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FILOSOFIA DEL DIRITTO

PERCORSI ERMENEUTICI

Introduzione: Una delle tesi che piu hanno influenzato gli studi filosofici delle ultime generazioni è quella
che pensa la filo del diritto come filo:la filo del diritto o è filo o non lo è. Alcuni di essi hanno inteso come
carattere stesso della filo la capacità di svelare la realtà del giuridico quale si manifesta una volta superata
sia l’arbitraria accidentalità,sia l’adeguazione ad un superiore modello ideale,collocando cosi il diritto
nell’esistenza e chiarendo i motivi per cui senza la comprensione dell’essere uomo non si renderà mai piena
ragione della realtà e del senso del diritto. In base a cio si puo evitare sia l’iper materialità di un diritto
identificato nella forma-formata e contingente,sia l’idealità pura che rintraccia le ragioni del suo dover
essere nelle varia visioni che ciascuno ne puo dare. Rivendicare l’essere filosofia per la filo del diritto e il suo
dover messere del diritto,potrebbe apparire un’inutile banalità,ma serve a capire quanto il diritto sia
presente nella vita quotidiana e serve anche ad assumere una posizione circa il rapporto che la filo del
diritto mantiene con la filo e con la scienza giuridica. La filo del diritto parte dalla ricerca di senso circa temi
e problemi quali la norma,l’obbligatorietà ecc.:quindi la filo del diritto non è un sapere incapace di acquisire
lo statuto della scienza giuridica. Tuttavia si differenzia dalla scienza giuridica perché l’approccio ai temi è
volto ad una chiarificazione del fenomeno giuridico complessivo. Quindi la filo del diritto da un lato si trova
in rapporto di differenza e contiguità con la scienza giuridica che è insostituibile modalità di ricerca sul
diritto ma non bastevole a una comprensione dell’insieme del diritto nella vita umana;dall’altro si trova in
rapporto di differenza e contiguità con la filo generale della quale è prospettiva di indagine e riflessione su
quel ruolo che il diritto mantiene nei confronti della vita umana. La vitalità del diritto è specifica tematica di
filo del diritto perché è pensabile solo nell’ottica di un’attenta conurbazione tra ius conditum e ius
condendum:il diritto esiste come esperienza dell’attività pratica e diretta del soggetto. In tal caso quindi la
filo del diritto è una riflessione sul diritto ed è infine una filosofia. Tal modo di pensare la filo del diritto
orienta il percorso che le 2 parti di queste pagine sviluppano mettendo in discussione un’idea centrale che è
riassumibile nel rilevare come l’ermeneutica si presenti come orizzonte. Una parte mette in luce la koine
ermeneutica e la rilevanza dell’orizzonte ermeneutico per affrontare temi che oggi chiedono spesso il
superamento di posizioni non piu sostenibili. La seconda parte sviluppa un’analisi della giuridicità volta a
indagarne la genesi e la realtà. La tesi che in questa seconda parte puo prendere corpo è che la filo del
diritto è una filo ermeneutica.

Prospettive e questioni di filo del diritto: tra 800 e 900 si è accolta sempre con una maggiore convinzione la
separazione della filo del diritto in 2 grandi direzioni che avrebbero dovuto asservire l’una le esigenze di
migliore sistemazione della scienza giuridica,l’altra le esigenze teoretiche-metafisiche di indagine astratta
della questione della giustizia;le 2 direzioni sono state spesso identificate come “filo del diritto per giuristi”
e”filo del diritto per filosofi”. Tutto cio ha portato un ritorno della filo del diritto alla filo. Ora la tesi
centrale,è quella di andare contro tale scissione ,rivendicando l’unità della filo che pensa la realtà concreta e
pratica,anche se con cio non si vuole negare in modo assoluto la differenza tra filo del diritto e discipline
affini. Il primo momento di tale percorso ermeneutico è il tentativo di pensare le differenze e le assonanze
tra 2 approcci al tema dell’interpretazione giuridica nel quale si coglie tutta la portata piu ampia di un
differente approccio al diritto:quello analitico e quello ermeneutico. Da qui il passaggio all’indagine sul
formalismo giuridico che chiede di ripensare i termini essenziali del diritto come risposta alle istanze della
contemporaneità e di riflettere sulla dialettica tra positivismo giuridico e comprensione dell’azione. Un tale
ripensamento passa per la questione del posizionamento del diritto rispetto a morale e politica sul quale il
terzo momento di tale percorso si sofferma. La giustizia e la legalità sembrano il tema conseguente che
deve essere affrontato per cercare di chiarire le ragioni della rivendicazione di una specificità del giuridico e
per rischiare l’ulteriore indagare sul concetto di forma non formalistica del diritto. L’idea che il diritto possa
essere sovraordinato ma non sovra-legale e che rintraccia il proprio senso muovendo dalla forma della
legalità è quanto sollecita anche l’indagine verso l’ultima tematica. Il quinto momento è dedicato
all’obbligatorietà delle norme e chiarisce la prospettiva ermeneutica ma anche il compimento di un
percorso volto a precisare la natura esperienziale del diritto per giuristi e per filosofi che si trovano a
riflettere su una solo questione,quella del diritto e delle sue ragioni,oltre ogni regionalismo che si rivela. Il
tema dell’obbligatorietà è posto al termine della prima parte e non all’inizio per sottolineare la centralità
dell’esperienza e della pratica del diritto. Non è la giustizia l’ultimo stadio della filo del diritto ma le ragioni
dello specifico presentarsi e differenziarsi del diritto.

Approccio analitico e ermeneutico all’interpretazione giuridica: cosa significa interpretazione giuridica? La


definizione piu chiara è quella di interpretazione come attribuzione di significato. La semplicità cela però
almeno 2 ambiti di riferimento:uno più ristretto nel quale l’interetazione giuridica è confinata ai testi che
restano oscuri;una piu ampia che riconosce la necessità che ogni testo sia interpretato perché ogni testo
richiede un’interpretazione. Si pone però un’altra questione:in cosa consiste l’attribuzione di significato?
L’attribuzione ha natura accertativa del significato o costitutiva,determinando il significato stesso? Un tema
cosi frastagliato è difficile da ridurre all’unità senza operare semplificazioni non rispettose di posizioni
diverse. Approccio analitico: si è tentato di trovare l’elemento unitario della filo analitica nella concezione
della filo come analisi del linguaggio e quindi come indagine chiarificatrice delle varie dimensioni del
linguaggio. Una definizione chiara fu quella di Dummett che individua come assioma della filo analitica la
tesi secondo cui fa parte dell’essenza del pensiero essere comunicabile senza residui tramite il linguaggio.
Solo cosi si giustifica il motivo per cui l’analisi del pensiero passa tramite l’analisi del linguaggio. Il saggio di
Bobbio del 50 segna la nascita della scuola analitica di filo italiana. La nascita si fa risalire ad una parentela
stretta con positivismo giuridico e logico dai quali riprende l’idea del diritto come norma ma dal quale si
differenzia sensibilmente sia perché intende il sistema normativo non come rigorosamente chiuso e sia
perchè intende il diritto come linguaggio e le norme come parole. In tal caso quindi il richiamo all’analisi del
linguaggio è svolta nell’ottica di una chiarificazione del significato diretto ad una spiegazione. Quindi
all’approccio analitico si deve riconoscere l’attenzione per la giustificazione,per l’argomentazione e per il
ragionamento. Approccio ermeneutico: il padre è rintracciabile in Schleiermacher e nella sua definizione
dell’interpretazione come arte di interpretare. L’ermeneutica acquista progressivamente la significanza di
dimensione onto-antropologica e l’approccio ermeneutico intende l’interpretazione come modalità di
comprensione del testo,una comprensione che però ingloba lo stesso interprete che interpreta perché si
interpreta. Comprendere in termini ermeneutici è intendere il significato alla luce di un ampio quadro nel
quale questo si inserisce. L’approccio ermeneutico tende quindi ad estendere la questione dell’interpretatio
iuris in modo da inglobare l’intera questione del diritto nelle sue tematiche essenziali,ogni volta che
l’interprete si trovi davanti un testo. L’intepreteazione diventa un momento pratico nell’orizzonte
ermeneutico. Quindi mentre nell’approccio analitico l’interpretazione è attività volta a spiegare per
scegliere,in quello ermeneutico è parte del comprendere come modalità e come condizione della quale
l’attività intepretativa è un momento verso la conquista del senso.

Orizzonte ermeneutico e storicità giuridica: i 2 profili cosi tracciati sollecitano una considerazione:i 2
approcci forse non si contraddicono:”è necessario spiegare di piu per comprendere meglio”. Vi è quindi una
zona di possibile condivisione:se l’orizzonte dell’approccio analitico da una parte intende il diritto come
linguaggio e concentra la propria attenzione all’analisi linguistica delle proposizioni giuridiche,l’orizzonte
ermeneutico pensa il nesso profondo tra logos e nomos in termini di relazione arrivando a intendere che il
diritto si struttura come linguaggio. Certo,rimane tutta la differenza di origine tra convenzione e
fondazione,ma le istanze della realtà mondiale sollecitano a rivedere in chiave giustificativa le stesse fonti
del diritto e dunque anche la tecnica interpretativa ad esse connessa. Assumendo l’ermeneutica come
prospettiva dunque Cananzi vuole rivendicare una dimensione comune in cui l’interpretazione sia atto di
una volontà che vuole conoscere e vuole anche recuperare la forma positiva del diritto nella sua interezza.
Infatti cio che resta da chiarire è proprio il diritto non naturale,cioè la positività del diritto:ad essa è diretta
l’attività dell’interprete e ad essa si riferisce ogni visione giusnaturalista non ingenua. Sia l’approccio
analitico che quello ermeneutico assumono che il diritto si presenti come ordinamento non chiuso ed in
trasformazione. Nell’interpretare una norma l’attenzione ricade subito su una chiarificazione del significato
delle parole che non puo condurre a dedurre un qualsiasi senso dalla singola disposizione. Ma
interrogandosi sul significato,si è portati a intendere la singola disposizione all’interno di un quadro
normativo piu ampio. Ma nel ripercorrere l’intero sistema giuridico,si evidenziano 2 caratteristiche del
diritto come linguaggio:a)quello giuridico è un linguaggio che vuole avere efficacia sulla realtà;b)in quanto
linguaggio il diritto è una modalità di comunicazione. Su questi 2 punti si avverte un’esigenza che è
pratico-giuridica più che teoretico-filosofica. Infatti da un punto teoretico-filosofico ci si limita ad uno studio
astratto del linguaggio giuridico;l’esperienza pratico-giuridica non consente invece un’auto-limitazione del
campo d’azione al giurista. Le disposizioni sono espressione di un senso e incide sulla realtà dell’azione. Il
diritto si struttura come linguaggio perché il linguaggio è discorso e il discorso è azione. Il diritto si struttura
come linguaggio perché si deve riconoscere un nesso tra diritto e azione. La disposizione normativa si
interpreta nella pratica del giurista per trarne una norma che incida nell’azione. L’orizzonte analitico richiede
la giustificazione come argomentazione della decisione da prendere e cio avviene in vista del caso concreto
e delle situazioni reali secondo una logica che è di comprensione ermeneutica. Cio costituisce il preliminare
dell’attività interpretativa del diritto.

Il formalismo giuridico: il formalismo pone davanti a 2 incertezze:la prima attiene all’identificazione della
consistenza teoretica del formalismo giuridico che in alcuni casi si presenta come posizione;piu spesso pero
quella del formalismo non è una posizione ma un’accusa:se una componente formalistica è presente nel
positivismo giuridico o nel normativismo è anche vero che queste si determinano come positivismo e
normativismo ed è la critica che si rivolge loro che tratta di formalismo. La seconda incertezza dipende dal
ventaglio di usi dell’espressione formalismo giuridico. Comunemente,il formalista è il giurista attento piu al
rispetto delle forme che alla sostanza. Vi sono 2 modalità del formalismo giuridico che pensano: un
formalismo scientifico e uno interpretativo. Il primo è quello assunto da chi pensa quella giuridica quale
scienza in chiave positivistica e differenzia il formalismo scientifico al suo interno in 2 indirizzi:dogmatico
dove si pensa il diritto sulla base di dogmi:in tale ottica il diritto è sistema autonomo in base alla sua
chiusura;è ordinamento che è compiuto e completabile;il secondo indirizzo è quello della teoria generale da
distinguere secondo il modello tedesco e anglosassone che pensa un diritto generale da ricostruire tramite
l’osservazione delle varie parti dell’ordinamento giuridico di cui operare sintesi. Diverso dal formalismo
scientifico è quello interpretativo che si concentra su una questione metodologica legata all’attività
interpretativa. Mira ad arrivare ad un’interpretazione corretta e definitiva del testo e i canoni intepretativi
diventano strumenti metodologici per l’accertamento del significato. Compito del giurista è trarre dalla
norma il suo significato implicito. Metodologicamente è possibile poi distinguere 2 approcci
diversi:l’atteggiamento esegetico e quello storico:uno rivolto al commento fedele del testo,l’altro a una
ricostruzione della correttezza tramite la contestualizzazione della singola norma in un sistema di norma
coerente. Tutto cio fa emergere le difficoltà nell’affrontare il tema del formalismo giuridico. In fondo però se
si pensa al diritto e alla sue dinamiche attuali,le impostazioni formalistiche sembrano superate. La
formazione della regola non è piu in base gerarchico-sistemica ma negoziativa:dal comanda al consenso
sulla stessa formazione della regola. L’autonomia del sistema giuridica è messa in crisi attualmente dove
trovano nuovi ruoli i confini degli stati nazionali,ma la relazionalità dello scambio tende ad una convergenza
tra istanze e sfere diverse che nascono a un livello gia sovranazionale. Non a caso il superamento del
postivismo giuridico e logico è avvenuto sulla base dell’affermazione sull’analisi degli usi e sul vaglio delle
istanze di approccio analitico.

La forma per se stessa e in quanto tale: un modo che si dirige verso formule di soft law pare abbandonare
con l’hard law anche il problema del formalismo. Eppure forse così non è. Anzi,mai come in questo
momento è il caso di parlare del formalismo,assumendolo quale questione che è di diritto pratico prima
ancora che di filo del diritto. Ed è un giurista che sottolinea la rilevanza del formalismo come
questione:Satta. Sottolineando come il formalismo comincia dove il diritto finisce,subito evidenzia la cesura
tra formalismo e diritto ma assieme sollecita a pensare l’interrogativo prima posto:la questione del
formalismo è superata? Ora,se il il formalismo come teoresi regge,la sua inconsistenza si manifesta proprio
nella pratica e cio attiene sia al formalismo intepretativo sia a quello scientifico. Il giurista si è troppo
avveduto del law in action per poter pensare ad un’unica interpretazione della norma. Il perché del
formalismo puo allora essere compreso come risposta ad un’ansia in quel processo di emancipazione dal
volontarismo del sovrano che ha condotto proprio con l’affermazione del principio di legalità e con primato
della legge allo stato di diritto. La stagione della dogmatica e della giurisprudenza dei concetti nasce
dall’esigenza di levare dall’improvviso il diritto e le sue manifestazioni. In tale direzione si pensa che il diritto
ha una sua specificità e rivendicando essa si puo riconoscere una sfera entro la quale la giustizia passa
tramite la certezza,qualificando essa questa attraverso la costruzione teoretica delle categorie:è una visione
in cui il contenuto del diritto è una derivazione logica del sistema. Il formalismo appare piu come
irrigidimento di questo avanzamento della cultura giuridica che non manca di opporvisi tanto da sfociare
nell’antiformalismo. Un antiformalismo che finisce per segnare la fuga del diritto dalla scienza,il suo
disperdersi libero nella attualità più contingente. In fondo,dalla attualità astratta del formalismo si finisce
nella attualità materiale dell’antiformalismo per il quale non c’è la categoria entro cui lavorare ma solo il
caso,nichilisticamente affrontato. Comunque dal diritto pratico,viene la principale smentita sia del
formalismo sia dell’antiformalismo;è l’urgenza della storia a dimostrare che entrambi non riescono a
eccedere la teoria:non hanno conforto nella realtà. Con Satta si è sollecitati a pensare la questione della
forma con riferimento al diritto e a meditare che proprio il fallimento di formalismo e antiformalismo sul
piano pratico-giuridico e sul piano teoretico-filosofico conduce a una filosofia della forma. “Forma” con
riferimento al diritto ha un di piu rispetto sia all’esaltazione formalistica sia alla de-formazione
antiformalistica. Forma infatti richiama 2 direzioni,sottolineate da Tarello:come qualcosa che prescinde dal
contenuto o come caratteristica essenziale di un oggetto. Il superamento dell’impostazione positivistica è il
superamento dell’applicazione al diritto del primo significato. La tesi del formalismo” il diritto è forma”
costituisce proprio il punto di critica piu diffuso attorno al quale si compone il formalismo come critica piu
che come posizione. Ma “il diritto è forma” puo anche essere suscettibile di una diversa linea argomentativa
che trova una nuova forza speculativa per pensare la giuridicità dei mercati,della nuova lex mercato ria e di
soft law:forse una modalità che si può dimostrare rispettosa assieme alle istanze sociali e dalle ragioni del
diritto:arrivando alla tutela giuridica di un nuovo umanesimo. L’accezione di forma considerata in tal caso è
quella classica:forma dat esse rei,cioè attraverso la forma la cosa si manifesta. Se questo non significa che
l’essere e l’essenza della cosa sia attribuita dalla forma,sottolinea come l’apparire non abbia un significato
necessariamente negativo ma sia il manifestarsi dell’essere che sennò rimarrebbe inconosciuto. Se il
percorso della riflessione contemporanea viene riportata sul piano giuridico,allora porre la questione della
forma significa interrogarsi sul modo di manifestarsi del diritto. In tale direzione,la questione della forma ha
poco a che fare con il formalismo ma forse non se ne può liberare. Si finisce nel formalismo ogni volta che si
prende la forma per se stessa,ogni volta che della forma si smarrisce quel senso di vitalità che è differenza
tra forma e forma,tra la forma dell’arte e quella inerte,ma anche ogni volta che si rende la forma autonomo
oggetto di riflessione rispetto all’osservatore della forma che vi iscrive un senso.

Forma del diritto e dell’essere umano: è possibile evitare di prendere la forma per se stessa e considerarla
in quanto tale? C’è spirito nel diritto? Ora,se di spirito si deve parlare lo si deve cogliere nella sua ineterezza.
Alla forma appartiene anche il formalismo? Se è in questo modo,c’è un ordine della forma di cui il
formalismo è tradimento,ma anche rischio. La vitalità del diritto pone i termini della creatività,che è
inventiva. Questa è la sola creatività possibile. La questione della forma come questione dello spirito
conduce a riflettere sulla formatività dello spirito e sulla sua fonte;lo spirito colto nella sua realtà è spirito
dal momento in cui si incarna e abbia un corpo corrispondendovi;è spirito che avverte quel corpo come se
stesso e avverte se stesso come quel corpo,pur non esaurendosi nel corpo stesso. La forma della persona è
unità tra spirito e corpo,tra azione e fatto. La complessità della persone risiede in questo fatto che non è un
fatto;in questa realtà personale che chiede di pensare la forma dello spirito come elemento di congiunzione
di una serie più ampia di questioni:l’alterità che nel corpo proprio trova la sua condizione di pensabilità,la
responsabilità e la libertà,che dall’unità dell’uno trovano il fondamento non formalistico delle rispettive
forme giuridiche. Il rischio del formalismo diventa realtà ogni volta che si pensa di fare a meno
dell’immaterialità della forma,ma anche quando si pensa di fare a meno della sua materialità;e il rischio
diviene tradimento ogni volta che si pensa di non scorgere la vitalità dentro la forma e la persone come
vitalità sussistente del diritto. In questi 3 disconoscimento della forma cade il positivismo giuridico e il
formalismo. Come evitare il rischio e il tradimento?la questione non è semplice perché la linea tra forma e
formalismo è sottile. Sia il positivismo che il formalismo possono essere criticati e una via per tale fcritica
puo muovere dalla forma in quanto tale e,in quanto tale,dall’unità col contenuto,dalla presenza di un essere
del diritto che è ordine,forma e sostanza. Cio potrebbe significare intendere l’ordine come unità costituiva
degli ordinamenti e rintracciare questa unità in quella che rende l’umano nella differenziazione del suo
manifestarsi. Quindi infine vi è un unico nucleo da discutere:la contemporanea distinzione e affiliazione tra
molteplicità e unità. La formula “diritto dell’uomo”rappresenta questo nucleo e discute la possibilità che
l’unità dell’essere si dia nella molteplicità dei singoli;la possibilità che la molteplicità sia l’unico esito
dell’unità e che l’unità sia l’unica ragione della molteplicità. La forma in quanto tale è forse da discutere
anche in tale direzione nella quale il diritto vivente appare come persona sussistente e la storia umana e
giuridica si svela come narrazione di questo presentarsi ermeneutico della forma. Tali considerazioni
mettono in discussione la questione della forma e del formalismo con riferimento alla realtà attuale. La
positivizzazione sposta su un piano ermeneutico piu ampio la questione dell’intepretazione spesso
coinvolgendo le parti nel momento di scrittura delle regole;la fuga da forme di processo rigide del processo
segnalano che il costo dei diritti deve essere affrontato alla radice cercando di evitare il costo dell’illiceità
dei comportamenti. Tutto cio pone la questione dell’attuazione spontanea del diritto che da senso al diritto
anche in un sistema che va trasformando in direzione orizzontale le sue fonti e le va configurando in chiave
non imperativa. Il formalismo appartiene al diritto come possibilità che in questo venga tradita la forma,nel
senso che nomina tramite questa la giustizia. Tuttavia il confine tra forma e formalismo è labile e quindi vi è
il continuo rischio di tradimento della genesi ma anche la sua incancellabilità.

Il diritto tra la morale e la politica: la questione dei rapporti che legano morale,diritto e politica fa subito
pensare alla filo del diritto contemporanea e non si puo evitare di osservare come la filo attraversa un
momento di fervore e incertezza. Se le istanza della realtà sociale hanno chiesto di declinare in tutti i modi il
termine crisi,le aperture teoretiche che sono derivate tanto dalla crisi quanto dalla riflessione su di essa
rendono possibile superare divisioni anacronistiche e orientarsi alla loro trattazione. Se la filo del diritto
contemporanea è assieme il frutto del dibattito su grandi temi come giuspositivismo e giusnaturalismo ,ma
anche il frutto del tentativo di superare tali dicotomie,si deve concentrare l’attenzione sul piano che
caratterizza tale tentativo di superamento e consente di interrogarsi su cosa superare e cosa riprendere. C’è
un elemento che se non puo dirsi comune è in certo qual modo condiviso nel dibattito filosofico
contemporaneo? Si puo evidenziare nella koinè ermeneutica un orizzonte che se certo non puo dirsi di
piena condivisione,appare comune a linee di ricerca diverse ma al fondo orientate da domande analoghe:le
domande che muovono proprio al rapporto tra morale,diritto e politica. Il ripensamento critico del
positivismo el’affermarsi del dibattito sul costituzionalismo hanno infatti determinato una riflessione che si
interroga sul fondamento della giuridicità in termini di giustificazioni. In fondo,il passaggio dalla
giustificazione alla funzione del diritto è la riscoperta di un’esigenza giuridica che non si fa fatica a
ricondurre al principio di legalità e alla formazione dello stato moderno prima,e a quello nella società
complessa poi. La riscoperta di un nesso tra diritto e morale è quindi l’esigenza di svolgere il discorso
giuridico nell’ottica dell’obbligatorietà dei provvedimenti e delle regole e della determinazione dei contenuti
sui quali poter deliberare. I 2 aspetti sono connessi;tanto sarà avvertita obbligante una norma quanto le
ragioni su cui è posta appaiono forti. Ma in tali termini,è gia coinvolta la politica come ordine e come azione
all’interno del nesso morale-diritto. Da un lato,l’agire comunicativo nella società complessa conduce
all’inserimento nel cuore del diritto la morale. Dall’altro lato,la necessità di una considerazione teleologica
del positivismo giuridico,porta certo a riaffermare la differenza tra diritto che è diritto e diritto che deve
essere,ma rivista nel senso che il diritto come è è soggetto alla giustificazione,alla luce dei principi e del
sentire comune. Insomma,il superamento della separazione tra i 3 ordini conserva una delle sue ragioni
forti:neutralizzare maggiormente l’arbitrio dei giudici e dei legislatori,ricondurre i termini della questione ad
un ritorno alla morale non moralistica,e intendere la politica come piattaforma sociale condivisa. Detto cio
però la questione non è risolta. Ammesso infatti che vi sia un nucleo unitario nel quale determinati valori
trovano tramite l’azione politica una concretizzazione giuridica,le difficoltà sorgono nel momento in cui si
debba determinare quali e come valori determinare. Tutto cio si puo tradurre nell’indagine su:a)se l’azione
politica debba determinare i principi-valori mediante una ponderazione tra morali-ideologie diverse;b)se
invece la morale debba imporre nelle forme coercitive del diritto alla società e quindi anche alla
politica,degli assoluti morali. Non meno problematica appare il piano sul come procedere. Si puo dire che
da un lato si pongono teorie che possono dirsi discorsive e che cercano di contemperare le istanze
democratiche con forme di razionalismo deliberativo. Dall’altro lato si profila sempre piu un paradigma
negoziatorio:negoziare è cercare di far prevalere la propria posizione secondo un modello egoistico di tipo
aggregativo. L’ampia panoramica di prospettive evidenzia l’esigenza di arrivare alla formulazione di alcuni
dubbi e questioni sia per quanto riguardo quali valori,sia sul come degli stessi;questioni che nascono da una
domanda iniziale:c’è una possibile alternativa rispetto sia alla via della strumentalizzazione politica sia a
quella della strumentalizzazione morale del diritto? Il diritto è destinato ad essere componente di altre
sfere? Potremmo aggiungere alla politica e alla morale anche la religione,se pensiamo alle realtà islamiche
nelle quali il diritto è funzione della religione.

Decostruzione degli elementi:diritto,morale,politica: c’è una specificità fenomenologica del diritto? E se c’è
in quale relazione possono essere inquadrati i 3 fenomeni presi a riferimento? Se parliamo di diritto e non di
regole morali o politiche è perché si riconosce un’autonomia alla sfera giuridica. Questo dato è confortato
da una seconda considerazione:il diritto si manifesta come limite rispetto alle altre sfere. Se l’attività politica
non puo essere priva di confinamenti formali e sostanziali è perché deve agire nel rispetto dei diritti. Se
l’attività morale è soggetta a limitazioni,queste sono proprio il rispetto dei diritti e se di una moralità di
diritto si parla è proprio come limitazione contenutistica alle forme giuridiche. Queste 2 considerazioni
devono essere approfondite. Il diritto si trova posizionato”tra” la morale e la politica innanzitutto perché in
chiave di intersezione c’è uno spazio giuridico negli altri ambiti. La specificità del diritto inizia a delinearsi
quando si rileva come in assenza delle garanzie giuridiche la libertà morale individuale non sarebbe
possibile e non sarebbe possibile neanche la discussione circa i contenuti delle norme. Lo stato totalitario
puo essere esempio di assenza del diritto con la conseguente soppressione delle forme pubbliche di morale
e della cancellazione di dibattito politico. In tal senso il diritto si presenta come limite,un limite che è
condizione,possibilità per le altre sfere. Del resto,la specificità del giuridico è argomentabile ancora
pensando alla sua struttura fenomenologica. Per questa via si distingue in 2 parti l’analisi di Cananzi perché
ritiene che tali argomenti evidenziano un’asimmetria del rapporto che il diritto mantiene con la politica e
con la morale;asimmetrico è il “tra”che lega le 3 sfere perché con la politica si avverte un nesso di
condizione,con la morale invece un nesso di fondazione della legittimità in termini di ragione pratica. La
struttura della politica è essere gruppo integrativo-escludente:un gruppo di individui che pensa a se stesso
come comunità e che delimita il suo “noi” escludendo gli altri;la struttura del diritto è invece
integrativo-includente perché il suo noi è quello universalizzabile dell’intero genere umano. In tal senso il
nesso tra politica e diritto si coglie come possibilità che la politica sia alta politica,azione volta alla ricerca del
bene comune. Il gruppo sociale si da le proprie regole secondo le procedure e la struttura dell’agire
comunicativo,ma nel necessario rispetto della struttura giuridica. In tal senso l’alternativa tra prospettiva
argomentative e della negoziazione non può che essere risolta nei confronti della prima che tra i tanti valor i
possibili riconosce come giuridici solo quelli informati all’altruismo. D’altro canto,una più approfondita
comprensione dell’altruismo è alla base del nesso diritto-morale. Anche qui si osserva come la struttura del
diritto,pensa la questione dell’essere umano e dei suoi diritti concretamente come struttura della relazione.
La morale,come convinzione personale,resta invece un fenomeno interno all’individuo e non rilevante
giuridicamente. La moralità del diritto attiene al manifestarsi dell’essere insieme all’altro,nella relazione
intersoggettiva . tale relazione intersoggettiva puo essere informata al riconoscimento dell’altro o
all’esclusione dell’altro.

Riqualificazione dei rapporti: è possibile esplicitare le intersezioni tra gli ordini ristrutturando quel tessuto
comune sul quale si svolgono che è costituito dalla storicità della vita umana;storicità che assume come
modello di riferimento quello narrativo e la dimensione propria dell’essere umano,proprio quella che è
richiamata quale nucleo giuridico e alla quale si rifanno sia la sfera politica che quella morale.

La giustizia e la legalità

Norma legale,diritto sovra-legale: il tema della giustizia e della legalità potrebbe consentire la ricostruzione
dell’intera storia della filo del diritto e anche della filo generale e anche di affrontare la questione con
istanze nuove che forse gettano una luce diversa su termini cosi essenziali per il diritto. La questione si pone
come costante scelta tragica del giurista di ogni tempo: da Antigone in poi l’alternativa se preferire il fare
giustizia o l’osservare le leggi si pone come topos per la stessa concezione del diritto sulla quale si scontrano
diritto e morale. L’es. del processo di Norimberga consente di chiarire l’alternativa tecnica della scelta
tragica,perché si svolge attorno a 2 problemi importanti:la legittimazione della corte a giudicare;la legalità
dell’ordinamento nazista e la responsabilità dei soggetti che vi hanno partecipato. Il rispetto per la legalità
consente infatti di sostenere alle difese degli imputati che l’istituzione del tribunale non rispettava piu le
regole giuridiche elementari e altrettanto elementare argomento di legalità è l’aver obbedito al diritto
vigente nella Germani nazista. Sull’altro piano,l’accusa ha potuto contare su un argomento: come sostenere
che i crimini nazisti non dovessero essere punito e che il diritto nazista dovesse essere obbedito? Se il diritto
ha un senso,tale senso è da ricondurre alla giustizia e questa nega la possibilità di non punire i colpevoli . in
particolare la legalità è un valore e fa rispettata ma fin a quando non ci si trovi davanti a un’ingiustizia
intollerabile. Ciò risolverebbe anche il problema della legittimità della corte che troverebbe una
legittimazione nell’interpretazione possibile del diritto internazionale nella direzione positiva. Insomma ci
sarebbe un diritto legale e uno sovra-legale.
Decostruzione della questione: decostruire i termini della questione vuol dire illuminare innanzitutto i 2
lemmi:legalità e giustizia. La legalità infatti non è da identificare con una visione stereotipabile
formalistica:questa è una degenerazione della legalità a fattualità;la concezione del diritto che la sorregge
richiede di separare forma e contenuto e di concentrare le competenze del diritto e la sua attenzione sulla
prima,ritenendo il contenuto come variabile giuridicamente irrilevante. Diversamente,è essenziale ricordare
che la legalità su afferma come conquista,conquista di specificazione e di autonomizzazione del diritto
rispetto alle altre sfere e rispetto al potere giustificato nei termini fattuali della forza. La legalità nasce dal
riconoscimento della razionalità del diritto,non a caso conducendo i sistemi del civil law al processo di
codificazione che costituisce il ponte tra razionalismo giusnaturalistico e giuspostivistico e confermando la
soggezione del sovrano alla legge nei sistemi del common law. Ciò vuol dire che il diritto debba garantire e
debba essere garantito nel suo momento costituivo e fondativo. La legalità come principio afferma lo stato
di diritto e lo stato costituzionale in base al quale non solo la sovranità non appartiene a nessuno dei 3
poteri ma al popolo,ma che gli stessi poteri sono assoggettati alla legge ed esercitano le loro funzioni nei
limiti del principio di legittimità costituzionale. Sull’altro versante,il termine giustizia va a sua volta
decostruito e ricondotto entro una qualificazione meno stereotipata. Se la legalità non vuol dire forma
prima di contenuto,la giustizia non può significare contenuto privo di forma. Anche qui il superamento della
contrapposizione morale-diritto conduce a riflettere nel senso assunto dal dibattito di fine 900 ed in
un’ottica ermeneutica nella quale arrivano a convergere su un orizzonte condiviso sua gli approcci
continentali che quelli analitici. In tale direzione vi è un convergere sulla nuova qualificazione di
positivizzazione del diritto e su una chiave interpretativa dell’accezione di diritto positivo. La giustizia si
presenta come giustificazione perché il diritto in chiave ermeneutica si fa piattaforma di giustificazione. In
tal senso legalità e giustizia sono questioni non sovrapponibili perché i 2 elementi non sono identici ma
intrinsecamente complementari.

Legge giusta,giustizia legale: una prima considerazione può rilevare che o il diritto tende alal giustizia e
afferma la sua positivizzazione come giusta o non si comprende la ragione del diritto. Se si parla di un
diritto ingiusto o di una norma ingiusta è perché è possibile che l’ingiustizia ricada sul diritto o su una
singola legge senza che questo costituisca una contraddizione in termini. Quando si parla di giustizia si
intende il presupposto stesso della positivizzazione. La critica più severa rivolta al formalismo viene non
tanto dalla teoria ma dalla pratica quotidiano in cui il formalismo manifesta tutta la sua inconsistenza. Il
principio di legalità può in tal senso essere chiarificatore. Esso stabilisce la supremazia della legge,ma la
domande è perché? La giustizia sembra cosi essere il presupposto della legalità e il suo fondamento. Ma cio
non basta e infatti bisogna giustificare il dato positivo. La vera svolta ermeneutica consiste proprio nel
recupero della necessaria giustificazione degli atti giuridici in chiave valoriale. Ciò segna davvero il
discrimine tra l’ottica imperativistica volontaristica e il diritto della società complessa che trova nella
riqualificazione delle fonti la sua cartina di tornasole. Alla stagione del formalismo è seguita l’ondata
dell’antiformalismo da cui è derivato l’atteggiamento casualistico che informa la giuridicità della nuova lex
mercatoria. Il superamento del valore cogente della norma legale per il prevalere della norma casuale segna
il passaggio dai concetti ai casi. Il paradigma è quello della negoziazione che riformulerebbe i termini del
rapporto tra legalità e giustizia secondo una totale disponibilità sia delle forme sia dei contenuti della
garanzia giuridica. Un predominio del diritto vissuto rispetto al diritto progettato nel sistema. Vissuto è da
intende come risposta acritica alle contingenze;cosi però non differenziandosi dal modello classico.
dell’imperativismo:il predominio della forza quale regola del conflitto tra interessi contrastanti. In tal
quadro,vissuto è anche il diritto ingiusto e imposto. L’alternativa è propriamente giuridica,è la comprensione
del diritto in un orizzonte che è quello ermeneutico. Su tale strada appare chiaro come l’affermarsi della
nuova lex mercato ria sia accompagnata dall’affermarsi di un nuovo ius gentium;un’affermazione che non è
ne ideale,ne teoretica ma che avviene proprio tramite la costituzionalizzazione come processo giustificativo
del diritto. In tale ottica non solo si puo cogliere la funzione evolutiva della giurisprudenza costituzionale ma
anche il suo costante rinvio ai diritti umani. L’attività delle corti costituzionali rappresenta un’esigenza del
diritto e un’istanza dell’uomo. Entrambe si svolgono nell’orizzonte dell’argomentazione. Ciò porta ad un
livello successivo. Quello proprio dell’ermeneutica,sollecitata dall’unità-differenza tra legalità e giustizia
nella quale l’unità di forma e contenuto spinge a considerare l’essenza dell’essere umano e l’essenza del
diritto. Lo stesso ricorso all’ordine sovraordinato e ai diritti umani non può essere una sorta di refugium
peccato rum:queste non possono essere forme di chiusura giustificativa non critica. Anzi spingono a
evidenziare quella condizione preliminare al discorso comune nella quale non vale la duplice critica:ma la
legislazione nazista si afferma giusta per i nazisti;e se a livello planetario un giorno si convenisse una
legislazione razziale,sarebbe questa giuridica? Se alla prima critica il riconoscimento dei crimini a livello
internazionale e sovra-ordinamentale si può rispondere tramite l’intollerabilità dell’ingiustizia e della
lesione,la domanda sollecita a discutere i termini della disponibilità del convenire giuridico,i presupposti
dell’argomentare e i suoi limiti nella comunità discorsiva nei termini della differenza tra globale e
universale,sulla quale è anche necessario precisare il rapporto coalascenziale tra legalità e giustizia.

L’obbligatorietà della norme giuridiche

Obbligo,obbligatorietà,costrizione: cananzi mira a superare la contrapposizione netta tra posizionamenti


filosofici,giuspositivismo e giusnaturalismo;opposizione che poi si è trasformata in dialogo fecondo
passando dall’incomparabilità alla comparabilità. Si è infatti andato evidenziando un orizzonte condiviso
che è la koinè ermeneutica. In tale panorama si deve e si puo oggi parlare di obbligatorietà delle
norme:tenendo conto anche dell’incidere dell’obbligo e dell’obbligatorietà in una dimensione di
comprensione di discussione della giuridicità nella quale proprio gli elementi critici che provengono dalla
discussione del passato trovano una qualificazione interessante. L’obbligatorietà delle norme chiede di
interrogarsi sul fondamento del diritto assumendo la questione del fondamento come questione giuridica e
quindi il nesso giuridico tra bene e giusto risiede proprio nell’obbligatorietà in termini di dover-essere. Cosa
significa che un comportamento è obbligatorio? La prima risposta è che quel comportamento deve essere.
Una seconda domanda però si pone:in base a cosa si stabilisce cosa deve e cosa non deve essere? La prima
domanda pone la questione dell’obbligatorietà giuridica in chiave operativa preparando la seconda
domanda che pone l’obbligatorietà al centro del rapporto tra essere e dover essere. È imperativo deontico
quello che obbliga ad un’azione,ma non di semplice imperativo si tratta. Infatti la struttura logica
dell’imperativo non basta a rendere i termini giuridici dell’obbligatorietà. Nel caso delle norme giuridiche
invece,l’obbligatorietà fa nascere il vincolo di dovere. La diversa prospettiva qualifica l’obbligatorietà quale
elemento giuridicamente qualificante l’imperativo in imperativo giustificato. Ma cosi si arriva alla norma che
è giuridica in quanto obbligatoria ed è tale perchè fondata secondo una ratio che è ragione,meglio ragion
pratica. E infatti volendo trovare il perché del rispetto della norma si deve ricorrere a una norma
superiore,avviando quel percorso a ritroso seguendo il quale è possibile ripercorrere l’intero ordinamento
giuridico fino al vertice della piramide. La giuridicità non si esaurisce nell’operatività sistemica
dell’ordinamento. La norma di chiusura individua le norme di un sistema ma non esaurisce la necessità di
giustificazione. Del resto,un fondamento oggettivo è difficilmente raggiungibile,scontrandosi con il rigore
logico dello scetticismo. Seguendo Carcaterra,possiamo dire che le premesse giustificative sono sempre
soggettive e necessariamente arbitraria è la scelta di quali principi assumere quali primi. Il dover essere non
è logicamente deducibile dall’essere e quindi ciò che deve essere va deciso senza richiamarsi all’oggettività.

I 3 modi dell’essere del dover essere: i termini della questione dell’obbligatorietà assumono la dimensione
del rapporto tra essere e dover essere. È bene intendere i termini del rapporto tra essere e dover essere. Si
possono dare almeno 3 modalità di relazione tra essere e dover essere:a)di assoluta identificazione;b)di
assoluta incomparabilità;c)di connessione. Nel primo caso essere e dover essere sono espressione
sinonimiche,vogliono dire la stessa cosa perché sono la stessa. Tutto ciò che è deve essere. Quando nietsche
parla dell’essere umano come frammento di fato non a caso parla dell’assurdità del concetto di libertà e di
responsabilità :in termini meno diretti si parla di nichilismo giuridico come il lasciarsi vivere dalla
contingenza e la critica a tale impostazione prospetta l’estinzione del diritto che passa per l’estinzione
dell’obbligatorietà:se tutto è come deve essere nulla è obbligatorio perché tutto diviene necessario. Nel
secondo caso,non vi è alcun nesso tra i 2 perché è impossibile ogni inferenza logica di ciò che deve essere da
ciò che è. Questa è una posizione che rischia di cadere in contraddizione nel momento in cui vuole fondare
il dover essere sulla mera abitudine o sulla scelta di cio che costituisce valore arbitrariamente. In tali casi si
finisce infatti per fondare cio che deve essere su cio che di fatto accade o sul fatto che si determina
arbitrariamente. Se si assume che il dover essere non si puo relazionare con l’essere si cade in
contraddizione e l’obbligatorietà diventa funzione dell’accadere caotico della forza violenta,segnando una
caduta nichilistica. Nel terzo caso,vi è invece un nesso tra i 2:l’essere non è mero accadere e il dover essere
non è fattuale,ma è contro-fattuale perché contro-fattuale è l’essere al quale si riferisce. L’obbligatorietà
della norma si riferisce al fondamento del diritto e dunque al nesso tra giuridicità e essere umano:il nesso
tra essere e dover essere assume un elemento intermedio e di collegamento che è l’umano.

Il dovere nell’essere umano: su tale versante l’obbligatorietà diventa carattere di connessione tra giustizia e
legalità. In che termini sviluppare il nesso essere-uomo-dover essere? Quando hart evidenzia l’apertura del
sistema giuridico si muove nella direzione di riconoscere che se il diritto è linguaggio è nel nesso tra logos e
nomos che si può rintracciare l’elemento genealogico della giuridicità. Le norme sono frutto dell’attività
dell’essere umano per l’essere umano:sono regole per l’azione. In tal senso non sfugge come intendere
l’essere umano quale elemento di collegamento tra essere e dover essere sia una scelta non arbitraria.
Anche perché la struttura del dover essere puo essere intesa con riferimento a 2 linee argomentative. Da un
lato la struttura del dover essere in termini di universalità;dall’altro lato la ricerca della struttura ontologica
dell’essere umano. È agevole riferirsi all’imperativo kantiano quale struttura universalizzante del dovere
perché consente di rifarsi ad un modello in cui la fondazione del dovere viene rintracciata nella struttura
stessa del dovere e nelle sue ragioni. Ma arrivare a dire che deve essere universalizzabile ogni massima di
azioni vuol dire che ogni azione non universalizzabile entra in contraddizione,segnando il discrimine tra
giusto e non giusto. Se ora ci domandassimo qual è la struttura ontologica dell’essere umano,allora
potremmo arrivare a identificarne l’universalità nell’intersoggettività relazionale. Ogni essere umano è un
essere con altri tanto che l’altro è condizione per l’edificazione dell’identità personale del singolo. Anche qui
cade in contraddizione il comportamento che volesse negare tale struttura. Il dover essere della norma e la
ricerca della sua obbligatorietà puo essere rintracciata nell’essere l’essere umano;un ente aperto alla
relazione e che va tutelato in questo suo essere. Sarebbe contraddittoria ogni condotta contraria a tale
tutela,il contenuto del dover-essere è l’essere dell’essere umano. L’obbligatorietà si svela allora in 2
caratteri. Anzitutto la differenza tra obbligatorio e necessario è piu chiara:se un’azione p necessaria non puo
essere obbligatoria perché puo costringere ma non vincolare;per vincolare,il contenuto di una norma deve
essere possibile e soggetto a trasgressione. L’obbligatorietà delle norme è scelta libera sia al momento
deliberativo dell’obbligo,sia in quello dell’esecuzione. Senza libertà non c’è obbligatorietà. Ciò evidenzia
quell’orizzonte ermeneutico nel quale tutto il diritto è positivo perché la positivizzazione stessa è soggetta a
una nuova configurazione. La legge umana,il diritto delle persone,è ricerca dei suoi contenuti nella storia e
con l’esperienza:è invenzione di ragione che evita tanto la passiva ricezione del’accadere quanto l’arbitrio di
un legislatore capriccioso e si fa tradizione e innovazione. La distinzione tra costrizione e obbligatorietà si
svela parametro del dover-essere si svela in una chiave speculativa che ambisce a non essere relativistica ma
neanche assolutistica. La positivizzazione dell’obbligo rende l’apertura del diritto a tutelare la libertà nel
momento in cui tenta di cogliere la giustizia;il nesso positività-giustizia evidenzia il senso dell’obbligatorietà
delle norme giuridiche e la condizione ermeneutica che la sorregge secondo un necessario superamento
della contrapposizione tra legalità e giustizia. Il diritto è condizione dell’esistenza umana. La koinè
ermeneutica quale prospettiva della filo del diritto evidenzia tale condizione pratica della ragione
giuridica,suggerendo al giurista e al filosofo di non dimenticare mai che l’obbligatorietà dipende dalla
possibilità che il diritto ha di custodire il nucleo di senso,affermando la legalità e nella legalità la giustizia.

Parte II:per una filo ermeneutica del diritto

Per completare la prima parte si deve cogliere lo spirito del tempo presente che tanto incide sulla
qualificazione stessa dell’ermeneutica,intesa quale dimensione giuridica. In tal senso non puo essere
sottaciuta la globalizzazione,nei vari momenti del suo disarticolato movimento,come non si puo dimenticare
in che modo la giuridicità si vada sempre più specificando per vie che sembrano abbandonare la stessa
questione filosofica e giuridica della verità,preferendone uno storicismo convinto dell’eterno movimento
eraclideo. C’è allora da chiedersi quale spazio sia quello del diritto e quale diritto sia quello capace di agire
in una realtà simile. Lo spazio ermeneutico del diritto deve essere ritagliato anche scartando alcune
ermeneutiche che risultano mancanti nei confronti della struttura essenziale della giuridicità. Se la realtà
attuale è caratterizzata da una nuova forma di spazializzazione,la stessa realtà dell’ordine giuridico
contemporaneo risente di un differente rapporto tra territorio e norme. Ad un sistema planetario costituito
da singoli sistemi statali legati da rapporti internazionali,si è ormai sostituita la realtà globale di sistemi
ordina mentali transanazionali e extra nazionali che non rispettano regole d’azione e di relazione e hanno
un potere regolativo specifico sia per quanto attiene le fonti normative sia per quanto concerne la capacità
vincolante. A ciò si accompagna un sempre piu stretto dialogo tra le corti nazionali volto non solo ad un
confronto tra soluzioni possibili a temi omogenei,ma soprattutto orientato dal riconoscersi partidi un
movimento piu ampio e indipendente dalle legislazioni che rintraccia nei diritti umani l’ultimo stadio di
sviluppo. Si ha una sorta di riconoscimento di alcuni principi che caratterizzano l’azione globale andando a
comporre la costituzione globale materiale. L’estremo dinamismo della realtà con la quale il diritto del
tempo presente deve fare i conti è dunque anche quello che esso tenta di assumere quale proprio carattere
principale in uno sforzo che apre possibilità rilevanti per una chiarificazione della genesi della giuridicità. Se
si parla di possibilità è perché il rischio è di non cogliere l’opportunità e arrendersi al destino della
contingenza,finendo per negare la stessa importanza del diritto,segnando l’estinzione della giuridicità e il
prevalere dell’immanenza materialistica. In questa secondo parte si vuole chiarire la dimensione
ermeneutica del diritto,il cui nome raccoglie contenuti vari,anche in contraddizione tra loro. Questa seconda
parte precisa allora i termini del rapporto tra ermeneutica e diritto,soprattutto tramite la messa in evidenza
di 2 ontologie che potrebbero delineare 2 storie della modernità differenti che portano al
disassoggettamento e all’assoggettamento. Secondo la prima modalità,è possibile configurare il tema
comprensione e diritto,prendendo in considerazione la testualità ermeneutica e presentandola come
paradigmatica dell’azione. Gli elementi cosi ricavati possono essere messi in discussione tramite la
questione dei diritti e un caso pratico. Questo passaggio dalla teoria alla pratica dei diritti puo evidenziare la
differenza tra disassoggettamento e all’assoggettamento,illuminando il nesso tra libertà e diritto. Se la
stessa filo del diritto è ermeneutica,allora ermeneutico non è solo il metodo ma anche il merito della
riflessione sulla giuridicità;l’ermeneutica diventa riflessione quasi implicita del diritto che se è qualcosa di
specifico rispetto ad altre sfere limitrofe ma correlate,lo è quale opera di costante comprensione dell’essere
umano,nell’ordine suo.

Critica della ragion giuridica:il diritto nel presente


Ermeneutica generale e giuridica: se da un lato ermeneutica generale ricomprende quella
giuridica,dall’altro quella giuridica ha la possibilità di orientare una riflessione ermeneutica piu generale. In
tal senso Cananzi pensa all’ermeneutica giuridica come modalità di pensare l’ermeneutica generale stessa.
Il punto sul quale si vuole concentrare è una diversa modalità di pensare il nesso soggetto-oggetto che
segna il passaggio dall’ermeneutica romantica a quello ontologica. Nata infatti come pratica esegetica in
ambiti particolari,l’ermeneutica diventa problema filosofico. In questa prima fase l’impegno speculativo per
delineare l’ermeneuticità è molto orientato dalla questione filologica della comprensione della lingua e
dalla possibilità di intendere il soggetto che usa la lingua,qualificando cosi l’ermeneutica come una
metodologia filosofica. Una metodologia però destinata a farsi psicologia e a dire criticamente il contesto
intorno al quale si sviluppa il mondo del testo ma nella convinzione della sua storicità. Le soluzioni
dell’ermeneutica romantica sono destinate ad eccedere l’epistemologia;il problema ermeneutico si trova
trascinato verso la psicologia:comprendere vuol dire trasportarsi dentro un’altra vita,evidenziando cosi
anche tutti i paradossi della storicità:come puo la vita esprimendosi,oggettivizzarsi? Tale domanda puo
trovare risposta grazie all’ermeneutica ontologica. Da un lato,interpretazione non corrisponde
perfettamente a ermeneutica,che non attiene solo alla testualità scritturale e non si esaurisce in un’attività.
Anzi tanto l’interpretazione dei testi è interrogazione sul senso,quanto ermeneutica è la dimensione in cui
l’interprete si trova a pensare quel senso. Cosi che dall’altro l’ermeneutica si inizia a profilare come
dimensione piu che come attività:il modo fondamentale dell’essere dell’Esserci,è l’esistenziale
fondamentale della comprensione. I termini della questione ermeneutica sono da Heidegger proposti sun
un piano ontologico,destinato a orientare la comprensione:muovendo dalla denuncia dell’oblio
dell’essere,egli non rivendica uno statuto materialistico ne per l’essere umano,na per il fondamentale
esistenziale che l’ermeneutica è. La sua ottica è un ontologia fondamentale per la quale sia afferma il
primato dell’essere e la sua differenza dall’ente e poi si riconosce nel linguaggio la funzione di medium tra
essere e esserci. La comprensione diviene cosi non solo il presupposto di qualunque interpretazione ma la
sostanza stessa dell’ermeneutica come condizione e dimensione dell’essere umano. Il soggetto
interpretante si avvicina sempre piu all’oggetto interpretato tanto che l’interpretazione non è se non l’atto
tramite il quale interpretando,l’essere umano si interpreta. Con Gadamer tale posizione arriva al
superamento del rapporto oggetto-soggetto:l’interpretazione è un’integrazione tra tradizione del passato e
tracce del presente. L’oggettività dell’opera da interpretare non solo è un miraggio impossibile da
raggiungere ma parte dall’errato presupposto che l’interprete possa obliarsi,che esista una oggettività non
legata alla soggettività che lo interroga. In tal senso la dimensione epistemologica romantica è superata da
un’ermeneutica che pensa soggetto e oggetto calati nella circolarità ermeneutica che arriva a cancellare
l’oggettività dell’oggetto e la soggettività del soggetto. Si marca cosi un’apertura ermeneutica molto ampia
destinata a evolversi in un’ermeneutica a vocazione nichilistica che cancella con l’oggettività anche la
questione della verità e riconosce un ontologia a-verittativa e a-valutativa per una interpretazione che
manifesta punti di vista senza fondamento:è la posizione dell’essere dome radura e come evento,come pura
manifestazione dell’essere dove l’in-essere appartiene per produzione e non per partecipazione. Betti si
ricollega all’ermeneutica romantica muovendo una critica serrata proprio suq questa modalità di cancellare
il rapporto soggetto-oggetto e di non considerare nella dovuta maniera la differenza tra testualità e
interpretazione. Betti non a caso si muove nel campo giuridico,muovendo dall’interpretazione degli atti
giuridici,dal rapporto tra norma e realtà. Di qui un recupero dell’idea di un interpretazione come
metodologia capace di determinare una piu ampia teoria generale dell’interpretazione e un ermeneutica
generale. Quello di Betti è un contributo importante perché pone critiche all’ermeneutica ontologica in
generale che nascono da esigenze giuridiche;nascono da quel particolare testo che è la norma giuridica e
dall’esigenza di terzietà che costituisce presupposto irrinunciabile per il diritto. Le rimostranze di Betti
muovono tutte dal rischio di trascendimento dal testo:il giurista si preoccupa della necessità di rispettare il
testo. In ciò è possibile intendere l’ide di oggettività in Betti. È metodica l’interpretazione quando si sforza di
ricercare i principi normativi della conoscenza da svolgersi nel circolo tra soggetto interpretante e cosa
interpretata da lui indipendente. Pensare un orizzonte ermeneutico in cui soggetto e oggetto si fondono è
pensare una normatività troppo liquida che non rispetta l’oggettività e l’imparzialità. Se questi sono il rischio
e l’esigenza del giurista,il recupero dell’ermeneutica romantica non vuol dire chiudersi in un’oggettualità
blindata. La polemica tra Betti e Heidegger non è fraintendimento,ma una mediazione è possibile
delineando uno spazio ermeneutico generale. Tentando ciò,si puo seguire la considerazione di Ricoeur per
la quale c’è ben piu della metodologia nell’ermeneutica romantica e l’ontologia può seguire un diverso
tragitto rispetto a quello intrapreso da Heidegger. Proprio Betti dimostra come il metodo
dell’interpretazione non sia che un’applicazione canonizzata di alcune premesse teoretiche. Di questi 4
canoni individuati da Betti,2 sono oggettivi e 2 soggettivi. I primi 2 sono il canone dell’autonomia e il canone
della totalità e coerenza. Per il primo,le forme rappresentative devono essere riconosciute nella
determinazione originaria,secondo il motto per il quale autonoma è la forma rappresentativa tanto
dell’autore che l’ha determinata,quanto dall’interprete che la deve ri-rappresentare. Anche per fare questo
soccorre il secondo canone per il quale si deve rispettare la correlazione tra le parti ed il tutto di un
discorso. Il terzo è il canone dell’attualità dell’intendere,interessante perché attiene all’esplicitazione del
senso della forma rappresentativa. L’intendere quanto oggettivato in una forma da altro spirito deve
attualizzare nello spirito dell’interprete il senso. L’interpretazione e l’oggettività di cui Betti rivendica
centralità non ha nulla a che vedere con un pensiero oggettivante ma con l’esigenza dell’imparzialità e
disinteresse dell’interprete. Tramite questo canone si istituisce il dialogo tra autore e interprete nel medio
dell’opera,ma anche tra opera e interprete. Ciò porta all’ultimo canone dell’adeguazione dell’intendere per
il quale non basta un attuale interesse ad intendere,ma occorre anche un’apertura spirituale che consente
all’interprete di collocarsi nella prospettiva giusta. Tutto quanto detto prima,trova quindi compimento
tramite l’individuazione dello sforzo interpretativo voluto a rispettare il senso dell’opera e a trarlo fuori
tramite un delicato legame armonico tra la vitalità attuale dell’interprete e il senso contenuto nell’opera.
Forse quello che Betti pone in luce non è altro che qualcosa che riguarda non tanto l’interprete,quanto i
caratteri dell’opera,oggetto di interpretazione. In tal senso,proprio il tentativo sistematico della Teoria
generale dell’interpretazione sia apre con la questione della posizione dello spirito rispetto
all’oggettività;come osserva Betti,prima del problema soggetto-oggetto c’è la questione dell’oggettività. E
del’oggetto interpretato,Betti è molto attento nel rilevarne la vincolatività. Quando Betti nota come
l’interprete deve sforzarsi di mettere la propria attualità i adesione e armonia con l’incitamento che gli
proviene dall’oggetto,in modo che vibrino all’unisono,evidenzia come non sia l’interprete a creare il testo
ma questo a costituire quello. L’unisono non è semplice concordanza sul testo ma vigore attuale;non si
tratta di far muovere il soggetto icnotro all’oggetto,ma di far muovere l’oggetto incontro al
soggetto,rendendolo partecipe della viva attualità di questo. La differenza tra comprensione ermeneutica e
comprensione ermeneutica giuridica è cosi ancora piu marcata:non si persegue una funzione ricognitiva,ma
normativa.

L’essere dell’esserci è comprendere,le 2 vie dell’ontologia per una distinzione tra autodeterminazione e
disassoggettamento: la genesi del discorso può consistere nel tratteggiare quanto dal mondo del testo
porta al mondo dell’ azione, quanto l’ interpretazione del testo sia coinvolta in un’ ermeneutica della
condizione umana. Quanto l’ ermeneutica possa dire di filosofico e quanto l’ ermeneutica giuridica possa
dire a quella generale, è possibile ora ricondurlo ad una via ontologica che muove dall’ origine del pensiero
moderno. È possibile allora muovere da una considerazione di Lacan: il pensiero non è una categoria, ma è
un affetto per il quale l’ essere parlante in un discorso si trova determinato come oggetto. Dire ciò, spinge
Lacan a riproporre la questione del cogito cartesiano che viene letta in due modalità diverse: a) io penso:
dunque io sono; b) io penso dunque: io sono. Le due formulazioni segnano due vie diverse che illuminano il
pensiero e l’ essere dell’ io. Nel primo caso infatti questo dunque io sono è un pensiero; nel secondo caso la
causa, l’ ego, è pensata. Sembra interessante porre in relazione queste due interpretazioni del cogito con
un’ altra tesi di Lacan sul pensiero e sulla verità: la dove io penso, io non mi riconosco, io non sono,è l’
inconscio. La dove io sono è troppo chiaro che io mi perdo. Con ordine, è possibile intendere le due
interpretazioni del cogito come due declinazioni ontologiche del cogito stesso. Nella prima formulazione, il
dunque io sono, è un pensiero: l’ essere dell’ io è frutto del pensiero. Nella seconda interpretazione, il
pensiero è frutto dell’ essere. Non appare un caso se sulla prima linea delle 2 possibili interpretazioni
possiamo ritrovare tanto l’ esistenzialismo di Sartre quanto il pensiero dell’ ermeneutica nichilistica. E non
sembra neanche un caso se sulla seconda linea si può rintracciare l’ Heidegger dell’ oblio dell’ essere e della
rivendicazione dell’ esserci. Le due declinazioni del cogito manifestano una forte ambiguità che è propria sia
dell’ esistenzialismo sia dell’ ermeneutica. L’ ambiguità consiste nel mantenere l’ esistenza in posizione
antecedente all’ essenza e dunque nel riconoscere che l’ io esisto è frutto del pensiero, capace di costituirlo
con un linguaggio, capace a sua volta di manifestarlo. In questa direzione, la verità del soggetto parlante è
funzionale e frutto del pensiero. È possibile identificare tale modalità come autodeterminazione, in quanto
essa non è che la capacità costitutiva dell’ essere da parte del pensiero. Vi è una perfetta corrispondenza
gerarchizzata fra pensiero e essere, dato che il frutto del pensiero è l’ essere. L’ autodeterminazione
coincide con il perdersi perché non rispetta la condizione strutturale del linguaggio che è l’ inconscio. Lacan
ci dice che la causa è pensata ma non frutto del pensiero e che dunque, lo stesso pensiero è frutto dell’
essere e non il contrario. Su questa via Heidegger può essere considerato incamminato solo fino a un certo
punto. Infatti la sua via è troppo breve e arrivando da subito all’ essere finisce per intenderlo come un fiume
lasciato all’ eventarsi di ciò che accade. Una via più lunga è quella da percorrere ermeneuticamente : una via
che vede il pensiero frutto dell’ essere e che intende come l’ essere dell’ esserci è comprendere.
Riconoscere lo spazio dell’ inconscio nel linguaggio è riconoscere lo spazio dell’ involontario nel volontario
in questo senso la relazione è il luogo del “ ricostituirsi sempre originale della soggettività di qualcuno”
secondo una modalità che è possibile nominare disassoggettamento. Su questa via si evidenzia come il
continua disassoggettamento da un pensiero dominante libera il pensiero nella e alla ricerca dell’ essere.
Ma la via del disassoggettamento struttura anche il diritto secondo la sua genesi non violenta e non
contingente. Il diritto in questa via è nell’ umano come originaria garanzia del suo essere. Ma ciò conduce a
una considerazione: non basta trattare di ontologia, ma bisogna anche chiedersi: verso quale ontologia? L’
autodeterminazione svolge un ontologia che mette in opposizione uso ideologico del diritto e genesi
controfattuale. Il disassoggettamento è liberante nella misura in cui riconosce il primato dell’ essere sull’
esistere. Sostenere che la relazione non è l’ inizio ma il luogo dell’ ri- iniziare, significa sostenere che l’ uomo
è tale per il suo essere e non per il suo fare. Significa riconoscere anche nell’ essere umano incapace la
presenza originaria del diritto nella forma ontologica della dignità. L’autodeterminazione sollecita a
differenziare essere umano e persona;riconoscendo una libertà ad autodeterminarsi nella morte,una libertà
di decidere la morte dell’essere umano che non è persona. Il disassoggettamento considera che il ri-iniziare
continuo sia un diritto che non puo negare la propria genesi. La volontà negherebbe se stessa se il
ri-iniziarsi non fosse un togliersi dal’assoggettamento anche come auto-assoggettamento. Il
disassoggettamento del diritto chiede di pensare la libertà come diritto e non il diritto come libertà. Se si
pensa la libertà come espressione del diritto,l’incapace alla relazione è rispettato nella dignità del suo
essere umano. Se si pensa il diritto come espressione della libertà,l’essere umano non riconosciuto persona
non ha dignità ed è solo materiale biologico non funzionante.

Comprensione e diritto,nel presente: l’essere che è comprendere puo precisarsi nella tesi per la quale
l’essere che puo essere compreso,è linguaggio,in quanto tale aperto all’intepretazione e all’ermeneutica
come dimensione propria. Sarebbe possibile intendere questa nota tesi gadameriana declinata sulle 2
ontologie,quella dell’autodeterminazione-assoggettamento o del disassoggettamento. Di qui la doppia
interpretazione che è stata fatta optando nella direzione di un’ermeneutica nichilistica. Essa però va intesa
come un comprendere tutto cio che è possibile comprendere;questo non significa che la coscienza
articolata linguisticamente determini l’essere materiale della prassi della vita,ma solo che non vi è nessuna
realtà sociale che non si presenti a sua volta in una coscienza articolata linguisticamente. Madame puo
allora concludere che il linguaggio non è il rispecchiamento di ogni essere,ma un’esperienza in cui viene
interpretato cio che è con noi. Il diritto puo venire compreso come esperienza che non si esaurisce ne in una
costituzione autodeterminante dell’essere,ne in un sapere totale. Nel momento in cui le antiche certezze di
una giuridicità chiusa all’interno di un ordinamento definito sono venute meno,la giuridicità ha la possibilità
di essere evidenziata per quello che è. Allora il diritto si lega da un lato all’oggettività e manifesta tutta
l’attenzione che chiede di rivolgere verso la testualità;dall’altro il diritto si lega all’azione della quale e dalla
quale trae senso,ma secondo un modello narrativo. Se l’essere che puo venir compreso è quello che passa
per la mediazione linguistica del linguaggio,cio significa che l’essere del diritto e la sua comprensione passa
per la mediazione ermeneutica che svela l’ermeneutica come struttura della stessa giuridicità. Nel
presente,venuti meno i paradigmi classici che costringevano la giuridicità all’interno dello stato,della
norma,è possibile cogliere l’opportunità di pensare il diritto come garanzia di umanità. Ha ragione Viola
quando pensa che la dinamica del diritto è possibile da mantenere nella sua continua formazione se la si
intende sul piano della ragion pratica. In fondo la comunità interpretativa è la tradizione capace di non
rendere contingente la giuridicità. Ma proprio come pratica della comunità interpretativa puo essere
restituito a quel circolo di storicità che Paresce indica parlando di “conformità creatrice”. E non a caso egli
delinea questa conformità creatrice pensando una genesi del diritto non positivizzata in modo
normativistico ma secondo quel momento spirituale che è l’attuazione spontanea. Paresce infatti osserva
che nell’attuazione spontanea si manifesta subito la forma del giuridico che è una guisa dello spirito. In tal
senso è possibile intendere il fenomeno giuridico come attività interpretativa e come condizione che
coinvolge l’essere umano nella sua interezza. Cogliere l’ermeneutica come dimensione del diritto,significa
giustificare l’obbligatorietà,vuol dire che l’essere umano implica il diritto e viceversa;i termini di tale
reciproca implicazione si danno nella capacità narrativa di comprendere le strutture essenziali delle azioni
nel rispetto dell’essere umano. In questo incontro tra azione ed essere si interpone il dovere. Il diritto è
fenomeno di garanzia del disassoggettamento che si fa misura della relazione con l’altro manifestandosi
anche garanzia dal non auto-assoggettamento. Un diritto a dimensione ermeneutica non condivide ne la
precostituzione del giusto naturale ne l’assenza della giustizia. Lo spazio reale della giustizia puo essere
delineato tramite la dinamica formatività di un diritto che è in formazione perché implicato nell’essere
umano che a sua volta è formatività. La questione della realtà e del senso chiedono quindi di proseguire
tramite l’azione e di pensare questa tramite una critica della ragion giuridica capace di evidenziare la
formatività del disassoggettamento. Il diritto sarà sensato solo se la sua testualità sarà valorizzata
ermenuticamente. Cogliere la dimensione ermeneutica del diritto si traduce nell’atteggiamento
umile,proprio dell’ermeneutica che si confronta con la realtà e con la verità. Di qui la possibilità di cogliere
l’ermeneutica come dimensione evitando la riduzione del linguaggio a feticcio effettivo:non c’è ne
relativismo,ne nichilismo in essa. E del resto se,la possibilità che l’altro abbia ragione è l’anima
dell’ermeneutica, e se si pensa l’ermeneutica come dimensione propria della giuridicità,l’umiltà nei
confronti della verità passa tramite la discussione dialogica della comunità interpretativa. La possibilità che
l’altro abbia ragione è anche l’anima del diritto che si struttura ermeneuticamente. La verificazione o
falsificazione della ricerca ermeneutica viene a intendersi come un incontro tra una molteplicità di individui
che si interrogano attorno a forme sensate e rappresentative. La storicità cessa di essere un limite della
ragione diventa piuttosto una condizione positiva per la conoscenza della verità;storicità e dialogo che
esplicitano la finitudine umana e la sua parzialità in quella condizione ermeneutica in cui si svolgono. Quella
che l’ermeneutica puo raggiungere non è una certezza assoluta ma negativa. In cio il diritto si manifesta
anche come punto di osservazione privilegiato e il suo contributo puo eccedere la regionalizzazione della
sua pratica. In fondo se si condivide l’idea che l’interpretazione è modellata dalla domanda con cui
l’interprete affronta l’argomento,allora non solo si comprende il perché delle varie direzioni
dell’ermeneutica,ma si puo concordare che il diritto ha il bisogno di porre molte domande.

Della realtà e dell’irrealtà dell’azione: tracciare una dimensione ermeneutica del diritto passa per
evidenziare da un lato come l’ermeneutica si rapporta alla realtà e dall’altro come realtà e azione siano
legate. In questa duplice direzione è possibile muovere da quanto vede contrapposte la visione
post-moderna alla visione del nuovo realismo. Muovere da questa polemica consente anche di delineare
nuovi argomenti giuridici per escludere una modalità di pensare l’ermeneutica:quella a vocazione
nichilistica. In questo momento,è molto acceso il dibattito sul nuovo realismo che si propone quale
superamento dell’idea post-moderna. Ad un’ermeneutica a vocazione nichilista ipotizzante un’ontologia
della verità divenuta favola tramite il superamento dei grandi racconti,si vorrebbe far prevalere oggi una
forma di ontologia per la quale la realtà si riconosce emancipata dalla volontà e si presenta quale nocciolo
duro inemendabile,ostacolo ad una volontà di potenza logocentrica perché egocentrica. La discussione si
polarizza attorno a 2 tesi contrapposte e generiche. Da un lato il post-moderno all’insegna della tesi di
Nietsche per la quale:1)non ci sono fatti,solo interpretazioni,dall’altro,il nuovo realismo alla posizione
speculare per la quale:2)ci sono fatti che rendono possibile anche le interpretazioni che li riguardano.
Quando il psot-moderno si afferma,il clima è quello del logocentrismo:il linguaggio al centro vuol dire che
tutto è linguaggio e se tutto è linguaggio tutto dipende dal parlante che determina la realtà,fino a sostenere
che anche il parlante è costituito dal linguaggio. È il momento in cui l’ essere come evento ha determinato
ha determinato la convinzione diffusa che l’essere si linguaggio e il linguaggio sia l’essere e si decreta il
superamento della meta-narrazioni,si pensa l’essere umano come padrone di cio che è reale,si dice che
tutto è testo e nulla c’è al di fuori di esso. Di qui,la tesi di Nietsche che assegna all’interpretazione la
funzione costitutiva della realtà. In ambito sociale e giuridico,cio si traduce nel superamento del
fondamento o nell’affermazione di un fondamento convenzionale a sua volta non fondato i cui vari tentativi
hanno scritto la storia del 900. A tutto cio,si contrappone quel nuovo realismo che vuole essere una
riconquista in termini di realtà,di una verità che sarebbe nella cose perché delle cose,in quanto tale non
frutto di interpretazioni . infatti in tale orientamento,la realtà è piu forte di qualsiasi intepretazione i cui
limiti corrispondono proprio con la realtà,con l’ontologia dunque per la quale l’essere non è costituito
dall’interprete perché è identificato con l’ente. Un’ontologia che però rimane debole nei confronti della
realtà sociale e giuridica e per la quale non si distacca troppo dal convenzionalismo. Cio permette di
introdurre una linea novecentesca alternativa rispetto a ora:l’eredità francofortese di habermas e Apel.
Proprio su queste questioni di comunicazione sociale e di elaborazione giuridica,la soluzione adottata è in
linea con il logocentrismo ma alternativo al post-moderno e in linea con realismo ma alternativo
all’effettività. Anche da questo punto di vista ,il nocciolo sociale-giuridico rimane quello del potere.

L’altra ermeneutica: in questa argomentazione Ricoeur è protagonista non solo in quanto attivo in quel
panorama,ma anche perché è uno di quelli che l’ hanno orientato. La sua rappresenta forse una possibile via
ermeneutica tramite cui pensare la realtà contemporanea? Prima di tutto,quando il post-moderno declina la
svolta linguistica a sua modo,Ricoeur è tutto immerso nella fase piu ermeneutica del suo pensiero. Dialoga e
si confronta con i protagonisti del momento,ma paga con una certa diffidenza la sua indipendenza che lo
porta su altra strada rispetto all’ermeneutica del 900,mantenendolo sulla via percorsa prima dai suoi
maestri Nabert e Marcel. Si possono differenziare 2 percorsi parallele del pensiero contemporaneo:il primo
che va da Cartesio a nietsche, il secondo da Cartesio a Rosmini. L’ida puo essere riprese differenziando a
partire da cartesio una via che si concentra sul cogito,l’altra che assume come termine centrale l’ego sum. La
prima via è quella che inaugura la riflessione post-moderna arrivando ai paradossi estremi di Nietsche:il
pensiero si fa volontà e la volontà potenza. La seconda via vuole cogliere l’integralità dell’io nel suo essere.
Su questa seconda via si dipana la ricerca di Ricoeur che Jervolino bel riassume:essa si deve fare
interpretazione perché non è possibile afferrare il nostro atto di esistere in altro luogo che nei segni nei
quali esso si esprime e si nasconde. Quindi con lui abbiamo chiara l’immagine di un modo ermeneutico di
fare e pensare la filo:cioè quello di chi crede nel dialogo con l’altro. Per comprendere meglio il senso
ermeneutico di Ricoeur,valgono le parole introduttive del volume sul volontario e l’involontario:la
riconquista del cogito deve essere totale;l’esperienza integrale del cogito ingloba l’io desidero,l’io posso e
l’io vivo. Una comune soggettività fonda l’omogeneità delle strutture volontarie e non. Integrale è il cogito
se si riferisce all’interezza di quell’io che è e si accorge di essere,e inizia a interrogarsi su chi sia e chi possa
essere. In questi termini la sua ermeneutica rintraccia la sua iniziale matrice critica. Un ‘ermeneutica che è
metodica e critica. Metodica perché differente tanto da quella dei fondatori,quanto da quella ontologica
perché non vuole concentrarsi tutta sulla soggettività,ma intende essere realista e quindi fenomenologica.
Del resto proprio come scrive lui:la fenomenologia resta l’insuperabile presupposto dell’ermeneutica,anche
se le 2 si implicano a vicenda. La differenza proposta tra le 2 linee che muovono da Cartesio,puo ora trovare
una strutturazione incarnandosi nella distinzione tra via corta e lunga che segna uno dei tratti di distanza tra
l’ermeneutica ontologica e quella di Ricoeur. Via corta:una fenomenologia ermeneutica puo andare
direttamente all’ontologia ponendosi come questione:che cosa è un ente il cui essere consiste nel
comprendere? Una fenomenologia ermeneutica puo decidere di assumere l’ontologia non come punto di
partenza ma di arrivo,è allora la via lunga,per la quale una rinnovata filosofia dell’ego sum porta il soggetto
interpretante a interpretarsi interpretando e consentendogli di farlo come un chi che è posto nell’essere
prima ancora di porsi e di possedersi. In tal senso il linguaggio si fa centrale ma non assoluto. Presupposto
ermeneutico di tale fenomenologia è appunto l’ego sum:necessariamente finito e plurale,si riconosce tutto
nello sforzo e nel desiderio di vivere. In tal modo gia avvertendo come l’alterità sia parte di se stesso,come
la relazione dialogica sia strutturale ecc. La pluralità e il conflitto divengono non limiti ma condizioni
ermeneutiche imprescindibili. Altro dato rilevante è la portata critica dell’ermeneutica di Ricoeur che
consente di evidenziare un’intersezione del percorso di Ricoeur:quello con Habermas. Ad avvicinarli è Freud
e l’occasione la nota polemica tra ermeneutica e critica dell’ideologia della quale egli entra a far parte
tramite il suo sforzo di ricostruire altrimenti i termini della questione. Egli afferma che non si possono
opporre le 2:la critica delle ideologia è la via lunga necessaria,che la comprensione di se deve
intraprendere,se quest’ultima deve lasciarsi formare dalla cosa del testo e non dai pregiudizi del lettore.
Critica è l’ermeneutica di Ricoeur in quanto non assume l’auto-trasparenza del cogito ma l’essere brisee
dell’io sono. Critica è la sua ermeneutica perché assume il conflitto delle interpretazioni come status
normale. Metodologia e critica sono dunque le 2 aggettivazioni della sua ermeneutica che se puo pensare
altrimenti è per la scelta di quella via lunga,se rimane concentrate sull’io sono,non per questo manca di
allontanarsi. Anzi proprio allontanandosi è capace di non cadere nella tetica evidenza dell’auot-affermazione
e di cogliere l’interezza dell’io tramite il desiderio e lo sforzo di esistere le cui tracce sono da interrogare.

Per una testualità narrativa: testo perché le tracce dello sforzo di esistere che segna l’ego sum hanno una
loro matrice narrativa:sono le tracce del racconto della propria storia personale e della storia comune e
sociale e della storia dell’umanità. E del resto il testo è espressione di linguaggio e il linguaggio ha una
struttura simbolica. Il testo per lui è qualcosa di particolare e sviluppare a partire da esso il proprio itinerario
costituisce l’unicum di questo filosofo. Prima di tutto il testo non si identifica con la scrittura e non
costituisce n semplice caso particolare di comunicazione interumana:il testo è il paradigma della distanzi
azione nella comunicazione,del mondo umano,dell’azione. In queste 3 tipologia sarà trattata la sua
testualità intendendola come narrativa e capace di rispondere alle esigenze attuali. Sul testo come
paradigma della comunicazione si puo intendere la distanza dall’ermeneutica ontologica di heidegger che si
preclude la possibilità di arbitrare i conflitti tra ermeneutiche rivali e non riesce ad arrivare a quel nodo
semantico originale di tutte le ermeneutiche che Ricoeur rintraccia nella semantica delle espressioni
simboliche sulle quali heidegger non presta attenzione. Tramite la differenza dall’ermeneutica ontologica si
comprende anche la differenza dalla testualità forte:quella di madame ma si coglie anche la distanza
rimarcata rispetto a un’identificazione tra essere e ente delle posizioni realiste. La distanziazione del testo è
quanto consente di pensare un linguaggio come simbolizzato e posto in un campo semantico che cosi viene
delimitato. In tal senso,la centralità del testo nell’ermeneutica sua consente d superare sia la supremazia
della volontà dell’autore,sia quella dell’interprete. Distanziandosi dall’intenzione dell’autore e dalla sua
significazione psicologica,il testo si fa opera,acquista quel mondo del testo che permette all’interprete di
comprendersi davanti al testo. Bisogna dire che noi ci comprendiamo solo tramite il grande periplo dei segni
dell’umanità. Ecco perché la via lunga non cade nell’inganno di un linguaggio chiuso in se stesso nel quale i
segni del linguaggio rinviano solamente ad altri segni all’interno dello stesso sistema. Mondo del testo vuol
dire temporalità che non è quella anonima della lingua,ma quella discorsiva e narrativa della triplice
mimesis:precomprensione,configurazione e rifigurazione. In cio si svela anche come la questione
ermeneutica centrale sia sempre rimasta quella dell’io sono e come il linguaggio stesso come ambito
significante,chiede di essere riferito all’esistenza. Il tempo diviene umano nella misura in cui viene espresso
secondo un modulo narrativo,il racconto raggiunge la sua piena significazione quando diventa una
condizione dell’esistenza temporale.

Conflitto di forze,di interpretazioni e di senso:l’ontologia implicata: perché il pensiero ermeneutico di


Ricoeur dovrebbe avere a che fare con il conflitto e di quale conflitto si parla? Conviene muovere alla
differenza rispetto ad Heidegger per ricostruirne il nesso all’insegna dell’ontologia:esibita dal filo tedesco e
desiderata da quello francese. Heidegger colloca il comprendere come modo di essere e non come modo di
conoscenza. In tal modo la sua via breve rende il problema ermeneutico una provincia dell’analitica
dell’essere dissolvendo un problema non secondario:come arbitrare il conflitto delle interpretazioni rivali? Il
dubbio che Ricoeur oppone a questa operazione e alla via breve è di aver sottratto l’ontologia al circolo
dell’interpretazione di cui essa stessa costituisce la teoria. Ecco perché ipotizzare una via meno diretta che
individui l’ontologia come punto di arrivo. Ma verso quale ontologia? Non l’ontologia separata della via
breve perché solo nella dinamica dell’interpretazione scorgiamo l’essere interpretato ,non un’ontologia
unificata perché scorgiamo qualcosa dell’essere interpretato solo in un conflitto tra ermeneutiche rivali.
Quella della via lunga è un’ontologia implicata che è gia un’ontologia. L’ontologico implicato nelle tracce
dell’io sono finisce per essere quel desiderio che è parte del desiderio e dello sforzo di esistere.
L’ermeneutica è la comprensione delle ermeneutiche che sono le modalità di comprensione dell’essere.
L’ermeneutica diventa cosi dimensione,anzi condizione implicata nei modi e nelle modalità di un’esistenza
che davvero è desiderio e sforzo. Cosi il cogito non è piu quella pretesa di porsi da se stesso,ma appare
come gia posto nell’essere e questo “gia” dice molto. Ermeneutica è condizione perché non è possibile
ipotizzare questo desiderio al di fuori del processo dell’interpretazione:esso resta sempre un essere
interpretato. Ecco raggiunti 2 traguardi:da un lato le vari espressioni dell’essere fanno parte dell’essere
stesso e quindi il conflitto delle interpretazioni fa parte della condizione ermeneutica. Dall’altro c’è l’essere
che da e dando costituisce l’origine dell’archeologia del soggetto. Nel diritto questo è cio che avviene nel
giudizio.

Azione e senso della misura: la testualità per Ricoeur non costituisce solo la componente principale
dell’interpretazione ma è anche un modello dell’azione. Partiamo dall’ipotesi di lavori di Ricoeur e dalle 2
domande che costituiscono l’architrave di Il modello del testo:l’azione sensata considerata come un testo;si
legge che le scienze umane possono essere considerate ermeneutiche nella misura in cui condividono alcuni
problemi dell’interpretazione e dunque: 1)che il loro oggetto abbia tratti costitutivi del testo in quanto
testo;2)che la loro metodologia abbia lo stesso profilo procedurale dell’interpretazione dei testi. Di qui le
sue 2 domande:come è possibile considerare il testo un paradigma per le scienze sociali?fino a che punto la
metodologia dell’interpretazione testuale è paradigmatica di quella delle scienze umane? A tal punto ci si
chiede:che cosa comporta che l’azione ha una sua testualità?che la storia di ciascuno e dell’umanità ha una
sua testualità? Dire che cio che si fa entra nella storia costituisce un testo,vuol dire che l’intenzione
dell’autore e del testo cessano di coincidere e si sviluppa lo spazio per l’edificazione di se stesso. In fondo,da
un lato se l’autore non è piu determinante per il testo,cio significa che il testo diventa elemento di
responsabilità:è responsabile per cio che ha fatto. Dall’altro lato,solo per questo distanziamento ha la
possibilità di interrogarsi sul senso del suo agire e sulla presa di consapevolezza che costituisce anche la sua
libertà. In tale direzione la libertà di agire trova un momento costituivo nella responsabilità di
essere,evidenziando anche come l’azione non è un accadimento caotico e come la regolamentazione
dell’azione non sia caotica. Del resto Ricoeur nota come l’azione sensata diviene oggetto di scienza solo
nella condizione di una sorta di oggettivazione equivalente alla fissazione del discorso tramite la scrittura e
grazie a tale oggettivazione,l’azione diventa una configurazione che chiede di essere interpretata in funzione
delle sue connessioni interne. Se l’azione fosse un semplice accadimento evento,non avrebbe connessioni
interne da rintracciare;non ci sarebbe la libertà e la responsabilità dell’azione. Se l’azione fosse un semplice
accaduto,la privazione del senso condurrebbe anche all’impossibilità di differenziare tra bene e male.
Nell’azione ermeneuticamente intesa invece il significato dell’azione si stacca dall’avvenimento dell’azione
consentendone un’interpretazione;in questo senso l’azione è un’opera aperta il cui significato è in sospeso.
Non solo la funzione simbolica è sociale ma la realtà sociale è fondamentalmente simbolica. Si è cosi giunti a
evitare sia la riproposizione della volontà come potenza, quanto la empiria materialistica di una realtà
esaurita nella contingenza; entrambe infondo riassunte nella considerazione di Pareyson: è destino che l’
uomo, quando voglia farsi super uomo non diventi che sub uomo. Il limite forse all’ arbitrio della volontà
risiede in quel fallible che accompagna il capable dell’ ego sum; in chiave ermeneutica, nel considerare che ”
se è vero che c è sempre più di una maniera di costruire un testo, non è vero che tutte le interpretazioni
sono equivalenti.“ Ciò significa che non tutto è possibile e che del possibile si può dare una misura da
pensare non in termini di deminutio della stessa possibilità. Il limite infatti si svela essere la condizione
stessa del procedere che è dell’ essere umano e del senso. Tra il fare della vita e della verità, l’ ego sum
procede senza certezze positive ma con lo sforzo di comprendere per arrivare a delle certezze negative, che
sono pur sempre certezze, mai assolute e sempre attestate nel registro ermeneutico relazionale dell “ io
credo in”. In tal senso, l’ ermeneutica pensata con Ricoeur, diventando condizione, si svela koinè ma non in
quanto capace di veicolare consensi più o meno diffusi. Essa invece trova la sua centralità
indipendentemente dalla sua diffusione, perché è la condizione ineludibile dell’ umano è sua modalità di
essenza e di sussistenza.

Lo spirito del diritto. Sul fondamento e abuso dei diritti: il tema dei diritti è tra quelli che sono destinati ad
unire e separare gli studiosi. Forse per questo se quello dei diritti umani è il tema del presente,è anche
molto vero che lo è nella misura in cui è pervaso da una forte ambiguità destinata forse a non risolversi. E
proprio l’attualità dimostra ancora di piu rispetto al passato tutta l’ambiguità del tema e la sua
problematicità. Ora che siamo arrivati ai diritti di quarta generazione(inerenti il patrimonio genetico o le
generazioni future) la questione del fondamento e dell’abuso dei diritti appare in tutta la sua portata,su
tutta la linea che non contrappone fondamento e abuso ma li avvicina. Tanto che proprio quello che alla fine
risulta costituire problema è il nucleo assiologico caotico nato per accumulazioni di tradizioni,istanze ecc.
Ecco che ritorna la domanda proposta da cotta:siamo tutti d’accordo sui diritti fondamentali,nel senso che
su di essi si possa registrare un consenso universale? Acquista rilevanza differenziare i diritti fondamentali
che sono tali solo per una porzione di mondo,da quelli tali perché riferenti alla totalità del genere umano.
Cio porta al punto centrale che anima la discussione dei diritti da sempre:il fondamento dei diritti dell’uomo
è la natura umana o la storia degli individui? Il discorso cosi avviato consente da un lato di guardare il diritto
in tutta la sua pratica criticità;dall’altro permette di evidenziare come proprio questa pratica criticità
necessita di uno sguardo e di strumenti che non sono quelli della scienza giuridica ma anche quelli di
riflessione filosofica capace di chiarire il disassoggettamento ermeneutico.

Naturalità e storicità dei diritti:il valore vivente ed il rispetto della persona umana: ci si dovrebbe forse
chiedere se ancora possa reggere la domanda sul fondamento sociale e storico dei diritti. Infatti oggi questa
domanda assume un significato diverso rispetto al passato. Se prima la natura umana rappresentava un
livello misterioso dove confluivano le questioni pratiche trovandovi un limite solutivo,oggi puo ancora
parlarsi di mistero? Si puo ancora richiamare la natura umana quale fondamento dei diritti umani non
contraddicendo quel diritto all’autodeterminazione che informa ognuno dei singoli diritti? In tal senso il
fondamento storico dei diritti sembrerebbe render ragione non solo della proliferazione ma soprattutto del
nucleo che li riaccoglie e della sua caoticità. La salute sembra l’argomento giusto per proporre l’interrogativo
generale sul fondamento dei diritti. Nella cost. italiana compare un’espressione teoreticamente forte. L’art.
32 dice:la rep. Tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e della collettività..la legge non puo
violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana. L’ampio dibattito post-bellico ha centralizzato
l’attenzione della ricerca su cio che non puo essere mortificato perché ne è presupposto e ragione e non
mezzo:l’essere umano nella sua dimensione esistenziale. Rispettare la persona appare dunque l’incipit di
ogni approccio scientifico e della scienza stessa nel suo essere se stessa. Anche per quanto concerne la
legge,il rispetto della persona umana appare limite assoluto,poiché in nessun caso puo essere violato. Cio
trova corrispondenza nel dibattito filo e giuridico in cui si marca il passaggio dal soggetto alla persona che
costituisce la risposta alle derive funzionalisti che del post-umanesimo. Rispettare la persona umana è
centralizzare la volontà di autodeterminazione del singolo ,seguendo la direzione che porta dalla persona al
diritto ed invertendola rispetto a quella,che ha spesso caratterizzato la modernità ed è stata alla base di
interpretazioni astratte anche del diritto. Scienza,diritto ed essere umano dunque sembra che siano
destinati a ritrovarsi attorno alla persone come sue condizioni. Cos’è questo?qual è il fondamento dei diritti
e quando la ragione ne abusa?l’attualità,se da un lato ci propone certo un abbandono nei confronti
dell’antica concezione di natura,non puo registrare un mero abbandono allo storicismo. Ecco perché la
questione essenziale sul fondamento dei diritti umani indagati tra natura e storia deve essere chiarita nella
sua attuale problematicità e riformulata,quanto all’ambiguità dei suoi elementi. Concentriamo l’attenzione
ora sulle dichiarazioni anticipate di trattamento o testamento biologico. Tale dichiarazione è la
manifestazione di volontà con cui una persona rende noto il suo volere circa le condizioni della sua fine vita.
Secondo interpreti,qui troverebbe limite la scienza e la persona,nel momento massimo di
liberazione,svelerebbe l’interezza del suo essere esprimendo la somma delle libertà: l’
autodeterminazione,qualificata come diritto dell’uomo. E con autodeterminazione qui sarebbe nominato
non solo il limite,ma anche il contenuto della stessa persona che dichiarando chiede,e chiedendo pretende
il rispetto di quel se stesso unico,frutto di una storia personale e che deve auto-decidersi. Ci si chiede se il
diritto alla salute corrisponde al diritto di essere se stessi e se tale condizione sia uno status pre-giuridico di
liberazione o se non sia uno status di libertà. A questo punto si puo riformulare l’interrogativo:il
fondamento dei diritti è la natura o la storia? Del resto assumendo il paradigma della storia,la storicità della
condizione personale è proprio quella delle condizioni di cui il singolo non dispone e che declinano il suo
essere. Si puo cosi pensare che il rispetto della persona umana attenga non solo alla scienza e al diritto ma
allo stesso essere umano. Quindi il rispetto della persona umana non è un limite ma un fondamento. Una
sorta di dover- essere desumibile nei diritti umani che si rintraccia nei 2 elementi dell’essere e della
storicità:doveri e caratteri che cosi si qualificano come universali e non fondamentali. Gli elementi della
storicità e dell’essere infatti illuminano l’essere umano e lo spazio di effettività dei diritti umani per i quali si
compongono e non si oppongono i termini diversità e uguaglianza,universalità e differenza ecc.
Evidenziando l’universalità nella sua manifestazione plurale,il soggetto astratto si incarna nella persona
concreta intendendo la persona come via per il recupero integrale dell’individualità declinando cosi
categorie generali ma non astratte capaci di riflettere le sintesi tra singolo e altro. Tale aspetto relazionale
non ha solo una valenza esperienziale ma costituisce un carattere dell’essere umano che se fa storia con la
propria quotidiana attività non nasce dalla storia:questa è la differenza della storicità umana dallo
storicismo. Dall’autodeterminazione deriva la possibilità della modalità di espressione e di esercizio della
vita ma non la sua proprietà e disponibilità. Il principio eletto a diritto del rispetto della persona umana
chiede di chiarire la storicità ontologica della persona. In fondo “farsi fare persona” dalla relazione con altre
persone è contro quelle prime formulazioni dei diritti umani affermanti l’essere umano per nascita;la natura
è infatti da intendere nel senso che l’essere umano non diviene tale a determinate condizioni ma lo è
sempre e per sempre. La storicità ontologica manifesta cosi il combinarsi dei 2 elementi e caratteri
dell’essere e della storicità. Cio porta a quanto un filosofo del diritto dice a proposito dei valori e dell’essere
umano. De stefano opera infatti una distinzione tra valori vissuti intesi come tali,e valori viventi,insostituibili
della vita,che sono le persone. Le persone si distinguono perchè hanno una dignità che non vuole essere
valutata in linea comparativa ne subordinata ad altri beni. Si avverte che tutti gli uomini sono degni di
rispetto e vanno considerati come fini e non come mezzi. Cosa rende unica la singola persona? Il valore
vivente indica l’incontro tra universale e particolare. L’uguaglianza tra gli uomini è il riconoscimento della
dignità assoluta di ogni individuo umano nella sua individualità insostituibile. Quindi l’essenziale
eterogeneità esclude una graduazione di ranghi gerarchici secondo un metro comune di valutazione. Il
valore vivente esplicita in modo unico l’essere solo nella storicità che è implicita nell’essere stesso
dell’umano;e questa storicità è la relazione tra gli uomini,e questa relazionalità è ricerca ermeneutica e
interrogazione.

Lo spirito del diritto tra irrinunciabilità del fondamento e rischio dell’abuso:una prospettiva ermeneutica:
un nesso tra diritti umani ed ermeneutica risiede nella comune attualità e ambiguità. Anche l’ermeneutica è
il tema di attualità sul quale si registra una convergenza diffusa cosi che anche essa manifesta tutta la sua
ambiguità. Sia nel caso dei diritti,sia in quello dell’ermeneutica,ridurre l’ambiguità vuol dire prendere
posizione sull’attualità per una modalità meno ambigua e caotica. Ma non è questa coincidenza che spinge
ad una lettura ermeneutica dei diritti umani. Il valore vivente appare illuminante per cogliere lo spirito del
diritto e diritti e questo è tutta una questione di comprensione. Questa declinazione a conseguenza
nichilistica:a)confonde diritti fondamentali e umani;b)storicizza il valor vivente in valore vissuto;c)deve
riconoscere che non c’è un fondamento dei diritti. Questa ultima conclusione puo trovare la sua
formulazione sintetica in queste 3 tesi principali:non ci sono fatti,solo interpretazioni perché non c’è alcun
senso…non esiste alcuna verità,dunque tutto è permesso. Di puo muovere dalla parzialità dell’osservatore
per intendere diversamente l’ermeneutica dei diritti umani? Una prima considerazione:se non si riconosce
la possibilità del fondamento dei diritti non si riconosce la possibilità dell’abuso del diritto;se tutto è
permesso ogni azione è consentita,ogni manifestazione di volontà è ammissibile. Una seconda
considerazione:se si pensa l’autodeterminazione in termini di libertà,l’assolutismo del “tutto è permesso va
contro la parzialità che caratterizza l’essere umano confondendo l’arbitrio libero. Pensare la persone come
erede di un linguaggio storico-finito che la rapporta al mondo e a se stessa significa avvertirla come erede di
una tradizione. Cio porta ad una precisazione essenziale:il tema filosofico dell’ermeneutica non si trova
nell’interpretare ma nel comprendere. Se l’ermeneutica a vocazione nichilistica si edifica tutta intorno
all’interpretazione e i diritti a conseguenza nichilistica muovono dalla liberazione del singolo dalla propria
natura,un’ermeneutica dei diritti umani puo essere raccolta intorno alla comprensione come azione
dell’ermeneutica che è la condizione in cui la persona si interroga sul senso. La storicità stessa della persona
colloca questa in relazione con altri,una relazione legata all’essere che la qualifica come umana. La relazione
non è solo l’incontrare l’altro ma l’essere protagonisti di una storia comune. Il diritto
dell’autodeterminazione si qualifica come possibilità che la singola persona decida per se:quale l’ambito di
applicazione di tale diritto? La modalità narrativa qualifica il modus della tutela della persona.
Autodeterminazione è decidere per decider-si non certo nella direzione della liberazione assoluta,ma in
quella della libertà esperenziale del disassoggettamento. Quando Marcel parla della persona,osserva che
essere incarnato significa appartenere a se come corpo senza potersi identificare e senza potersene
distinguere;secondo lui,noi non ci apparteniamo perché nel nostro decidere dobbiamo rispettare
qualcosa…ma cosa? Il dato normativo parla di divieto di disporre del proprio corpo,di un diritto alla salute
ispirato alla libertà dell’individuo nel suo viver sociale. Ma come conciliare l’aspetto sociale e la libertà
individuale? Rispettare la persona è un precetto vestito della casacca di diritto,si rivolge a tutti e anche alla
persona tutelata. Ma da cosa è tutelata? È interessante osservare l’enunciazione dell’art. 1 della carte dei
diritti fondamentali dell’ UE:la dignità umana è inviolabile e deve essere rispettata e tutelata. L’inviolabilità
appartiene ed è riferita ad un bene giuridico che non può essere soppresso;non si puo cancellare perché è
impossibile levare la dignità all’essere umano,essendone un suo carattere costitutivo. C’è nella storicizzata
vita degli uomini qualcosa che non è storicizzabile e che appartiene all’essere dell’essere umano ed è
dunque indisponibile. L’indisponibile di Marcel appare confermato dalle formazioni piu avanzate dei diritti
che edificano tutto il normato sull’autodeterminazione della persona che esercita la propria libertà. Il
rischio è che cio che costituisce fondamento venga abusato. Del resto,se è vero che il progresso scientifico
dona nuovi spazi all’autodeterminazione della persona,è anche vero che aumenta la necessità di qualificare
i termini di questa autodeterminazione meglio. Con le dichiarazioni anticipate di trattamento,l’individuo
determina che al verificarsi di alcune condizioni,intende che sia rispettato il suo volere circa alcune terapie.
Dal punto di vista giuridico abbiamo 2 linee:la dichiarazione come atto di disposizione per un momento
futuro che vincola per quando non sarà capace;il contenuto possibile ditale dichiarazione. Quanto al primo
aspetto,i termini della questione possono riassumersi tramite delle domande:è giuridicamente vincolante
una disposizione che vincola un soggetto capace per un momento in cui non sarà piu capace?che tipo di
forma deve avere l’atto?che tipo di capacità è richiesta? Tra i vari dubbi,una considerazione va fatta:è
emblematica la discordanza che verte anche sul nome in quanto ogni nome proposto corrisponde a una
precisa visione della materia con diverse risposte alle domande su elencate. Diversità che si riconduce al
preliminare e cioe all’autodeterminazione. In tal senso autodeterminazione è concetto centrale. Dichiarare
vuol dire manifestare un proprio desiderio rilevante finchè lo si vuole prendere in considerazione;disporre
ha un carattere piu costitutivo a pare evidenziare un carattere vincolante erga omnes normativo piu che
informativo. Ma cosa significa autodeterminazione? La questione coinvolge proprio la qualificazione dei
diritti umani e chiede di interrogarsi sul fondamento dei diritti e sulla loro modalità. L’autodeterminazione si
chiarisce come la rivendicazione del diritto di rifiutare le cure che consegue al diritto sopra il proprio corpo
sul quale a decidere puo essere solo il titolare del diritto stesso e del corpo. Dobbiamo però precisare
l’impossibilità di discriminare paziente capace e incapace dovendo riconoscere anche in capo al secondo il
diritto all’autodeterminazione terapeutica,dato che la menomazione non puo condurre al pregiudizio dei
diritti fondamentali della persona. La cassazione precisa e scrive:certamente non ci si deve permettere di
distinguere tra vite degne e vite indegne di essere vissute. Il che non toglie che vi siano casi in cui,per il
prolungamento artificiale della vita,non si dia riscontro di beneficio alcuno ed in cui l’unico risultato
prodotto dal trattamento o dalla cura è di sancire il trionfo della scienza medica nel vincere l’esito naturale
della morte. Tale trionfo è però vacuo se per il paziente non c’è altro effetto. E aggiunge che ad essere
indegno è il protrarre artificialmente il vivere da parte di un individuo diverso da quello che si costringe alla
vita. È cosi riassunto il punto che qualificherebbe l’autodeterminazione come diritto. È un ente relazionale il
cui diritto primo è edificare la propria identità,costruire il proprio se stesso come singolo individuo con il
concorso e nella relazione con gli altri. Quindi l’indisponibilità della vita altrui è il corrispettivo
dell’autodeterminazione del diritto alla vita propria. Tale visione è quella di una cultura che pensa di poter
garantire a tutti gli individui il diritto personale di autodeterminarsi. In tal senso,il diritto di decidere la
propria fine si radica nella generale libertà,fondata sull’autonomia individuale,di decidere il modo migliore
di condurre la propria vita. Volendo cosi concludere il ragionamento:c’è una vita biologica e una biografica,la
prima inizia con il concepimento e con la nascita,la seconda con la relazionalità della persona;la persona
coincide con la biografia e non ha a che fare con l’essere umano. La distinzione tra vita biografica e biologica
rappresenta una modalità di vedere i diritti e di intendere il diritto. Tale modalità si individua in un
particolare fondamento:quello dei diritti generali e del diritto come regola e misura della relazione.
Indichiamo alcune questioni:nel momento in cui la scoperta della personalità quale carattere
giuridicamente rilevante passa tramite la riscoperta del corpo,si puo distinguere tra vita biologica e
biografica in termini cosi assoluti?2)i diritti generali che si costruiscono sull’autodeterminazione non sono
destinati a riguardare solo un’antropologia dell’essere umano attivo? Cananzi esprime perplessità nei
confronti della distinzione tra essere umano e persona. Si dice che la persona e non l’essere umano è un
ente relazione e resta tale fin a quando rimane relazionato:dunque al venir meno della sua condizione
verrebbe meno la dignità dell’essere persona. Non si lega in questo modo la dignità al fare,al progettare e al
realizzare? Si finisce per sostenere che la dignità è cancellabile e non solo soggetta a lesioni ed è disponibile
perché legata al decidersi del singolo individuo. Certo è vero che la vita si palesa al dato biologico,alla fisicità
del corpo:ma noi non siamo solo i nostri geni. È la stessa dichiarazione universale sul genoma umano a
prevedere che la dignità impone di non ridurre la persona ai suoi caratteri genetici e di rispettarne l’unicità e
la diversità,ma unità e diversità possono riconoscersi in capo alle persone e non all’umano? L’umanità
sarebbe allora l’insieme dei caratteri genetici della specie,le persone tante individualità indipendenti senza
un essere comune. È questo l’esito dei diritto a conseguenza nichilistica che cancellano la rilevanza
dell’essere umano per la persona. In fondo questo assume a monte che la differenza esistenziale precede
l’uguaglianza ontologica:cioè l’uguaglianza di tutti gli esseri umani relativamente alla struttura che li
determina tutti in quanto uomini,costituendo anche la ragione principale per parlare di diritti umani e
distinguerli da quelli generali. Mentre l’uguaglianza ontologica ha la capacità di ammettere al suo interno la
differenza esistenziale,l’inverso è impossibile:il particolare non contiene in se l’universale. Anche chi non è
capace di relazionarsi ha una storia e no vi esce o entra solo a condizione della propria capacità. Questo ha
una valenza relazionale forte proprio nel momento in cui si pensa la storicità come dimensione e non solo
come tempo;è presente nella storia e incide sulla storia di tanti anche l’essere umano vegetativo. Si è
parlato di un passaggio dai diritti umani a quelli fondamentali:i diritti generali fondamentali sarebbero piu
capaci di venire incontro alle esigenze del tempo perdendo un riferimento all’umanità come fondativo e
raccogliendosi attorno all’autodeterminazione intesa come auto-assoggettamento. Nella direzione dei diritti
generali,il diritto p fenomeno sopraggiunto ed esterno rispetto all’individuo,qui l’autodeterminazione
appartiene all’individuo come suo carattere costitutivo. Nell’itinerario percorso da Cananzi,cio si traduce nel
pensare che la libertà determina il diritto,secondo assoggettamento e auto assoggettamento. Nel caso dei
diritti universali,il diritto è originario e con-presente nell’esistenza,è condizione dell’essere umano che è tale
nella garanzia e nella custodia del diritto. Un’ermeneutica dei diritti umani si deve impegnare alla
chiarificazione di alcuni punto di merito e di metodo. Mentre l’ermeneutica a vocazione nichilistica assume
l’interpretazione privandola di verità,l’ermeneutica del diritto pensa l’interpretare in funzione del
comprendere,come interrogazione sulla verità che è messa in discussione e illuminata dalle interpretazioni.
Il diritto pensato ermeneuticamente è in meditazione sul proprio fondamento riconoscendo che la sua
genesi è coglibile solo nell’essere dell’umano. Esiste comunque una differenza tra diritto e fenomeni
confinanti:mentre questi ultimi sono possibili senza verità,il diritto assolutamente no. Ecco perché esso
appare indispensabile a garantire l’ontologica esistenza della persona. Lo spirito del diritto risiede in questo
sforzo ermeneutico che non vede nel fondamento un immutabile ma l’essere che si dice nei tanti modi nei
quali si esprime la persona. Di qui i diritti colti nel loro spirito,di qui la continua formazione del senso
dell’umanità unica dell’essere e molteplice nel suo manifestarsi come fondamento di una giuridicità,anche
essa in continua formazione come la genesi che ne è alla base. Ha ragione Pastore quando osserva che
l’umanità esiste al plurale aggiungendo che gli esseri umani condividono l’esperienza della sofferenza e del
dolore e la capacità di agire. Al riguardo si puo parlare di universali esistenziali che strutturano la maniera di
esistere,di essere al mondo,di quell’essere che ciascuno di no è e rendono possibile parlare di maniera
universale dell’essere umano in situazioni culturali variabili. In questo l’ermeneutica non solo caratterizza il
diritto ma per certi versi è anche caratterizzata dal diritto;non sono compatibili con fenomeno giuridico
tutte le possibili ermeneutiche ma solo quella che mantiene come suo centro la verità come questione. Il
luogo di questa verità è l’essere umano,carattere condizionante l’ermeneutica tanto nel suo aspetto
relazionale quanto nella dimensione dell’essere,differenziando cosi fondamento e abuso del diritto.
Un’autodeterminazione assoluta costituisce abuso nei confronti degli altri e di se stessi nella misura in cui è
una libertà che tradisce l’essere libero. In tale tradimento c’è tutta la fragilità umana e tutta la sua
potenza,c’è l ordine suo,condizione ontologica dell’umanità in tutte le espressioni che dicono il valore
vivente. Pensare che la scienza e la tecnica possano risolvere le questioni inerenti ai diritti umani è
attendersi troppo;il mistero dell’uomo non è frutto di mancanza di conoscenza ma appartiene alla
finitudine che si riverbera sul sapere parziale dei diritti dell’uomo. La differenza tra diritti universali e
generali si manifesta nel dipendere i primi da una norma fondamentale espressione d un convenire,i
secondi dallo sforzo di comprendere l’essere umano nella sua interezza,dunque nell’ordine ontologico che
ne segna l’umanità garantendola dalla trasformazione del valore vivente in valore assoluto. In tal
senso,parlare di abuso del diritto significa riferirsi al tradimento di se stesso. L’irrisolta problematicità dei
diritti è alla base della loro non effettività. Affrontarla vuol dire scegliere tra 2 visioni diverse del
diritto:quella dell’universalità e quella della generalità,sulle quali non siamo tutti d’accordo. I diritti
universali appaiono piu rispondenti all’esigenza giuridica di giustificarne l’obbligatorietà che riconosce e
riconduce alla struttura ontologica di ciascun essere umano e al suo diritto di disassoggettamento ;i diritti
generali finiscono invece per costruirsi secondo la ragione violenta dell’assoggettamento o
dell’auto-assoggettamento che ne è solo una manifestazione riflessiva.

L’uomo del sottosuolo

Sono un uomo cattivo,sono un uomo malato,con queste parole infatti esce dalla penna di Dostoveskij e si
rivela a noi l’uomo del sottosuolo. Protagonista indiscusso della produzione che avvia la seconda fase della
sua opera,l’uomo del sottosuolo assume tante identità,nascosto nell’abisso oscuro della sua umanità fatta
del cupo e disarmonico pungolo del negativo dell’homo absconditus. E non è certo un caso se all’uomo del
sottosuolo si interessa e si appassiona Pareyson nella sua riflessione che incontra l’esistenzialismo francese
e tedesco,l’idealismo tedesco e italiano,il personalismo filosofico e religioso.

L’angosciosa realtà del male:agiografia di un peccatore: parlando dell’uomo del sottosuolo ci si vuole
riferire subito a quando rimane dietro le single narrazioni e si frammenta nei tanti personaggi:l’uomo del
sottosuolo è l’essere umano tout court. Del resto,come Pareyson rileva piu volte,nella bibliografia di
Dostoveskij c’è un ‘assenza significativa;dopo L’idiota,avrebbe voluto prepaparare una romanzo dal titolo
Agiografia di un grande peccatore nel quale lo stesso titolo voleva essere la tesi principale:non si deve
credere che gli uomini si dividano in buoni e cattivi:se ciò è possibile,è perché in qualcuno c’è sempre
insieme sia bene che male. Di qui,agiografia di un grande peccatore,in cui agiografia avrebbe potuto far
risaltare la dialettica interna all’essere umano e la compresenza di peccato e santità. Questa storia diventa
storia quotidiana di ogni individuo,diviene l’angosciosa realtà del male calata nella quotidianità del troppo
umano. “tutti siamo i grandi peccatori perché tutti siamo l’uomo del sottosuolo”. È lui stesso a parlare in
prima persona,rivolgendosi ad un pubblico fantasma fatto di persone normali con la frase:io sono cattivo e
malato. L’uomo del sottosuolo inizia e finisce proprio nello spazio di questa breve proposizione che dice
tutto. “Le memorie del sottosuolo”,come osserva Pareyson sono la rivelazione dell’uomo a se stesso,la
rivelazione dell’uomo segreto,nascosto,ignorato e le sua parole parlano il linguaggio della sfida e della
scommessa. Scommessa perché il volto spirituale di Dostoveskij è quello che si concentra sulla profondità
spirituale nel tentativo di misurare la profondità,evitando sia la via dell’allontanamento verso il
trascendentale irraggiungibile,sia la materializzazione completa dell’uomo e del mondo. In tal senso la
scommessa dell’uomo del sottosuolo è antinichilistica,il suo pathos afferma e non nega. Ma l’affermazione
non è superficialmente umanista,è un grido dal profondo dove abita non un uomo razionale,ma la
quotidiana concretezza,l’individualità tumultuosa di un uomo nella sua abissale dinamicità. Per questo la
sfida è scommessa,per questo il dire e il dirsi dell’uomo del sottosuolo è antinichilistico e profondamente
esposto all’alternativa:nell’uomo-dio perisce l’uomo, nel Dio-uomo si salva l’uomo. In fondo è proprio
nell’originaria dialettica bene-male che si evidenzia tutta la tumultuosa ambiguità dell’uomo. L’allocazione
nel sottosuolo è una presa di posizione nei confronti dell’uomo e del suo destino; Dostoveskij ha superato
l’umanitarismo idealistico per il quale l’uomo sarebbe l’uomo di natura e di verità,buono fino alla caduta del
male. Diversamente l’originaria dialettica bene\ male rivela che il male non è meno spirituale del
bene,giacchè ci vuole forza per compiere quella trasgressione consapevole in cui esso consiste d’altra parte
il bene non ha piu energia del male,e se lo vince lo fa con la forza di esso,e la sua potenza è quella stessa del
male. Nel sottosuolo l’uomo abita e dal sottosuolo parla,dall’abissale profondità di se stesso ;parla quale
essere bipede ingrato. La storia,come osserva Pareyson,si incarica di smentire l’interpretazione per la quale
sarebbe l’esperienza personale del confino e il timore della mancata fucilazione ad avere imposto la scolta
dal primo al secondo Dostoveskij. La forza fangosa della negatività e del male rende quella della scelta la
dimensione della libertà e quella della libertà la condizione dell’uomo alla quale nessuno può sottrarsi. Ed è
proprio qui lo spartiacque tra l’uomo del sottosuolo e l’ubermensch di Nietsche:nell’originaria compresenza
di bene e male. La scelta è consapevole e volontaria:l’uomo del sottosuolo è libero,è umano;il suo destino
non è nella mani dell’altrui cattiveria e malvagità in misura maggiore che della propria. Non si è abbandonati
ad un destino punitivo ne a frammenti di fato. E del resto, in Dostoveskij l’uomo rimane fino alla fine
tragicamente uomo.

La libertà dell’essere bipede ingrato: l’uomo del sottosuolo è bipede anzitutto perché rivendica di poter
camminare da solo;rivendica di usare a proprio piacimento le gambe per andare dove vuole e per poter
scegliere secondo una scelta che è rivendicazione di piena libertà. La pretesa è quella di avere il diritto di
desiderare. Ma il suo non è un desiderio di verità o di giustizia ma lui vuole desiderare per se anche la piu
stupida delle cose,persuaso che se non è libero di desiderare la piu stupida delle cose non è libero di
desiderare in generale. Che libertà è quella che esclude la scelta? Egli afferma che l’uomo fa delle canagliate
fin quando no sa quali sono i suoi veri interessi e che una volta illuminato smetterebbe subito. Si puo
davvero credere in una razionalità dell’azione e quali sono le sue conseguenze? Una legge come 2x2=4 è
l’unico preliminare della razionalizzazione. Ma se cosi un giorno sarà,allora quel giorno tutti tenderanno
all’utile e all’interesse,tutti saranno l’homo oeconomicus del perfetto agire;però siccome tutto il nostro
raziocinare lo si potrà calcolare fin nei dettagli,che sarà del nostro libero arbitrio? In tali termini argomenta
sulle 2 gambe l’uomo del sottosuolo;che siano 2 e che sia libero di usarle a suo piacimento. Infatti per lui
quando si arriverà al 2x2=4 ,tale risultato sarà lo stesso anche senza la sua volontà. Ma voler distogliere
l’uomo dalle sue vecchie abitudini e correggere il suo volere,in conformità con le esigenze della scienza in
che misura è certo che sia la direzione giusta? La considerazione che pone ora il bipede non è banale,ma
precisa ancora la sua sfida e scommessa;ad es. ci lascia pensare che proprio nel voler essere riconosciuto
come bipede chiede 2 gambe e non 4,non 1. Non 1 perché non potrebbe ben camminare,non 4 perché il
suo volere andare è coevo al suo voler fare. Infatti l’uomo è essenzialmente creatore,2 gambe servono per
camminare,2 braccia servono per operare e l’operare segue il camminare. Quindi non vale l’argomento a
favore dell’uomo oeconomicus in base a cui non si tratta di togliere la libertà all’uomo ma solo di far si che
questa vada a coincidere con i suoi normali interessi perché della storia universale si puo dire tutto tranne
che sia ragionevole. Ma il bipede vorrà sempre stonare in mezzo alla perfezione e infatti alla vera sofferenza
l’uomo non rinuncerà mai. Infatti se lo si sprofondasse nella felicità e gli si assicurasse la stabilità
economica,dopo un po metterebbe a rischio tutto per il semplice gusto di poter confermare a se stesso che
gli uomini sono pur sempre uomini. C’p qualcuno piu ingrato di chi avendo tutto sceglie di perdere tutto?
Eppure questo è l’uomo del sottosuolo:un essere bipede ingrato. La ricerca dell’uomo nell’uomo porta
all’individuazione della cosa piu importante che abbiamo e cioè la nostra personalità e individualità
scoprendola sorprendente. Cosi dietro ai personaggi di Dostoveskij si scopre sempre qualcos‘ altro,la colpa e
il perdono,la crudeltà e l’amore ecc.

Bene o male visti dal sottosuolo: pareyson interpreta Dostoveskij non secondo la pessimistica visione
corrente:quella da lui avvertita è un’autentica concezione tragica. Una concezione che è condizione,una
situazione che è iniziativa:la drammatica situazione dell’uomo smarrito nell’ambiguità che non si manifesta
a pieno se non nel pensiero tragico,di la da ogni antitesi di ottimismo e pessimismo. Pareyson esamina il
bipedismo e l’ingratitudine,prendendo prima separatamente in considerazione i 2 lati della dialettica bene\
male e poi discutendone l’insieme nell’essere dell’essere bipede e ingrato. L’angosciosa realtà del male
significa presenza efficace del demoniaco da un lato e la risoluta volontà dell’arbitrio dall’altra. Il bipede
non vuole essere funzionalizzato ne in un ruolo e una funzione,ne svilito a edificatore di progetti. Se una
qualche scintilla di umanità c’è,è proprio quella che si ribella alla standardizzazione. Cio consente di arrivare
a un primo punto:la collocazione di bene e male come originari e di qui muovere a un secondo punto:la
dialettica bene male e la libertà come esperienza. Di questo itinerario,l’elemento centrale è l’essere umano
e lo sfondo della visione di Dostoveskij è che satana lotta con Dio e il loro campo di battaglia è il cuore degli
uomini. Il cuore del rapporto tra bene e male è proprio il cuore degli uomini,di quell’uomo del sottosuolo
all’interno e all’esterno del quale la grande battaglia si svolge. È questa la posizione di Pareyson ed è su
queste basi che la sua ontologia della libertà si sviluppa. In fondo Dostoveskij comporta di scendere
nell’abisso e nel sottosuolo,percorrendo la spirale del male e da questa scoprire la luminosità del bene. È
comunque ora urgente pensare a cosa il male è e a cosa non è. Pareyson dice che il male non è privazione
ne finitezza. Sarebbe infatti non corretto pensare il male come diminuzione di bene o di essere perché lo si
intenderebbe come momento negativo di una dialettica che nel male vedrebbe una necessità. Del resto il
male non è neanche legato all’ambiente,alla finitezza creaturale, quindi si finirebbe per considerarlo
inesistente,per negarlo;ma al prezzo di negare anche la libertà e la dignità umana. In tal modo si
comprometterebbe addirittura la dignità umana perché si andrebbe a toccare il cuore stesso della
personalità umana:la libertà. In tal senso il male apparirebbe un prodotto esterno che vizia l’azione e
l’autore dell’azione ma non si riconoscerebbe un annidarsi del male nella stessa profondità della natura
umana. Ma senza la libertà umana non c’è ne responsabilità ne colpevolezza umana:l’uomo non ha dignità e
il male non esiste. Ma cosi siamo alla qualificazione del male come onninegazione e autodistruzione.
Proprio perché non è privazione e finitezza,il male non è speculare opposizione al bene ma ribellione:cio
significa riconoscere contemporaneamente un’inferiorità rispetto al bene. Partendo dalla definizione che
esce dalla Leggenda del Grande Inquisitore:il male è spirito dell’autodistruzione e del non essere. Cosi si
esplicita la consistenza del male e si giustifica la sua angosciosa presenza nell’uomo:il male che era
negazione,diventa reale,in quanto prende a prestito l’essere dall’essere finito. Ontologicamente il male non
esiste,la sua è un’esistenza parassitaria ma intanto è realtà ed esistenza:il male ha trovato rifugio,un modo
di essere. Un modo di essere che è malattia dell’essere. In questo la definizione della Leggenda:lo spirito del
non essere che si fa,incarnandosi tramite l’umana volere,distruzione e autodistruzione;e da qui svolge la sua
ribellione al bene. Una ribellione che però ha un destino gia segnato e contenuto nella natura del male e
negli elementi che lo definiscono:se il male è autodistruzione,deve coerentemente nullificare se stesso. In
cio,il male portato alle sue estreme manifestazioni si trasforma in bene. Riconoscere il male come male è
restituirlo alla sua nullità,il che vuol dire restaurare la presenza dell’assoluto nell’essere finito. Ci sono 2
ragioni forti che spiegano perché,nel profondo del sottosuolo,il bene è meno fragoroso del male.
Dostoveskij e Pareyson sono convinti che sia il male stesso a rendere testimonianza del bene,di qui lo spazio
dedicato al male;ma un secondo motivo è decisivo:il bene è silenzioso. E questo silenzio però,una volta
udito,diventa piu fragoroso del rumore del male. Il bene dunque vince con silenzio. Questo silenzio ci si
presenta davanti proprio nell’epilogo della Leggenda quando Cristo bacia le labbra secche e vecchie del
Grande Inquisitore:il suo silenzio è piu potente di qualsiasi forza. Ma se bene e male si presentano
dialetticamente presenti nel sottosuolo,allora tale dialettica deve essere chiarificata con riferimento
all’essere umano,proprietario di quel sottosuolo e testimone oculare di quella dialettica. Il pathos dell’uomo
del sottosuolo sta tutto qui,nel suo partecipare alla dialettica come protagonista e non come semplice
comparsa. Una dialettica della necessità comporterebbe la riduzione di ogni contrasto,porterebbe
all’indifferenza e all’indistinzione secondo una possibile filo della ragione che media e concilia. Lo stesso
cuore dell’uomo non sarebbe neanche il luogo della dialettica. L’uomo del sottosuolo è invece parte della
dialettica bene\ male che è dialettica della libertà tramite cui avviene l’esaltazione di ogni
opposizione,secondo una filo della libertà che sceglie e decide. Di qui la conclusione,tutta incentrata su
cosa il bene è e cosa il bene non è,alla quale arriva Pareyson:cio che è davvero necessario alla realizzazione
del bene e al conseguimento della salvezza è l’esperienza della libertà. Ma cio significa determinare una
serie di gradini. Per libertà si deve intendere quella primaria,cioè la liberta di scegliere tra bene e male. Chi
ha raggiunto il bene ha realizzato la libertà;MA questa è la libertà nel bene che non sarebbe tale se non
fosse preceduta dalla libertà del bene,cioè dalla libertà di scegliere il bene piuttosto che il male. Cosi la
libertà del bene è tale solo se è libertà del male:ed è proprio questa la tragedia della libertà. La negazione
del bene puo infatti avvenire per 2 vie. L’una è la scelta del male che in quanto scelta è libera ma in quanto
scelta del male è distruttiva e contraddittoria nei confronti della stessa libertà. L’altra via di negazione del
bene è l’imposizione del bene. Il bene imposto è un bene negato perché tradito nella sua non necessità. La
libertà primaria non si puo negare come se fosse una libertà sol formale. Entrambe queste vie sono dunque
tradimenti di cio che pensavano di tutelare. Con una differenza importante da sottolineare proprio in
relazione all’uomo del sottosuolo:la scelta del male è destinata al fallimento ed è votata a introdurre il
bene;l’imposizione del bene nega invece la possibilità di un approdo al bene. L’imposizione del bene si
presenta in termini piu negativi rispetto alla scelta del male anche perché ha un presupposto:la diffidenza
verso la libertà e la paura nei confronti del male.

Sono un uomo cattivo,sono un uomo malato:speranza e gioia nel grande peccatore: l’uomo del sottosuolo
appare collocato su una luce diversa,collocato in tutta la sua umanità:tra noi e l’inferno o il cielo,non c’è di
mezzo altro che la vita,la piu fragile cosa del mondo;la fragilità di questo grande peccatore che forse non
puo non agire male ma che ha anche la possibilità della scelta del bene. E di azioni all’occhio del’uomo ce ne
sono di perdonabili come di imperdonabili e forse Dostoveskij non parla che di se parlando dell’uomo del
sottosuolo e del suo delitto e del suo castigo. Il chiedere perdono è inno alla gioia del grande peccatore che
si riconosce con i propri limiti e che riconosce l’amore infinito di Dio,o è la ruffiana richiesta di chi sa di aver
commesso l’imperdonabile e chiede comunque quello che nessun occhio umana potrebbe dargli? Davanti a
tutto cio sembra che il rischio sia sempre lo stesso;quell’esposizione all’ambiguità del male,sempre pronto a
ingannare;il rischio è d impiccarsi ad una libertà troppo indipendente,troppo libera. Pascal invita alla
contrarietà:che ora l’uomo giudichi da se il suo valore. Si ami perchè c’è in lui una natura capace d bene; si
disprezzi perché quella capacità è vuota.

Felicità e cura di se. Note sull’ultimo Ricoeur

Ambiguità e variazioni sul tema: felicità,anima e cultura costituiscono il nostri tema generale. Ci si chiede:la
felicità è un diritto?ha forse l’anima una rilevanza giuridica?la cultura ha una ragione etico sociale? Il diritto
alla ricerca della felicità è senza dubbio stato rivendicato come naturale nelle dichiarazioni dei diritti della
Virginia,nella dichiarazioni di indipendenza americana e nella vecchia Europa dove la felicità è valutata nella
sua dimensione pubblica. Pensiamo anche alla rilevanza giuridica dell’anima e dello spirito nel senso
sviluppato dalla scuola di Cotta e Romano:Cotta evidenzia la moralità del diritto come diretta espressione
della piu profonda struttura di quel dovere-di-essere che ontologicamente svela la relazione
io-con-l’altro;Romano sottolinea invece come senza la possibilità delle domande e delle risposte sul senso si
danno corpi che non manifestano l’anima. Rodolfo de stefano nella sua principale opera in 2 tomi si occupa
invece di un’etica sociale della cultura e spinge a porre attenzione ai termini esistenziali del nesso tra cultura
ed etica del sociale. Ora,sia che il titolo del Simposio debba leggersi dalla definizione di felicità
all’applicazione all’anima,sia che lo si voglia intendere dall’anima alla ricerca della qualificazione della
felicità,non si puo omettere una domanda:in che senso parlare di felicità? La felicità come tema ha una
tradizione nella storia del pensiero filo e si caratterizza perché chiede di pensare una riflessione costruttiva e
segnata da positività ma tutta da definire quanto all’oggetto e al profilo che si intende assumere con questo
termine. Diversamente,la felicità come dimensione esperienziale appartiene alla quotidianità ed è avvertita
da ognuno e riferita spesso all’attimo del suo presentarsi ma,forse proprio perché cosi tanto comune e
repentina,pare sfuggire ad una fissazione e destinata ad essere vissuta piu che spiegata. La felicità appare
questione di non facile identificazione. Seguendo le considerazioni di Natoli si puo iniziare dal fatto e il fatto
si puo individuare con la vita:perché la via è fatto nasce e come fatto e perché la felicità si da nella vita,la
felicità è tutta parte dei fatti della vita ed è un fatto della vita. Del resto scegliere questo punto quale inizio è
rispettoso della natura stessa della felicità. Una natura aperta a questo paradosso che Natoli non manca di
evidenziare:la felicità è accadimento e in quanto tale,sfugge ad un’attività di meditazione perché nell’attimo
in cui è vissuta non si avverte l’esigenza di pensarla ma assieme è accadimento di cui ciascuno ha un’idea e
come ogni idea anche la felicità chiede di essere pensata ed elaborata. La felicità e la vita appaiono legate
anche circa l’estrema fragilità che ci presentano. Come contemperare le esigenze che sembrano
contrapposte? Lasciando vivere l’azione e cogliendola per quello che è:vita. Saint-Exupery racconta di un
atterraggio di fortuna nel deserto libico dove viene avvicinato da un arabo che gli porge una ciotola d’acqua.
Il ristoro in quella situazione è la vita stessa. Basta dunque un bicchiere d’acqua a far comprendere che la
felicità è vivere. Non si sa se Ricoeur ha mai letto il racconto di Saint-exupery ma è certo che condivide
questa tesi. Del’ultimo Ricoeur appaiono alcuni frammenti postumi scritti negli ultimi periodi della sua vita
terrena. Ed in questi frammenti troviamo i suoi auspici di sempre:vivi fino alla morte. E tra vita vissuta e
morte accompagnata dal lutto una parola:gaiezza con cui non si intende gioia ma lo stato e la sensazione
unita alla grazia separata di esistere vivi fino alla morte.

La gaiezza di vivere: quando Ricoeur compare sulla scena filo degli anni 50 con la sua Philosophie de la
volontà,pensa innanzitutto alla relazione tra volontario e involontario,studiando le condizioni di azione
secondo una conoscenza fenomenologica della colpa e della trascendenza e successivamente,levando la
parentesi messa sulla colpa e su tutta l’esperienza del male umano,avvia una riflessione sull’interezza del
soi-meme blessé. E levata la parentesi,cio che si nota è che la “libertà solamente umana”si esercita in un
mondo che porta l’impronta della realtà del male. Un male presente nella realtà umana ma che non la
segna ne in modo definitivo,ne in modo originario. Ricoeur però non abbraccia una visione totalmente
negativa:l’essere umano è luogo del male che puo scegliere ma non è esso stesso male,quanto piuttosto
una libertà che prende in carico il male,delineando l’idea che l’uomo è costitutivamente fragile,che puo
fallire. Riconoscere la fallibilità costitutiva dell’essere umano,vuol dire riconoscere anche la sua costitutiva
responsabilità. La sua attenzione è sempre stata per l’homme fallible,l’essere umano per il quale la
debolezza è elemento costitutivo e carattere reale e ontologico della sua capacità. Quando Ricoeur scrive
che l’uomo è la Gioia del SI nella tristezza del finito,certamente lavora a quell’antropologia dell’uomo capace
che troverà un piu ampio sviluppo nei successivi lavori nei quali la”gioia del si” è stata colta con riferimento
alla sua narrazione,nella quale il racconto si fa relazione e la relazione evidenzia la disimmetria del se,tutta
gia presente nella sproporzione dell’uomo fallibile. In tal senso,la sua via è originale rispetto alla moda di
quei tempi e si distanzia dall’essere-per-la-morte heiddeggeriano che segnava il passo di un’ontologia
dell’evento. La sua via lunga è differente ed è quella dell’essere-per-la-vita:è la via della gaiezza e della
felicità attestata nei momenti di cui la storia individuale e collettiva si compone. Di questo lungo
percorso,l’homme fallible degli anni 50 costituisce solo l’inizio,ma tramite lui è pensata da Ricoeur la libertà
ma anche la doppia chiave della felicità:per un verso quella che segna l’itinerario speculativo della critica,
per altro verso quella della vita vissuta nella convinzione dell’ ”amore difficile”. Esito comune ai 2 itinerari:il
vivo fino alla morte. Per questo verso è posta la base per discutere brevemente proprio la felicità della vita
iscritta come possibilità e scelta nello statuto costitutivo dell’essere umano. A dover essere pensato è
proprio questo statuto perché la gaiezza per lui non vuole essere una rappresentazione dell’ “anima bella”.
Quello al quale pensa Ricoeur è l’essere umano,la persona colta nella sproporzione tra se e se. In tale senso
l’homme fallible del 50 è lo stesso uomo che negli anni 80 parla da homme capable proclamando la sua
libertà nell’azione e la sua qualità nell’identità alterizzata come elementi della sua responsabilità verso se e
gli altri. È importante rilevare come ad essere centrale è sempre l’individuo in carne ed ossa e in ognuno dei
profili considerati si delinea la felicità del costante dire si,attestando e attestandosi per una vita buona. In
ogni caso l’individuo è reso e inteso nella condizione di umanità,condizione di fragile miseria,denotando per
questa via tutta la differenza con interpretazioni esaltanti l’io e con quelle annichilenti l’io. Una miseria
intesa da Ricoeur tramite Pascale e a partire da cartesio;di quest’ultimo riprende il paradosso dell’uomo
finito-infinito,da Pascal il modo di pensare tale paradosso secondo la continua mediazione:”cos’è infine
l’uomo nella natura?un niente rispetto all’infinito,un tutto rispetto al niente,un medio tra nulla e tutto.” La
sproporzione antropologica può entrare nel vivo di una teoria della volontà che mette l’io penso al vaglio
dell’io voglio. Il vaglio della sintesi pratica si compie prendendo il carattere e la felicità come termini di
sproporzione pratica. Il carattere rappresenta la totalità parziale del singolo,la felicità è la totalità infinita. Si
intuisce subito tutta la fragilità dell’equilibrio,fragilità che indica la debolezza dell’homme fallible che trova
un accordo tra i 2 poli attraverso il rispetto che è inteso sia come rispetto di se stesso sia verso gli altri. Ecco
allora che la fallibilità è condizione della capacità e questa è capacità di avvertirsi responsabile.

Impegno ontologico e cura di se: l’ermeneutica del se che Ricoeur propone si concentra proprio sul si alla
vita e sul chi della gaiezza. La sua ermeneutica è quella che si edifica tramite una modalità essenziale del
chi?:l’attestazione. Ed è proprio modalità ermeneutica del chi?questa attestazione tramite la quale si
esprime la fiducia del dire si:è attestazione del se espresso dell’uomo e moralmente condotto alla gioia.
Questa idea appare trovare conferma nella collocazione dell’ermeneutica del se di Ricoeur che si differenzia
sia dalle filo del cogito sia da quelle dell’anti-cogito. Il si e la gaiezza acquistano rilevanza ontologica proprio
rispetto alla questione su “quale sorta di essere è il se”;se l’attestazione ontologica è indissociabile dalla
coscienza come attestazione,l’etica non è estranea all’ontologia. L’attestazione non è estranea all’ontologia e
l’etica non è al di la dell ‘essere:l’impegno è tutto volto all’attestazione e l’ontologico non è immutabile
destino. Per ricoeur la felicità è prospettiva di vivere bene. Vivere bene è il primo elemento del tripode
etico:vivere bene con e per gli altri in istituzioni giuste. Vivere bene è l’aspirazione alla vita compiuta e
questa si esprime nell’ottativo:ah,che io possa vivere bene,sotto l’orizzonte di una vita compiuta e per
questo felice! Da questo ottativo,la circolarità ermeneutica di Ricoeur si avvolge in spirale.
L’aspirazione-desiderio-ambizione di vivere bene trova il primo elemento nella stima di se:qualunque sia il
rapporto con l’altro e con le istituzioni,non ci sarebbe un soggetto responsabile se questi non potesse
stimare se stesso non tanto come apprezzarsi ma proprio come stimarsi capace di agire intenzionalmente . il
termine sé è la per mettere in guardia contro la riduzione ad un io centrato su se stesso. Un’apertura
contro-narcisista sollecitata proprio dall’intervento dell’altro:il secondo elemento del tripode. Ricoeur
chiama sollecitudine questo movimento di se verso gli altri che risponde alla chiamata di se da parte di un
altro. Una sollecitudine che è tanto sviluppante quanto l’altro è diverso e lontano:in tal senso introducendo
il concetto di istituzione,si fa riferimento ad una relazione all’altro che non si lascia ricostruire sul modello
dell’amicizia. Gli elementi del tripode consentono di evidenziare come la cura di se trovi in lui un respiro
molto ampio che anima l’ermeneutica del se di forza vitale per la quale la compiutezza del vivere bene non
è chiusura ma apertura. Ma se questa è la struttura di riferimento,si deve anche rilevare come la cura di se
sia orientata ad un altruismo ontologico prima che etico,iscritto nella vitalità dell’azione prima ancora che
nella norma. Tornando nel deserto libico quindi:la ciotola d’acqua è gioia per vivere,l’azione del dare e del
ricevere sono la felicità di vivere.

Essere-per-la-vita e totalità parziale:la felicità è vivere: l’impegno ontologico dell’attestazione deve essere
chiarito ricordando come ciò che viene attestato è l’ipseità. Quello che il tripode etico ha evidenziato è
quanto l’identità umana sia narrativa. Narrativa perché è continua attestazione di se ed il se è scisso tra il
carattere della medesimezza e la promessa dell’ipseità. La sollecitduine dell’altro entro proprio qui a
garantire la non identificazione di se con la medesimezza;la dialettica dell’altro mantiene il se altro da se ma
garantisce al se stesso la sua unicità e infungibilità. E questa dialettica è attestazione narrativa,è scrittura
della storia della propria vita di cui si è protagonisti. Dunque se l’altro sopraggiunge dialetticamente per
evitare l’identificazione del se stesso nella medesimezza,l’altro è anche parte di quel se stesso che è come
un altro. Sono questi i termini con i quali Ricoeur pensa all’essere dell’essere umano come
essere-per-la-vita,una vita che è necessariamente parte di una totalità dove la parte è il singolo e la totalità
è la storia dell’umanità. Il paradigma narrativo manifesta tutta la sua portata. Cura di se è stimarsi come
quell’individuo capace di essere se stesso,consapevole che il se stesso non è che il compito che la vita gli
assegna alla nascita e alla quale risponde si,e la risp è assumersi il compito di testimoniar anche la vita. Non
è scontato il si,non è agevole il compito:significa accettare la propria parzialità ma anche scoprire che
proprio la parzialità è la totalità di se stessi. In tal senso,l’ultimo Ricoeur ci propone di meditare su un fatto
della vita:la finitudine umana non è colpa:è modalità dell’essere,l’unica modalità a consentire la libertà e a
rintracciarla nella responsabilità. In tali termini l’essere per la vita non è un semplice inno alla gioia ma
rappresenta una profonda convinzione sviluppata con gli strumenti della critica filosofica e pensata dal
sottosuolo dell’homme fallible verso l’ermeneutica del se. La verità si manifesta nell’attestazione e nel
sospetto. Il sospetto non è solo l’opposto dell’attestazione ma è anche il cammino verso e l’attraversamento
nell’attestazione. Di qui la pluralità delle interpretazioni ma anche l’unità veritativa che questa pluralità
declina. Ci è proprio dell’ermeneutica. Attestazione e sollecitudine si presentano come modalità
dell’ermeneutica del se nella misura in cui l’attestazione è un “credere in” e la sollecitudine è il “costante
conflitto delle interpretazioni”. In tal senso,come l’attestazione è sempre di se cosi la sollecitudine è sempre
da sé all’altro se,e da se a se. La felicità,connessa alla cura di se e inserita in una dimensione narrativa,si
svela una felicità ermeneutica non somma,ma il tutto della vita,la vita che non cessa prima della morte e
che forse non cessa neanche dopo,restando come parte della storia che ha contribuito a scrivere.

Est modus in rebus: ecco 2 osservazioni:1)da un lato,considerare se accanto all’uomo capace non si debba
ricostruire un’antropologia dell’uomo incapace nel quale la fallibilità non coinvolge più la volontà e quasi
inverte la dialettica volontario\involontario; 2)c’è spazio per pensare una felicità come orizzonte assoluto di
giustificazione dell’azione? Le 2 linee possono trovare un’unica trattazione riformulate in tal modo:la felicità
come modalità giustificativa dell’azione è una scelta lasciata totalmente all’arbitrio del singolo uomo? Da
tale domanda nascono alcuni corollari:se la felicità appartiene all’essere stesso dell’umano,si può pensarla
come condizione dell’esistenza:1)in questo caso non sarebbero fuori luogo le dichiarazioni del 700 nelle
quali la felicità diviene un diritto;2)ma se la felicità è un diritto,la sua giustificazione può essere resa in
chiave di obbligatorietà,come tutti i diritti:in tal caso non ha torto Cotta quando prospetta una
giustificazione in termini assoluti dell’obbligatorietà proprio con riferimento alla felicità;3)ma se cosi
è,bisogna anche chiarire i termini aletici della vitalità della vita e della tesi La felicità è vivere. Prendendo
spunto da Orazio,”c’è una misura della cose” che segna i confini entro i quali l’arbitrio umano è esercizio di
libertà. Il delicato equilibrio è difficile da mantenere perché la finitudine umana presenta la volontà di
eccedere questi confini. Orazio dice infatti che di rado capiterà che un uomo “abbandoni la vita come un
convitato sazio”. Perché cio avvenga occorre un essere per la vita nel quale la felicità è cura di se,cioe
attestazione di se con e per la sollecitudine dell’altro. Ma per questo non è necessario che l’uomo sia
capace,è uomo anche l’incapace che è parte attiva a tutti gli effetti. Altrimenti non si potrebbe parlare di
ontologia,ma di prassi o di fattualità. Cio consente di concludere il discorso svolto intorno ai termini
nominati in principio:felicità,anima e cultura. La cultura non è altro che la memoria senza la quale non c’è
felicità e non c’è felicità senza misura di se,senza quel se che nella sua parziale totalità è anima.
L’antropologia fondamentale di Ricoeur si sforza di comprendere proprio quella misura di giustizia ,quella
modalità del se alla vita che è la felicità la cultura dell’anima e l’anima,diventano dunque condizione della
felicità. La felicità cosi affrontata ricalca la posizioni di Rosmini circa la questione eudemonologica. Delle 3
tendenze che sviluppa nella sua Logica(intellettuale,morale e eudemonologica),la terza sembra successiva e
susseguente:quando segue le altre,la persone è ordinata coll’essere e nell’azione;quando vuole andare
scompagnata allora c’è disordine. In tale visione,lo spazio per la scelta e la libertà dell’uomo è fatto salvo perché la
virtu in atto ci costituisce in 3 elementi:1)l’adesione volontaria secondo l’autorità del vero;2)diletto
all’adesione;3)approvazione. E Rosimini precisa subito che il primo di questi elementi costituisce l’essenza della virtu e
gli altri 2 si aggiungono necessariamente alla virtu. In tal modo è sancita un’unione che lega la virtu alla felicità.

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