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I PENSIERI – LA CONDIZIONE DELL’UOMO

Una parte consistente della riflessione filosofica di Pascal si concentra sull’essere umano e sulla sua
condizione, un problema sempre aperto e discusso dalla filosofia di ogni tempo, a cui il francese offre
spunti originali e sottili nei suoi Pensieri. Anzi, si potrebbe dire, l’indagine dell’uomo costituisce il
cuore pulsante di tutta la sua speculazione: «Bisogna conoscer sé stessi: quand’anche ciò non servisse
a trovare il vero, servirà almeno a regolare la nostra vita, e non v’è cosa più giusta». Fa infatti orrore
al filosofo chi non si interroga riguardo al proprio posto nell’esistenza.
L’approccio atipico adottato da Pascal si esplicita anche nella fervente critica che egli avanza ai
filosofi, che nel corso della storia hanno fornito alla questione spiegazioni, dimostrazioni e soluzioni,
a sua detta, inconcludenti, insoddisfacenti e fallaci: egli infatti riteneva che la filosofia abbia sempre
oscillato tra due estremi, ovvero tra la celebrazione della grandezza dell’uomo e la constatazione della
sua assoluta miseria, e che invece l’uomo, per sua stessa natura, sia caratterizzato da una condizione
di coesistenza di questi due estremi, e cioè da uno stato di medietà.
Pascal riconosce come l’uomo si trovi esattamente a metà tra due infiniti, il nulla (come le parti
infinitamente piccole del cosmo) e il tutto (ad esempio la grandezza sterminata dell’universo), per lui
ugualmente irraggiungibili e impenetrabili: «Cos’è l’uomo nella natura? Un nulla in riguardo
all’infinito, un tutto in riguardo al nulla: un che di mezzo fra nulla e tutto. Infinitamente lontano dal
comprendere gli estremi, per lui il fine e il principio delle cose sono invincibilmente nascosti in un
segreto impenetrabile […]». Gli estremi di questi due infiniti, per Pascal, dunque, si “toccano”,
risultando pertanto entrambi inconoscibili, in quanto entrambi equidistanti dal punto medio in cui
l’uomo si trova, sebbene l’esperienza sensibile suggerirebbe che l’infinità in grandezza sia più
distante di quella in piccolezza, in quanto quest’ultima è percepita dall’uomo come sensibilmente più
raggiungibile, in quanto a lui inferiore in dimensioni. L’inettitudine dell’uomo è causata anche dalla
durata della sua vita, infima se paragonata all’eternità, che gli permette di vedere il mondo “di
sfuggita”, senza concedergli di conoscere principio e fine delle cose. Inoltre questo stato è
riscontrabile in tutti gli ambiti dell’esistenza umana: «Quando si legge troppo in fretta o troppo
adagio, non si capisce niente […] La natura ci ha posti così bene nel mezzo, che se noi muoviamo un
braccio della bilancia, muoviamo anche l’altro». L’uomo, si potrebbe concludere, è per Pascal in
uno stato di medietà riconducibile a ogni aspetto della sua esistenza, senza essere appagato da esso,
aspirando a di più, ma riconoscendo la sua incapacità di raggiungerlo, perennemente oscillante tra
grandezza e miseria.
Ma in cosa consistono, per Pascal, la miseria e la grandezza dell’essere umano? Egli dedica un
consistente numero di pensieri nel delineare i tratti dell’una e dell’altra: «La grandezza dell’uomo è
grande in quanto egli si conosce miserabile. Un albero non si conosce miserabile. È dunque un esser
miserabili il conoscersi miserabili; ma è un esser grande il conoscere che si è miserabili. Le stesse
sue miserie provano la sua grandezza […]». La grandezza dell’uomo risiede, per Pascal, in quella
che è la facoltà a lui propria solamente, vale a dire il pensiero, che gli consente di avere
consapevolezza di sé stesso e di sé stesso in quanto misero, e che gli permette di elevarsi e torreggiare
sugli altri esseri dell’universo, e sulla natura stessa. Dice infatti: «Non c’è bisogno che l’universo
intero s’armi per schiacciarlo [l’uomo]. Un vapore, una goccia d’acqua, basta ad ucciderlo. Ma se
pure l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe ancora più nobile di ciò che l’uccide, perché egli sa
che muore; e del vantaggio che l’universo ha su di lui, l’universo non sa nulla. Tutta la nostra dignità
consiste dunque nel pensiero […]». D’altra parte, Pascal riconosce i limiti che la ragione umana
possiede, venendo essa talvolta impiegata male, e cioè non per l’indagine su sé stessi e sulla propria
condizione, ma in altre attività che da questa indagine ci distolgono, e rappresentando essa sì una via
per conoscere il vero, ma non portandoci né a una conoscenza assoluta, a cui siamo preclusi in virtù
della nostra stessa condizione, né a possedere in noi stessi alcuna verità “o sicura o appagante”.
La miseria dell’uomo, come già detto, risiede invece in quel senso di costante inappagamento e di
insoddisfazione, cioè nel suo stato debole e mortale, nella consapevolezza di una mancanza. Questa
mancanza è spiegata da Pascal con la dottrina cristiana del peccato originale: l’uomo in principio
viveva in uno stato di beatitudine e di immortalità, che avrebbe perso poiché i primi due esseri umani,
Adamo ed Eva, avrebbero disobbedito al volere di Dio. Per questa ragione, Pascal paragona l’uomo
a un re decaduto, che rimpiange qualcosa che era e che non è più: «Chi infatti si crederebbe
disgraziato di non essere re, se non un re spodestato? […]». Pascal critica l’atteggiamento assunto
dalla maggior parte degli uomini di fronte alla loro condizione di miseria: piuttosto che indagare nella
propria interiorità, l’uomo cerca di sfuggire le domande più profonde riguardo la propria esistenza
adottando un atteggiamento che egli definisce divertissement, ovvero “stordimento”, cioè un insieme
di attività e di distrazioni che servono all’uomo per fargli dimenticare la propria condizione di miseria.
Pascal afferma come anche il più maestoso dei re, se si trovasse da solo in contemplazione di tutti i
propri averi, senza faccende che lo occupino de cortigiani che lo distraggano, avvertirebbe il suo stato
di miseria: «Che altro è esser sovrintendente, cancelliere, primo presidente, se non essere in una
condizione che permetta di avere, fin dal mattino, gran numero di persone, venute da ogni donde,
per non lasciar loro un’ora in tutta la giornata, in cui possan pensare a sé stessi? […]». La felicità,
fine ultimo della vita umana, non risiede nelle attività che costituiscono il divertissement: esse
servono soltanto a distogliere l’uomo dal pensiero della propria miseria, che causa in lui inquietudine,
angoscia e tristezza (che Pascal chiama noia): «Condizione dell’uomo: incostanza, noia,
inquietudine». Pascal fa l’esempio dei giocatori e degli scommettitori: essi non giocherebbero per
mero utilitarismo e guadagno, quanto per distrarsi dal proprio stato giocando. Per Pascal, il
divertimento non può rappresentare autentica felicità per il semplice fatto che esso è un frivolo
stimolo proveniente dall’esterno, e in quanto tale si presenta soggetto a “mille accidenti che rendono
le afflizioni inevitabili”. Anzi, esso, proprio perché allontana dall’uomo la noia, la quale potrebbe
rappresentare un impulso, un punto di partenza dal quale possa prendere le mosse una riflessione sulla
propria condizione, è per il filosofo “la più grande delle nostre miserie”. Inoltre, i piaceri offerti dal
divertimento sono vani e fugaci: ogni qualvolta l’uomo giunge a uno di questi piaceri, nascono nuovi
desideri, dettati dalla nuova situazione appena conseguita. Dunque, in sostanza, l’uomo, non avendo
potuto trovare alcun rimedio alla propria afflizione, avrebbe trovato consolazione nel non pensarvi
affatto, annegando la propria noia, e, per estensione, l’indagine su sé stesso nei turbolenti e frenetici
accadimenti della quotidianità, e trascorrendo immerso in essi tutto il corso della propria vita. Pascal
sostiene che la tanto anelata felicità gli uomini la ricerchino nel posto sbagliato, ovvero nel mondo
esterno, piuttosto che dentro di sé, nella propria anima, ovvero in Dio, in cui, a sua detta,
effettivamente risiede.
In conclusione, l’uomo dipinto da Pascal versa in una condizione di medietà gnoseologica e
ontologica, in aperta contraddizione con quella che è l’attitudine naturale umana, ovvero quella di
aspirare a di più, senza tuttavia riuscire a percorrere nessun passo importante verso ambedue gli
infiniti, il nulla e il tutto, che rimangono, nell’orizzonte umano, impenetrabili e lontanissimi, come
qualcosa che non è dato conoscere.
Ho trovato convincente e coerente il ritratto dipinto da Pascal dell’essere umano, in cui esiste questo
paradosso di grandezza-miseria: è, d’altronde, uno spettacolo a cui, a mio parere, possiamo assistere
quotidianamente. Al di là delle conclusioni che Pascal ne trae, suggerendo una soluzione dalla forte
componente religiosa, con cui si può concordare o meno, trovo importante l’esortazione di fondo
della sua riflessione, che consiste, sostanzialmente, nello scavare più a fondo in noi stessi e nella
nostra interiorità, presupposto dal quale non può prescindere alcuna indagine in qualsiasi campo e
ambito della vita. Una maggiore conoscenza di sé stessi è fondamentale per rapportarsi col mondo
esterno, e annegare ogni domanda concernente tale aspetto è un atteggiamento sbagliato e dannoso.
Inoltre, nella lettura dei Pensieri, ho trovato interessante l’atteggiamento inusuale assunto da Pascal
nei confronti del resto della filosofia, che, dal suo punto di vista, si è sempre persa in discussioni
troppo vaghe e inconcludenti. Emblematico, in tal senso, è questo pensiero: «La maggior parte degli
uomini mettono il loro bene nella ricchezza e in tutti i beni esteriori, o almeno, nei divertimenti. I
filosofi han mostrato la vanità di queste cose e l’hanno messo dove han potuto. Per i filosofi,
duecentottanta beni supremi».

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