Sei sulla pagina 1di 6

Filosofia

CARTESIO
Cartesio nasce in Francia nel 1596 e muore nel 1650. Ereditò dal padre un
titolo nobiliare che lo inseriva nell’aristocrazia francese.
Questa sua posizione gli diede il privilegio di non arruolarsi quando scoppiò la
Guerra dei Trent’anni, bensì viaggiò e studiò in tutta l’Europa.
Decise di ritirarsi in Olanda per coltivare il libero pensiero e tra il 1630 e il
1632, scriverà un trattato fisico chiamato: Trattato sulla Luce.
Nel 1633 però ci sarà il processo di Galileo Galilei e quindi deciderà di non
pubblicarlo.
Nel 1637 pubblicherà una delle sue opere più importanti chiamata Discorso
sul Metodo.
Nel 1649, dopo lunghi corteggiamenti, Cartesio accetterà di andare a vivere
nel castello della regina Cristina di Svezia.
Purtroppo arriverà col freddo, si ammalerà e morirà l’anno successivo all'età di
54 anni.

Cartesio scrisse il Trattato sulla Luce in prima persona, prendendo spunto da


Sant’Agostino e Mantegna.

All’inizio dell’opera dice che la scuola e l’università gli hanno dato soltanto
delle nozioni ma non un metodo per distinguere il vero dal falso.
Cartesio ricorrerà alla matematica, creando così la base del razionalismo
moderno

Il metodo proposto da Cartesio avrebbe consentito di giungere a una


conoscenza certa: il mondo, secondo il filosofo, è infatti conoscibile e bisogna
solo capire quale metodo sia efficace a questo scopo.
I quattro fondamenti, o regole, del metodo furono illustrati nel Discorso sul
metodo (1637):
evidenza (non considerare vera una cosa a meno che non ti sembri tale con
piena evidenza, cioè senza il minimo dubbio),
analisi (dividi ogni problema complesso in parti più piccole e semplici),
sintesi (organizza i pensieri con ordine, procedendo dagli oggetti più semplici
a quelli più complessi),
enumerazione (fai la rassegna dei passaggi dimostrativi per controllare di non
aver dimenticato o sbagliato nulla).

Il percorso che conduce alla conoscenza inizia col dubbio, cioè col rifiuto di
tutte le conoscenze che sono tramandate per abitudine e tradizione: è
necessario, dunque, dubitare su tutto e considerare provvisoriamente come
falso tutto ciò su cui il dubbio è possibile.
Tuttavia, tutte le conoscenze devono essere sottoposte a dubbio: non solo le
conoscenze sensibili (perché i sensi ci possono ingannare e perché nel sonno si
hanno impressioni simili a quelle della veglia), ma anche le conoscenze
matematiche, perché esse potrebbero essere state create da un genio maligno
che si pone l’obiettivo di ingannarci. Il dubbio così si estende ogni cosa e
diventa universale, trasformandosi in un dubbio iperbolico.
Tuttavia, nel momento in cui stiamo dubitando stiamo, certamente, anche
pensando: se dubito, esisto in quanto entità spirituale che pensa e, quindi,
sono un essere pensante. Da questa affermazione, Cartesio fa derivare una
delle sue frasi più famose: Cogito, ergo sum, cioè «penso (dubito), e quindi
sono (esisto)».

C’è un’altra idea che avvertiamo come innata, l’idea di Dio come essere eterno,
infinito, perfetto, onnipotente e creatore. Questa idea non può essere stata
prodotta dall’essere umano, che è limitato e imperfetto: per questo motivo,
l’idea chiara e distinta di infinito è innata nell’uomo e deve avere la sua origine
in un essere infinito e perfetto (Dio appunto), che l’ha messa in noi.
Cartesio è dunque sicuro dell’esistenza di Dio, come è sicuro dell’esistenza di
un io pensante: ma poiché Dio è perfetto, è anche buono, e quindi non può
ingannare l’uomo, né può esistere un genio maligno. Questa riflessione porta il
filosofo ad affermare che il criterio delle idee chiare e distinte e l’esistenza di
un mondo esterno conoscibile dall’uomo si sostengono su una garanzia offerta
da Dio. Se la nostra ragione identifica qualcosa in modo chiaro e distinto,
questo qualcosa esiste perché Dio, nella sua perfezione, ci ha dato
un’infallibile capacità di distinguere il vero dal falso. In altre parole, tutto ciò
che ci appare chiaro ed evidente deve essere vero, perché Dio lo garantisce
come tale.

PASCAL
Blaise Pascal nasce a Clermont Ferrand nel 1623. Pascal anche a causa della
sua salute estremamente cagionevole, decide di seguire le indicazioni dei
medici e abbandonare le attività intellettuali per dedicarsi allo “svago”.
Inizia, dunque, quella che viene definita la sua “fase mondana”, terminata solo
quando, nella “notte di fuoco” del 1654, il filosofo viene colpito da una
profonda illuminazione religiosa che lo porta a dedicarsi completamente a Dio
e alla fede.
Diventa fondamentale la sua adesione al movimento giansenista di
Port-Royal, a cui si unisce, battendosi in sua difesa.

Mentre infuria la polemica contro i giansenisti, Pascal lavora alla scrittura


della Apologia del cristianesimo che diventerà il suo più grande capolavoro.
L’opera, però, rimase incompiuta in quanto, a soli trentanove anni, Pascal
perde la vita a causa di un tumore addominale. I frammenti del suo lavoro
sono stati raccolti dai suoi amici di Port-Royal e pubblicati postumi con il
titolo di Pensieri.
Secondo Pascal le uniche domande veramente importanti che l’uomo dovrebbe
porsi sono gli interrogativi intorno a se stesso: spiegarsi, conoscersi, provare a
cogliere il senso della propria esistenza.
Scrive infatti il filosofo: “Non so chi mi abbia messo al mondo, né che cosa sia il
mondo, né che cosa io stesso. Sono in un’ignoranza spaventosa”.
L’unica cosa che risulta chiara agli occhi di Pascal è che l’uomo non è altro che
un misto di miseria e grandezza.
Ma in cosa consiste questa duplice condizione umana?

Il pensiero, innanzitutto, è ciò che definisce l’umanità e la eleva: Pascal


paragona gli individui a dei deboli fuscelli, dei giunchi, in balia del vento e
sempre sul punto di essere spazzati dal vento.
Ma, la grandezza dell’uomo consiste nella sua stessa
consapevolezza di morire, che lo renderà sempre superiore a qualsiasi forza
inanimata che lo uccide.
L’uomo è un essere mediano, un “mostro incomprensibile” perché è:

- Al tempo stesso un essere finito, limitato, vulnerabile, un niente rispetto alla


grandezza del cosmo, ma al tempo stesso è immensamente superiore alle “cose
piccole” (ad un piccolo verme ad esempio)

- È assetato continuamente di conoscenza, riesce a cogliere alcune verità, ma


mai ad afferrare completamente il perché delle cose

- Insegue continuamente la felicità e la sua soddisfazione ma non arriva mai a


raggiungere un benessere duraturo.

La caratteristica dell’uomo è l’essere straziato e lacerato dal desiderio di


grandezza e la sua realtà misera di insufficienza e frustrazione, l’ondeggiare
perennemente tra il volere e il non riuscire mai.
Secondo Pascal: “gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria,
l’ignoranza, hanno creduto meglio, per essere felici, di non pensarci”.

Ma in che modo l’uomo ha cercato di evadere dalla sua miseria semplicemente non
pensandoci?

Gli individui hanno creduto di trovare una soluzione nel divertissement,


ovvero nella “distrazione”, nelle mille occupazioni. Così, pur di non incorrere
in una stasi che ci avvilupperebbe immediatamente in un vortice di pensieri
dolorosi su noi stessi, ricerchiamo le guerre, il denaro, ci buttiamo a capofitto
nel lavoro, ci creiamo una miriade di futili hobby e obiettivi da raggiungere.
L’uomo distoglie in questo modo l’attenzione da se stesso, dalla sua
condizione.
Quello che per Pascal risulta essere il vero paradosso è che il divertissement
non ci conduce realmente alla felicità e ogni meta raggiunta non risulta essere
altro che un piacere temporaneo. Lo “stordimento” attraverso mille impegni,
infatti, è ricercato solo per se stesso e i nostri pensieri, lungi dall’essere rivolti
al presente, sono sempre e continuamente proiettati verso il raggiungimento,
in un futuro sempre più lontano, di un appagamento duraturo. “Così”, sostiene
Pascal, “non viviamo mai, ma speriamo di vivere, e, preparandoci sempre ad essere
felici, è inevitabile che non siamo mai tali”.

Anche la filosofia, nonostante si sia posta da sempre degli interrogativi sul


senso dell’esistenza, non è riuscita tuttavia ad offrire all’uomo delle risposte
soddisfacenti. Le “colonne d’Ercole” della disciplina risiedono nella finitezza
stessa dell’uomo e della sua ragione.
Così, la filosofia, secondo Pascal ha fallito quando:

- ha voluto pronunciarsi intorno alla condizione dell’uomo, innalzandolo


o abbassandolo troppo e annullando, in questo modo, la sua duplice
natura di essere misero e, al tempo stesso, grandioso;
- ha cercato di spiegare razionalmente l’esistenza di Dio;

- ha creduto di poter razionalmente fondare i “principi etici” (il bene, il


male, la gustizia, ecc).

Se, dunque, la filosofia non è riuscita a spiegare efficacemente l’uomo a se


stesso, ha tuttavia il merito fondamentale di avergli fatto avvertire tutta la sua
miseria e la sua insufficienza, spingendolo a cercare le sue risposte altrove.

Pascal dunque dice che possiamo provare a trovare risposte nella


Metafilosofia. Ovvero la religione cristiana che possiede qualcosa che né la
scienza, né la filosofia possiedono, ovvero: una risposta.
Questa risposta la troviamo nel concetto di Eden.
L’uomo cerca l’infinito perché l’ha vissuto. L’uomo nasce triste perché in lui
giace il ricordo di Adamo ed Eva nell’Eden. L’unico modo per trovare una
risposta alle nostre domande e affidarsi alla fede e per farlo abbiamo due
strade:
- leggere le sacre scritture, andare sempre a messa e dunque abituarsi alla
fede.
- Bisogna scommettere sull’esistenza di Dio. Pur avendo fede non avremo
mai la certezza che Dio esiste perciò dobbiamo scommettere sulla sua
esistenza e vivere da bravi cristiani.

Se alla mia morte la mia anima si troverà davanti a Dio, la scommessa sarà
vinta, altrimenti avrò comunque vissuto in maniera positiva portando del
buono nel mondo.

Potrebbero piacerti anche