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Il Rinascimento in Italia

Introduzione. Un’epoca e i suoi confini

Concetti e miti del Rinascimento

Nel 19°sec. nasce l’idea che il Rinascimento italiano rappresenti il primo atto della modernità europea. È

difficile stabilire con sicurezza quando ha inizio quest’epoca storica, e soprattutto riuscire a comprendere se

si possa parlare o no di “epoca storica”. Oggi non abbiamo risposte incontestabili, e per questo il dibattito

tra gli storici è ancora aperto. Analizziamo alcune proposte di periodizzazioni:

 “massimalisti”  dal 1250 al 1650

 “minimalisti”  gran parte del ‘400 e prima metà del ‘500

 “scettici”  riducono l’episodio tra il 1000 e il 1800

Una visione romanzesca del Rinascimento (“mito del Rinascimento”), oggi ancora in voga, è quella di

immaginare questo periodo come un’apertura (rispetto al “buio Medioevo”) verso nuovi orizzonti

geografici e spirituali. Modelli di questo Rinascimento sarebbero Cesare e Lucrezia Borgia. Un’età in cui

l’uomo si è liberato dalla morale cattolica opprimente del secolo precedente (Medioevo appunto).

Jacob Burckhardt e gli sviluppi del dibattito

Burckhardt scrive nel 1860 La cultura del Rinascimento in Italia tentando di analizzare il punto di rottura tra

Medioevo e Rinascimento. Nella sua opera il Rinascimento è visto come un’epoca di dinamismo, ma allo

stesso tempo ambigua. Spiega la reazione a catena, provocata dalla modernità, che coinvolse la società e la

quotidianità del tempo. La modernità s’insedia precocemente in Italia, grazie all’abbandono del sistema

feudale verso la creazione dello Stato. L’uomo vuole realizzare sé stesso, è questo secondo B., che ha

portato a prolungare il Rinascimento; dando vita alle rivoluzioni europee dei secoli successivi.

Altre impostazioni della storiografia (confermate ancora oggi):

Si metta in discussione l’immagine del Medioevo proposta da B.: l’idea di Medioevo come età buia è ormai

superata; secondo i medievalisti europei è proprio nell’età di mezzo che si affermano atteggiamenti

individualistici e di riscoperta dell’antichità. Questo fa parlare di numerosi “rinascimenti” che si sono

susseguiti dall’età carolingia fino al ‘200. Una visione simile a questa si riscontra già nell’Umanesimo del 14°

e 15° sec.

Un altro tentativo di riunificare quella cesura posta da B. tra Medioevo e Rinascimento, ci viene proposto

tra 1900 e 1930. Esemplare il lavoro di Kristeller che, comparando testi del ‘400, nota quanto fossero

debitori della linguistica medievale.

Questa nuova visione di continuità tra Medioevo e Rinascimento si è sempre più affermata dopo il 1945.

Caratteri di un’epoca in via di revisione


Considerando le ricerche degli ultimi decenni, possiamo parlare di una nuova immagine del Rinascimento

italiano. Parliamo di un periodo che va circa dal 1430 al 1560, caratterizzato da un lato come epoca in cui si

forma la modernità, ma anche dall’altro lato come un’età legata a tradizioni precedenti.

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Capitolo 1 – Politica e diplomazia tra le Alpi e l’Etna

Gli Stati italiani nel Quattrocento

Si tratta di un sistema disordinato, possiamo immaginarlo come una rete di rapporti con numerosi centri.

Un sistema in movimento, dovuto alle mire espansionistiche dei grandi centri di potere, ma anche dalle

esigenze dei più piccoli. Intorno a questi interessi subentrano anche relazioni clientelari, cioè di guadagno

reciproco.

Possiamo comprendere meglio questo sistema grazie ai Mémoires del diplomatico francese Philippe de

Commynes (1447-1511), in cui descrive la scena italiana verso il 1490.

Al vertice del sistema si trovavano 5 potenze: repubblica di Venezia, ducato di Milano, repubblica di

Firenze, Stato della Chiesa e il regno di Napoli e Sicilia.

A un livello inferiore c’erano gli Stati di media grandezza: Piemonte dei duchi di Savoia, marchesati di

Mantova (Gonzaga) e Ferrara (Este), repubbliche di Genova, Lucca e Siena; e i domini retti dai vicari papali

dei Malatesta a Rimini e Montefeltro a Urbino.

Nello strato più basso stavano numerosi Stati più piccoli.

Poi c’erano città maggiori come Bologna e Perugia, ma anche minori come Foligno e Città di Castello che

erano nominalmente soggette al papa, ma di fatto, erano indipendenti sotto il controllo di famiglie nobili.

Per quanto riguarda i rapporti politici, solamente Venezia e lo Stato della Chiesa erano signorie non

sottoposte a controlli superiori.

I rapporti giuridici si basavano ancora su modelli medievali: sopravvive l’ordinamento giuridico del regno

d’Italia fondato dai Longobardi nel 6°sec. Alcune metropoli come Genova e Firenze erano nella condizione

di imporre all’impero la propria indipendenza. Diversamente per altre parti della Penisola, anche se

economicamente e politicamente floride erano soggette all’impero.

Le signorie del Rinascimento italiano si presentavano come formazioni politiche ibride. I signori

pretendevano di portare avanti l’ordinamento repubblicano delle città comunali, che però di fatto era

annullato da loro stessi. La centralità del ruolo del signore, che obbligava il principe a rispettare le istituzioni

comunali, facilitò il passaggio da una forma costituzionale all’altra.

Condottieri, alleanze e dipendenze


Dagli anni 1425-1450 si costituisce in Italia una rete di rapporti tra gli Stati, basata su alleanze e trattati. Per

sopravvivere gli Stati minori dovevano stringere legami, oltre che con il proprio signore di diritto feudale,

anche con almeno un altro protettore dello stesso valore (sistema del doppio legame). Questo sistema

caratterizzò la politica di Federico da Montefeltro (1422-1482) signore di Urbino, che era vassallo del papa,

ma offrì anche servizio militare al re di Napoli. Era un sistema molto redditizio, che lo fece divenire il più

ricco principe del tempo, ma anche rischioso, perché signore feudale e patrono potevano entrare in

conflitto (come accadde nella guerra di Ferrara).

Essere condottieri era per i signori di media e piccola grandezza una scelta obbligata: i signori di rango più

elevato commissionavano incarichi militari “condotte” che questi dovevano accettare. Compito dei

condottieri era guidare le campagne militari, ma anche, evitare conflitti armati e se questo non era

possibile, almeno di controllarli. C’era un vero e proprio mercanteggiamento per le “condotte” e si teneva

conto delle qualità di questi mercenari: affidabilità, prudenza, lealtà erano al vertice.

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Dagli anni 1480- 1490 con il cambio di generazione dei signori questo sistema entra in crisi. Più

segnatamente dopo l’intervento militare di Francia e Spagna (1494) che si contesero la supremazia in Italia.

Da questo momento in poi chi voleva sopravvivere politicamente doveva scendere a compromessi con la

nuova superpotenza: la Spagna asburgica.

Capitolo 2 – Caratteri fondamentali della politica italiana tra

il 1430 e 1560

Le cinque potenze

1425-1450 si consolida la pentocrazia costituita da Venezia, Milano, Firenze, Roma e Napoli.

Venezia  a eccezione di alcuni casi, i conflitti erano risolti in maniera ordinata. Il principale motivo di

scontro nell’aristocrazia cittadina al governo, era rappresentato dalla questione se la Serenissima dovesse

continuare a svilupparsi verso il mare (cioè verso le colonie), oppure estendere i propri possedimenti verso

la terraferma.

Milano  dopo la morte di Gian Galeazzo Visconti 1402, rischia di perdere possedimenti. Il processo di

decadenza venne interrotto e la famiglia continuò a regnare ancora per 4 decenni (anche se su un territorio

meno vasto). I Visconti erano minacciati da interessi stranieri, essendosi imparentati con casati reali

d’Europa (soprattutto gli Orléans), questi rivendicavano diritti di successione. La signoria milanese venne

poi assegnata a Francesco Sforza.

Firenze  Cosimo (il Vecchio) de’ Medici, figura più potente della Firenze di allora e banchiere più ricco
d’Europa. Questo aveva rapporti di reciproco interesse con Francesco Sforza. L’alleanza che legava Firenze

e Milano fu alla base di un nuovo sistema di alleanze: la Lega italica (1454). Per consolidarsi questa aveva

bisogno di stringere rapporti nel sud Italia (Stato della Chiesa e regno di Sicilia).

Roma  la situazione inizia a stabilizzarsi grazie al ritorno nel 1420 di papa Martino V Colonna, che si

impose su baroni, patrizi e cardinali. Il successore Eugenio IV costretto ad abbandonare la capitale, ma

grazie alla politica del suo vicario papale, quando tornò a Roma ebbe la strada spianata per procedere al

consolidamento del papato.

Napoli  diverse linee di discendenza della casa d’Angiò si combattevano l’una contro l’altra. Tra 1442 e

1443 si impose il re d’Aragona Alfonso V. Il nuovo sovrano, che reggeva già un impero mediterraneo

(comprendente Catalogna, Aragona, Valencia, Baleari e Sardegna), si trasferì a Napoli facendone il centro

del proprio potere.

Lo “spirito di Lodi”: strategie di contenimento dei confl itti

La Lega italica non riuscì ad eliminare tutti i conflitti in atto; molti piccoli scontri continuarono a verificarsi,

preannunciando conflitti più gravi. Quando Cosimo il Vecchio morì, 1464, cessò anche l’amicizia con

Francesco Sforza. Con il successore di Francesco, il figlio Galeazzo Maria Sforza, i rapporti tra Firenze e

Milano si raffreddarono. Gli Stati avevano bisogno di più sicurezza e per questo iniziarono a sottoscrivere

alleanze particolari.

Nonostante ciò, in Italia erano le potenze moderate (Gonzaga a Mantova, Este a Ferrara e Lorenzo il

Magnifico a Firenze) a mantenere il controllo della situazione.

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Le cose cambiano quando il papato, da fattore di equilibrio, si trasformò in centro d’instabilità. Papa Pio II

Piccolomini (1458-64), discendente di un’antica famiglia nobiliare senese, portò avanti una politica di

potenza inserendo propri parenti tra le famiglie dominanti d’Italia. Il nepotismo da lui inaugurato, ricevette

ulteriore impulso sotto Sisto IV della Rovere, che si impegnò nella costruzione di uno Stato nepotistico in

Romagna. Contro questa politica si impose Lorenzo il Magnifico, apice di questo scontro fu la guerra tra

Roma e Napoli da un lato, e Firenze dall’altro.

Negli anni a seguire Lorenzo il Magnifico riuscì a mantenere una politica di equilibrio legando i propri

interessi a quelli di papa Innocenzo VIII Cybo.

Fenomeni di disgregazione si registrarono anche a Napoli e Milano.

Tra la Francia e la Spagna

Tra il 1493-94 le tensioni si fecero ancora più acute, morì re Ferrante e gli succedette il figlio Alfonso II
d’Aragona. Nessuna potenza italiana (tranne Venezia) era interessata a mantenere la situazione

d’equilibrio, ciò permise a Carlo VIII di marciare verso l’Italia. Il suo scopo era di raggiungere Napoli e la

Sicilia, e ci riuscì.

In tutta risposta, le potenze italiane formarono una coalizione antifrancese, priva però dell’appoggio di

Firenze. Il risultato fu che i francesi abbandonarono l’Italia.

Nel sud Italia si ripristinò l’autorità aragonese, destinata a durare ancora poco: nel 1496 venne incoronato

Federico, 4° e ultimo re aragonese.

Insomma, la situazione era mutata: era sorta la convinzione di poter coinvolgere i sovrani stranieri come

mezzi per i propri interessi e di poterli poi, rimandare a casa. Ma il nuovo re di Francia, Luigi XII (casa di

Orléans) arrivò in Italia nel 1499 per appropriarsi del ducato di Milano. Questo strinse alleanza con papa

Alessandro VI vista la comune ostilità verso lo Sforza. I Borgia, nonostante fossero stati in grado di cacciare

le grandi famiglie baronali romane dei Colonna e degli Orsini, avevano bisogno dell’aiuto militare francese

per costruire il principato nepotistico in Romagna.

Forte dell’appoggio francese, il figlio di papa Alessandro VI, Cesare Borgia condusse contro i signori delle

città romagnole una campagna militare. Con la morte di Alessandro 1530, i successi militari dei Borgia si

dissolsero: gli interessi del papato si opponevano alla creazione di un dominio ereditario dei Borgia.

Italia meridionale  Francia e Spagna rivendicavano l’eredità del regno di Sicilia, la questione si risolse a

favore della corona iberica.

Lombardia  teatro dello scontro per l’egemonia tra Francia e Spagna. Tra 1512 e 1515 entrarono in gioco

anche altre potenze: gli svizzeri, che riuscirono a sconfiggere i francesi e assumere il potere a Milano. Poco

dopo i francesi riafferrarono il ducato; iniziò un periodo di contesa tra francesi e spagnoli e nel 1525 il gioco

si concluse a favore della Spagna.

Venezia  fino ad ora risparmiata dalle invasioni straniere. Nel 1508 re di Francia, imperatore e papa si

allearono contro la Serenissima. Prima del 1517 la maggior parte dei territori perduti era stata riacquistata

grazie a strategie diplomatiche. La conseguenza fu un ampliamento delle relazioni clientelari con Verona,

Padova, Vicenza e Bergamo.

Firenze  1512 la repubblica di Firenze crollò sotto l’esercito spagnolo inviato da papa Giulio II (nipote di

Sisto IV). Rientrarono in patria i Medici e ressero la città per 15 anni. La strategia dei Medici e quella del

papato si trovavano a coincidere nella volontà di entrambi di non dipendere troppo da Francia o Spagna.

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1527  nel conflitto tra Francia e Spagna per l’egemonia in Italia, il papa Clemente VII (2°papa mediceo) si
schierò con la coalizione opposta a Carlo V e Roma fu sottoposta a sacco e i Medici cacciati una seconda

volta da Firenze. Questo anno è importante perché determina l’inizio del predominio politico della Spagna

in Italia.

Esiti e conclusioni di un’epoca

Perché l’Italia perde autonomia e libertà a favore delle potenze straniere? Alla fine del 15°sec. Francia e

Spagna avevano consolidato il potere delle loro corone, mentre il sistema della Lega italica era fragile.

Capitolo 3 – Gli stati e le élite

Le signorie: genesi e struttura

Solo in Italia si costituiscono le signorie, segnatamente dall’anno 1264 quando il comune di Ferrara

consegna il diritto di sovranità illimitata agli Este. In Europa si svilupparono invece, monarchie e repubbliche

cittadine.

La signoria non era un organismo politico indipendente, infatti, continuavano ad esistere le antiche

magistrature municipali medievali. Queste avevano la funzione di ordinaria amministrazione, ma nel caso in

cui il signore venisse rinnegato o la dinastia si estinguesse, il loro potere si espandeva.

La signoria era fortemente legata al suo luogo di origine, più di altri sistemi politici: anche se si espandeva il

suo potere era più forte alla sua radice (dislivello di potere dal centro alla periferia). Le città che optavano a

rinunciare alla propria indipendenza politica rimanevano sotto il controllo di un principe straniero non

residente, e proprio per quanto detto prima, godevano di un’ampia autonomia locale in mano al patriziato.

Inoltre, il signore non sempre otteneva l’autorizzazione a mutare gli statuti del comune, ciò produceva delle

“quasi signorie” a cui mancava il titolo per divenire vere e proprie. Queste iniziarono a diffondersi già del

‘200 e continuarono anche nel Rinascimento. Numerose signorie miste o ibride comparvero in molte città

italiane (es. la signoria informale dei Bentivoglio a Bologna).

In generale prevalsero le signorie temporanee legate ad un potente personaggio, dopo la loro conclusione,

continuava la consueta vita del comune. La formazione di signorie durevoli e dinastiche riusciva solo in

certe condizioni: la più decisiva era che la famiglia del signore discendesse dalla classe dirigente insediata

nel comune.

Di conseguenza essi giungono ad assumere nel comune, la guida di uno dei partiti locali, cioè di un gruppo

di interessi. Dopodiché tolgono di mezzo il raggruppamento rivale e a ciò segue la formalizzazione della

signoria. Spesso si arrivava al potere tramite sanguinosi conflitti tra le famiglie rivali.

Una volta al potere il signore doveva mantenere la pace, ciò significava difendere gli interessi della classe

dirigente e mantenere una situazione di equilibrio tra i settori antagonisti all’interno di essa. Ma non solo,

per garantirsi autorità nel tempo, doveva anche soddisfare le richieste delle classi subalterne.
Signorie rinascimentali: Milano, Ferrara e Urbino

La forza della signoria come Stato  una fonte importante per comprendere questo quesito ci è data dalla

corrispondenza tra i duchi di Milano e i loro rappresentanti nelle città suddite della Lombardia (avevano a

disposizione più di 200 funzionari). Potremmo parlare di amministrazione premoderna?

La risposta è complessa: i funzionari avevano il compito di far valere la volontà del signore e inviare a

questo le richieste delle province. I più importanti erano: commissari, podestà e capitani di divieto; nello

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svolgere il loro lavoro entravano spesso in contrasto con autorità locali. I sudditi influenti tentavano di

corrompere i funzionari, ma se questo non bastava, si rivolgevano direttamente al signore che, nella

maggiorparte dei casi archiviava il fatto.

Di fatto l’autorità dei funzionari era impotente, a questo punto venivano mandati altri rappresentanti del

potere centrale: i vassalli.

In questo modo però, nelle signorie si fece strada una tendenza che contraddice i tradizionali modelli del

processo di formazione dello Stato. Questi modelli si muovono verso una definitiva rimozione delle

autonomie feudali grazie al formarsi di una burocrazia centralizzata, quindi, le signorie in questo senso si

presentarono come un’involuzione.

Tra ‘4 e ‘500 feudo e vassallaggio tornano in voga, dopo che i comuni (dal 12°sec.) erano riusciti a svolgere

autonomamente compiti come: giustizia, tassazione…

Dominio degli Sforza (Milano)  concedevano in feudo porzioni talmente vaste che il governo centrale era

sempre in crisi finanziaria. Il signore contava sulla lealtà dei vassalli, non mettendo però in conto che si

stava accerchiando di una periferia guidata da figure più potenti di lui.

Dominio degli Este (Ferrara)  signoria di successo che seppe controllare la situazione vista per gli Sforza. I

funzionari avevano un’autorità riconosciuta e ricevevano in beneficio piccoli territori che rimanevano sotto

il controllo centrale.

Ovunque era decisivo il ruolo del patronato, cioè la forza del signore era direttamente proporzionale alla

rete di amicizie utili che egli sapeva mantenere (non perdendo il ruolo centrale).

Dominio di Federico da Montefeltro (Urbino)  governò in maniera esemplare il territorio a sua

disposizione. L’organizzazione amministrativa era arcaica e prestatale, era diffuso l’autogoverno locale (sia

in città piccole che villaggi). Il signore si comportava con flessibilità verso i sudditi. La concessione di feudi

da parte del ducato avveniva in maniera misurata, circa 1/3 del territorio era governato in concessione

feudale (cioè da un vassallo che era intermediario tra sudditi e signore). Queste aree erano montuose e ci
viveva solo il 5% della popolazione. Questo portava vantaggi al signore: arginava l’ascesa sociale, riscuoteva

la rendita e lasciava che altri si occupassero dei conflitti.

Per concludere le signorie del Rinascimento italiano furono, per struttura, organizzazione e valori organismi

tradizionali. Contemporaneamente però erano innovative nel vincolare le classi dirigenti tramite il

rapporto vassallatico e la corte.

Le monarchie: Napoli e Roma

Nel sud Italia avevano importanza le grandi famiglie feudali.

Alfonso V, re di Napoli e Sicilia 1443-58  arrivato a Napoli si circondò di aristocratici catalani (come lui) ai

quali erano riservate posizioni di vertice a corte e concessi feudi sottratti ai nemici. Questa operazione di

trapianto di un’élite straniera assunse un carattere limitato, perché i baroni locali erano contrari.

Ferrante d’Aragona 1458-94  successore, costretto a italianizzare l’élite a corte.

Dopo il 1443 vennero potenziati gli organi di consiglio e le istituzioni centrali: il sovrano voleva sottoporre al

proprio controllo l’aristocrazia. Di fatto, non riuscì a modificare tale situazione poiché i rapporti di potere

erano sfavorevoli per il governo centrale. Più di 4/5 delle comunità urbane erano sotto il controllo

dell’autorità feudale e inoltre i beni del re in origine vasti, andavano assottigliandosi.

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Le grandi famiglie feudali, inoltre, come condizione per accettare il nuovo re, pretesero di esercitare nei

feudi l’incondizionato potere giuridico (potevano decidere anche per la pena capitale). Il re era costretto a

riconfermare i rapporti di potere.

Dal 1525 la corona spagnola legittimò la sovranità feudale a esercitare il potere in nome del re. Insomma,

favorì sempre più la formazione di vasti poteri nelle mani delle famiglie aristocratiche.

I settori dell’amministrazione ordinaria (esercizio della giustizia, approvvigionamenti…) erano dominati

dall’aristocrazia urbana divisa in 5 “seggi”, questa però doveva collaborare con il 6° seggio quello del

“popolo” cioè le ricche famiglie di commercianti e banchieri.

La monarchia tentò di consolidare il proprio potere, non ottenendo ampi risultati, anzi, confermando la

potenza degli aristocratici; ciò però avvenne con opposizione da parte della corona.

I 2 sovrani citati prima, cercarono di creare un’economia di Stato: tramite l’istituzione di un monopolio

regio sulla pastorizia e il collegamento al flusso di merci e denaro del nord Italia. Lo scopo era quello di

risollevare l’economia arretrata del sud e aumentare le proprie capacità finanziarie.

Per quanto riguarda la cultura, i 2 sovrani si resero conto dell’importanza di impiegare i mezzi di

comunicazione come strumenti di potere, ed essendo stranieri, anche a creare una linea di legittimità
inserendosi nelle tradizioni locali. Alfonso puntò sull’architettura, commissionando la Porta trionfale di

Castelnuovo (Maschio Angioino 1452-66). Nonostante ciò, estinta la dinastia, tutto questo prestigio crollò

velocemente.

Roma del Rinascimento e Stato della Chiesa  progressi nell’accentramento burocratico: nel 1420 quando

papa Martino V torna a Roma, i territori sottoposti alla sovranità papale (tra Romagna e Abruzzo) sono un

insieme di Stati indipendenti (autorità papale solo nominale). Nel giro di un secolo (metà ‘500) in questi

stessi territori troviamo i funzionari papali.

Questo potere non era frutto di un’imposizione autoritaria del papa, ma di accordi e scambi di potere tra

questo e la nobiltà. In questo modo il papa riuscì ad emarginare le aspirazioni di potere di cardinali e

baroni.

Il nepotismo papale rivelò il duplice ruolo nella distribuzione delle opportunità di accesso al potere. Se da

un lato, la sistemazione dei parenti del papa al vertice della piramide sociale, indebolì i clan aristocratici;

dall’altro lato il papa assunse il ruolo del “terzo che gode tra i 2 litiganti”. Il disegno politico dei pontefici

rinascimentali non prevedeva la completa squalifica della vecchia élite, ma la sua fusione con le famiglie dei

nipoti in una nuova classe dirigente. Lo scopo era quello di creare uno Stato in cui il papa fosse al centro di

una cerchia di aristocratici fedeli.

Nel Rinascimento il potere del papa fu ampiamente criticato dagli intellettuali di tutta Europa, essi

contestavano nepotismo, ricchezza, attaccamento al denaro.

Le repubbliche: Venezia, Firenze, Genova, Siena e Lucca

Perché rimangono saldi al loro interno gli Stati liberi?

Le élite di queste repubbliche utilizzavano parte delle proprie eccedenze in titoli di Stato. Solo la

conservazione del regime garantiva le i tassi d’interesse, il suo crollo significava la rovina finanziaria. Queste

repubbliche erano fondate sul denaro e la rete di interessi economici, sociali e politici era inestricabile.

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Decisiva fu la presenza di un elevato numero di clan con poteri abbastanza simili e dotati di ramificazioni

familiari che, fornivano al sistema punti di appoggio e però contrastavano con l’eccesso di prestigio tipico

delle signorie.

Altro fattore consisteva nella rapida rotazione delle magistrature ciò rendeva desiderabile il mantenimento

dello status quo.

Infine, contribuivano meccanismi di compensazione sociale, come quelli presenti negli spazi di

autogestione delle parrocchie e corporazioni professionali. Il legame dello Stato era garantito soprattutto
dal suo interno.

Per quanto riguarda lo Stato veneziano, queste regole non apparvero di colpo, ma si perfezionarono tra

‘300 e ‘400. Lo Stato era organizzato in forma piramidale, all’interno operava il Maggior consiglio del quale

facevano parte fino a 3000 nobili (dal 1297 l’appartenenza al Maggior consiglio era concessa solo alle

famiglie che in quella data erano già integrate nel ceto aristocratico). Appena sopra si collocava il Consiglio

de’ pregadi (o Senato) composto da 1/10 del Maggior consiglio. Questo organo era privo di autonomia e

solo chi apparteneva al Consiglio del Doge, al Consiglio dei 10 o al collegio dei Savi grandi, poteva ritenersi

veramente potente.

Il doge era il centro di questa rete (il suo operato era tuttavia controllato), restava in carica tutta la vita e

operava nelle istituzioni politiche determinanti. Sotto i nobili il ceto che godeva di privilegi era quello

composto dai “cittadini originari”, un’élite secondaria. Oltre al denaro, per entrare nei circoli più interni del

potere era necessaria la discendenza da uno dei clan più in vista.

In generale, per quanto riguarda la partecipazione politica attiva, in tutti questi Stati, erano le oligarchie a

contare, formate da una ristretta cerchia di famiglie.

L’allargamento della partecipazione politica alla gran parte del ceto medio (eccezione), fu proposto a

Firenze nel 1494, e fu un’anomalia provocata dalle idee del predicatore Girolamo Savonarola che

riconosceva nei mercanti e artigiani la parte sana della società.

Repubblica di Siena  qui i clan aristocratici potenti erano i Salimbeni e i Piccolomini, il loro prestigio non

venne meno neanche quando furono esclusi dalle posizioni dirigenti: continuarono a occupare posizioni

chiave nella diplomazia e nei comandi militari. Le cariche di governo erano estremamente mobili: si aveva il

posto 2 mesi circa e per poter tornare bisognava aspettare tra 1 e 5 anni.

I sudditi non accettavano però di rimanere privi di volontà, dimostrarono ciò associandosi e imponendosi.

Questa situazione mutò poco, fino all’avvio di riforme decisive nel ‘700.

Capitolo 4 – Le corti e la società di corte

Il processo di formazione della corte

La corte  questo fenomeno caratterizzò l’Europa della prima età moderna. Si perfezionò come strumento

di dominio nell’Italia rinascimentale, attraverso la signoria.

Fino al 1430 la cerchia del principe era composta da dignitari, consiglieri (civili e militari) e inservienti.

Questa è la corte più antica e premoderna: ancora legata a funzioni di amministrazione, giustizia e guerra.

Dal 1430-40 la corte si sviluppò, grazie all’aumento del personale e prese la via verso l’amministrazione

centralizzata. Le classi più elevate erano composte da nobili che risiedevano accanto al signore, la loro

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funzione era legata al consiglio privato o lo staff amministrativo del signore, ma, si faceva sempre più

indipendente.

Questi nobili locali e stranieri avevano esigenze di distrazione e intrattenimento, per questo si sviluppò la

cultura di corte. Intrattenimenti musicali, rappresentazioni teatrali, cortei e spettacoli divennero

componenti irrinunciabili della vita di corte. Elementi della nuova corte erano anche gli eruditi dediti al

culto dell’antichità classica, gli umanisti.

La corte crebbe di dimensioni anche grazie a figure necessarie a provvedere ai cortigiani: la servitù, che

acquisì un valore particolare poiché il suo abbigliamento e il suo livello di organizzazione divennero fattori

di prestigio.

Essere presenti a corte aveva un significato simbolico: i nobili che restavano a lungo lontani dalla cerchia

del principe venivano sospettati di voler evitare di proposito il principe e cadevano in disgrazia.

L’Assenteismo spesso era punito da sanzioni. I professionisti nell’arte di evitare la corte erano i nobili che

governavano territori minori.

Le informazioni riguardanti la corte come strumento politico possono essere comprese analizzando il suo

sviluppo. La corte si ampliò fortemente tra 1430 e 1480. I cortigiani erano valutati sulla base di criteri di

discendenza rigidi, la vita di corte era sottoposta a regolamentazioni e l’accesso al principe era limitato.

Ciò portò a redigere veri e propri regolamenti scritti (un esempio quello di Urbino).

Si ricorreva a rituali di origine religiosa e spesso forme di devozione erano sfruttate per stabilire

un’interazione con l’opinione pubblica e per comunicare sul piano mediatico.

La corte come teatro

Nel 1500 la corte si era trasformata in una scena teatrale dove si mescolavano spettacoli, attori e

spettatori. Le feste servivano sempre più a distinguere i ceti: al signore spettava un ruolo di protagonista, ai

cortigiani quello di seguaci (sottoposti) e i ceti restanti erano gli ammiratori (divisi secondo il rango di

appartenenza). Si trattava di una divisione spaziale e simbolica, tra due mondi che non potevano

avvicinarsi.

Il Rinascimento segnò l’avvento di un’urbanistica del potere. Questa assegnava al palazzo del signore una

posizione di dominio, che era separato dagli abitati dei sudditi. La cerchia dei nobili risiedeva attorno alla

piazza centrale di forma geometrica. Questo quadro urbano si completava con un nuovo elemento: la

residenza di periferia o di campagna del principe, fuori dalla cinta muraria, ciò sottolineava ancora

maggiormente il suo distacco e la sua superiorità.

Esemplare Palazzo Te a Mantova fatto costruire da Federico II Gonzaga e decorato da Giulio Romano, 1526.
La corte necessitava di intrattenimenti sempre più coinvolgenti: strumenti nei quali canalizzare

atteggiamenti e mentalità. Non si trattava di un gioco, anzi, per organizzare determinati eventi si

impiegavano ampie risorse. Proprio a questo scopo iniziarono ad aver successo manuali della vita

cortigiana: proponevano modelli ideali di corte; uno di questi divenne particolarmente famoso, Libro del

Cortegiano di Baldassarre Castiglione.

Qui la corte è descritta come un ambiente che impone all’individuo di impegnare completamente sé stesso

per servire il signore. In quest’ottica, essere perfetti nell’arte cortigiana consiste nel far credere

l’accondiscendenza come libera volontà, e per realizzazione di sé, l’alienazione.

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Comunque, la nobiltà non diventò un fantoccio nelle mani del signore, né nelle corti rinascimentali né più

tardi, alla fine del ‘600, nella Versailles di Luigi XIV, i cui modelli italiani sono ben riconoscibili. Dipendenza e

profitto erano reciproche (tra principe e nobiltà). La corte imponeva al principe anche alcuni doveri:

scegliere l’élite dell’aristocrazia della capitale e di quella degli altri territori, contenere disaccordi tra queste

élite, invitare gentiluomini stranieri per manifestare l’ampiezza degli influssi della corte…

In questo senso si svilupparono corti particolari, luoghi di cultura che attraevano le nuove leve delle élite.

Le più importanti erano Mantova e Ferrara dove operavano Vittorino da Feltre e Guarino Veronese: docenti

di formazione umanistica più famosi dell’epoca.

L’equilibrio precario della società di corte era minacciato dalla presenza sproporzionata dell’élite locale. La

vecchia classe dirigente rifiutava di ospitare troppi nuovi seguaci.

La corte come strumento di potere

Le feste organizzate dal principe erano riti spettacolari, il loro intento era quello di rappresentare la corte

come un ambiente perfetto, vere e proprie macchine della celebrità. Per sottolineare la propria autorità, un

principe imitava i concorrenti e cercava a tutti i costi di superarli. Ospitare nella propria corte un congresso

di principi italiani (a volte in presenza del papa stesso) significava ricevere un prestigio nazionale e

internazionale.

La corte era divenuta un elemento irrinunciabile, si svilupparono ovunque, ad eccezione di Venezia dove le

famiglie dominanti riuscirono a porre un freno alla formazione di corti, mantenendosi repubblicani.

La corte era un’arma a doppio taglio: poteva regalare benefici, ma la netta divisione tra principe e sudditi

poteva suscitare sentimenti di rivalsa o vendetta.

Una società cortigiana particolare si sviluppò invece a Roma, dagli ultimi decenni del ‘400. Qui troviamo in

concorrenza con la corte pontificia, tutta una serie di corti rivaleggianti anche tra loro che gravitavano
attorno alla figura di cardinali potenti. I cardinali erano considerati principi minori dotati di cariche, entrate

e relazioni clientelari su scala europea, e di una certa autonomia dal papa.

Le magnifiche corti cardinalizie erano il prodotto del nepotismo pontificio: Palazzo Venezia eretto da Pietro

Barbo, nipote di Eugenio IV, Palazzo della Cancelleria eretto da Raffaele Riario, nipote di Sisto IV.

Disponevano di ricchezze inesauribili, e il loro scopo primario era di divenire papi. Molti ci riuscirono, ma

questa catena s’interruppe con la Controriforma cattolica 1535, proibì queste ripetizioni di famiglia,

favorendo i più degni.

Sul piano delle opere architettoniche, il pontefice spesso si attestava come committente di prestigio. Ciò

provocò critiche asprissime non solo da parte di puritani e moralisti, fino al 1565 quando questi eventi

mondani furono proibiti.

Vista l’eccezione di Venezia, come si difendeva da corti tanto sfarzose? Disponeva di uno scenario unico al

mondo, esibiva riti suggestivi: come il cerimoniale del doge con rituali simbolici e estremamente sfarzoso,

infine, l’idea che tutti i suoi sudditi fossero parte di un ordine equo e giusto.

Capitolo 5 – Immagini del potere e mausolei della gloria

Immagini della corte e artisti cortigiani

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La corte divenne essa stessa oggetto di propaganda e strumento con il quale la corte promuoveva la propria

formazione. Era questa la funzione (anche per il luogo in cui sorsero) di affreschi dipinti tra 1469-71 da

Francesco del Cossa, Ercole de’ Roberti e collaboratori nel Salone dei mesi di Palazzo Schifanoia a Ferrara.

Spazi dove la corte estense era solita organizzare le feste.

Il tema del ciclo sono i 12 mesi, i pianeti che li dominano e le divinità. Queste ultime si trovano nella fascia

superiore degli affreschi, sopra i corrispettivi segni zodiacali e circondate da cortigiani.

Nella fascia più bassa la corte ferrarese circonda con obbedienza il signore: marchese Borso d’Este. In

questa fascia troviamo i diversi mestieri artigianali legati al mese rappresentato, al centro sta sempre il

signore.

Durante le feste, la corte aveva intorno a sé una sorta di manuale di comportamenti esemplari e

ricordavano anche la loro posizione di subordinazione. Prestare servizio al signore significava essere fedeli

alla volontà divina.

Nelle scene il signore esercita la giustizia, non porta armi poiché protetto dai sudditi, conosce il popolo, vi si

mischia ma senza associarsi.

Le immagini mostrano una forma di multiculturalità cioè, quella forza di attrazione che esercitava sulle élite
dell’Italia rinascimentale, il mondo cavalleresco del nord della Francia e della Borgogna; un ambiente

aristocratico con il quale gli Este vantavano legami di discendenza.

Dunque, questo ciclo rappresenta le universali regole della propaganda dipinta: per impressionare il

pubblico doveva basarsi su una base solida, rappresentata da fatti reali.

A Mantova, i Gonzaga, provenivano da una bassa nobiltà di vassalli locali, cercarono quindi di basare il

proprio prestigio riferendosi al presente. L’immagine rappresentativa è data dal ciclo di affreschi concluso

nel 1474 da Andrea Mantegna nella Camera degli Sposi, nel Palazzo Ducale di Mantova.

Questo affresco mostra appunto la famiglia nella sua quotidianità. Il ciclo dal punto di vista iconografico

non è facilmente comprensibile (ancora oggi oggetto di dibattiti); sicuramente uno degli affreschi

rappresenta l’incontro del marchese Ludovico Gonzaga con il figlio Francesco, che papa Pio II aveva eletto

cardinale.

Il messaggio dell’affresco è di rappresentare una società serena, ordinata gerarchicamente. Non manca

nemmeno, in chiave ironica, il ribaltamento apparente dei rapporti gerarchici. Anche Rubino, il cane

raffigurato sotto la sedia del marchese è sinonimo di fedeltà e inferiorità.

La moglie del marchese, Barbara di Brandeburgo, è presentata nel dipinto come secondo vertice della

corte e non ha meno autorità del marito. Spesso la sovrana diveniva la sostituta domestica del marchese

quando questo era occupato fuori dalla città, aveva ricevuto un’educazione di stampo umanistico e oltre a

ciò, era la figlia di un principe del Sacro romano impero, un’attestazione vivente di dignità.

Confrontando questi affreschi con quelli di palazzo Schifanoia, realizzati più o meno negli stessi anni,

notiamo delle differenze. Quelli di Mantegna manifestano uno sviluppo scandito in 2 momenti: rispetto al

carattere realista di Borso d’Este, la corte di Mantova risulta il frutto di una civiltà cortigiana. Nonostante

ciò è ancora lontana nell’assumere il ruolo di penetrare in tutti i settori della vita che la corte assunse solo

nel ‘500.

Una simile diversità tra opere simultanee possiamo notarla riferendoci agli artisti stessi operanti in queste

2 corti. Del Cossa e de’ Roberti rimasero ingaggiati per la corte, mentre Mantegna, essendo un artista di

nuovo genere, si rese indipendente da legami di questo tipo. La sua ascesa sociale rispecchiava l’aumento

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del valore della propaganda e dei mezzi di comunicazione. Allo stesso tempo anche il committente

assumeva prestigio, solo ad alcuni era data la grazia di patrocinare (sponsorizzare) questi geni.

Ahimè, acquisto di rango sociale e perdita di libertà andavano a braccetto, i Gonzaga avevano diritto di

precedenza sul loro artista di corte: se riceveva numerose commesse doveva chiedere al signore il
permesso di accettarle.

La notorietà di Mantegna fu sfruttata particolarmente da Isabella d’Este (2 generazioni dopo Borso)

marchesa di Mantova, al momento delle nozze con Francesco II Gonzaga. Era una committente molto

esigente e si rivolgeva ad artisti come Leonardo da Vinci o Giovanni Bellini, chi la scontentava rischiava

l’obbligo di restituire gli anticipi o addirittura l’incarceramento. Isabella collocava le opere migliori nel suo

studiolo, un gabinetto da esposizione mostrato agli ospiti più illustri.

Il pantheon dei Malatesta

Dopo la metà del ‘400, la chiesa dei francescani di Rimini venne trasformata nel mausoleo e nel pantheon

della famiglia Malatesta, commissionato da Sigismondo Pandolfo. Il progetto del Tempio non venne mai

completato e oggi è per noi una rovina architettonica con un valore simbolico importante: attesta il

fallimento del committente.

Sotto il profilo estetico manca di unità stilistica: i tratti anticheggianti dell’esterno, progettato da Leon

Battista Alberti, si accordano nell’interno con l’affresco di Piero della Francesca, ma molto meno, con la

decorazione plastica di Agostino di Duccio. Ma ciò che non fu apprezzato dai contemporanei era il

messaggio complessivo dell’opera. Lo stesso papa Pio II parlò di opere di empietà (irreligiosità), e inoltre, il

Tempio esaltava esageratamente il solo committente.

Il Tempio malatestiano raffigura un principe autonomo con pieni poteri, ma non era così: Sigismondo

Pandolfo era una pedina sulla scacchiera del papa e dei rapporti clientelari. La propaganda del potere, in

questo caso, si dimostra controproducente.

Manifesti del potere in Vaticano

La trasformazione di Roma in simbolo dell’onnipotenza papale avvenne lentamente. La ricostruzione della

stessa basilica di S. Pietro, fu più volte interrotta, e il monumentale progetto iniziale, divenne sì, riflesso del

committente, ma in maniera diversa da quella prevista.

Numerosi cambiamenti furono apportati dai direttori ai lavori: da Bramante a Raffaello, fino a

Michelangelo che dal 1546 ricoprì la carica di capo architetto della fabbrica di S. Pietro. Questi

cambiamenti riflettevano le aspirazioni del papato di rappresentare all’opinione pubblica la monarchia

pontificia.

Più velocemente che nell’architettura, la propaganda papale si materializzò nell’immagine pittorica. Il

1°enorme manifesto dipinto dell’ideologia pontificia fu l’affresco sulle pareti della cappella Sistina, tra il

1481 e 82, ad opera di maestri umbro-toscani coordinati da Perugino (prima degli interventi di

Michelangelo). Scene della vita di Mosè e di Cristo vennero affrescate tra elementi architettonici, iscrizioni e

ritratti. Importante fu la scelta di quali scene rappresentare e che tipo di rapporto dare alle vicende. Il
messaggio dei dipinti ha un valore simbolico: mostrare l’autorità e la leadership del papa, e un

avvertimento contro tutti gli usurpatori.

La vittoriosa potenza del papato (discesa direttamente da Dio) viene rappresentata anche nelle Stanze

Vaticane: sale papali con funzione di ricevimento, affrescate da Raffaello e co. dal 1508.

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Gli affreschi di Raffaello in Vaticano sono importanti perché non possiamo considerarli come autonomi dal

punto di vista stilistico, ma strettamente legati ad esigenze politiche dettate dai committenti. Nella Roma di

Giulio II possiamo intravedere come, in un clima politico-culturale stimolante, si sviluppino nuove forme e

nuove soluzioni artistiche per soddisfare i committenti.

Pittura di propaganda per la repubblica e il principato

Il più vasto manifesto pittorico concepito per celebrare la repubblica come migliore forma di Stato, fu

realizzato nella repubblica di Siena nella Sala del Concistoro (la classe politica della repubblica prendeva qui

le decisioni importanti) di Palazzo Pubblico. Dal 1529 Domenico Beccafumi utilizzando effetti luministici,

gruppi di figure e altri stilemi caratteristici del primo manierismo toscano, realizzò un ciclo affrescato con un

messaggio chiaro: il singolo non è nulla, la repubblica è tutto.

La ragion di Stato repubblicana sovrasta ogni cosa, ciò avviene anche facendo ricorso alla violenza:

giustiziati coloro che si credono più eguali degli eguali. Modelli di questa visione egualitaria dello Stato

sono: un tribuno della plebe che fa gettare vivi nella fornace i propri colleghi, rei di corruzione; un re

ateniese che travestito da schiavo si fa frustare e uccidere dal nemico pur di salvare lo Stato…

Altro esempio di pedagogia politica delle immagini, è la decorazione pittorica realizzata negli anni ’70 del

‘500 a Venezia, nel Palazzo Ducale, la gloria della Serenissima repubblica di S. Marco veniva esaltata da

Tintoretto e Veronese. Una repubblica sacra, perfetta, giusta, libera allo scopo di educare i nobili

nell’esercizio del potere.

Altro sistema politico del ‘500 che dipendeva dal potere delle immagini era il nuovo principato di Cosimo I

duca di Firenze e granduca di Toscana poi. L’antico sacrario della repubblica, Palazzo Vecchio, dove Cosimo

soggiornava a periodi (risiedeva a Palazzo Pitti), venne decorato con numerosi simboli della propria

sovranità.

Il ciclo pittorico era organizzato come un libro di storia, ogni pagina dedicata ad un esponente della famiglia

Medici, ma la copertina era destinata a Cosimo, che vi appare come il salvatore di Firenze. L’artista

incaricato di tradurre in immagini il passaggio verso la “salvezza” era Giorgio Vasari. Cercò di rendere

visibile la differenza qualitativa tra il passato e il presente.


Cosimo viene rappresentato come cuore e cervello dello Stato, esemplare la scena del ciclo in cui studia la

presa di Siena: la sua vittoria è un trionfo celebrato nelle pitture del soffitto.

Capitolo 6 – L’umanesimo italiano: unità, varietà,

concorrenza

Studi umanistici e convinzioni di fondo

Il concetto di Umanesimo non è universalmente esplicabile, per questo gli storici del ‘900 si sono impegnati

a definire precisamente il concetto. La definizione era ricavabile dal campo delle attività umanistiche: cioè

quegli studi che, da Tommaso Parentucelli (papa Niccolò V dal 1447), indicano un canone stabile,

sviluppatosi dopo la fondazione degli studi umanistici di Petrarca (‘300) e comprendente discipline come:

grammatica, retorica, storia, filosofia, poesia.

È impossibile delineare in maniera unitaria la conoscenza umanistica europea, questa si differenzia in base

a concezioni e filosofie. Si può comunque cercare una base di convinzioni di fondo più diffuse per aiutarci

nel determinare il concetto:

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- l’Umanesimo italiano riconosce un valore universale alla cultura antica

- riappropriarsi della lingua latina dell’età classica

- la conoscenza del greco, diffusa in Italia più tardi, divenne norma del canone, ma mai come il latino

Concezioni umanistiche della storia e dell’uomo

Gli umanisti erano spesso protagonisti nel contesto della corte come pedagoghi, ma anche come storici,

perché la narrazione storiografica iniziò ad essere usata come mezzo di propaganda. Saper presentare le

motivazioni della propria convinzione politica affidandosi alla storia, poteva accrescere il prestigio del

principe.

Questo mecenatismo storiografico fu impiegato largamente dal re di Napoli, Alfonso V d’Aragona. Affidò

incarichi a umanisti come Valla o Fazio, perseguendo il suo scopo di apparire come italianizzato e

continuatore della tradizione.

La concezione della storia per gli Umanisti italiani possedeva un valore canonico: all’impero romano, età

aurea decaduta dal V sec. sotto le invasioni barbariche, erano seguiti i secoli bui; grazie all’ascesa dei

comuni e agli studi umanistici dal Petrarca in poi, era ricominciata una nuova stagione di fioritura culturale.

Negli studi antiquari l’atteggiamento dominante non era di mera contemplazione delle rovine, ma quello di

ricercare e ripristinare il vero antico (critico).

Di fronte alla diversità delle concezioni umanistiche, sorprende l’unità degli umanisti verso i propri
“nemici”: concezione monastica della vita, latino maccheronico di conventi e università e nella maniera

scolastica di fare filosofia.

Teologia, neoplatonismo, aristotelismo, sincretismo

Dalla metà del ‘400 furono gli umanisti insediati nelle corti e nei centri decisionali delle repubbliche a

formare lo spirito dell’epoca e la lingua delle élite. La loro posizione dominante, spiega l’influenza che

esercitarono in settori a loro estranei: negli studi teologici, criticati dagli umanisti, specialmente in Italia.

Sul versante opposto si situavano intellettuali come Ficino, alla testa della nota Accademia platonica di

Firenze, che intraprese una sintesi teorica tra cristianesimo e platonismo. Riscosse consensi tra i patrizi

fiorentini eruditi.

Generalmente, la cultura d’élite alla fine del ‘400 si riconosceva nel sincretismo. Secondo le teorie

dell’epoca, si potevano fondere insieme i diversi sistemi filosofici e le religioni conosciute. Le aspirazioni

sincretistiche raggiunsero il vertice nell’opera di Giovanni Pico (2°metà ‘400), con lo scopo di approdare ad

una sintesi filosofico-religiosa, cercò di accordare le dottrine di Platone e Aristotele, da sempre ritenute

opposte.

I legami capaci di conciliare opposizioni in apparenza inconciliabili, vanno ricercati nel disagio avvertito di

fronte allo stile di vita, sempre più dispendioso, della classe dirigente e all’aspirazione di molti al

perfezionamento morale e alla concordia tra i ceti.

Distante dalle correnti umanistiche, dal neoplatonismo alla teologia scolastica, fioriva in questo periodo, in

particolare nella zona di Padova, un aristotelismo critico di matrice laica: sviluppando un pensiero

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filosofico in base al quale la mortalità dell’anima umana non può essere dimostrata sulla base di argomenti

razionali attinti al campo della conoscenza naturale.

Meno innovative furono le scienze della natura, ambito al quale vengono spesso attribuite, al Rinascimento

italiano, scoperte avvenute prima o dopo. Esemplare fu l’interesse per i fenomeni naturali di Leonardo da

Vinci. Tuttavia, questo tratto empirico caratteristico per il ‘500 non era, in primis, orientato ad accertare le

leggi naturali, ma piuttosto per un atteggiamento intellettuale. Questo atteggiamento cambiò verso il ‘600

quando Galileo Galilei, iniziò ad analizzare i fenomeni naturali basandosi sul metodo fisico-matematico.

La perdita delle illusioni umanistiche: Macchiavelli e Guicciardini

Gli impulsi intellettuali del tardo Rinascimento italiano appartengono a riflessioni sull’uomo e sulla storia.

Sotto il concetto di Umanesimo ci si chiede se sia giusto classificare anche i politologi (esperti di problemi

politici) e storiografi fiorentini Macchiavelli (1469-1527) e Guicciardini (1483-1540).


Se ci riferiamo al genere letterario e alla forma stilistica, sono da considerare come tali; diversamente se ci

riferiamo alle idee espresse, non possiamo ritenerli tali. Per gli umanisti infatti, si collocava al primo posto

l’autoformazione morale dell’individuo, mentre per Macchiavelli dà priorità ad uno Stato molto potente in

grado di formare cittadini. Nella repubblica ideale di Macchiavelli l’espansione territoriale tramite le guerre

è fondamentale.

Un mito della concezione di Macchiavelli era quello di considerare la storia come uno sviluppo circolare, di

ritorno, in cui la grandezza romana avrebbe garantito anche nel presente la resurrezione dell’Italia,

liberandosi dagli eserciti mercenari e dai rapporti clientelari.

Guicciardini fonda la sua critica sulla venerazione della romanità, ma al contrario di Macchiavelli, concepiva

la storia come una continua trasformazione, e quindi un’apertura verso l’ignoto. Secondo questo ideale,

dalla storia si può imparare poco; solo gli atteggiamenti dell’uomo nel conservare la dignità offrono qualche

garanzia di successo.

Per entrambi questi intellettuali, la religione era solamente uno strumento di potere.

La Riforma protestante e i mondi della fede

La maggioranza degli intellettuali del Rinascimento italiano non condivideva una visione del mondo atea,

ma preferiva pensare al cristianesimo come una religione fusa con la filosofia antica. Collegata a queste

preferenze degli umanisti, era la reazione alle idee della Riforma protestante. Queste penetrarono in Italia

tra il 1520-1530 e furono spolpate del loro significato teologico e ridotte al solo contenuto politico e

morale.

La nuova confessione, adattata alla situazione italiana, si diffuse soprattutto nei circoli “evangelicali”

composti da membri delle élite culturali e delle classi dirigenti; venne ampiamente contrastata anche per

l’ostilità dell’Umanesimo verso una religione ufficiale fattasi dogmatica.

Il patrimonio di idee e credenze della gente comune, invece, era soggetto a più lente trasformazioni. La

visione del mondo condivisa tra i ceti popolari può essere ricostruita grazie a diari o atti giudiziari, e si

riscontra la sopravvivenza di pensieri molto arretrati.

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Capitolo 7 – il Rinascimento italiano in Europa

Per la complessità dello scenario politico e della varietà delle correnti culturali, il “modello del

Rinascimento italiano” non ha potuto trasferirsi dal suo luogo di origine.

Per quanto riguarda il settore economico, notiamo che numerose conquiste accreditate a quest’epoca, in

realtà sono solo uno sviluppo di un aspetto iniziato precedentemente. Per esempio: innovazioni della
tecnica bancaria (lettere di cambio o la girata) erano già in atto nei secoli 12° e 13° durante il periodo di

sviluppo dell’economia italiana.

Il benessere delle classi dirigenti, testimoniato oggi dallo sviluppo edilizio e dal mecenatismo, può essere

spiegato come un consolidamento economico, che potrebbe essere ricondotto a diversi fattori. Nuovi

settori di produzione, come la fabbricazione della seta; l’oculata gestione delle proprietà fondiarie; la

redistribuzione della ricchezza incassata dalla politica fiscale a vantaggio delle città.

La capacità dell’Italia rinascimentale di influenzare altre civiltà va ricercata soprattutto nella cultura d’élite,

della corte, del suo stile di vita. Gli umanisti italiani, sostenendo la tesi della funzione eroica svolta dal

proprio paese, misero in moto una reazione a catena di precoci nazionalismi europei.

L’Italia era raffigurata dagli umanisti francesi e tedeschi come un mondo ormai sepolto, il cui antico

splendore era stato sostituito da ingannevoli bagliori culturali. In questa competizione, i polemisti stranieri

si trovavano in una posizione di partenza sfavorevole, dovendo ammettere il primato del latino e che l’Italia

aveva ridato vita agli studi umanistici un secolo prima del resto d’Europa.

I nuovi modelli di cultura umanistica e i nuovi stili di vita cortigiana, sperimentati per la prima volta in Italia,

si diffusero ovunque, ma adattati, nazionalizzati al paese di origine.

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