso sterminio della popolazione protestante (valdese) nel nord Italia.

L'anno dopo la Savoia entrava all'interno della Lega di Augusta nel grande scontro delle potenze protestanti e
asburgiche contro la potenza egemone di quel periodo: proprio la Francia di Luigi XIV, ossia di colui che
aveva aiutato Vittorio Amedeo a divenire duca di Savoia. Così nel 1690, le truppe francesi invasero il
Piemonte e, dopo la controffensiva sabauda, nel 1693 la sconfitta dei sabaudi ad opera del maresciallo
francese Catinat estrometteva de facto i Savoia dalla coalizione europea: nel 1696 si conclusero le
trattative di pace tra il Re Sole e Vittorio Amedeo II che sancivano la defezione della Savoia dal fronte
anti-francese in cambio dell'acquisizione di Pinerolo. Paradossalmente, da questo momento in poi, il
Ducato si accingeva a diventare la maggior potenza politica italiana del '700, grazie alla ricostruzione statale e
al riformismo illuminato intrapreso dei suoi duchi.

Capitolo 14 - Alle origini della rivoluzione scientifica: il caso Galilei

1 Copernico: annuncio in sordina d’una rivoluzione

Nel 1543 venne pubblicato a Norimberga un trattato scientifico di un astronomo polacco e cattolico, Nicolò
Copernico (1473-1543), che lì per lì non produsse alcuno scalpore nel mondo accademico: De revolutionibus
orbium coelestium, trattato matematico-astronomico, di difficile comprensione ai più. Copernico aveva studiato
astronomia all'Università di Cracovia e poi a Bologna, e durante i suoi studi aveva acquisito la convinzione
teorica della rotazione della Terra su se stessa e intorno al Sole (non aveva però alcun supporto empirico per
poter dimostrare questa teoria ipotetica, ripresa dalle antiche concezioni del filosofo greco Aristarco di Samo, III
secolo a.C.).
Le sue teorie giunsero fino alla corte pontificia di Clemente VII (1523-34), dove vennero accolte
pacificamente. Ma soltanto nel 1540, 3 anni prima di morire, Copernico si decise a spiegare pubblicamente le
sue teorie: incaricò un suo discepolo, Giorgio Retico, di pubblicare a Danzica una Narratio prima della sua
opera.
Nel 1543, come abbiamo già detto, la sua opera venne edita a Norimberga e conteneva una sorta di Avviso ai
lettori di accogliere soltanto come “ipotetiche” le teorie enunciate nello scritto.
La portata di innovatività scientifica di questo testo era (e divenne poi) potenzialmente enorme: le teorie
copernicane sovvertivano radicalmente la credenza classica e religiosa comune ai cristiani, sia cattolici
che protestanti, secondo cui la Terra era immobile, al centro dell'universo, con i pianeti, il Sole e la Luna
che gli girano intorno; in poche parole, veniva a cadere tutto l'impianto culturale-ideologico bimillenario che
aveva egemonizzato le idee degli studiosi durante tutto il periodo medievale (la Scholastica medievale).

Secondo Aristotele (IV secolo a.C.) l'universo sublunare è caratterizzato da 4 elementi naturali (acqua, aria, terra
e fuoco) dotati di moto rettilineo; la Terra è immobile al centro di questo universo e al di sopra dei corpi
sublunari stanno i corpi celesti, che a differenza della Terra, sono dotati di moto circolare, privo di opposizione,
incorruttibile e infinito, grazie all'elemento di cui sono composti, l'etere. L'origine del moto dei corpi celesti
stava nel “primo motore immobile”, immateriale e perfetto: Dio.
Questa filosofia naturale, unita alle teorizzazioni matematiche e maggiormente precise del geografo greco
Tolomeo (I secolo d.C.), avrebbe dato vita alla teoria geocentrica. L'innesto della cultura greco-araba di
Avicenna e Averroe all'interno della filosofia Scholastica cristiano-medievale, unita all'interpretazione del
Vecchio Testamento, aveva solidificato una coscienza umana granitica, fusa di cultura e religione, pressoché
inattaccabile sino al XV-XVI secolo. Nel '400, timide e inefficaci ipotesi contrarie alla cultura tradizionale
iniziavano a venir fuori (il cardinale Nicolò Cusano e il docente Domenico Novara sostennero che la Terra non
era immobile e che l'Universo non girasse intorno ad essa); ma queste non potevano contrastare una tradizione
sedimentata nei secoli, fondatasi in particolare su un versetto dell'Antico Testamento, che così diceva: Giosuè
parlò al Signore e al cospetto del popolo disse “Sole, non muoverti da Gabaon, e tu Luna (non muoverti) dalla
valle di Aialon”.
Il Sole e la Luna si fermarono fino a che la nazione non si fu vendicata dei suoi nemici. (Giosuè, X, 12-13). La
Bibbia dunque parlava esplicitamente del movimento del Sole e della Luna. Così, alla pubblicazione dell'opera
copernicana, ma anche prima, si accalorarono i fedeli difensori della Bibbia come unica fonte di verità rivelata,
ossia i protestanti → Lutero prima e Melantone poi condannarono l'opera “eretica”.
Da parte cattolica, vi fu silenzio fino al 1616, a causa dei maggiori problemi che interessarono la Chiesa fino ai
primi del '600 (riforma protestante, Concilio di Trento, guerre di religione, ecc.).

Lasciate momentaneamente indisturbate, le ipotesi copernicane iniziarono a far proseliti in Europa: Michael
Mastlin, il professore personale di Giovanni Keplero e soprattutto l'astronomo danese Tyco Brahe aderirono
alla teoria eliocentrica. In particolare quest'ultimo operò una sintesi delle 2 contrastanti teorie astronomiche,
sostenendo che, è vero che la Terra era immobile e fissa al centro dell'Universo, ma intorno a lei girava soltanto
il Sole, intorno alla quale a loro volta giravano (in modo circolare) gli altri copri celesti compresa la Luna.
Tuttavia le possibilità di dare sfogo a queste teorie erano minime, poiché le dimostrazioni pratiche e concrete,
basate sulle osservazioni sperimentali e scientifiche, venivano sempre rigettate dagli uomini della cultura
cristiana → In questo periodo nacque il secolare processo di verifica revisionista dei sistemi di credenze
ideologici-culturali, processo ancora in corso ai nostri giorni.

Critica era dunque la posizione di tutti coloro che soltanto provavano ad avvicinarsi alle teorie copernicane.
Basti pensare alla tragica vicenda vissuta dal filosofo e frate domenicano Giordano Bruno (1548-1600): il 14
febbraio 1584 partecipò ad una cena tra eruditi che sostenevano le tradizionali teorie tolemaiche. Si scontrò
verbalmente con due di questi, e in quello stesso anno, memore della vicenda, pubblicò La cena delle ceneri,
contenente una critica al sistema aristotelico-tolemaico e l'adesione all'eliocentrismo copernicano,
aggiungendogli l'ipotesi dell'esistenza di infiniti mondi, abitati da esseri uguali agli umani (è evidente che con
queste affermazioni cadeva il fondamento stesso della salvezza cristiana, ossia l'idea che gli umani fossero i
“protetti del Signore” in quanto gli unici esseri viventi senzienti nell'universo). Per queste idee, venne
condannato e morì al rogo il 17 febbraio 1600: la sua morte rappresenta la prima presa di posizione del mondo
cristiano-culturale dell'epoca.

2 Galilei, uno scienziato nella Controriforma

Sospinto dal padre Vincenzio a compiere studi di medicina per poter, un giorno, nutrire la sua povera famiglia
con un degno lavoro, Galileo Galilei (1564-1642) nel 1584 terminava i suoi infruttuosi studi di medicina
all'Università di Pisa. In Università venne a contatto col matematico Ostilio Ricci, che lo introdusse per la prima
volta agli studi sperimentali, portandolo a pubblicare le prime operette di fisica teorica; queste arrivarono sulla
scrivania del professore di matematica e gesuita Cristoforo Clavio e poi, nel 1589, nelle mani di un altro
matematico, Guidobaldo Del Monte, che procurò al giovane Galileo la cattedra triennale di matematica e
astronomia all'Università di Pisa. Ma già nel 1591 abbandonava le tradizionali teorie astronomiche per
abbracciare quelle copernicane. L'anno dopo, divenne docente di matematica all'Università di Padova, e da qui
iniziò coerentemente a elaborare i suoi pensieri anti-tradizionali.

Il 1609 è un anno fondamentale per la scienza moderna: in quell'anno Keplero pubblicava l'Astronomia nova, un
testo poco diffuso con cui giungeva ad enunciare le prime 2 delle 3 leggi fondamentali del moto dei pianeti
intorno al sole (le 3 leggi di Keplero); in quello stesso anno Galileo costruì un eccezionale strumento di
osservazione scientifica, il cannocchiale (strumento inventato l'anno prima dal meno noto ottico tedesco
Giovanni Lippershey). Apriti cielo: tutto l'anno seguente, Galileo lo passò a sperimentare le potenzialità di
quello strumento, che gli diede risultati straordinari: la Luna non era un corpo celeste perfetto e sferico come
affermava Aristotele, ma caratterizzato da colline e valli; la presenza di anelli orbitali intorno a Giove
giustificava l'ipotesi secondo cui vi era più di un centro di rotazione planetaria, oltre a quello terrestre.

Il passo dall'osservazione alla trattazione teorica fu breve: nel marzo 1610 Galileo pubblicava a Venezia il
Sidereus Nuncius, un volumetto in latino in cui descriveva le prime sensazionali scoperte astronomiche in tutto e
per tutto favorevoli alle ipotesi copernicane, che venivano confermate ampiamente proprio con quelle
osservazioni. Ovviamente non si fecero aspettare le reazioni del mondo accademico: Keplero e Clavio lodarono
il grande intuito scientifico del pisano, mentre dall'altra parte della barricata, i tradizionalisti alzarono un coro di
critiche e ingiurie per l'oltraggio perpetrato da Galileo nei confronti della tradizione dominante, nei confronti
dell'unica vera autorità ideologica, ossia la Chiesa; volumetti, trattati e manoscritti si sollevarono contro le prime
osservazioni sperimentali della Scienza moderna. Frattanto Galilei tornava nella sua Toscana dove venne
richiamato dal suo amico e discepolo Cosimo II Medici, che nel 1609 era divenuto Granduca di Toscana e che
lo esentava dall'insegnamento universitario: Galileo poteva ora dedicarsi completamente alla ricerca scientifica,
pur percependo uno stipendio dal Granduca. Partì per Roma, dove nel marzo 1611 venne accolto da Cristoforo
Clavio nel Collegio dei Gesuiti e dove conobbe il cardinale Roberto Bellarmino. Al culmine della sua gloria,
Galileo conobbe il Papa Paolo V (1605-21) che lo introdusse a Federico Cesi, il fondatore della illustre
Accademia dei Lincei, in cui successivamente sarebbero nate le prime polemiche culturali anti-copernicane. I
primi problemi si concretizzarono nel 1612-13, quando Galileo si scontrò con un professore tedesco di
matematica, Cristoforo Scheiner, riguardo l'entità e la natura delle macchie solari:

- Galilei sosteneva fossero fenomeni visibili sulla superficie del Sole, screditando ancora una volta l'idea
dell'incorruttibilità e della perfezione dei corpi celesti;
- Scheiner, convinto aristotelico, affermava fossero delle polvere gravitanti attorno al Sole.

Intanto anche in Toscana, a Firenze, si stavano formando i primi cenacoli anti-galileiani; in uno di questi si
toccò lo scottante tema della compatibilità della nuova sistemazione cosmologica copernicana-galileiana con il
dettato delle Sacre Scritture. In una lettera scritta e spedita ad un suo amico fiorentino, Benedetto Castelli, il
quale lo aveva informato della tensione nata nella capitale del Granducato in seguito alle sue scoperte, Galileo
illustra il suo personale rapporto tra “verità” raggiunta per via scientifica e “verità” creduta per fede: la Sacra
Scrittura e la Natura sono entrambe opere divine, che però hanno 2 chiavi di lettura diverse: allegorica la prima
e matematica la seconda; essendo identica l'origine di Scrittura e Natura (→ entrambe sono opere di Dio),
teoricamente dovrebbe possedere entrambi una verità rivelata assoluta, ma le Sacre Scritture, interpretate
allegoricamente, sono il risultato dell'attività erronea degli interpreti della Bibbia (→ gli esegesi). Per cui, se la
verità matematica della Natura è immutabile e derivante da Dio, è essa l'unica verità possibile → sono le Sacre
Scritture ad essere in errore (a causa dell'interpretazione errata degli esegesi della Bibbia). Il Castelli pubblicò la
lettera di Galileo, pensando così di disinnescare le polemiche sorte intorno alla sua figura, ma, al contrario, i
dibattiti aumentarono. Una copia di queste lettere venne spedita dapprima alla Congregazione dell'Indice dei
libri proibiti, e poiché essa poteva giudicare solo le copie stampate, non manoscritte, come era invece quella
lettera, allora fu l'Ufficio del Sant'Uffizio ad avviare il procedimento inquisitoriale, chiedendo al Castelli
l'originale della lettera. Lo scienziato pisano si allarmò alla ricezione di queste notizie e stava preparando un'
altra operetta volta a suffragare le sue supposizioni (Discorso del flusso e del riflusso del mare, riguardo una
possibile ipotesi – sbagliata – riguardo l'influenza delle maree sul moto terrestre). Intanto aumentavano le
testimonianze a suo sfavore (come quella del frate domenicano Tommaso Cacini, intervenuto al Sant'Uffizio nel
marzo 1615), cosicché Galileo si trovò costretto a organizzare, seppure vanamente, una controffensiva
chiamando a raccolta tutti quelli che credevano a lui e alle sue teorie; il 24 febbraio 1616 le sue proposizioni ( 1
– il sole è immobile e al centro dell'universo; 2 – la Terra gira intorno al sole con moto circolare diurno) furono
condannate all'unanimità dal Tribunale del Sant'Uffizio. Immediatamente, la Congregazione dell'Indice
condannava le opere di Copernico, di Galilei, e di tutti coloro che si accostavano alla teoria eliocentrica (come il
trattatello del padre carmelitano Antonio Foscarini, Sopra l'opinione dei pitagorici e del Copernico). Il 25
febbraio il Papa intimava il cardinale Bellarmino di convocare in Udienza lo scienziato pisano; il 26 Bellarmino
comunicava i voleri del pontefice a Galileo. Da questo colloquio “privato”, di cui fu redatto un documento ma
privo di firma dei partecipanti (al colloquio), nacque il discusso processo e “caso Galilei”.
3 Dalla condanna del copernicanesimo al processo a Galilei

La condanna operata dalla pronuncia del Sant'Uffizio riguardo il copernicanesimo mise in allerta molti di coloro
che inizialmente avevano aderito con convinzione alle nuove tesi astronomiche; molti rinnegarono, totalmente o
parzialmente, le loro idee: tra di essi, ad esempio il gesuita Giuseppe Biancani, che nella sua opera del 1620,
Cosmographia, posticipò la conferma del suo pensiero iniziale in seguito a “sviluppi e prove future”.

Lo stesso Galileo, ritiratosi nei dintorni di Firenze a causa della malattia alla vista che lo affliggeva, dovette fare
parzialmente dietrofront: infatti, soltanto in seguito alle pressanti richieste dei suoi amici e colleghi più fidati
intervenne sul tema dello studio delle comete (ne apparvero 3 nel 1618), benché errasse nel ritenerle un
fenomeno di rifrazione ottica. 2 anni dopo gli stessi amici e colleghi lo spinsero a porre mano ad un'opera di
replica nei confronti di Orazio Grassi, un gesuita che si era anch'egli concentrato nello studio delle comete;
tuttavia, proprio all'inizio degli anni '20 del '600, gli sviluppi politici e sociali in Italia e in Europa non erano dei
migliori per riguardo i copernicani e in particolare Galileo: era scoppiata la guerra dei Trent’anni, e pochi mesi
dopo la battaglia della Montagna Bianca (novembre 1620). La madre di Keplero venne arrestata per l'accusa di
stregoneria e lui stesso cadde in disgrazia dopo questo evento. Nel febbraio del 1621 moriva di tisi Cosimo II
Medici, grande amico di Galileo, e le reggenti del regno, madre e nonna erano cattolicissime; nella corte
pontificia in quello stesso anno moriva Paolo V, a cui successe Gregorio XV, e il cardinale Bellarmino.

Così Galileo iniziò a scrivere la sua opera nell'estate del '21, in questo clima di grande incertezza politica, e nel
1623 era conclusa. Gregorio XV era morto e venne eletto Urbano VIII, il giovane cardinale Maffeo Barberini e
grande amico di Galileo, un Papa non chiuso dal punto di vista dogmatico. L'opera uscì nel 1623, Saggiatore, in
cui si disquisiva di metodo scientifico e di conoscibilità vera della natura ottenibile solo attraverso vie
scientifiche, e ad esse fu associata una dedica proprio al Papa, che apprezzò il libro. Il Grassi allora prese
posizione grazie all'appoggio del Collegio dei Gesuiti a Roma e si scagliò diverse volte contro “l'eresia
copernicana”; Urbano VIII continuava con la sua politica filo-galileiana nominando persone di nota amicizia
con lo scienziato pisano nei più importanti posti della curia romana, pur non ritenendo vere le ipotesi
copernicane (per il Papa erano “indimostrabili”).

Galilei, dal canto suo, chiese al nuovo Papa la revisione della condanna al copernicanesimo, e il pontefice
promise di impegnarsi in tal senso, purché il pisano producesse un'opera che dimostri inequivocabilmente la
veridicità delle sue tesi, sempre mantenendo moderazione e temperanza. Iniziato nel 1624, il volume uscì nel
1629, ma per essere pubblicato era necessario l'Imprimatur, un documento necessario che attesti l'ortodossia
dell'autore dello scritto, e veniva rilasciato dal Maestro del Sacro Palazzo Apostolico, che in quel periodo era
Niccolò Riccardi, amico personale di Galileo; questo documento venne rilasciato soltanto il 21 febbraio 1632, in
quanto nei 2 anni precedenti si erano susseguiti dubbi, correzioni, pressioni per la correzione dell'opera, ritenuta
dal Riccardi troppo temeraria → il titolo venne cambiato sotto pressione del Papa (il pisano aveva scelto Sul
flusso e riflusso del mare), e nel frattempo era morto il responsabile dell'accademia dei Lincei, Federico Cesi,
che avrebbe dovuto pubblicare l'opera.

Così, dopo 2 anni di travaglia, nasceva Il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo di Galileo Galilei,
l'opera che avrebbe costituito il fondamento del metodo scientifico della Scienza moderna. Galileo proponeva
ufficialmente l'analisi di ipotesi e sosteneva che le osservazioni astronomiche erano favorevoli all'ipotesi
copernicane. I personaggi del dialogo, avvenuto a Venezia, erano Francesco Salviati, copernicano, Simplicio,
filosofo del VI secolo d.C e sostenitore della visione tolemaico-aristotelica, e Giovanfrancesco Sagredo, il
padrone di casa, neutrale tra le 2 posizioni. Le discussioni si diluivano in quattro giornate e terminarono con 3
“attestazioni a favore del sistema copernicano”: le retrogradazione dei pianeti rispetto alla Terra, la rivoluzione
del Sole osservata attraverso le macchie solari e il moto delle maree.

La reazione del Papa, alla lettura del testo nell'estate del 33, fu abbastanza negativa (probabilmente per due
fattori: il primo è che al termine dei Dialoghi, Simplicio con le sue affermazioni ricalcava perfettamente il
pensiero di Urbano VIII, che non aveva nessuna voglia di prender parte a un opera simile; secondo motivo,
credeva che lo stemma con 3 delfini presente sulla copertina del volume – il marchio tipografico della casa
editrice – stesse a significare la pratica di “nepotismo” attuta dal Barberini nei confronti dei suoi 3 nipoti) , per
cui Niccolò Riccardi dovette bloccare la diffusione delle copie.

Secondo il Papa quindi Galileo non aveva rispettato né gli accordi del 1624 riguardanti una possibile revisione
della condanna al copernicanesimo, in quanto nella stesura dell'opera non si era attenuto alla prudenza delle sue
affermazioni, né i contenuti di quel colloquio, privato e informale, avvenuto il 26 febbraio del 1622 tra Galileo e
il commissario generale dell'Inquisizione. La pubblicazione della contestata opera provocò grandi tensioni nella
corte romana e fiorentina: a Roma , si generò un forte diverbio tra il Papa, accusato di esser risultato troppo
morbido nei confronti di Galileo e di perseguire una politica franco-fila (proprio nel momento in cui Richelieu
aveva intensificato gli attacchi agli Asburgo cattolici), e il leader del gruppo spagnolo di Gesuiti, il cardinale e
membro del Sant'Uffizio Gaspare Borgia; a Firenze, i figli del Granduca Ferdinando I militavano entrambi nelle
truppe cattoliche. Così, nell'autunno del 1632, Urbano VIII non poteva fare altro che passar tutta la pratica al
Sant'Uffizio, non prima però di aver convocato una speciale Congregazione volta a esaminare e accertare
definitivamente l'eresia del Dialogo (fu una sorta di ultimo favore che il Papa fece a Galileo): il riconosciuto
“copernicanesimo” del Galilei nella sua opera, e dunque la violazione degli accordi formatisi con il colloquio
privato del 26 febbraio 1616, lo condannarono al giudizio del Sant'Uffizio. Il 23 settembre del 1632 l'Inquisitore
di Firenze avvisò il Pisano dell'obbligo di presentarsi a Roma.

Galilei giunse a Roma soltanto nel febbraio del 1633, a causa del perdurare della peste e della sua malattia; il 12
aprile dello stesso anno subiva il primo interrogatorio da parte del commissario generale del Sant'Uffizio,
Vincenzo Maculano. Fu incarcerato (per modo di dire: la sua incarcerazione è più simili ai moderni “arresti
domiciliari”) presso la sede dell'ambasciata toscana a Roma, e poi spedito in Toscana, dove passò i suoi ultimi
anni di vita, ormai completamente cieco. Morì l'8 gennaio del 1642, attorniato dai suoi più stretti allievi e
parenti, e con lui si chiudeva un'entusiasmante avventura scientifica, destinata a rimanere celebre nei secoli dei
secoli.

Capitolo 15 - Europa inquieta: guerre dinastiche e mito dell’equilibrio

1 La guerra di successione spagnola


Come sappiamo il XVIII secolo è conosciuto come Età dei Lumi, il che potrebbe farci erroneamente pensare che
tutti gli avvenimenti che si susseguirono in questo secolo fossero contraddistinti dallo “spirito dei lumi”. In
realtà, quest’ultimo non ebbe alcuna influenza sulla politica estera degli Stati nel XVIII secolo. Le ultime guerre
dell’ancien régime in ragione della perdita della tipica caratterizzazione religiosa – si pensi alla Guerra dei
trent’anni e alla Pace di Westfalia – e in ragione del fatto che ancora era troppo presto per maturare una
caratterizzazione ideologica – come di fatto avverrà nel XX secolo – o per maturare quell’ “amour sacrée de la
patrie” – tipico del XIX secolo – si caratterizzarono per l’interesse dinastico, unica motivazione sostanziale
ormai al continuo scomporsi e ricomporsi della carta geopolitica europea. Altro non furono che guerre di
successione, e cioè guerre dinastiche. In un contesto simile si inscrive la situazione della Spagna alla fine del
XVII secolo.

L’ultimo Asburgo di Spagna, Carlo II d'Asburgo, era ormai malato da tempo e molto improbabile era il fatto che
riuscisse a lasciare eredi alla dinastia e alla corona. Già nel 1698, le diplomazie europee, con a capo Luigi XIV,
stilarono una possibile lista di successione alla corona spagnola, indicando i nomi di chi, alla morte del malato
monarca, avrebbe ottenuto per via dinastica i territori dei domini ispanici. La lista in questione era così
strutturata:

· la corona spagnola, i Paesi Bassi e le colonie americane destinate al duca di Baviera, Giuseppe
Ferdinando di Wittlesbach, il quale nel '98 aveva solo 7 anni ed era il nipote di Carlo II che, di fatto, lo
aveva designato suo successore;

· i vice-regni di Napoli e Sicilia, insieme allo Stato dei presidi a Filippo d'Angiò Borbone, il quale nel
'98 aveva 15 anni ed era nipote di Luigi XIV e della moglie Maria Teresa, figlia di primo letto di Filippo IV
di Spagna e sorellastra di Carlo II;

· i domini sulla Lombardia all'arcivescovo d'Austria Carlo d'Asburgo, il quale aveva 13 anni nel '98 ed
era figlio di Leopoldo I e nipote di Carlo II.

È chiaro che tale lista risultasse sottoposta alla casualità esistenziale che, improvvisamente, poteva non
mantenere la prevedibilità logica della vita di qualcuno. Infatti, la morte di Giuseppe Ferdinando di Baviera
(morto nel 1699 a causa del vaiolo) sconvolse il primo piano di successione, costringendo le diplomazie a
riconcertare tutto l’assetto spagnolo. Nel marzo del 1700 fu stilata la seconda lista di successione, la quale
prevedeva:

1. La corona spagnola, i Paesi bassi e le colonie americane a Carlo d'Asburgo;

2. I domini italiani e la Lorena, contesi tra Filippo d' Angiò Borbone e Leopoldo di Lorena-Vaudemont ,
pronipote di Carlo II vennero così spartiti:

a. I domini italiani (escluso Milano) e la Lorena a Filippo d'Angiò Borbone, solo se Leopoldo di
Lorena, in cambio del suo ducato originario, avesse accettato il ducato di Milano;
b. Nell’eventualità di un rifiuto di Leopoldo di Lorena, la Francia avrebbe ottenuto la Savoia (e
Nizza), mentre il duca di Savoia avrebbe ottenuto il ducato di Milano. Un “passaggio di
proprietà” che sarebbe dovuto avvenire sotto pressione congiunta anglo-olandese.

La volontà testamentaria di Carlo II di Spagna di nominare suo erede universale Filippo d’Angiò – a seguito
della morte del primo successore designato, Giuseppe Ferdinando - al fine di mantenere l’unità politica e
dinastica dei territori – sia continentali sia d’oltreoceano – alla condizione di non unire formalmente le due
corone borboniche di Francia e Spagna, determinò il venir meno di Luigi XIV al piano spartitorio europeo. Con
la morte di Carlo II, il 1° novembre 1700, il nipote Filippo d’Angiò divenne l’unico successore legittimo alla
corona spagnola. Tale prospettiva metteva in evidenza ripercussioni strategiche internazionali: Luigi XIV nel
presentare il nipote a Versailles come Filippo V di Spagna poteva considerare inesistenti per la Francia i Pirenei
e le Alpi, tuttavia, la Francia – con i possedimenti italiani e la penisola iberica – avrebbe potuto proiettarsi in
pieno Mediterraneo, divenendone la potenza centrale, costituendo un blocco politico-religioso (cattolico)
impenetrabile nel Vecchio continente. In questo modo la Francia sarebbe dovuta tornare a quella politica
definita “italiana” – per la quale a metà del XVI secolo i Guisa si scontravano con la corte di Enrico II – di
contro a quella “renana” o centro-europea. Due tendenze strategiche che ora avrebbero potuto collidere con le
scelte operate dagli Asburgo d'Austria: destinare risorse economiche e sforzi militari al “fronte orientale” contro
l’Impero Ottomano o continuare lo scontro con i transalpini nel centro Europa. Su quest’ultima tendenza,
Eugenio di Savoia, a capo del cosiddetto “partito tedesco”, ebbe un’influenza determinante. (il termine
“Savoia” non deve ingannare: Eugenio militava nell'esercito asburgico in quanto capitano di ventura
→comandante mercenario).

Gli Asburgo potevano contare sul blocco politico-economico inglese di Guglielmo III d’Orange, il quale –
finché la vita glielo permise – cercò di raccogliere in “unione personale” Inghilterra e Olanda. Il grande rivale
del “Re Sole” di certo non poteva permettere – né politicamente né, tantomeno, economicamente – una
posizione di forza francese così ampia, la quale avrebbe potuto annientare i suoi traffici commerciale e le flotte
navali.

Di conseguenza, essendo priva di un esercito delle dimensioni e forza di quelli continentali, l’Inghilterra doveva
in qualche modo agire in Europa, tessendo delle alleanze. Infatti, nel settembre 1701 si formò la “Grande
Alleanza” dell'Aja che univa: Inghilterra, Provincie Unite; Impero – comprendente i maggiori Stati tedeschi,
fra i quali il Brandeburgo-Prussia (dove Federico III di Brandeburgo divenne Federico I di Prussia; 1701-1713).

La Grande Alleanza si contrapponeva all'altra grande coalizione, composta da: Francia, Spagna, Portogallo,
Ducato di Savoia, Ducato di Baviera e Arcivescovato di Colonia.

Le ostilità iniziarono a palesarsi: la guerra venne ufficialmente dichiarata nel maggio del 1702, sebbene già nel
1701 vi fossero state schermaglie in Lombardia (tra imperiali e franco-sabaudi), mentre Luigi XIV invadeva i
territori dei Paesi Bassi imponendosi come loro nuovo re.

Nel 1703 la coalizione borbonica subì la perdita di 2 alleati: da un lato, il ducato di Savoia di Vittorio Amedeo
II, sopraggiunto alla causa anglo-olandese-imperiale grazie alle promesse di grandi ingrandimenti territoriali in
Lombardia; dall’altro, il Portogallo, il quale stipulò favorevoli accordi commerciali – accordi di Methuen - con
gli inglesi.

Avendo le spalle coperte dai lusitani, gli inglesi poterono preparare in pochi mesi una delle operazioni dalle
conseguenze più durature: arrivarono nel sud della penisola iberica e in pochissimi giorni conquistarono
l'importante roccaforte di Gibilterra (luglio 1704). Ad agosto l'offensiva anglo-imperiale si concretò a
Blindheim (Baviera), dove il duca di Malbrough, Churchill ed Eugenio di Savoia sconfissero i francesi che
puntavano su Vienna. I francesi persero la battaglia perché la maggior parte delle loro truppe erano impegnate
nell'assedio di Torino (capitale sabauda). Assedio che, nell'ottobre del 1705, fu smantellato e i francesi furono
nuovamente sconfitti a causa dell'accerchiamento operato dalle truppe di Eugenio e di Vittorio Amedeo II.

In quello stesso anno moriva l'Imperatore Leopoldo I, al suo posto gli succedeva Giuseppe I (1705-11).

Nelle Fiandre la “Grande Alleanza” attaccava e sconfiggeva le truppe franco-spagnole nel maggio 1706 a
Ramillies nel Brabante, ottenendo un pieno successo e occupando gran parte delle Fiandre.

Per via marittima, la superiorità anglo-olandese era ineguagliabile e velocemente vennero occupate le Baleari –
Minorca - e la Sardegna. Frattempo, un esercito imperiale scese a Napoli - chiedendo il transito per lo Stato
della Chiesa, avvicinandosi pericolosamente a Roma - raggiungendola finalmente nel luglio 1707.

La tensione tra Impero e Santa Sede, con a capo Clemente XI (1700-21), acuì a causa dello sconfinamento delle
truppe imperiali nelle legazioni pontificie di Bologna e Ferrara e altresì a causa del mancato riconoscimento
pontificio delle pretese al trono di Carlo d'Asburgo. Una tensione, questa, che crebbe al punto di determinare
una guerra nella guerra: la pace giunge nel 1708, imponendo a Roma di riconoscere le pretese al trono
spagnolo di Carlo d’Asburgo, un’imposizione controbilanciata dalla restituzione della cittadina occupata di
Comacchio al pontefice.

La guerra intanto continuava: nell'agosto del 1708 la grande battaglia di Oudenard sulla Schelda aprì
l'invasione da parte delle truppe anglo-imperiali – sempre al seguito di Eugenio di Savoia e di Churchill - in
territorio francese. Ormai gli imperiali dilagavano e Parigi era vicina: si pensò di offrire a Luigi XIV una
trattativa di pace, per la quale avrebbe dovuto accettare sul trono spagnolo Carlo d’Asburgo e destituire, anche
con l’uso della forza, suo nipote Filippo V da Madrid (Filippo d’Angiò Borbone). Una proposta di pace
umiliante che, infatti, venne rifiutata dal Re Sole. Viste le circostanze, la Francia si riorganizzò, con uno sforzo
eccezionale, per difendere la capitale, impedendo l’avanzata delle truppe nemiche: nella battaglia di
Malplaquet, nel settembre 1709, le forze francesi resistettero all'onda d'urto degli imperiali che, forti di un
esercito di 80.000 uomini comandato dal Savoia, persero circa 20.000 uomini combattendo contro i soldati del
maresciallo Villars. Una Vittoria di Pirro per gli imperiali.

In una situazione ormai militarmente esausta e statica, iniziarono ad insinuarsi sentimenti di pace. Due eventi in
particolare lasciavano intravedere esiti di pace: da un lato, in Inghilterra fu determinante il fatto che ad imporsi
alle elezioni parlamentari furono i Tories, contrari al conflitto poiché le ingenti spese militari gravavano
soprattutto su di loro; dall’altro lato, fu determinante, nel modificare le sorti e il corso della guerra, la morte del
giovane imperatore Giuseppe I. Carlo d’Asburgo – acerrimo rivale di Filippo V di Spagna (Filippo d’Angiò
Borbone) – si vide costretto a succedergli, pur mantenendo la pretesa di successione al tropo spagnolo. Il dato
era tratto: gli anglo-olandesi, continuando a combattere contro la Francia e al fianco del nuovo imperatore Carlo
VI d’Asburgo (1711-40), non avrebbero fatto altro che contribuire alla rinascita del vasto Impero asburgico
della prima metà del XIV secolo (vedi cap.3, par.6). Tenendo a mente che tra i più fedeli sostenitori e fautori del
principio dell’equilibrio europeo vi erano proprio gli inglesi, risulta evidente come gli anglo-olandesi decisero di
abbandonare la “Grande Alleanza”.

Abbandonata quest’ultima, nell’aprile del 1713, si accinsero a sottoscrivere la pace di Utrecht con l’ormai
anziano Luigi XIV, lasciando isolato Carlo VI d’Asburgo. Quest’ultimo emanò pochi giorni dopo una
Prammatica sanzione con cui regolava la successione al trono imperiale, stabilendo quest’ultima a favore della
propria linea dinastica: il trono sarebbe andato alla primogenita Maria Teresa, nata nel 1717. Sancendo poi
l’unità e l’indivisibilità dei domini imperiali. Undici mesi dopo, nel marzo 1714, sottoscrisse il trattato di
Rastadt.

Il nuovo assetto europeo si delineava così:

· Filippo V mantenne la Spagna e le colonie americane d’oltreoceano, ma perse tutti i possedimenti


italiani. Non rivendicò l'unione con la corona francese, ancora detenuta dall'anziano, ma ormai morente,
Luigi XIV. La Spagna, dal canto suo, cedette Minorca e Gibilterra agli inglesi, oltre ad alcuni diritti
commerciali di monopolio sul commercio degli schiavi verso l'America (il c.d. Asiento de negros);

· L'Impero di Carlo VI ottenne i Paesi Bassi spagnoli, i ducati di Mantova e Milano, lo Stato dei
presidi, il vice-regno di Napoli e il regno di Sardegna (occupata dagli imperiali per 3 anni);

· Il ducato di Savoia di Vittorio Amedeo II ottenne il Monferrato, Casale e il vice-regno di Sicilia,


oltre al riconoscimento internazionale del suo titolo regio;

· le Provincie Unite riottennero alcune roccaforti di frontiera;

· sulla Francia si impose la cessione di alcuni territori coloniali nel nord America (Terranova e la baia
di Hudson).
L’Europa dopo i trattati di Utrecht (1713) e Rastadt (1714)

Con i trattati di Utrecht e di Rastadt venne sancita la supremazia inglese in Europa e nelle colonie. Una supremazia che si
esplicò in un ramificato sistema di alleanze e traffici commerciali. Tuttavia, sebbene il principio dell’equilibrio sembrò
trionfare, rimasero in piedi alcuni interrogativi di rilevante importanza: pur essendo stata estromessa da tutti i domini italiani
e continentali (Paesi Bassi) a causa del conflitto, la Spagna, nostalgica dei fasti del periodo cinquecentesco, avrebbe potut o
tentare di egemonizzare i commerci nel Mediterraneo? E la Francia, ormai consumata da più di mezzo secolo dalla brama di
gloria e prestigio del suo sovrano, si sarebbe mostrata disposta a divenire una potenza di secondo piano nel panorama
internazionale? Infine, come si sarebbe configurato il dominio austriaco sui territori italiani?

L’instabilità dell’ordine internazionale e il progetto dell’Alberoni per la “liberazione” d’Italia (pt. non presente sulla
nuova edizione)

Attente a seguire le vicende della delicata guerra di successione spagnola, le cancellerie europee avevano avuto minore
sensibilità alle vicende baltiche, le quali fecero da contrappeso a quella instabilità generatasi nel centro-sud d’Europa. Nel nord
Europa, il confronto polacco-danese-svedese si era riacceso (cosiddetta Grande guerra del Nord – 1700-21): l’elezione al
trono polacco di Federico Augusto II di Sassonia nel 1697 (1697-1704 poi 1709-33) e il grande dinamismo politico-militare
del nuovo zar di Russia Pietro I (1689 -1725) impressero una forte accelerazione alla crisi (simultanea alla vicenda spagnola).

Nel febbraio 1700, la guerra scoppiò e si combatté a Riga, cittadina svedese, attaccata dalle truppe sassoni-polacche. Al
seguito di re Carlo XII (1697-1718), le truppe svedesi contrattaccarono, collezionando innumerevoli vittorie che costrinsero
i danesi alla disfatta e al conseguente ritiro dalla guerra.

La stessa Russia di Pietro I era coinvolta nel conflitto, ma, anche in questo caso, furono le truppe svedesi ad avere la meglio.
Essendo l’anima della coalizione anti-svedese il sovrano polacco, Federico Augusto II di Sassonia, Carlo XII decise di spingere
la propria azione dentro i confini polacchi. Gli svedesi riportarono una serie di vittorie in Posnania, nel cuore della Sassonia,
patria del re polacco. La vittoria decisiva nella battaglia a Fraustadt (febbraio 1706) costrinse il re polacco alla pace di
Altrastand (settembre 1706), la quale sancì il riconoscimento da parte di Augusto di Sassonia del nobile filo-svedese
Stanislao Leszczynski – eletto forzatamente dalla dieta polacca nel marzo 1704 – come nuovo re di Polonia, e la rinuncia ad
eventuali pretese di una propria restaurazione.

Ad ogni modo, vista la situazione, era ormai possibile per gli svedesi pensare all’ultimo ostacolo, quello russo, per ottenere il
pieno e incontrastato dominio sul Baltico. Durante l’ultima fase dello scontro sassone-svedese, da un lato, gli Stati europei –
in particolare l’Inghilterra – avevano fatto cercato di impegnare Carlo XII di Svezia nell’Europa centro-occidentale invano;
dall’altro, lo zar di Russia aveva approfittato della situazione per riprendersi Narva e parte delle terre baltiche svedesi.
Nell’agosto 1708, Carlo XII allora organizzò una spedizione militare antirussa di 34.000 soldati con l’obiettivo di puntare su
Mosca: le truppe di Pietro I, detto il Grande, adottarono la tattica della “terra bruciata” – consistente nella distruzione di ponti
e strade -, retrocedendo e attirando le truppe di Carlo XII all’interno del vasto territorio russo. Carlo XII puntò allora sul sud,
mirando a raggiungere le regioni cosacche – ostili al potere centrale zarista – e pensando di passare il temibile e terribile
inverno russo in Ucraina. Nella primavera del 1709, fu piuttosto agevole per Pietro I ottenere la vittoria su quel che rimaneva
dell’esercito svedese – il quale aveva perso all’incirca 22.000 uomini – ormai sfiancato dall’inverno (a tal proposito si riteneva
che l’inverno del 1708-09 fosse stato il più freddo degli ultimi 500 anni), dalle malattie e dalle carestie. Lo scontro a Poltava
– tra la fine di giugno e i primi di luglio del 1709 – venne vinto dalle truppe zarista. Il sovrano svedese altro non poté fare
che mettersi in salvo nell’Impero Ottomano, lasciando in balia dei russi i resti del proprio esercito. Chiaramente, i risultati
conseguiti con la pace di Altrastand andarono perduti: Federico Augusto II di Sassonia tornò ad essere re in Polonia, mentre
l'Impero russo si espanse fino alla Finlandia.

Precipitosamente rientrato in Svezia nel 1715, Carlo XII tentò di riprendere le redini del proprio Stato invano: ormai, la Svezia
non poteva tornare ad essere la potenza dominatrice del Baltico. Tre anni dopo morì combattendo l’ennesimo scontro con la
Norvegia. A succedergli fu Ulrica Eleonora d'Assia, moglie di Federico d’Assia, la quale dal 1720 avrebbe abdicato in favore
del marito. La famiglia Assia era favorevole ad una linea diplomatica filoccidentale, e proprio per questo, dopo l’elezione della
Regina Ulrica Eleonora d’Assia, vennero avviate trattative di pace con gli Stati tedeschi dell’Hannover e del Brandeburgo e si
credette nella promessa di aiuto inglese contro la Russia. Vanificata quest’ultima speranza, si giunse definitivamente alla pace:
la Grande guerra del nord terminò con la stipula della pace di Nystad, nel settembre 1721. La pace sancì:

· il ritorno della Finlandia alla Svezia, la quale dovette riconoscere alla Russia il possesso della fascia costiera del
Baltico orientale – dalla Carelia alla Livonia.

· La Prussia ottenne Stettino e parte della Pomerania;

· La Danimarca ottenne la penisola dello Schlewig-Holstein.

Un periodo di profondo ridimensionamento venne avviato in Svezia: con la riforma costituzionale le sorti del paese vennero
affidate al Consiglio di Stato – composto dal Re e dai nobili – e al Parlamento – nient’altro che una proiezione dei quattro
ordini economico-sociali del paese, compresi i contadini. Progressivamente si tornò a princìpi di economia mercantilistica,
dopo il dirigismo imposto da Carlo XII, per motivi bellici, al suo rientro in patria.

I piani militari di alleanza ottomano-svedese elaborati da Carlo XII durante il suo soggiorno in Turchia rispondevano ad una
necessità comune: far fronte all’espansionismo russo che negli ultimi decenni si era assai esteso. Una “tenaglia” politico-
militare ottomano-svedese avrebbe certamente potuto creare seri problemi alla Russia teoricamente. L’Impero turco, tuttavia,
sebbene fosse ormai in declino -dagli ultimi decenni del XVII secolo – a seguito delle numerose e rilevanti sconfitte impartitegli
dagli imperiali – si pensi alla pace di Karlowitz del 1699 -, tentò di puntare nuovamente a occidente, verso l’Egeo e i Balcani
ai danni della Serenissima Repubblica di Venezia.

Nel dicembre del 1714 dichiarò guerra a quest’ultima, suscitando enormi preoccupazioni nella diplomazia europea, la quale
vide ripresentarsi un problema antico e tutt’altro che risolto. Il Papa Clemente XI cercò inutilmente di comporre un fronte
antislamico: sia Luigi XIV, ormai morente, sia Carlo VI d'Asburgo rifiutarono di aiutare la Repubblica Veneta. Mentre il
pontefice tentava in qualche modo di tessere una trama politico-militare a difesa dell’Europa cristiana, la flotta turca, superati
i Dardanelli, travolse molte delle roccaforti commerciali veneziane nella Grecia meridionale e nell’Egeo – in particolare la
Morea e Corfù, 1716 -. Un’avanzata simile e la pressione da parte della Santa Sede catturarono l’attenzione della cancelleria
imperiale tedesca, la quale acconsentì a formare un’alleanza con i veneziani (aprile 1716), a patto di ricevere le dovute e
necessarie garanzie spagnole di non rivendicazione degli ex vice-regni spagnoli, perduti dalla Spagna nella guerra di
successione – ottenute nel 1715.

La Repubblica di Venezia non poté far altro che accettare tale alleanza, pur se quest’ultima avrebbe potuto avere delle
implicazioni non tanto positive: di fatto, avrebbe dovuto impegnarsi nei confronti dell’Impero ad inviare una propria flotta nel
caso di attacco turco contro le coste napoletane, ora asburgiche, e avrebbe dovuto concedere il “transito” nel proprio territ orio
alle truppe imperiali.

L'esercito imperiale, condotto dal redivivo Eugenio di Savoia, in pochi mesi battagliò e vinse fino alla Romania, mentre la
flotta, rimpinguata anche dagli aiuti del Portogallo, di Genova e del Granducato di Toscana, disperse l'assedio turco a Corfù .
La vittoria definitiva sul pericolo turco si ebbe con la conquista di Belgrado, nell'agosto del 1717. La vasta regione dei
Balcani orientali, a nord del Montenegro, tornò così sotto il dominio imperiale.

Carlo VI non poteva far altro che prospettare – politicamente e militarmente – l’estromissione dal Vecchio continente dei
turchi, ormai allo sbando e lacerati oltre che dal conflitto anche da alcune rivolte cristiane sopraggiunte in Grecia. Sebbene
questo fosse il piano imperiale, quest’ultimo fu abbandonato quando giunse la notizia che la flotta spagnola – partita da Cadice
ufficialmente per unirsi alla grande flotta cristiana – aveva operato uno sbarco in Sardegna, non mantenendo la promessa fatta
due anni prima.

In quegli anni, la corte spagnola visse un brusco mutamento di élites dirigenti e di politica estera, conseguente alla morte della
moglie di Filippo V: Giulio Alberoni (1664-1752), abate piacentino di umilissime origini, entrò a stretto contatto con la corte
spagnola, dopo esser stato inserito in quella francese – al seguito del duca di Vendome – dal vescovo Roncovieri. Ebbe modo
di avviare la propria carriera diplomatica in terra spagnola per conto del duca di Parma, Francesco Farnese. Alla morte di
Maria Luisa di Savoia (nel febbraio del 1714), egli aveva già abilmente approntato il nuovo matrimonio del re Filippo V
con la nipote del duca di Parma, Elisabetta Farnese, al fine di ricreare un potente Stato spagnolo, capace di mettere in
discussione la recente supremazia inglese e imperiale – entrambe imposte con i trattati di Utrecht e Rastadt. Alberoni guardava
in particolar modo ai possedimenti in Italia in chiave antiasburgica. Tuttavia, prima di poter dar seguito a queste intenzion i
antiasburgiche, erano necessari altri interventi di natura amministrativa, volti a riformare e rinvigorire l’assetto interno dello
Stato: venne potenziato l'esercito e la flotta; coniate nuove monete; rinforzato il monopolio commerciale con le colonie;
riformata la contabilità. A tal proposito, venne abolita l'antica amministrazione plurima dei vari regni precedenti l'unione
politica spagnola e in pochi anni di lavoro e di riforme interne, la Spagna poté tornare alla ribalta sullo scenario politico
europeo.

Alberoni puntò poi ad avvicinarsi diplomaticamente all’ex nemica Inghilterra, divenuta potenza preminente dopo Utrecht:
nell’impossibilità di contrastarne militarmente la flotta e di opporsi legalmente al fiorente contrabbando di Stato cui dava vita
l’Inghilterra con le colonie spagnole, tanto valeva accordarsi e sperare di guadagnare libertà d’azione nel Mediterraneo.
Tuttavia, l’evolversi politica dinastica in Inghilterra e in Francia non facilitarono il piano di Alberoni: l’avvento al tron o di
Giorgio I di Hannover (1714-1727), imparentato con i prìncipi tedeschi e di conseguenza a stretto contatto con l’Impero
asburgico, rendeva difficile pensare che Inghilterra e quest’ultimo potessero giungere a scontrarsi. L’Inghilterra viste le
circostanze non poteva di certo depauperare i buoni rapporti con l’Impero per favorire i piani spagnoli. Per di più appariva
ancora dubbia la politica francese del reggente Filippo d’Orléans, in attesa del compimento della maggiore età del designato
successore Luigi XV. In Francia, l’aristocrazia e il Parlamento di Parigi promisero la corona all’attuale reggente Filippo
d’Orléans, in cambio del ripristino della pratica delle rimostranza – diritto abolito dal Re Sole -, consistente nell’esercizio del
potere di veto per l’approvazione delle leggi regie. Il cambio di dinastia avrebbe potuto determinare un mutamento nelle mire
espansionistiche francesi, pertanto, nel gennaio del 1717, nacque la “Triplice Alleanza dell’Aja” tra Inghilterra, Francia e
Impero, la quale lasciava completamente isolata la Spagna di Alberoni.

La reazione di Alberoni – cioè quella di sostituirsi alla Francia nelle alleanze politico-militari antimperiali – venne frenata dal
pontefice. Clemente XI trattò per avere a disposizione della coalizione cattolica la flotta spagnola e propose anche la nomina
cardinalizia di Alberoni. Alberoni non poté far altro che assecondare quanto trattato dal Papa, e la flotta spagnola fu concentrata
a Cadice. Una volta giunta la nomina cardinalizia Alberoni indirizzò i galeoni spagnoli alla volta della Sardegna invece che
indirizzarli contro la flotta turca. Roma e Vienna reagirono violentemente a differenza di Londra, la quale si distinse per la
propria cautela – dovuta al principio dell’equilibrio.

Alberoni stesso apparve cauto e teso ad un riequilibrio del composito mosaico composto a Utrecht e Rastadt che tenesse conto
delle esigenze dinastiche e territoriali del figlio di Elisabetta Farnese e Filippo V, nato nel 1716, escluso dalla successione per
la precedenza dinastica che spettava ai figli della prima moglie del re.

Alberoni aveva un suo progetto politico-culturale, in cui confluivano spagnoli e italiani – essenzialmente farnesiani -. Il
progetto della “Liberazione d'Italia” dell'Alberoni prevedeva:

· il ritorno degli ex vice-regni di Napoli e Sicilia in mano alla Spagna;

· l'insieme territoriale del Granducato di Toscana e del ducato di Parma in mano a Carlo di Borbone, figlio di
Elisabetta Farnese e di Filippo V;

· estinzione della dinastia medicea in Toscana e aggiustamenti territoriali minori per la Repubblica di Venezia e per
lo Stato pontificio;

La creazione di una Lega italica pronta a difendere la sua libertà dalle pressioni tedesche. L'Alberoni forzò i tempi e riunì un
esercito, che nel 1718 sbarcò in Sicilia. La Triplice Alleanza reagì e divenne Quadruplice con l'entrata dell'Olanda; vennero
così definiti ulteriori accordi fra gli Stati della Quadruplice:

· fu fatto divieto a Carlo VI di rivendicare il trono spagnolo di Filippo V, e lo stesso valeva per la Francia di Filippo
d'Orleans e di Luigi XV Borbone;

· la Sicilia sarebbe stata liberata dalle truppe austriache e alla fine della guerra sarebbe diventata un nuovo possedimento
dell'Impero asburgico;

· la Sardegna sarebbe passata al ducato di Savoia;


· a Elisabetta Farnese sarebbero andati i possedimenti di Granducato di Toscana e di Ducato di Parma all'estinzione
della dinastia Medicea.

Mentre a Passarowitz, nel giugno 1718, veniva conclusa la pace imperiale con gli ottomani – sancendo la cessione
all’Austria della Valacchia e della Serbia settentrionale, nonché la conservazione del diritto di commercio ed agevolazioni
doganali in tutto il Levante alle Repubblica di Venezia - le forze della Quadruplice si prepararono a risolvere le problematiche
innescatesi sul quadro politico europeo: una flotta inglese sbaragliò quella spagnola al largo di Capo Passero, mentre un
fortunale distrusse un’altra flotta spagnola vicino le coste scozzesi (Alberoni aveva progettato un attacco spagnolo-scozzese
nei confronti degli inglesi). L'Alberoni - attentatore al principio di equilibrio - era così uscito sconfitto e con lui caddero tutte
le possibili speranze della Spagna di tornare ad essere protagonista nel Mediterraneo e, in generale, in Europa.

La Spagna firmò la pace dell'Aja nel 1720, la quale stabilì il passaggio della Sicilia agli imperiali e della Sardegna alla Savoia.
Il Cardinale, scampato alle ire spagnole e pontificie trovò rifugio a Genova. Nel 1721, il nuovo Papa Innocenzo XIII (1721-
24) lo riammise al conclave e si preoccupò di assolverlo dai suoi misfatti. Morì a Piacenza nel 1752.

2 Guerre dinastiche in Polonia e in Austria e “compensi” in Italia

Malgrado la pace dell’Aja e la fine politica di Alberoni, quel suo progetto strategico antimperiale sarebbe stato
presto ripreso da chi, sedendo in un consesso internazionale a pieno titolo di forza – senza esser cioè passibile di
accuse di velleitarismo guerrafondaio - avrebbe potuto farne oggetto di legittima rivendicazione per un nuovo ed
ennesimo assetto europeo.

L’Inghilterra continuò ad assolvere quella funzione stabilizzatrice ed equilibratrice dell’assetto europeo, vigilando
con la sua imponente flotta i mari del Nord, per sventare qualsiasi possibilità di conflitto.

Frattempo, in Francia si aprì il problema della nuova reggenza a seguito della morte di Filippo d’Orléans nel 1723.
La reggenza venne affidata al principe di sangue più prossimo alla successione dinastica, il duca di Borbone, il
quale si accinse a combinare il matrimonio del quindicenne Luigi XV con la figlia di Stanislao Leszczynski – re
di Polonia dal 1704 al 1709 - in maniera tale da tenere in una posizione marginale il futuro sovrano. Questo
matrimonio escludeva, agli occhi del reggente, complicazioni dinastiche internazionali. Dopodiché, il duca di
Borbone si apprestò ad allontanare da Versailles il precettore di Luigi XIV, Hercule de Fleury (1652-1743): un
errore che il duca pagò con l’allontanamento dalla corte, ordinato dal giovane sovrano, il quale nominò poi de
Fleury Primo ministro.

Il primo ministro de Fleury si mosse con sottile abilità tra le trame politiche internazionali della prima metà del
XVIII secolo. Il suo “buon governo si perpetuò grazie a due accortezze che ebbe: da un lato, chiamare alle più
alte cariche amministrative dello Stato persone fidate e a lui devote ed altresì dotate di grandi capacità tecnico
amministrative; dall’altro, porre maggiore attenzione alla politica interna piuttosto che su quella estera,
realizzando una politica estera misurata sulle esigenze amministrative e tributarie dello Stato. In tal senso, è
particolarmente evidente il distacco dall’indirizzo politico perseguito dal Re Sole.

Questa politica estera “sotto tono” determinò la rinuncia francese a rivendicazioni di carattere territoriale che
avrebbero potuto mettere in discussione la stabilità dell’ordine europeo.
Questa stabilità non era però esente da nemici: ciò che per l’Inghilterra valeva per l’Europa, non valeva per i
territori coloniali. Infatti, il contrabbando ai danni della Spagna e atti di vera e propria pirateria internazionale
determinavano in quel contesto uno stato di forte tensione che l’Inghilterra, da un momento all’altro, avrebbe
voluto sfruttare militarmente non appena possibile. All’interno della stessa corte francese, l’indirizzo di politica
estera perseguito dal neo Primo ministro aveva i suoi avversari. Nonostante questo, Fleury, nel 1731 – col trattato
di Vienna – era riuscito a far da paciere tra Madrid e Londra. Sembrò che l’equilibrio europeo stesse resistendo.
Tuttavia, nel 1733, alla morte del Re di Polonia, Federico Augusto II di Sassonia, le procedure elettive del nuovo
monarca innescarono nuovi conflitti: la Dieta polacca elesse Stanislao Leszczynski – suocero di Luigi XV a
seguito del matrimonio di questi con la figlia – e la Polonia divenne una sorta di “feudo” francese.

Le monarchie europee chiaramente non potevano esser contente di questa pseudo annessione; pertanto, truppe
russe ed austriache si organizzarono ed invasero i territori polacchi, occupando Varsavia e chiedendo la
deposizione di Stanislao. Imposero alla Dieta di eleggere Federico Augusto III di Polonia (1733-63), figlio di
Augusto II. La guerra era ormai inevitabile e lo stesso primo ministro francese dovette cedere alla necessità, alle
ambizioni e agli interessi fino ad allora frenati. Il guardasigilli e ministro degli Esteri francese, Louis Chavelin,
aveva già pronto un ambizioso piano di intervento, consistente nel formare o rafforzare un “terzo partito”,
costituito da Stati indipendenti dagli Asburgo o dai Borboni e legarli alla Francia: la Baviera, l’Impero turco, la
Svezia, la Polonia. Venne altresì previsto un assetto italiano che ricalcava il piano di Alberoni nelle finalità: la
Savoia sarebbe tornata sotto il controllo transalpino e le sarebbe stato garantito il territorio del ducato di Milano
(ora imperiale) e si sarebbe dovuta ricostituire l’alleanza con la Spagna borbonica-farnesiana. Tutto era volto a
creare un’Italia di Stati indipendenti, subordinati all’influenza francese e pontificia, costituente un antemurale
all’Impero austriaco. È alla luce di questo che - dopo la rapida invasione della Polonia da parte dei russi e degli
austriaci e l’invasione del ducato di Lorena da parte francese – la guerra di successione polacca si combatté
essenzialmente sul territorio italiano.

La guerra di successione polacca scoppiò ufficialmente nel 1734 quando i cosiddetti gallispani – soldati francesi
e spagnoli – invasero il Regno di Napoli e di Sicilia e Milano venne occupata dalle truppe franco-sabaude.
Sebbene, alla fine dello stesso anno sembrava che il piano di Chauvelin si stesse realizzando, i primi sospetti degli
alleati erano ormai dietro l’angolo: il Duca di Savoia riflettendo sul fatto che il suo intervento fosse strumentale
ad una espansione territoriale francese, capì che la sua partecipazione non avrebbe apportato alcun miglioramento
al suo Stato, pertanto, temendo di finire in una tenaglia borbonica iniziò a pensare ad una mediazione di pace
anglo-olandese. Successivamente, al momento previsto per l’assedio di Mantova – centro fortificato e
strategicamente determinante per impedire un ritorno di forze austriache – le preoccupazioni politiche e i diversi
fini della guerra tra gli alleati apparvero limpidamente: Mantova, destinata ai Borboni, avrebbe dovuto essere
conquistata con l’aiuto dell’esercito del duca di Savoia, e quest’ultimo non aveva alcuna intenzione di far vincere
la guerra ad un provvisorio alleato e potenziale nemico. Si sfaldò il piano politico-diplomatico di Chauvelin, il
quale, nel 1737, venne destituito dal Segretario di Stato per gli Affari esteri. Inghilterra e Olanda erano pronte ad
offrire la loro mediazione e Fleury tornò a guidare la Francia su un percorso di pace. Le trattative portarono alla
sottoscrizione della pace di Vienna tra il 1738 e il 1739. La pace sancì quanto segue:

· Augusto III di Sassonia divenne nuovo re legittimo di Polonia;


· La Lorena – occupata dalle truppe francesi durante la guerra – sarebbe andata momentaneamente a
Stanislao Leszczynski e alla sua morte sarebbe tornata alla Francia;

· Carlo Emanuele III di Savoia avrebbe prolungato i confini del suo Stato fino al fiume Ticino;

· L’Impero conservò il ducato di Milano e ottenne – per legame dinastico indiretto – il Granducato di
Toscana, il quale, dal 1737, alla morte di Gian Gastone de’ Medici (ultimo esponente della famiglia), era
rimasto senza una guida;

· Spagna e Francia riconobbero almeno formalmente la Prammatica sanzione del 1713.

L’equilibrio sembrava nuovamente ristabilito, tuttavia, durò poco meno di un anno. La politica di potenza e la
tendenza all’egemonia erano le vere spinte di queste interminabili guerre condotte da dinastie per un loro
tornaconto privato, fatto però coincidere con quello dell’entità statale.

Alla morte del re di Prussia Federico Guglielmo I (1713-40), simultanea a quella dell’Imperatore Carlo VI, si
innescarono nuovi conflitti. Secondo quanto stabilito dalla Prammatica Sanzione del 1713 – riconosciuta
formalmente e accettata dai maggiori Stati europei - la corona imperiale sarebbe dovuta andare alla figlia di Carlo
VI, Maria Teresa d’Asburgo, tuttavia, nessuna delle cancellerie al di fuori di quella asburgica, riconobbe l’erede
come legittima imperatrice. In Francia, malgrado la volontà pacifista di Fleury – il quale non aveva più
quell’influenza e quella capacità di gestione diplomatica che contraddistinsero il suo operato in passato –, il
“partito della guerra” si era ancor di più rafforzato con la guida del conte di Belle-Isle. Il che, sommato
all’opportunità economica e politica di “farla finita” con gli Asburgo, di riprendere una politica di potenza che
mettesse in moto una sorta di escalation sociale, finì per prendere il sopravvento sul moderatismo di Fleury.
Vennero infatti intraprese le operazioni militari. Ciononostante, nel dicembre del 1740, i francesi vennero, per
così dire, anticipati dall’intervento del nuovo Re prussiano Federico II di Prussia (1740-87), il quale in poco
tempo conquistò la Slesia. La Francia invase i territori tedeschi – anche grazie all’aiuto apportato dalle truppe del
ducato di Baviera, guidata da Carlo Alberto (genero dell’imperatore Giuseppe I) che, in soli due mesi, ottenne
prima la corona di Boemia nel dicembre 1741 e successivamente, nel gennaio 1742, divenne Imperatore
tedesco col nome di Carlo VII (1742-45).

L’Inghilterra di Giorgio II e gli Asburgo alleati dell’Imperatrice Maria Teresa riorganizzandosi, occuparono la
Baviera. Frattempo, la coalizione filofrancese subì le prime perdite dal punto di vista diplomatico: al richiamo
del conte di Belle-Isle in patria – a causa dei timori parlamentari parigini che quest’ultimo acquisisse troppo potere
– Federico II di Prussia abbandonò l’alleanza. Conseguentemente, essendosi aperte delle crepe all’interno dello
schieramento alleato, la Francia dovette richiedere nuovamente aiuto agli spagnoli, stilando l’accordo di
Fontainebleau nel 1743, con il quale si stabilì che, alla fine della guerra, la Spagna avrebbe beneficiato dei ducati
di Mantova, Parma e Piacenza, i quali sarebbero andati al figlio di Elisabetta Farnese, Filippo. Il Ducato di Savoia,
dal canto suo, mediante gli accordi di Worms, contrattò con la coalizione austriaca.
Nel gennaio 1745 morì l’Imperatore Carlo VII: ancora una volta, il “partito della guerra” francese – ora guidato
dal Marchese d’Argenson – sostenne la causa del conflitto. D’Angenson aveva elaborato un piano molto simile
a quello del suo predecessore Chauvelin, un progetto “italocentrico”:

● Filippo Farnese, figlio di Elisabetta, avrebbe ottenuto la Savoia e la Sardegna; Carlo Emanuele III di Savoia
avrebbe ottenuto in cambio il titolo di Re di Lombardia;

● il ducato di Parma e Piacenza sarebbero andati in vitalizio a Elisabetta Farnese;

● il Granducato di Toscana si sarebbe Unito con il ducato di Modena in favore di Francesco III d'Este;

● Stefano di Lorena avrebbe ottenuto i Paesi Bassi.

La penisola italiana prevista da tale progetto sarebbe stata suddivisa nel modo seguente:

● 4 regni: Stato della Chiesa, regno di Napoli, regno di Lombardia, ducato unitario di Toscana-Modena;

● 2 repubbliche: Repubblica di Genova, e di Venezia

Tuttavia, per una serie di fattori, il progetto in questione si rivelò illusorio, utopico se non velleitario: primo
fattore fra tutti, la compenetrazione di più dinastie nella penisola non avrebbe di certo favorito la formazione di
uno Stato unito. In secondo luogo, le trattative delle diverse cancellerie vennero di fatto superate dal corso degli
eventi: il Piemonte sabaudo venne invaso dalle truppe francesi, mentre la Savoia aveva violato la neutralità della
Repubblica di Genova. In terzo luogo, la effettiva e concreta possibilità di un’intesa tra i prussiani di Federico II
e gli imperiali di Maria Teresa d’Asburgo avrebbe scompigliato il piano di Argenson, in quanto, agendo insieme,
le truppe austro-prussiane avrebbero creato non pochi problemi a quelle francesi.

La morte di Filippo V, nel luglio 1746, cui succedette Ferdinando VI, diede il colpo di grazia al progetto: quale
interesse poteva muovere Madrid e Parigi a cercare una sistemazione al figlio di Elisabetta Farnese, la quale orm ai
aveva lasciato la corte spagnola? Si avevano ormai tutte le condizioni possibili per giungere alla tanto agognata
pace – in particolar modo voluta dall’Inghilterra, timorosa di uno spostamento del conflitto nella vicina Olanda
(che avrebbe intaccato negativamente i propri traffici commerciali).

Nell’ottobre 1748 venne ratificata la pace ad Aquisgrana. Secondo tali accordi:

1. La Prussia avrebbe mantenuto il possesso della Slesia;

2. Il ducato di Milano sarebbe rimasto sotto l’egida asburgica;

3. Il ducato di Savoia avrebbe ottenuto qualche piccolo territorio nei dintorni di Novara;

4. Filippo Farnese-Borbone avrebbe ottenuto il ducato di Parma e quello di Piacenza;

5. Il Granducato di Toscana sarebbe rimasto in vitalizio a Stefano di Lorena, eletto imperatore nel
settembre 1745 in virtù del matrimonio con Teresa d’Asburgo;
6. L’Olanda avrebbe mantenuto i suoi territori al pari della Francia, né perdendo o guadagnando nulla;

Pace di Aquisgrana 1748

Alla metà del XVIII secolo, l’Europa e la penisola italiana avevano ormai assunto – più o meno – i profili e la
connotazione politica che avrebbero caratterizzato l’età contemporanea. Solo ora possiamo affermare con certezza
che il principio dell’equilibrio aveva di fatto trionfato. Di qui in poi, per almeno 50anni, l’Europa non visse
particolari sconvolgimenti politici. Sarà soltanto nel 1789 che, con l’avvento dell’epopea rivoluzionaria francese,
il Vecchio continente vivrà nuovamente una guerra. Frattempo, la guerra migrò nel Nuovo Continente, ove, di lì
a poco, sarebbero nati gli Stati Uniti d’America.

3 Miti ricorrenti: pace perpetua, “Società delle Nazioni”, principio d’equilibrio

La storia dei progetti di pace è una storia antica, ininterrotta, quasi a testimoniare un’aspirazione costante e
costantemente frustrata dalla “machiavelliana” realtà effettuale delle cose. È la storia di un progetto politico
irrealizzato e quindi pressoché utopica. Fino alla piena Età moderna, suddetta storia non vide tanto la creazione
di veri e concreti progetti, quanto piuttosto la creazione di appelli o proposte di pace circostanziate.

I primi progetti di pace generale nascevano all’interno della cultura politica dello Stato in quel momento
dominante o egemone nel consesso internazionale, pertanto, la pace altro non doveva fare che garantire l’ordine
europeo a vantaggio di quello Stato in particolare.

Ne è un esempio il progetto del conte di Sully – il cosiddetto Gran Dessein (grande disegno) – elaborato nei
primi anni del Seicento alla fine di mezzo secolo di interminabili guerre civili. Esistono due versioni del
progetto:
1. La prima versione del progetto, manoscritta, conteneva una concezione della pace coincidente con una
condizione internazionale di guerra perpetua contro gli Asburgo di Spagna e Austria, da cui sarebbe dovuta
nascere una ampia alleanza fra Francia, Inghilterra di Giacomo I, Olanda, Repubblica di Venezia, Stati
protestanti e Svezia, la quale avrebbe dovuto agire per smembrare tutti i domini asburgici, lasciando in vita
solo la Spagna, senza colonia e l’Impero disgregato in tanti Stati tedeschi indipendenti.

2. La seconda versione, stampata, era invece diretta a creare una Respublica Christianissima universale e
diretta a garantire la libertà di culto alle tre confessioni cristiane – cattolicesimo, luteranesimo e calvinismo
– e la libertà commerciale. Gli Stati costituenti la Respublica sarebbero stati 15 e sarebbero stati suddivisi in
diverse entità secondo caratteri istituzionali:
-Monarchie elettive (tra le quali erano presenti lo Stato della Chiesa e il regno di Polonia);
-Monarchie assolute (tra le quali figuravano la Francia, la Spagna, la Danimarca e l’Inghilterra);
-Repubbliche (ne figuravano tre: Confederazione Elvetica; Repubblica dei Belgi – comprendente Paesi
Bassi e provincie limitrofe – subordinata all’Impero; e in ultimo, la Repubblica ecclesiastica d’Italia –
comprendente gli Stati italiani ad esclusione del Napoletano, delle isole maggiori, ducato di Savoia-
Lombardia, Stato della Chiesa e Repubblica di Venezia – subordinata alla Santa Sede);

Questo progetto escludeva l’Impero ottomano e l’Impero russo. Da un punto di vista amministrativo, l’assetto
europeo sarebbe stato tutelato da un Consiglio Generale – composto da un numero di membri proporzionale alla
forza dello Stato – adempiente svariate funzioni: repressione della violenza; legislativa; tributaria ecc. Il
Consiglio Generale sarebbe stato coadiuvato da altri sei consigli, specifici per aree geografiche.

La realizzabilità di un progetto simile era, però, vincolata alle cessioni di molti territori da parte dell’Impero
asburgico.

Un altro esempio di progetto di pace generale fu quello elaborato da Emeric Crucé, monaco francese – il
Nouveau Cynée (da “Cinea”, il consigliere saggio e pacifico di Pirro) -, il quale prevedeva la creazione di una
“Società universale delle Nazioni”, alla quale avrebbero partecipato tutti gli Stati del mondo, senza distinzioni di
alcun tipo. Tale società avrebbe comportato la formazione di un esercito fornito dalle Nazioni stesse col compito
di reprimere le insurrezioni popolari: un progetto di stampo assolutista e monarchico.

Anche Ugo Grozio analizzò la questione della “pace perpetua” in ambito giuridico, risentendo dell’influenza del
Nouveau Cynée: nella sua opera – il De iure belli ac pacis – introdusse la possibilità di ricorrere a conferenze ed
arbitrati internazionali al fine di risolvere le controversie sorte tra gli Stati. Per di più, introdusse, altresì, le
prime norme di diritto internazionale marittimo.

William Penn, a differenza di Grozio, riprese progetto miranti ad ottenere la pace tramite l’unione degli Stati
europei. Nell’Essay toward the present and future peace of Europe, del 1693, teorizzò la necessità di istituire
una Dieta generale – composta dai delegati di ogni Stato – per uscire dallo stato endemico di conflittualità
europea. Veniva fissato preliminarmente il numero dei delegati a seconda della situazione economico-
finanziaria annuale e dell’estensione territoriale di ogni Stato. Compito dei delegati sarebbe stato quello di
fissare norme internazionali di comportamento e sanzionare – anche senza ricorso alle armi – gli eventuali Stati
trasgressori.

Direttamente correlato alla situazione internazionale post- Utrecht era poi l’insieme delle opere prodotte
dall’abate francese di St. Pierre, il quale progettò una realizzazione dell’ideale della pace perpetua – ma non
universale – alternativa sia al principio dell’equilibrio – da sempre “sbandierato” ad Utrecht, soprattutto dalla
potenza inglese – sia ai trattati di pace, in quanto fin troppo circoscritti a specifiche situazioni. Allora, l’unico
modo per garantire una pace perenne e “inattaccabile” era quello di creare una perpetua Unione tra tutti gli Stati
e le minime città libere d’Europa. Un’Unione europea composta da 24 Stati o gruppi di Stati, ciascuno
rappresentato da un solo deputato – indipendentemente dal peso economico e dalla forza ricoperta dallo Stato
considerato singolarmente -. La guerra sarebbe stata abolita e gli unici mutamenti territoriali consentiti
sarebbero stati i cosiddetti “scambi provvisori” e le acquisizioni matrimoniali. Veniva così data una sorta di
giustificazione alla mancata unificazione di Francia e Spagna nel 1700.

A proposito del principio dell’equilibrio, quest’ultimo rispondeva alla sfida lanciata dagli Stati europei – in
particolar modo dalla Francia del Re Sole – durante il Seicento. Lo si può sintetizzare nella formula della
“monarchia universale”: con tal principio si voleva condannare la politica di potenza perseguita dagli Stati, tesa
a generare devastazione, morte, saccheggi e violenze in nome dell’egemonia internazionale. Il principio
dell’equilibrio venne discusso dapprima in Inghilterra, dove, all’inizio del Settecento, innumerevoli libri,
opuscoli, pamphlets e giornali trattarono l’argomento: il principio costituiva la necessaria giustificazione alla
tutela delle scelte di politica estera inglese, la quale giovava di suddetto principio ogni volta che l’indirizzo
politico sfociava in tradimenti delle alleanze stipulate, accordi segreti ecc. Si tentò di conferire al principio una
caratterizzazione giuridica, tuttavia – ovviamente – tutti i tentativi perseguiti in tal senso fallirono.

In conclusione, i più magnanimi ed onesti ideali e le buone intenzioni cedevano continuamente il passo alla
concretezza e al cinismo delle cancellerie europee, aldilà di qualunque riflessione morale-giuridica-teleologica
perseguita precedentemente. La Storia è dinamica, concreta, incontrollabile e nulla può frenarla o bloccarla o
controllarla sulla base di un principio statico e puramente teorico come quello dell’equilibrio.

Capitolo 16 - Illuminismo

1 Premessa: concetto e metodo

L'Illuminismo è la tendenza metodologica a negare realtà non riducibili a comprensione razionale, ad


esempio realtà metafisiche. Esso viene erroneamente considerato un prodotto esclusivo della cultura borghese
europea che si realizza dapprima con la Gloriosa rivoluzione inglese prima, e poi definitivamente con la
Rivoluzione francese. Non solo molti esponenti illuministi erano aristocratici, ma gli stessi prodotti culturali
derivanti da questa tendenza metodologica nacquero in circoli esclusivi, in salotti sprezzanti del popolo e di
ogni possibile avversario.

Era dunque una cultura caratterizzata da grande lucidità critica e allo stesso tempo da attributi elitari e, molte
volte ,pregiudiziosi → era una cultura contraddittoria, che non riuscì ad annientare completamente i
metodi, le credenze e i valori di un intero periodo storico.
Risulta difficile anche inquadrare lo sviluppo e la diffusione dell'Illuminismo nei diversi Stati territoriali, a
causa delle matrici diverse di origine della corrente presenti all'interno di ciascuno di essi. Dal punto di vista
temporale, l'Illuminismo si sviluppò e si diffuse dal 1700 circa fino alla fine degli anni 70 del '700.

Jean-Baptiste d'Alembert (1717-83), autore insieme ad altri dell'Encyclopedie (1751), opera inquadrabile
come un riassunto, un sommario dell'intera formazione illuministica del '700, in questo scritto forniva
un elenco ragionato dei padri scientifici della cultura illuministica che andava da Galileo a Newton.
Quest'ultimo aveva dato dimostrazioni scientifica alle asserzioni fisico-astronomiche del primo: fisico ottico e
matematico, membro della Royal Society di Londra, quest'ultima volle pubblicare i 3 volumi di Newton
chiamati Philosophiae naturalis principia mathematica (1687), il cui il fisico inglese giungeva
all'enunciazione delle leggi sul moto e sulla gravitazione universale.
All'interno dell'opera veniva anche definito il metodo scientifico di studio dei fenomeni: spiegazione logico-
scientifica per ogni fenomeno naturale, prodotto da cause razionali e dunque indagabili. Alla
comprensibilità razionale del mondo fisico, si opponeva così la illogicità del mondo metafisico e con esso di
credenze e fedi religiose.

Voltaire (1694-1778) sottopone il metodo scientifico newtoniano (estremamente articolato e di difficile


interpretazione) a un processo di volgarizzazione, in modo che i principi base dell'Illuminismo si manifestino
in tutta Europa. Sebbene fosse francese, nelle sue due opere (Lettres sur les Anglois, 1733; Elementi della
filosofia di Newton, 1738) introdusse elementi e riflessioni nate durante la sua permanenza in Inghilterra, dove si
rifugiò per scampare all'arresto e al carcere: nella prima opera è presente un elogio delle istituzioni e della
società inglese, il quale si ricollegava alla filosofia naturale di Newton (→ non si potevano violare le leggi
fondamentali della natura). E così come per la natura, non si potevano violare neanche le leggi della società,
poiché essa stessa si basava sul modello della natura, nel quale a sua volta si manifestava la logica creatrice del
Creatore: rapporto tra creato (→ natura) e Creatore c'era, ma stava solo a rappresentare la distanza che si
interponeva tra i due.

Affermando ciò Voltaire rimaneva all'interno della posizione deista sviluppatasi in Inghilterra con Herbert di
Cherbury, che contrapponeva le religione positive ad una religione “naturale”, ossia una religione ridottasi a
credere indefessamente in Dio e all'immortalità dell'anima.
Per David Hume (1711-76), il rapporto Creatore-Natura non era necessariamente legato da una
relazione di causa-effetto, in quanto il modello naturale non presupponeva in alcun ambito la presenza
di un azione generatrice di un Creatore.

Vi era dunque un dissidio tra la concezione deistico-naturalista di Newton e Voltaire e l'antropologia delle
religione positive. La Natura, prodotta da Dio e quindi da una potenza generatrice logica, capace di essere
interpretata attraverso la ragione, costituiva un concetto essenzialmente benefico, positivo: essendo così
interpretata, la religione perdeva ogni origine teologica (poiché negando l'esistenza del male in natura, si
negava lo stesso peccato originario di Adamo). Le religioni antropologiche, come quella Cristiana e cattolica in
particolare, erano tutte invece basate sul dualismo tra bene e male, e il sacrificio di Gesù veniva
interpretato come il modo per salvare l'umanità dal peccato.

Un altro concetto affine e strettamente collegato all'elemento “Natura” è il c.d. Mito del buon selvaggio: se la
Natura era portatrice di frutti benefici, in quanto è essa stessa derivazione di un Dio “buono”, l'uomo, per
poter beneficare della sua portata provvidenziale ed essere felice, dovrà rimanere il più possibile a
contatto con essa, allo stesso modo degli uomini primitivi, i “selvaggi”, vissuti prima dell'era industriale.
Questa concezione venne soprattutto sostenuta dai missionari cattolici, come il domenicano Bartolomè de Las
Casas (vedi cap.3, par.3) che aveva esaltato la vita semplice e “naturale” dei popoli indigeni delle Americhe.

Altro pensatore illuminista illustre fu il barone di Montesquieu, che apparve sulla scena culturale europea nel
1721 pubblicando le Lettere persiane: incentrate su un dialogo immaginario tra due individui persiani esiliati
alla corte di Francia, essi criticavano aspramente i costumi tradizionali della corte francese (che per sineddoche
stava a rappresentare l'intera cultura europea) nella quale inganni, tradimenti e bugie erano all'ordine del giorno
e producevano continui conflitti e scontri politici. In Europa era la c.d. Ragion di Stato a comandare sui
sentimenti nobili e positivi di alcune personalità.

Il concetto di “Natura” veniva rivalutato anche in ambito scientifico, grazie al lavoro dello svedese Carlo
Linneo e del suo collega francese George Leclerc;

1) Linneo sistematizzò le scienze naturali nel suo Systema Naturae (1735) e procedette poi alla
classificazione delle specie animali e botaniche esistite fin allora;

2) Leclerc divenne un precursore dell'Evoluzionismo intuendo che la Natura non fosse sempre
stata uguale nel corso dei secoli, ma che invece fosse mutata in seguito a modificazione genetiche e
ambientali.

Così come la Natura era regolata da leggi fisiche e immodificabili, lo stesso valeva per la Società, che poteva
essere governata e compresa dall'uomo attraverso la comprensione delle leggi, derivanti dalla Natura, che la
regolano: l’economia e la scienza economica nacquero in tal senso come materie di studio che, se
comprese, avrebbero garantito una sicura evoluzione positiva della società umana nel suo complesso.
Nacquero dunque due nuove teorie economiche nella metà del Settecento:
❖ Fisiocrazia: ✓ soltanto la terra, adeguatamente coltivata e/o sfruttata attraverso il lavoro
manuale poteva garantire il sostentamento economico di una nazione (per questo i
fisiocratici condannavano i ceti sociali più alti, come l'aristocrazia e il clero, considerati
“oziosi” per il fatto che non si dedicavano al lavoro manuale, ma soltanto alle attività
finanziarie e/o intellettuali). Se da questo progresso sarebbero poi derivate disuguaglianze
sociali od economiche, questo risultato rientrava nell'ordine regolare della Natura. La
Fisiocrazia consisteva dunque in una teoria economica palesemente Illuminista connessa
strettamente alla Natura (→ la terra coltivata) intesa (in questo caso) come fonte di
progresso economico per uno Stato. Il suo più grande esponente fu François Quesnay;
❖ Liberalismo: ✓ teoria economica per la quale l'uomo deve essere lasciato libero di agire, dal punto
di vista economico, nel modo per lui più soddisfacente possibile (sempre rispettando i limiti della
legalità ovviamente). Se tutti gli uomini venissero lasciati liberi di agire, allora si raggiungerà un
risultato ottimale per la società intera. Lo Stato non deve intervenire nei processi economici insiti nei
rapporti fra gli individui della società, in quanto ciò significherebbe porre un freno, un limite, al
raggiungimento dell'interesse individuale, ma deve soltanto tutelare che gli scambi fra gli individui
avvengano in maniera corretta e non fraudolenta. È una teoria opposta al Mercantilismo: essa venne
per la prima volta introdotta nel 1776, in un opera dello scozzese Adam Smith (1723-90, Indagini
sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni).

2 La cultura politica dell’Illuminismo. Diffusione e limiti sociali

La concezione della natura, la scoperta delle sue leggi, il progresso continuo delle scienze fisiche e naturali
avevano sottratto alla natura il suo carattere misterioso, inquietante, superstizioso, con cui da sempre era stata
avvertita dall'umanità. Così ora il mondo naturale non era più un nemico del mondo trascendentale, metafisico:
anzi, la natura acquisì quei caratteri benefici che prima di essa venivano attribuiti a Dio. Si iniziarono a
diffondere i primi pensieri “atei” contrari alla religione→ secondo Jean Meslier, un prete francese, Dio non era
altro che un pretesto utile a perpetrare ingiustizie a vantaggio dei soli potenti. Per Adrien Helvetius (1715-71),
filosofo francese, la morale di una società viene plasmata dall'insieme dei soddisfacimenti individuali di ogni
essere umano, che è un organismo puramente fisico-materiale, privo di moralità a priori: si nega quindi l'idea di
una morale cristiana basata sui dettami biblici o evangelici. Come Helvetius, anche Paul d'Holbach (1723-89)
credeva nella presenza di una morale “utilitarista” in ogni uomo, che è un soggetto egoista, tendente a
perseguire i suoi interessi personali → Dio era soltanto un prodotto dell'ignoranza popolare, e la felicità era
terrena e materiale. Natura e Creatore sono visti in opposizione.

Se la natura viene però analizzata con un procedimento induttivo, ossia partendo dalla constatazione della
perfezione del Creato, è necessario, per completare il ragionamento, risalire alla presenza di un Creatore.
Questo è ciò che fece Voltaire esprimendo la convinzione che l'ordine naturale fosse stato progettato e
realizzato da un “qualcuno” per un fine, per uno scopo preciso, e questo “qualcuno” non era altro che Dio.
È la concezione affermata nel “Finalismo” ed essa permette di passare dal deismo seicentesco al teismo
settecentesco: se per il deismo è assolutamente indubbia l'esistenza di un “essere originario” ma esso non
può essere in alcun modo determinato (quindi si ritiene non essenziale qualunque forma di rivelazione
divina, ma l'esistenza di un Dio, di un Creatore, viene accettata a priori e non bisogna darne prova), per il
teismo il Creatore può essere determinato per mezzo del confronto con la natura, che è perfetta, e alla
quale dunque corrisponde un Creatore perfetto, cioè Dio (il Creatore quindi si rivela nella Natura).
Questa trasformazione concettuale viene descritta da Immanuel Kant nella Critica della ragion pura (1781).

Lo spostamento dal deismo al teismo non ebbe comunque effetti frenanti sulla violenta polemica anti-
religiosa diretta contro ogni confessione rivelata e in particolare contro il Cristianesimo. Sempre
Voltaire mette in atto un'opera di demolizione del Cristianesimo, considerata una religione intollerante,
che si è macchiata di crimini e inganni ad opera di inquisitori, teologi, missionari gesuiti per i quali
Voltaire invoca il bando dalla società civile.

Si denunciano le falsità e le contraddizioni presenti nei testi biblici. Era in corso una battaglia a favore della
tolleranza, tesa a condannare la concezione della coincidenza di società religiosa ↔ comunità statale e tesa
a desacralizzare lo Stato moderno.

Fattori diffusivi dell'Illuminismo

-La diffusione capillare dell'Illuminismo venne favorita da diversi fattori, tra cui, uno su tutti, l'aumento del
tasso di alfabetizzazione in tutta Europa: il libro diventò un bene ad ampio consumo sociale e la lettura un
hobby che sempre più persone praticarono. Il testo cardine della cultura illuminista può essere considerata
l'Encyclopedie, anticipata dalla Cyclopedia inglese dello scrittore britannico Ephraim Chambers.
L'editore di quest'ultima, Andrè Lebreton, commissionò la traduzione/produzione di un'opera analoga in
Francia a Denis Diderot, il quale decise di affidarsi a illustre collaborazioni per la redazione dell'Enciclopedia:
Quesnay per i termini economici, d'Holbach per le scienze naturali, d'Alembert per le scienze fisiche
matematiche.
La prima edizione uscì nel 1751 e conteneva un Discorso preliminare di d'Alambert, considerato un'importante
esposizione degli ideali dell'Illuminismo. L'opera subì diversi attacchi e censure ad opera degli ecclesiastici
(gesuisti e giansenisti in particolare) e soltanto nel 1765 si poté giungere all'edizione finale
dell'Enciclopedia, che ebbe un grandissimo successo, dentro e fuori la Francia.

-Altro fattore a favore della diffusione del pensiero illuminista fu lo sviluppo della stampa periodica:
quotidiani e gazzette. Sin dal primo '500, la presenza dei c.d. Avvisi manoscritti informava i lettori sui
maggiori eventi della città o su avvenimenti più generali. I manoscritti vennero poi sostituiti dalle copie
stampate. Solo nei primi anni del XVII secolo apparvero le prime vere testate giornalistiche (The Weekly news
nacque a Londra nel 1616; la Gazzette di Parigi 15 anni più tardi) che però pubblicavano articoli solo
saltuariamente. Il quotidiano infatti si avviò a diffondersi solo dal '700 in poi.

-Infine, l'attività e la stessa esistenza delle logge massoniche costituì un elemento di rilievo allo sviluppo della
cultura illuminista. Le prime società massoniche si pensa siano state fondate nel Medioevo, ai tempi delle
Crociate (la leggenda attribuisce l'origine della Massoneria all'Ordine dei Templari). In quanto volontariamente
avvolte dal mistero, potrebbe risultare agevole accomunare le associazioni massoniche ad associazioni
rivoluzionarie segrete;: niente di più sbagliato, in quanto la pratica massonica restò priva di concrete
articolazioni rivoluzionarie, non era difficile riscontrare la presenza in esse di ministri, intellettuali, capi di
Stato ecc., insomma di persone che all'integrità dello Stato tenevano e non avevano alcuna intenzione di
metterla a repentaglio. Fatto sta che la fitta trama di logge massoniche in Europa (al 1789 se ne contavano
più di 600 in Francia, mentre in Italia la prima venne fondata a Firenze dal conte di Middlex nel 1732)
contribuì alla circolazione dei principi illuministici tra cui il deismo, la tolleranza e il giusnaturalismo. Il
Papa e l'Inquisizione condannarono soventemente la formazione di associazioni segrete e i loro stessi
esponenti.

Limiti sociali

Il più grande limite sociale alla diffusione dell'Illuminismo era costituito dal suo elitarismo culturale: ai
salotti e ai caffè letterari partecipavano gli intellettuali, i burocrati, gli ufficiali, gli avvocati (la crema
della società del '700), ma ne erano esclusi coloro che appartenevano agli strati sociali più poveri.
Voltaire utilizzò questa evidenza storica come un modo per giustificare le disuguaglianze sociali ed
economiche della società (Mi sembra essenziale che vi siano dei pezzenti ignoranti; quando il popolo pretende
di ragionare tutto è perduto ). Kant credeva che chi entrasse a far parte dei circoli illuministi, uscisse dallo
stato di minorità che l'uomo deve imputare a se stesso.

Ma verso quali limiti si poteva spingere l'uso critico della ragione dinanzi all'erosione dell'ordine politico-
sociale? Fino al Contratto sociale di Jean-Jacques Rosseau (1712-1778) il pensiero politico illuminista si era
spinto al limite anti-assolutistico espresso da Montesquieu nell'Esprit de lois, pubblicato nel 1748 →
Montesquieu, presa consapevolezza delle diversità storico-politiche, elaborò una tripartizione delle 3 forme di
governo diffuse nel mondo (relativismo costituzionale):

1) Dispotismo: lo Stato era retto da un Tiranno, che governava in barba a tutte le leggi giuridiche e/o divine,
senza tener conto dei corpi intermedi sociali, quali l'aristocrazia, il clero, il Terzo Stato, ecc.;

2) Monarchia: vi è un Monarca a capo dello Stato, che basa il suo governo sul rispetto delle regole sociali e
di convivenza, e che si attiene anche alle richieste dei corpi intermedi sociali dello Stato;

1) Repubblica, a sua volta divisa in:

i. democratica: quando la sovranità risiede nell'intero corpo sociale;


ii. aristocratica: quando la sovranità risiede su una parte qualificata del corpo sociale.

Così come fece già John Locke (1632-1704) opponendosi alle affermazioni di Jean Bodin (secondo cui la
sovranità di uno Stato fosse indivisibile e assoluta e risiedesse nella sola persona del sovrano), e sostenendo
invece una distinzione tra il potere esecutivo, legislativo (il più importante) e federativo (il potere di agire
in politica estera), stessa tesi venne supportata da Montesquieu, anche e soprattutto per il fatto che gli ricoprì la
carica di presidente nel Parlamento di Bordeaux, ostile ad un indivisibile e assoluto potere monarchico.

C'è da notare che, fino ad ora, analizzati i pensieri di Locke e Montesquieu, il concetto di libertà politica
viene ancora inteso in relazione all'equilibrio istituzionale tra i poteri e non in relazione al popolo: in
questo sta il superamento radicale delle tendenze politico-ideologiche effettuato da Jean-Jacques
Rousseau con la sua speculazione, nel fatto che il cameriere francese (ebbene sì, Rousseau era un infimo
cameriere e per di più era sprezzante di tutto quel mondo ipocrita e fastoso rappresentato dall'Illuminismo
parigino) proiettò per la prima volta nel campo dell'ideologia e dell'analisi politica la nuova concezione di
sovranità e della libertà degli individui.
Andava rivista l'intera teoria contrattualista di Thomas Hobbes prima e poi di Locke e Montesquieu: per
Rousseau lo stato di natura è un mito irraggiungibile, una condizione irrecuperabile al tempo d'oggi.
Bisognava passare dallo stato di natura a uno Stato sociale che respingesse le spinte individualistiche
sopraffattrici, e per far sì che ciò avvenga non è utile invocare l'esistenza di diritti naturali inviolabili degli
uomini ( giusnaturalismo), né giustificare quegli istinti individuali riconoscendo la malvagità umana
(Hobbes) e non era utile neanche la distinzione dei poteri effettuata da Locke e Montesquieu.

Sono i cittadini e tutto il popolo che devono stringersi in un “patto sociale” volto a produrre una
“Volontà generale” assoluta, indivisibile e inalienabile, in quanto risiede solo nel popolo (Rousseau critica
dunque il sistema parlamentare inglese, fin allora ritenuto universalmente il sistema politico più avanzato del
globo). Rousseau ipotizzò che il suo modello di “Volontà generale” potesse divenire realtà nell'isola di Corsica,
dove i caratteri dell'isola (struttura economica esclusivamente agricola e povera, proprietà privata limitata e
prelievo in natura del tributo fiscale → la circolazione monetaria è dannosa in quanto corrompe gli animi)
avrebbero agevolato il compiersi della “Volontà generale”.

3 Questioni ecclesiastiche

Sebbene l'incontro tra i principi filosofici (e non) illuministici e i dogmi religiosi sia concettualmente
impossibile (in quanto i primi negavano i secondi), si è parlato del rapporto tra i due elementi definendolo
“Illuminismo cattolico”, che si pone come un tentativo di acquisizione di alcuni princìpi illuministici
dentro la religione cattolica senza che questa ne venisse corrosa ma che anzi potesse servirsene per
un'opera di semplificazione e di rafforzamento culturale.

In particolare, questa unione tra razionalità e fede si è concretizzata durante il pontificato di Papa Benedetto
XIV (1740-58), il quale si era formato nell'ambiente universitario ecclesiastico: egli provvide, non appena
nominato, a rafforzare lo studio delle discipline scientifiche e umanistiche all'interno dello Stato della Chiesa.
Commissionò la stesura della storiografia ecclesiastica al sacerdote modenese Antonio Muratori. Proprio in
quegli anni si riscoprì la Filologia, che era sempre stata considerata come una materia ostile alla tradizione
della Chiesa romana (basti pensare all'intervento di Lorenzo Valla che smascherò la presunta Donazione di
Costantino.): ora invece proprio il Muratori appellava alla sana critica nei confronti delle chiusure
dell'ortodossia e della storia dogmatica, in quanto la Chiesa non ha bisogno di menzogne, né ha paura della
verità.

A testimonianza del nuovo clima presente alla corte pontificia, si riproposero le opere di Galileo, tra cui
ovviamente il Dialogo sui due sistemi massimi sistemi (con annesso decreto di condanna). Nel 1757, la nuova
versione dell'Indice dei libri proibiti escluse la proibizione a danno dei libri contenenti esposizioni
eliocentriche. Oltre al Papa, anche alcuni tra i cardinali della corte si distinsero per l'apertura ai fondamenti
illuministi: cardinal Passionei (fece tramite tra Voltaire e il Papa Benedetto XIV per un lungo scambio
epistolare) e il cardinal Antonio Querini, il quale cercò di aprire ai legami tra cattolici e protestanti e venne
nominato prefetto della Congregazione dell'Indice.

Diverso fu invece l'atteggiamento nei confronti delle tensioni religiose interne. Ad esempio, la condanna del
Giansenismo, avvenuta con la bolla Unigenitus del 1713 (vedi cap.13, par.7) produsse, oltre al riconoscimento
esplicito della Chiesa cattolica come fede universale, la formazione di un fronte unito di anti-cattolici -
giansenisti e gallicani, illuministi-.
La situazione si infiammò per effetto dell'elezione a vescovo di Utrecht del giansenista Giovanni Meindaerts:
egli non fu riconosciuto da Roma, ma consacrato da un altro vescovo giansenista, il quale a sua volta consacrò
altri sacerdoti giansenisti; si era dunque formata una Chiesa scismatica (dal punto di vista dell'obbedienza
al pontefice, non dal punto di vista dottrinale), la “Chiesa di Utrecht” (1757). Peraltro, la comunità
giansenista di Utrecht rifiutò l'accettazione della bolla Unigenitus, subendo così la condanna.
Della questione se ne occupò Benedetto XIV, cercando di riconciliare i giansenisti con la Chiesa di
Roma.
La questione dell'obbedienza dovuta al Papa non rimase circoscritta alla “questione giansenista” di metà '700,
ma inerì anche le attività missionarie, in particolare quelle promosse e attuate dalla Compagnia di Gesù. Lo
sviluppo delle missioni cattoliche gesuitiche era stato grandioso, in particolare nel Medio e nell'Estremo
oriente. Il loro metodo missionario consisteva nella fusione delle pratiche e dei rituali liturgici cattolici
insieme ai rituali liturgici dei indigeni del posto. Il fondatore di questo metodo, Matteo Ricci (1552-1610), lo
diffuse soprattutto in Cina e in India, e diede risultati straordinari. Le notizie di questo proselitismo così
efficace raggiunsero l'Europa e anche gli altri Ordini religiosi, anch’essi impegnati nell'opera di
evangelizzazione; sicché nacquero le prime “invidie” che produssero la denuncia dei metodi di predicazione
gesuitici da parte degli altri Ordini , tra cui i francescani e i domenicani.

Della questione se ne occupò dapprima la Congregazione di Propaganda Fide e poi l'Inquisizione →


emissione della bolla Ex illa die del 20 novembre 1704, che proibiva i metodi di predicazione dei Gesuiti e
prevedeva la scomunica e l’interdetto per coloro che non si fossero adeguati al contenuto della Bolla. Fu
inviato in Oriente un legato (Ambrogio Mezzabarba) col compito di vigilare sulla cristianizzazione gesuitica e
infine si arrivò alla bolla di Benedetto XIV (Ex quo, 11 luglio 1742) in cui si pretese il rispetto della Bolla
da parte dei missionari.

In America Latina, al contrario dell'Asia, non si registrarono frenate per quanto riguarda l'evangelizzazione;
addirittura i Gesuiti, nella provincia del Paraguay, erano arrivati a creare uno “Stato nello Stato” basato sulle
c.d. Riduzioni (raggruppamenti territoriali di popolazioni indigene presso case e diocesi gesuite). Nei primi
anni del '700 si contavano sette Riduzioni, per un totale di circa 100.000 indigeni stanziati in un'organizzazione
semi-comunista potremmo dire oggi: auto-amministrazione, produzione in comune dei beni, che poi vengono
ripartiti fra le varie famiglie, e uso delle stesse abitazioni. Anche per questa struttura di colonizzazione
arrivarono critiche e censure, ma a decretare la fine di questa organizzazione non fu la propaganda ostile, bensì
un accordo commerciale sottoscritto a Madrid nel gennaio 1750 tra Spagna e Portogallo:

· (1° clausola dell'accordo): il Portogallo cedeva alla Spagna i suoi territori nell'arcipelago delle Filippine in
cambio delle regioni del Rio delle Amazzoni e del Mato Grosso;
· (2° clausola dell'accordo → spostamenti territoriali): la Spagna otteneva la regione settentrionale del Rio
della Plata, il Portogallo la regione ad est del Rio Uruguay.

Lo spostamento di un gran numero di persone e beni provocò disordini e tensioni → si arrivò agli scontri tra le
tribù indigene e i nuovi colonizzatori, che nel giugno 1752 provocarono circa 1300 morti tra spagnoli e
indigeni. Molti nativi si rifugiarono nelle foreste circostanti. Le notizie di questi incidenti si aggiunsero a
quelle provenienti dall'Estremo oriente che delineavano un Ordine religioso riottoso dell'obbedienza e ostile
all'autorità papale.

Questo clima anti-gesuitico era molto sviluppato in Francia, la patria dell'Illuminismo. Addirittura fu accusato
l'intero ordine gesuita per un attentato (1757) al re Luigi XV effettuato da un individuo che 20 anni prima
aveva militato nell'Ordine. Fu dunque istituito una sorta di Vicario generale che avrebbe dovuto controllare le
attività dell'Ordine ai quali membri si richiese l'accettazione del gallicanesimo e la condanna esplicita delle
teorie monarcomache (cap.9, par.4). In alternativa si pensò di secolarizzare l'Ordine, subordinandolo ai
vescovi gallicani, ma la decisione del Parlamento di Parigi (agosto 1762) di considerare incompatibile con
la Chiesa Gallicana la Compagnia di Gesù aprì la strada alla loro espulsione (dicembre 1764).

In Spagna la situazione inizialmente era diversa: le compagnie gesuite erano fortemente radicate nei territori
castigliani, ma con il trono di Carlo III (1759-88) la situazione cambiò radicalmente.
Proveniente dalla rigorosa corte del regno napoletano, emanò nel 1769 una Prammatica Sanzione che
rendeva immediatamente eseguito ogni provvedimento proveniente da Roma, compresi quelli anti-
gesuiti.
La soppressione della Compagnia di Gesù avvenne con il Pontificato di Clemente XIV: le wepressioni
diplomatiche attuate dall'ambasciatore spagnolo inviato da Carlo III, Josè Monino, diedero i frutti sperati →
nel settembre del 1772 si ottenne dal Papa la prima bozza di un “breve” (documento pontificio) atto a
sopprimere la Compagnia.
Il documento di soppressione, Dominus ac Redemptor, giustificava la soppressione della Compagnia
sottolineando la disubbidienza dell'Ordine nei confronti dei richiami papali. Si ricordava come già Filippo
II di Spagna avesse protestato con Sisto V (1585-90) per il comportamento di alcune compagnie coloniali. Così
l'esecutività del breve (agosto 1773) previde il licenziamento dei novizi che non avevano ancora
professato i voti, la confisca dei beni dell'Ordine a scopi caritatevoli e assistenziali e l'arresto dei
maggiori componenti, tra cui il padre generale Lorenzo Ricci. La Compagnia però venne poi riabilitata nel
1814, da Papa Pio VII (1800-23).

Capitolo 17 - L’indipendenza delle colonie americane

1 Questioni coloniali e politica europea: la guerra dei Sette anni

La guerra dei Sette anni può essere considerata come la prima guerra mondiale, essendo stato l’avvenimento in
cui per la prima volta degli eserciti europei – francesi e inglesi – si affrontarono non solo in Europa, ma anche in
America e Asia, affiancati da truppe “coloniali”. Le sue più importanti conseguenze si ebbero nelle colonie e –
ultimo ma non meno importante – determinò la nascita degli Stati Uniti d’America, una delle entità statali più
importanti della storia contemporanea.

A metà del XVIII secolo, lo stato dei rapporti franco-inglesi nel sub continente indiano si presentava assai
precario. L’inglese East India Company, compagnia privata, soppiantò progressivamente le altre compagnie
presenti nel territorio: dapprima la compagnia portoghese e successivamente quella olandese. Nella stessa
regione agiva la Compagnie des Indes francese. Quest’ultima fu amministrata fino al 1743 dal Fleury – in
ragione del suo moderatismo, possiamo comprendere come, almeno sino alla sua morte, i rapporti politici tra
Francia ed Inghilterra, anche nelle colonie, fossero buoni –, al quale succedette Joseph Dupleix (1697 – 1713)
che riuscì in momento economico critico per la Compagnie a gestirla dinamicamente e in maniera disinvolta. Le
competenze della compagnia, con la gestione di Dupleix, si ampliarono oltre quelle legate al commercio
marittimo. Inoltre, alcune basi portuali divennero dei punti di partenza per una penetrazione interna al territorio
– ottenuta guadagnando influenza sui locali governatori indiani – e il suo successo fu segnato dall’incarico
ottenuto dalla compagnia francese di riscuotere le imposte fondiarie.

Le immediate ed analoghe misure intraprese dalla compagnia inglese portarono agli scontri militari: i primi si
registrarono nella base inglese di Madras (1748) e proseguirono fino agli anni ’80 del 1700. La pace di
Aquisgrana sottoscritta in Europa non riuscì ad appianare i rapporti franco-inglesi in India, di fatto lo scontro
continuò protraendosi.

In quegli stessi anni, una tensione politico-militare analoga tra Francia e Inghilterra si determinò anche
nell’America settentrionale. A nord del Golfo del Messico si estendevano i possedimenti coloniali francesi –
dalla Louisiana (Nuova Orléans) alle distese ghiacciate del Canada. I possedimenti costieri orientali – da nord a
sud, dalla Baia di Hudson alla Florida spagnola – facevano parte del Commonwealth inglese.
I primi scontri coloniali - la cosiddetta Guerra franco-indiana - si erano avuti nella regione dei Grandi Laghi
e lungo la valle dell'Ohio, in concomitanza alla manifestazione di volontà francese di voler unire, con una
grande via di comunicazione, la Luisiana al Canada.

C’è da ricordare che le colonie in generale avevano per i colonizzatori francesi un ruolo puramente sussidiario –
in particolare le colonie d’America dato il ridotto introito economico che fornivano rispetto alle Indie orientali e
occidentali –. A differenza dell’atteggiamento francese, quello inglese si contraddistingueva per una grande cura
ed attenzione economica – di pieno sfruttamento -, tant’è che l’Inghilterra non si faceva di certo problemi ad
intervenire ove necessario se si presentavano minacce di qualsiasi tipo. Proprio in ragione di ciò, la guerra
coloniale franco-inglese era ormai inevitabile e si intrecciò ai problemi del vecchio continente.

Favorita dalla sua potentissima flotta, l’Inghilterra – ormai Regno di Gran Bretagna dal 1707 dalla fusione tra
Inghilterra, Galles e Scozia in un unico grande Stato - in mare non aveva rivali, ma sulla terraferma, il suo
esercito non era in grado di misurarsi con gli avversari lì presenti. Per terraferma intendiamo l’Europa: poiché
dal 1714 il trono inglese era stato occupato da sovrani della casata di Hannover - [Giorgio I (1714-27); Giorgio
II (1727-60); attualmente Giorgio III (1760-1820)] – prima di intraprendere una guerra, gli inglesi dovevano
esser certi della vittoria e avere garanzie giuridiche volte a difendere il principato hannoveriano.

1.1. |Cause della guerra, diplomazia segreta e nuove alleanze|

Gli Schieramenti agli inizi della Guerra dei Sette anni (1756-1763)
In Europa venne messa in moto una trama di alleanze segrete che si protrasse per quasi un anno. Le maggiori
potenze europee parteciparono – Gran Bretagna, Prussia, Austria, Francia e Russia -, producendo risultati
impensabili fino ad allora.

Dapprima, nell’Austria dell’Imperatrice Maria Teresa d’Asburgo (1740-80) – rimasta scottata dalla perdita della
Slesia, la quale in virtù del Trattato di Aquisgrana del 1748 era passata alla Prussia di Federico II – in quegli
anni stava emergendo la figura del diplomatico e poi cancelliere austriaco, Wenzel von Kaunitz (1711-94), il
quale sapientemente avvertì che la globalizzazione economica e le guerre coloniali stavano mutando i
tradizionali schieramenti politici, basati solo sulle guerre europee e di terraferma: infatti, per oltre duecento anni
– dai tempi di Francesco I e Carlo V - Francia ed Impero asburgico si erano affrontati per l’egemonia europea.
Ma i tempi erano ormai cambiati: per poter riconquistare la Slesia e poter mettere in crisi la potenza
imperialistica inglese era necessario agli Asburgo raggiungere un accordo con gli eterni nemici transalpini, da
sempre timorosi di una possibile tenaglia asburgica in ragione del fatto che proprio gli Asburgo – basti pensare
alle vicende di Carlo V – li avevano assai indeboliti. Sebbene timorosi di stringere accordi con il nemico storico,
grazie alle trame e ai vantaggi della diplomazia segreta, Luigi XV (1715 -1774) e il cancelliere von Kaunitz –
quest’ultimo aiutato dall’amante del sovrano, la Marchesa di Pompadour (1721-64), nonché grazie alla
mediazione dell’abate Joachin de Bernis, legato al circolo della Marchesa – stipularono a Versailles la nuova
ed inaudita alleanza franco-austriaca il 1° maggio 1756.

Luigi XV, seppur restio, accettò e si arrese alle pressioni austriache, considerando il fatto che gli inglesi aveva
causato non pochi danni in Asia e nell’America settentrionale con le loro violente incursioni piratesche. A
maggior ragione del fatto che gli austriaci avrebbero provveduto ad aiuti considerevoli al fine di far eleggere re
di Polonia un sovrano di origine francese.

Gli inglesi, pochi mesi prima di Versailles, stipularono un’alleanza con la Prussia di Federico II – Trattato di
Westminster (16 gennaio 1756) e si accordarono con la Russia della Zarina Elisabetta (1741-62) con la
Convenzione di Pietroburgo. Tuttavia, proprio il nuovo accordo anglo-prussiano destò sospetti nella Zarina
Elisabetta, la quale convenne che, in questo modo, la Prussia avrebbe potuto espandersi ad est ai danni della
Polonia, minando gli interessi russi in quella regione. La questione si tramutò in un rovesciamento di alleanze:
la Russia passò dalla parte franco-austriaci, portando con sé Svezia e Polonia.

Si erano così formate le coalizioni della “Guerra (mondiale) dei Sette anni”

1) Inghilterra-Prussia;

2) Austria-Francia-Russia-Polonia-Svezia

Da notare come la Prussia, con tale sistema di alleanze, si trovasse accerchiata su più fronti: a sud dall’Austria;
a sud-ovest dalla Francia, a nord dalla Svezia ed infine, a est dalla Polonia e dalla Russia. Inoltre, poteva di fatto
contare su di un alleato – la Gran Bretagna - non fisicamente presente sul continente europeo. Proprio la Prussia
di Federico II, ben consapevole di questo accerchiamento, dette inizio alle operazioni belliche.

1.2. |Conflitto: svolgimento e conseguenze|


Federico II invase la Polonia nell’agosto del 1756 determinando il contrattacco delle truppe francesi, le quali
invasero l’Hannover: qui i francesi imposero la Convenzione di Closterseven, la quale impediva ai soldati
tedeschi di riarmarsi dopo la sconfitta, pena la morte.

Al seguito del segretario di Stato per la Marina, Jean Maurepas, nei mari, la flotta francese sconfisse quella
inglese, recuperando Minorca. Sebbene la coalizione austro francese stesse ottenendo ottimi risultati, questi
ultimi vennero vanificati dalle rivalità in seno alla corte: il maresciallo d’Estrees, vincitore dell’Hannover,
venne sostituito al comando dal duca di Richelieu, il quale – per motivi di prestigio - si rifiutò di fondere le sue
truppe a quelle di un altro comandante, il principe di Soubise. Tali debolezze interne non fecero altro che
minare l’efficacia coordinativa degli eserciti transalpini: nel novembre del 1757 a Rossbach e nel dicembre
successivo a Leuthen, i soldati prussiani sbaragliarono le armate francesi, nonostante i rapporti di forza in seno
al conflitto favorissero proprio i francesi. Esaltati dalle vittorie, i soldati prussiani dell’Hannover violarono la
Convenzione impostagli dai francesi qualche mese prima, riarmandosi e potendo così scacciare gli austro-
francesi.

Frattempo, la flotta inglese estese il conflitto alle colonie francesi, attaccandole e occupandone i porti: vennero
conquistate le Antille francesi, molte roccaforti canadesi e il Senegal.

Sulla terraferma, Berlino venne assediata e conquistata dagli austro-russi nell’ottobre del 1760. Due anni dopo
(1762) anche la Spagna sopraggiunse al conflitto grazie all’ambasciatore francese, Francois de Choiseul, per
riuscire a contrattaccare gli inglesi nella guerra coloniale.

La guerra volse al termine a seguito di due accadimenti in particolare: in primo luogo, nell’ottobre del 1761, il
ministro della Guerra inglese, William Pitt, si dimise. Dopo aver stipulato l’alleanza con la Prussia, aver
intrapreso l’estensione del conflitto nelle colonie – Cuba e Martinica furono le ultime conquiste coloniali
inglesi in questo conflitto – e aver conquistato il Canada si ritenne soddisfatto del suo operato ma stanco della
guerra in Europa. In secondo luogo, la successione al trono imperiale russo – a seguito della morte della Zarina
Elisabetta – di Pietro III (gennaio 1762, morto però 6 mesi dopo), filoprussiano, rappresentò un vero e
proprio miracolo in casa Brandeburgo, poiché la Prussia stava ormai per arrendersi in quanto circondata su due
fronti.

Si giunse agli accordi di pace nel febbraio del 1763, e così come due erano state le guerre (parallele), due furono
le paci:

1. il 10 febbraio 1763 Francia, Inghilterra e Spagna sottoscrissero la Pace di Parigi, la quale sancì
che:

- la Francia avrebbe perso l’intero Canada e tutta la valle dell’Ohio – a est del Mississippi -, il
Senegal, gran parte dell’Indocina e l’isola di Minorca che sarebbero andati alla Gran Bretagna.
Si vedeva però tornare le Antille;

- L’Inghilterra avrebbe ottenuto i possedimenti coloniali francesi, la Florida dalla Spagna in


cambio dell’isola di Cuba ed avrebbe lasciato le Antille ai francesi;
- La Spagna avrebbe ottenuto la Louisiana francese fino al 1801 oltre alla riconsegna di Cuba;

2. Il 15 febbraio 1763 Austria e Prussia sottoscrissero la Pace di Hubertstuburg, la quale sancì che:

- l’Austria avrebbe rinunciato definitivamente alla Slesia, non perdendo altri territori;

- La Prussia non avrebbe rivendicato il trono imperiale e avrebbe favorito l’elezione del figlio di Maria Teresa
d’Austria, Giuseppe d’Asburgo-Lorena;

La Russia e la Svezia si disimpegnarono dal conflitto con i trattati di pace firmati nella primavera del 1762 con
la Prussia. La Polonia – forza minore nel conflitto – fece da mediatrice nella Pace di Hubertsturburg (con
Augusto III di Sassonia, re di Polonia, nelle vesti di ambasciatore tra le parti).

Vera vincitrice del conflitto fu la Gran Bretagna che, come visto negli accordi di pace – si estese ampiamente
nelle colonie.

Ad ogni modo, l’alleanza franco-austriaca, seppur rivelatasi fallimentare, non fu sciolta, piuttosto rafforzata dal
matrimonio (1770) tra Maria Antonietta – figlia di Maria Teresa d’Asburgo – e l’erede al trono francese,
Luigi XVI, il quale, di lì a 20 anni avrebbe, assieme alla moglie, condannato la Francia ad anni di furiosi
sconvolgimenti rivoluzionari.

2 Le colonie inglesi d’America

Le Tredici Colonie americane prima della Guerra di Indipendenza

Le colonie americane – tra cui, da nord a sud, Massachusetts, New Hampshire, Connecticut, Pennsylvania,
Virginia, Georgia ecc. – non erano unite fra loro da nessun vincolo politico, economico, giuridico né
tantomeno etnico-religioso. Piuttosto, la loro storia si caratterizzò, il più delle volte, da conflitti fra loro stesse e
le popolazioni provenienti da zone ed aree diverse dell’Europa e del mondo. Presentando, la fascia costiera delle
colonie, una tripartizione economica da nord a sud, era possibile individuare nella fascia settentrionale – detta
New England - quelle colonie dedite alle attività commerciali e cantieristiche-navali. Nella fascia centrale,
invece, quelle che prediligevano l’agricoltura come la Pennsylvania, la quale era una pianura grande quanto
l’Inghilterra; mentre nella fascia meridionale – egemonizzata da piantagioni di riso e di tabacco – quelle
colonie dove migliaia di schiavi neri, provenienti dalle colonie africane inglesi, venivano sfruttati. Nella fascia
interna al continente nord-americano, ove si estendevano ampie pianure, vivevano gli indiani d’America – i
cosiddetti pellerossa – i quali si scontravano sovente con gli europei che provassero a penetrare aldilà dei Monti
Appalachi. Proprio tra il 1763 e il 1766, i pellerossa, riunendosi in una grande confederazione di tribù – tra le
quali ricordiamo i Sioux, i Cheienne, gli Apache, i Navaho e altre – diedero filo da torcere ai colonizzatori
europei.

La popolazione coloniale si attestava sui due milioni di abitanti nel 1763, della quale i 2/3 dei bianchi erano
inglesi e più di 500.000 neri lavoravano nelle colonie al sud. Un particolare aspetto demografico delle colonie
americane era il seguente: la popolazione bianca era pressocché concentrata in base a raggruppamenti religiosi
omogenei – i puritani si erano concentrati nella fascia settentrionale, in particolare nel New England, i cattolici
nel Maryland e i quaccheri in Pennsylvania. Oltre alle tensioni di carattere socioeconomico si aggiungevano le
tensioni di carattere religioso, le quali contrapponevano i latifondisti del sud contro i grandi imprenditori del
nord.

Dal punto di vista giuridico, le colonie presentavano radicali diversificazioni, tanto nel rapporto con la
Madrepatria, quanto negli organi di amministrazione autonoma. In comune avevano soltanto un’origine
territoriale nel demanio della corona e il relativo documento di concessione regia, il quale conferiva diritti di
sfruttamento e di auto-organizzazione. Le colonie potevano esser tripartite in:

1. Colonie regie, entità territoriali si sovranità diretta della corona, ove le istituzioni locali, pertanto,
dipendevano dalla volontà del re. La loro origine è riconducibile alle concessioni reali di terre a favore delle
Compagnie commerciali;

2. Colonie di proprietà, così denominate in quanto nate a seguito della concessione regia della cosiddetta
Patente regia ad un unico proprietario privato – ne è un esempio la Pennsylvania di William Penn;

3. Colonie incorporate, così denominate a seguito della concessione della Patente regia ad un gruppo di
coloni preesistenti;

Sorte più spesso come “colonie di proprietà”, la volontà di accentramento inglese iniziò a manifestarsi nella
progressiva trasformazione giuridica di questo tipo di colonie in quelle regie: nel 1763, il Maryland, la
Pennsylvania e il Delaware erano le uniche colonie di proprietà e il Connecticut e Rhode Island le uniche
colonie incorporate, tutte le altre erano colonie regie. Intuibile pensare che nelle colonie incorporate fosse più
acuto e radicato un sentimento di indipendenza. La Pennsylvania – tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII
secolo – subì un’involuzione democratica: nel 1682 fu emanato il Frame of Government – una costituzione
locale -, il quale istituì un’Assemblea elettiva con diritto di voto solo per i proprietari terrieri e garante della
libertà di coscienza e di culto per tutti. Successivamente, nel 1701, con il medesimo documento si restrinse il
diritto di voto: si decise di riconoscere al proprietario della colonia il diritto di scegliere il governatore e di
assegnare le terre. Tale evoluzione-involuzione istituzionale produsse tensioni sociali tali da spiegare la scarsa
partecipazione della Pennsylvania al processo di indipendenza.

La struttura istituzionale delle colonie americane prevedeva un governatore, il quale poteva esser nominato dal
sovrano o dal proprietario a seconda che si trattasse di colonie regie o colonie di proprietà (o nominato dalle
assemblee locali nelle colonie incorporate). Il governatore generalmente era rappresentante della corona inglese,
a capo dell’esecutivo e delle forze armate. Poteva provvedere allo scioglimento dell’Assemblea elettiva, porre il
veto alle norme emanate da quest’ultima e aveva il potere di nomina dei funzionari nell’ambito giurisdizionale e
finanziario. Era altresì previsto un Consiglio – composto da membri nominati dal re o dal proprietario - il quale
coadiuvava il governatore nell’amministrazione coloniale. La competenza legislativa spettava all’Assemblea
elettiva – o anche Assemblea dei deputati -, la quale era espressione delle singole comunità coloniali. Ciascun
possedimento presentava una propria legislazione elettorale e un proprio diritto di voto che, sia per censo sia in
base alle proprietà fondiarie, poteva essere limitato.

Dunque, la direzione politica delle colonie veniva mantenuta dalle tradizionali élites inglesi.

Tuttavia, il progressivo affermarsi delle Assemblee in quel contesto non può non esser letto come segnale di una
spinta economico-sociale dei nuovi ceti emergenti, i cui interessi non erano di certo salvaguardati e rappresentati
dal governatore né tantomeno dal Consiglio. Si ebbe anche in ambito coloniale quel percorso che il Parlamento
intraprese in Inghilterra: diventare le nuove istituzioni rappresentative dei ceti emergenti. Tali Assemblee –
sebbene esercitassero il loro potere rappresentativo solo nelle colonie – si consideravano sempre più svincolate
ed indipendenti dall’autorità parlamentare inglese, soprattutto in ambito fiscale e legislativo, benché l’intervento
della Madrepatria fosse ritenuto giuridicamente legittimo. In tale alterazione politico-istituzionale del sistema
giuridico di “delega originaria” – operata dalle Assemblee elettive delle colonie a seguito della spinta
economica – sta la crisi del rapporto tra la Madrepatria inglese e le colonie americane.

3 Imposizioni fiscali, autonomia, indipendenza

La fine della Guerra dei Sette anni coincise in Inghilterra con l’avvento di una grave depressione economica,
causata proprio dall’impegno bellico. Le autorità inglesi – per far fronte alla crisi – posero l’attenzione sulla
rigogliosità economica delle colonie americane in modo diverso rispetto al passato – un passato che aveva visto
inglesi e coloni combattere assieme nella lotta contro i pellerossa e contro i francesi –. Guardando con sospetto
l’exploit economico americano, il quale probabilmente era frutto di attività commerciali nascoste o di
contrabbando, occultate agli occhi della Madrepatria, decisero di rimodulare il rapporto di controllo politico-
economico fino ad allora esistente nelle colonie americane, inasprendo i tributi e la presenza militare.

Tra 1763 e il 1765, George Greenville, primo ministro, concretizzò gli effetti di questo mutamento nei
rapporti Madrepatria-colonie in delle misure vessatorie:

· La Proclamation line, ordinanza del sovrano, impose ai coloni di interrompere la marcia verso ovest e
di bloccare la colonizzazione fino ai Monti Appalachi;
· Con il Sugar Act vennero imposti dazi sui prodotti di importazione, quali lo zucchero, il caffè, i tessuti e
i vini;

· Il Currency Act vietò l’emissione di carta moneta alle colonie;

· Lo Stamp Act impose un’imposta sull’acquisto di giornali e periodici, oltre che sugli atti legali;

· Il Quartering Act stanziò un esercito di 10.000 soldati nelle colonie ed impose a queste ultime di
provvedere alla sua manutenzione – a tal proposito, è il caso di chiedersi come mai, col Canada in mano
agli inglesi, questi ultimi volessero stanziare un contingente militare di tale portata, se non per ragioni di
controllo sulle colonie?

Questa serie di atti non poté far altro che accrescere il malcontento tra i coloni, i quali – altamente alfabetizzati –
trovarono una sorta di valvola di sfogo nella pamphlettistica di protesta e nelle discussioni assembleari. In una di
queste ultime, intervenne un deputato del Massachusetts, James Otis, invocando il famoso principio politico del
“No taxation without representation” (Nessuna tassa senza rappresentanza), volendo sottolineare il fatto che se
gli inglesi volevano veder pagare le tasse da loro imposte, avrebbero dovuto garantire ai coloni degli istituti
rappresentativi in grado di incidere significativamente sulla vita nelle colonia, soddisfacendo gli interesse di
coloro che appunto dovevano rappresentare. I deputati più conservatori – in particolare il deputato tory, Soame
Jenyns con l’opuscolo Objections to the taxations of our American colonies - risposero a tale appello sostenendo
la rappresentanza “virtuale” delle colonie nel Parlamento inglese, e cioè sostennero il concetto rappresentativo
parlamentare contemporaneo degli interessi generali dello Stato.

La scintilla insurrezionale è ascrivibile ad un equivoco venutosi a creare nella Virginia del tempo, ove un
deputato radicale, sir Patrick Henry, propose all’Assemblea dei deputati due risoluzioni, di fatto, estremamente
anti-inglesi: in primo luogo, propose il riconoscimento del diritto esclusivo di ripartire i tributi. In secondo
luogo, propose la condanna di chi si fosse opposto a tale provvedimento. Entrambe le istanze vennero
inizialmente approvate dall’Assemblea elettiva, tuttavia, in una seconda seduta assembleare vennero abrogate.
La stampa non fece in tempo a modificare la notizia che il giorno dopo sembrò che la colonia avesse intrapreso
un’iniziativa indipendentista sul piano legislativo. La reazione popolare fu immediata: divamparono proteste
nelle piazze e si diffusero incidenti anti-inglesi al seguito dei Sons of liberty (circoli radicali). Alla riunione
dello Stamp Act Congress i rappresentanti delle colonie americane – esclusi i rappresentanti della Virginia,
della Georgia, del New Hampshire e del North Carolina che non si presentarono – ribadirono il No taxation
without representation, stipulando un accordo inter-coloniale che prevedeva di non importare le merci inglesi
così da premere sulla Madrepatria.

Intanto, a Londra, il gabinetto vide l’avvicendarsi di Rockingam, whig, il quale si oppose allo Stamp Act
promulgato dal suo predecessore Greenville. L’atto venne abolito in seduta parlamentare nel febbraio del 1766.
Tuttavia, tale concessione rivelò la falsità del nuovo primo ministro, in quanto venne approvato il Declaratory
Act, con il quale il Parlamento inglese dichiarò ufficialmente la propria competenza legislativa in tutti gli affari
coloniali. Conseguentemente, si produsse una serie di provvedimenti legislativi volti a inasprire le entrate fiscali
e il controllo territoriale sulle colonie. Dai Townshend Acts – proposti dal cancelliere Charles Townshend–
derivarono:

· La tassa sulle importazioni nelle colonie americane di diversi prodotti (Revenue Act);

· L’Indemnity Act, il quale rendeva il thè inglese un prodotto più competitivo negli scambi commerciali
rispetto al thè olandese, il quale era diventato un bene di contrabbando nelle colonie;

· L’istituzione a Boston di un ufficio doganale non sottoposto al controllo delle autorità locali con il
Customs Collegting Act, il quale, per di più, consentiva ai giudici britannici delle Corti di Giustizia di
delegare funzionari doganali al fine di perquisire abitazioni private e sequestrare merci;

· La sospensione dell’Assemblea elettiva di New York in quanto si rifiutò di approvare il Quartering Act.

Successivamente giunsero nuove reazioni offensive dalle colonie: l’Assemblea del Massachusetts invitò tutte le
colonie a ribellarsi ed unirsi a difesa delle libertà repubblicane. Ma, sebbene avesse un alto valore simbolico,
suddetta dichiarazione rimase, al 1766, puramente teorica.

Il 5 marzo 1770, nella città di Boston, truppe regolari inglesi di stanza, acquartierate per far rispettare i
Towsheds Acts, spararono su dei manifestanti disarmanti, imprimendo la morte di 5 persone – il fatto è
conosciuto come Massacro di Boston -. Poco dopo, il neo primo ministro Frederick North ritirò i
provvedimenti: sembrava che le colonie avessero vinto ancora e che avessero proceduto in avanti sulla strada
verso la libertà. Tuttavia, a distanza di 3 anni, la situazione non era affatto cambiata: nel marzo 1771, le gravi
difficoltà economiche della East India Company portarono al Regulating Act, il quale sancì l’affidamento del
monopolio commerciale del thè nelle colonie americane alla Compagnia. In questo modo, vennero tagliati fuori
i commercianti americani che fino ad allora avevano giovato dell’ampio e fruttuoso giro d’affari in questione.
Per l’ennesima volta, i coloni subirono un provvedimento che li danneggiava e, in ragione di ciò, non videro
altra soluzione se non quella di passare ai fatti: il 16 dicembre 1773, i cittadini di Boston assaltarono un
mercantile inglese della East India Company e ne distrussero le casse di thè, gettandole in mare (evento
ricordato come Boston Tea Party). Il sovrano inglese, Giorgio III, ordinò la chiusura del porto di Boston e
successivamente, nel maggio 1774, emanò i Coercive Acts, i quali sancirono la sottrazione dei poteri di
autogoverno al Massachusetts, affidati a funzionari regi. In risposta, i coloni procedettero alla creazione dei
Comitati di corrispondenza, attivi al fine di mantenere l’unità di intenti delle colonie. Il 5 settembre 1774, i
Comitati di corrispondenza si riunirono a Filadelfia nel I Congresso Continentale. La partecipazione di 55
deputati testimoniò il fatto che ormai si fosse di fronte non tanto ai rappresentanti di una somma di
organizzazioni politiche differenti, quanto più ai rappresentanti della libertà dei sudditi coloniali d’America.

La bocciatura – seppure per un solo voto – della proposta moderata di unire la potestà legislativa dei Parlamenti
– rispettivamente d’Inghilterra e d’America – in un’unica sezione legislativa, comune ad entrambe le regioni,
pose in evidenza l’equilibrio in seno alla bilancia delle forze moderate e radicali. Nonostante Giorgio III
continuasse nella sua opera di rifiuto di ogni possibile ed eventuale compromesso con i coloni – ricordiamo che
nel novembre 1774 il sovrano ordinò al generale Gage, di stanza a Boston, di organizzare l’offensiva militare al
fine di riprendere il controllo sul Massachusetts – questi ultimi, riunendosi per il II Congresso Continentale, nel
maggio 1775, tentarono un ultimo approccio compromissorio con la Madrepatria: The Olive Branch Petition
(Petizione del ramo d’ulivo) ribadì la lealtà dei coloni al Re, il quale, però, in cambio avrebbe dovuto convincere
il Parlamento inglese a non infierire mediante provvedimenti dannosi nei loro confronti. Giorgio III non prese in
considerazione la proposta e il 23 agosto 1775 proclamò lo stato di ribellione del New England, dando avvio
alla guerra di Indipendenza americana.

Il II Congresso di Filadelfia costituì il Continental Army americano. Al suo comando venne posto il leader
moderato della Virginia, George Washington (1732-1799): una scelta ascrivibile al fatto che ancora non si era
radicata tra i coloni l’idea che ormai non si stesse lottando per la semplice autonomia o per le dispute giuridiche
sul potere dei Parlamenti, ma per l’indipendenza dal giogo inglese. Un’idea che pian piano emerse a seguito
della pubblicazione dell’opera Common Sense di Thomas Paine, giornalista inglese, il quale esortò i coloni a
combattere per la creazione di una società nuova, priva di radici nel passato e di quella ipocrisia britannica
fondata sulla difesa del “buoni valori” inglesi – il parlamentarismo e la rappresentanza popolare – i quali,
sebbene invocati, venivano nella realtà dei fatti calpestati nelle colonie dalle stesse meschi ne autorità
britanniche.

Il 7 giugno 1776 la proposta d’indipendenza venne formalizzata al Congresso di Filadelfia assieme a due
ulteriori risoluzioni che, rispettivamente, prevedevano la formazione di alleanze politico-militari con altri Stati –
ad esempio la Francia – e la progettazione di una Confederazione delle colonie. L’11 giugno una commissione -
formata da Benjamin Franklin, Thomas Jefferson e John Adams – elencò una serie di ragioni storiche,
politiche e sociale a giustificare la richiesta di Indipendenza. Jefferson redasse quella che conosciamo come
Dichiarazione d’Indipendenza, pubblicata il 4 luglio 1776 dal Congresso.

La Dichiarazione – intrisa di elementi contrattualistici e giusnaturalistici –, riprendendo il No Taxation without


representation e il Common Sense di Paine, negava il potere di intervento del Parlamento inglese sugli affari
interni alle colonie. Si caratterizzò per la presenza di elementi spiccatamente calvinisti – quali la possibilità e il
dovere del popolo di modificare o distruggere qualsiasi forma di governo che negasse l’esistenza dei diritti
inviolabili e inalienabili della persona umana (la vita, la libertà e la ricerca della felicità) –, di elementi puritani
– quali l’idea di costituire un “popolo eletto” destinato a dominare il mondo e ad instaurare secoli di pace e
prosperità sulla terra – e, infine, elementi tipici dell’età dei lumi, condensati nell’affermazione dei diritti
naturali dell’essere umano.

4 Dalla Dichiarazione d’indipendenza alla Costituzione federale

Un’importante differenza tra gli inglesi e i coloni americani risiedeva nel modo di condurre la guerra.
Rispettivamente, gli inglesi – forti della loro ineguagliabile flotta navale – occupavano i porti per poi inoltrarsi
all’interno del continente americano; i coloni – deboli in mare, nonostante un importante sviluppo della pirateria
– attendevano i britannici nelle macchie e nelle selve del Nuovo continente, consapevoli della loro conoscenza
del territorio e dei punti di riparo, attuando poi una guerriglia di resistenza. Inoltre, a differenza dei soldati inglesi
– motivati a combattere contro propri simili per terre lontane -, i coloni combattevano per un ideale,
l’indipendenza.

Se nei primi anni della guerra, il Continental Army americano aveva perso molti porti e piazze, nell’ottobre 1777,
a Saratoga, vinse la sua prima battaglia. Una vittoria che ebbe un rilievo internazionale non indifferente che
permise agli americani di uscire dal loro isolamento diplomatico (e non socioculturale poiché l’intera opinione
pubblica europea, abbracciando gli ideali illuministi, era dalla loro parte), stipulando una serie di trattati di
alleanza: nel febbraio 1778 con la Francia e nel 1779 con la Spagna. Proprio grazie al supporto francese, i coloni
vinsero a Yorktown, in Virginia, nell’ottobre del 1781. Sebbene per gli inglesi la fine della guerra fosse ritenuta
ancora lontana, l’economia britannica e quella delle sue altre colonie risentiva dello sforzo bellico che, ormai, le
sfiancava dal lontano 1756 – inizio della Guerra dei Sette anni -. Erano ormai 25 anni di guerra a gravare sulle
spalle della Gran Bretagna, tant’è che, già nel 1781, molti parlamentari si mostrarono favorevoli alla conclusione
di un accordo di pace che, quantomeno, avrebbe allontanato i francesi dalle coste americane.

Le trattative di pace iniziarono nel febbraio 1782 e si conclusero il 3 settembre 1783, quando venne stipulata la
ormai agognata pace a Parigi. L’accordo riconobbe libere, sovrane ed indipendenti le colonie: nacquero così gli
Stati Uniti d’America – in cui era compresa l’ex Louisiana francese. La Francia riottenne il Senegal e Tobago, la
Spagna riottenne Minorca e la Florida.

Dopo un decennio di contese e conflitti tra coloni e Madrepatria, la Guerra di Indipendenza americana volse
finalmente al termine.

Ancora durante la guerra, gli americani si dedicarono a ristabilire l’assetto giuridico-istituzionale della
Confederazione: nel 1777 vennero approvati gli Articles of Confederation, i quali conferivano al Congresso
Continentale le competenze in materia di politica estera e difesa della confederazione, lasciando alle colonie il
diritto di imposizione fiscale, di legiferare, di coniare proprie monete … insomma margini di autonomia non
indifferenti. Il testo costituzionale entrò in vigore nel 1781, dopo le ratifiche delle varie assemblee. Tuttavia, giunta
la pace nel 1783, il testo appariva obsoleto agli occhi dei coloni. I nuovi Stati Uniti d’America avevano bisogno
di limare adeguatamente i poteri degli organi istituzionali. Durante la guerra, infatti, era mutato l’equilibrio
istituzionale precedente all’indipendenza: le Assemblee, detentrici del potere legislativo ed espressione del
radicalismo locale, erano venute prevalendo sui poteri esecutivo e giudiziario, giungendo, addirittura, a controllare
l’operato dei giudici e la loro nomina. La conclusione della guerra escludeva ormai la necessità di così tanto potere
agli organi assembleari, pertanto, vennero formandosi nuove élites contrapposte agli interessi delle assemblee,
soprattutto in ambito economico: le élites erano tutt’altro che favorevoli ad adottare quelle misure inflazionistiche
tanto care alle Assemblee in quanto facilitavano il pagamento dei debiti dei contadini americani, parte
preponderante del loro elettorato.

Un altro problema post-indipendenza fu rappresentato dalla possibile conflittualità interstatale che sarebbe potuta
sorgere sul piano commerciale in quanto ancora vigente il divieto di commerciare con le altre colonie britanniche
e con i francesi – divieto che, appunto, non tutti gli Stati avrebbero rispettato, creando tensioni ed ostilità. Era
necessaria una riforma costituzionale in grado di risolvere i problemi insorti dopo l’indipendenza: tenuto conto di
questa necessità ed ispirati dalle idee del deputato virginiano, James Madison (1751-1836), i delegati del
congresso decisero di riunirsi a Filadelfia convocando una Convenzione apposita a tal fine (25 maggio 1787).

Non mancarono scontri ideologici tra filo-inflazionisti e antiinflazionisti, nonché tra radicali e moderati: le
posizioni moderne, centraliste e federaliste di Madison e del più moderato Alexander Hamilton, rappresentante
dello Stato di New York, furono fortemente osteggiate dal radicalismo agrario, rappresentato da Patrick Henry e
Richard Lee. Vi erano altresì i contrastanti interessi economici dei singoli Stati a introdurre il rischio di far fallire
i lavori di revisione costituzionale. Lo scontro ideologico, supportato da due diverse politiche economiche – filo-
inflazionisti vs antiinflazionisti -, verteva sui rapporti tra potere esecutivo e legislativo. La vecchia linea radicale,
antifederalista, temeva l’accentramento, il potere esecutivo – a rischio di tirannia -, la politica economica
antiinflazionistica, la stretta fiscale, il controllo del credito e la difesa dei monopoli commerciali. Temeva una
serie di fattori che avrebbero colpito le fasce sociali rappresentate dal radicalismo e che avrebbero riproposto un
mondo contro cui Henry come Adams e Lee avevano combattuto. Grande influenza ebbero gli 85 papers di
Madison ed Hamilton, proposti sul “The Federalist” tra il 1787 e il 1788.

Sebbene non fossero mancati scontri di carattere ideologico, il 17 settembre 1787, si giunse all’approvazione
della Costituzione federale degli Stati Uniti d’America (39 a favore sui 42 delegati della Convenzione), frutto
di un compromesso fra i due schieramenti.

Venne previsto quando segue:

1. anzitutto l’affermazione del principio della sovranità popolare a fondamento del nuovo Stato federale
in qualità di principio politico cardine su si era di fatto fondata la stessa guerra di indipendenza;

2. l’organo legislativo sarebbe stato il Congresso, suddiviso in due “bracci” parlamentari: rispettivamente il
Senato, con due rappresentanti per Stato, e la Camera dei rappresentanti, il cui numero di seggi sarebbe stato
ripartito in base a censimento demografico (in base cioè alla popolazione presente in quello Stato).

A proposito del Congresso e la sua composizione, occorre ricordare che quanto appena descritto fu frutto di un
compromesso tra il Virgin Plan – il quale prevedeva l’elezione di rappresentanti ripartiti secondo la ricchezza e
il numero di abitanti dei singoli Stati – e il New Jersey Plan – il quale, invece, prevedeva un numero di
rappresentanti uguale per ogni Stato. Tale compromesso è conosciuto come Connecticut compromise.

3. l’organo esecutivo sarebbe stato detenuto dalla figura del Presidente federale degli Stati Uniti, eletto con
un sistema maggioritario a doppio turno, con un mandato quadriennale;

4. l’organo giudiziario sarebbe stato la Corte Suprema

L’entrata in vigore fu condizionata alla ratifica di almeno 9 dei 13 Stati. Proprio in ragione degli innumerevoli
scontri che si ebbero nella fase di gestazione, molte Assemblee dei singoli Stati, giudicarono la Costituzione
troppo centralistica e sbilanciata a favore dell’esecutivo. Fu così proposto nel corso delle discussioni per la ratifica
di allegare al testo costituzionale il Bill of Rights – la Carta dei diritti – il quale conteneva i primi dieci
emendamenti della Costituzione; l’elenco dei diritti inviolabili e imprescrittibili della persona e l’apposizione di
un limite al potere degli organi centrali.

Frattempo, nel luglio 1788, fu raggiunto il quorum dei 9/13esimi delle ratifiche statali, il Congresso Continentale
di Filadelfia aveva quindi adempiuto le sue funzioni.

In ultimo, il 4 maggio 1789 venne eletto il primo Presidente degli Stati Uniti d’America, George Washington,
successivamente rieletto nel 1793.

Si chiuse così il lungo periodo di travaglio che aveva portato le colonie americane all’indipendenza, appena pochi
mesi prima che la folla parigina prendesse d’assalto la Bastiglia, il 14 luglio 1789.

C’è però un ultimo aspetto da sottolineare: perché si parla di Guerra di Indipendenza americana e non di
Rivoluzione americana? I coloni americani lottarono per difendere il diritto all’autogoverno e la libertà e non per
abbattere un ordine giuridico-istituzionale preesistente al fine di costituirne uno nuovo. Il loro intento fu quello di
salvaguardare uno status giuridico già esistente ma non attualizzato e non di crearne uno nuovo.

Capitolo 18 - Economia e istituzioni: il riformismo europeo

Sebbene conseguente al grande sviluppo della cultura illuministica, non vi è un automatismo meccanico tra
Illuminismo e la consapevolezza avvertita da molti sovrani europei di una necessaria spinta di modernizzazione
delle strutture dello Stato. Il movimento delle riforme delle strutture statali venne definito “dispotismo illuminato”
in quanto non obbedirono a principi politici illuministici, ne ci si può vedere un principio di libertà o di
democrazia; esse ebbero origini nella esclusiva volontà dei sovrani il cui fine era comunque diretto alla
conservazione del potere sovrano assoluto e accentrato.

Le riforme negli Stati europei nord-orientali

La Chiesa ortodossa di Russia, divenuta acefala (indipendente dal patriarcato di Costantinopoli), svolse un ruolo
determinante e di grande responsabilità sociale per il controllo politico-sociale dello Stato sul territorio, poiché il
sentimento religioso era profondamente radicato nella società russa.

Ai disordini socio-religiosi si aggiunsero, alla morte dello Zar Alessio avvenuta l’8 febbraio 1676, le lotte
dinastiche (1676-82) per l'acquisizione del potere; la spuntò la seconda moglie Natalja. Pietro, secondo nella
successione (Ivan era il diretto erede al trono ma impossibilitato a regnare per le sue menomazioni mentali)
,godendo di maggior favore presso i circoli militari di corte e le élites culturali del funzionariato, grazie alle sue
attitudini fisico-militari e all'esperienza politico-culturale acquisita viaggiando nei paesi dell’Europa occidentale,
riuscì a detronizzare nel 1689 la reggente assumendo così la guida dello Stato.

Pietro conosciuto con l’appellativo “il grande” si distinse per le riforme amministrative e finanziare attuate:

● istituzione della coscrizione militare obbligatoria e della flotta, su modello inglese;

● riordinamento dell’amministrazione attraverso la costituzione di un sistema di collegi competenti per


materia, che facevano capo ad un Senato, istituito nel 1711, che aveva il compito di coordinare e
vigilare sull'attività amministrativa;

● introduzione della “tabella dei ranghi” nel 1722 che riorganizzava il sistema dei titoli nobiliari,
dividendo in 14 gradi le gerarchie aristocratiche, civili e militari. Si concludeva con la carica al vertice
di feldmaresciallo perle gerarchie militari e di cancelliere per quelle civili, dall'ottavo grado in
su, la carica diveniva ereditaria, al di sotto dell’ottavo il titolo nobiliare era personale.

● ammodernamento dell'istruzione elementare, costruzioni di nuove università e scuole;

● controllo sulla Chiesa ortodossa per mezzo del Santo Sinodo, istituito nel 1721, che permetteva di
sovraintendere all’organizzazione ecclesiastica russa e alla sua proprietà; ciò permise allo zar una
politica giurisdizionalista.

Alla morte di Pietro avvenuta nel febbraio del 1725, per quasi 40 anni si susseguirono 7 Zar diversi e solo quando
Caterina I (1725-27), moglie di Pietro divenne zarina si riprese l’attività riformatrice di Pietro.

Caterina, di formazione illuministica, dette una forte e decisa spinta per “l’occidentalizzazione della Russia”;
confiscò le proprietà della Chiesa Russa per finanziare l'istruzione e rinvigorire le casse statali, avviò un processo
di unificazione giuridica dello Stato, emanò la cosiddetta “Carta della nobiltà” che confermava diritti e privilegi,
che profilavano l’habeas corpus contro gli arresti arbitrari, istituivano il Tribunale dell’equità, comune alle classi
e regolavano i poteri di polizia…

Prussia e Austria

Prussia:

Quando Federico Guglielmo morì nel 31 maggio 1740, salì al trono di Prussia suo figlio Federico II.

Il nuovo re, ereditò una struttura burocratica stabile e gerarchizzata mediante “camere”, “commissariati” e
“dipartimenti” sovrintendenti per materie, uniti poi nel Direttorio unico di Finanza, Guerra e Demanio nel 1723 a
cui poi venne aggiunto un Ministero del Gabinetto nel 1733 (Kabinetministerium) specificatamente per la politica
estera; alla base della struttura burocratica prussiana vi era il “Cameralismo” che consisteva in una convergenza
di scienza delle finanze, economia politica e discipline giuspubblicistiche in una nuova Scienza
dell'amministrazione dello Stato. Federico potendo contare su una classe di burocrati esperta e altamente
specializzata, ciò grazie al fatto che tutti i funzionari statali erano stati formati al cameratismo, poté dedicarsi
maggiormente alla politica estera ciò comportò un maggior ricorso all’uso dell’esercito e socialmente della
nobiltà, alla quale venivano destinati i ruoli nella burocrazia statale e ruoli dei quadri ufficiali dell’esercito. Sul
piano economico, si sviluppò una politica protezionista volta a favorire le attività industriali interne, estrattive e
siderurgiche, mentre le attività mercantili e artigianali vennero incrementate da un'oculata politica di favore
all'immigrazione di mano d'opera qualificata. Durante il regno di Federico II si conobbe un periodo di tolleranza
religiosa che favorì sia i calvinisti, sia i gesuiti. Nel rapporto tra struttura sociale dello Stato e riforme è
emblematica l’unificazione legislativa iniziata da Federico Guglielmo I, continuata poi da Federico II, affidata al
giurista Samuel von Cocceji (1679-1755); egli creò dei tribunali camerali competenti su settori economici e
tributari, si dedicò inoltre al riordinamento dei codici procedurali e alla sostituzione della giurisprudenza
consuetudinaria con quella di diritto romano ciò portò il Cocceji nel 1751 alla perdita del cancellierato, in quanto
il re pose il divieto di modificare o abrogare i vecchi codici poiché ciò avrebbe svincolato la magistratura dal
potere centrale. Sebbene Federico II fosse anche lui avverso ad un progetto che avrebbe svincolato la magistratura
dal potere centrale, l’unificazione codicistica si concluse soltanto nel 1794 con la redazione del “Diritto
territoriale” che si presentava come copro giuridico superiore e completo che integrava senza disprezzare la
tradizione giuridica particolaristica precedente.

Austria:

L'imperatrice Maria Teresa d'Asburgo 1740-80, che governò insieme al marito, Francesco Stefano di Lorena

ossia Francesco I, 1745-65, non fu per niente attirata dalla cultura dei Lumi, ma anzi rimase ancorata alla cultura
cattolica controriformistica; furono dunque le esigenze di ammodernamento dello Stato e di politica
estera a guidare il riformismo austriaco, che si orientò verso la fiscalità, la burocrazia e l'istruzione.

Per quanto riguarda le riforme fiscali: vi era una forte resistenza al fiscalismo centralistico, dovuta alla fitta rete
di particolarismi, privilegi, assemblee di ceti per provincia ma nonostante la resistenza anche l’aristocrazia fu
obbligata a partecipare, seppur in percentuali ridotte, alle contribuzioni fiscali; controbilanciato però dal maggio
spazio nell’apparato statale civile e militare. Per quanto riguarda il settore militare, fu riformato il sistema di
arruolamento attraverso la costruzione di un'Accademia militare.

Il principio dell'intervento e del controllo dello Stato centrale sull'amministrazione locale andò a intaccare anche
il settore ecclesiastico , per cui vennero eliminate ogni tipo di esenzioni, privilegi e manomorta (complesso di beni
immobili ecclesiastici inalienabili), solo le circostanze belliche del primo ‘700 impedirono a Maria Teresa di
prendere misure anti-ecclesiastiche di genere giuridico-economico.

Con il progressivo aumento del controllo dello Stato e con la fine della guerra dei Sette anni nel 1763 si avrebbe
avuto possibilità di intervenire per ridurre l'azione ecclesiastica solo alla sfera di competenza religioso-spirituale,
limitando nuove acquisizioni immobiliari da parte di Ordini religiosi, impedendo che tributi ecclesiastici
fuoriuscissero dallo Stato, approfittando della soppressione della Compagnia di Gesù per riordinare l'intero
sistema scolastico nazionale e questa era la strada che almeno inizialmente l'Imperatore Giuseppe II, salito al trono
nel 1765 e che fino al 1780 governò insieme alla madre per poi continuare da solo fino al 1790 voleva seguire.
Egli però dovette fare i conti con la nascita di una corrente culturale-religiosa nuova, il “Febronianesimo”,
derivante dallo pseudonimo di Giustino Febronio, con cui il vescovo di Treviri, Johan Nikolaus von Honthein
(1701-90) aveva pubblicato un volume (il “De statu ecclesiae”) in cui si denunciava la duplice natura dei diritti:
essenziali, provenienti direttamente da Cristo e accidentali acquisiti illegittimamente dai pontefici. Questa corrente
religiosa lo conquistò a tal punto che la sua opera di riforma ecclesiastica, ispirata ai principi del febronianesimo,
gli valse il titolo di Re Sacrestano. Egli abolì le commissioni di censura, consentendo la libertà di culto a
confessioni religiose non cattoliche e rimosse le discriminazioni anti-ebraiche, soppresse conventi e abazie di
ordini religiosi dediti a vita contemplativa o comunque non socialmente utili e volle che le parrocchie e le diocesi
coincidessero il più possibile con i confini politico-amministrativi degli Stati territoriali.

La spinta riformatrice di Giuseppe inserì anche i temi su cui di più aveva lavorato la madre Maria Teresa, ossia la
codificazione scritta del diritto e i catasti; Maria Teresa aveva impegnato tutti i suoi sforzi nella creazione del
“Codex Theresianum”, il quale avrebbe dovuto compiere l'opera di unificazione giusprivatistica sulla base del
diritto romano, eliminando così' il particolarismo giuridico; tuttavia la grande mole di lavoro determinò il
fallimento del progetto. Giuseppe ottenne risultati migliori grazie all'aiuto del giurista Carlo Antonio Martini, che
nel 1781 promulgò il “Regolamento giudiziario civile”, vero e proprio codice che uniformava il rito del processo
fino ad allora diverso a seconda delle province e delle materie. Nel 1787 si diede vita a un nuovo “Codice di diritto
penale” seguito l’anno dopo dal Codice della relativa procedura; il primo rendeva autonomo il diritto penale
svincolandolo da quello comune, abrogava e sostituiva ogni norma giuspenalistica e uniformava le pene,
prevedendole correlate a comportamenti devianti precedentemente previsti, con cui cadevano le differenze di pena
rispetto allo stesso reato qualora fosse stato commesso, ad esempio, da un nobile o da un borghese. Il codice pur
abolendo la pratica della tortura e riducendo le fattispecie punibili con la condanna a morte, manteneva un
altissimo tasso di severità e “pubblicità” della pena. Contestuale alla promulgazione del Codice di procedura civile
fu l'abolizione della servitù personale e, poco dopo, l'avvio dell'opera di nuova catastazione che ora comprendesse
anche l'Ungheria e quelle terre che, non a termini di legge, erano rimaste escluse dalla catastazione teresiana. I
lavori furono terminati nel 1788 conditi da un'ulteriore misura che andava di fatto a colpire l'aristocrazia: limite
alle corvées ed esazione in moneta anziché in prestazione d'opera. Giuseppe II dovette però evitarne
un'applicazione rigorosa: dal 1787 era ripreso il conflitto turco-russo che coinvolse l'Austria in appoggio alla
zarina Caterina II (un conflitto che si protrasse fino al 1791 e che confermò all'Impero ottomano i vantaggi
acquisiti con la pace di Belgrado).

Le riforme negli Stati italiani

Gli sviluppi della politica estera europea della prima metà del ‘700 avevano visto la Spagna perdere
progressivamente i domini italiani e proprio in questo secolo il ceto intellettuale italiane spinse la pe nisola a
diventare completamente autonoma dalle potenze europee.
Nel Ducato di Savoia, l’azione riformatrice era stata precorritrice oltre che autonoma rispetto a quella degli altri
Stati italiani; la politica estera dinamica e politica interna riformatrice furono i capisaldi per lo sviluppo d’un senso
dello Stato diverso dal municipalismo veneziano o toscano, per un’azione anti-aristocratica di riequilibrio sociale
e in generale per l’ammodernamento dell’apparato statale. Vittorio Amedeo II (1675-1730)

potendo contare su una classe burocratica ben addestrata, i cui interessi personali coincidevano con quelli dello
Stato,iniziò a rivedere i titoli feudali annullando quelli di cui non c'era certezza giuridicamente documentabile e
incamerandone la relativa proprietà. L'opera di revisione fiscale e catastale non giunse a misure di abrogazione e
innovazione della legislazione ma al riordinamento di quella vigente, concluso nel 1723. Nella Lombardia
asburgica, il motore dell’attività riformatrice per il governatore Giorgio Pallavicino, fu la necessità di mantenere
un esercito stanziale, trovare in loco le risorse finanziare e dotarsi di strumenti di controllo e di esazione; tutto ciò
non poteva prescindere dalla necessità preliminare di un accertamento catastale: così dal 1718 fu istituita una
Giunta regia allo scopo di completare il censimento della proprietà immobiliare. Per quanto riguarda i beni
immobili della Chiesa, il censimento catastale poté essere operato solo grazie alla firma del Concordato con la
Santa Sede (1757); a conclusione dei lavori, con l’entrata in vigore del catasto del 1760, si ottenne una
redistribuzione dell'imposta fondiaria e della riduzione dell'imposta fondiaria e fu ridotta l’imposta personale
gravante sui contadini. L’attività riformatrice andò di pari passo con quella intellettuale; presso i fratelli Verri si
radunò un cenacolo culturale che diede vita al periodico “Il Caffè”, ad un'Accademia scientifico-letteraria detta
“dei pugni” di cui fece parte Cesare Beccaria (1738-94), che nella sua opera “Dei delitti e delle pene” (1764)
proponeva una riforma dei metodi di condanna dei delitti e delle pene comminate ai condannati.

Lo stesso Pietro Verri diede un incisivo apporto all'opera di riforma asburgica attuata nel milanese: propose al
cancelliere von Kaunitz l'abolizione della Ferma generale(e relativi appalti esattoriali) con esercizio in proprio, da
parte dell'autorità pubblica, dell'esazione fiscale; abolizione inoltre di ogni regime vincolistico (tra dazi di
circolazione, di transito, tariffe e gabelle di vario genere) alla produzione e circolazione interna. Alla fine del 1770
quelle proposte erano diventate operative.

Presso il Granducato di Toscana-Lorena, Pietro Leopoldo I d'Asburgo-Lorena (1765-90) istituì 4 dicasteri-chiave:


Esteri, Guerra, Interni e Finanze, i cui titolari formavano il Consiglio di Stato la cui presidenza fu affidata dal
granduca a Pompeo Neri (del quale si servì per l’opera di riforma dello Stato).

Attraverso il “motu proprio” dell’agosto del 1767, Pietro Leopoldo, rescisse il contratto-capestro che legava lo
Stato agli appaltatori, abolì il sistema corporativo di controllo del mercato del lavoro, abbattendo i dazi interni e
rendendo il mercato interno unico, fu poi istituita una Camera delle Comunità che andava a sostituiva i vecchi
istituti corporativi (risalenti addirittura al periodo medievale) che si occupavano dell'amministrazione comunale;
la Camera assunse le funzioni di revisione dei bilanci comunali e il controllo dei commerci interni. A Pompeo
Neri va il merito della riforma giudiziaria diretta ad unificare o per lo meno rendere omogeneo l'esercizio della
giustizia amministrata da tribunali e magistrati fino ad allora diversi non secondo competenze ma secondo
privilegi e tradizioni locali. Questo compito fu poi portato a termine da Francesco Maria Gianni (1729-1821, che
coadiuvò e sostituì Neri, alla sua morte, nel continuarne l'opera riformatrice) che nella successiva codificazione
penalistica (da cui era ormai bandita la pena di morte).

Francesco Maria Gianni si impegnò nella realizzazione della prima costituzione politica del Granducato: “Editto
per la formazione degli Stati di Toscana” fu completata l’8 settembre del '82 e disciplinava i compiti del Granduca
e degli altri organi istituzionali, ma alla fine il progetto (che in certa misura anticipa delle linee del moderno
costituzionalismo) non fu applicato e abbandonato perché troppo distante dal sentire comune o più semplicemente
avversato dagli strati sociali più bassi.

A differenza degli altri territori italiani sia nel viceregno di Napoli che in quello di Sicilia, la spinta riformista fu
meno forte, questo perché gli ex vice regni risentivano ancora della tradizione culturale spagnola sia perché la
dinastia dei Borbone era una più forte rispetto a quella degli altri regnanti italiani.

Caposaldo delle riforme attuate in questi territori fu il il giurista pisano Bernardo Tanucci (1698-1783), come
l‘istituzione di una Giunta di Commercio allo scopo di valutare e incentivare progetti di crescita economica;
l’opera di censimento catastale, dapprima ostacolata dalle resistenze ecclesiastiche (da sempr e restia a pagare le
tasse sui propri immobili...), risolte con il Concordato del '41, e poi dalle resistenze dei baroni napoletani; proprio
a causa di queste difficoltà, la riforma catastale non raggiunse il suo obiettivo di perequazione fiscale, e così anche
l'azione di abolizione delle disposizioni legislative dei feudi baronali, che rimasero abbastanza liberi rispetto al
controllo statale.
Carlo di Borbone venne chiamato in Spagna come nuovo sovrano, alla morte del Re Ferdinando VI (1746-
59)Carlo III; con l’ascesa del figlio, Ferdinando di Borbone (1759-1799), come re negli ex vice regni l’attività
riformatrice si bloccò definitivamente. Ferdinando, divenne re a soli 8 anni e fu affiancato al governo da un
Consiglio di reggenza capeggiato dal Tanucci: troppo forte era la resistenza ecclesiastica e baronale al piano di
riforme proposto dalla reggenza, e il Regno napoletano risentiva ancora troppo delle influenze straniere (il Tanucci
venne destituito dal posto di comando dopo uno screzio avuto con la moglie di Ferdinando di Borbone, Maria
Carolina d'Asburgo-Lorena, riguardo la condanna della Massoneria, molto apprezzata da Carolina). Perciò, lo
Stato napoletano non potè compiere alcun opera di accentramento amministrativo e burocratico.

Situazione più complessa era quella presente in Sicilia, poiché gli interessi baronali erano addirittura
istituzionalizzati in un Parlamento che si presentava come il Baluardo del privilegio contro il centralismo dello
Stato. Nel 1781 venne inviato Domenico Caracciolo a ricoprire la carica di viceré siciliano e a intraprendere un
azione riformatrice; provò a limitare i poteri di giurisdizione dei baroni, non più con arresti ma solo con denunce
all’autorità giudiziaria, con l'eliminazione del potere di revisione dei bilanci delle comunità loro soggette (affidato
ad un organo centrale il Tribunale del Patrimonio). La riduzione dei poteri baronali continuò poi con l'abolizione
della servitù della gleba e la soppressione delle corvées. Caracciolo terminò così la sua opera (nel 1786 divenne
primo ministro di Ferdinando IV a Napoli) e la sua eredità venne assunta dal principe Francesco d'Aquino (1786-
95).

Il tramonto politico e culturale dei due antichi Stati che nei secoli precedenti avevano avuto un ruolo attivo nello
scenario internazionale, Repubblica di Venezia e Stato della Chiesa, è dimostrato dalla loro sostanziale
refrattarietà ad intraprendere un'opera di riforma interna. La Repubblica, del resto, aveva fatto del conservatorismo
politico-sociale la base della sua stabilità: dinamiche e tensioni sociali rimanevano intra-istituzionali e
riguardavano solo gruppi aristocratici in dissenso o anche in lotta per la preponderanza nelle magistrature, in
particolare in quelle politicamente più delicate. Ma col passaggio dallo Stato cittadino a quello territoriale,
conseguente al nuovo indirizzo di politica economica veneziano, il conservatorismo politico-sociale costituì un
fattore determinante della decadenza della Repubblica.

Paradossalmente più ambiziosa l'attività o almeno gli intenti riformatori che si manifestarono in uno Stato
tradizionalmente refrattario a recepire novità, come quello ecclesiastico; tanto più che l'attività riformatrice
appariva un attributo qualificante della cultura illuministica. Solo con Pio VI (1775-1799) si ebbe un' azione
continuativa e di una certa incisività: alla volontà di bonificare le paludi pontine, all'opera di costruzione di nuove
arterie viarie (fu rifatta la via Appia fino a Napoli, migliorata quella per Viterbo), al tentativo di obbligare i
proprietari di fondi nell'Agro romano a coltivare un quinto delle loro terre pena la confisca (disposizione rimasta
lettera morta), si aggiunse la definitiva soppressione dei dazi interni (con successiva regolamentazione di
importazioni e esportazioni), e l'avvio dei lavori per l'approntamento del catasto.

Economia e politica in Inghilterra e Francia

Inghilterra:

La stabilità istituzionale raggiunta dall'Inghilterra alla fine del '600 con la seconda rivoluzione fu rafforzata dalle
successioni dinastiche del primo 700, in particolare dall'avvento al trono dei sovrani anglo-tedesco Giorgio I
(1714-1727) e poi Giorgio II (1727-1760) di Hannover; oltre a essere sovrani d'Inghilterra, governavano anche
sul loro Stato territoriale tedesco, Hannover per l'appunto. Per la politica inglese dovettero affidarsi a esponenti
parlamentari capaci, essenziale in questo senso fu la figura di Robert Walpol (1676-1745) che diede vita alla figura
del “Primo ministro” poiché svolgeva il compito di tramite tra corona e parlament o del cosiddetto “governo di
gabinetto” organo costituito dal primo ministro e dai principali ministri che governavano in nome e per conto del
re, ma rispondendo comunque al Parlamento. Walpol favoriva però i difetti tipici del parlamentarismo moderno
propriamente inteso: cioè il trasformismo e la corruzione. Il sistema elettorale inoltre era a sua volta fonte di
corruzione in quanto non uniforme e che variava da contea a contea. L'Inghilterra del '700 conobbe anche le lotte
tra il Parlamento e gli organi di stampa; era interesse dei parlamentari evitare che gli organi di stampa indagassero
e rivelassero la rete di corruzione che presiedeva il sistema elettorale. Il “caso Wilkes” spianò la strada al
riconoscimento delle libertà di stampa. John Wilkes (1727-97) nel 1757 riuscì a candidarsi e a divenire deputato
dei Whig nel Parlamento inglese; insieme ad altri deputati, tra cui William Pitt, fondò il giornale North Briton, il
quale si scagliò violentemente contro il primo ministro di allora, Lord Bute, facente parte dei Tory e anche contro
il re, Giorgio III di Hannover (1760-1820), poiché gestivano in maniera troppo personale il potere. La grande
campagna propagandistica attuata dal Wilkes e da altre testate giornalistiche produsse le dimissioni di Bute. Il Re
provò anche a far arrestare il Wilkes ma non vi riuscì (i deputati godevano di immunità parlamentare.....vi ricorda
qualcosa?). Wilkes era ormai diventato un idolo delle folle e il suo arresto, stavolta perpetrato dai deputati stessi
che volevano evitare una crisi Corona-Parlamento, non fece che aumentare la sua popolarità. Uscito di prigione
divenne magistrato e proprio grazie ad una sua sentenza (siamo in un paese di Common Law) riuscì a imporre la
libertà di stampa per i resoconti delle sedute parlamentari (1771). Da quel momento in poi scomparve dalla scena
parlamentare, in quanto venne continuamente osteggiato dai deputati in ogni sua proposta.

Anche nella questione delle Enclosures il Parlamento si rivelò un furbo e disonesto protagonista. La recinzione
dei campi agricoli serviva a contenere coltivazioni e bestiame; con l'aumento demografico, bisognava estendere
le coltivazioni e ridurre i pascoli, per soddisfare il fabbisogno alimentare della popolazione: così, tramite il
modello delle Enclosures si poté procedere a un progressivo accorpamento delle piccole proprietà in quelle grandi,
il quale ovviamente toglieva terra ai piccoli imprenditori e contadini per far posto alle grandi proprietà dei
Landlords, i principali elettori dei Tories; cosicché gli espropri venivano accompagnati da sempre maggiori
proteste, le quali venivano messe a tacere attraverso pressioni varie. La falsa moralità e l'ipocrisia dei parlamentari
inglesi avevano vinto, ancora una volta; tuttavia questa progressione della concentrazione terriera portò anche dei
benefici, poiché si svilupparono nuovi tecniche agricole, inventati nuovi strumenti di lavoro, formate nuove
discipline (agronomia e zootecnica).

Il sistema industriale inglese conobbe grandi innovazioni nel '700. Primo fra tutti, l'invenzione della macchina a
vapore (1769) di James Watt (1736-1819), che produsse grandi miglioramenti quantitativi nell'industria tessile, il
settore di maggiore esportazione per gli inglesi. Nell'industria metallurgica e siderurgica avvenne il pass aggio
dall'uso del carbone di legna al carbon fossile, molto presente nel sottosuolo inglese e lavorabile sempre attraverso
macchine tecniche. Con la macchina a vapore, l'energia idraulica si sostituì all'energia umana e animale, e questo
fondamentale mutamento è quello che permette di parlare non più di proto-capitalismo, ma di capitalismo vero e
proprio. Le conseguenze sociali di questo enorme sviluppo tecnico-scientifico furono di vario genere. L'antica
divisione del lavoro scompariva per far posto ad un ciclo produttivo accelerato ed integrato che vedeva
necessariamente la forza lavoro concentrata in un solo ambiente di grandi dimensioni, la fabbrica, ormai non più
soggetta a localizzazione obbligata da forze motrici naturali. Lo scardinamento conseguent e delle corporazioni
artigiane provocò una liberalizzazione della forza lavoro che 'aggiungeva a quella contemporaneamente espulsa
dalle campagne a seguito delle enclosures: s'andava con ciò formando una vasta concentrazione di proletariato, di
provenienza diversa, che contribuiva con la sua stessa presenza alla compressione dei salari degli operai delle
fabbriche e allo sfruttamento inumano del lavoro minorile (a sette anni di età, o ancor meno, per quattordici o
diciotto ore di lavoro giornaliero) con cui l'Inghilterra creò la propria potenza industriale, economica e militare.
Ma la progressiva espulsione dell'operaio dalla fabbrica, a causa delle innovazioni tecniche che consentivano
l'aumento della produzione, e riduzione delle spese di personale, provocarono una prima presa di coscienza operaia
come vera e propria autocoscienza di classe. La difesa del lavoro operaio passò così attraverso la fase violenta
dell'avversione alla macchina. Dall'operaio tessile Ned Ludd che avrebbe dimostrativamente rotto un telaio
meccanico nel 1779 (ma, come appena visto, le tensioni e i gesti analoghi non erano già mancati) prese avvio un
movimento di agitazioni operaie (detto luddismo). Era uno scontro ormai consapevolmente di classe e interno ad
una logica tutta economica del sistema produttivo.

Francia:

La situazione francese nel '700 era molto particolare, in quanto nel secolo precedente l'opera riformatrice del Re
Sole aveva prodotto la declassazione dell'aristocrazia francese a semplice “spettatrice” delle mosse del so vrano
assolutista; nel XVIII secolo il contributo illuminista e la morte di Luigi XIV (1715) aveva rimesso in luce la
nobiltà francese, che, supportata dalla presenza di un Re (Luigi XV d'Orleans, 1715-74) debole caratterialmente
e suggestionabile attraverso trame di corte e le sue numerose amanti (una fra tutti, Madame de Pompadour), poteva
nuovamente far valere i propri interessi. Il sovrano aveva restituito sin da subito il diritto di rimostranza che era
stato revocato proprio dal Re Sole e cercò di renderli partecipi del suo governo istituendo un sistema di 6 Consigli
competenti per esteri, interni, guerra, marina, finanze e religione (Polisinodia) di cui appunto avrebbero fatto parte
5 nobili per consigli (oltre a elementi cooptati dall'apparato burocratico); ma nel 1718 questo sistema venne
abolito, per l'incompetenza dei suoi membri. Poiché la Francia era molto vicina a dichiarare bancarotta, a causa
dell'esorbitante indebitamento pubblico, Luigi XV affidò il segretariato di Stato per le finanze allo scozzese John
Law (1671-1729), il quale istituì la Banca Generale, banca privata che fornisce servizi bancari e provvede
all'emissione di cartamoneta; divenne Banca Reale nel 1718 e unì le Compagnie commerciali addette al
commercio delle colonie in un'unica grande Compagnia delle Indie.
Stava per intraprendere una riforma generale del sistema fiscale e un vasto programma di opere pubbliche, quando
a causa del fallimento della Banca Reale, dovette dimettersi e rifugiarsi in Inghilterra. Il suo posto venne pre so
dal controllore generale delle finanze Orry, che favorito dal clima di benessere sociale instaurato dal primo
ministro Fleury durante il suo governo poté conseguire stabilizzazione monetaria e un generale miglioramento
delle condizioni economiche del paese. Tutto questo avveniva sempre sotto il pressante controllo dei Parlamenti
e dell'aristocrazia francese, che impedivano tentativi di attuazione di leggi a loro scomode. Nel 1758 il duca di
Choiseul divenne segretario per gli affari esteri di Francia; consapevole del fatto che per potere restare in carica
non avrebbe dovuto inimicarsi la corte e l'aristocrazia francese, condusse una politica di inasprimento fiscale a
danno dei ceti meno privilegiati, sostenendo le necessità della guerra (dei 7 anni); il fatto è che poi le tasse
straordinarie in periodo di guerra divennero ordinarie. Una polemica molto intensa scoppiata negli anni 60, durante
la guerra dei 7 anni, avrebbe potuto portare a una

riduzione delle prerogative parlamentari e nobiliari: il caso La Chalotais-d'Aguillon-Maupeou, che nacque dallo
scontro tra l'intendente d'Aguillon (funzionario delegato del potere regio) e il presidente del Parlamento di Rennes,
La Chalotais, riguardo una costruzione stradale nella regione della Bretagna (sede del parlamento di Rennes) utile
per il continuo della guerra; i parlamentari e in particolare la Chalotais si ribellarono alla disposizione e fecero
arrestare d'Aguillon; intervenne a sua difesa l'avvocato e guardasigilli Mapeou emanando una disposizione, editto
di regolamento e disciplina, che riduceva i poteri parlamentari, ma quest'ultimi esercitarono il diritto di
rimostranza, non registrando la disposizione; intervenne il Re che obbligò la registrazione del provvedimento,
alchè i deputati lasciarono l'assemblea; nel 1771 si era arrivati a delegare i poteri del Parlamento a un Consiglio
del Re. L'opera del Mapeou produsse le veementi proteste degli aristocratici di tutto il regno, ma egli non aveva
nessuna intenzione di abbandonare i suoi progetti; tuttavia non è (quasi) mai il volere degli uomini a determinare
l'andamento degli eventi, poiché con la morte per vaiolo di Luigi XV (1774), saliva al trono il più “aristocratico”
dei Re: Luigi XVI (marito di quella Maria Antonietta d'Asburgo che – racconta la leggenda – a coloro che la
informavano che al popolo mancasse il pane, rispose: Al popolo manca il pane? Che mangino brioches!), il quale
esautorò immediatamente tutti i poteri del Mapeou. Una nuova stagione restauratrice del vecchio ordine e degli
inattaccabili privilegi sembrava così aprirsi in Francia. Figure di spicco del nuovo governo di Luigi XVI erano
Frederic Maurepas e Jacques Turgot, entrambi morti nel 1781. In particolare Turgot , nominato dal Maurepas
nuovo controllore generale delle finanze e seguace della scuola economica fisiocratica, cominciò una nuova
attività riformatrice sempre favorevole ai nobili di Francia: non mise in atto il progetto di tassazione unitaria ed
uniforme della terra, indipendentemente dal ceto sociale e dal censo dei proprietari; liberalizzò il commercio della
produzione agricola, abbattendo le barriere e i dazi doganali interni, sempre a favore dei grandi proprietari. Dal
punto di vista fiscale, delineò una politica di basso profilo: riordinamento della riscossione delle imposte indirette,
contenimento della spesa pubblica, e riduzione delle esenzioni fiscali. Questi provvedimenti, che avevano
provocato grandi malcontenti in vari strati sociali, portarono al suo licenziamento (maggio '76) e alla fine dei
progetti riformatori francesi.

Capitolo 19 - L’epopea rivoluzionaria: la Rivoluzione Borghese

Prima della rivoluzione

Il posto del liberale Turgot nel controllo delle finanze venne preso nell'ottobre 1776 da Jacques Necker (1732 -
1894), banchiere ginevrino calvinista. La situazione con cui si trovò a che fare Necker non era affatto disastrosa:
il paese produceva ricchezza, godeva di ampi bacini commerciali (Bordeaux, Le Havre, Marsiglia), era dotata di
fitte vie di comunicazione, la proprietà terriera era divisa (quasi) equamente e la produzione agricola e industriale
supportavano la lenta crescita demografica. I problemi risiedevano nella sperequazione fiscale dei tributi, tutti a
scapito dei contadini e del Terzo Stato, e nella spesa pubblica, che superava di gran lunga le entrate. Nel 1781,
dopo aver tentato di ridurre il disavanzo pubblico tramite riforme nella gestione delle imposte dirette, attraverso
la riduzione delle cariche e delle spese della corte, venne licenziato per aver pubblicato il rendiconto del bilancio
dello Stato (Compte rendu au roi scandalo pubblico), che si era aggravato in seguito all'entrata in guerra della
Francia a supporto delle colonie americane, nella guerra d'indipendenza anti-inglese.

Nel 1783 successe Necker, Charles de Calonne, che ricoprì il suo incarico dal novembre '83 all'aprile '87; in
passato aveva lavorato nell'amministrazione pubblica ed era più legato agli ambienti di corte rispetto ai tesorieri
precedenti, per cui fu molto attenti nei primi mesi di governo a prendere iniziative audaci; tuttavia il divario fra
spese e entrate si faceva sempre più incolmabile e nell'agosto 1786 non si poteva più temporeggiare: de Calonne
presentò un Piano di miglioramento delle finanze, davanti agli esponenti del clero e della aristocra zia riuniti
nell'Assemblea dei notabili del regno , il quale prevedeva: un’imposta non personale ma sulla proprietà fondiaria,
proporzionale al reddito, indipendentemente da distinzione di ordini (imposta di quotità), un progressivo rientro
del debito attraverso l’alienazione scaglionata dei debiti del demanio pubblico e l’unificazione delle tabelle.
Veniva offerto in cambio un sistema di rappresentazioni elettive (municipali,distrettuali e provinciali) aperto ai
contribuenti con reddito annuo di almeno 600 lire che avrebbero per avuto solo funzione consultiva affianco agli
intendenti locali. L'assemblea dei notabili del regno (144 esponenti dell’alto clero e dell’aristocrazia) rifiutò in
blocco il programma del Calonne e costrinsero il Re Luigi XVI a licenziarlo nell'aprile 1787. La carica venne
presieduta dall'arcivescovo di Tolosa, Charles de Brienne (1727-94); avevi anch'egli rifiutato il piano di Calonne,
ma lo ripropose modificando la quota di imposta sulla proprietà fondiaria, che ora non era più una quota fissa ma
sarebbe variata in base alle esigenze del regno (anche in questo caso l'Assemblea dei notabili rifiutò, e venne
sciolta nel maggio '87). Vi furono agitazioni e disordini per le province in particolare nella regione del Delfinato
(sud-est) i cittadini di Grenoble si posero a difesa dei deputati del Parlamento locali provocando tafferugli e scontri
con i soldati che erano intervenuti per sgombrare l'aula parlamentare (“Giornata delle tegole” 7 giugno 1788); il
21 giugno i parlamentari, gli esponenti del clero, dell'aristocrazia e del Terzo Stato di Grenoble chiesero la
convocazione degli Stati Generali e fino a quella data si rifiutarono di pagare qualsiasi tassa: si era assistito quindi
a un'anomala, singolare alleanza tra il Terzo Stato e i ceti privilegiati, aristocrazia e clero, in funzione anti-
monarchica. Preso atto di questo evento così peculiare e insolito, il Re e il tesoriere Charles de Brienne
convocarono per il 1 maggio 1789 gli Stati Generali, a Parigi. Due settimane dopo De Brienne e il guardasigilli
Lamoignon che fino a lì l'avevano supportato, si dimisero e lasciarono da solo il Re a vedersela con i Parlamenti,
che intanto erano tornati a insediarsi nelle proprie sedi, fra l'esaltazione popolare; in meno di un anno sarebbe
cambiato tutto, e si sarebbe ristabilita la normale alleanza Corona-aristocrazia-Clero, a danno del Terzo Stato.

Gli Stati Generali e la “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino”

Il 5 maggio 1789 gli Stati Generali si riunirono a Parigi e, come previsto, l'alleanza anti-monarchica fra aristocrazia
e Terzo Stato si sfaldò. L'opposizione venne capeggiata dal Partito Nazionale o Patriota, composto da esponenti
della Borghesia colta, esponenti parlamentari, addirittura aristocratici; quest'opposizione reclamava: l'uguaglianza
giuridica e fiscale tra tutti i ceti, il raddoppiamento del numero degli esponenti del Terzo Stato presenti agli Stati
Generali e la votazione per testa e non per ordine.

Nel momento in cui fu chiaro all'aristocrazia quali fossero le richieste del Partito Nazionale (le quali vennero
propagandate e discusse nei Caffè e nei circoli letterari di mezza Francia tra il dicembre -gennaio 1788-89; va
ricordato il circolo letterario della Società dei Trenta, gestito dal deputato Adrien Duport), i nobili iniziarono a far
pressioni sul re affinché (agli Stati Generali) difendesse i ceti privilegiati, realizzando così un subdolo
rovesciamento di alleanze per gli inconsapevoli esponenti del Terzo Stato.

Il Partito Nazionale svolse la sua campagna elettorale rappresentando al meglio gli interessi del Terzo Stato;

migliaia di opuscoli, giornali e pamphlets informavano chi ancora non sapesse dei torti e degli inganni perpetrati
dal Re e dai ceti privilegiati nei loro confronti. Grande diffusione ebbe l'opera di Joseph Sieyes (1748-1836),
“Cos'è il Terzo Stato?”, in cui si pone davanti agli occhi di tutti di come sia il Terzo Stato la forza mobilitante
della nazione francese, con il suo lavoro, con le sue attività, con il suo esercito traboccante di poveri contadini che
lasciano i propri terreni incolti per andare in guerra. Sebbene avessero ottenuto il raddoppiamento del loro numeri
di esponenti, era sin da subito chiaro che, se non si fosse votato per testa, il Terzo Stato sarebbe perito durante le
votazioni. Quindi già il 6 maggio 1789 gli esponenti del Terzo Stato compirono il loro primo atto “rivoluzionario”,
decidendo di non presenziare in una propria, separata assemblea (come era da consuetudine) e definendosi
Deputati dei Comuni , in quanto si sentivano di rappresentare l'intera società francese. Così, il 17 giugno la
maggioranza degli esponenti votò per la riunione in una Assemblea Nazionale, che avrebbe avuto il potere di
decidere sulle future imposte; e l'assemblea del Clero decidette nello stesso verso, 2 giorni dopo. Aristocrazia e
Re, che fino ad 1 anno fa stavano facendosi la guerra tra di loro, ora si ritrovano più unite che mai; Luigi XVI
convocò una seduta straordinaria plenaria ( a cui avrebbero dovuto partecipare tutti e 3 gli ordini insieme) per il
22 giugno. 2 giorni prima, i Borghesi (Terzo Stato) si riunirono nella Sala della Pallacorda per giurare di andare
fino in fondo alla “questione” e, 2 giorni dopo, mentre la seduta plenaria veniva spostata al 23 giugno, si riunirono
insieme agli esponenti del clero in una assemblea separata.

Nella seduta plenaria il re fece concessioni e restrizioni, agendo quindi in modo ambiguo: garantiva le libertà
individuali e di stampa ma abrogava le decisioni del terzo stato prese in separata sede, consentiva all’eguaglianza
fiscale lasciando però in vigore decime ecclesiastiche e diritti feudali, ordinò infine lo scioglimento della seduta
e la riunione dei tre ordini in tre diverse sedi. Il 24 giugno i Borghesi venivano raggiunti dalla maggioranza del
clero e da circa 50 nobili guidati dal duca d'Orleans, e il Re, rimasto da solo con pochi esponenti dei 2 ordini
privilegiati, assecondò le richieste dei Borghesi ordinando ai residui esponenti rimasti con lui di partecipare
anch'essi all'Assemblea Nazionale. L'intento del Re era chiaro: sbarazzarsi in una volta sola di tutti coloro che si
opposero al legittimo sovrano di Francia facendo affluire diversi contingenti armati a Parigi e Versailles. Il 7
luglio il comitato costituente proclamò la convocazione dell'Assemblea nazionale costituente per il 9 luglio. Nel
giorno della convocazione, i Borghesi chiesero al Re di far allontanare i soldati pervenuti in città, ma egli rifiutò;
così si iniziarono a cercare delle armi per tutta Parigi allo scopo di formare una guardia municipale in grado di
difendere i cittadini; il 13 luglio si alzarono barricate ovunque e si conclusero i preparativi per l' assalto alla
Bastiglia, la fortezza in cui venivano rinchiusi i detenuti politici.

Il 14 luglio 1789 la folla in armi, aiutata da un contingente della guardia municipale, sfondarono il portone
d'ingresso e invasero la fortezza, linciando alcuni soldati e il governatore della stessa, il conte di Launay. Il giorno
dopo il Re si convinse a ritirare le truppe, mentre il 17 luglio si era costituito un organo di amministrazione
Borghese, capeggiato dal sindaco Jean Bailly, aristocratico artefice del giuramento della Pallacorda. Alla notizia
del cedimento del Re, esponenti dei ceti privilegiati iniziarono a emigrare, comprendendo che il clima politico che
stava instaurandosi non era favorevole per loro.

Tra la fine di luglio e l'inizio di agosto, la rivoluzione si estese a tutta la Francia; linciaggi, fughe aristocratiche,
esecuzioni sommarie, passaggi di potere...tutto questo successe durante la Rivoluzione delle municipalità. La
Guardia municipale aveva cambiato nome in Guardia Nazionale. Nelle campagne, i contadini si diedero al
saccheggio delle dimore nobiliari e all'assalto dei castelli feudali; le notizie di questi disordini sociali (il fenomeno
dilagante della Grande Paura) arrivarono fino a Parigi. Il 1° agosto iniziarono le discussioni all'Assemblea
nazionale su quella che sarebbe stata la “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” e il 4 si giunse
all'abolizione del regime feudale; dal punto di vista giuridico l’Assemblea con il voto del 4 agosto aveva stabilito
l’uguaglianza tra persone indipendentemente dall’appartenenza del ceto. Si proseguì con la discussione dei
principi costituzionali, e non si volle creare una dichiarazione di principi soltanto teorici, non suffragati da norme
giuridiche concrete, che avrebbero soltanto potuto confondere o infiammare ancor di più e inutilmente gli animi.
Così si decise di dar vita dapprima a una Dichiarazione di principi che possa poi divenire strumentale per la
redazione di una Costituzione monarchica dai contenuti più concreti; i lavori iniziarono il 19 e terminarono il 26
agosto 1789, giorno in cui venne definitivamente approvata la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino.

Il 20 agosto fu approvato il “Preambolo” che parlava dei diritti naturali, inalienabili e sacri dell’uomo che sotto
gli auspici dell’Essere Supremo riconosceva e dichiarava in 17 articoli e i primi articoli; di seguito i più
significativi:

● art.2: “i diritti naturali e imprescrittibili dell'uomo sono la libertà, la sicurezza e la resistenza


all'oppressione”;

● art.3: “Il principio di sovranità di ogni sovranità risiede essenzialmente nella nazione” (Rousseau);

● art.6: “La legge è l'espressione della volontà generale (…) Tutti i cittadini, essendo uguali ai suoi
occhi, sono ugualmente ammissibili a tutte le dignità, posti ed impieghi pubblici” (Rousseau);

● art.16: “Ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri
determinata, non ha costituzione” (Montesquieu);

● art.17: “La proprietà essendo un diritto inviolabile e sacro, nessuno può esserne privato, salvo quando
la necessità pubblica, legalmente constatata, lo esiga in maniera evidente, e previa una giusta
indennità” (Locke);

La Costituzione monarchica

È con le discussioni sul tema della Costituzione che iniziarono ad emergere le divisioni ideologiche tra destra e
sinistra; l'ala destra composta da costituzionalisti, i conservatori e i moderati, volevano porre fine alla rivoluzione
proponendo l'istituzione di organismi politici a tutela della monarchia e del suo potere esecutivo, contro i rischi
dell'autonomia del potere legislativo assembleare. Essi proponevano l’istituzione di una Camera Alta (su modello
inglese) di nomina regia con potere di veto del Re per le decisioni legislative. L'ala sinistra (di cui facevano parte
Lafayette, Siyes, Barnave, Duport, ecc..) si oppose con l'intervento di Maximilien Robespierre (1758-94), un
giovane avvocato ispirato agli ideali rousseviani della volontà generale, che agli Stati Generali aveva rappresentato
il Terzo Stato della regione dell'Artois.

Il 9-10-11 settembre l'ala sinistra riuscì a bocciare la proposta della Camera alta e a ridurre la portata del diritto

di veto regio attribuito al re contro i deliberati del potere legislativo. Le discussioni politiche si stavano
radicalizzando in Assemblea, e nel resto della Francia: la cultura illuminista francese, rimasta soltanto teorica a
causa dall'assenza di reali riforme nel periodo antecedente la Rivoluzione, ora trovava i suoi sbocchi concreti nella
formazione di circoli e club politico-letterari, poi trasformatisi in veri e propri partiti politici; la Società degli amici
della Costituzione divenne il Club dei Giacobini (dal nome del luogo di ritrovo presso il convento di Saint -
Jacques), partito permeato dalle idee di Robespierre, che ne diventò presidente nel marzo 1790; la Società degli
amici della Costituzione monarchica , contrapposta al club dei Giacobini; vi erano poi i cordiglieri, i quali si
riunivano in un convento di francescani. Molto importante anche l'apporto dei giornali: nacquero l'Ami du peuple
di Jean Paul Marat, e il Pére Duchesne di Jacques Herbert, che costituivano i giornali di estrema sinistra; e poi Le
patriot français, Le fout national , di Pierre Brissot, George Danton, Camille Desmoulins.

Intanto le discussioni dell'assemblea si erano impantanate nella scelta dei ministri e del relativo potere
assegnatogli. Tuttavia a seguito della marcia su Versailles delle donne parigine, avvenuta in seguito al calpestio
di una coccarda tricolore da parte di ufficiali monarchici e al loro elogio alla regina Maria Antonietta (ma
probabilmente la marcia fu fatta in segno di protesta per l'aumento dei prezzi e la scarsità di pane), che portò alla
reclusione della famiglia reale nel palazzo reale delle Tuiliries, l'Assemblea seguitò a trattare della crisi economica
finanziaria. In questa discussione vi fu l'intervento di un deputato del Clero per gli Stati generali, Maurice de
Talleyrand (1754-1838) il quale proponeva, incoerentemente con la sua posizione sociale, la confisca dei beni del
clero per ripianare il debito pubblico. Poiché il clero non era proprietario ma soltanto “amministratore dei beni”,
si decise che in momenti di emergenza nazionale lo Stato avrebbe potuto confiscare i beni a sua disposizione. Il 2
novembre l'Assemblea approvò l'esproprio, provvedendo al mantenimento del clero, alle spese di culto e alla
pubblica assistenza sociale.

Il principio giuridico su cui poggiava la manovra di recupero dell’immenso patrimonio immobiliare ecclesiastico,
prevedeva un intervento diretto dello Stato nell’organizzazione della vita ecclesiastica nazionale. Il 12 luglio 1790
l'Assemblea votò l'approvazione della “Costituzione civile del clero” la quale riduceva il numero delle diocesi da
130 a 83, ciascuna amministrata da un vescovo, in base alla riforma amministrativa approvata nel gennaio '90 che
riduceva il territorio nazionale in 83 dipartimenti; il vescovo sarebbe stato eletto dall'assemblea del dipartimento
geografico; la consacrazione spettava ai superiori canonici e non al Papa; infine, nell'esercizio delle loro funzioni,
i vescovi avrebbero dovuto discutere i decreti dell'Assemblea nazionale. La reazione clericale fu molto veemente,
per cui si decise di affidare l'ultima parola al Papa e al Re Luigi XVI: Pio VI non si espresse, mentre il sovrano il
24 agosto (nel giorno del suo onomastico) registrava la Costituzione che entrava così in vigore. Molti vescovi si
rifiutarono di piegarsi al giuramento della Costituzione e vennero chiamati refrattari, mentre chi aderiva
costituzionalista.

Lo squilibrio politico che le discussioni seguite all'esproprio dei beni ecclesiastici e relativa Costituzione civile
del clero provocarono tensioni all'interno degli schieramenti in Assemblea, ciò si ripercosse sulle questioni
costituzionali più importanti che ancora mancavano di definizione: la nomina dei ministri con relativa
responsabilità politica, e- più ancora - la legge elettorale che fu approvata in Assemblea il 22 dicembre 1789 ma
che per 'accentuato carattere censitario provocò continue tensioni fino ad esser ridiscussa.

La prima proposta della legge elettorale aveva un carattere troppo censitario e farraginoso: si distinguevano tra
titolari di diritti solo “passivi” (naturali e civili) coloro che non potevano contribuire al sistema fiscale, titolari di
diritti “passivi e attivi” (naturali, civili e politici) chi poteva contribuire, da qui poi si distinguevano diversi livelli
di contribuzione, a cui corrispondevano diversi gradi di elettività. La stampa di Marat e Desmoulins si scagliò
contro questo sistema, e lo stesso fece Robespierre. Dopo lunghe polemiche il testo costituzionale definitivo
avrebbe previsto che tutti i cittadini attivi, qualunque sia il loro contributo, potranno essere rappresentanti della
Nazione.
La progressiva radicalizzazione dell'Assemblea nazionale fece sì che Luigi XVI e la moglie stessero architettando
piani di fuga che prese avvio nella notte tra il 20-21 giugno 1791; la famiglia era diretta a raggiungere il villaggio
di Montmedy, nelle Ardenne, dove erano stanziati reparti militari lealisti; la fuga non raggiunse i suoi scopi, perché
a Varennes (Lorena) il re, travestito da maggiordomo, fu riconosciuto da un ragazzo, Jean-Baptiste Drouet, che si
racconta abbia riconosciuto il volto del re sull'effige di una moneta. La mattina del 22 giugno la famiglia reale era
tornata a Parigi. Intanto l'Assemblea costituente pochi giorni prima doveva fare i conti con i primi moti operai
anti-rivoluzionari, in seguito all'approvazione della legge De Chapelier, che vietava scioperi e contestazioni. Con
il ritorno della famiglia reale a Parigi, d'altronde, si sanciva la stessa fine della secolare Monarchia capetingia a
capo dello Stato transalpino; rimase il simbolo del declino della stessa natura monarchica dello Stato francese. Per
cui si iniziò a parlare di mutamento della forma costituzionale, mutamento radicale: la Repubblica che dinanzi
alle pressioni giacobine che spingevano a ridiscutere della responsabilità politica del Re, il quale era stato difeso
dai moderati dell'Assemblea sostenendo l'ipotesi di rapimento (in quanto non si volevano radicalizzare ancor di
più gli animi) una parte di questi moderati Giacobini si staccò dal club originario e andò a formare il gruppo dei
Foglianti di cui facevano parte Lafayette, e il triunvirato Barnave-Duport-Lameth. Queste e altre manifestazioni
radicali portarono l'Assemblea Nazionale a tener bene saldi i principi costituzionali moderati già approvati nella
Costituzione: ad esempio riguardo la nomina dei ministri. Solo al Re spetta la scelta e la revoca dei ministri; essi
sono tenuti a presentare ogni anno, al Corpo legislativo, il quadro delle spese da fare nel loro dicastero, a render
conto dell'impiego delle somme che vi erano destinate e a indicare gli abusi che abbiano potuto introdursi nelle
varie parti del governo. La 1° Costituzione della Francia moderna venne approvata dall'Assemblea Nazionale il 3
settembre 1791, venne poi giurata da Luigi XVI il 14 settembre e prevedeva: un Corpo legislativo monocamerale,
in carica per 2 anni, con le seguenti prerogative: fissare le spese pubbliche, ripartire il contributo diretto, decretare
la creazione/soppressione degli uffici pubblici e decretare una dichiarazione di guerra, ratificare i trattati di pace,
d'alleanza e commercio. Il potere esecutivo affidato nelle mani del Re, non più soltanto Re di “diritto divino”, ma
Re sancito dalla Costituzione; egli è il campo supremo dell'amministratore generale del regno e capo delle forze
armate: nomina gli ambasciatori, i generali e gli ammiragli, può rifiutare di dare la sanzione (registrazione) ai
decreti del Corpo legislativo, ma il suo rifiuto è solo sospensivo. Il potere giudiziario è delegato a giudici eletti
dal popolo; l'azione giudiziaria è gratuita e prevede 3 livelli di giudizio; al livello fiscale, tutti i contributi saranno
ugualmente ripartiti tra tutti i cittadini in proporzione delle loro facoltà; l'amministrazione fiscale è delegata alle
singole municipalità.

Capitolo 20 - Il radicalismo rivoluzionario

La nascita della Repubblica

La “Dichiarazione di Pillnitz” del 27 agosto 1791 con cui l'imperatore d'Austria, Leopoldo II, e il re di Prussia,
Federico Guglielmo II, minacciarono di intervenire a favore del re di Francia, a condizione d’un comune sostegno
politico-militare di altri Stati europei interessa, contribuì ad esasperare gli animi e a far aumentare il risentimento
nazionale verso il re. Scioltasi il 30 settembre l'Assemblea nazionale costituente, il 1 ottobre si riuniva la nuova
Assemblea legislativa, composta da 745 deputati di cui, la maggioranza (264) erano foglianti dell’ex sini stra
moderata (Barnave-Duport-Lameth-Lafayette); 136 erano i Giacobini, che guidati da deputati del dipartimento
della Gironda, vengono chiamati anche Girondini, a cui bisogna aggiungere poche unità dell’estrema sinistra
“cordigliera”; ed infine della “Palude” ossia il centro facevano parte tutti coloro che non avevano un ideologia
precisa e avrebbero appoggiato l'una o l'altra alleanza in base agli interessi. Fin dall’estate contadini e preti
refrattari avevano dato vita a rivolte e sommosse soprattutto nella regione della Vandea (regione costiera della
Francia occidentale), ispirate da trame controrivoluzionarie degli aristocratici rifugiati all’estero. L'Assemblea
doveva sbrigarsi, dato che il conte di Artois e il principe di Conde avevano radunato circa 20.000 soldati che
sarebbero intervenuti insieme alle truppe austro- prussiane; così dal 31 ottobre al 29 novembre '91 si votarono 4
decreti. Il re fece uso del suo diritto di veto nei confronti di due dei quattro decreti: ovvero sul decreto riguardante
l'intimazione di rientro agli aristocratici (ma non a quella al fratello) e sul nuovo giuramento cui sottoporre i preti
refrattari. Nel frattempo si giocava per l’elezione del sindaco parigino un gioco volto alla radicalizzazione, che
spingeva verso tale ruolo il giacobino Pétition. Fronte “pro guerra”: la monarchia, con Luigi XVI che invitava
segretamente i principi elettori tedeschi a respingere l'intimazione dell'Assemblea legislativa francese, l'area
moderata con i suoi interessi economico-finanziari e le forze politiche di sinistra; queste ultime speravano che
dalla guerra sarebbe scaturito un chiarimento politico-ideologico interno che avrebbe finalmente diviso tra amici
e nemici della "nazione" e della Rivoluzione; il rientro dal sistema degli "assegnati" (e relativa inflazione), le
speranze di guadagno con le forniture militari e anche la fine della Rivoluzione erano le attese borghesi. Fronte
“contro la guerra”, proprio perché ne antivedevano i rischi per la Rivoluzione, erano il triunvirato Barnave-Duport-
Lameth e lo stesso Robespierre, cosciente della critica situazione dell'esercito in quei frangenti. Luigi XVI nel
gennaio 1792 nominò un ministero girondino “guerrafondaio” (Servant ministro della Guerra, Roland ministro
degli Interni e Dumouriez agli esteri) e questi,a causa dell’idea fissa della “crociata rivoluzionaria”, richiesero
all'imperatore Leopoldo II di ritirare la Dichiarazione di Pillnitz. Ironia della sorte Leopoldo II morì poco dopo (1
marzo '92) e imperatore divenne il figlio Francesco II, il quale respinse le richieste dei ministeri e minacciò di
riprendersi Avignone con la forza, se non l'avessero consegnata al Papato; inoltre richiedeva il ripristino dei diritti
feudali dei principi tedeschi in Alsazia. La guerra all'Impero venne dichiarata il 20 aprile dall'Assemblea
legislativa; 8 giorni dopo la Prussia entrava in guerra al fianco dell'Austria. La Francia non più monarchica si
apprestava alla guerra con le finanze ormai in rosso fisso e l'esercito disordinato e allo sbando; a maggio un gruppo
di militari chiese la pace al re, senza neanche aver provato a combattere; nacquero così le prime accuse di
tradimento alla Rivoluzione rivolte ai vertici militari e alla corte, si iniziò così a vedere ovunque un “comitato
austriaco”. Ulteriori accuse vi furono in seguito al rifiuto del Re di sanzionare 2 decreti dell'Assemblea, il primo
riguardava l'arresto e la deportazione dei preti refrattari a Soissons, il secondo la formazione di un esercito di
20.000 uomini a Parigi della Guardia Nazionale. Luigi XVI, al governo girondino che gli chiedeva di rinunciare
al veto, lo sostituì con un governo più moderato di Foglianti; la folla parigina lo considerava un governo in
complotto con i re e con i contro-rivoluzionari, per questo la sede dell'Assemblea legislativa venne assalita il 20
giugno, e quel giorno stesso arrivava la notizia che le truppe prussiane, al seguito degli emigranti francesi avevano
varcato il confine francese. Il ministero fogliante si dimise il 10 luglio, il giorno seguente Brissot proclamò la
“Patria in pericolo” e da quel momento in poi si procedette all'arruolamento di massa e alla seduta permanente di
tutti gli organi amministrativi della città. I giacobini chiesero all'Assemblea di pronunciarsi sulla decadenza del re
entro il 9 agosto; passato questo termine, senza novità, il giorno dopo venne proclamata la Comune insurrezionale
e i radicali assaltarono la sede dell'Assemblea, la quale non poté far altro che sospendere il Re dalle sue funzioni
e indire le elezioni a suffragio universale per la nuova Assemblea costituente (Convenzione Nazionale, già
invocata da Robespierre). Al posto del Re venne nominato un Consiglio esecutivo provvisorio formato da 6
ministri; il 17 agosto venne istituito un Tribunale criminale straordinario e 2 giorni dopo il generale Lafayette si
arrese alle forze austriache. La resistenza della Guardia Nazionale durò un altra decina di giorni, ma agli inizi del
settembre 1792 le truppe austro-prussiane erano ad un passo da Parigi. Mai momento storico apparve più delicato,
sia la Patria che la Rivoluzione erano contestualmente, in pericolo la follia invase le menti e i cuori dei cittadini,
che massacrarono circa 1300 prigionieri rinchiusi nelle carceri, tra cui molti preti refrattari e ex-aristocratici,
colpevoli del critico momento politico militare. La Comune insurrezionale di Parigi prepara la resistenza cittadina:
è la prima volta che combattevano per la salvezza della Patria artigiani, contadini, popolani, gli operai dei
faubourgs (sobborghi)...tutti questi costituivano i sanculotti, i “patrioti” francesi. Le truppe della Guardia
Nazionale comandate dal Dumoriez respingevano i nemici a Valmy (20 settembre 1892), che battono in ritirata
(prima vera vittoria della Rivoluzione e della Patria); nella capitale i festeggiamenti impazzano per le vie della
città: ha preso avvio la nazionalizzazione delle masse. Lo stesso giorno del trionfo di Valmy, si insediava la
Convenzione Nazionale, con un nuovo schieramento politico: a destra vi erano ora i girondini, circa 200, t ra cui
Brissot , Gaudet, Roland; a sinistra vi era l'ala radicale dei girondini-giacobini, i Montagnardi, circa 270 e
composta da Robespierre, Danton, Marat, Desmoulins, Colloit d'Herbois; nella così detta palude vi erano
inizialmente alleati dei moderati girondini. Montagnardi e Girondini facevano entrambi parti del Terzo Stato ma
all'interno di questo strato sociale vi erano delle differenze: i primi rappresentavano i contadini, i popolani, gli
artigiani, insomma l'intera galassia sociale compresa nei sanculotti ed erano dunque estremamente radicali, pronti
a scavallare il legalismo formalistico per difendere la Patria e la Rivoluzione; i secondi erano espressione dell'alta
borghesia legalitaria e costituzionale e molte accuse pervennero dai questi ultimi ai Montagnardi. Il 21 settembre
'92 la Monarchia veniva abolita, il 22 veniva proclamata la Repubblica, che il 25 veniva qualificata dai
Montagnardi come “una e indivisibile”nata la Repubblica francese. Bisognava ora occuparsi della sorte dell'ormai
ultimo Re di Francia, Luigi XVI. I Girondini esitavano ancora a giudicarlo, mentre i Montagnardi non avevano
alcun dubbio: la non condanna del re avrebbe sconfessato l'insurrezione parigina; un apposito comitato legislativo
incaricato dalla convezione studiò e approvò la procedibilità formale del processo e la competenza a giudicare
della stessa convenzione. L'atto d'accusa venne presentato alla Convenzione l'11 dicembre 1792 e analizzava i
comportamenti anti-rivoluzionari tenuti dal re; la difesa cercò di spostare l'attenzione su tutto il lavoro fatto dal
Re fino al 1789, nello scontro avverso i ceti privilegiati; inoltre si appellavano ad un articolo della costituzione
del 1791 per cui La persona del re è inviolabile e sacra. La Gironda richiedeva che poiché quella Costituzione era
nata da un pronunciamento popolare, anche l'accusa e la condanna al re sarebbe dovuta scaturire da un
pronunciamento popolare, a suffragio universale, ma la proposta non ebbe seguito. Il 14 gennaio 1793 la
Convenzione chiamò i deputati a rispondere a 3 quesiti: sulla colpevolezza del re, sull'appello alla nazione dopo
la sentenza e sulla pena. Il primo quesito verificò un voto unanime, l'appello alla nazione venne rifiutato, e il 21
gennaio 1793 il Re di Francia Luigi XVI veniva ghigliottinato alla Piazza della Rivoluzione. L'esecuzione del Re
scosse tutte le cancellerie degli Stati d'Europa: la guerra che si stava predisponendo non era più una normale
guerra, come quelle che ci furono fino ad allora...era ormai la guerra dell'Ancien Règime contro la Rivoluzione.
Dinanzi allo scorrere degli eventi rivoluzionari, inizialmente le cancellerie europee osservarono con malcelato
compiacimento l'involuzione dello Stato francese. L'esercito francese rivoluzionario, dopo aver rincorso i
prussiani in ritirata dopo la battaglia di Valmy, aveva occupato le città di Magonza, Worms, Francoforte e aveva
combattutto a Jemappes contro i soldati dei Paesi Bassi austriaci, riportando un'altra vittoria (6 novembre 1792).
Il carattere ideologico degli eventi erano riscontrabili anche nel modo in cui venivano accolti gli eserciti nelle
città, come eserciti di “liberazione”: i popoli oppressi dal giogo dell'Ancien Regime venivano “liberati”. Così, tra
il novembre '92 e il marzo '93 la Francia rivoluzionaria annetteva la Savoia, Nizza, Belgio e Renania,
introducendovi l'amministrazione rivoluzionaria. La Santa Sede e il Papa Pio VI si mossero molto cautamente
nell'analisi dell'evento rivoluzionario. Nel 1790, in un concistoro segreto di marzo il Papa condannava gli abusi e
le usurpazioni commesse dall'Assemblea nazionale costituente a danno della Chiesa; tuttavia questa posizione
rimase segreta appunto, per non provocare ulteriori strappi nella società francese. Condanna formale e pubblica
invece ci fu nel momento della registrazione legislativa della Costituzione del Clero. In Inghilterra il partito degli
Whig aveva osservato con molto piacere all'evolversi del movimento rivoluzionario, in quanto anche in Francia
si voleva creare, così come in Inghilterra, un sistema costituzionale capace di imbrigliare e ridurre il potere regio.
Nel 1790 uno degli intellettuali più in vista tra i whigs il liberale Edmund Burke (1728-99) vedeva alla rivoluzione
come ad un modello di governo progenitore di anarchia, a causa del suo contenuto altamente astratto e ideologico
che veniva propugnato, come l'ugualitarismo estremo, la libertà senza simile, l'assenza di indicazione di doveri...

La crisi della Rivoluzione

La guerra, proprio per il suo carattere ideologico ebbe gravi conseguenze sulla politica interna francese.
L'inflazione raggiunse livelli tragici, e la sua continua crescita connessa all'aumento dei prezzi provocava
sommosse popolari in città e campagna; la Comune insurrezionale chiedeva la fissazione, da parte della
Convenzione del “calmiere”, ossia di un tetto massimo che contenesse i prezzi dei generi alimentari di prima
necessità. L’andamento della guerra, passate le prime settimane di entusiasmo, risultò particolarmente critico per
le armi francesi; ai primi di marzo 1793, la Convenzione impose la leva obbligatoria di 300.000 soldati in tutta la
Francia, l'istituzione di un Tribunale speciale “rivoluzionario” attinente la sicurezza interna ed esterna e dal
giudizio inappellabile. Sul fronte militare la situazione andava peggiorando: si registrò, alla fine di marzo, il
tradimento del generale Dumoriez che, perdendo le battaglie di Neerwiden e di Lovanio (Belgio), si consegnava
al generale austriaco Federico di Coburgo per marciare insieme su Parigi e proclamare la Monarchia
costituzionale. Continuavano le sommosse contadine nelle campagne, al grido di “Pace, Pace” e di Luigi XVI!.
Gli scontri si ebbero sia con i borghesi che sostenevano gli ideali della Rivoluzione, sia con le truppe della Guardia
Nazionale. In particolare, in Vandea, regione sulla costa atlantica francese, si organizzò un vero e proprio
movimento contro-rivoluzionario organizzato, che riuscì a riconquistare alcune città ed era comandato da ufficiali
monarchici e aristocratici si stava generando una nuova guerra civile. Nell'agosto del 1793 la Convenzione ordinò
di sterminare i controrivoluzionari vandeani e l'operazione militare si prolungò più del previsto; la repressione si
concluse addirittura nel dicembre del '93 grazie alle forze del generale Kleber; gli ultimi focolai rimasti vennero
abbattuti e i fuggitivi rastrellati e massacrati.

Poiché ormai la Rivoluzione aveva assunto appieno il suo carattere estremista e radicaleggiante, il potere di
decisione, nella primavera del '93 era ormai passato nelle mani dei sanculotti e dei Montagnardi: essi, ponendo
pressione alla Convenzione (che intanto stava riscrivendo una nuova Costituzione), ottennero la formazione dei
Comitati di sorveglianza rivoluzionaria incaricati del controllo politico di coloro che erano sospet ti contro-
rivoluzionari; il Comitato di salute pubblica (6 aprile '93), aveva la funzione di affiancamento amministrativo al
Consiglio Esecutivo, e poteva prendere provvedimenti di difesa generale, se necessario; infine, furono istituiti i
rappresentati del popolo presso gli eserciti con la stessa funzione dei Comitati di sorveglianza rivoluzionaria.

Un' altra forma di reazione alla Rivoluzione borghese, anche se più moderata dell'insurrezione vandeana, fu la
costituzione di un movimento federalista-girondino, non contro-rivoluzionaria ma ostile alla “dittatura” della
sinistra estrema parigina; esso si sviluppò nelle regioni del sud-est francese. I Montagnardi si riscossero e
aizzavano i sanculotti parigini all'insurrezione: il 31 maggio '93 essi marciarono alla volta della Convenzione,
dove fu presentato un programma ultra-rivoluzionario che aveva come punti cardine: l’epurazione dei girondini,
l’arresto dei sospetti, il diritto di voto ai soli sanculotti e il ribasso del calmiere. La maggioranza moderata rifiutò;
ma il 2 giugno quasi 80.000 sanculotti si presentarono nuovamente davanti la sede della convenzione armati,
stavolta, di cannoni; la Convenzione fece arrestare 29 deputati girondini, che poi vennero ghigliottinati il 31
ottobre seguente. La Gironda era stata fatta fuori dal governo. Tre settimane dopo, più precisamente il 24 giugno
'93, giunse a definizione ed approvazione la nuova Costituzione: seconda, dopo quella monarchica del 179, e
prima repubblicana. Il rapporto conclusivo presentato il 15 febbraio 1793, prevedeva un testo di oltre 400 articoli,
in cui, all'irrinunciabile principio del suffragio universale e del predominio del potere legislativo (sempre
monocamerale) sull'esecutivo, si affiancavano però principi sospetti ai montagnardi, come il rafforzamento dei
poteri di partimentali che potevano rispondere all'ideologia girondina allora predominante alla Convenzione. Ma
appunto il precipitoso evolvere della situazione politica rese impraticabile, anzi pericolosa la strada di riforma
costituzionale proposta dai girondini. Il 10 giugno Hérault de Séchelles, relatore del comitato, presentava il testo
alla Convenzione; dopo due settimane di discussioni, con Atto costituzionale del 24 giugno '93, la Convenzione
varava una nuova Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino e la nuova Costituzione repubblicana.

A Parigi si era intanto formato un nuovo movimento ultra-rivoluzionario di estrema sinistra, quello degli
Arrabbiati, capeggiati da Hebert, che proponeva la democrazia diretta, la revoca popolare del mandato
parlamentare, e altre proposte radicali simili.

Nella nuova Dichiarazione l’art. 2 enunciava, fra i diritti naturali e imprescrittibili, “l'uguaglianza, la libertà, la
sicurezza, la proprietà”, con l'uguaglianza citata per prima e già assente nell'omologo articolo della precedente
Dichiarazione del 1789 riportata nella Costituzione del '91 (in cui all'art. 1 si diceva che "gli uomini nascono e
rimangono liberi e uguali nei diritti"). L'art. 3 della Dichiarazione del 1789-91, "Il principio di ogni sovranità
risiede essenzialmente nella nazione", variava così nell'art. 25 del nuovo testo del 1793: "La sovranità risiede nel
popolo". La nuova Dichiarazione conteneva inoltre una serie di principi palesemente ostili al potere esecutivo:
così l'art. 9: "La legge deve proteggere la libertà pubblica e individuale contro 'oppressione di coloro che
governano"; e gli articoli 33-35 prevedevano addirittura come "il più sacro dei diritti" quello del popolo
all'insurrezione contro il governo. Questo veniva ampliato a 24 membri (e già con ciò implicitamente
depotenziato) da rinnovare "per metà a ogni legislatura" (art. 64) e responsabili dinnanzi al potere legislativo. La
nuova Costituzione prevedeva la possibilità d'una propria autoriforma, in ordine al dettato dell'art. 28 della
Dichiarazione dei diritti: "Una generazione non può assoggettare alle sue leggi le generazioni future".

Di particolare rilievo infine gli articoli relativi ai "Rapporti della Repubblica francese con le nazioni straniere”
che costituzionalizzavano il carattere ideologico della guerra che - non va dimenticato - si stava intanto
combattendo ad ogni confine della Francia: così all'art. 118: "Il popolo francese è l'amico e l'alleato naturale dei
popoli liberi"; e, art. 120: "Esso dà asilo agli stranieri banditi dalla loro patria per la causa della libertà. Lo rifiuta
ai tiranni". A causa della crisi militare, e nonostante in luglio un plebiscito popolare dà la conferma al testo
costituzionale, quest'ultimo non entrerà mai in vigore, poiché il “Governo provvisorio” rimarrà costituito fino alla
fine della guerra. La Francia rivoluzionaria è accerchiata: gli anglo-olandesi assediano Dunkerque, gli austriaci
Valenciennes, i prussiani dilagano in Alsazia, gli spagnoli da sud, mentre le colonie sono ormai assoggettato al
Commonwealth. Nuovi moti di piazza animano Parigi, gli Arrabbiati premono con le loro proposte sulla
Convenzione, l'inflazione si aggrava...le nuove elezioni del 27 luglio 1793 per il rinnovo dei membri del Comitato
di Salute pubblica, portano alla nomina di Robespierre, Barère, Collot-Herbois, Couthon, Saint-Just...si costituisce
il Grande comitato dell'anno II della Repubblica, chiamato a fronteggiare la disgregazione della nazione. Il mese
seguente venne decretata la “leva di massa”. Affinché si potesse continuare a mediare con le richieste del popolo
sanculotto, il Grande comitato dovette venire a patti con gli Arrabbiati di Hebert e Jacques Roux; fra le loro
richieste figuravano: un calmiere (maximum) esteso, oltre che ai generi alimentari, anche ai salari, al guadagno,
alla ricchezza e alla proprietà; l'istituzione di un esercito rivoluzionario; procedimenti sommari d'arresto dei
sospetti.

La Convenzione acconsentì alle proposte, senza neanche consultare il Grande comitato: venne instaurato il Terrore
(5 settembre 1793) 17 settembre, approvazione legge sui sospetti 29 settembre, maximum generale 10 ottobre, il
governo era proclamato rivoluzionario sino alla pace.

Il democratismo radicale e la reazione termidoriana

Il “Terrore” non era altro che la conseguenza pratica della nuova forma di vita politico-ideologico; gli Arrabbiati
e la nuova estrema sinistra giacobina al potere, volevano la sintesi di sovranità e rappresentanza nel partito, la
guida politica dello Stato e unico interprete della volontà generale del popolo francese: la volontà generale del
popolo “virtuoso” diviene la volontà della guida politica dello Stato e quindi della Nazione. Nasce, così una nuova
forma di governo politico-ideologica: il Totalitarismo, il quale impone la riduzione e la coesione del popolo a un
idem sentire, a un unico scopo, e coloro che si contrappongono a questo, vanno necessariamente eliminati, poiché
sono nemici del popolo, e quindi della volontà generale della Nazione: forma mistica della politica, il che
comporta la distruzione totale dell'altra forma mistica presente nello Stato, ossia la religione. La prima
applicazione del Terrore si ebbe alla fine di ottobre: il Tribunale rivoluzionario iniziò a lavorare a pieno regime
portando sul patibolo prima l'ex regina Maria Antonietta (16 ottobre), poi i girondini arrestati il 2 giugno alla
Convenzione (31 ottobre); in seguito vennero esecutati alcuni esponenti delle prime settimane del 1789, tra cui
Jean Bailly, il presidente della Pallacorda; Barnave e molti dei Foglianti, moderati, contro-rivoluzionari, ecc. A
Parigi vennero imprigionate quasi 5000 persone; a Nantes quasi 3000 vittime vennero affogate nel fiume Loira; a
Tolone, riconquistata dal generale Dugommier, il quale venne assistito da un giovane ufficiale d'artiglieria,
Napoleone Bonaparte (1769-1821), vi furono altre esecuzioni di massa. Mentre l'insurrezione vandeana veniva
lentamente soffocata, il Comitato di Salute pubblica iniziò a organizzarsi per respingere i prossimi attacchi esterni,
delle nazioni europee: furono costruite fabbriche d'armi, fonderie, requisite merci utili per l'esercito; nella
primavera del 1794 si erano radunate 12 armate rivoluzionarie. I risultati si videro: le truppe francesi, responsabili
dinanzi all'autorità politica del Comitato, riconquistarono le posizione perse e respinsero le forze austro-prussiane
al di là del Reno; a sud, gli spagnoli ripiegarono in patria, a sud-est fu riconquistata la Savoia. Le tensioni interne
continuavano a protrarsi e non si riusciva a comporre una sintesi delle posizioni più moderate e conservatrici (con
Danton e Desmoulins) con quelle più radicali e rivoluzionarie (Hebert, Roux e il “movimento popolare”).
Robespierre e i suoi colleghi del Grande comitato dovettero affrontare un conflitto interno alla Convenzione: un
deputato moderato, Philippe Fabre d'Englentine, fu coinvolto con altri colleghi nel caso della chiusura della
Compagnia delle Indie (decretato il 24 agosto 1793) in un classico gioco di borsa al ribasso e falso in bilancio;
Philippe accusò un gruppo di deputati di estrema sinistra di collaborare con i contro-rivoluzionari e con le forze
nemiche. Si riaccese dunque la psicosi del “complotto straniero” che in periodi di Terrore apriva a esiti finali
abbastanza scontati: Robespierre, Danton e Desmoulins procedettero all'accusa contro gli estremisti rivoluzionari,
colpevoli di aver instaurato il Terrore e le campagne di “scristianizzazione”; tuttavia, nel momento che le accuse
a Fabre d'Englentine si rivelarono fondate, Hebert e i suoi seguaci si riscossero: si appellava al terrorismo, si
sequestrarono i beni dei sospetti e si impose alla Convenzione l'emanazione di un nuovo calmiere maximum (fine
febbraio 1794). La misura era ormai colma: alla proclamazione dell'ennesima insurrezione popolare dei sanculotti
da parte di Hebert (2 marzo), essi vennero fatti arrestare dal Comitato di Salute pubblica il 13 marzo, i cordiglieri,
i “patrioti” e lo stesso Hebert furono ghigliottinati il 24 marzo. Poco dopo, la destra moderata faceva la stessa fine:
a causa delle implicazioni nel caso della chiusura della Compagnia delle Indie, d'Eglentine, Danton, Desmoulins
e gli altri moderati vennero giustiziati il 5 aprile. Non vi erano più opposizioni al governo rivoluzionario di
Robespierre. Sgomberata l'opposizione, e risolvendosi la situazione militare ai fronti di guerra, Robespierre e i
suoi colleghi del Comitato di Salute pubblica revocarono alcune misure “terroristiche”, tra cui l'abolizione dei
tribunali locali, il congedo dell'esercito “rivoluzionario” (addetto al controllo e all'ammasso delle derrate agricole
e delle merci utili per la Guardia Nazionale) e l'abolizione delle commissioni rivoluzionarie. Ma 2 attentati, il
primo a Collot-Herbois (fine maggio '94), il secondo diretto a eliminare Robespierre, imposero l'uso di misure
draconiane; dall'inizio del giugno fino agli ultimi giorni di luglio (termidoro) del 1794 si aprì un periodo detto del
Grande Terrore e tra i 27-28 luglio e con le Giornate del 9-10 termidoro la Rivoluzione si concludeva. L'opinione
pubblica moderata invocava la cessazione dei metodi terroristici, ormai obsoleti e inutili, dato che tutte le forze di
opposizioni e gli attentatori erano stati eliminati (ad opera dei Robespierrani) e si dichiarava stanca delle
esecuzioni inutili; gli stessi agenti terroristi, che erano stati mandati nelle provincie e che avevano lavorato di gran
lena nell'ultimo anno, tornarono all'interno della Convenzione, ad accrescere il centro della “palude” e la destra
moderata (gli Indulgenti). Pertanto, il governo rivoluzionario di Robespierre stava perdendo consensi: egli agì
d'anticipo accusando i terroristi tornati dalle province di aver loro proclamato e applicato il Terrore, ormai non
più sostenibile (26 luglio) in quella notte stessa si strinse un accordo che vide la “palude” protagonista: essa
avrebbe cessato di appoggiare Robespierre in cambio della fine del Terrore e della prassi del governo
rivoluzionario. Il 27 luglio (9 termidoro) votarono un decreto d'accusa contro i Robespierristi; essi si recarono alla
sede della Comune insurrezionale ma qui vennero arrestati dai soldati della Guardia Nazionale capeggiati da
Barras. Il giorno dopo, il 28 luglio (10 termidoro) ebbero luogo le esecuzioni di 22 arrestati, tra cui entrambi i
fratelli Robespierre (Maximilien e Augustin), Saint-Just e Couthon: con la Reazione termidoriana , la Rivoluzione
francese si era dunque conclusa.

Capitolo 21 - L’età napoleonica

Il direttorio
Morto Robespierre, non vi era alcuna volontà da parte dei termidoriani di porre fine all’esperienza politica
rivoluzionaria e repubblicana.
Alle misure post termidoriane (smantellamento dell'apparato del "terrore" previsto nell'accordo tra ex "terroristi"
montagnardi e palude") prese piede un nuovo sistema di indirizzo politico che non mancò di conseguenze
istituzionali internazionali non meno che di reazioni popolari; la fine del "terrore" e del relativo apparato
poliziesco, portò all'inosservanza del maximum (cioè dei prezzi calmierati fissati per legge) nei mercati e delle
requisizioni delle derrate agricole nei vari distretti. La fine del dirigismo economico e l'inflazione clamorosa
conseguente al crollo dell'assegnato determinarono delle dinamiche sociali di sovvertimento dei valori spartani e
patriottici imposti dal "terrore".
Prese allora piede un fenomeno chiamato “terrore bianco” cioè la caccia all’uomo, solo che ora veniva praticata
ai danni di chi fino ad ora era stato cacciatore, cioè sanculotti, esponenti del movimento popolare parigino,
giacobini o montagnardi, membri di club e sezioni. A dare segno di resistenza, a denunciare i gravi pericoli di
involuzione ideologica del nuovo corso politico emerse una singolare figura allora nota come François Noel
Babeuf, un giornalista che nel suo giornale “Le tribun du peuple” scriveva di rimpiangere il sistema di Robespierre
invitando il popolo sanculotto all’insurrezione; per questo motivo e per aver tentato di riunire cospirativamente le
frange giacobine-sanculotte Babeuf venne arrestato l’8 febbraio 1795. Era il segno di un recupero di forze estreme
fino ad allora rimaste separate tra loro ma che ora erano pericolosamente recuperabili all’unità di azione della
nuova situazione politica. Dalla seconda metà di marzo del ‘95 si cominciarono ad avere le prime manifestazioni
popolari dirette conto la sede della Convenzione 1 aprile ’95 una folla invase l’aula della Convenzione chiedendo
pane e la Costituzione del ’93 che ancora non era in vigore; la Guardia nazionale disperse i manifestanti, decretò
lo stato d’assedio e vennero arrestati gli esponenti montagnardi che potevano oggettivamente trar profitto dalla
ripresa dei moti di piazza. Il 20 maggio la folla invase nuovamente la Convenzione ma stavolta ci scappò un
morto: un deputato linciato mentre veniva letto un proclama insurrezionale. Il giorno dopo la folla conquistò
militarmente la sede dell’Assemblea; le truppe dell’esercito dovettero essere impiegate nelle operazioni che si
conclusero la sera del 22 maggio con il controllo militare dei quartieri e con una serie di processi a danno degli
insorti e dei deputati convenzionali che con quelli avevano fraternizzato. Un mese dopo le giornate insurrezionali,
il relatore della Convenzione, Boissy, definiva la Costituzione repubblicana del 1793 “l’organizzazione
dell’anarchia”; il destino della Costituzione del ’93 era segnato: non sarebbe mai entrata in vigore. L’opera
demolitaria del Boissy ai danni della Costituzione del ’93 procedeva di pari passo con la costruzione del nuovo
testo che doveva dunque essere ispirato a quei principi ideologici, a quei criteri giuridico politici negati
dall’esperienza del radicalismo rivoluzionario e cioè la restrizione censitaria del suffragio, del bicameralismo e il
rafforzamento del potere esecutivo. La Convenzione non oppose alcuna resistenza al progetto conservatore. Le
condizioni di generale favore interno e internazionale maturate nel ’95 consentirono alla Francia di portare a
termine il nuovo testo costituzionale: dal 17 luglio era in discussione alla Convenzione il principio del
bicameralismo che vide un solo deputato opporvisi. Si decise che oltre a una “Dichiarazione dei diritti” dovesse
esserci una “Dichiarazione dei doveri”, a precedere il testo costituzionale; la “Dichiarazione dei diritti e dei doveri
dell’uomo e del cittadino” era divisa in due parti: 22 articoli riguardavano i diritti e 9 i doveri.
Il 1° articolo dei diritti recitava: "I diritti dell'uomo in società sono la libertà, 'eguaglianza, la sicurezza, la
proprietà"; al successivo art. 3 specificava che "l'eguaglianza consiste nel fatto che la legge è eguale per tutti, sia
che protegga, sia che punisca", sancendo dunque che si trattava di eguaglianza giuridica (non economica). La
sovranità, così l'art. 17, "risiede essenzialmente nell'universalità dei cittadini" e, diretto contro la precedente
esperienza politico-istituzionale montagnarda, l'art. 18 stabiliva che "Nessun individuo, nessuna riunione parziale
di cittadini può attribuirsi la sovranità". Il 1° articolo dei "doveri" recitava: "La dichiarazione dei diritti contiene
gli obblighi dei legislatori; la conservazione della società richiede che quelli che la compongono, conoscano e
compiano ugualmente i loro doveri". Questi doveri venivano fatti derivare (così all'art. 2) "da questi due principi,
dalla natura impressi in tutti i cuori: Non fare agli altri ciò che non vorreste fosse fatto a voi. Fate costantemente
agli altri il bene che voi vorreste ricevere". Nello specifico, l'art. 8 recitava: "È sul mantenimento delle proprietà
che riposano la coltivazione delle terre, tutte le produzioni, ogni mezzo di lavoro e tutto l'ordine sociale". La nuova
Costituzione prevedeva per la prima volta (art. 6) che "Le colonie francesi sono parti integranti della Repubblica
e sono sottoposte alla medesima legge costituzionale; e il successivo art. 7 ne elencava specificamente i territori
ormai ridotti a San Domingo, Guadalupa, Martinica, Santa Lucia e Tobago, Séchelles e Madagascar; Réunion e,
nelle Indie orientali, Pondichéry, Chandernagor, Mahé e Karical (ma la schiavitù, abolita in Francia sin dal 28
settembre 1791, sarebbe rimasta in vigore nelle colonie fino alla Costituzione del 1848 che solo allora avrebbe
finalmente disposto, all'art.6, che "la schiavitù non può esistere su nessuna terra francese). L'iscrizione nel ruolo
delle imposte dirette era condizione indispensabile per l'esercizio di voto nelle Assemblee primarie (art. 8), ma
per essere "elettore" (secondo turno di voto) bisognava essere "proprietario o usufruttuario di un bene valutato ad
una rendita pari a centocinquanta giornate di lavoro", o anche cento, a seconda della dimensione del comune (art.
35). Il potere legislativo era articolato in due camere: il Consiglio degli Anziani e il Consiglio dei Cinquecento i
cui membri restavano in carica tre anni ed erano individualmente rappresentanti della Nazione e non del
dipartimento in cui erano stati eletti. Al Consiglio degli Anziani (composto da 250 membri) "spetta esclusivamente
di approvare o di respingere le risoluzioni del Consigli dei Cinquecento"; il potere esecutivo, delegato ad un
Direttorio di cinque membri" e privo di presidente: è presieduto a turni trimestrali da ciascun membro che è dunque
l'organo collegiale a capo dello Stato e del governo. Il Direttorio non può proporre leggi ma può però "decretare
dei mandati di comparizione e dei mandati di cattura" nei soli casi di "cospirazione contro la sicurezza esterna o
interna dello Stato" (art. 145). E questo appare l'unico caso, ancorché eccezionale, di commistione di poteri; il
potere giudiziario rimaneva infatti rigorosamente distinto dall'esecutivo e dal legislativo; era ribadito il principio
del giudice naturale, della gratuità dell'azione giudiziaria e del terzo grado di giudizio. Un decreto del 22 agosto
'95 stabilì arbitrariamente che i due terzi dei membri delle nuove camere (Consiglio dei Cinquecento e degli
Anziani) dovessero essere eletti tra i deputati della Convenzione. Il nuovo testo costituzionale venne approvato il
22 agosto 1795. L’impianto generale di questa Costituzione la riporta evidentemente ai principi del 1789 piuttosto
che a quelli del ’93. La convenzione però prima che la Costituzione venne approvata aggiunse alcuni
provvedimenti di dubbia legalità come quello di stabilire che i 2/3 dei membri delle nuove camere dovessero
essere eletti tra i deputati della Convenzione ; un altro decreto prevedeva che dove non fosse stata raggiunta quella
proporzione per via elettorale avrebbe provveduto la Convenzione a nominare i membri per cooptazione. Il 23
settembre 1795 la Convenzione dichiarava approvata la Costituzione e i provvedimenti, ma anche qui le misure
da cui era stata accompagnata ne segnavano la fallimentare via. La destra infatti aveva iniziato a fine settembre a
dar vita a una vera e propria insurrezione popolare che sfociò il 5 ottobre in una vera e propria insurrezione della
capitale. Ma grazie alla resistenza risoluta di Barras che affidò il compito militare della difesa ad alcuni giovani
generali "lealisti" tra cui Napoleone Bonaparte e Gioacchino Murat si dovette la riconquista" di Parigi. Le elezioni
che poterono dunque tenersi come previsto il 12 ottobre '95, confermarono la voglia popolare di destra appena
manifestatasi insurrezionalmente. Il 26 ottobre (4 brumaio) 1795, al momento di sciogliersi, la Convenzione varò
una prudente amnistia per i reati connessi agli eventi rivoluzionari. Il nuovo parlamento a grande maggioranza
moderata provvide quindi, secondo il dettato costituzionale, all'elezione dei cinque membri del Direttorio;
risultarono eletti oltre i già noti Barras e Sieyès (che però rifiutò la carica ed al suo posto subentrò Lazare Carnot,
il filogirondino Louis-Marie La Réveillière-Lépaux, l'ex montagnardo Jean-François Reubell e un ufficiale del
genio, ex girondino, Charles-Louis Letourneur (che praticamente era il secondo voto del Carnot). Nel primo
proclama lanciato da questa nuova istituzione apparvero evidenti le nuove linee-guida del governo: lotta ai
tentativi di restaurazione monarchica, repressione delle fazioni e riattivazione del "patriottismo", rivitalizzazione
di industria e commercio, risanamento del "credito pubblico" e nuovo impulso "alle arti e alle scienze". Per la
prima parte del programma il Direttorio si trovò obbligato ad allentare i freni del controllo sui giacobini,
consentendo loro qualche cenno di organizzazione come la riapertura di alcuni clubs e la ripresa delle
pubblicazioni d'alcuni giornali. Economicamente (e ciò per quanto riguarda l'altra parte del programma) vana
risultò la sostituzione dell'assegnato. Sarebbe occorsa la ripresa della guerra, nello stesso '96, e naturalmente il
suo corso vittorioso perché il flusso di buona moneta estera (degli Stati sconfitti) entrasse in circolazione in Francia
e si ponesse fine una volta per tutte alla circolazione di cartamoneta.

Napoleone e l’Italia giacobina


Prime congiure giacobine contro l’ordine dell’Ancien regime s’erano già avute in alcuni Stati italiani. Lo Stato
della Chiesa, il regno di Napoli e di Sardegna furono i territori in cui si scontrarono vecchie e nuove tendenze
culturali, svelando i contraddittori limiti ideologici dell’Illuminismo che avevano dato vita ad un rapporto diretto
tra philosophes locali e potere politico contro il vecchio mondo del privilegio e contro le invadenze ecclesiastiche
nella vita degli Stati. Alle immediate simpatie riscosse dalla prima fase della Rivoluzione francese tra il ceto colto
e intellettuale italiano seguì un moto contrario, fra lo sdegno e l’orrore, che iniziò a manifestarsi già dopo
l’esecuzione di Luigi XVI e che dilagò poi con l’affermarsi del terrore in Francia. Allora venne meno la voglia di
“nuovo” e tornò prepotentemente la necessità di riabbracciare quegli antichi principi di guida tra dizionale e
religiosa con cui s’erano governati sovrani e Stati. Prime repressioni di congiure giacobine in Italia si ebbero a
partire dal novembre 1792 a Roma, in cui intervenne l’Inquisizione ad operare arresti a danno di ufficiali e
borghesi rei di propagandare “le perverse mire dei francesi”. A Napoli a partire dal 1793 si vide diffondersi una
vasta rete clandestina di cospirazione e propaganda. Il localismo, lo spontaneismo, l’isolamento tra l’una e l’altra
congiura giacobina che caratterizzarono questi primi anni di movimento in Italia (1792-95) dimostrarono sia la
preesistenza del fenomeno rispetto alla discesa delle truppe militari francesi nella primavera del ‘96, sia l’azione
di influenza ideologica che sarebbe stata esercitata sul variegato movimento giacobino italiano dell’esule toscano
in Francia, Filippo Buonarroti (1761-1837). Buonarroti è stato un rivoluzionario italiano naturalizzato francese,
nonché uno dei più importanti uomini rivoluzionari del primo ottocento. A Parigi il Buonarroti, dopo aver chiesto
e ottenuto la cittadinanza francese, frequentò il club dei giacobini e conobbe Robespierre; di cui condivise lo
scorgere nei violenti contrasti sociali di allora i segnali della lotta di classe, della guerra tra il ricco ed il povero.
Fu il propulsore di un sistema politico innovatore in una città ligure, di cui divenne commissario rivoluzionario;
uno dei suoi scopi era realizzare un ordinamento amministrativo e politico che comprendesse l'abolizione dei
privilegi, imposizioni ai ricchi, distribuzione a buon prezzo del grano ai poveri, censimento, vendita dei beni
mobili ed immobili di coloro che avessero osteggiato la repubblica, istituzione dei Comitati di Istruzione e di
scuole primarie e secondarie per una formazione gratuita, popolare, laica e democratica.

Ad Oneglia, sotto controllo delle truppe francesi, il suo robespierrismo si tinse di carattere nazionale italiano; qui
ritrova Saliceti e Robespierre e rafforza il proprio convincimento ideologico filo terrorista. Essendo un seguace di
Robespierre, Buonarroti fu arrestato qualche mese dopo la reazione termidoriana, nel febbrai o del ’95, e portato
in prigione a Parigi come partigiano del sistema del terrore. Dopo le sanguinose repressioni delle insurrezioni
democratico-popolari del 1795, il Direttorio volle riappacificarsi con le forze giacobine, concedendo un’amnistia
per i democratici che si trovavano in prigione: Buonarroti, Babeuf e molti altri; è proprio in prigione che
Buonarroti ebbe l’occasione di incontrare Babeuf, insieme al quale realizzerà il progetto della congiura degli
Eguali. Lo spazio politico che il pericolo di restaurazione monarchica aveva acconsentuto alla sinistra
montagnarda (settembre-ottobre ‘95) di riaggregare le vecchie frange del Club del Pantheon (una società politica
francese rivoluzionaria, erede del Club dei Giacobini), centro di opposizione alla politica termidoriana, si erano
riuniti robespierristi (Buonarroti) ed ex anti robespierristi (Babeuf), entrambi con il comune bersaglio dei
termidoriani. La dottrina politica babeuvista partiva dal presupposto dell’eguaglianza di natura e dunque anche
del relativo obbligo al lavoro, doveva provvedere la rivoluzione il cui scopo “è di distruggere l’ineguaglianza e di
restaurare il benessere comune”Bandiera del manifesto tornava ad essere la Costituzione del ’93. Si era costituito
attorno al Babeuf un comitato insurrezionale di ordine pubblico, in cui tutti i congiurati si definivano “Uguali”,
tanto che venne chiamata la “Congiura degli Eguali”; l’azione era ovviamente segreta al popolo e doveva essere
svelata solo la parte utile a guadagnare le simpatie politiche, questa propaganda ebbe l’effetto di destare le reazioni
di parte politica avversa e i sospetti del Direttorio, che fece chiudere il club. Buonarroti continuava intanto a
raccogliere attorno a sé nuclei di esuli e profughi italiani progettando disegni insurrezionali anche in Italia, per
questo tramava con Babeuf per il nuovo ordine anti proprietario e per ripristinare la Costituzione del ’93 contro il
Direttorio. Nel frattempo riprendevano le operazioni militari francesi in Europa di cui il grosso agiva in Germania
meridionale. Emerse così la figura di Napoleone Bonaparte a capo del comando in Italia; nato in Corsica, ad
Ajaccio, vi tornò per prendere parte alla guerra contro la flotta inglese, la famiglia si stanziò a Tolone mentre lui
prendeva servizio a Nizza. Durante il periodo termidoriano si fece dei mesi di carcere per le sue idee robespierriste.
Una delle sue prime campagne militari fu quella in Italia nel 1796, per combattere contro la “Prima coalizione”,
un’alleanza formatasi tra la maggior parte delle Monarchie europee dell'Antico Regime contro la Francia
rivoluzionaria (Francia, da sola, contro Gran Bretagna, Austria, Russia, Prussia, Spagna, Stato della Chiesa, Regno
di Napoli, Sardegna, Portogallo, Olanda). Ottenuto il comando dell’Armata d’Italia (comando francese mandato
a combattere in Italia), avanzò direttamente per l’Italia Settentrionale, trovandosi di fronte a tre armate Piemontesi,
riuscendo a sconfiggerle; il 15 maggio, con la Pace di Parigi, sottomette Amedeo II di Savoia. In quel periodo (11
maggio) doveva esserci l’insurrezione di Babeuf e Buonarroti; tuttavia la congiura venne scoperta: Babeuf venne
processato e giustiziato nel 1797, mentre Buonarroti riuscì a fuggire e nei primi dell'Ottocento, organizzando una
rivoluzione su scala europea a carattere sociale e repubblicano. Intanto Napoleone otteneva successi militari in
Italia; nella situazione della Lombardia alle trionfali accoglienze seguirono momenti difficili sul piano economico
e sul piano politico istituzionale: Milano era ormai il centro della cultura politica e dei progetti giacobini per
l’intera Italia. Il 27 settembre 1796 viene bandito un concorso sul tema: “quale dei governi liberi conviene
all’Italia?” Il concorso si trasformò in una sorta di “palestra costituzionale” alla quale parteciparono 57 persone;
vinto da Melchiorre Gioia (la maggior parte delle tesi si basava sull’idea di una e indivisibile repubblica) la cui
proposta partiva dalla necessità di basarsi sui modelli della costituzione francese del 95: dunque eguaglianza
giuridica , moderatismo, gradualismo nella formazione della Repubblica. Oltre alla tesi di Gioia, furono pubblicate
altre 10 tesi, tra cui quella federalista, di Antonio Ranza che prevedeva 11 repubbliche ognuna con una propria
Convenzione e Costituzione facente capo a un Consiglio permanente composto da due deputati per ognuna delle
repubbliche. Ma a fronte di tanti progetti la situazione effettiva della Lombardia rimaneva nelle mani di
Napoleone. La prima repubblica nata in Italia fu quella cispadana distante dalla cultura politica di Milano.
Napoleone, in un congresso dei rappresentanti delle municipalità di Bologna, Ferrara, Modena e Reggio, a Modena
il 16 ottobre 1796, dette vita alla Confederazione cispadana; pochi mesi dopo si discusse la sostituzione della
confederazione a carattere militare con l’istituzione di una Repubblica una e indivisibile comprendente anche la
Lombardia. Nasce la Repubblica e il 7 gennaio 1797 viene deciso di dotarsi di una nuova bandiera con il tricolore.
La tendenza moderata prevalente impose un testo costituzionale ispirato a quello francese del 1795, preceduta da
una Dichiarazione dei diritti e dei doveri dell’uomo e del cittadino era formata da 404 articoli e prevedeva un
corpo legislativo bicamerale: il Consiglio dei Sessanta e dei Trenta, eletti a doppio turno, il potere esecutivo era
affidato a un direttorio di tre membri nominati dal corpo legislativo. Le elezioni per la nomina del Consiglio dei
Trenta e dei Sessanta diedero un esito più che positivo e ciò impensierì Napoleone che provvide a una
ricompattazione politico-geografica del territorio sotto il suo controllo militare; egli riteneva necessario vedersi
riconosciuti i suoi domini in Lombardia, in cambio avrebbe ceduto la Repubblica di Venezia agli Asburgo. Il
Direttorio inviò istruzioni a Napoleone di una politica esattamente contraria. Tra maggio e giugno del ’97 si
andavano aggregando le vecchie legazioni pontificie e il ducato di Modena e Reggio della repubblica cispadana,
con la ex Lombardia austriaca costituì la nuova repubblica cisalpina con capitale Milano. Lo schema costituzionale
era analogo a quello francese, ma sciolto allora il governo della Repubblica cispadana non si provvide ad elezioni
ma alla nomina diretta da parte di Napoleone dei cinque direttori. Il 17 ottobre 1797 veniva firmata la pace con
l’Austria (Campoformio). La Repubblica di Venezia veniva cancellata politicamente e geograficamente; così il
Veneto e la costa istriana e dalmata venivano ceduti all’Austria che riconosceva la nuova Repubblica cisalpina e
si impegnava a far riconoscere il possesso francese della riva sinistra del Reno da un’apposita dieta di Stati tedeschi
convocata a Rastadt il mese seguenteLa reazione dei patriottici fu di indignazione. La situazione interna francese
si avvitò ulteriormente riprendendo l’abitudine del colpo di mano contro i risultati elettorali. Il Direttorio era diviso
tra le figure politiche di Barras e di Carnot; i nodi vennero al pettine con le elezioni della primavera del 1797 che
videro il previsto successo della destra. A presiedere i Consigli dei Cinquecento e degli Anziani vennero eletti
rispettivamente Marbois e il generale Pichegru. I primi provvedimenti legislativi furono ovviamente di tutto favore
per gli emigranti e per i preti refrattari; Barras allora passò alla controffensiva: ruppe i rapporti con Carnot e
chiamò ai dicasteri degli Esteri e della Guerra, Tayllerand e il generale Hoche che avevano intanto ordinato alle
sue truppe di mettersi in marcia su Parigi. Il Direttorio diviso al suo interno si trovò nella posizione di cedere alla
destra o affidarsi a generali lealisti per un colpo di mano. Napoleone partecipò al complotto fornendo le prove del
tradimento di Pichegru, la posizione legalitaria di Carnot spianò la strada a un colpo di mano di Barras. Nella notte
del 4 settembre 1797 le truppe dell’armata di Hoche occuparono la sede della aule parlamentari e presidiarono
Parigi. In questa nuova situazione i due consigli furono obbligati a varare leggi di salute pubblica imposte da un
Direttorio di triunvirato Barras, La Réveillière e Reubell e quindi proscrivere nuovamente emigranti e preti
refrattari, riattribuendo poteri esclusivi all’esecutivo. Di questo colpo di stato approfittò Napoleone per condurre
in proprio quella politica estera che portò alla pace di Campoformio. In Italia la nascita delle Repubbliche sorelle
continuò in modo disorganico. Esemplare il caso di quella romana dove c’erano difficili circostanze economico e
sociali, di un cattivo raccolto, a Roma tumulti di piazza ebbero come bersaglio edifici pubblici francesi tra cui la
stessa residenza dell’ambasciatore. Il 15 febbraio al Foro romano appena un centinaio di patrioti con l’appoggio
di soldati francesi deciso con l’Atto del popolo sovrano, la proclamazione della Repubblica. Il papa rifiutò di
riconoscere la Repubblica e le truppe francesi occuparono il Vaticano. La Repubblica romana nasceva dunque a
seguito dell’intervento militare francese avviato contro dimostrazioni e scontri di piazza che avevano avuto
bersagli francesi, ma la redazione della Costituzione della nuova Repubblica fu affidata a 4 commissari francesi
inviati a Roma dal Direttorio che si limitarono ad un adattamento della costituzione francese del ’95: Tribunato e
Senato, 5 consoli e separazione dei poteri. L’articolo 369 disponeva un ‘alleanza tra la repubblica romana e la
repubblica francese, ogni legge emanata dai consigli legislativi romani non poteva essere approvata senza
l’approvazione del generale del comandante delle truppe francesi era una Repubblica a sovranità limitata.
A Napoli l’occupazione militare francese di Roma e la conseguente Repubblica avevano destato preoccupazioni
sfruttate a corte dalla locale lobby inglese; con il trattato di Vienna del 19 maggio ’98 il regno di Napoli aveva
trovato la piena disponibilità austriaca ad un’azione congiunta antifrancese. Dopo lo scontro navale di Abukir la
flotta inglese aveva distrutto quella francese e aveva bloccato l’esercito di Napoleone in Egitto e aveva reso sicuro
le coste borboniche da minacce navali francesi. A Napoli si pensò giunto il momento per far sgombrare da Roma
l’inquietante presenza francese, così il 23 novembre le truppe borboniche invasero da sud il territorio della
Repubblica romana; le truppe francesi si ritiravano a Civita Castellana ma con una controffensiva batterono le
truppe austro-borboniche. Il vicario generale del regno a Napoli, Francesco Pignatelli, concluse allora l’11 gennaio
una tregua con il generale Championnett. Alla notizia della tregua insorse la Napoli sanfedista e l’esercito francese
dovette combattere con i Lazzari, il centro giacobino napoletano occupò allora Castel Sant’Elmo, forte strategico
per la difesa di Napoli, proclamando l’insurrezione della Repubblica partenopea. L’incarico ufficiale di apportar e
un testo base fu affidato ad un apposito comitato di legislazione. Il testo non si poté però approvare dinnanzi al
precipitare della situazione militare e all’abbandono francese di Napoli e della relativa Repubblica giacobina
potere legislativo bicamerale, e potere esecutivo a un organo collegiale di 5 membri. In Piemonte si era avvertita
forte la delusione verso la Francia del Direttorio. La scelta era quella di costituire una nuova Repubblica o di
annettersi alla Francia. Si decise per la seconda per un motivo fiscale. Tra il Piemonte e la Repubblica cisalpina
si creò un’organizzazione segreta, la Società dei Raggi con lo scopo di creare un un’unica e indivisibile Repubblica
italiana.

Il Consolato
Il 27 Novembre 1797 si aprì il Congresso di Rastadt che avrebbe dovuto decidere dell’assetto definitivo della riva
sinistra del Reno; da parte austriaca si sarebbe potuto accettare lo sconfinamento francese solo in cambio di
contropartite in Italia. L’intransigenza francese nel non cedere i territori italiani si spiega con la politica di
Napoleone che aveva fatto dell’Italia la base del suo potere personale; le Repubbliche sorelle erano diventate
fondamentali per il risanamento delle finanze francesi, nel complesso la situazione economico finanziaria francese
migliorò determinando ripercussioni sociali negative sugli strati più bassi della popolazione. Il Direttorio fece
circolare idee come il pericolo sociale di nuove leggi agrarie e di pericolo di ritorno al terrore, ci fu una legge
truffaldina che affidava ai due Consigli in carica la verifica dei poteri dei nuovi eletti. Ad elezioni avvenute ci fu
un ennesima legge truffa contro elezioni di deputati che erano ritenuti non in linea con la politica del Direttorio.
Il Congresso di Rastadt infine si scioglieva senza aver definito la situazione del Reno. Napoleone da sempre aveva
parlato dei progetti mediterranei della Francia e secondo questa strategia l’Egitto avrebbe dovuto avere lo scopo
di recidere il commercio con l’estremo oriente dell’Inghilterra provocandone la strozzatura economica. L’armata
di Napoleone veleggiò verso Oriente sfuggendo alle ricerche della flotta inglese di Nelson: 2 luglio sbarco a Malta
e il 23 al Cairo. Qualche giorno dopo la flotta inglese distruggeva 11 dei 13 vascelli francesi. Napole one,
prigioniero della sua vittoria, riorganizzò l’amministrazione e l’economia. L’impresa d’Egitto aveva rimesso in
movimento la diplomazia europea. Zar era diventato Paolo I, contrario ai principi della Rivoluzione francese e
così la Russia diventò protagonista di una serie di accordi antifrancese con il regno di Napoli e Inghilterra. La
Prussia rimaneva neutrale. Il teatro principale delle operazioni francesi avrebbe dovuto essere il fronte del Reno
ma di nuovo il fronte austriaco respinse l’esercito francese e teatro divenne l’Italia. Il Piemonte venne preso dalle
truppe russe, la Liguria rimaneva francese e Napoli veniva isolata tanto da capitolare il 13 giugno 1799. In cambio
della restituzione dei forti, i patrioti repubblicani avrebbero avuto salva la vita ma l’ammiraglio Nelson tradì le
capitolazioni consegnando ai boia l’intera dirigenza repubblicana ( 118 i condannati a morte). Il cerchio si
stringeva intorno alla capitale: forze napoletane da sud, austriache da nord, insorgenti da est e la flotta inglese
bloccava il porto di Civitavecchia. Il 30 settembre del 1799 Roma veniva raggiunta dalle truppe napoletane mentre
Napoleone si imbarcò su una delle due navi francesi rimaste e arrivò a Parigi. La situazione militare era critica e
la politica interna ne aveva risentito. Alle elezioni del ’99 si era rafforzata la sinistra giacobina si andava profilando
uno scontro tra il Direttorio e i Consigli. Si creò un accordo tra Sieyes e Napoleone che vennero nominati in un
Consolato a 3: Bonaparte, Sieyes e Ducos. Sieyes gettò le linee guida della nuova politica: sovranità nazionale (
caratterizzata da fiducia popolare e non rappresentanza a strutturare il nuovo sistema), elezioni non di deputati ma
di liste di fiducia che avrebbero dovuto essere formate nella misura progressiva di un decimo dell'elettoratoun
decimo di notabili da cui sarebbero stati scelti un decimo di nomi che avrebbero costituito le liste di fiducia dal
cui decimo sarebbe stata tratta la lista di fiducia nazionale da cui trarre ministri e membri dell'assemblea. La
“scelta” spettava a un Grande elettore (che avrebbe dovuto essere Napoleone) che tuttavia non aveva funzioni di
governo e il cui ruolo poteva essere riassorbito dal Senato. Su questo punto Napoleone e Sieyes non si
accordarono.
Si ripartì con una nuova proposta ispirata a Pierre-Claude Daunou che faceva capo su 3 consoli (art 39) nominati
per 10 anni e tra cui Napoleone era primo console. Sieyes e Ducos venivano nominati membri del Senato
conservatore che era composto di 60 membri e non faceva parte del legislativo ma era una sorta di corpo elettorale
esercitando il controllo di costituzionalità delle leggi; il potere legislativo era affidato a due assemblee: il
Tribunato e il Corpo legislativo. Le proposte di legge venivano solo dal 1 console (era un legislativo privo di
iniziativa). Il testo di questa nuova costituzione, molto breve, appena 95 articoli, e senza una preliminare
Dichiarazione dei diritti e dei doveri, entrò in vigore il 25 dicembre 1799, e l’approvazione popolare si ebbe il 7
febbraio 1800. Il primo console aveva un’agilità di potere che gli permisero di riprendere l’iniziativa in Italia; egli
puntò direttamente su Milano anziché su Genova dove le truppe francesi erano sotto assedio da quelle austriache
guidate da Melas. Ma la capitolazione di Genova consentì alle truppe austriache di rischierarsi verso occidente.
Non fu facile a Napoleone vincere la battaglia di Marengo del giugno 1800; le trattative di pace vengono
formalizzate a Lunéville il 9 febbraio 1801 con cui l’Austria si impegnava a cedere alla Francia la riva sinistra del
Reno e il possesso del Belgio, doveva inoltre riconoscere la Repubblica cisalpina e di quella ligure, impegnarsi a
garantire l’indipendenza di quella batava ed elvetica ed in ultima istanza accettare che il Granducato di Toscana
diventasse con il ducato di Parma e Piacenza, regno di Etruria. Questa sistemazione servì a Napoleone per
guadagnarsi l’appoggio della Spagna borbonica di Carlo IV. In compenso all’Austria veniva riconosciuto
nuovamente il dominio territoriale sul Veneto e sulla costa dalmata. Così la situazione italiana era tornata sotto
controllo francese. Rimaneva il problema dell’ostilità dell’Inghilterra. L’Inghilterra fu influenzata dall’ennesima
imprevedibile manovra diplomatica dello zar Paolo I dopo aver abbandonato la seconda coalizione, lo zar si
accostò alla Francia tanto più che l’Inghilterra aveva preso Malta. Paolo I dette vita a una Lega di neutralità con
tutti quelli Stati che subivano rappresaglie inglesi per il loro commercio con la Francia. Il bombardamento di
Copenaghen da parte degli inglesi dimostrò la debolezza della Lega. L’ostilità inglese alla Francia non poteva
sostanziarsi senza l’aiuto di qualche Stato disposto a combattere per gli interessi inglesi ma dopo l’intesa franco
russa e franco spagnola; dopo la neutralità prussiana e dopo la pace di Lunéville, non ve ne erano più. Ad Amiens
il 25-27 marzo 1802 Francia, Inghilterra, Spagna ed Olanda firmarono una pace europea che vedeva sul continente
il rispetto dello status quo e negli altri continenti il rispetto a restituire le colonie conquistate durante la guerra.
Napoleone aveva dato alla Francia una pace vittoriosa. Anche riguardo alla politica interna francese si visse un
periodo di stabilità. L’opposizione giacobina era vista come quella più pericolosa , per questo, prendendo spunto
da un attentato fallito alla vita di Napoleone, e attribuito alla sinistra giacobina, si scatenarono di nuovo
persecuzioni e processi politici, con seguito di condanne a morte ( anche se poi si scoprì che l’attentato era stato
per mano della destra ). Joseph Fouché divenne ministro della polizia. Ci fu un risanamento finanziario e un
attenzione all’istruzione. Nel 1800 venne creata la Banca di Francia. Riguardo ai rapporti con la Chie sa venne
firmato un Concordato nel 1801 con il quale il cattolicesimo veniva dichiarata religione della maggior parte della
popolazione; vennero inoltre istituite in Francia 60 diocesi. Napoleone ora si poteva dedicare a trasformare il suo
potere il Senato propose di dichiararlo Console per altri 10 anni ma Napoleone riuscì a farsi nominare Console a
vita e a farsi attribuire il potere di designare il suo successore: il 2 agosto 1802 oltre 3 milioni e mezzo di elettori
votarono a favore. Il Senato poi venne fatto dipendere dal Consolato e il Tribunato venne soppresso nel 1807.
Venivano anche abolite le liste di fiducia e il potere del primo console veniva rafforzato. Era l’avvio dell’impero.

L’apogeo dell’Impero
La pace di Amiens e il senato consulto sembravano poter garantire in Europa stabilità, ma l’eccessiva sicurezza
politico-militare acquisita da Napoleone fu causa di un erosione dello status quo europeo a vantaggio della Francia.
In Italia era stata ricostituita la seconda Repubblica cisalpina ma un anno dopo, tra varie divergenze non si era
venuti a capo di nulla. Per discutere la situazione in modo ufficiale Napoleone invitò a Lione una Consulta di 441
membri; venne eletto così a capo della Repubblica, non più cisalpina, ma italiana. Questo mutamento istituzionale
fornì all’Inghilterra un pretesto per non restituire Malta all’Ordine militare dei cavalieri di Rodi (come stabilito
invece ad Amiens). Ci fu un nuovo attentato a Napoleone, sempre organizzato da Georges Cadoudal che aveva
trovato rifugio in Inghilterra che una volta arrestato si scoprì complice anche il ministro inglese William Windham.
Napoleone decise per una sorta di “esempio” per far cessare quelli attentati venne ucciso il duca di Enghien. Il
Consiglio di Stato propose la trasformazione ufficiale del consolato in Impero. L’art 1 del nuovo testo
costituzionale stabiliva che “ il Governo della Repubblica è affidato ad un Imperatore”; l’art 2 indicava come
imperatore Napoleone; l’art 3 stabiliva l’ereditarietà della dignità imperiale; infine l’art. 4 prevedeva la possibilità
dell’imperatore di adottare figli o inserire nipoti nella linea di successione. L’incoronazione avvenne da parte del
papa Pio VII (la cerimonia avvenne il 2 dicembre 1804 nella cattedrale di Notre Dame): il pontefice uns e
l’imperatore dopo di che si ritirò Napoleone si incoronò da solo. La guerra franco inglese non era più una sorpresa,
si trattava però di uno scontro che vedeva un grande esercito contro una grande flotta. L’Inghilterra si alleò allora
con la Russia, mentre la Francia con la Spagna. L’iniziativa militare fu presa dall’Austria sul fronte del Reno che
occupò la Baviera alleata della Francia, le truppe francesi, presa Mangoza, puntarono verso il Danubio avvolgendo
alle spalle l’esercito austriaco che si trincerò a Ulm capitolando. Nel frattempo la flotta franco-spagnola aveva
lasciato il porto di Cadice, e la flotta inglese di Nelson li inseguiva fino a capo Trafalgar dove il 21 ottobre 1805
le navi francesi aprirono le ostilità; sebbene la grande battaglia fu combattuta con grande eroismo, alla sera la
flotta francese non esisteva più. L’Inghilterra rimaneva padrona dei mari così come la Francia lo era del continente.
Napoleone entrò a Vienna e da lì si mosse contro l’esercito russo; il 2 dicembre 1805 al termine della battaglia di
Austerlitz, detta dei tre imperatori ( zar, imperatore d’Austria e Napoleone) il disastro delle forze coalizzate aveva
raggiunto proporzioni clamorose. Con la Pace di Presburgo del 26 dicembre 1805 (firmata dall’Austria) il Sacro
Romano Impero non esisteva più e gli stati tedeschi formarono la Confederazione del Reno. Napoleone intanto
insediava come re a Napoli suo fratello Giuseppe; mentre la Russia e l’Inghilterra non avevano firmato ancora
nessuna pace. A spingere la Prussia in guerra, e a costituire con Russia e Inghilterra la terza coalizione fu l’errore
della diplomazia francese che intavolando discussioni di pace con l’Inghilterra propose la restituzione
dell’Hannover appena ceduto alla Prussia. Ad Ottobre però è Napoleone a mettere d’accordo tutti quando le forze
francesi sbaragliano quelle prussiane: i francesi occupano Weimer, Berlino e Varsavia da dove riprese le
operazioni contro l’esercito russo contro il quale vinse la Battaglia di Friedland il 14 giugno 1807. Visto che
l’obiettivo era quello di tutelare il commercio atlantico diretto in Francia, era inutile continuare una guerra contro
la Russia così Francia e Russia firmarono un capitolato segreto di alleanza anti-inglese che prevedeva una sorta
di divisone dell’interno continente eurasiatico in due zone di influenza: la Russia avrebbe potuto agire contro
l’Impero ottomano e in Asia mentre la Francia nel resto dell’Occidente e in Egitto Napoleone era il vero padrone
d’Europa anche se l’Inghilterra lo rimaneva dei mari; Francia e Inghilterra intanto si scontrano sul piano
commerciale: l’Inghilterra impone a tutte le navi che vanno in Europa di fare scalo nei porti inglesi, e i francesi
rispondono sequestrano le navi che avessero fatto scalo in qualche porto inglese. La penisola iberica era un punto
cruciale per l’andamento della guerra economica, Napoleone colse il pretesto da una sommossa popolare diretta
contro il governo del primo ministro Godoy. Napoleone , quando Carlo IV abdicò in favore del figlio convocò la
famiglia reale con la quale strinse quattro diversi accordi:
1. Carlo IV revocava l’atto di abdicazione e cedeva a Napoleone i diritti del trono;
2. Anche Ferdinando VII accettava le clausole del padre;
3. Napoleone cedeva i diritti della corona al fratello Giuseppe;
4. Gioacchino Murat rimetteva il granducato di Berg nelle mani di Napoleone.
Il problema venne dalle difficoltà interne della Spagna nella quale il paese intero si armò contro la presenza
militare francese che era vista come un occupazione e non come una liberazione la guerriglia vide la capitolazione
delle forze francesi. L’alleanza franco russa inoltre dava i primi segni di debolezza visto che stati come la Russia
non avevano ancora sviluppato un sistema industriale capace di sostituirsi nella produzione dei manufatti
altrimenti importati ed inoltre mancava lo sbocco alla produzione agricola russa non assorbita dalle esigenze del
solo mercato europeo. La situazione si modificò grazie a due personalità francesi: Fouché e Talleyrand;
quest’ultimo spinse lo zar Alessandro I a prendere una posizione contro Napoleone, mentre Fouché iniziò a
proteggere gli oppositori di Napoleone Fouché e Talleyrand progettarono una sua destituzione e quando vennero
scoperti furono condannati. A tutto ciò si aggiunse la rivincita politico militare della Prussia animata ancora una
volta dall’Inghilterra. Per Napoleone le nuove caratteristiche della guerra si dimostravano più impervie, ben 300
000 soldati francesi erano obbligati a presidiare la Spagna mentre il Tirolo era in rivolta e proprio il Tirolo gli
impediva di muoversi nella capitale austriaca; solo quando dall’Italia giunsero rinforzi riuscì a costringere le
truppe austriache a una ritirata. A Vienna il 14 ottobre 1809 veniva liquidata l’ennesima coalizi one anglo-
austriaca: l’Austria perdeva Trieste, Gorizia, la Carniola e la Dalmazia che venivano a costituire un nuovo stato
sotto protezione francese: le province Illiriche; il Trentino inoltre passava all’Italia. Con la pace di Vienna l’impero
sembrò passare il suo periodo di apogeo politico, anche se delle crepe erano state create da alcuni errori politici.
Intanto l’Austria passava la guida del governo a Klemens Wittenburg che fece sposare Napoleone con la figlia
dell’Imperatore, Maria LuisaIl matrimonio celebrato il 2 aprile 1810 comportava un ennesimo vantaggio per
l’Austria: il progressivo allontanamento della Prussia dalla Francia. La crisi economica che toccò Francia e
Inghilterra pesò maggiormente sulla Russia, produttrice agricola senza ormai mercato pieno e senza industrie.
Napoleone si rifiutò di dar seguito agli inviti russi di sgomberare militarmente la Pomerania e la Prussia orientale
e riteneva giunto il momento del grande scontro a oriente. Con i Trattati di Parigi del 24 febbraio e del 14 marzo
1812 la Francia impegnava Prussia e Austria a fornire aiuti militari. La Russia rispondeva firmando a Pietroburgo
il 5 aprile 1812 un trattato di alleanza con la Svezia di Carlo XII e a Bucarest un trattato con l’impero ottomano
con cui veniva concordato il confine al fiume Pruth e la libera circolazione sul Danubio Era dunque guerra.
Napoleone, convocati l’imperatore d’Austria, il Re di Prussia e tutti i capi degli Stati tedeschi della
Confederazione del Reno in un convegno a Dresda, si inoltrò al comando di un esercito multinazionale di 600.000
uomini in Polonia. Venti giorni dopo puntava su Mosca. L’esercito russo retrocedeva senza opporre resistenza ma
facendo terra bruciata al suo passaggio; la profondità del territorio russo e la distanza tra le basi di partenza
rappresentarono il vero ostacolo all’avanzata francese. Solo a Smokensk vi fu una prima resistenza armata russa.
Napoleone entrò a Mosca il 14 settembre 1812, ma la città non consentiva all’esercito francese di mantenersi
militarmente e fu costretto a un ripiegamento verso sud per raggiungere l’immenso granaio ucraino. Lì incontrò
la resistenza dell’esercito del Kutusov e fu costretto a ripercorrere la strada da cui era venuto senza rifornimenti
alimentari. La fragilità del regime napoleonico fu resa evidente da un colpo di mano tentato mentre Napoleone
era in Russia da parte di un generale repubblicano, Malet e da un sacerdote realista Lafont. I due diffusero a Parigi
la falsa notizia della morte di Napoleone e crearono un governo guidato dal generale Moreau ( vennero poi arrestati
dal comandante della piazza di Parigi). La Francia senza più la Grand Armée non controllava più tutta l’Europa.
A Tauroggen i reparti militari prussiani fino ad allora impegnati contro l’esercito russo, si schieravano contro la
Francia dando inizio negli stati tedeschi ad una vera guerra per l’indipendenza. Napoleone non potè impedire la
grande alleanza firmata a Breslavia il 28 febbraio del 1813 (sesta coalizione). Ogni angolo dell’Europa dal Baltico
alla penisola iberica era in armi contro la Francia. Napoleone al ritorno dalla Russia ricostruì un primo esercito
con 300.000 uomini. Al passaggio dall’Elba delle truppe russo-prussiane, si mosse contro di loro e riuscì a vincere
a Lutzen e a Bautzen. Con l’armistizio di Plesswitz riuscì ad ottenere una tregua di due mesi. Furono dunque
avviate da entrambe le parti trattative diplomatiche. L’Inghilterra provvide a risaldare il fronte russo prussiano
finanziano la ripresa delle operazioni militari. La Francia si rivolse all’Austria: Metternich per mantenere la
posizione di neutralità austriaca richiedeva la restituzione delle Provincie illiriche, lo scioglimento della
Confederazione del Reno e l’integrità territoriale della Prussia. Napoleone capì come accogliere queste richieste
avrebbe vanificato la sua politica imperiale L’Austria aderì alla sesta coalizione contro la Francia. A Lipsia i
320.000 uomini della sesta coalizione ebbero ragione sui 120.000 soldati francesi. Quando il 9 novembre
Napoleone rientrava a Saint Cloud l’Impero non esisteva pisfaldamento politico diplomatico.

Il ripristino dell’ordine internazionale: la Restaurazione e il Congresso di Vienna


Metternich aveva offerto la pace a Napoleone e la Francia avrebbe potuto ottenere qualche vantaggio se Napoleone
avesse lasciato il potere ma così non fu, e nonostante le fasce sociali si erano arricchite con l’impero erano
comunque pronte a tradirlo. Era ormai prevedibile il ritorno della monarchia borbonica che si era andata
costituendo una rete politica di opposizione in contatto con gli inglesi.
Nel dicembre 1813 la Camera legislativa votava una mozione in cui prese atto della situazione di una Francia
minacciata su tutti i fronti e attribuiva la responsabilità ad una amministrazione vessatoriaappello alla pace. Nelle
trattative condotte a Chatillon sur Seine con i rappresentanti della sesta coalizione la Francia napoleonica non
ottenne nulla di più delle già promesse frontiere naturali; quando fu chiaro che le trattative di Chatillon non
avrebbero portato a nulla Austria, Russia Inghilterra e Olanda firmarono un trattato a Chaumont il 1 marzo 1814
di alleanza formale che li impegnava a riprendere la guerra. Le forze alleate erano troppo numerose per essere
fermate e Napoleone s’era ritirato a Fontainebleau per un ultima resistenza. Intanto a Parigi le forze d’opposizione
avevano creato un governo provvisorio con a capo Talleyrand; il Senato il 2 aprile votava la decadenza di
Napoleone e il ritorno di Luigi XVIII di Borbone. Napoleone abdicava il 4 aprile in favore del figlio ed appena
pochi giorni dopo dovette sottoscrivere il trattato di Fontainebleau con il quale rinunciava a ogni diritto di
sovranità sulla Francia, gli veniva assegnato il possesso dell’Isola d’Elba e un pagamento annuo di 2 milioni di
franchi. Alla moglie andava il ducato di Parma, Piacenza e Guastalla. Il 17 aprile partiva da Fontainebleau verso
l’Isola d’Elba, si imbarcò da Fréjus su una nave inglese. Il testo costituzionale del 6 aprile 1814 aveva un carattere
di salvaguardia personale prevedendo all’articolo 6 il mantenimento col Senato, le rendite, l’inamovibilità e la
trasmissibilità ereditaria del titolo di senatore. Luigi XVIII annunciò che avrebbe presentato un proprio testo
all’approvazione del Corpo legislativo. Costituita un’altra commissione si giunse alla “carta octroyée” (cioè
concessa dal sovrano) i cui punti cardine sono espressi nei seguenti articoli:
• Art 5: la religione cattolica tornava ad essere religione di Stato, pur concedendo la libertà di culto
• Art 6: libertà di stampa;
• Art 8 : garantite le proprietà inviolabili;
• Art 9 : salvo esproprio per pubblica utilità;
• Art 10 : vietata l’azione poliziesca e penale sulle opinioni emesse fino alla Restaurazione;
• Art 12: abolita la coscrizione militare;
• Art 13: potere esecutivo solo al Re, legislativo alla Camera dei Pari e dei Deputati e dal Re;
• Art 16 : potere di iniziativa legislativa esclusivo del Re;
• Art 27 : deliberazioni della Camera dei Pari ( membri nominati dal re ) segrete;
• Art 32: la Camera dei deputati era elettiva con suffragio censitario;
• Art 70: la nobiltà antica riprende i suoi titoli.
Napoleone quando ebbe notizia del malessere sociale in Francia abbandonò l’Elba e sbarcò di nuovo a Fréjus; egli
aveva racimolato 1000 veterani e il numero aumentò man mano che veniva accolto trionfalmente da
contadini,operai e soldati. Il trionfo di Napoleone fu chiaro quando il maresciallo Ney allora comandante delle
truppe della Franca Contea, passò dalla sua parte (invece di arrestarlo). Luigi XVIII fuggiva allora in Belgio e
Napoleone rientrava a Parigi iniziando il suo ultimo periodo di politica, chiamato dei Cento giorni; a Constant fu
affidato il compito di redigere il nuovo progetto costituzionale e a Carnot venne affidato il Ministero degli interni.
Si poteva inizialmente pensare a un ritorno di Napoleone alle origini ideologiche giacobine, tanto che aveva
pubblicamente proclamato di rinunciare a ricostituire l’Impero ma in realtà volle richiamare la Costituzione
dell’anno VIII e i successivi Senato-consulti del 1802 e 1804. Ma mentre i lavori a Parigi procedevano, la parola
decisiva era alle armi.
Napoleone puntò al Belgio e si trovò dinnanzi due armate: ad est una prussiana (guidata da Blucher) e a nord una
anglo tedesca (guidata da Wellington) non congiunte però tra loro; le affrontò separatamente a Ligny sconfisse i
prussiani di Blucher; mentre l’ala sinistra francese affronta l’armata di Wellington che però retrocede verso nord
avvicinandosi a quello prussiano. Il 18 giugno 1815 Napoleone avanzava su Bruxelles ordinando l’attacco sull’ala
sinistra a Waterloo congiungimento delle truppe anglo-prussiane che determina la crisi dell’esercito francese. La
sera la partita è definitivamente chiusa e il 21 giugno Napoleone ritornò a Parigi e abdicò in favore del figlio.
Napoleone si consegnò spontaneamente all’esercito inglese, il cui governo aveva già deciso la sua deportazione
nell’isola di Sant’Elena dove morì il 5 maggio 1821. Su iniziativa delle 4 potenze maggiori della sesta coalizione,
Austria, Prussia, Russia e Inghilterra erano iniziate la trattative di pace a Vienna nel settembre 1814, per dare un
nuovo assetto politico militare all’Europa. Queste trattative furono concluse il 9 giugno 1815Congresso di Vienna
è ispirata a dei principi base: ordine internazionale antirivoluzionario, legittimità dinastica e principio
dell’equilibriorispettati solo quando conveniva agli stati vincitori. A Vienna erano presenti tutti gli stati europei
ognuno con le prorpie miri ed obiettivi: L’Inghilterra aveva l’obiettivo di mantenere in equilibrio i piatti della
bilancia evitando l'emergere di uno stato egemone. La Prussia puntava ad un ampliamento territoriale. La
confederazione del Reno cessava di esistere e si creò la Confederazione di 39 stati tedeschi. Olanda e Belgio
venivano a costituire il regno dei Paesi Bassi. Spagna e Portogallo tornavano a Ferdinando VII di Borbone e a
Giovanni VI di Braganza. Gli Stati scandinavi ebbero tutti un giro vorticoso di territori e scompensi. In Italia si
era decisa la fine delle ostilità e il mantenimento del Beauharnais alla guida del regno. Ma proprio questa clausola
creò ostilità: il partito degli “italici” provocò una sommossa a Milano e fu offerta così un’occasione d’oro
all’Austria per occuparla. Murat riprese le armi contro gli austriaci e lanciò un appello agli italiani per una lotta
di indipendenza nazionale, non trovando però riscontro fu costretto ad andare in esilio in Corsica e a lasciare il
regno di Napoli a Ferdinando IV di Borbone. Questa fine dei due regni (d’Italia e di Napoli) determinò l’assetto
italiano stabilito al Congresso di Vienna e in particolare l’occupazione militare austriaca di Lombardia e Veneto
portò alla formazione del regno Lombardo Veneto. Il principio di legittimità dinastica si applicò solo in favore
dell’Austria quando il ducato di Parma, Piacenza e Guastalla furono lasciati a Maria Luisa d’Austria; il ducato di
Modena con Reggio e Mirandola fu restituito a Ferdinando IV d’Este. Il Regno di Sardegna inglobava la
Repubblica di Genova e veniva riconosciuto lo Stato pontificio sotto Pio VII. In conclusione l’Italia venne divisa
in 3 regni e 4 ducati. L’equilibrio, tanto più invocato, quanto maggiormente doveva coprire interessi egemonici,
ebbe infine anche a Vienna una teorizzazione. Era stato invocato negli anni dell’egemonia napoleonica e condito
di utopismo dallo zar Alessandro I, che andava vagheggiando una sorta di lega europea con diritto di mediazione
coattiva. Alla fine dei lavori di Vienna, quest’idea dello zar, venne discussa tra il 14 e il 26 settembre 1815 e
formalizzata nella Santa Alleanza tra Russia, Austria e Prussia; alla quale si aggiunse l’Inghilterra e i 4 si riunirono
a Troppau dall’ottobre al dicembre 1820 sancendo il cosiddetto diritto di intervento: diritto di intervenire anche
con la forza nella vita interna degli altri Stati ove disordini o rivolte avessero provocato il rovesciamento dei
governi legittimi. L’Inghilterra non era legata a questi paesi da principi ideologici o religiosi bensì da un interesse
comune nell’equilibrio. Il grande strumento diplomatico costituito a Vienna si tramutò nella scintilla che accese
l’incendio in quanto l’Europa che avevano di fronte era ormai un Europa dei popoli che aveva fatto propri dei
nuovi principi ossia quelli della libertà e della nazionalità. Napoleone aveva favorito lo sviluppo del senso di
nazionalità diffondendo il modello di una guerra ideologica con la consapevolezza di sapere per cosa si stava
combattendo e non per chi.

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