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STORIA MODERNA

LA SOCIETÀ DI ANTICO REGIME (XVI-XVIII SECOLO)


Temi e problemi storiografici di Gian Paolo Romagnini
1. Il lavoro dello storico
Storia e storiografia. La parola “storia è ambigua e possiede molteplici significati: a)
il divenire degli eventi nel corso del tempo, ossia realtà oggettiva, evento, b) storia narrata
e interpretata dagli uomini, ossia prodotto soggettivo, narrazione, c) racconto. Il termine
italiano “storia” deriva dal latino historia, che a sua volta deriva dal greco ἱστορεῖν,
traducibili come “osservare, cercare di sapere, di vedere, informarsi, indagare”. In greco
ἱστορίη è “indagine, ricerca”, quindi l'idea greca di storia è inscindibile da quella di ricerca.
I due più grandi storici del mondo greco furono Erodoto (484-425 ca. a.C.) e Tucidide (460-
404 ca. a.C.) e intitolarono le loro opere Ἱστορίη (“Le ricerche”) e Τὰ ἔργα (“I fatti”). I due
concetti sono diversi: da un lato la storia come ricerca, osservazione, indagine,
problematizzazione; dall'altro lato la storia come narrazione di fatti per lo più politici e
militari. Al primo modello si richiama la storia sociale multidimensionale (affermatasi a
partire dalla prima metà del Novecento), una storia strettamente collegata alla geografia e
all'antropologia; al secondo modello una storia evenemensiale (Marc Bloch), ossia una
storia incentrata sulle grandi narrazioni di fatti e di avvenimenti politici, militari e
istituzionali, assai meno attenta all'indagine dei mutamenti lenti, profondi e sotterranei.
Qualsiasi approccio alla conoscenza storica è veicolato inizialmente dai libri degli storici.
Noi non conosciamo nulla della storia che non sia passato attraverso il filtro
dell'interpretazione e della narrazione di uno storico. Non è concepibile una storia che non
sia prima di tutto storiografia. La conoscenza del passato è sempre mediata, è sempre storia
della storiografia. Tre sono le principali forme e funzioni dell'attività storica: ricordare,
ammaestrare e spiegare. Dalla prima deriva la storiografia narrativa; dalla seconda la
storiografia pragmatica; dalla terza scientifica. La storiografia risponde al bisogno di
ricerca di identità, ossia ciò che definisce i tratti comuni con coloro che riteniamo nostri
simili e ciò che ci differenza dagli altri. L'interesse dello storico si concentra sugli uomini e
la loro vita. Oggetto della ricerca storica è dunque l'uomo, ma non isolato: le società umane
nelle loro molteplicità, nel divenire e mutare, quindi nelle loro trasformazioni nel corso
del tempo. La storiografia è dunque una disciplina eminentemente sociale che ha come
coordinate fondamentali lo spazio e il tempo.
Storia e memoria. Il passato ricostruito non sarà mai oggettivo, ma filtrato e
selezionato dalla memoria altrui. Lo storico è inizialmente il testimone o colui che può
risalire alla memoria dei testimoni. Il suo compito è fornire una lettura del passato, ma
sempre in chiave soggettiva e suscettibile di essere smentita. La memoria umana è sempre
selettiva. La memoria cerca sempre di addurre prove, ma valgono solo per quanti abbiano
già riconosciuto la verità della testimonianza e siano chiamati a convalidarla. Inizialmente la
storia non è che la memoria messa per iscritto.
La trasmissione della memoria è per le società umane qualcosa di essenziale e necessario e
può manifestarsi sia attraverso la storiografia, sia attraverso riti collettivi condivisi (es. feste
nazionali). La pratica storiografica si fonda dunque sulla memoria, ma non deve identificarsi
con essa: lo storico è interprete critico dei fatti.
A partire dal Rinascimento, tra Cinque e Seicento, si fa strada l'idea che lo storico-testimone
non garantisca la veridicità, ma spesso viene considerato come colui che inquina le prove.
Oggi sappiamo che lo storico non è identificabile con il testimone e che la storia inizia
laddove finisce la testimonianza. Questo cambiamento farà sì che la ricerca si affermi sotto
gli auspici della ragione e che nasca lo studio critico dei documenti. Nessun testimone è
consapevole della portata storica degli eventi che sta vivendo; il distacco è necessario per
poter formulare un giudizio storico. La questione è assai più delicata quando si tratta di
storia contemporanea, perchè storia e memoria tendono a sovrapporsi. Gli storici cercano di
essere condizionati il meno possibile dalla loro esperienza personale.
Scrivere di storia. Nel 1975 François Furet pubblica l'articolo Dalla storia-
racconto alla storia-problema dichiarando definitivamente tramontata la storia-racconto,
dominata dalla cronologia, evento e individualità, a favore della storia-problema, dominio
della struttura, seriale e quantitativo. Per Furet l'approccio doveva avvicinarsi sempre più
quello scientifico e lavorare, più che sui singoli avvenimenti, sulle strutture e quadri socio-
economici di lungo periodo, sforzandosi di costruire modelli interpretativi
multidimensionali. La storia per trasformarsi in scienza avrebbe dovuto eliminare il
carattere singolare, unico, individuale.
Nel 1979 lo storico inglese Lawrence Stone pubblica l'articolo Il ritorno al racconto:
riflessioni su una nuova vecchia storia, dove traeva la conclusione che «La narrazione è un
modo di scrivere la storia, ma è anche un modo che coinvolge ed è coinvolto dal contenuto e
dal metodo». Il ritorno alla narrativa dello storico non comportava una rinuncia all'analisi,
ma la consapevolezza che la narrazione e l'eleganza stilistica rappresentavano componenti
ineliminabili dal “discorso storico”. Alle spalle dell'articolo di Stone si trova la secolare
contrapposizione fra la storiografia intesa come arte (genere letterario e racconto soggettivo
dell'autore) e storiografia intesa come scienza (ricerca di dati oggettivi).
La storiografia nasce infatti come racconto, strettamente congiunta con generi letterati.
Fare storia significa “raccontare” una storia. Aristotele nella sua Poetica distingueva «Lo
storico [come colui che] descrive fatti realmente accaduti, il poeta che possono accadere».
Voltaire nella voce Histoire dell'Encyclopédie definiva la storia come il racconto dei fatti
dati per veri. Anche sul piano grafico e dell'impaginazione “vero o falso” è ciò che
distingue un libro di storia (con note, si preoccupa di dichiarare le fonti e le prove) dal libro
di narrativa (senza note).
Il discorso storico si svolge su almeno due piani: a) la descrizione o narrazione, nel quale lo
storico espone i fatti, b) l'interpretazione, nel quale lo storico espone le proprie
considerazioni relative all'accadimento storico. Sul piano della narrazione lo storico ricorre
in genere allo stile e alle tecniche mutate dalla letteratura, ed è del tutto legittimo sforzarsi
di suscitare nel lettore l'illusione di un'esperienza diretta, evocando un'atmosfera o un
paesaggio. Sul piano dell'analisi lo storico ricorre invece allo stile più sobrio della saggistica
scientifica, fondata su rapporti consequenziali e su argomentazioni razionali. Ogni genere
storiografico implica un'organizzazione del discorso storico diversa e quindi uno stile
narrativo differente. Le tecniche narrative (consapevoli) possono essere: a) “economia
narrativa” degli eventi storici (in una pagina si possono riassumere due ore o due anni di
avvenimenti storici); b) accelerazione o rallentamento del tempo narrativo; c) uso di
flashback; d) narrazione a ritroso dal presente al passato; e) narrazione a zig zag. L'autore di
un testo storico aspira alla veridicità, e quindi fa sapere la verità su avvenimenti passati e
prova che si tratta di verità. I documenti hanno il compito di provare la verità, la
spiegazione ha il compito di certificarla.
Le fonti. Il sapere storico non è mai definitivo e la continua ridefinizione di temi e
problemi, e la rilettura in chiave diversa delle medesime fonti, oltre che la scoperta di
nuove fonti inedite, renda impossibile dare per acquisiti una volta per tutte i cosiddetti fatti
storici. Conoscere la società di antico regime significa conoscere: a) le fonti usate dagli
storici, b) la storiografia, ossia le principali opere storiche che la riguardano, c) il
significato delle principali categorie storiografiche, d) i grandi dibattiti tra storiografi
prima di arrivare a conclusioni almeno parzialmente condivise.
Il documento si definisce rispetto al passato (il mondo di cui è testimonianza), la fonte si
definisce rispetto al futuro (la conoscenza che lo storico vuole ricavare dal documento). Le
fonti sono dunque l'insieme di ciò che ci consente di capire qualcosa delle società del
passato di cui ci interessiamo. Le fonti possono essere primarie (testimonianze dirette) o
secondarie (testimonianze indirette), possono essere manoscritte, reperibili per lo più negli
archivi, o a stampa, reperibili negli archivi e biblioteche; ma anche oggetti, tracce sul
territorio, nella lingua, nelle tradizioni ecc. La bibliografia è tutto ciò che è stato scritto sul
problema di cui lo storico si occupa: è lo strumento principale della ricerca. La bibliografia
può essere primaria, ossia i libri frutto di un lavoro di ricerca diretta, e secondaria, ossia i
libri scritti lavorando su altri libri.
Per svolgere bene il suo lavoro lo storico dovrebbe conoscere, almeno in parte, le discipline
che un tempo venivano definite “ausiliarie della storia”, ossia la filologia, paleografia
(studio delle antiche scritture), diplomatica (studio formale degli antichi diplomi e
documenti istituzionali), grafologia (studio delle forme di scrittura antiche e moderne),
epigrafia (studio delle “scritture esposte” e antiche epigrafi su pietra o marmo),
sfragistica (studio dei sigilli), numismatica, araldica (studio degli antichi emblemi e
stemmi). L'archivio non è solo un luogo di conservazione dei documenti, ma è quasi
sempre la memoria organizzata di un'istituzione, ossia la fotografia dell'istituzione che lo
ha generato. Un archivio non è quasi mai organizzato per argomenti, ma per funzioni. Per
chi studia gli Stati europei di antico regime i più importanti archivi sono quelli di Spagna,
Inghilterra, Francia e Austria. Negli archivi di Stato si può trovare tutto ciò che ha a che
fare con la pubblica amministrazione e con il governo del territorio (documenti politici,
militari, economici, giudiziari ecc). Otre agli archivi di Stato, presenti in Italia in ogni
capoluogo di provincia, vi sono gli archivi pubblici, come quelli comunali e di enti
pubblici (ospedali, ospizi, orfanotrofi, accademie e università. Spesso negli archivi pubblici
sono confluiti archivi privati. A regole diverse rispondono gli archivi ecclesiastici che sono
privati. Gli archivi diocesani raccolgono i principali documenti sull'attività di vescovi, atti
delle visite pastorali, i fondi, gli atti dei tribunali ecclesiastici.
Bisogna ricordare che le fonti non sempre dicono “dicono la verità”.
Le interpretazioni. Tra Otto e Novecento gli storici si sono confrontati per diverso
orientamento e formazione. Ecco alcuni dei temi più controversi:
1) Rinascimento, autunno del medioevo o alba della modernità? Dibattito intono alla
definizione di Umanesimo e Rinascimento. Con l'opera La civiltà del Rinascimento in
Italia (1860) lo storico svizzero Jakob Burckhardt definiva fra i primi la categoria
storiografica di “Rinascimento” come rinnovamento di civiltà, primo mobile che avrebbe
portato alla Riforma religiosa, all'Illuminismo e all'affermazione della moderna civiltà
liberale. Nel tardo Quattrocento e primo Cinquecento Burckhardt vedeva la volontà di
fondare una nuova civiltà su valori laici e individualistici, purtroppo stroncati dalla
successiva Controriforma e dalla crisi della seconda metà del secolo. In contrasto
interveniva lo storico prussiano Konrad Burdach con il libro Dal Medioevo alla Riforma
(1893) nel quale sottolineava il carattere mistico-religioso, romantico e di fatto antimoderno
dell'Umanesimo. Lo storico olandese Johan Huizinga con L'autunno del Medioevo (1919)
faceva del quattrocentesco Ducato di Borgogna l'ultima espressione della civiltà
cavalleresca medievale ormai al tramonto. Lo storico tedesco Hans Baron nel libro La crisi
del primo Rinascimento (1955) proponeva la categoria di “umanesimo civile” come antidoto
alla barbarie e ai totalitarismi.
2) Riforma, Controriforma e Riforma cattolica. Un altro dibattito moderno riguarda
la natura della crisi religiosa del Cinquecento. La storiografia protestante tedesca fino alla
metà del Seicento vede nella Riforma di Lutero il fattore determinante nel passaggio
dell'Europa alla modernità. Leopold von Ranke nel suo Storia della Germania nell'età
della Riforma (1839-47) propone la dicotomia fra Riforma (spinta positiva) e Controriforma
(spinta negativa). Il termine Controriforma nasce a fine Settecento per indicare il ripristino
dell'obbedienza confessionale nel Sacro Romano Impero tra il 1555 e il 1648. solo a fine
dell'Ottocento al concetto negativo di Controriforma si contrapporrà il concetto positivo di
Riforma cattolica, introdotto da Ludwing von Pastor e definitivamente sancito da Hubert
Jedin nella Storia del Concilio di Trento (1949-75). In Italia il concetto è stato introdotto e
sviluppato dagli studiosi cattolici Giuseppe Alberigo e Paolo Prodi: in questa visione la
Riforma non è solo reazione (come afferma la storiografia protestante) alla Riforma
luterana, ma autonoma spinta riformatrice nata all'interno della Chiesta, capace di risolvere
in maniera diversa una parte degli stessi problemi posti dalla Riforma e culminata con il
rinnovamento post-trientino. La Riforma cattolica viene interpretata come un movimento
autonomo avviato a fine Quattrocento e portato avanti da Erasmo da Rotterdam.
3) La crisi generale del Seicento. La controversia verteva sulla natura della crisi, sul
suo carattere di crisi generale, sul ruolo della rivoluzione inglese e sul ruolo degli spazi
italiani nel quadro della crisi. Una prima e netta divisione si aveva tra storici marxisti e
non- marxisti. I primi, in particolare per gli inglesi Maurice Dobb, Christopher Hill ed
Eric J. Hobsbawm, la crisi del Seicento era il primo segnale della crisi del “modo di
produzione feudale” e del contestuale emergere dell'economia capitalistica, che avrebbe
consentito l'affermazione della borghesia come classe dominante. Per gli storici non-
marxisti, come l'inglese Hugh R. Trevor-Roper e il francese Ronald Mousnier, bisogna
fare riferimento sopratutto alla sfera politica guardando alla frattura creatasi fra società e
Stato. Secondo lo storico di economia italiano Ruggiero Romano, vedeva nella crisi la
conseguenza di una “prova capitalistica fallita”, ma che si era bloccata nel secolo
successivo determinando in molti casi una reazione nobiliare ed una “rifeudalizzazione”.
Una seconda divisione passava tra chi (Hobsbawm e Villari) considerava il Seicento come
secolo di crisi e chi, come Giorgio Spini, individuava nello stesso secolo significativi
elementi di sviluppo e crescita economici. Si inseriscono in questo quadro le diverse
interpretazioni delle vicende italiane del XVII secolo. Da un lato la visione di crisi e di
decadenza generalizzata, causata in particolare dal malgoverno e dal pesante fiscalismo
spagnolo. Dall'altro lato la visione delle vicende del secolo come chiave di comprensione
del presente, pensando che solo con la Resistenza, la proclamazione della Repubblica e la
Ricostruzione si fosse finalmente avviato quel processo di emancipazione dell'Italia
dall'arretratezza.
4) Il Settecento è davvero il “secolo dei Lumi”? Uno stereotipo storiografico
diffuso è l'identificazione del Settecento con l'Illuminismo, senza tener conto che la cultura
dei Lumi rappresentò solo un fenomeno di minoranza (popolazione ancora superstiziosa),
e di conseguenza l'associazione fra Illuminismo e rivoluzione. Il carattere emancipatorio
dell'Illuminismo è stato messo in discussione nel Novecento in particolare dai filosofi
tedeschi di formazione marxista Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, con La
dialettica dell'Illuminismo (1947), hanno individuato nell'Illuminismo la matrice di una
modernità razionalizzatrice e totalitaria. Lo storico del pensiero politico israeliano Zeev
Sternhell, in Contro l'Illuminismo (2006), ha messo in dubbio che la modernità passi
necessariamente attraverso il sistema di valori universali proposto nel Settecento, facendo
piuttosto riferimento a una modernità liberale e conservatrice.
2. Le molte dimensioni della modernità
La periodizzazione storica. Ogni epoca ricompone il passato secondo la sua
percezione delle proprie categorie di tempo e spazio. Le periodizzazioni sono uno
strumento di lavoro e servono a rendere pensabili i fatti. La storia della storiografia indaga
sul processo di formazione dei criteri di periodizzazione e delle categorie storiche. Esse
non sono oggettive né arbitrarie: sono prodotti storici e storiografici. Secondo lo storico
Delio Cantimori «La periodizzazione assume di riordinare il materiale storiografico e di
ricondurlo alle tendenze generali fondamentali della società umana del periodo particolare
del quale ci si vuole occupare; presuppone cioè quella che si chiama “interpretazione”». Per
costruire una periodizzazione è necessario: 1. definire dei punti di partenza (data a quo); 2.
impiegare unità di misura temporale comparabili (giorni, anni, secoli); 3. individuare
epoche caratterizzate da un segno comune (es. nel Settecento l'Illuminismo); 4. costruire
categorie storiografiche sulle quali fondare ipotesi interpretative (es. medioevo,
umanesimo, rinascimento, controriforma, barocco, illuminismo, risorgimento ecc).
Definire l'età moderna: un problema europeo. L'età moderna è una categoria
interpretativa di periodizzazione. La parola “moderno/a” deriva dal latino modo
“recentemente, più recente”: di qui il frequente equivoco fra moderno e contemporaneo
nell'indicazione di epoche storiche a noi più vicine. La categoria storiografica di età
moderna viene fondata a fine XVII secolo dallo storico tedesco Christoph Keller. Nel 1696
pubblica in tre volumi una sintesi universale di storia Historia Antiqua (vol. I), Historia
Medii Aevi (vol. II), Historia Nova, sive Moderna (vol. III). Keller trasferiva dunque nella
storiografia una periodizzazione nata in età umanistica (Renovatio) in ambito letterario, ma
caricata di valenza religiosa: per il luterano Keller la Historia Nova, sive Moderna era la
rigenerazione spirituale dell'Europa in seguito alla Riforma protestante (1517). questo
schema ha continuato a esistere alternando epoche di decadenza ad epoche di rinascita
(medioevo/Rinascimento, Controriforma/Riforma, Restaurazione/Risorgimento ecc).
Alcune proposte di periodizzazione. La stessa categoria di età moderna può essere
definita in maniera diversa a seconda della periodizzazione adottata, ossia delle date a quo e
ad quem che la delimitano convenzionalmente. Fino a pochi anni fa si faceva iniziare l'età
moderna con il 1453, caduta di Costantinopoli e fine dell'Impero romano d'Oriente (adottata
per simmetria alla caduta dell'Impero romano d'Occidente 476 che indica l'inizio del
Medioevo). Questa data coincide con l'avanzata islamica nel Mediterraneo, l'esodo degli
intellettuali greci in Italia e l'inizio dell'Umanesimo greco; è dunque una data fortemente
eurocentrica ed occidentocentrica. Se si sceglie invece il 1492, oggi universalmente
accettata, ossia la scoperta del Nuovo Mondo americano, la si può considerare come inizio
del mondo “globalizzato”. La data coincide anche con la conquista del Califfato di Cordova
e Granada da parte del “re Cattolico” Ferdinando d'Aragona e della conseguente caccia dei
musulmani dalla Spagna, seguita da quella degli ebrei: primo atto di una storia di
intolleranze e persecuzioni religiose. Nel mondo tedesco i manuali pongono l'inizio della
storia moderna nel 1517: data dell'affissione delle 95 tesi di Wittenberg da parte di Martin
Lutero. La modernità è infatti identificata nella tradizione storiografica tedesca con l'età
della Riforma protestante, vedendo in essa la premessa e il fondamento delle moderne idee
di libertà e democrazia. La storiografia cattolica tradizionalista, di contro, vedrà la Riforma
come il primo anello di una lunga serie di errori che avrebbero minato la società
tradizionale. Per quanto riguarda le date ad quem in Francia si indica il 1789, ossia lo
scoppio della Rivoluzione francese e inizio della storia contemporanea, mentre in Italia si
preferisce la data del 1815, la Restaurazione, includendo nell'età moderna sia la Rivoluzione
francese che l'età napoleonica. Lo storico americano Arno J. Mayer indica addirittura come
data di fine antico regime il 1918 e come inizio della sua definitiva crisi il 1848 con le
grandi rivoluzioni europee e l'emergere del movimento socialista da un lato e dei partiti
liberali dall'altro. A favore di questa periodizzazione Mayer porta ad esempio che sul piano
economico fino ai primi decenni del Novecento in Europa prevale ancora la grande
proprietà terriera nobiliare e la piccola manifattura artigianale è più diffusa del sistema
fabbrica; così sul piano sociale quasi tutti i paesi sono dominati dall'aristocrazia. Altri storici
ancora, specialmente italiani, indicano nel 1861, proclamazione del Regno d'Italia, la vera
fine dell'antico regime per la penisola. Altri spostano la data al 1870, meno italocentrica,
che fa riferimento non solo alla fine del potere temporale dei papi e al completamento
dell'unità italiana, ma ance alla guerra franco-prussiana, alla caduta di Napoleone III, alla
proclamazione della Terza Repubblica in Francia e alla tragica esperienza della Comune di
Parigi.
Età moderna o antico regime? Con “antico regime” gli storici indicano il modello
sociale prevalete in Europa nell'epoca compresa tra XVI e XVIII secolo, equivalente a “età
moderna”. Questo modello sociale presenta elementi di crisi e di conflitto che si fanno
dirompenti solo con il Settecento culminando con la Rivoluzione francese (1789-99). La
nascita della categoria storiografica di antico regime rappresenta proprio la fine di quella
società: questa definizione viene usata per la prima volta nel 1789 dai costituenti francesi
per definire la società che essi volevano spazzare via. Nella seconda metà del Novecento
escono le opere più significative sull'antico regime: Il mondo che abbiamo perduto.
L'Inghilterra prima dell'era industriale (1965) di Peter Laslett e L'ancien régime (1973) di
Pierre Goubert. La prima è una ricostruzione “dal basso” della società preindustriale
inglese, a partire dalla dimensione familiare e dai problemi della vita dei contadini britannici
dei secoli tra XVI e XVIII; qui il metodo comparativo pone costantemente a confronto le
strutture e le individualità. L'opera di Goubert prede in esame le strutture di una società
agraria francese del “secolo di Luigi XIV”, basata sulla proprietà nobilitare e sullo
sfruttamento dei beni della terra da parte dell'aristocrazia e della Chiesa, mentre lo Stato
appare più che altro come un apparato di potere destinato al prelievo e al mantenimento
dell'ordine dei privilegiati.
Si può affermare che se la categoria di età moderna è tendenzialmente dinamica, in
quanto suggerisce di osservare alcuni grandi mutamenti in atto nelle società europee
nell'arco di tre-quattro secoli, quella di antico regime è invece una categoria
tendenzialmente statica in quanto tenta di descrivere i tratti comuni e le caratteristiche
generali di un sistema sociale e politico affermatosi nella maggior parte dei paesi europei fra
Cinque e Settecento.
I fattori della modernità. Nello studio di qualsiasi società lo storico deve tener conto
di almeno quattro fattori fondamentali, ciascuno dei quali non può essere affronto
isolatamente dagli altri. 1° fattore è quello economico, dal quale derivano le condizioni
materiali di una società. Lo storico dev'essere in grado di comprendere le basi economiche
della società, i rapporti di proprietà prevalenti, le forme e i modi della produzione, le
dinamiche economiche in atto (sviluppo, espansione, crisi) nelle varie fasi storiche. Il 2° è
quello sociale, nel quale lo studioso deve domandarsi su cosa si fondano le gerarchie sociali
e la loro natura, se esistono e quali sono le forme della mobilità sociale, quali sono le
dinamiche e i conflitti sociali. Il 3° è il fattore politico: lo storico indaga su quali sono i
modelli prevalenti del potere politico, quali sono le forme di governo più diffuse, quali i
fondamenti teorici e giuridici del potere. Il 4° è quello culturale: lo storico deve
comprendere quali sono i modelli culturali di un epoca,quali i luoghi e le forme di
elaborazione delle conoscenze, quali le figure intellettuali di riferimento, quale il livello di
diffusione dei saperi. sulla base a questi fattori è possibile caratterizzare una società di
antico regime:
 sul piano economico siamo in presenza di un regime a prevalente base agricola,
fondato su un'economia preindustriale, ossia determinato da commercio e scambio di
prodotti semi-artigianali. Prevale la grande proprietà feudale o ecclesiastica a bassa
redditività. L'economia di scambio è limitata da vincoli di natura giuridica, più che da limiti
naturali.
 Sul piano sociale la società di antico regime si riconosce per corpi, ceti, ordini (es.
clero, nobiltà, terzo stato), non per individui. Ogni individuo ha personalità giuridica solo in
quanto parte di un gruppo, ossia corpo o ceto che ne determina le prerogative. Ogni
corpo/ceto/ordine si distingue per i privilegi di cui gote. I privilegi hanno natura giuridica
non discutibile: il dominio dei ceti privilegiati è garantito da leggi e consuetudini. La
mobilità sociale verticale è fortemente limitata e regolata da norme.
 Sul piano politico il modello prevalente è l'assolutismo monarchico (Spagna,
Francia); tuttavia esistono o sopravvivono in regioni ad alta densità urbana (Italia centro-
settentrionale, Svizzera, Fiandre) governi repubblicani a carattere oligarchico (es. Venezia).
Fa eccezione la monarchia parlamentare inglese che era nata dotata di organi di
rappresentanza molto forti e consolidati che non perdono mai le loro funzioni. In generale
però le forme de,,a rappresentanza sono riservate non agli individui o gruppi politici, bensì
ai ceti. Sul piano giuridico e della dottrina politica i potere si fonda quasi ovunque sul diritto
divino o sul diritto natale.
 Sul piano culturale si rispetta la tradizione a livello religioso, filosofico, politico,
scientifico ecc. la cultura è elaborata e fruita quasi esclusivamente dalle élite alfabetizzanti,
di cui il clero è la componente più significativa e numericamente consistente. Gli
intellettuali dipendono quasi sempre dal potere politico o ecclesiastico. La cultura e le arti
sono prodotte su commissione dei principi laici o ecclesiastici, o delle pubbliche
istituzioni. La cultura scritta è ancora patrimonio di pochissimi uomini e solo con la
Riforma protestante l'alfabetizzazione incomincia ad allargare la sua base e a coinvolgere
gradualmente anche i ceti popolare. Tuttavia si iniziano a sviluppare culture alternative o
potenzialmente trasgressive quali ateismo e pensiero utopistico.
Sei grandi cambiamenti che segnano il passaggio alla modernità. L'età moderna si
potrebbe definire sulla base di alcuni cambiamenti che segnarono profondamente la storia
del mondo fra la metà del Quattrocento e fine del Settecento:
 Le grandi esplorazioni geografiche (1492-1524) portarono non solo alla scoperta
dell'America, ma alla modernizzazione della storia dell'economia, allo spostamento dal
Mediterraneo all'Atlantico del baricentro dell'economia-mondo (cit- Immanuel
Wallerstein), la comparsa di nuovi prodotti e generi alimentari provenienti dal Nuovo
Mondo portarono ad un mutamento profondo del regime alimentare europeo. La scoperta di
giacimenti di argento e oro in America induce i conquistatori europei a sfruttare le risorse
causando squilibri sull'economia europea. Aumentano i prezzi dei beni agricoli.
 La rottura dell'unità del mondo cristiano (1517-1555), in seguito alla Riforma
protestante e alla conseguente grave crisi del papato e della Chiesa di Roma, ha come
conseguenza l'aprirsi di una stagione di conflitti religiosi gravissimi, ma anche a
scoperta della possibilità di un pluralismo religioso all'interno del cristianesimo.
 La nascita degli Stati moderni, dotati di confini precisi e difesi da eserciti permanenti,
amministrati da una rete di burocrati e funzionari permanenti, governati da sovrani dotati di
poteri sempre più ampi.
 La trasformazione dell'economia europea da agricola a commerciale e industriale e la
nascita del capitalismo (economia di mercato), con conseguente “rivoluzione agricola” e
“rivoluzione industriale”. Ciò porta all'aumento demografico, aumento di prezzi, aumento
della circolazione di metalli preziosi, urbanizzazione e sviluppo della manifattura.
 L'invenzione della stampa e la sua diffusione come nuovo veicolo di
comunicazione, pur in presenza di un alto tasso di analfabetismo. La maggior possibilità di
diffondere i frutti del sapere, il basso costo di produzione, la circolazione di idee
attraverso la stampa, l'affermazione di una vera e propria industria editoriale sono tutti
fattori che rappresentano una rivoluzione inavvertita. Con la diffusione del libro a stampa
si afferma anche una nuova figura di intellettuale laico e si assiste alla progressiva
professionalizzazione dei letterati.
 La rivoluzione militare trasforma completamente i modi di fare guerra, a partire
dall'invenzione della polvere da sparo circa a metà Quattrocento. Dagli inizi del
Cinquecento si avvia la crisi della cavalleria, arma tradizionalmente nobile,
progressivamente soppiantata dall'artiglieria, arma borghese per eccellenza, fondata
sulla tecnica più che sul valore. Gli eserciti accrescono in dimensione, si ha una
progressiva professionalizzazione, ma anche la città cambia struttura e fisionomia con la
rapida scomparsa delle mura medievali merlate, alte e sottili, a favore di fortificazioni
basse e spesse, più adatte a sopportare i lunghi assedi e i colpi di cannone.

3. Gli spazi della vita e del mondo rurale


I quadri ambientali. I quadri ambientali entro i quali si muovono uomini e donne
dell'antico regime sono campagna e città. La campagna è lo spazio di vita della maggior
parte della popolazione europea, di quei ceti contadini che sono i veri soggetti della lenta e
impercettibile trasformazione dei quadri ambientali del vecchio continente. Le campagne
europee tra Cinque e Settecento sono caratterizzate da aree coltivate e aree incolte. Il bosco
occupa un terzo del territorio europeo. Pianure e colline sono densamente abitate e coltivate,
le zone montagnose presentano rare isole insediative. Foreste, fiumi e montagne
costituiscono i principali ostacoli alla comunicazione. Le vie di comunicazione sono limitate
e i mezzi di trasporto lenti, scomodi e costosi (la maggior parte della popolazione non
possiede un cavallo). Le strade sono per lo più sterrate e sono le principali arterie di
comunicazione; alcuni tratti lasciati in pietra. Sassi, fango e polvere ricoprono le strade. Le
merci deteriorabili e quelle più pesanti viaggiano preferibilmente lungo vie d'acqua, tuttavia
le piene autunnali, le secche estive e i ghiacci invernali le rendono poco sicuri. Viaggiare è
rischioso e scomodo. Daniel Roche ha mostrato nel libro Humeurs vagabondes.. de la
circulation des hommes et de l'utilité des voyages (2003) ha mostrato come la società di
antico regime europea fosse percorsa da una fitta rete di spostamenti di corto raggio e che
coinvolgesse gran parte della popolazione. Le campagne europee sono caratterizzate da
bassa densità umana e insediativa. Per raggiungere qualsiasi meta bisogna percorrere molti
chilometri a piedi, perdendo giorni interi di viaggio. Nel 1544 lo studioso tedesco Sebastian
Münster descrive i contadini nella sua Cosmographia universa, ma alcune affermazioni
vengono successivamente smentite: i contadini non vivono isolati, ma raggruppati in
villaggi; la dimensione delle case non è necessariamente legata al reddito, ma alla struttura
della famiglia e alle condizioni lavorative. Le abitazioni sono costruite con legno, terra e
paglia, pietra, raramente in muratura. La casa contadina non era solo abitazione, ma riparo
per animale, luogo di lavoro o deposito per i generi alimentari. Il panorama materiale della
casa è per lo più costituito da sostanze vegetali o animali lavorate per essere usate come
attrezzi, arredi e suppellettili. Il combustibile è il legno. Non hanno vetri alle finestre ma
solo scuri. La casa è dotata di un unico focolare (fuoco rappresenta un pericolo), si
preferisce il calore animale per il riscaldamento. I mobili sono per lo più limitati a un
tavolo, panche e sgabelli e a una o più cassapanche dove tenere indumenti e oggetti di
maggior valore. I letti sono sostituiti da pagliericci o sacchi riempiti di foglie secche o lana.
Nascere e morire. Gli uomini di antico regime non avevano una chiara coscienza
della realtà demografica del loro tempo. In assenza di censimenti possiamo basarci solo
sugli archivi parrocchiali, presenti in tutte le parrocchie dell'Europa cattolica a partire
dagli ultimi decenni del Cinquecento. Ad oggi questi archivi sono una fonte importantissima
per la storia demografica in quanto svolgono la funzione di anagrafe della popolazione
(solo quella cattolica). L'andamento demografico è un fenomeno sia biologico sia sociale,
soprattutto determinato dalle condizioni sociali di vita dei vari gruppi umani. La mortalità è
condizionata da fattori sociali e ambientali. Un alto tasso di mortalità è per lo più indizio di
miseria e disagio sociale, mentre un basso tasso di mortalità e un allungamento di speranza
di vita della popolazione sono segni di benessere. In antico regime si moriva più
frequentemente in età giovane e la percezione della morte era meno drammatica anche se
più ritualizzata. Alla morte del coniuge si reagiva spesso con un secondo matrimonio. Per
un uomo un secondo matrimonio era l'unico modo per assicurarsi il mantenimento e la cura
dei figli piccoli, mentre per la donna era l'unica possibilità per evitare il disastro. Le cause di
morte erano più numerose: si moriva molto più frequentemente di malattia, in quanto la
maggior parte erano incurabili. Si poteva distinguere fra malattie egualitarie (legate
all'ambiente, es. peste), patologie alimentari (derivanti da avitaminosi o sottoalimentazione)
e patologie alimentari (interessavano solo i ceti più ricchi che si nutrivano esclusivamente di
carte o cacciagione). Si poteva morire a causa del clima, ma anche di fame a causa di
carestie. Si moriva a causa delle guerre, ma più frequentemente a causa delle guerre subite
dalle popolazioni: l'esercito nemico poteva causare carestie, villaggi distrutti o saccheggiati,
bestiame sequestrato o divorato ecc. Si poteva morire per banali incidenti di lavoro, investiti
da una carrozza, cadendo in un fossato, travolti dalla corrente di un torrente o fiume in
piena. Si moriva per le percosse e i maltrattamenti subiti in famiglia, in osteria, feriti da
borseggiatori o vittime di un'aggressione. Pochissimi raggiungevano indenni la vecchiaia.
La natalità era più soggetta alle scelte individuali e quindi più condizionata da fattori sociali
e culturali. Si facevano più figli rispetto ad oggi. La natalità subì flussi e riflussi quasi
sempre determinati dai cicli economici. Sicuramente in antico regime i metodi di controllo
delle nascite erano più rudimentali e meno efficaci di oggi. La società più povera ed
arretrata faceva (e fa) più figli perchè: a) i figli sono un investimento sul futuro, b) per
reagire alla presenza della morte, c) per motivi religiosi, d) perchè mancavano contraccettivi
efficaci. La natalità è una funzione derivata dal rapporto fra fertilità e fecondità: la fertilità è
la natalità in potenza (capacità femminile di procreare in età 15-45) e la fecondità è la
natalità in atto (la realtà riproduttiva costituita da un numero variabile tra 1-15 figli
nell'arco di 30 anni [Bach ha avuto da due mogli 24 figli, solo 6 diventarono adulti]).
Fecondità e fertilità sono determinate da fattori molteplici di ordine biologico, ambientale,
sociale o soggettivo. L'età media di nozze nell'Inghilterra e in gran parte dell'Europa di fine
Cinquecento era attorno ai 28 anni per gli uomini e 24 per le donne (nobili 25 maschi-19
femmine). Solo le famiglie aristocratiche comprendevano di norma più nuclei conviventi,
mentre le famiglie contadine non raggiungevano mai dimensioni molto ampie anche a causa
della minor durata di vita media. Il controllo della natalità avveniva innanzitutto attraverso il
controllo della nuzialità, ritardando l'età del matrimonio nei momenti di difficoltà
economica; meno efficaci erano le limitazioni delle occasioni d'incontro fra giovani,
contraccezione naturali o l'aborto. Secondo i calcoli del demografo francese Louis Henry, in
assenza di fattori limitanti, ogni donna tra 20-45 anni avrebbe messo al mondo una media di
otto figli, ma ciò non avveniva a causa dell'elevata mortalità infantile, esplicito controllo
della natalità e fluttuante ritardo nella nuzialità; oltre a ciò si aggiunge che quasi la metà
della popolazione femminile in età fertile non giungeva al matrimonio (figlie di nobili
monache, ragazze mandate a fare le serve o invecchiate senza marito). Il tasso di
illegittimità delle nascite era assai basso, tra il 2% e il 5%. dobbiamo pensare alla famiglia
come a un luogo di conflitti e tensioni. La famiglia di antico regime si basava sulla
gerarchia e la diseguaglianza dei suoi componenti; tra i figli si definiva prestissimo una
gerarchia d'età, il primogenito era l'erede e la primogenita era destinata al matrimonio.
Il mondo rurale. Il mondo rurale è un luogo di produzione di beni agricoli destinati
per la maggior parte all'autoconsumo. La terra appartiene in primo luogo al
sovrano/principe territoriale, quindi ai nobili che la detengono in beneficio feudale o in
proprietà; appartiene ai proprietari terrieri liberi, alla Chiesa e agli enti ecclesiastici, alla
città, alle comunità rurali. Solo in minima parte e in determinate situazioni la terra
appartiene ai contadini.
Elencando dal basso verso l'alto della gerarchia sociale, in campagna possiamo incontrare:
1. mendicanti, vagabondi e banditi; servi rurali e servi della gleba; contadini nullatenenti;
lavoratori ragionali immigrati, operai delle manifatture (almeno fino alla metà del
Settecento); 2. fittavoli, piccoli e piccolissimi proprietari agricoli; 3. ecclesiastici, 4. signori
feudali. La comunità rurale era costituita dalle famiglie che vivevano al centro di una data
area coltivata. Quest'area poteva far parte di una grande proprietà fondiaria feudale o
costituita prevalentemente da piccole o piccolissime proprietà o ancora da terre comuni
distribuite in parti eguali fra gli abitanti. I componenti delle famiglie diminuiscono in
rapporto alla gerarchia sociale: i più ricchi hanno famiglie più numerose. “Famiglia” indica
coloro che vivevano sotto lo stesso tetto, servi compresi. Le uniche famiglie nucleari,
composte da genitori/e e figli, erano quelle dei braccianti. La divisione del lavoro era
abbastanza rigorosa: uomini si occupavano dei campi e dei trasporti, le donne della casa e
del cibo. Dal punto di vista dei contadini il soggetto principale del mondo rurale è la
comunità di villaggio, concepita come unione di gruppi familiari, composto da “corpo
sociale” e la “persona giuridica” che rappresenta tutti i contadini. Ogni singola comunità è
dotata di statuti riconosciuti dagli altri soggetti (primo fra tutti il signore territoriale) e di
organi di governo che regolano e distribuiscono il carico fiscale e organizzano le corvées;
organo decisionale è per lo più l'assemblea del capofamiglia che amministra i beni della
comunità. In genere la comunità rurale si identifica nella parrocchia. Ogni parrocchia
possiede dei beni immobili oltre ad un patrimonio terriero costituito da case e campi. La
parrocchia percepisce dai parrocchiani la decina ecclesiastica ed altri tributi in denaro o in
natura (le casuali), impiegati nel mantenimento del clero locale e per le attività della
parrocchia. La decima era in origine la quota di prodotto agricolo che si destinava al
sacerdote come “dono spontaneo”. All'interno delle singole parrocchie si organizzano
spesso le confraternite dei laici con compiti religiosi, di assistenza, beneficenza e
distribuzione delle elemosine. Dopo la conclusione del Concilio di Trento (1563) il parroco
svolge funzioni di ufficiale di stato civile essendo incaricato di tenere ed aggiornare il
registro parrocchiale; in molti casi è incaricato di leggere dal pulpito e diffondere gli editti
reali. A partire da metà Seicento, ma maggiormente nel Settecento, il parroco svolge anche
la funzione di maestro di scuola per i ragazzi del villaggio.
Le basi agricole dell'economia. Il feudo. In antico regime la maggior parte di
prelievi si abbatte sulla terra lavorata dai contadini. Nei paesi cattolici la forma di prelievo
più diffusa è la decima ecclesiastica, originariamente in natura e destinata alle parrocchie,
ma successivamente estesa a tutti gli enti ecclesiastici presenti sul territorio. Accanto alla
decima, in tutti i paesi in cui la presenza della feudalità si mantiene nei secoli dell'età
moderna, troviamo la rendita signorile. Oltre alle corvées imposte ai contadini, ai signori
spettano i ricavi dei pedaggi. In molti territori i signori percepivano anche una quota dei
diritti di successione e una quota su tutte le compravendite di beni immobili effettuate nel
loro feudo. Nel caso di signori assenteisti le rendite vengono accolte a loro nome dagli
amministratori. Altre rendite vengono percepite dai proprietari terrieri non nobili che
concedono le loro terrei in affitto ai contadini o che stipulano con loro contratti agrari (i
più diffusi sono affittanza, mezzadria, soccida, pastinato). Il rapporto contrattuale più
avanzato era l'affitto: un imprenditore agrario versava al padrone un canone fisso in denaro
in cambio della possibilità di far fruttare il terreno e di vendere sul mercato i suoi prodotti. Il
margine di profitto dell'affittuario era altissimo pur non essendo il proprietario del terreno.
Oltre al canone fisso in denaro l'affittuario era tenuto a versare annualmente al padrone
anche alcuni prodotti agricoli in natura. La forza lavoro impiegata dall'affittuario era
costituita da braccianti salariati. Un'ulteriore rendita era una sorta di usura, ossia rendita
derivante da ipoteche sui terreni o da crediti concessi precedentemente e mai interamente
saldati. Le basi economiche della società di antico regime sono dunque essenzialmente
rurali e fondate su un'economia dominata dalla grande proprietà terriera.
Nella prima età moderna le forme di possesso terriero sono il feudo e l'allodio. Il feudo
appartiene originariamente al patrimonio della corona, viene concesso temporaneamente ad
un vassallo in beneficio ed è collegato con una giurisdizione, quindi con l'esercito di poteri
amministrativi e giudiziari su una porzione di territorio. Non è dunque una proprietà privata,
ma un bene detenuto in concesso e sottoposto al “doppio dominio” del feudatario e del
signore. I feudatari possono essere solo nobili o le istituzioni, ma non borghesi. L'allodio
invece è un bene goduto in piena proprietà e non collegato con l'esercizio di giurisdizione.
Gli allòderi possono essere nobili, borghesi, ma anche contadini. Da queste due forme di
possesso si distingue il demanio come insieme delle terre del principe territoriale. In età
moderna il vassallaggio è ormai scomparso o si è trasformato in vincolo di dipendenza
economica o giuridica tra un sovrano e la sua nobiltà, o tra un signore terriero e i suoi
contadini. L'economia signorile è un sistema complesso. Innanzitutto la maggioranza dei
produttori (contadini) è di fatto esclusa dagli scambi commerciali perchè non possiede
eccedenze o perchè i mercati urbani sono regolati da vincoli e protezioni che escludono gli
estranei. In secondo luogo alla base delle scelte economiche dei signori terrieri non ci sono
ragioni legate alla massimizzazione del profitto, bensì alla necessità di garantire alla propria
“casa” il consueto livello di spesa. L'agricoltura si basa sullo sfruttamento estensivo della
terra, infatti nelle aree più avanzate d'Europa tra Sei-Settecento si determina una progressiva
crisi del latifondo improduttivo. Lo storico polacco Witold Kula in Teoria economica del
sistema feudale. Proposta di un modello (1962), ha costruito, sulla base dell’interpretazione
marxista delle formazioni economico-sociali, uno schema dell’economia feudale fondato sul
caso della Polonia nel periodo 1550-1750.
si può tripartire l'Europea feudale in un'area centro-orientale, una settentrionale e una
mediterranea. Nell'Europa settentrionale (Francia centro-settentrionale, Fiandre, Olanda,
Inghilterra e in parte Italia settentrionale) i vincoli feudali si sono per lo più trasformati in
vincoli economici, ossia in censi rappresentati da contributi in denaro da consegnare
periodicamente al signore mentre i contadini possono disporre liberamente delle loro terre,
venderle, dividerle, trasmetterle in eredità limitandosi a pagare una tassa al signore. In
quest'area si diffonde l'affitto che vede i singoli proprietari (nobili o borghesi) prendere in
affitto terre signorili, coltivandole in proprio o cedendole in subaffitto a contadini (in alcuni
caso gli affittuari riescono ad acquistare le terre o ad acquistarne i diritti, in rari casi il titolo
nobiliare). Nell'Europa orientale e meridionale (Polonia, Austria, Ungheria, Spagna
Regno di Napoli) invece i vincoli feudatari sono più forti e duraturi e le condizioni di
servaggio permangono gravose per i contadini, tenuti a svolgere le corvées (prestazioni
obbligatorie di lavoro gratuito sulle terre del signore, comprensive anche dei servizi
domestici al palazzo signorile). Lo storico italiano Aurelio Musi ha suggerito nel 2007
l'impiego della categoria di feudalesimo mediterraneo per indicare alcuni tratti comuni alla
società del Mezzogiorno fra basso medioevo e la prima età moderna. Le differenze con il
modello dell'Europa centro-orientale e in particolare con il caso polacco: il feudo può
diventare merce; la servitù della gleba è assente. In tutta l'area mediterranea si riscontra la
distinzione tra la parte del signore e la parte dei contadini. Il termine di “rifeudalizzazione”,
riferito al fenomeno di ritorno alla terra in atto nel corso dei Seicento da parte dei ceti
mercantili italiani, si è rivelato insufficiente e inadatto a comprendere le dinamiche
economiche e sociali nella penisola. È stato soppiantato dalla nuova categoria di “crisi e
formazione delle aristocrazie” collegata al fenomeno d'indebitamento e alla crisi finanziaria.
Non si tratta di “nuovi feudatari”, ma di esponenti delle élite che ricercano una piena
legittimazione sul piano sociale grazie al processo terriero e all'ottenimento di titoli
nobiliari.

4. La città e il mondo del lavoro


Lo spazio urbano in età preindustriale. All'interno della cinta muraria e all'esterno
di un eventuale centro fortificato, la città si compone di: a) centro amministrativo con
palazzo municipale e piazza; b) centro commerciale (a volte coincidente col primo) con
piazza del mercato ed eventuale palazzo o casa dei mercanti; c) centro religioso con chiesa,
palazzo vescovile e piazza. All'interno dello spazio urbano si distinguono spazi vuoti
coltivati ad orto, vigneto, frutteto o addirittura pascolo, utili ad alimentare la città in caso di
assedio. Le dimore aristocratiche e borghesi posseggono quasi sempre orti e giardini, mentre
le stalle per gli animali da trasporto sono presenti ovunque. Le strade e i quartieri subiscono
facilmente un processo di specializzazione dovuto alla necessità economica, all'abitudine o
alla legislazione (es. piazza delle Erbe, via Pelliciai ecc). Nei sei secoli tra Due e Settecento
la società urbana europea fu profondamente segnata dalla presenza del lavoro. Attorno alle
Arti e alle Corporazioni si disegnò il quadro economico ed istituzionale dal quale emerse
la civiltà moderna: economia monetaria, capitalismo, idea di cittadinanza e di
rappresentanza politica. L'esercizio di un'arte o il legame con le sue espressioni istituzionali
era il prerequisito essenziale per poter svolgere qualsiasi attività. L'iscrizione ad una
Corporazione precedeva i diritti di cittadinanza. Una città in antico regime si distingue da un
borgo per la presenza di mura difensive, una guarnigione, uffici giudiziari o di
magistrature territoriali, di un mercato. Può essere o meno sede di una corte o residenza
di un principe o sede di un vescovo. Ciò che caratterizza una città è innanzitutto la presenza
di privilegi di carattere giuridico e fiscale concessi e riconosciuti dal sovrano e con esso
ricontrattati periodicamente. Tutti i privilegi di una città sono menzionati negli statuti. Il
privilegio più importante e distintivo di una città è il diritto all'autoamministrazione, ossia
ad eleggere i propri organi di governo (che rispondono comunque all'autorità superiore, ma
esercita autonomamente alcune funzioni). La città esercita sul contado, ossia sulle comunità
rurali e sul territorio da essa dipendente. Inizialmente il contado è caratterizzato come lo
spazio di terra coltivabile necessario alla sopravvivenza della città e alla sua difesa, vi si
distinguono le terre della città, le proprietà agricole dei cittadini, i villaggi dipendenti dalla
città.
La comunità urbana e le sue istituzioni. Gli abitanti delle città di antico regime sono
una minoranza della popolazione. Procedendo dall'alto in basso della gerarchia sociale si
trova: 1. il principe e i nobili del conte, il vescovo e i canonici della cattedrale, i signori
feudali inurbati, gli esponenti del patriziato, gli alti funzionari dello Stato; 2. i giuristi, i
prelati, gli ecclesiastici, i professionisti, i mercanti, i negozianti; 3. i segretari e gli impiegati
della pubblica amministrazione o dell'amministrazione ecclesiastica, gli scrivani e i
contabili al servizio dei grandi mercanti, i maestri artigiani, i bottegai; 4. i servi, i lavoratori
delle botteghe e delle manifatture, i lavoratori stagionali, i piccoli venditori ambulanti, i
lavoratori a giornata; 5. poveri e vagabondi. La cittadinanza è un privilegio: solo chi è in
possesso del diritto di cittadinanza può definirsi cittadino o borghese di una città. La
comunità urbana è un soggetto giuridico ben definito e stratificato, che si confronta con gli
altri soggetti giuridici presenti sul suo territorio ed in primo luogo con il sovrano o i principe
territoriale. Al suo interno dovrà trattare con gli enti ecclesiastici, con le Arti e le
Corporazioni; all'esterno con i signori feudali presenti nel contado, con le comunità rurali ad
essa subordinate e con le altre comunità urbane. Il principale organo amministrativo
cittadino è il Consiglio comunale, del quale fanno parte solo gli esponenti del patriziato e
che può esprimere a sua volta un Consiglio ristretto e alcune magistrature cittadine. In
alcuni casi l'amministrazione cittadina è presieduta da un magistrato elettivo espressione del
consiglio, in altri è presieduta o sottoposta al controllo di un rappresentante del principe o
della città dominante. Nella maggior parte dei casi l'amministrazione cittadina recluta
autonomamente una propria burocrazia (cancelleria) al cui salario deve provvedere. Al di
sotto del patriziato urbano, che domina la città, si trova il ceto borghese, formando dagli
esponenti delle famiglie mercantili che si riconoscono nelle Corporazioni di mestiere o dei
professionisti. Il Comune rappresentava un insieme di forze autonome ed indipendenti che
agivano talora in concorso, talora in opposizione fra loro. Le Arti e le Corporazioni
espressero fin dal medioevo la loro autorità giurisdizionale, affiancandosi e spesso entrando
in concorrenza con le giurisdizioni civili, signorili ed ecclesiastiche, acquisendo il nome di
universitates. Le Arti e le Corporazione espressero un forte orientamento politico che
derivava dalla loro costituzione come gruppo organizzato in grado di svolgere un ruolo di
primo piano all'interno degli organi di governo cittadino.
Il mondo del lavoro e il sistema corporativo. Il lavoro artigiano caratterizzava le
città del medioevo e della prima età moderna. Le città europee preindustriali sono città di
commerci e di manifatture. La grande finanza, il commercio internazionale potevano avere
e avevano maggior peso economico rispetto alle molteplici piccole imprese artigiane, ma
erano queste ad influenzare il clima e la fisionomia urbana. Nel mondo medievale e
moderno la Corporazione era un'associazione di persone definita da comuni finalità, dotata
di autonomia giuridici e quindi di diritti, poteri e obblighi (regole comuni erano gli statuti)
nel nome dei suoi appartenenti. La Corporazione rappresentava la principale garanzia del
mantenimento di standard qualitativi, assumendo di conseguenza un connotato pubblico
(affidata a questa la vigilanza della manutenzione e pulizia delle strade urbane ecc). La
Corporazione poteva assumere il compito di tutelare e di assistere i suoi membri e le loro
famiglie, organizzando confraternite di assistenza e casse di mutuo soccorso, aprendo
ospedali e scuole. Da universitates cittadine le associazioni di mestiere si trasformano in
corpi privilegiati ben determinati ad elevare e difendere le barriere erette contro chi non
faceva parte delle Corporazioni: si rafforza l'obbligo di appartenenza ad una Corporazione.
Con il rafforzamento dei poteri cittadini entro una rete di poteri territoriali anche la natura
delle Corporazioni subì una trasformazione. La formazione delle oligarchie indusse i ceti
dirigenti della città a separare sempre di più il momento del governo da quello della
partecipazione alla vita e lotta politica. L'amministrazione dello Stato finì per essere più
svincolata dal corpo sociale e dalle Corporazioni. Con l'affermazione dei poteri signorili o
monarchici si giunse in certi casi all'abolizione degli organismi corporativi (Milano e
Ferrara). Nella maggior parte dei casi il ruolo delle Arti e delle Corporazioni venne limitato
alla rappresentanza del mondo e del lavoro e del commercio. Fra Quattro e Cinquecento le
Arti e Corporazioni divennero uno dei principali strumenti di disciplinamento e
rafforzamento delle nuove gerarchie urbane. L'appartenenza ad esse o meno poteva
determinare inclusione o esclusione in un'area di privilegio e la collocazione entro la
gerarchia sociale. Alle Arti maggiori e minori e alle Corporazioni si affiancarono e poi
contrapposero i Collegi, che rappresentavano tutte le attività professionali (non produttive);
loro obbiettivo era il riconoscimento di un titolo nobiliare e l'ingresso a pieno titolo nell'élite
degli ordini privilegiati. La società aperta medievale si sta trasformando in una società
chiusa come quella moderna, basata su di una stratificazione gerarchica per ceti che avrebbe
consentito solo all'aristocrazia nobiliare o patrizia l'accesso alle cariche pubbliche e al potere
politico.
Arti e gerarchie sociali. Per essere riconosciuti cittadini era necessario esercitare
un'arte o essere inquadrati in una Corporazione. Gli artigiani erano i cittadini per
eccellenza. I nobili erano spesso feudatari rurali inurbati, orgogliosamente estranei alla vita
cittadina. Il popolo costituiva la grande massa della popolazione esclusa dalla politica.
L'Arte è soprattutto il mestiere, quell'insieme accumulato ed elaborato di saperi e pratiche,
di tecniche e di veri e propri segreti che si trasmettono da una generazione all'altra. I maestri
artigiani possiedono le botteghe, dirigono le Corporazioni e hanno accesso alle magistrature
cittadine. Le Corporazioni procedevano secondo una precisa gerarchia che rappresentava
fisicamente le stratificazioni sociali cittadini: in prima fila i fabbri, poi i pellicciai, tessitori
e sarti e infine drappieri e orefici. In alcune città dell'Inghilterra vi era distinzione tra
mercanti (Arti minori) e artigiani (Arti maggiori).
Dentro la bottega. Le regole delle arti e dei mestieri. Le sperequazioni e le
differenze interne a ciascuna Corporazioni (lavoro artigiano) erano enormi. All'interno di
ciascuna bottega la piramide gerarchica è altrettanto strutturata: alla base i garzoni (per lo
più adolescenti non salariati, ma ospitati in casa del maestro), poi i lavoranti (dopo tre anni
di garzonato; salariati e con dimora propria), infine i maestri, ossia i capi o i titolari delle
botteghe artigiane. Generalmente le botteghe si componevano di non più di 4-5 persone. I
conflitti erano all'ordine del giorno. L'abbandono di una bottega per mettersi al servizio di
un altro maestro implicava spesso il trasferimento altrove di alcuni segreti del mestiere
gelosamente difesi dai maestri. Per gli statuti corporativi si trattava di veri e propri furti,
punibili con l'interdizione dall'Arte e il bando perpetuo dalla città. I contratti di
apprendistato erano per lo più a carico della famiglia dell'apprendista. La bottega era
prima di tutto una scuola e il maestro era i docente, educatore ed istruttore. I lavoro non era
retribuibile. Periodicamente la commissione dei maestri si costituiva in collegio giudicante i
“capi d'opera”, ossia i prodotti del lavoro presentati al giudizio per ottenere il titolo di
maestro. Lo studente, concluso il suo ciclo di studi, dev'essere in grado di produrre e
discutere di fronte a una commissione di docenti un saggio scientifico autonomamente
elaborato nell'ambito della disciplina prescelta. La collocazione dei lavoratori presso le
singole botteghe era in generale regolata dalla Corporazione a livello centrale. Il maestro,
all'atto di accogliere l'operaio assegnato, richiedeva subito il suo giuramento di obbedienza
e fedeltà, mentre il lavoratore non voleva vincolarsi prima di un periodo di prova. La
protesta nei confronti dei maestri si realizzava mediante l'abbandono collettivo della città da
parte dei lavoratori di una medesima Arte. Le Corporazioni erano in grado di bloccare la
produzione in interi settori tramite forme organizzate di astensione dal lavoro. Le regole
delle Corporazioni erano le regole della città: da un lato regole ad includendum e dall'altro
ad excludendum. Erano esclusi stranieri, ebrei e le donne (in alcune Corporazioni la donna
poteva subentrare al marito o padre defunto ma non poteva ricoprire cariche sociali).

5. I ceti borghesi e le origini del capitalismo


Chi sono i “borghesi” di antico regime? Un tentativo di definizione. Nel medioevo
con il termine “borghesi” (lat. burgenses) si indicavano gli abitanti dei borghi o delle città
per distinguerli da contadini e villani. Successivamente fra Quattro e Cinquecento il termine
si è caricato di un significato più complesso, indicando solo gli abitanti di una città dotati
di privilegi, di pieni diritti di cittadinanza, residenti da più generazioni, titolari di un'attività,
proprietari di una casa e di altri beni ed iscritti nei ruoli del fisco, ossia tenuti a pagare le
tasse. Poco sotto il patriziato urbano si distingueva così un ceto borghese formato dagli
esponenti delle famiglie mercantili. Con il Settecento il borghese è colui che fa parte del
terzo stato, ossia non è né ecclesiastico né nobile. Le borghesie di antico regime sono
composte da due gruppi: i “mestieri del denaro” (proprietari e uomini d'affari) e i “mestieri
del sapere” (professionisti e funzionari).
Fra economia naturale ed economia monetaria. Gli storici si interrogarono a lungo
sulla natura dell'economia fra i secoli V e XV, ossi se fosse prevalentemente naturale di
sussistenza o monetaria di mercato. Si è dimostrato che nel corso di un millennio, mentre il
ruolo della moneta si faceva via via più significativo, lo scambio di beni contro altri beni
permaneva a lungo e in alcuni casi si consolidava, non rappresentando necessariamente un
elemento di arretratezza economica in un quadro di generale sviluppo. Essendo la
distribuzione del reddito fortemente sbilanciata, in certi ambiti la moneta circolava
ampiamente, mentre in altri dominava ancora lo scambio in natura. La moneta stessa veniva
utilizzata di preferenza per certi impieghi, ma non per altri. Del resto la composizione dei
tributi dovuti al signore territoriale o alla Chiesa in alcuni casi venivano riscossi in natura, in
altri in denaro.
Le basi dell'economia monetaria. L'economia monetaria è assai marginale nella
società di antico regime, ma ha subito trasformazioni profonde nei tre secoli dell'età
moderna fino alla piena affermazione di un'economia di mercato. Nella prima età moderna
la produzione finalizzata al diretto consumo prevale nettamente su quella rivolta al mercato.
Non esisteva un'unità monetaria comune: ogni territorio possedeva la propria moneta e tutte
avevano libero corso ovunque. Nessuna moneta aveva un valore facciale (valore scritto
sulla sua “faccia): il valore ufficiale era stabilito dall'autorità regia o dal signore, ma il
valore reale era intrinseco e corrispondeva al valore e al peso del metallo che la componeva
e che poteva variare a seconda delle diverse fusioni. L'erosione e la limatura delle monete
potevano diminuire il valore reale della moneta, la doratura o argentatura potevano
accrescerlo; difficile era la falsificazione. Quella circolante in Europa era per lo più un
cattiva moneta e aveva funzione complementare ai beni in natura. La nascita del
capitalismo coincide con l'emergere di un mercato organizzato per il credito a breve termine
basato sulle lettere di cambio. Il credito era per lo più gestito dai grandi mercati che
prestavano o anticipavano il denaro ad alti tassi d'interesse. Diffuso era il sistema di lettere
di cambio con le quali compivano trasferimenti di denaro a distanza. I negozianti erano
mercanti con sedi nelle principali città commerciali europee capaci di interloquire con i
sovrani ai quali presentavano o anticipavano denaro contante in cambio di rendite fisse o
concessione di appalti. La finanza internazionale della prima età moderna ha origini
indubbiamente italiane, ma verso la metà del secolo si ha uno spostamento del baricentro
dell'economia mondiale ad Anversa.
Telai e altiforni. Manifattura e protoindustria. In età moderna le più grandi
concentrazioni di lavoratori sono in genere stabilimenti per i poveri, le cosiddette case di
lavoro (workhouses) istituite a partire dalla fine del Cinquecento in Inghilterra, in Olanda e
in altri paesi del nord Europa. La “fabbrica” come stabilimento industriale dotato di
macchinari nel quale è concesso un gran numero di lavoratori salariati compare
sporadicamente solo in Inghilterra alla fine del Seicento. Fino alla metà del Settecento la
tipologia più diffusa in Europa è la bottega artigiana o della manifattura diffusa, con ampio
ricorso al lavoro a domicilio. Tutto comincia a cambiare solo nel Settecento con l'impetuoso
sviluppo dall'industria tessile con il fenomeno chiamato “rivoluzione industriale”. La
trasformazione epocale in Europa a partire da metà Settecento (prima in Inghilterra) avviene
a seguito dell'affermarsi dell'economia di mercato, del macchinismo e del sistema di
fabbrica. La Rivoluzione industriale, strettamente connessa alla nascita del capitalismo, si
basa sulle nuove fonti energetiche quali il carbone, il coke e in seguito il petrolio.
L'attenzione degli studiosi si è spostata verso la “protoindustrializzazione” e le “molteplici
vie verso l'industrializzazione”, mostrando come la rivoluzione industriale inglese fosse
solo una delle vie possibili. La categoria storiografica di protoindustrializzazione si deve
allo storico dell'economia americano Franklin F. Mendels, che nel 1972 in un articolo
comprese sotto quel concetto tutte le realtà manifatturiere sviluppatesi prima della piena
affermazione del sistema di fabbrica nell'Inghilterra settecentesca. Vi era una significativa
crescita della popolazione nelle aree toccate dalla protoindustrializzazione. Il distretto
produttivo manifatturiero indica quelle unità territoriali in cui si concentravano attività
industriali prevalentemente omogenee, soprattutto in aree rurali subregionali. Il modello
britannico si basa sulla sequenza: concentrazione industriale, macchinismo, capitalismo
industriale, produzione di massa. Interessanti le esperienze di protoindustrializzazione in
Italia: sono casi di produzioni manifatturiere con basi saldamente piantate nel mondo
agricolo e ad esso complementari, caratterizzate da una produzione dispersa nel territorio e
da un massiccio impiego del lavoro a domicilio, ma in grado di rapportarsi con il mercato
anche a livello internazionale. Nel Seicento la manifattura si era spostata fuori città per
trovare manodopera a basso costo. L'intreccio fra lavoro a domicilio e mercato, manifattura
artigianale e industria, dimensione regionale e internazionale dell'economia può essere
considerato come un fattore di maggior flessibilità delle economie periferiche. A parte
l'Inghilterra non si assiste dunque ad una transizione meccanica da un regime produttivo
all'altro. Nella maggior parte dei casi la concentrazione dei lavoratori in un unico
stabilimento apparve come la scelta più razionale per consentire al tempo stesso un miglior
controllo e disciplinamento della manodopera, un miglioramento qualitativo della
produzione e una più rapida meccanizzazione delle diverse fasi produttive.
La rivoluzione dei consumi. A partire da metà Settecento nasce un proletariato
industriale, si afferma il sistema di fabbrica, il macchinismo,, si impiegano nuove forme di
energia e si internazionalizza il mercato. Non si tratta solo dunque di rivoluzione industriale,
ma anche di rivoluzione dei consumi. Nell'antico regime il rapporto tra produzione e
consumo si basa su una relazione asimmetrica: la trasformazione dei beni precede la
domanda. La capacità di consumare dipende da vincoli che non sono solo riferibili alla
disponibilità sul mercato, ma anche elementi sociali, culturali e simbolici. Il Settecento è il
secolo nel quale si afferma il consumo di massa: le differenze sociali sono meno percettibili
perchè i beni sono a disposizione di tutti i ceti sociali, a differenziarli è la qualità dei
prodotti. Con l'età moderna l'acqua corrente si afferma come la principale risorsa energetica:
nel Settecento diventa elemento dinamico delle macchine a vapore, pompe idrauliche,
impianti industriali e più tardi locomotori per il trasporto. Ciò porta inevitabilmente ad un
crescente inquinamento delle acque. La stessa igiene personale si affermerà e generalizzerà
solo nel Settecento, portando a un miglioramento delle condizioni di vita, minor diffusione
di malattie e un aumento della vita media. Si diffonde la biancheria in cotone, i nuovi
metodi di riscaldamento e illuminazione, come anche i vetri trasparenti di grandi dimensioni
alle finestre della casa (in campagna non c'era il vetro alle finestre, in città finestre dai vetri
piccoli, opachi e colorati). L'illuminazione dava una percezione di maggior sicurezza e la
possibilità di allungare l'orario di lavoro. Entrano a far parte dell'arredo domestico, al posto
di focolari e caminetti, le stufe in ceramica e ghisa, che implica la disponibilità di nuovi
fonti di energia come il carbon fossile. Nelle nuove dimore urbane compaiono i corridoi,
che collegano stanze isolate permettendone la divisione funzionale. I primi servizi igienici
interni alla casa. Armadi e comò, prime poltrone e divani che sostituiscono le sedie, i letti
sono ormai dotati d lenzuola. Si trasforma anche l'abbigliamento: i borghesi diventano i
protagonisti del mercato della moda e i prodotti in cotone soppiantano quelli in lana, diventa
uso cambiare biancheria e camicia quasi ogni giorno, gli abiti leggeri vengono sostituiti più
spesso creando il mercato, il gusto si raffina e si estende ai ceti medi, il bottone soppianta la
spilla, il corpetto e i tacchi si affermano anche tra le donne del popolo.

6. Le nobiltà europee
“Nobiltà”: la genesi di un concetto. Il termine aristocratico deriva dal greco
αριστός “il governo dei migliori”. Nel mondo tardo antico e medievale con il termine nobile
(lat. nobilis, notabilis “noto, conosciuto”) si indicava colui che per nascita o titolo godeva di
uno statuto speciale, ossia un privilegio da cui derivavano prerogative che ad altri non erano
concesse. La nobiltà antica era costituita da nobilitas, ossia natali illustri, virtus, ossia virtù e
coraggio militare, e certa habitatio, ossia il possesso di una casa e di una terra, quindi di una
signoria fondiaria. In una parola la nobiltà è un ceto, ordine, statuto. Il concetto di “classe”
(nella comune accezione sociologica marxiana) distingue un gruppo sociale per la sua
posizione economica all'interno del processo produttivo. Il concetto di “ceto” distingue un
gruppo sociale per la sua posizione all'interno della gerarchia sociale. Il concetto di “ordine
o stato” distingue un gruppo sociale per la sua posizione giuridica. Le società di antico
regime si autodefinivano in termini di ceti ordini, o stati. Lo storico e antropologo francese
Georges Dumézil ha mostrato come la tripartizione sociale sia tipica di tutte le civiltà in
base a sovranità, forza e fecondità, prerogative rispettivamente degli oratores, bellatores e
laboratores. Nel 1936 gli storici Marc Bloch e Lucien Febvre proposero una inchiesta
“Nobiltà. Ricognizione generale del terreno” per arrivare alla definizione di nobiltà; lo
schema si basa su un'analisi dall'esterno all'interno che affrontasse nell'ordine a) lo status:
presenza o assenza di prescrizioni legali volte a tutelare la condizione di nobile
preservandone i patrimoni; b) la la quantità: la proporzione percentuale dei nobili rispetto
alla popolazione totale; c) la stratificazione interna alla nobiltà: la presenza e il peso della
gerarchia, la sua natura, la diversa dignità ed i diversi privilegi concessi ai vari strati
nobiliari; d) i problemi di contatto e di influenza con altri gruppi.
L'enigma delle nobiltà. Le nobiltà sono i ceti privilegiati che detengono l'egemonia
politica e sociale nelle società di antico regime e che ne costituiscono le élite. Esse
posseggono uno statuto giuridico particolare. Generalmente rappresentano una minoranza
della società (Svezia 0,5%, Polonia 10%). I principali titoli della nobiltà imperiale europea
sono duchi, marchesi, conti, visconti, visdomini e baroni. Duchi sono, in età tardo romana e
lombarda, i comandanti militari (duces) e poi i governatori militari dei territori conquistati;
in età carolingia i grandi feudatari. Marchesi sono i governatori delle marche, ossia delle
province di confine o di importanza strategica. Conti (comites “coloro che mangiano
insieme”) sono i più fedeli collaboratori del sovrano e, in età carolingia, feudatari invitati a
governare una contea. Visconti sono inizialmente i sostenitori dei conti (vicecomites),
quindi feudatari con titolo ereditario di livello inferiore a quello dei conti. Visdomini sono
feudatari laici ai quali il vescovo delega la propria autorità temporale. Baroni in età
medievale sono tutti i detentori di “alta signoria”, mentre in età moderna sono quelli
partecipanti a una nobiltà feudale di natura inferiore. Questo significato antico dei titoli
nobiliari si trasforma con l'inizio dell'età moderna quando le monarchie territoriali si creano
fedeltà distribuendo titoli alle maggiori famiglie. Un privilegio è qualsiasi esenzione o
distinzione rispetto ad un insieme di leggi o norme valide per gli altri individui o gruppi
sociali (es. dalle tasse). Conseguenza del privilegio è la diseguaglianza, uno dei fondamenti
delle società di antico regime. È nobile solo chi dimostra di possedere “titoli di nobiltà”,
ossia privilegi o esenzioni sancite dal sovrano, dalla consuetudine o dal tempo. Tanto è più
antica la nobiltà, tanto maggiore è il rispetto dovuto. Si è nobili per nascita, per diritto
ereditario, ma anche per servizio ottenendo dal sovrano un titolo in segno di ricompensa.
La mobilità sociale è un fenomeno tipico della modernità. I principali tipi di nobiltà europea
sono: 1. nobiltà terriera di antica origine feudale, altrimenti detta nobiltà “di sangue” o “di
spada” (per merito militare); 2. patriziati urbani, o nobiltà cittadina di origine comunale,
ossia famiglie “di Consiglio” che derivano i loro privilegi dall'esercizio delle più antiche
cariche amministrative cittadine; 3. nobiltà di toga, di origine più recente, acquisita per
diritto in seguito all'esercizio di alte cariche di giustizia; 4. nobiltà di servizio, acquisita o
confermata in seguito a servizi resi al sovrano; 5. nobiltà di fatto, non titolata ma
riconosciuta “per consuetudine” o in seguito a vita more nobilium (alla maniera dei nobili).
La nobiltà può anche essere perduta, in particolare se qualcuno dimostra l'impurità di
sangue. I ceti nobiliari sono alla cotante ricerca di una legittimazione nei confronti dei
poteri superiori, dei ceti privilegiati e dei ceti inferiori. Elementi di legittimazione della
nobiltà possono essere a) a livello simbolico la purezza di sangue, ossia la nascita
nobiliare, e l'onore, b) a livello politico la competenza e autorità, c) a livello economico i
beni. Un processo di rilegittimazione delle nobiltà europee si verifica nel corso del
Settecento in diversi paesi europei. Dove il sovrano è assoluto, e quindi arbitro della legge,
la nobiltà si consolida e rinnova, pur perdendo di autonomia rispetto al potere centrale da
cui dipende sempre più strettamente. Dove invece la monarchia è più debole o non assoluta,
la nobiltà continua a godere di maggiore autonomia rispetto al sovrano. Viene a formarsi
nella prima età moderna in Italia una coscienza nobiliare che solo nel Settecento si delinea
nella nuova figura di nobile, attivo protagonista di una rinnovata casse dirigente e portatore
di un nuovo concetto di nobiltà, fondato sulla proprietà, sul senso dello Stato e su radici
nazionali più che locali.
Nobiltà e ricchezza. Non tutti i nobili erano ricchi e elementi decisivi per connotare
un nobile non era la ricchezza, semmai lo erano l'antichità di origine, il prestigio, le
strategie matrimoniali, i legami con l corte, l'apparenza grandiosa e il possesso della terra.
La maggior parte della piccola e media nobiltà non era più ricca di molti borghesi e
proprietari terrieri non nobili, addirittura una significativa minoranza di nobili era
decisamente povera. A fine Seicento in Francia molte terre nobili erano state cedute a
borghesi per denaro. Dopo il 1650 in Francia sorsero borse di studio per i figli e costituzioni
di doti per le figlie. Tra Seicento e Settecento, in Europa, una consistente quota della
ricchezza era già nelle mani dei ceti non nobili. L'immagine di “nobiltà in declino” e
“borghesia in ascesa” non corrisponde alla realtà: il sistema di potere nobiliare è
estremamente elastico e capace di adattamenti successivi, al punto che quando sembra
entrare in crisi trova a suo interno le
ragioni del proprio rinnovamento. Ciò che caratterizzava la nobiltà era il possesso di terre
nobili collegate ad un'antica giurisdizione feudale e ad alcune funzioni delegate dal potere
sovrano, oltre che a diritti signorili e a privilegi. Accanto alle terre nobiliari esistevano le
altre terre, acquistate nel corso del tempo, che potevano essere liberamente vendute o
alienate o impiegate per costituire doti alle figlie. Nell'età moderna il peso dei redditi
derivanti da beni non feudali pare essere crescente in tutti i territori europei. Ai nobili erano
in genere vietati le attività commerciali e bancarie, ma non lo sfruttamento dei prodotti della
terra incluse le risorse del sottosuolo. Ugualmente lecita era la speculazione edilizia,
realizzata vendendo terreni edificabili o costruendo direttamente il palazzo e affittando le
case. Uno dei redditi tradizionali della nobiltà di spada, quello derivante dai bottini di
guerra, appare in declino a partire dalla metà del Seicento. Sebbene giudicata illecita,
l'attività bancaria o di prestito ad interesse è esercitata da molti nobili. Per i nobili vi erano
oltre che guadagni, anche molte spese: spese come necessità, ma anche come elemento di
prestigio per riaffermare il proprio privilegio. I debiti erano quasi una necessità, perchè un
“vero nobile” non bada a spese. La logica simbolica prevale su quella economica.
Nobiltà e potere. In molti territori europei i nobili esercitano il potere giudiziario in
sede locale direttamente o indirettamente attraverso giudici da loro nominati. In molti casi i
nobili possiedono giurisdizione di polizia con la facoltà di comminare ammende e pene
pecuniarie nell'ambito dei loro feudi. Spesso i nobili hanno diritti esclusivi sui mulini e sui
forni, sulla produzione di vino, oltre che sulla caccia e la pesca. Tra i poteri di diritto e
poteri di fatto vi era una formula di compromesso: la monarchia riconosceva alla
rappresentanza gli interessi e i privilegi dei territori soggetti, e i ceti territoriali
riconoscevano alla monarchia la sovranità univa e l'impegno di fedeltà al re. È il sovrano a
creare la nobiltà, mantenerla e interagirne i ranghi come strumento di coesione del potere.
Le resistenze della nobiltà feudale contro le politiche accentratici dei sovrani sono in genere
una pressione mirata a mantenere privilegi consolidati o a contrarre più ampi spazi di potere.
Rispetto alla dimensione locale, il potere statuale è più contenuto e limitato dai sovrani.
Dalla metà del Cinquecento, come osserva lo storico olandese Jeroen Duindam, il
consolidamento di un tipo di governo più burocratizzato assicurò un ruolo importante a
corte ai funzionari amministrativi preposti a vari incarichi. La nobiltà ebbe ruolo delimitato
nell'ambito della corte e separato da quello del governo, affidato a funzionari amministrativi
di origine non nobile. La nobiltà di antica origine mantiene saldamente il controllo dei
comandi militari e degli alti gradi dell'esercito, oltre che degli incarichi diplomatici, ma
cede spesso ad alti ceti le cariche amministrative e finanziarie, le cariche di giustizia a vari
livelli, i ruoli esecutivi nelle amministrazioni locali. Sono gli stessi sovrani a favorire questo
processo di differenziazione per consentire da un lato un ricambio nelle élite e dall'altro una
maggior facilità di controllo dei gangli più delicati dello Stato . Nelle città e nelle antiche
repubbliche patrizie (Genova e Venezia per l'Italia) i ruoli amministrativi e le magistrature
cittadini sono sempre prerogativa dell'aristocrazia urbana, che consolida in età moderna il
proprio potere oligarchico a scapito dei ceti borghesi (esclusi dal potere politico). Uno dei
principali strumenti di organizzazione e di autoidentificazione delle nobiltà europee sono gli
Ordini cavallereschi, istituiti nel Cinquecento per rispondere alle richieste di ulteriore
distinzione degli esponenti della nobiltà più antica, preoccupati per la progressiva perdita di
credibilità delle aristocrazie e per l'avanzata dei ceti inferiori e delle nobiltà di origine più
recente. Essi rappresentano una vera e propria internazionale delle aristocrazie capace di
definire modelli comportamentali, stili di vita e spesso anche strategie matrimoniali.
La cultura nobiliare. La nobiltà europea di antico regime non era un ceto colto
(anche se ci sono sempre stati elementi di elevata ed eccelsa cultura). Imparavano fin dalla
tenera età norme di comportamento tali da distinguerli dal volgo, principi rudimentali
dell'arte di guerra, dell'equitazione, della caccia, della danza, solo in alcuni casi
apprendevano il latino o una lingua straniera, raramente sviluppavano una sensibilità
letteraria, più spesso acquistavano un certo gusto per la musica fruita più che pratica. Solo
alla fine del Cinquecento, con l pratica dei viaggi in Europa, si comincia ad affinare la
formazione delle élite nobiliari. Nel tardo Seicento i giovani aristocratici vengono formati
dai gesuiti e in alcuni casi completano la formazione a livello universitario. Diverso il caso
dei figli della nobiltà di toga, indotti a seguire precisi percorsi formativi e acquisire nozioni
di filosofia, diritto, economia per poter accedere alle cariche politiche loro destinate.
Diversa la situazione della nobiltà di corte dove la cultura diventa veicolo per fare carriera
e ottenere il favore del sovrano. Nel 1558, scritto dal monsignor Giovanni Della Casa, esce
per l'educazione dei gentiluomini Il Galateo. I poemi di Ariosto Orlando furioso e Tasso La
Gerusalemme liberata rappresentano l'adattamento degli ideali cavallereschi medievali alla
cultura di corte, laica e raffinata. La contrapposizione tra nobiltà urbana e cortigiana
(raffinata e colta) e nobiltà rurale (rozza e incolta) è uno stereotipo: anche la nobiltà rurale
sviluppò una sua cultura come lo dimostra o studio dello storico austriaco Brunner Vita
nobiliare e cultura europea (1949); sua tesi d fondo è che il ceto nobiliare europeo restò
pervaso di ideali cavallereschi fino alla metà del Settecento.
Nobiltà europee a confronto. La Francia. Le due nobiltà. Dalla metà del Seicento
in Francia vi erano due nobiltà in distinte e in competizione. Da un lato la nobiltà di spada,
di origine più antica, che deriva il suo potere dall'esercizio delle armi, dalle giurisdizioni
feudali e dalla proprietà terriera, dotata di titolo ereditario e che gode di maggior
considerazione sociale, ma che non controlla più le leve del potere politico amministrativo
autonoma dal sovrano. Dall'altro lato la nobiltà di toga, di origine più recente, che deriva il
suo potere dall'esercizio delle cariche di giustizia e finanza, ha ottenuto il titolo nobiliare
ereditario in virtù dei servizi resi al sovrano e gode di minor prestigio sociale; la sua
ricchezza proviene principalmente dalle rendite degli uffici e dalla terra. Dal 1680 Luigi
XIV realizza una complessa operazione politica concentrando e mantenendo a proprie spese
presso la corte di Versailles la maggior parte dei nobili di spada e consegnando lo Stato alla
nobiltà di toga, colta e preparata, ma totalmente subordinata al sovrano.
L'Inghilterra. Un'élite aperta? Anche il caso inglese vede due nobiltà distinte e
indipendenti. I Lords, altrimenti detti Pari, nobiltà di antica origine feudale, militare e
terriera, dotata di titolo ereditario e che gode di grande considerazione sociale e di
considerevole potere politico; siede di diritto in uno dei due rami del Parlamento “la Camera
dei Lords”; è quasi sempre di orientamento politico conservatore (tory). Al di sotto dei Pari
troviamo la gentry, nobiltà “di fatto”, dotata di minor prestigio sociale, esercita una
notevole autorità in sede locale attraverso le cariche elettive di giudici di pace, magistrati di
contea o deputati alla Camera dei Comuni. Il suo potere si rifà all'autorevolezza acquisita in
sede locale e alla proprietà terriera; è autonoma rispetto al sovrano. Nell'età moderna vi era
il problema del indebitamento progressivo dell'alta aristocrazia dei Pari e la crisi
dell'aristocrazia dovuta a conflittualità tra famiglie, spese eccessive, conseguente
indebitamento dei nobili e dispersione del patrimonio terriero. Il Seicento era un secolo di
straordinaria mobilità dell'élite, capaci di ben adattarsi ai cambiamenti in atto nella
società, e di ripresentarsi mutate nel quadro di una cornice sostanzialmente statica.
La Russia. Una nobiltà di Stato. Fino ai primi del Settecento troviamo in Russia
un'aristocrazia di origine feudale (i Boiardi), dotata di immense proprietà terriere e
giurisdizioni, in grado di armare piccoli eserciti da mettere a disposizione dello zar, e
proprietaria di intere regioni disseminate di villaggi abitati da servi della gleba. A partire dal
regno di Pietro I il Grande (1682-1725) si viene a costruire un'unica nobiltà di servizio,
suddivisa in base alla cosiddetta Tavola dei ranghi (1722) in tre livelli gerarchici e tre
diverse carriere (militare, civile e di corte) e quattordici ranghi, sottoposta al potere assoluto
dello zar che costituisce l'unica fonte del diritto e l'unica ragione di distinzione sociale.
L'aristocrazia feudale si trasforma in un enorme ceto di funzionari al servizi
dell'imperatore. Al livello più alto della gerarchia si trovano i Principi, appartenenti alla più
antica nobiltà feudale. Grandi proprietari terrieri possono ottenere incarichi di alto comando
militare. Ad un livello inferiore i Boiardi, grandi proprietari di origine feudale, che possono
ottenere posti di Governatori delle province e comandi militari. Al di sotto si colloca la
nobiltà burocratica composta da alti dignitari, magistrati e funzionari di Stato. Al di sotto c'è
la piccola nobiltà di provincia che deriva o conserva il suo potere grazie a ruoli burocratici
ereditari nell'apparato ministeriale, nella magistratura o nel governo delle province si crea
così un sistema burocratico-militare su base aristocratica. A metà Settecento
l'apprendimento di lingue straniere e i viaggi d'istruzione in Europa divengono per la nobiltà
russa lo strumento di evasione-reazione al sistema zarista. Lo stesso populismo
ottocentesco nascerà dal bisogno avvertito dall'élite intellettuale d'immergersi nella civiltà
europea per “civilizzarsi”
La Polonia. Una nobiltà “egualitaria” e inflazionata. Il caso polacco è quello di una
nobiltà in soprannumero, priva di gerarchie formalizzate ma di fatto fortemente
gerarchizzata. Tutti gli esponenti maschi maggiorenni della nobiltà hanno accesso al potere
politico, siedono di diritto nella Dieta (luogo di rappresentanza della nobiltà e il supremo
organo legislativo) e godono dell'elettorato attivo e passivo alla carica di re. La Polonia è
una monarchia elettiva, ma di fatto è una monarchia nobiliare. La Dieta nobiliare ha il
potere di giudicare il re e i suoi sudditi e sorveglia tramite il Senato l'operato del re. Al
vertice della nobiltà polacca c'è l'élite nobiliare costituita dai Magnati controlla la maggior
parte delle terre e dei villaggi del paese e domina politicamente la Dieta; i Magnati possono
assoldare proprie milizia. Al di sotto si colloca la nobiltà media che possiede il resto della
tessa. Al terzo livello si collocano i “frazionari”, possessori di frazioni di antiche terre
demaniali. Al livello più basso si colloca la nobiltà povera di piccoli e piccolissimi
proprietari, a volte costretti a lavorare la terra, esenti da imposte, ma del tutto dipendenti
dalla nobiltà maggiore di cui sono clienti e servitori.

7. Sovranità e potere politico


Una definizione di Stato moderno. L'espressione “Stato moderno” compare solo agli
inizi dell'Ottocento in presenza di un processo di crescita e di consolidamento degli apparati
statuali, decisamente diverso da qualunque fenomeno analogo dei secoli precedenti. È Otto
Hintze, storico e giurista tedesco, a indicare nel 1906 lo “Stato moderno” come tipo ideale,
modello astratto, e non come realtà di fatto nell'età moderna. Ci sono sei linee di tendenza
che la maggior parte degli storici hanno individuato come caratteristiche del cosiddetto
Stato moderno.
1. La progressiva affermazione del monopolio statale della forza attraverso la
costituzione di eserciti professionali e permanenti. A partire dalla fine del Quattrocento si
sviluppa la fanteria e l'artiglieria, dotate di armi da fuoco leggere o pesanti. Questo
mutamento epocale, determinato dall'invenzione della polvere da sparo, inizia a mettere in
crisi il tradizionale ruolo della cavalleria e quindi della nobiltà che ne rappresentava il
nerbo esclusivo. Accresce il ruolo strategico e l'importanza dell'artiglieria. Sempre più
spesso gli eserciti sono formati da professionisti della guerra, mercenari, in possesso di
particolare esperienza e di competenze e soggetti ad ingaggi di lunga durata.
2. Presenza di una burocrazia permanente e specializzata, dotata di competenza
professionale ed esperienza amministrativa. Si tratta inizialmente di notai e cancellieri a
servizio permanente del sovrano. Quelli che oggi chiameremmo funzionari pubblici,
selezionati in seguito ad un pubblico concorse, nei primi due secoli dell'età moderna erano
in realtà reclutati in maniera diversa: o attraverso la chiamata diretta degli uomini più
capaci, o in seguito alla vendita delle cariche e degli uffici, o attraverso la concessione di
titoli nobiliari ereditari ai funzionari più capaci o più fedeli, da cui ebbe origine la cosiddetta
nobiltà di servizio.
3. Presenza di una diplomazia permanente presso le corti straniere, che sostituisce gli
inviati temporanei o i funzionari incaricati di singole missioni di breve durata. Ciò
implicava disponibilità di denaro, di conoscenze e soprattutto una capacità di agire e
sapersi muovere in maniera adeguata negli ambienti di corte; queste prerogative erano
esclusive della nobiltà più istruita e più ricca. Da ciò derivava anche la codificazione delle
regole della diplomazia.
4. Affermazione del monopolio statale del prelievo attraverso il fisco, ossia attraverso
un sistema di tassazione unico e tendenzialmente esteso a tutto il territorio dello Stato.
L'autorità fiscale viene a sostituirsi a quella militare come elemento caratterizzante lo
Stato. La riforma della fiscalità implica come unico soggetto lo Stato. La tassazione era
concepita dai ceti privilegiati come aiuto o contributo volontario concesso al sovrano
concordato preventivamente nell'ambito degli organi rappresentativi. Le tasse
straordinarie non concordate erano possibili solo in caso di guerra.
5. Tentativo di affermare una legislazione unitaria su tutto il territorio dello Stato a
scapito delle diverse ed autonome giurisdizioni territoriali o delle giurisdizioni particolari di
ceti o gruppi privilegiati. Questa linea di tendenza verrà a realizzarsi solo in pochi casi e
solo nel Settecento attraverso il progressivo passaggio dal diritto comune ai codici scritti; la
riduzione dei privilegi locali, dei privilegi di ceto e dei privilegi ecclesiastici in seguito ai
Concordati fra Stato e Chiesa cattolica.
6. Affermazione di un mercato ampio ed esteso e tendenza dello Stato a
regolamentare l'economia. Segnali di questa tendenza sono le politiche economiche
ispirate al mercantilismo e quindi ad un maggiore intervento dello Stato sull'economia.
Sulla base di queste sei linee i governi europei dei primi anni del Cinquecento appaiono
molto più simili fra loro di quanto non sarebbero apparti in seguito. Nell'ultimo
quindicennio gli storici hanno ridimensionato la categoria di “Stato assoluto” sottolineando
la presenza di limiti, resistenze e compromessi. La storica Angela De Benedictis nel
volume Politica, governo e istituzioni nell'Europa moderna (2001) tende a negare
l'esistenza di uno “Stato assoluto” in età moderna e ad affermare il ruolo fondamentale del
governo dei ceti, che si realizza attraverso un continuo patteggiamento fra organi
giurisdizionali e poteri centrali, teso alla continua contrattazione di spazi di autonomia che
si vengono a creare solo dalla dialettica fra resistenza e collaborazione. La storiografia più
recente tende al ridimensionamento del ruolo del potere centrale e dei suoi apparati e alla
riscoperta di una giurisdizionalità diffusa nello Stato di antico regime.
Dal patto fra poteri autonomi alla rappresentanza politica. La storia della
formazione dello Stato moderno si può suddividere in tre fasi, ognuna caratterizzata da un
concetto chiave:
1. corrispondente al medioevo – caratterizzata dal patto sancito tra poteri autonomi,
nessuno dei quali s'impone sull'altro;
2. corrispondente all'età moderna – segnato dalla progressiva affermazione del dominio
del sovrano sugli altri poteri con i quali il sovrano continua a trattare;
3. corrispondente all'età contemporanea – caratterizzata dall'affermazione del principio
costituzionale di rappresentanza politica come base di ogni governo, riducendo il ruolo
del sovrano a puro garante delle leggi dello Stato.
La storia dello Stato moderno è dunque storia di lotte e compromessi fra poteri diversi,
fino all'affermazione di un potere sovrano superiore. Nell'arco di alcuni secoli si passa da
un'idea di sovrano come vertice della scala feudale e incarnazione dello Stato, ad un'idea di
Stato sovrano come entità superiore, autonoma e astratta. In antico regime ad essere
rappresentati non erano gli individui, ma i ceti: in tutti i territori europei esistevano organi di
rappresentanza dei ceti la cui composizione e le cui prerogative erano assai difformi. Fino
alla rivoluzione inglese del 1641-49 gli organi rappresentativi non esprimono orientamenti
politici e programmi di governo, ma sono portatori di interessi codificati (i privilegi o le
cosiddette libertà) dei corpi sociali di cui sono l'espressione. Nel medioevo l'aiuto era la
partecipazione alla guerra dei nobili, successivamente sostituito da un contributo in denaro
per armare l'esercito infine una quota d'imposta da ripartire (non equa) fra i sudditi. Ad
indurre i sovrani a limitare le prerogative degli organi rappresentativi fra Cinque e Seicento
furono ragioni economiche: inflazione, aumento delle spese militari e per la corte,
l'indebitamento dello stato portarono alcuni sovrani a rinunciare alla convocazione delle
rappresentanze, ma non senza un costante confronto e patteggiamento con le istanze dei
ceti.
Monarchie composite e Stati territoriali. Nelle dinamiche della statualità di antico
regime, tra Quattro e Cinquecento, si possono individuare quattro tendenze di medio
periodo.
1. Tendenziale razionalizzazione del potere sul territorio che porta alla riduzione del
numero dei piccoli Stati regionali e all'affermazione di un ristretto numero di grandi Stati
territoriali (Spagna, Francia, Inghilterra) spesso frutto dell'unione di più corone.
2. Progressiva autonomizzazione dei più forti poteri territoriali rispetto alla suprema
autorità feudale e la contestuale affermazione dell'autorità di fatto dei medesimi poteri in
sede locale.
3. Progressiva marginalizzazione dei poteri locali, dele magistrature e degli organismi
rappresentativi rispetto al potere dei principi sovrani. Nascono i capitali stabili.
4. Tendenza alla concentrazione dei poteri. In quasi tutti i casi i sovrani affrontano le
resistenze contrattando con i diversi poteri e ristabilendo un equilibrio parzialmente
favorevole ad essi, fondato sul mantenimento dei privilegi e delle consuetudini locali.
Lo storico inglese John E. Elliott ha coniato il concetto di “monarchia composita” per
indicare le monarchia apparentemente unitarie, ma che hanno all'interno una molteplicità di
giurisdizioni, legittimate dalla tradizione. Esempi ne sono la monarchia spagnola (unione di
Castiglia, Aragona, Navarra, Portogallo, regni di Napoli-Sicilia-Sardegna) e l'Inghilterra
(unione di Regni di Gran Bretagna e di Scozia, Irlanda, Galles), ciascuna con i propri organi
rappresentativi, le proprie tradizioni, le proprie consuetudini giuridiche e il proprio sistema
fiscale. Il concetto di “monarchia nazionale” è forviante. Si tratta di monarchie molto
spesso composite, nient'affatto nazionali e solo in alcuni casi “territoriali” (caratterizzate
dall'omogeneità e compattezza del territorio). L'idea di nazione è tipicamente ottocentesca e
descrive i fenomeni del XIX e XX secolo. Fra Quattro e Settecento “nazioni” erano ad
esempio definite le comunità di studenti stranieri nelle città universitarie come Bologna e
Padova. È meglio utilizzare la categoria di “Stato territoriale” per distinguere quegli Stati
dotati di confini definiti entro i quali erano i grado di battere moneta, di imporre tributi e di
reclutare truppe. Accanto ai quattro tipi ideali della monarchia assoluta, della monarchia
consiliare, della monarchia elettiva e della repubblica oligarchica, si trovano in Europa delle
varianti. Per mantenere e sviluppare uno Stato territoriale in età moderna erano necessarie
almeno sei condizioni fondamentali.
1. Una buona disponibilità di risorse economiche e naturali sfruttabili.
2. Una posizione geografica relativamente protetta e garantita dalla presenza di confini
naturali.
3. Una successione ininterrotta di abili statisti (uomini di governo).
4. Il successo in guerra, e quindi la forza militare.
5. L'omogeneità della popolazione soggetta e l'assenza di conflitti interni di carattere
etnico o religioso.
6. La presenza di una robusta alleanza del potere centrale con le élites locali, tale da
non provocare conflitti di potere, resistenze o rivolte.
I principali fattori che gli storici hanno indicato come ostacoli alla formazione di un unico
Stato territoriale italiano sono:
a) l'arcaicità e la polverizzazione delle strutture statali, fattore di immobilità sociale;
b) la debolezza di un apparato burocratico;
c) l'indebolimento delle attività commerciali dalla fine del XV secolo (crisi del
Mediterraneo, crisi delle autonomie urbane, ritorno alla terra da parte dei ceti mercantili);
d) l'egemonia straniera sulla penisola e la lunga dominazione spagnola su Regno di Napoli
e Ducato di Milano in assenza di un potere forte in sede locale;
e) la presenza di patriziati cittadini forti e radicati;
f) l'esistenza di Stati repubblicani (Venezia, Genova Lucca) cristallizzati nelle loro
istituzioni oligarchiche, ulteriore fattore di immobilità sociale;
g) la presenza di uno Stato della Chiesa autonomo e territorialmente esteso, unica
monarchia assoluta, ma priva di continuità dinastica.
Monarchie assolute e repubbliche oligarchiche. L'assolutismo monarchico fu solo
una tendenza e in nessun paese si realizzò mai in forma compiuta. Il concetto di
“assolutismo”, che sta a indicare una monarchia sciolta da ogni vincolo, viene introdotto
dal giurista francese Jean Bodin nei Sei libri della Repubblica (1576): per descrivere la
sovranità dello stato fa riferimento alla potestà assoluta del sovrano, sciolta da ogni vincolo,
su cittadini e sudditi. Impiegato a lungo con connotazione negativa, l'assolutismo è stato
recuperato con una valenza parzialmente positiva unito all'attributo di “illuminato”. La
monarchia assoluta è un prodotto storiografico più che una realtà. L'assolutismo europeo è
stato considerato come un processo, tendente a realizzare in forme e tempi diversi nei
diversi paesi europei, una sovranità più libera da controlli istituzionali, ma pur sempre
limitata. Dunque l'assolutismo è solo una delle tendenze delle grandi monarchie europee,
mentre la forma più diffusa di governo è lo Stato cetuale, fondato su una molteplicità di
poteri e sulla condivisione della sovranità fra il principe, i ceti e i loro organi
rappresentativi. Diversa è la situazione delle antiche repubbliche oligarchiche e patrizie,
come Venezia, Genova e Lucca. Venezia rappresenta il caso di una repubblica patrizia il cui
ceto dirigente si trasforma nel corso dei secoli (soprattutto dopo la metà del Cinquecento) in
un ceto chiuso e scarsamente permeabile ai mutamenti. Anche la nobiltà delle maggiori
città d'Italia (Verona, Brescia, Padova ecc) era esclusa dal potere politico
nell'amministrazione centrale dello Stato e doveva limitarsi a ricoprire cariche
amministrative subalterne nelle magistrature locali delle rispettive città.
Burocrazia e uffici: dalla venalità alla carriera. Il termine “burocrazia” (francese
bureau, “lo scrittoio”) viene coniato a metà Settecento dall'economista francese Vincent de
Gounay e poi impiegato dagli economisti fisiocratici per denunciare il potere crescente dei
funzionari governativi nella vita pubblica della Francia. Indica sia un sistema di potere
dominato dai funzionari e dalle loro regole poco trasparenti, sia l'insieme degli impiegati
pubblici. Il sociologo tedesco Max Weber la indica come espressione idealtipica
dell'autorità e dell'organizzazione razionale e funzionale dello Stato moderno. Secondo
Weber lo strumento principale attraverso cui i sovrani assoluti sarebbero riusciti ad
esercitare il loro potere era la concessione agli ufficiali del possesso patrimoniale della
carica, concepita come un beneficio feudale. La vendita degli uffici e delle cariche (che
consente delle entrate allo Stato) prende il nome di venalità. Dove il ruolo degli organismi
rappresentativi dei ceti era più debole, maggiore era il potere degli ufficiali, titolari di uffici
patrimoniali o venali; dove gli organi rappresentatiti esercitavano un maggior controllo
sull'azione del sovrano, gli ufficiali erano semplici esecutori. Nella prima età moderna, fino
a metà Cinquecento, la maggioranza degli ufficiali ha carattere patrimoniale o venale; nella
seconda età moderna, tra Sei e Settecento, i pubblici ufficiali divengono funzionari
stipendiati. Il servizio alle dipendenze dello Stato diventa così una “carriera” che consente
il passaggio dagli uffici inferiori a quelli superiori e da incarichi di minor prestigio a quelli
più prestigiosi e meglio remunerati. “Carriera”, nel significato di servizio amministrativo di
Stato, non si attesta prima della metà del Seicento, mentre nel significato militare si
consolida solo nel Settecento. Lo sviluppo di una burocrazia permanente nasce dunque con
lo Stato moderno, come conseguenza delle nuove necessità poste dalla guerra e
dall'amministrazione di territori sempre più ampi. I segretari di Stato, originariamente notai
del re, tendono assumere un ruolo preminente in seno ai Consigli, mentre le funzioni
amministrative tendono a differenziarsi e a specializzarsi. Nel Cinquecento si passa così alla
costituzione di un corpo autonomo di “professionisti” al servizio dello Stato, in possesso di
precise competenze economiche e giuridiche e non necessariamente reclutati nei ranghi
della nobiltà. I canali di reclutamento si riducevano a tre modelli: a) si reclutavano
esponenti della piccola nobiltà desiderosi di distinguersi [modello di merito; si afferma in
tutta Europa tra Sei e Settecento], b) si procedeva al reclutamento di giuristi non nobili in
base alle loro competenze, c) si concedeva l'ufficio in beneficio o lo si vendeva al miglior
offerente [modello della venalità, prevale nella maggior parte delle monarchie europee di
Cinque e Seicento perchè consentiva di utilizzare un istituto antico, tipico del feudalesimo,
come il beneficio, per realizzare obiettivi nuovi]. Il titolare di un ufficio si distingueva più
per la “dignità” che veniva a ricoprire” che per la funzione effettiva che esercitava; l'ufficio
era una titolarità non revocabile, al contrario della commissione che era un incarico
temporaneo e revocabile. Il commissaire era incaricato alle dirette dipendenze del sovrano,
mentre l'officier era un dignitario. In quanto funzione pubblica delegata dal sovrano
l'ufficio era un'articolazione del potere centrale, ma anche uno strumento fiscale per
realizzare un prelievo su chi intendeva esercitare quella funzione; garantiva l'ascesa sociale
di chi lo deteneva. Inizialmente la venalità fu uno strumento nelle mani del sovrano per
garantire sia un'estensione della rete di ufficiali al proprio servizio sia nuove entrate nelle
casse dello Stato; successivamente divenne ostacolo alla razionalizzazione dello Stato e al
rafforzamento del legame tra ufficiali e sovrano. Nel 1604 il re di Francia Enrico IV
promulgò un editto col quale si concedeva la trasmissione degli ufficiali per via ereditaria,
previo pagamento di una tassa annua. All'inizio del Seicento si era nella fase di transizione
dalla monarchia patrimoniale e contrattuale (mosaico di poteri per l'equilibrio) alla
monarchia assoluta e burocratica (sistema di poteri con al centro il sovrano). La venalità
degli uffici era il punto di passaggio da una fase all'altra: si ha un rafforzamento numerico
dell'élite a spese della loro autonomia in quanto ceto sociale distinto dallo Stato e una parte
della nobiltà si trasforma progressivamente da ceto autonomo in corpo dello Stato
subordinato al sovrano e al sistema.
8. Giustizia e fiscalità in antico regime
La giustizia in età moderna: verso il monopolio della giurisdizione. Giurisdizione
significa in particolare due cose: a) l'esercizio del diritto di punire, b) la capacità di
imporre tributi. Quindi monopolio della giustizia e del fisco. C'è una profonda differenza
con i giorni nostri: in antico regime la giustizia era per lo più espressione di un privilegio
cetuale. Esistevano tribunali diversi in cui si esercitava giustizia diversa a seconda del ceto
di appartenenza di chi vi ricorreva e della giurisdizione di chi la esercitava (giustizia regia,
giustizia signorile, giustizia ecclesiastica). La maggior parte dei giudici locali era nominata
dal signore feudale che esercitava la giustizia sui suoi territori, tutelando i propri interessi
oltre a quelli del proprio ceto. Solo per i casi più gravi e i reati che coinvolgevano la nobiltà
si ricorreva alla giustizia regia. Esisteva una diffusa pratica di giustizia “infragiudiziaria”,
ossia di giudizi o arbitraggi emessi fuori dai tribunali, ma ritenuti validi a tutti gli effetti
dalle comunità locali. Si trattava di una giustizia “privata”: obiettivo di questa giustizia era
di riparare in termini materiali o simbolici al danno procurato alla vittima mediante
risarcimenti, promesse o compensazioni private. In alcuni casi questa giustizia finiva per
legittimare la stessa faida, ossia la rivincita di sangue. Il lento e progressivo affermarsi della
giustizia esercitata dal sovrano e dai suoi rappresentanti rappresenta uno dei tratti tipici
dello Stato moderno: l'imperium di un principe si traduce innanzitutto nell'esercizio
esclusivo della giustizia nei propri territori. Ai nostri occhi la realtà amministrativa e
giudiziaria di antico regime appare caotica. Nella Francia di antico regime i magistrati erano
per lo più officiers che avevano comprato la propria carica a titolo venale e che esercitavano
in nome del re, a livello locale, anche funzioni di polizia, di controllo dell'ordine pubblico e
di controllo sui prezzi e sui commerci. Dal basso verso l'alto si trovano le prevosture,
antiche giurisdizioni feudali e municipali; i balivati (o baliaggi) e i siniscalcati con autorità
di tribunali di prima istanza nelle città prive di Parlamento; i tribunali di presidio con
funzione di appello di prima istanza, ma per lo più costituiti dagli stessi giudici del balivato;
i parlamenti provinciali, vere e proprie Corti d'Appello di seconda istanza, composti da
magistrati esperti che vi accedevano dopo aver percorso altrove i primi gradini della
carriera; infine il Parlamento di Parigi, prima corte sovrana del Regno di Francia, con
autorità su tutti gli altri Parlamenti francesi. I Parlamenti francesi sono organi giudiziari,
ossia tribunali di seconda istanza, mentre il Parlamento inglese è un organo di
rappresentanza politico e legislativo. Il caso francese. Inizialmente sette, uno per ogni
territorio della monarchia francese, portati successivamente a quattordici, i Parlamenti erano
costituiti ciascuno da due presidenti nominati dal re e da un numero variabile di consiglieri.
Oltre alle competenze giudiziarie di tribunali di seconda istanza e di corti criminali deputate
a discutere dei reati più gravi, possedevano altre prerogative di carattere più politico: a)
facoltà di emettere sentenze regolamentari, ossia pareri giurisprudenziali relativi
all'interpretazione delle leggi vigenti, proponendo soluzioni nei casi più intricati; b) facoltà
di pronunciare giudizi in equità; c) facoltà di esercitare il diritto di registrazione, ossia che
ogni editto regio, prima di entrare in vigore, fosse prima registrato dal Parlamento. Il caso
inglese. Diversamente dalla Francia per molto tempo in Inghilterra la giustizia locale rimase
nelle mani di giudici non dipendenti dal sovrano ed eletti localmente: gli sceriffi di contea
con compiti di vigilanza, polizia e bassa giustizia, e i giudici di pace, scelti fra gli esponenti
della gentry (piccola nobiltà di contea) che esercitava funzioni giudiziarie di prima istanza a
titolo gratuito. La stessa diffusione e persistenza della Common Law, cioè del diritto
comune inglese, consuetudinario e non codificato, rimase a lungo un tratto distintivo del
sistema giuridico britannico, così come la scarsa propensione ai ricorsi in appello. I ricorsi
erano previsti e potevano essere rivolti o alle Quarter Sessions (crimini minori) o alle
Assizes (crimini gravi); le prime giudicavano in case alla Common Law, i secondi in base
alla Civil Law, ossia il diritto continentale ispirato al diritto romano. Il fatto stesso che le
corti non fossero attive tutto l'anno, ma solo in quattro occasioni, rendeva il ricorso alla
giustizia d'appello più difficile e ne scoraggiava l'esercizio. A fine Quattrocento esistevano
quattro corti centrali con competenze diverse tutte fondate sul diritto comune, ma nel
Cinquecento, sotto i Tudor, si costituì un secondo sistema di tribunali simile a quello
continentale ispirato al diritto romano. Organo supremo della giustizia regia era comunque il
Privy Council, presieduto dal re, essenzialmente fondato sulla giustizia locale. In antico
regime i sistemi penali dei paesi dell'area mediterranea seguivano la tradizione del diritto
romano-canonico, fondato sul metodo accusatorio o inquisitorio che prevedeva tre figure: a)
l'accusatore, che doveva portare in giudizio un reo, estorcerne la confessione di
colpevolezza (anche con torture) e esibire le prove della sua accusa di fronte al giudice; b)
l'accusato, al quale spettava il diritto alla difesa, ma non sempre ad avere un avvocato
difensore; c) il giudice, figura “terza” a cui spettava il giudizio finale. Nel sistema
accusatorio è invece l'imputato, presunto colpevole, a dover dimostrare e provare la propria
innocenza. I processi erano a porte chiuse e prevedevano che la corte pronunciasse la
sentenza solo dopo aver interrogato testimoni ed imputati separatamente, senza la presenza
di avvocati difensori.
La fiscalità in età moderna: verso il monopolio del prelievo. Il “fisco” (lat. fiscus, la
cesta dove si raccoglievano i contributi) in età romana si indicava la cassa privata
dell'imperatore. Agli inizi dell'età moderna il termine connotava lo Stato e in particolare un
sistema di prelievo esercitato sui sudditi ed esteso ad un intero territorio. Tra Sei e
Settecento indica tutto ciò che riguarda lo Stato nel suo complesso. Oggi è lo stato ad avere
monopolio di prelievo, mentre in antico regime i soggetti del prelievo erano diversi. In molti
casi un suddito doveva versare contributi a diversi enti, tutti egualmente autorizzati a
richiedergli contributi in denaro o in natura. Il monopolio del prelievo da parte dello Stato è
uno degli indicatori di modernità. Le forme di prelievo in antico regime erano diverse: a)
l'imposizione diretta mediante tributi e tasse ordinarie e straordinarie imposte dal sovrano
ai sudditi (più sgradita e meno diffusa); b) imposizioni indirette, ossia sui consumi, come
le imposte sul grano, sul pane, sul vino ecc, pagate da tutti in maniera uguale, i dazi, i
pedaggi e le gabelle imposti sui beni importanti, esportati o trasportati su un dato territorio;
c) vendita di beni della corona, che venivano acquistati a caro prezzo da nobili e ricchi
borghesi desiderosi di mettersi in vista; d) vendita di privilegi connessi ad uffici, cariche o
titoli nobiliari.
Fermes e appalti. Fino alla metà del Cinquecento i contributi erano oggetto di
periodica contrattazione tra il sovrano e i rappresentanti dei ceti, all'interno di organi quali i
Consigli, il Parlamento, le Diete, gli Stati Generali, le Cortes ecc. Successivamente,
aumentando le spese, i sovrani cercarono sempre più spesso gli espedienti per svincolarsi
dal controllo degli organi rappresentativi. Dovendo raccogliere denaro con urgenza,
soprattutto in caso di guerra, i sovrani stipulavano quindi dei contratti con singoli finanzieri,
o appaltatori che anticipavano loro la somma necessaria, ottenendo in cambio una serie di
concessioni quali una rendita fissa in denaro. Sapendo che difficilmente la cifra loro
prestata avrebbe potuto essere restituita, i sovrani facevano concessioni se,pre maggiori agli
appaltatori. Il prelievo fiscale veniva interamente appaltato ai privati, i quali potevano
esigere i tributi direttamente sul territorio e senza alcun controllo, incassando cifre ben
maggiori di quelle prestate. Gran parte delle risorse di metà Seicento (compresa la
rivoluzione inglese) sono qualificate come rivolte fiscali in quanto determinate
dall'aggravarsi del peso del fisco sulla popolazione e delle conseguenti reazioni popolari.
Spesso il sovrano, scaricando le responsabilità del malcontento popolare sui finanzieri e
sugli appaltatori, ne incarcerava uno. In alcuni casi era tale la dipendenza dei sovrani dal
denaro dei loro finanziatori che le principali scelte di politica interna ed estera venivano di
fatto determinate da costoro. Solo dalla seconda metà del seicento, in alcuni Stati europei, i
sovrani incominciarono a limitare il potere degli appaltatori, dapprima sottoponendoli a
controllo da parte dei funzionari statali, infine abolendo l'appalto del prelievo ai privati e
incaricando dell'esazione solo funzionari governativi.
Fisco e conflitti sociali. Questo modello fiscale suscitava opposizioni e resistenze a
tutti i livelli, ma soprattutto a livello di ceto medio, perchè erano i ceti abbienti ad essere
gravati dalla maggior parte del peso fiscale. A metà Seicento le principali monarchie
europee vennero investite da un'ondata di rivolte che trovano un tratto comune
nell'opposizione alla crescente pressione fiscale causata sia dall'aumento delle spese per il
mantenimento delle corti, sia dai costi di una lunga e devastante guerra continentale. Le
opposizioni ai governi erano accomunati dall'accusa di voler colpire i ceti borghesi e di
affamare il popolo con le tasse. Le plebi urbane furono ovunque protagoniste di episodi
insurrezionali ed i contadini si sollevarono assaltando ville e castelli, ma i ceti borghesi
tentarono di sfruttare la situazione a loro vantaggio, contrattando ulteriori privilegi con i
sovrani. Superata la crisi di metà Seicento, nella seconda metà del secolo in molti Stati
europei si incominciarono ad elaborare progetti di riforma del fisco volti ad eliminare le
peggiori storture e a razionalizzare un sistema fortemente sperequato. In Francia si pose il
dilemma fra imposizioni dirette e imposizioni indirette, in Prussia si introdusse la tassa sui
beni di largo consumo (l'accisa) che segnò l'avvio di una fiscalità sottratta ai ceti
privilegiati, ma gestita dall'amministrazione centrale.
Le riforme fiscali e i catasti. Il cardine delle riforme fiscali settecentesche è il
catasto, definibile come sistema di schedatura il più completo possibile dei beni immobili
posseduti dai contribuenti e finalizzato alla ripartizione del carico fiscale sulla base della
quota di proprietà immobiliare posseduta da ciascuno. Un catasto è in genere costituito da:
a) una serie di mappe quanto più possibile precise del territorio dello Stato con indicati i
confini e l'estensione delle singole proprietà; b) una parallela serie di registri con
l'indicazione del nome dei proprietari di ogni loro di terreno con i successivi passaggi di
proprietà dei terreni stessi e con le variazioni delle colture. I principali scopi che si
prefiggeva chi realizzava un catasto erano: a) la conoscenza precisa dei redditi reali dei
soggetti tassabili, b) l'estensione del peso delle imposte dirette sui ceti privilegiati, c) la
tassazione dei patrimoni dei ceti privilegiati, d) una tassazione più equa dei beni dei ceti non
privilegiati. Per realizzare e mantenere un catasto erano necessarie almeno quattro
condizioni: a) una forte volontà politica da parte del sovrano e degli uomini del governo a
suo servizio, b) mezzi finanziari considerevoli, c) notevoli competenze tecniche, d)
collaborazione dei soggetti tassabili. La realizzazione dei catasti veniva ostacolata dalla
resistenza dei ceti privilegiati che temevano l'aumento del peso fiscale a loro carico.

9. La guerra e gli eserciti


Dalle milizia feudali agli eserciti permanenti. Micheal Roberts ha proposto una
nuova storiografia militare: la categoria di “rivoluzione militare” diventa chiave
interpretativa per comprendere la modernità a partire dalle profonde trasformazioni in atto
nel modo di fare guerra, fra Cinque e Seicento, dopo l'invenzione della polvere da sparo.
Dal Cinque all'Ottocento, quindi nell'arco di tre secoli, si individuano sette fattori chiave di
trasformazione: 1. passaggio da eserciti temporanei ad eserciti permanenti e di grandi
dimensioni; 2. prevalere della fanteria sulla cavalleria; 3. mutamento strategico derivante
dalla necessità di retribuire, alimentare e spostare masse crescenti di uomini; 4. accresciuta
importanza del militare nella società (specialmente in rapporto con Stato e finanza); 5. ruolo
della tecnologia applicata alla guerra; 6. funzione dell'architettura militare; 7. nuovo ruolo
della marina militare. Il primo problema da affrontare nello studio della storia militare
dell'antico regime è relativo alla trasformazione degli eserciti da feudali a professionali. Fra
XV e XVI secolo la maggior parte degli eserciti europei muta la propria natura trasformando
l'esercito temporaneo (uomini reclutati per brevi periodi legati da fedeltà) in un corpo
disciplinato, gerarchicamente organizzato, in possesso di competenze professionali precise.
Allo stesso tempo assume un ruolo più rilevante la fanteria, arma non nobile. Già a metà
Quattrocento i corpi dei picchieri, per lo più reclutati nei Cantoni svizzeri, sostituiscono la
fanteria leggera in molti eserciti italiani, mentre i soldati mercenari sostituiscono le milizie
cittadine volontarie. Il modello dell'esercito interarmi, ossia composto da diversi corpi
specializzati, si afferma come soluzione più efficace. Le nuove monarchie territoriali e il
rafforzamento degli Stati impone eserciti di maggiori dimensioni e eserciti permanenti e
di mestiere. Ciò implica costi più elevati perchè i professionisti della guerra vanno
retribuiti, ma implica anche miglior garanzie che la guerra sia condotta a termine e non
interrotta per la stagione del raccolto. Machiavelli nel 1521 è autore dell'Arte della guerra,
nel quale discute l'alternativa fra milizie cittadine della tradizione repubblicana e le
compagnie mercenarie di quella signorile: era legato agli eserciti locali, perchè difendevano
il proprio territorio, ma riconosce che solo le compagnie disciplinate, ben addestrate,
tecnicamente preparate e ben pagate potrebbero rispondere alle nuove esigenze delle guerra
europee di lunga durata. La lunga stagione delle guerre d'Italia, fra 1494 e 1530, si svolge
durante la fase di transizione da una modalità bellica all'altra e ciò spiega anche il carattere
incerto dell'esito di molte campagne di guerra. Nasce in questo periodo il falconetto, un
cannone in grado di perforare qualsiasi armatura; vengono costruiti i primi alloggiamenti
per militari, antesignati delle attuali caserme; viene istituito il primo ospedale militare
stabile; si provvede per la prima volta al sostentamento dei reduci, degli invalidi, degli
orfani e delle vedove di guerra; viene predisposto il “corridoio militare” lungo la linea
Genova-Milano-Bruxelles in modo da consentire il rifornimento delle truppe. Dalla metà del
Cinquecento le guerre venivano combattute anche da navi e flotte ben equipaggiate.
L'introduzione delle armi da fuoco sulle navi e la trasformazione delle stesse avviene fra
Quattro e Cinquecento, avviando le battaglie navali condotte a distanza con armi da fuoco e
volte alla distruzione fisica della flotta nemica. Si passa da agili galere a remi a pesanti
velieri armati di cannoni. La guerra navale implicava nozioni tecniche ben più complesse e
raffinate, intrecciando logistica, fisica, matematica, balistica, geografia e meteorologia.
Dall'arma bianca alle “bocche da fuoco”. Il 1453 (presa di Costantinopoli da parte
dei turchi del sultano Mehmet II il Conquistatore) rappresenta anche una delle prime
apparizioni della “bocca di fuoco”. Il primo grande cannone della storia moderna era lungo
dieci metri, con una canna di bronzo spessa venti centimetri, sparava proiettili del peso di
seicento chili che dovevano essere sollevati da sette uomini e trasportati da un carro trainato
da trenta buoi. Sparava solo sette colpi al giorno. Il passaggio dall'arma bianca all'arma da
fuoco ha rappresentato una delle più grandi rivoluzioni nella storia dell'umanità, destinata a
mutare radicalmente il modo di fare la guerra e destinata anche a trasformare i rapporti fra i
ceti sociali. Con l'introduzione delle armi da fuoco sempre più importante diviene il ruolo
dell'artiglieria: quella pesante era affidata alla perizia tecnica di fabbri fonditori, artificieri
e periti balistici; quella leggera era affidata alla rapidità di movimento e alla precisione di
mira di fucilieri, archibugi e moschettieri addestrati al tiro a segno. Sempre più spesso
l'esito della battaglia sarà determinato dall'abilità tecnica e manuale di fabbri e fonditori,
dall'invettiva di abili artigiani protetti da muraglie o sacchi di paglia e dai lavoratori
impiegati a scavare gallerie dietro ai campo di battaglia o sotto le mura delle città assediate.
I sistemi difensivi urbani precedenti entrano in crisi. Le mura medievali merlate, alte e
sottili, adatte alla difesa da eserciti armati in maniera leggera, vengono sostituiti da bastioni
più basse e più spessi, costituiti da diversi ordini di mura ben difese dall'artiglieria pesante.
Da una difesa “in verticale” si passa a una difesa “in orizzontale”. Da metà Cinquecento gli
assedi diventano imprese lunghe e complesse i cui esiti sono per lo più decisi da singole
vittorie militari sul campo o dalla diplomazia.
Guerre e fiscalità. Fino agli inizi dell'età moderna il servizio militare pesava in
misura minima sulle finanze pubbliche in quanto si trattava di un servizio obbligatorio le cui
spese (cavallo, armatura, armi ecc) erano a carico di ciascun combattente. Le spese di
mantenimento dell'esercito e di foraggiamento del bestiame erano a carico del territorio
dove l'esercito era di stanza. È solo con la costituzione di eserciti permanenti e di mestiere
che le spese crescono in maniera esorbitante inducendo principi e sovrani o ad indebitarsi
o ad aumentare la pressione fiscale sui sudditi. Inoltre con l'invenzione delle armi da fuoco
le spese per l'armamento si moltiplicarono ed implicarono sempre più la presenza di vere e
proprie industrie belliche. Anche la costruzione di sistemi di difesa, mura e fortificazioni di
nuovo tipo, implicava competenze diverse e raffinate. Fra Quattro e Cinquecento gli Stati
preferiscono differenziare il perso fiscale fra la città capoluogo (gravata da un carico
minore) e i territori e le città suddite (carico maggiore). È nel corso del Cinquecento che il
costo degli eserciti e delle guerre si fa proibitivo. La difficoltà di retribuire i soldati provoca
diserzioni o ammutinamenti, oppure costringe i sovrani (guerra dei trent'anni) a delegare
enormi poteri militari, politici e finanziari ai cosiddetti “signori della guerra”, ossia
imprenditori militari. La macchina statale di molte potenze europee, intorno alla metà del
Seicento, incomincia ad organizzarsi in funzione di un prelievo destinato principalmente al
mantenimento di eserciti permanenti. La pressione fiscale si fa più pesante. Fra Sei e
Settecento in Francia e Prussia la nobiltà viene posta sotto lo stretto controllo della
monarchia e trasformata in uno strumento al servizio del re, riorganizzando in parallelo
forze armate e burocrazia secondo schemi gerarchici e razionali.
Vita di truppa. I soldati erano mal pagati, mal equipaggiati, reclutati per lo più a
forza e costretti a combattere in terre lontane guerre le cui finalità erano per loro quasi
sempre estranee. Ci si arruola «per sfuggire ai propri lavori, per evitare una condanna, per
vedere luoghi nuovi o per ottenere onori, […] nella speranza di avere abbastanza per vivere
e qualcosa in più per le scarpe o altre piccolezze che rendano la vita sopportabile» (Giulio
Savorgnan, generale dell'esercito di Venezia, 1572). In molti casi la professione delle armi è
stata una risorsa per le popolazioni dei territori più poveri, infatti una quota molto
consistente dei soldati dei grandi eserciti europei era reclutata all'estero. Per garantirsi
eserciti permanenti di grandi dimensioni i sovrani ricorrevano a: a) arruolamento forzato dei
poveri, delinquenti e sbandati; b) arruolamento obbligatorio (a guerra iniziata) dei
prigionieri di guerra o dei soldati dell'esercito nemico appena sconfitto. Dagli inizi del
Settecento, sopratutto nei paesi con una forte tradizione feudale, i colonnelli potevano
reclutare i soldati nei territori dei loro feudi o nell'ambito dei loro clan. I grandi eserciti
erano composti non solo da soldati, ma anche da un seguito di personale di servizio, gran
parte femminile, come cuoche, vivandiere, infermiere, sante, e un numero imprecisato di
prostitute. In molti casi i soldati si portavano appresso le mogli; è frequente infatti trovare
documentata la presenza di donne e bambini nei ranghi dell'esercito. Un esercito cinque o
seicentesco era una massa raccogliticcia abbigliata nelle fogge più diverse, senza uniforme,
ma con la sola distinzione delle armi utilizzate. È nel Settecento che vengono adottate le
uniformi dai colori sgargianti per caratterizzare ogni esercito nazionale. Un altro problema
erano gli alloggi. Prima del Settecento gli eserciti alloggiavano nelle città requisendo
palazzi, case, stalle e granai; dopo la metà del Settecento nascono le prime caserme e le
prime scuole militari di artiglieria e del genio volte soprattutto a formare quadri tecnici,
premiando il merito sulla nascita. Le truppe impiegate in azioni di guerra erano una minima
parte rispetto a quelle impegnate nelle fortificazioni, nei presidi e nelle guarnigioni sparse
sul territorio.
Guerre e paci nell'Europa moderna. Fra Cinque e Seicento la densità dei conflitti
appare particolarmente elevata. In questi due secoli si concentrano anche le guerre più
devastanti, per lo più guerre civili o a sfondo religioso. È nel Settecento che il modo di fare
la guerra cambia radicalmente: si parla infatti di guerre more geometrico per il carattere
altamente formalizzato dei confini. La guerra settecentesca è specialmente una guerra di
posizione, segnata da numerosi assedi e da pochi scontri campali che coinvolgono alcune
migliaia di soldati. La guerra coinvolge in primo luogo professionisti e si svolge quasi
sempre parallelamente e complesse trattative diplomatiche alle quali è affidato l'esito dei
conflitti.
Una proposta di periodizzazione. La rivoluzione militare si può schematizzare in:
 1450-1520: prima grande trasformazione degli eserciti europei con l'introduzione
delle armi da fuoco, declino della cavalleria pesante e la comparsa dei corpi dei
“picchieri” (mercenari svizzeri) in grado di inquadrare la fanteria e di difendere dagli
assalti della cavalleria;
 1530-1560: (età di Carlo V) grande balzo in avanti nella dimensione degli
eserciti, nell'introduzione in tutt'Europa dell'architettura bastionata “all'italiana” e
nell'inizio delle guerre d'assedio;
 1620-1650: (guerra dei trent'anni e guerra civile inglese) si affermano i grandi
eserciti permanenti di mestiere, reclutati prevalentemente all'estero, mentre gli
eserciti acquistano una maggior agilità adottando un'artiglieria più leggera;
 1672-1710: (regno di Luigi XIV) accrescimento delle dimensioni degli eserciti,
aumentano le spese militari imponendo una razionalizzazione del fisco in funzione della
guerra, si generalizza l'impegno dell'artiglieria leggera e si assiste al ritorno in auge degli
squadroni di cavalleria sempre più spesso impiegati in azioni di avanscoperta e azioni di
disturbo (famosi i Dragoni di Francia, gli Ussari o i Panduri croati);
 1792-1814: nuovo modello di esercito di popolo (truppe forse male addestrate, ma
sicuramente fortemente politicizzate ed animate da forti sentimenti nazionali) soprattutto
dopo l'ascesa al potere di Napoleone. Alla tradizionale linea di fuoco dei fucilieri viene
sostituita la colonna d'attacco che piomba sulle linee nemiche scompaginandole anche a
costo di gravi perdite.

10. Povertà, criminalità e controllo sociale


Il pauperismo. Il “pauperismo” è un fenomeno di massa, cui si assiste a partire dal
Cinquecento, che vede una grande quantità di poveri, disoccupati e vagabondi spostarsi a
ondate successive dalle campagne verso le maggiori città europee alla ricerca di lavoro e di
cibo concentrandosi nei sobborghi, all'esterno o a ridosso delle mure urbane, creando
situazioni di disagio, di miseria endemica e di delinquenza diffusa. A partire dagli inizi
dell'età moderna i pauperismo diviene una delle principali piaghe sociali causato da: a)
aumento della popolazione con conseguente pressione demografica sulle campagne le cui
risorse non bastavano a sfamare tutti; b) aumento dei prezzi (causato anche dall'afflusso di
metalli preziosi dall'America con conseguente svalutazione della moneta); c) eccesso di
manodopera determinato dall'aumento demografico e dai bassi salari; d) lenta
trasformazione dell'economia agraria in senso capitalistico con conseguente esproprio delle
terre comuni dei villaggi, esproprio dei piccoli proprietari, recinzioni delle medie e grandi
proprietà, concentrazione della proprietà nelle mani di pochi. La struttura stessa
dell'economia agraria di antico regime genera povertà: la campagna, sottoposta alla
pressione della crisi o di cattivo raccolto, espelle molto più facilmente la manodopera che si
riversa in città. La crescita demografica provoca un'espulsione di contadini dalla guerra e
la loro emigrazione in città, mentre la crisi agraria provoca la distruzione della piccola
proprietà. Il risultato strutturale è la crisi della piccola proprietà contadina e la creazione
di una massa di poveri concentrata nelle città. In città le possibilità di lavoro sono maggiori,
non vi sono stagioni e si lavora tutto l'anno, ma mancano e sono difficilmente ricomponibili
quei legami di solidarietà che in campagna assicuravano la sopravvivenza anche ai più
poveri. Il luogo di origine del pauperismo è dunque la campagna, ma lo spazio dove si
manifesta più drammaticamente è la città. I poveri non possiedono una rendita e sono
costretti a lavorare per vivere. Lo storico francese Jean Pierre Gutton ha delineato due
categorie di povertà: 1. i poveri strutturali, impossibilitati ad uscire dalla loro condizione di
povertà perchè impossibilitati a lavorare (vecchi, malati ecc); 2. poveri congiunturali,
persone spinte verso la povertà dalla crisi, ma capaci di risollevarsi nei momenti di maggior
benessere, mantenendosi però sempre in bilico al limite del livello di sussistenza. La loro
presenza era considerevole: lo storico inglese Brian Pullan ha definito come “povera” una
quota variabile fra il 75 e il 90% della popolazione di una media città europea fra Cinque e
Seicento, a sua volta divisa in una prima fascia pari al 50-70% di poveri non indigenti, una
seconda pari al 20% di poveri occasionali e una terza ed ultima fascia oscillante fra il 4 e
8& di poveri strutturali. La povertà è un concetto relativo e variabile in base alla “soglia di
povertà”. Seguendo lo schema di Pullan, in campagna si può distinguere una quota di
poveri variabile fra il 90 e il 100% della popolazione rurale, suddivisibile in una fascia di
povertà fluttuante del 20-60%, una seconda fascia di povertà ricorrente del 30-40%, una
terza fascia di povertà occasionale (o povertà della crisi) pari al 40-40% e un'ultima fascia
di povertà strutturale del 10% circa. La povertà si maschera meglio nella società rurale,
perchè in campagna il povero è comunque nella comunità e mai al margine.
Uomini senza padrone. Uomini senza padrone è il titolo del saggio dello storico
polacco Geremek del 1977. Con questo termine indica coloro che riuscivano a sopravvivere
nelle società di antico regime senza mai essere inquadrati in un'entità o in una categoria
sociale più ampia: erano marginai, vagabondi, artisti girovaghi, lavoratori saltuari, zingari. Il
termine “marginali” indica gli individui o i gruppi umani che per varie ragioni si collocano
ai margini della società; gli “emarginati” sono gli individui che vengono espulsi dalla
società o respinti ai margini. Si possono individuare diverse forme di marginalità e di
emarginazione: a) a livello economico, considerando chi non partecipa al processo
produttivo o ne viene forzatamente espulso (disoccupati e licenziati); b) a livello sociale, chi
non rispetta le regole e chi non condivide i doveri o i privilegi del gruppo di appartenenza;
c) a livello spaziale, chi viola le regole dell'habitat organizzato o non vi partecipa; d) a
livello culturale, chi non condivide i valori dominanti o prevalenti del gruppo di
appartenenza r i comportamenti universalmente accettati. Spesso i mestieri più umili e
infamanti erano riservati proprio ai forestieri. La condizione di “marginale” viene attribuita
dai poteri dominanti a chi non rispetta le regole sociali e i valori condivisi dalla
maggioranza. La marginalità può verificarsi in caso di assenza di certi legami che la società
ritiene normali (famiglia, professione, credo religioso, società), o in caso di rifiuto
consapevole. Dalla marginalità è facile cadere nell'emarginazione. La diffidenza nei
confronti dei forestieri o di chi apparteneva ad una minoranza etnica o religiosa generava
sentimenti xenofobi. Il vagabondaggio rappresentava la marginalità per eccellenza, perchè il
vagabondo è sia “uomo senza padrone” che viaggiatore senza itinerario, non partecipa o
rifiuta di partecipare ai legami sociali e pertanto va punito anche se non danneggia alcuno.
Il povero: da “immagine di Cristo” a delinquente potenziale. Fino alla fine del
Quattrocento vi era l'idea che i poveri fossero la “immagine di Cristo sofferente” e per
questo andassero aiutati, in quanto significava in qualche modo farsi perdonare per atri
peccati e riscattarsi agli occhi di Dio e della società. Facendo la carità il nobile acquisiva
consensi e rafforzava la sua posizione di preminenza sociale, creandosi una rete di fedeli
debitori, pronti a servirlo all'occorrenza. Nella prima metà del Cinquecento si passa dalla
carità alla beneficenza e assistenza al povero, visto ora come ozioso e potenzialmente
pericoloso. Al singolo è richiesta la carità, dalle organizzazioni politiche e religiose è
concessa una beneficenza (viene raccolto il contributo da destinare ai poveri); dalla fine del
Settecento e poi con i movimenti sociali dell'Ottocento inoltrato l'assistenza diventa un
diritto del cittadino. A cambiare l'immagine del povere è stato un susseguirsi di fattori,
decisivo il pauperismo, agli inizi del Cinquecento, come fenomeno di massa non più
controllabile sul piano sociale. Sul piano dottrinale ha inciso la riforma protestante, con il
principio affermato da Lutero della “giustificazione per sola fede” (perdono gratuito da
parte di Dio) e non attraverso le opere. Nell'Europa cattolica il mutamento non è così
radicale, ma certamente i poveri perdono la posizione che avevano conquistato nella dottrina
della Chiesa. La mendicità viene bandita in gran parte d'Europa e in molti casi la carità
individuale viene vietata, lasciando agli enti benefici istituiti in ogni città il compito di
provvedere ai poveri. In questo contesto prende piede la prassi di distinguere fra veri e falsi
poveri. La distinzione fra il povero locale e quello forestiero derivava in molti casi dalle
licenze di mendicità: al povero veniva rilasciato un attestato di povertà e il certificato di
battesimo da portare all'ufficio dei poveri, cosicché gli fosse concessa una licenza di
mendicità data solo a chi fosse nato nella giurisdizione in cui operava l'ufficio. Al forestiero
era negato qualunque aiuto. Gli “oziosi” venivano isolati. Sia per Voltaire che per l'abate
Genovesi la povertà era una colpa di chi non sa uscire dal proprio stato di ozio e di
ignoranza, mentre il lavoro viene assunto come valore etico capace di riscattare dalla
miseria e di condurre ad un discreto successo economico. Lo storico inglese Edward Paul
Thompson nota come negli gli ultimi due decenni del Settecento e gli anni trenta
dell'Ottocento nasce e si sviluppa una nuova classe sociale, dalle origini assai composite e
tuttavia dotata di coscienza di classe, ossia un grippo di uomini che sentono ed esprimono
un'identità di interessi; stanno nascendo le classi lavoratrici.
Le istituzioni per i poveri: assistere e recludere. Nel corso dell'età moderna si assiste
a diverse e successive ondate migratorie dalle campagne alle città. La più significativa si
colloca tra 1523 e 1529 in corrispondenza di una crisi agraria e della prima fase delle guerre
di religione. La massa di contadini in cerca di lavoro e sostentamento provoca
provvedimenti quasi ovunque per il respingimento dei forestieri. Nel 1522 a Norimberga
viene per la prima volta deliberata la centralizzazione dell'assistenza dei poveri, seguito da
Strasburgo, mentre i provvedimenti adottati nel 1525 nelle Fiandre spagnole (oggi Belgio)
diventano modello: divieto assoluto di mendicità, organizzazione pubblica dell'assistenza,
istituzione di case di lavoro con fondi comuni. Nel 1526 viene pubblicato il trattato
Sull'assistenza ai poveri dell'umanista spagnolo Juan Luis Vives nel quale si sostiene la
necessità di assistenza organizzata e disciplinata, senza tralasciare la repressione dei
fenomeni criminali generati dal pauperismo. La laicizzazione dell'assistenza è un tratto
comune sia ai paesi cattolici che a quelli protestanti. Una seconda ondata pauperistica si
verifica negli anni ottanta del Cinquecento a seguito di una serie di annate cattive: le città
rispondono discriminando i poveri, dando assistenza a quelli del contado e respingendo i
forestieri; in molti casi vengono rinchiusi i poveri in lazzaretti. Nell'Italia settentrionale, a
metà secolo, vengono fondi istituti assistenziali grazie ai fondi di privati cittadini e
confraternite, luoghi non solo di ricovero e contenimento, ma anche di lavoro e un centro
economico di primaria importanza. Gli ospedali dei poveri, spesso gestiti da ordini religiosi,
godevano spesso di esenzioni fiscali e ricevevano molte donazioni; gli ospedali divennero
anche istituti di credito, concedendo piccoli presti e a volte concedendo doti per aiutare le
ricoverate a sposarsi. Nell'Inghilterra di Elisabetta I nascono le prime Houses of Correction
destinate a rinchiudere vagabondi e assistere i poveri, poi trasformate in Workhouses (nel
Seicento assumono il carattere di fabbriche di lavoro forzato). Anche in Germania e Francia
nascono case con poteri di giurisdizione, repressione, controllo e assistenza su tutti i poveri.
Lo storico e filosofo francese Michel Foucault nel suo Sorvegliare e punire (1975) ha
richiamato l'attenzione al caso francese cosiddetto “grande internamento” di metà Seicento,
ossia sull'imponente operazione di concentrazione e segregazione dei poveri all'interno di
istituti e case di lavoro ad essi appositamente destinati. L'internamento segnala tangibile il
fatto che la comunità rifiuta e respinge questi individui “oziosi”: tramite il lavoro coatto le
cosiddette “classi pericolose” potranno trasformarsi in “classi laboriose”.
Criminalità e marginalità. Lo studio della criminalità è recente nella ricerca storica.
La storica Nicole Castan, studiando i registri della polizia francese del 1758-89 ha suddiviso
in tre gruppi chi risulta “senza fissa dimora” (23-42%), i “recidivi” (15—22%) e gli
individui “al primo reato” (43-60%). La maggior parte degli imputati inoltre dichiarava di
avere un mestiere, solo il 26% non lo dichiarava. Si trattava principalmente di “marginali”,
più che di veri e propri delinquenti abituali. La concezione di criminalità era ben diversa nel
passato. Nel 1729 a Londra la parola crimine non compare, mentre il solo elemento di
differenziazione tra fellonie e trasgressione è dato dalla pena prevista: nel primo caso la
morte, nel secondo un'ammenda o una pena corporale (la maggior parte dei reati implicava
castighi corporali, non la detenzione, e moltissimi la pena di morte). La pena era concepita
come punizione e non come correzione, e la legge presupponeva la diseguaglianza di
trattamento a seconda del ceto sociale o gruppo di appartenenza. L'85% dei reati di antico
regime erano furti e aggressioni. Va fatta una distinzione tra criminalità rurale e criminalità
urbana. La criminalità rurale, centrata su furto e aggressione, era dominata da piccoli reati
come furti, costellata da episodi di brutalità domestica, segnata da una ricorrente violenza
pubblica. Rare, ma sanguinose, sono le esplosioni di violenza collettiva. Il crimine rurale è
per lo più spontaneo, individuale e dettato da bisogno o ira. La criminalità rurale è
intraclassista, ossia esercitata all'interno della stessa classe sociale (poveri). Il
brigantaggio è a sé stante: è quella particolare forma di criminalità, diffusa in ambiente
rurale, ma lontano dalle comunità agricole, quindi esercitata in territori di confine e lungo le
principali vie di comunicazione. I briganti si organizzavano in gruppi per derubare
viaggiatori isolati, carrozze e carri, lasciando feriti e in certi casi morti. La criminalità
urbana è diversa, perchè la città genera più facilmente il crimine in quanto concentra
maggior popolazione in spazi più ristretti, vi è un minor controllo sociale, maggiori e più
evidenti differenze sociali con una compresenza di ceti e redditi molto diversi. Anche in
questo caso domina il furto, ma compiuto da “professionali” bande di ladri e borseggiatori,
bande di scassinatori e bande di assassini. Gli episodi di violenza sono più diffusi e vanno
dalla violenza domestica, alla rissa, alla rapina. Gli episodi di rivolta urbana sono meno
frequenti che in campagna e più facilmente repressi. Il crimine è per lo più premeditato e
interclassista, in genere da esponenti di ceti inferiori ai danni di quelli superiori. Fra XVI e
XVIII secolo vi è un graduale declino dei reati contro la persona a favore dei reati contro la
proprietà, oltre che l'affermazione del cosiddetto “ordine dei proprietari”, ossia di un sistema
giuridico fondato sulla difesa della proprietà privata più che sulla difesa degli altri diritti del
cittadino. La lotta contro l'illegalismo diffuso crea le condizioni per una giustizia più
efficiente. Parallelamente la civiltà giuridica dei Lumi, dopo la pubblicazione nei 1762 del
trattato Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, parla solo di correzione, non di
punizione verso il delinquente.

11. La dimensione religiosa


Religione e vita quotidiana. La vita quotidiana degli uomini in antico regime è
segnata dalla dimensione religiosa, segnata da precarietà dell'esistenza e paura della
morte e delle pene dell'inferno. Credere nel soprannaturale è anche un modo per dare un
senso all'inspiegabile, riti e preghiere danno speranza agli uomini di evitare il peggio. In
questa società fortemente gerarchizzata pochi si rivolgevano all'Altissimo, i più preferivano
figure di mediazione come la Vergine Maria o i santi. La gerarchia celeste prevedeva che ci
si rivolgesse, con un'offerta, in primo luogo al santo locale e al suo santuario, quindi ad un
santo di rango superiore. Solo in rari casi e per questioni più gravi ci si rivolgeva a Gesù, e
solo i sacerdoti a Dio Padre. Il culto mariano (di Maria) era negato da Lutero e dai
protestanti, mentre era molto diffuso nell'Europa cattolica, particolarmente fra le donne. La
percezione stessa del tempo in antico regime era fortemente segnata dall'elemento religioso,
oltre che dai ritmi stagionali e agricoli. Spesso i ceti più bassi non conoscevano il calendario
(in uso corrente dal Cinquecento), ma conoscevano il calendario liturgico. Era netta la
distinzione fra giorni di lavoro e giorni di festa, sempre ricordati per il rito che vi si
svolgeva. La festa più importante era la Pasqua nella quale il vescovo o un suo delegato
compivano il giro delle visite pastorali nelle parrocchie della diocesi. Ogni credente doveva
confessarsi almeno una volta all'anno per la Pasqua e la comunione pasquale veniva
annotata dal parroco perchè chi non la prendeva era immediatamente sospettato di essere un
miscredente, o un peccatore con la coscienza sporca.
Battesimo, matrimoni, sepolture. Nella vita di un credente a ciascuna tappa della vita
corrisponde un sacramento: battesimo, comunione, matrimonio, estrema unzione. La
parrocchia è il luogo della celebrazione di questi riti collettivi e di conservazione della loro
memoria scritta (archivi parrocchiali). Il battesimo era l'atto che consentiva di iscrivere
alla comunità un suo nuovo componente. Era dunque un atto civile oltre che religioso, da
cui dipendeva l'identità di ciascuno e lo stesso ordine sociale della piccola comunità. La
scelta dei padrini era di estrema importanza perchè determinava alleanza familiari o rapporti
di protezione (come il patronato che esercitavano alcuni nobili nei confronti dei figli dei
propri sottoposti). La prima comunione rappresentava l'ingresso nella comunità dei fedeli,
mentre le successive comunioni la “sanzione dello stato di pace, tra gruppi e individui”
(storico Angelo Torre”). La confessione a sua volta rappresentava la pacificazione con i
propri nemici e la richiesta di perdono a Dio tramite la Chiesa. Solo a partire dal Concilio di
Trento il matrimonio diventa sacramento fondamentale, in quanto rappresenta un patto di
alleanza tra due famiglie per crearne una nuova. Fino alla metà del Cinquecento il
matrimonio era un atto eminentemente civile, celebrato di fronte al notaio o al giudice, e
il più delle volte i due sposi non si conoscevano. In molti casi il matrimonio sanciva una
pace fra due famiglie rivali che in questo modo dichiaravano la loro alleanza ed unione di
fronte alla comunità. L'estrema unzione è un sacramento che ricevono solo coloro i quali
spirano nel loro letto con i conforti della religione. Solo in alcuni casi si può avere una
degna sepoltura. La parrocchia è tenuta a segnare tutti i defunti nel loro territorio, siano essi
parrocchiani o meno.
Parroci e parrocchie. La parrocchia nella società di antico regime è il luogo fisico in
cui vengono scandite le pause dal lavoro, ma soprattutto luogo dove vengono vissuti i tre
momenti chiave della vita, ossia battesimo, matrimonio e sepoltura. Il parroco svolge sia
funzioni religiose che civili. Nel mondo rurale il parroco rappresenta il principale e in molti
casi l'unico mediatore fra la società contadini e il complesso ed articolato sistema dei poteri
di cui la Chiesa è parte, mettendolo in contatto, per lo più indiretto, con vescovi, cardinali e
lo stesso pontefice. Il parroco è innanzitutto l'amministratore dei sacramenti e della
liturgia, ma anche confessore e quindi potenzialmente al corrente di tutti i segreti dei
parrocchiani; è mediatore dei conflitti familiari e sociali; è ufficiale di stato civile, in alcuni
casi anche notaio, maestro di scuola, musicista o maestro di canto, agente di prestito, e
quindi organizzatore della vita sociale della piccola comunità. È in molti casi l'unica
persona istruita e alfabetizzata del villaggio. Il Concilio di Trento definisce per la prima
volta in maniera inequivocabile i doveri del parroco e avvia una grande operazione di
riforma e disciplinamento del clero imponendo un nuovo modello ideale di sacerdote,
residente nella parrocchia e impegnato nella cura d'anime, preparato, obbediente e
disciplinato. Il parroco avrebbe dovuto trasformarsi nell'agente principale di un
disciplinamento del mondo cattolico; il suo era ruolo di mediatore in virtù della sua
preparazione professionale e della sua rinnovata capacità di rapportarsi con i poteri e con
la cultura alta. Il controllo sui parroci e sulla vita delle parrocchie si esercita attraverso
periodiche visite pastorali, cui ogni vescovo era tenuto nella sua diocesi, che rappresentava
il momento culminante della propria vita comunitaria, in occasione del quale veniva stesa
una relazione, venivano mostrati archivi, fornite al vescovo informazioni di ogni tipo. La
grande diffusione dei manuali per confessioni ci fornisce da un lato un'idea del modello di
comportamento del buon cristiano, ma dall'altro ci informa anche sulla natura dei peccati e
del loro mutare nel corpo del tempo (componente sessuale via via predominante).
La Chiesa come carriera. Fino alla metà del Quattrocento la Chiesa si era retta più
sui Concili, ossia l'assemblea generale dei vescovi, che sull'autorità del Papa. Nella seconda
metà del secolo, invece, l'autorità del papa si andrà via via rafforzando, facendone infine il
vero e proprio sovrano assoluto di uno Stato e di un territorio. Tra Quattro e Cinquecento i
papi regnanti si dedicano infatti soprattutto a riordinare le finanze pontificie, a contrastare la
feudalità minore dell'Italia centrale e a schiacciare l'autonomia di signorie territoriali. Fino
al Concilio di Trento s poteva essere vescovi non titolati, ossia godere delle rendite di una
o più diocesi senza avere cura d'anime, senza essere ordinati vescovi e addirittura senza
essere sacerdoti. Infatti la maggior parte dei cardinali della prima metà del Cinquecento
avevano ottenuto il titolo giovanissimi, per ragioni politiche e familiari, in molti casi senza
neppure essere ordinati sacerdoti. Il papato rinascimentale era definito a ragione dai suoi
avversari come nepotista e corrotto carriera ecclesiastica era una carriera come un'altra,
riservata in primo luogo agli esponenti delle principali famiglie nobili romane, ma anche ai
figli cadetti delle principali dinastie signori italiane e ad alcuni intelligenti e abili figli di
famiglie di provincia. I più potenti cardinali erano uomini di governo e d'affari, molto
lontani dalla spiritualità; in molti casi gli alti prelati provenivano dai tribunati ecclesiastici,
dove si erano esercitati nella lotta al dissenso religioso e alla repressione degli atteggiamenti
non conformisti. I legami famigliari restavano fortissimi e oltre il 20% dei magistrati
pontefici erano legati tra loro da vincoli di parentele. Chi proveniva da una potente famiglia,
o era legato da rapporti di parentela con papi e cardinali, spesso raggiungeva i vertici molto
rapidamente e in giovane età. In molti casi le cariche e i benefici erano ereditari. La carriera
ecclesiastica consentiva di controllare ingenti patrimoni e di determinare la successione a
decine di enti, abbazie, conventi, oltre a numerosi benefici ecclesiastici. I prelati, nel
ristretto numero, erano tutti appartenenti alle maggiori famiglie cittadine. Era decisivo poter
essere nominato vescovo. In alcune diocesi italiane si creavano dinastie vescovili che si
tramandano la carica da zio a nipote. Un ruolo delicatissimo era quello dei presidenti dei
tribunali vescovili, dai quali dipendevano non solo le vertenze relative al clero o alle
questioni religiose, ma anche le cause ereditarie e quelle matrimoniali (oggi di pertinenza
dei tribunali civili).
Differenze religiose. L'Europa cristiana non si identifica con l'Europa cattolica. Già
divisa dal 1054 fra Chiesa cattolica di rito latino e Chiesa ortodossa di rito greco, l'Europa
cristiana si spacca ulteriormente con la crisi religiosa del Cinquecento, ponendo fine
definitivamente all'unità del mondo cristiano e aprendo una lunga stagione di sanguinosi
conflitti a sfondo religioso, contemporaneamente la cacciata degli ebrei e dei musulmani
dalla Spagna nel 1492 sancisce la frattura con le minoranze religiose non cristiane. La
lunga stagione delle intolleranze introduce concetti come “minoranze religiose”,
“eterodossi”, “eretici” o “infedeli”. Nell'Europa cattolica le minoranze protestanti sono
duramente perseguitate. Solo in Francia, dopo una lunga e sanguinosa stagione di guerre di
religione, la monarchia accetta l'esistenza di due confessioni religiose e stabilisce il
principio della tolleranza religiosa, garantendo il privilegio di “religione di Stato” alla
Chiesa cattolica, ma garantendo il diritto di culto alla minoranza protestante, pur con alcune
restrizioni. Nell'Europa protestante invece le minoranze cattoliche vengono per lo più
tollerate. Gli ebrei, perseguitati ed espulsi dalla Spagna e dal Portogallo, sono rinchiusi nei
ghetti, sottoposti a regole molto rigide e controllati dalla polizia in Italia, Polonia e in alcune
città della Germania. I musulmani, presenti in Spagna fin dal medioevo, sono costretti alla
conversione o espulsi. Le condizioni delle minoranze religiose cambiano da luogo a luogo e
nel corso del tempo. Dal Settecento gli spazi di tolleranza si faranno sempre più ampi. Il
protestantesimo ha favorito la modernità rispetto al cattolicesimo che per secoli si era
opposto ai grandi mutamenti intellettuali, sociali e strutturali avviati in età moderna. Il
mondo protestante ha consentito, dalla metà del Cinquecento, la formazione di un universo
mentale dominato dalla soggettività e dal senso di responsabilità, un'immagine di minor
separatezza e di maggior integrazione nel mondo. Il senso di peccato è presente, ma
rappresenta un problema soggettivo del credente, risolubile solo nel rapporto intimo con
Dio, non con la Chiesa. La confessione auricolare non esiste e i peccati sono confessati
direttamente a Dio senza la mediazione di un sacerdote. Non esiste il culto dei santi né il
culto mariano, né prevede un'iconografia ricca. Le Chiese protestanti sono infatti povere e
in nessun caso sono strutture di potere. C'è una separazione del potere politico da quello
ecclesiastico. La “laicità”, intesa come neutralità delle istituzioni politiche e civili nei
confronti della dimensione ecclesiastica e religiosa, ha matrice protestante. La Riforma
avviata nel 1517 da Lutero parte dall'idea del carattere ineliminabile del peccato e
dell'impossibilità dell'uomo di liberarsene se non affidandosi completamente a Dio.
La diaspora ebraica. Dagli inizi del Cinquecento l'Europa deve affrontare, oltre alla
profonda crisi religiosa del mondo cristiano, anche con la fine della lunga stagione di
relative tolleranze. La cacciata degli ebrei dalla penisola iberica nel 1492 segna l'inizio della
stagione di intolleranza nei confronti degli ebrei che toccherà l'apice nel Novecento con la
promulgazione delle leggi razziali e la Shoah. L'antisemitismo ha dato degli ebrei le vittime
preferite di ogni persecuzione. Bisogna distinguere le due grandi famiglie del mondo
ebraico: i Sefarditi e gli Askenaziti. I Sefarditi sono gli ebrei occidentali e più antichi, gli
Askenaziti sono gli ebrei dell'Europa centro-orientale e discendenti delle comunità ebraiche
medievali. Un gruppo a parte sono gli “Ebrei del Sultano”, per lo più Sefarditi. Al momento
dell'espulsione dalla penisola iberica, gli ebrei costituivano il 1,5% della popolazione; più
della metà di questi accettarono di convertirsi al cristianesimo, prendendo il nome di “nuovi
cristiani”, continuando a praticare in segreto i propri culti. Al momento dell'espulsione Il
sultano turno Bayezid invitò sulle coste spagnole una piccola frotta marocchina al comando
di Kemal rais per portare in salvo quanti più ebrei possibili, concedendo loro la possibilità di
stabilirsi nei territori dell'Impero ottomano senza pagare tasse per 15 anni. In tutto l'Impero
ottomano gli ebrei sono tollerati e accettati e spesso svolgono compiti amministrativi o di
rilievo. Godono libertà di culto, di movimento, possono esercitare qualsiasi mestiere e
acquistare proprietà. Unico obbligo è quello di pagare forti tasse a garanzia della protezione
e portare un segno distintivo. Non gli è permesso sposarsi con musulmani, costruire
sinagoghe superiori a una certa altezza, portare armi e montare a cavallo. In Spagna i “nuovi
cristiani”, inizialmente accolti, vengono ben presto emarginati e perseguitati per ragioni
razziali più che religiose incorrendo in nuove ondate di persecuzioni che colpiscono chi non
dimostra di avere sangue cristiano da almeno quattro generazioni. Una colossale migrazione
di ebrei sefarditi si verifica dai primi anni del Cinquecento verso alcune città portuali come
Tunisi e Alessandra d'Egitto. Fra Quattro e Cinquecento l'Italia accoglie molti ebrei
provenienti sia dalla Spagna che dalla Germania, accrescendo le comunità ebraiche italiane.
In seguito alle guerre di religione e alle successive ondate di persecuzioni, alcune migliaia di
ebrei tedeschi emigrano fra Cinquecento e Seicento nella più tollerante Polonia e Lituania,
mentre alcuni si spingono fino in Ucraina e Russia. Sulla spinta della diaspora si formano
in Europa molte comunità ebraiche, di cui le più grandi sono quelle polacche.
Convertiti, rinnegati e “cristiani di Allah”. Nella storia d'Europa e del mondo
mediterraneo molti passarono da una religione all'altra attraversando, anche più di una
volta, frontiere confessionali e di civiltà: è il caso dei cristiani convertiti negli anni della
crisi religiosa del Cinquecento, nati e formatisi all'interno della fede cattolica e
successivamente passati al protestantesi. Si convertono, ma restano sempre legati ad un
mondo e ad un sistema di valori propri della fede originaria. I “cristiani di Allah”, che tra
Cinque e Seicento erano la maggior parte dei comandanti delle navi corsare del
Mediterraneo, erano in origine marinai cristiani italiani catturati dai corsari barbareschi e
successivamente convertiti all'Islam; uomini di mare coraggiosi e spietati quindi, ma che
avevano origini umilissime e che avevano trovato nella società ottomana una possibilità di
riscatto che mai l'Occidente cristiano avrebbe offerto loro. L'Islam si rivela per molti un
veicolo di ascesa sociale. Nessun'altra società europea dell'epoca consentiva infatti carriere
così folgoranti a chi non era nato nobile e tanto meno a chi proveniva da un'altra fede
religiosa. I giovani cristiani che accettavano di convertirsi all'Islam dopo aver servito per
qualche tempo come schiavi dei turchi, potevano sperare davvero in un futuro migliore.
Condannati dall'inquisizione per aver abbandonato la fede cristiana, in molti casi questi
uomini morivano in carcere, ma in altri, sfuggiti dalla condanna o liberi dopo una
detenzione, riprendevano il mare per far ritorno al mondo islamico.

12. Figure e spazi della cultura


Tra la fine dei Sei e la metà del Settecento si incomincia a far riferimento agli uomini di
cultura impiegando termini come “dotti” e “letterati”. L'idea di una “Repubblica delle
lettere” (formulata fra i primi da Erasmo da Rotterdam) intesa come comunità intellettuale
capace di superare le frontiere geografiche, politiche e confessionali, nasce nel Cinquecento,
ma si afferma pienamente solo nel Settecento come un più ampio e pacifico spazio dei dotti
all'interno del quale lo scambio di idee viene veicolato da lettere, libri, viaggi in un'Europa
ancora attraversata da divisioni e conflitti. I principali luoghi di elaborazione della cultura di
antico regime sono anzitutto la Chiesa e le corti, ma anche le accademie e biblioteche, in
un'epoca in cui, dopo l'invenzione della stampa a caratteri mobili, il libro si trasforma in un
prodotto alla portata di un pubblico più numeroso, consentendo una più ampia circolazione
delle idee.
Ecclesiastici e cortigiani. Per tutto il medioevo e ancora a lungo fra Cinque e
Seicento, l'intellettuale per eccellenza è l'ecclesiastico, il solo ad aver un'istruzione
superiore, che conosce il latino e talvolta i greco, e ad avere accesso ai libri delle grandi
biblioteche monastiche o diocesane. Il XVI, con la diffusione della stampa e la frattura del
mondo cristiano, rappresenta il primo momento di crisi dell'intellettuale-ecclesiastico. La
possibilità di produrre e far circolare i libri all'esterno di una ristretta élite e soprattutto fuori
dal controllo della Chiesa costituisce una sfida e una minaccia per la cultura ecclesiastica:
costituisce la fine di una Chiesa intesa come custode dell'interpretazione delle Sacre
Scritture, costringendo gli ecclesiastici a ridefinire il proprio ruolo, anche all'interno del
mondo cattolico. La Controriforma darà l'avvio ad una poderosa opera di riconquista delle
posizioni perdute dalla Chiesa cattolica ed avrà dei nuovi intellettuali-ecclesiastici. Bisogna
distinguere fra gli ecclesiastici il clero regolare, ossia i frati e i monaci sottoposti ad una
regola e inquadrati negli Ordini religiosi, per lo più legati alla vita conventuale, dal clero
secolare, ossia i preti attivi, fruitori di benefici ecclesiastici, ma non pastori di anime, e gli
altri prelati impegnati nell'amministrazione della Chiesa e dei suoi patrimoni. Fra Quattro e
Cinquecento l'alt clero rappresentò uno dei settori più colti dell'élite, letterati stimati e
innovatori di cultura e costume. Dalla metà del Cinquecento la cultura sarebbe stata dotata
invece dai potenti Gesuiti, in grado di monopolizzare la formazione dei ceti dirigenti di tutta
l'Europa cattolica con i loro collegi; e dagli altri Ordini “colti” della Controriforma, come i
Barnabiti e gli Scolopi, entrambi impiegati nell'istruzione; i Teatini, i Filippini e i
Fatebenefratelli erano invece impiegati nell'assistenza, nella cura e nella direzione degli
ospedali. Il clero secolare avrebbe mantenuto un profilo più basso, dedito a letture devote e
in molti casi impegnato nell'istruzione dei figli dei ceti popolari. Solo tra Sei e Settecento il
clero secolare acquista maggiore autonomi dedicandosi più liberamente allo studio e alla
lettura e in alcuni casi avvicinandosi anche a testi proibiti. L'abate secolare era impegnato
come precettore o come segretario presso una famiglia aristocratica, oppure era in grado di
vivere di rendita grazie ad un beneficio ecclesiastico, frequentatore di salotti e lettore, poeta
o scrittore dilettante. Gli ecclesiastici di alto rango erano esponenti di nobili famiglie,
destinati a diventare monsignori, vescovi, cardinali. Fra Quattro e Cinquecento il cortigiano
era al servizio di principi laici ed ecclesiastici dai quali otteneva generose pensioni per
svolgere le attività a corte, dalla quale poteva essere cacciato se la sua opera non si inseriva
in un coerente progetto di esaltazione del principe e delle sue virtù; erano “intellettuali”
fortemente condizionati dalla volontà del signore. Punto di connessione fra la famiglia del
signore e il suo Stato, luogo sia fisico che simbolico era la corte rinascimentale. La corte
non era solo luogo di rappresentazione e di esercizio del potere, ma anche uno strumento di
organizzazione del consenso. L'arte e la cultura sono da un lato un modo per legare al
principe gli artisti e tutto il pubblico delle opere d'arte, e dall'altro un veicolo di propaganda,
di glorificazione e di esaltazione del sovrano e della sua dinastia.
Accademie e biblioteche. Le Accademie nascono fra Quattro e Cinquecento come
luogo autonomo della ricerca per iniziativa di piccoli gruppi di letterati, filosofi e scienziati
per lo più sotto la protezione di nobili mecenati, e si affermano nel Seicento come spazio
privilegiato della sperimentazione scientifica. Organizzate secondo una precisa gerarchia,
dotate di statuti e distinte da un motto e da un'impresa (stemma), le accademie si sarebbero
presto differenziate connotandosi a seconda degli interessi che ciascuna coltivava. Le
accademie sono libere aggregazioni di eguali e luoghi di confronto e di discussione. A
segnare il clima della nuova stagione sono le accademie scientifiche più che quelle
letterarie o musicali. Nel corso del Settecento si ha una progressiva trasformazione delle
antiche accademie in istituzioni più formalizzate, sostenute e finanziate dallo stato e
investite di compiti di pratica unità, o con la fondazione di nuove accademie statali col
ruolo di spazio aperto alle istanze della ricerca scientifica. Nacquero così nelle principali
capitali europee nuove accademie, promosse direttamente dai sovrani con il compito di fare
ricerca nei diversi campi del sapere. Le nuove accademie erano istituzionalmente divise in
due classi: una di antiquaria, lettere e filosofia, e una di fisica, matematica, scienze naturali
e medicina. A partire dalla fine dei Seicento, ma soprattutto negli anni centrali del
Settecento, le pubblicazioni periodiche delle accademie diventano uno dei principali veicoli
di comunicazione scientifica. Tra Sei e Settecento nacquero anche laboratori, giardini
botanici, osservatori astronomici e biblioteche pubbliche (che fino a quel momento non
esistevano). Solo con la Riforma protestante molte grandi biblioteche ecclesiastiche si
trasformarono in biblioteche laiche, passando sotto la giurisdizione delle università o dele
accademie. Le biblioteche universitarie si diffusero nel corso del Settecento, affidate alle
cure dei professori, o di bibliotecari eruditi. Questa professione nacque solo allora come
quella di uomo di cultura e non “custode”: da lui dipendeva la fisionomia che la biblioteca
avrebbe assunto (quali autori privilegiare, quali opere, quali collezioni). Tramonta l'illusione
di fare della biblioteca il deposito universale del sapere, passando all'impresa di
caratterizzare la biblioteca per la sua natura (religiosa, filosofica ecc). La biblioteca si
trasformò in spazio pubblico di scambio di informazioni e di produzione di cultura.
La stampa e l'editoria. L'invenzione della stampa nella metà del Quattrocento diede
inizio a una rivoluzione culturale per la maggior possibilità di diffondere il sapere, il minor
costo di produzione del libro, la sua più facile riproducibilità, la circolazione delle idee
attraverso libri a stampa, la rapida affermazione di un'industria editoriale in grado di dar vita
a centinaia di uomini (autori compresi). Ciò comporta la possibilità di avere delle edizioni
“accertate” e di produrre a basso costo manuali di vario tipo. La capitale culturale
dell'editoria europea del Cinquecento fu Venezia, con la figura di Aldo Manuzio (1450-
1515), il maestro di scuola umanista che trasformò il libro di grandi dimensioni in un agile
volumetto tascabile in ottavo, composto con caratteri nitidi ed eleganti, alla portata di un
pubblico più ampio. La diffusione della stampa implicò anche la nascita di nuovi mestieri e
la trasformazione di antichi mestieri (scribi) in nuovi (copisti). Emerge nel mondo
dell'artigianato la categoria dei tipografi come un sorta di élite alfabetizzata e spesso
discretamente acculturata. Le botteghe degli stampatori in molti casi erano veri e propri
centri di cultura frequentati da autori e lettori. Il libro veniva seguito dall'autore durante la
composizione e la stampa e le note venivano spesso aggiunte all'ultimo momento, con la
collaborazione di un ampio gruppo di amici, quando una parte dei fogli erano già stampati.
All'inizio si stampavano prevalentemente testi in latino di autori antichi o testi religiosi,
successivamente arrivò la stagione dei libri in volgare e infine dei libri popolari.
L'intelligenza dello stampatore stava nel sapersi rivolgere a nuove e più estese categorie di
pubblico. I primi libri a stampa erano caratterizzati da: a) un grande rilievo alla dedica, b)
l'assenza o almeno lo scarso rilievo del nome d'autore, mentre è il titolo, spesso lungo, a
dominare la pagine. Solo nel tardo Cinquecento il nome d'autore si afferma come
componente del frontespizio. In assenza di “diritti di autore” qualunque stampatore poteva
stampare le opere di chiunque. È solo con l'introduzione della privativa che si incomincia
ad affermare la proprietà letteraria dell'autore e del suo diritto di essere pagato in base alle
copie vendute, ossia il diritto d'autore. Sulla base di questa legge gli autori potevano
bloccare la diffusione delle copie; a questa norma la Corporazione degli editori rispose
astutamente chiedendo agli autore la cessione dei diritti sulle opere in cambio di un
compenso immediato. La “rivoluzione inavvertita” riguardò solo una ristretta minoranza
della popolazione, mentre la stragrande maggioranza degli uomini di antico regime non ne
fu toccata. La lettura inoltre non era individuale, ma collettiva. Il possesso di un libro era
considerato un elemento di distinzione sociale. Le autorità politiche e religiose si resero
conto di quanto potesse essere potenzialmente pericoloso un libro e la diffusione delle idee.
La Chiesa cattolica innanzitutto, ma anche le autorità laiche intervennero per disciplinare la
stampa imponendo che ogni testo dovesse avere l'autorizzazione preventiva da parte
dell'autorità ecclesiastica. La censura prevedeva non solo il divieto di stampare, ma anche
di diffondere e possedere libri non autorizzati. Nel 1559 venne pubblicato a Roma il primo
ed ufficiale Indice dei libri proibiti, ossia il catalogo di tutte le opere che la Chiesa cattolica
vietava di stampare, diffondere e possedere. Nel 1571 papa Pio V istituì la Congregazione
dell'Indice per aggiornare l'Indice. Tra Cinque e Settecento quasi tutte le più importanti
opere dell'ingegno umano finirono all'Indice.
La circolazione delle idee. Fra cultura alta e cultura bassa si trova un intreccio di
“credenze” e superstizioni condivise. Lo stesso Rinascimento è frutto di un'interazione
continua fra cultura alta e cultura bassa. Chi studia la circolazione delle idee in età moderna
deve tener conto di movimenti fra l'alto e il basso e nello spazio e nel tempo. Con
l'invenzione della stampa e con il progressivo miglioramento delle vie di comunicazione la
circolazione delle idee si fa via via più intensa. Le idee si propagano attraverso gli uomini
che se ne fanno portatori, ma anche attraverso le pagine dei libri che se ne fanno veicolo. La
propaganda religiosa e quella politica saranno un tratto essenziale della cultura barocca. Nel
Settecento la progressiva laicizzazione della cultura, unita a una più facile circolazione della
parola scritta, consentirà alle diverse espressioni dell'Illuminismo di penetrare non solo fra
le élite, ma fra gli strati intermedi della popolazione. Tra la fine del Sei e l'inizio del
Settecento comparvero in Europa numerosi periodici eruditi o scientifici che
rappresentarono i primi veicoli di comunicazione e internazionalizzazione dei saperi e delle
scoperte scientifiche. Le gazzette di notizie si diffondono affianco ai giornali eruditi,
inizialmente politiche e commerciali, poi via via più complete. Il più celebre periodico
italiano dell'età dei lumi è il “Caffè”, omonimo del luogo di scambio e di socializzazione
per eccellenza.

13. Educazione e istruzione


Leggere, scrivere, far di conto. Le società di antico regime erano domate
dall'analfabetismo. Attorno al 1680-1700 oltre i 4/5 dei sudditi francesi erano analfabeti.
L'oralità dominava sulla scrittura, ma la comunicazione era fatta anche di immagini,
simboli, emblemi, il cui significato oggi stentiamo a comprendere. La molteplicità dei
linguaggi e dei diversi codici espressivi, fra cui la gestualità, era presente nella società
stratificata, certamente analfabeta, ma non incapace di comunicare anche in maniera
complessa. Leggere, scrivere e far di conto erano tre abilità che costituivano il punto
d'incontro di percorsi formativi fra loro separati. Spesso si apprendeva a leggere in famiglia,
in viaggio, durante l'apprendistato in bottega, lavorando sotto padrone o nel servizio
militare. Gli uomini del medioevo leggevano ad alta voce o comunque pronunciando le
parole nel momento della lettura, e così fino a metà Cinquecento. Ugualmente la scuola
medievale e l'università fino alle soglie dell'età moderna incoraggiavano una lettura
intensiva dei testi, ritornando più volte sulle stesse pagine o righe e approfondendo via via il
significato più profondo (esegesi) dei concetti espressi. La lettura intensiva favoriva
l'apprendimento mnemonico ed ogni studente universitario ricordava a memoria intere
pagine della Bibbia. Si riteneva che imparare a memoria un testo facesse bene alla salute.
Solo con il Settecento con l'enciclopedismo e con la diffusione della stampa periodica
incomincia ad affermarsi una lettura estensiva, che si basa sulla capacità di scorrere,
sfogliare, consultare più testi di cui si trattiene l'essenziale, è una lettura selettiva o parziale
finalizzata a domande o ad interessi precisi. Si diffonde la pratica dell'annotazione o
dell'appunto non più solo, secondo la tradizione medievale delle glosse, a margine della
pagina, ma su taccuini o fogli riuniti a seconda della necessità.
Alunni e insegnanti. In antico regime le scuole erano presenti soprattutto nelle città.
Solo nel Settecento una parte della popolazione rurale accede all'istruzione di base. Nella
maggior parte dei villaggi della Francia, Germania e Inghilterra furono istituite scuole
elementari a classe unica dove si poteva imparare a leggere e scrivere. Altra cosa erano le
scuole di dottrina cristiana, gestite dalle congregazioni religiose con la finalità di formare
“fedeli sudditi e buoni cristiani”. I maestri di villaggio erano per lo più preti o parroci, ma
dalla seconda metà del Settecento cominciano ad avere una formazione professionale
specifica. In Austria, Lombardia, Francia e buona parte degli Stati tedeschi si chiedeva loro
un diploma di abilitazione e il loro reclutamento iniziò ad essere effettuato mediante corsi
pubblici. All'istruzione elementare, non obbligatoria, accedevano per lo più in città i figli di
artigiani e commercianti oltre che figli della piccola e media borghesia; in campagna i figli
di artigiani di villaggio e dei piccoli e medi proprietari terrieri, pochissimi figli di contadini.
L'apprendimento era essenzialmente mnemonico e le lezioni si svolgevano in una stanza
annessa alla parrocchia o in un retrobottega. Nelle suole latine, per lo più annesse ad una
chiesa e riservate ai figli dell'élite, si apprendeva a leggere e scrivere in latino e in volgare, a
cantare e a fare esercizi di aritmetica. Chi ne usciva poteva iscriversi all'università. Nelle
scuole tedesche, frequentate per lo più dai figli del ceto medio mercantile, si imparava a
leggere a leggere e far di conto, qualche volta a scrivere, perchè destinati ad entrare nelle
botteghe artigiane o nei commerci. Gli studenti più grandi godevano di privilegi, tra cui
viaggiare. Per frequentare gli studenti dovevano pagare una tassa corrispondente al costo di
vitto e alloggio presso il maestro, e in qualche caso potevano godere di borsa di studio.
L'apprendimento della lingua era fonetico e avveniva attraverso la lettura e ripetizione dei
testi. La lingua d base della cultura era quasi sempre il latino, le lingue volgari erano
concepite come strumentali. Lettura e scrittura erano apprendimenti separati e indipendenti.
Le regole grammaticali venivano apprese a memoria. Non esistevano libri di testo, solo il
maestro possedeva alcuni libri. Con la stampa nascono i manuali per scuola. Le punizioni
corporali erano all'ordine del giorno.
Collegi e università. L'istruzione dei figli dei ceti elevati non era affidata alla scuola,
ma a precettori privati alle dipendenze delle famiglie. Solo dalla seconda metà del
Cinquecento l'istruzione dei ceti elevati cominci a svolgersi all'interno dei apposite
istituzioni, i collegi, antenati degli odierni licei. Il modello più celebre è quello della
Compagnia di Gesù: in pochi anni i Gesuiti istituirono collegi di istruzione superiore in
quasi tutte le città più importanti (245 nel 1600) e definirono un articolato programma di
studi che nel 1599 sarà codificato nella ratio studiorum (tre classi di grammatica, una di
umane lettere, una di retorica e due di filosofia), fondata su una solida formazione
umanistica, ma aperta a discipline quali la musica, il canto, la danza e il teatro. Con questo
grande modello per la prima volta nella storia si realizza un dettagliato programma di studi
allo scopo di formare nella maniera più omogenea possibile i futuri esponenti dei ceti
dirigenti dell'Europa cattolico. Essenziale nell'educazione gesuitica era il senso della
disciplina e dell'obbedienza all'autorità. Durante i sette anni di studio e di internato nei
collegi, i ragazzi venivano allontanati dalle famiglie e inseriti in una comunità separata e
disciplinata, destinata a formare il carattere e a proteggerli dalle influenze negative presenti
nella società esterna. Le scuole di villaggio si affermarono solo nel Settecento e i collegi
d'istruzione superiore nel Cinquecento. Le università invece avevano un'origine più antica,
erano una realtà estremamente elitaria ed erano in numero assai ridotto ed ubicate solo in
alcune città. Fino alla fine del Cinquecento erano tre le Facoltà: Teologia, Giurisprudenza
e Medicina. Fra Sei e Settecento in molte sedi venne creato anche il Magistero delle Arti,
destinato a formare insegnati e basato sull'insegnamento di filosofia, scienze matematiche e
fisiche, latino e retorica. Le più antiche università erano sottoposte all'autorità religiosa e
solo debolmente controllate dallo stato (almeno fino a metà Cinquecento). All'inizio del
Seicento i centri universitari europei si erano moltiplicati e differenziati ed erano quasi un
centinaio. Nei paesi protestanti alle università venne quasi sempre attribuito il ricchissimo e
prezioso patrimonio libraio. In Italia le Università di Napoli e Torino si affermarono fra Sei
e Settecento. Gli studenti e i dottori laureati avevano un ruolo molto importanti ed erano i
veri custodi delle università degli studi. Le singole Facoltà erano governate dai Collegi dei
dottori che selezionavano e nominavano i docenti, presiedevano agli esami di laurea e
percepivano le sportule (tasse) per gli esami e le lauree. Il rettore era eletto dagli studenti
anziani. Gli studenti o le loro famiglie retribuivano direttamente, per lo più in natura, i
docenti che si preoccupavano di alloggiare in casa propria e mantenere gli studenti iscritti ai
loro corsi. Le lezioni si tenevano o nelle case dei docenti o nei locali dell'università e
prevedevano: a) la dettatura dei trattati in latino, b) il commento, c) l'apprendimento e la
ripetizione mnemonica, d) nel caso delle discipline mediche il teatro anatomico o
chimico, e) nel caso di discipline teologiche, filosofiche e giuridiche le dispute fra studenti
e maestri sul passo d'autore. Al docente si affiancava spesso il ripetitore, incaricato di far
ripetere a memoria i testi agli studenti fino all'apprendimento. Momento conclusivo del
percorso era la dissertazione finale, ossia la prova che consentiva di riconoscere la validità
dell'apprendimento. Il candidato si presentava di fronte al Collegio dei dottori che gli
ponevano uno o più quesiti; si apriva la discussione nel corso della quale il candidato era
tenuto a rispondere in latino; conclusa la discussione il candidato, se accettato, veniva
proclamato dottore. Solo col Settecento si passa alla dissertazione scritta: si chiedeva una
tesi da svolgere per iscritto in un tempo determinato lasciando lo studente libero di
consultare i libri della biblioteca; la dissertazione era presentata all'esame del Collegio dei
dottori il quale convocava il candidato per opporgli le proprie opinioni; se il candidato
riusciva a tener testa alle confutazioni del controrelatore veniva proclamato dottore.
L'insegnamento universitario di antico regime si caratterizzava per autoritarismo,
conservatorismo, scarsa innovazione didattica e scientifica. Almeno fino alla metà del
Settecento le università non erano centri di ricerca, ma luoghi di trasmissione del sapere
consolidato. La ricerca scientifica innovativa o il dibattito filosofico si svolgevano nelle
accademie, che però non erano luoghi di apprendimento. Il sistema universitario europeo
iniziò a trasformarsi dalla metà del Seicento: introduzione di nuove discipline, poi nascita di
nuove Facoltà (Chirurgia, Farmacia, Veterinaria, Architettura, Ingegneria) nel quadro di una
maggior differenziazione e specializzazione dei saperi. Con la fine del Seicento l'equilibrio
dei saperi si spostò verso i saperi pratici e “utili”. Nella seconda metà del secolo nacquero
società agrarie e accademie di agricoltura volte soprattutto alla sperimentazione di nuove
tecniche e alla risoluzione di problemi pratici. Dalla seconda metà del cinquecento si prese
in considerazione la formazione del clero, che per tutto l'antico regime ha rappresentato il
ceto istruito per eccellenza, con l'apertura di seminari. Questo rappresentò un'occasione per
la creazione di un nuovo ceto ecclesiastico colto o quantomeno istruito. I seminari dovevano
inculcare la disciplina, l'obbedienza, il rifiuto di qualsiasi eterodossia, oltre a fornire le basi
dottrinari, storiche e giuridiche utili allo svolgimento del ministero ecclesiastico.
Il latino. La lingua latina fu la lingua franca dell'Europa medievale e moderna,
veicolo privilegiato di comunicazione delle élite del vecchio mondo, ma soprattutto “una
morale, una religione, un sistema sociale, una regola di vita, un galateo “ (Adriano
Prosperi). Milioni di persone, senza aver mai studiato il latino e comprendendone
pochissime parole, continuarono per secoli a cantare e pregare in quella lingua
semisconosciuta, ripetendo formule, appropriandosene poco a poco e trasformandole in un
veicolo di espressione diverso ed originale. Fino a metà Settecento gli studenti europeo
imparavano a leggere prima in latino e poi in volgare; solo attorno al 1750 nei collegi dei
Gesuiti le lingue volgari vennero introdotte come materia complementare. Una lingua
comune significava, inevitabilmente, uno stile comune, comuni letture ed una vasta
circolazione di canoni e modelli. La conoscenza dei classici latini faceva parte del bagaglio
culturale di tutti gli uomini colti d'Europa. Fino alla fine del Settecento la nobiltà polacca si
esprimeva in latino piuttosto che in polacco per distinguersi dal popolo. La Riforma
protestante rappresentò, dal punto di vista linguistico, una retrocessione del latino da lingua
della Chiesa a lingua di cultura. Il Concilio di Trento impose il latino come unica lingua
della Chiesa e della liturgia cattolica, in base al principio che non era affatto necessario che
il popolo comprendesse le parole della messa, ma era sufficiente che le comprendesse il
sacerdote. Nel corso del Settecento tuttavia anche nella lingua liturgica cattolica si
introdusse qualche variante: es in Dalmazia e in Moravia la messa veniva celebrata in
latino, ma nei giorni di festa si cantavano l'Epistola e il Vangelo nelle lingue locali.

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