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Scegliere un tema per questa tesina è stato davvero

complicato: avevo davanti un’infinità di scelte, da quella


che mi avrebbe permesso di collegare qualunque
argomento affrontato quest’anno a quella che mi sarebbe
piaciuta di più (IL PUNTO DI VISTA), a quella che avrebbe
fatto più colpo; perciò, nell’indecisione, sono andata al
centro di questo problema e ho deciso di parlare
propriamente della scelta.
Partendo da un’analisi etimologica, si osserva che la parola
“Scelta” deriva dal verbo latino “Ex-Legere” o “Ex-
Eligere”, col significato di “separare la parte migliore di
una cosa dalla peggiore, ovvero eleggere ciò che par
meglio.”
Scegliere, infatti, comporta la presa di decisione di una
cosa piuttosto che di un’altra, o questa o quella, “aut aut”,
come diceva Kierkegaard. Per lui, infatti, quando si tratta di
scegliere, e lui parla soprattutto nel caso in cui si deve
scegliere il progetto della propria esistenza, non c’è sintesi
possibile tra un tipo di scelta e un’altra, o se ne sceglie uno
o se ne sceglie l’altra e non “et…et”(come diceva invece
Hegel); la sintesi fra le due alternative opposte è
impossibile, ogni scelta è un progetto di vita che esclude gli
altri.

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Ma non c’è certezza né garanzia che la nostra scelta sia
quella giusta o che ci porti alla realizzazione di noi stessi,
ogni scelta è a rischio.
Questa è la tesi che egli riporta negli scritti “Aut Aut” (vero
titolo “Enten-Eller”, edita da Kierkegaard nel 1843 sotto lo
pseudonimo di Victor Eremita), dove mette a confronto i
due stili di vita possibili: la vita estetica e la vita etica.

In “Aut - aut” Kierkegaard confronta due 'stili' di vita:


estetico ed etico. Nella prima parte della sua opera,
Kierkegaard ci mostra una varietà di vite estetiche: dalla
più bassa che vive in balia dei sensi, e in questi si disperde
senza mai impegnarsi eticamente, come viene ben
esemplificato nella figura del “Don Giovanni”, all'uomo che
si è reso conto del vuoto e della nullità di una vita
puramente estetica, ma che, ciononostante, si aggrappa
ancora disperatamente ad essa pur sapendo bene che
quest’ultima può condurre solo alla disperazione. Ma
perché una vita puramente estetica ci porta alla
disperazione? Perché l'uomo ha dentro di sé qualche cosa
d’altro, che non potrà mai essere soddisfatto da una vita
puramente 'sensibile'. Questo qualche cosa d'altro è
l'eterno. L'uomo è costituito dalla sintesi di due elementi
opposti: corpo e spirito, temporale ed eterno, finito ed
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infinito, necessità e libertà. È caratteristica dell’estetica
enfatizzare un elemento solo della sintesi: il corporale, il
temporale, il finito. La mancanza dell’altro elemento della
sintesi causa nell’essere umano ansietà; Kierkegaard la
definisce “una simpatica antipatia, un’antipatia simpatica”,
che allarma e attira allo stesso tempo. Il termine che
meglio descrive questa esigenza dello spirito nel mondo
sensibile è angoscia; l'angoscia è il segno della presenza
dell'eterno nell'uomo. Senza l’eterno non ci sarebbe
nessuna angoscia. Ma l'uomo che ha sentito l'angoscia
dentro di sé, e che ancora ostinatamente persiste in
un'esistenza estetica, finirà col disperare.
Gli stadi della vita sono tre modelli generali di vita che
l’individuo può scegliere nella sua esistenza. Queste scelte
sono proposte quasi in sequenza, per cui si tenderà a
partire dallo stadio estetico per poi passare gradualmente
agli altri due. Ne consegue che lo stato etico nasce come
superamento di quello estetico, e quello religioso come
superamento di quello etico: tuttavia, non si tratta di un
superamento di matrice hegeliana, cioè retto dalla
necessità (altrimenti tutte le categorie esistenzialiste
perderebbero di significato); al contrario, il passaggio da
uno stadio all'altro è dettato da una libera scelta del
singolo, e gli stadi si escludono vicendevolmente, il
passaggio da uno stadio all'altro non implica continuità
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con lo stadio precedente, ma rottura. Certo, il pieno
sviluppo di uno stadio può creare condizioni favorevoli per
il passaggio allo stadio successivo, ma spetta sempre al
singolo scegliere se compiere il salto mortale, ossia uscire
da quello stadio e passare al seguente o rimanervi. Il
passaggio da un modello di vita ad un altro, oltre ad
avvenire liberamente e non secondo necessità, è
irreversibile. Per la logica hegeliana valeva tutto e il
contrario di tutto, visto che l’intelletto coglieva le
contraddizioni e la ragione le ricuciva mettendo in evidenza
come esse si richiamassero a vicenda. Hegel coglieva le
contraddizioni solo per negarle e superarle, pertanto si
trattava di una logica dove valevano sia A, sia B (et-et).
Questo è un procedimento corretto solo se 7
KIERKEGAARD. Appunti schematici per gli studenti riferito
alla sfera dell’astratto: se passiamo all’esistenza, la logica
dell’et-et perde di significato: quando il singolo sceglie una
cosa, per questo stesso motivo ne esclude altre. Ne
consegue che per l’esistenza vale l’aut-aut (come recita il
titolo dell'opera di Kierkegaard): si sceglie o questo o
quello, e la scelta dell’uno implica l’esclusione dell’altro.
I due tipi di vita sono rappresentati da due diversi
personaggi: rappresentante della vita estetica, descritto
nelle Carte A, prima parte in cui si divide l’opera “Aut Aut”,
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è Joannes, un giovane seduttore che, per vincere una
“scommessa con sé stesso” si pone l’obiettivo di
conquistare Cordelia, una fanciulla giovane e bella; mette
quindi in atto una strategia per conquistarla, e ha successo,
ma ha ora intenzione di farsi odiare e lasciare dalla
fanciulla, per tornare libero e spensierato qual era perché,
per lui, è tutto un gioco; Joannes riesce anche in questo.
Il seduttore è quindi uno che non si impegna, che non
sceglie; vive l’attimo e la dimensione del presente, non ha
progetti per il futuro né rimpianti o ripensamenti del
passato, perché non compie scelte  sceglie di non
scegliere, ossia di scegliere che sia il mondo a scegliere per
lui.
La libertà di cui l’esteta si vanta è allora una mancanza di
libertà, la dominazione della realtà di cui si sente capace è
solo apparente, e la sua soggettività è del tutto inesistente
visto che non compie scelte. La vita dell'esteta, che
sembrava traboccante di libertà, si rivela l’opposto: l’esito
di questa rinuncia alla libertà di costruire la propria vita nel
tempo, è la disperazione.
La disperazione nasce in una situazione in cui il soggetto si
smarrisce e si trova privo di libertà, è un esito necessario,
ma non è necessario che l'individuo scelga di uscire da
questo stadio di disperazione. La figura dell’esteta è
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cosciente della disperazione, ma spesso sa metabolizzarla
vivendola esteticamente (l'esempio tipico di questa
accettazione estetica del male di vivere è la figura del
Dandy). L'esteta spesso dice di aver capito che la vita non
ha un senso e, proprio in virtù di questa scoperta, rivendica
una sua presunta superiorità sul prossimo
Rappresentante della vita etica è invece il giudice Wilhelm:
egli fa l’esatto contrario di Johannes, ovvero si assume
tutte le responsabilità e gli impegni possibili della società
tradizionale. Però, nemmeno questa è la vita autentica:
Wilhelm vive infatti nella dimensione del passato
(pentimento per incarichi precedenti) e del futuro
(impegno per incarichi futuri), segue il conformismo, la
morale del genere, le regole sociali, per essere ben
accetto. A differenza di Johannes che ha scelto di non
scegliere, il giudice Wilhelm ha scelto di scegliere, pertanto
è capace di progettare il futuro ed è capace anche di
comprendere il passato, ma ciò si traduce anche in eccesso
di responsabilità che conduce al pentimento, ovvero il
rendersi conto della propria caducità che rende
insignificanti le scelte etiche che si risolvono nella vita
matrimoniale e lavorativa.
La sua è una scelta che continua nel tempo. L'uomo etico
non vuole cambiare continuamente il proprio stile di vita, e

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per questo lo stadio etico si fonda sulla ripetizione: la vita
matrimoniale e quella lavorativa ne sono il simbolo.
Oltre alla vita estetica ed etica, c’è una terza possibilità di
vita: la vita religiosa. Rappresentante di questa scelta di
vita è Abramo, presentato nell’opera “Timore e tremore”.
Abramo, al quale viene chiesto di uccidere il figlio per
dimostrare la fede in Dio, è pronto a compiere il gesto ma
Dio interviene e ferma la sua mano.
Un altro esempio di genitore che sacrifica il figlio, esempio
sempre riportato da Kierkegaard, è Agamennone che, in
seguito al responso dell’indovino Calcante che aveva
predetto che per partire per Troia e salvare tutta l’Ellade
era necessario il sacrificio di Ifigenia, è quindi costretto ad
uccidere la figlia; però, mentre Agamennone può spiegare
al suo popolo perché sta sacrificando Ifigenia (poter
partire, salvarsi, vincere, ritornare), Abramo non può
spiegare, non ha motivazione tranne che è un atto di fede,
e per questo Kierkegaard parla di condanna al silenzio di
Abramo. La dimensione della religiosità è la dimensione
della solitudine, l’incontro con Dio nel segreto dell’anima,
nell’intimo della coscienza; Abramo non ha garanzia di aver
fatto la scelta giusta, perché è Dio che sceglie se salvare o
meno gli uomini; infatti compiere la scelta della vita
religiosa rispetto alla vita etica o estetica, non ci salva
dall’inquietudine, perché è Dio che sceglie se salvarci o
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meno ( pensiero luterano di Kierkegaard); noi possiamo
solo predisporci ad accogliere la fede, ma che giunga o no
non dipende da noi, ma dalla grazia divina: la vita religiosa
è a rischio tanto quanto le altre.

La categoria principale della riflessione religiosa è quella


dell’angoscia, paura del nulla, ossia paura priva di un
oggetto. Alla categoria di angoscia è intimamente connessa
quella di fede: la fede è la sola cosa che ci dà il coraggio di
compiere quel salto decisivo che ci consente di uscire
dall'angoscia.

La conclusione sia di “Aut aut” (carte A e carte B), sia di


“Timore e tremore”, è che la scelta è ineludibile, non si
può non scegliere (anche scegliere di non scegliere è già
una scelta, seppur inconsapevole).
La verità è che la nostra esistenza non è per nulla
predeterminata, ciò che la caratterizza è la possibilità che
non; noi possiamo diventare ciò che vogliamo, noi
decidiamo chi essere, e lo facciamo compiendo una scelta
che esclude l’altra. Il problema è che la scelta è libertà, e
per poter essere liberi dobbiamo metterci di fronte al fatto
che l’esistenza è nulla  se l'esistenza avesse già un senso
noi non saremmo liberi, perché è attraverso le nostre
scelte che l'esistenza acquista il senso che noi decidiamo di
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darle; ma per darle un senso dobbiamo prima esser
consapevoli del nulla, essere discepoli dell'angoscia, il
sentimento del nulla; solo chi è formato attraverso
l'angoscia è libero, perché l'angoscia è la capacità di stare
in faccia al nulla che è la nostra esistenza.

DISPERAZIONE?

Compiere una scelta, quindi, può generare sofferenza;


prendere una decisione e lasciare l’altra implica un dolore
di varia intensità, lascia sempre una piccola frattura, una
ferita che può sparire con il tempo o che non riesce a
cicatrizzarsi. Nel momento in cui rinunciamo stiamo, per
così dire, accantonando una piccola parte di noi, la stiamo
momentaneamente o totalmente recidendo. E come ogni
perdita, essa provoca un malessere forte, che si intensifica e
si radica in quanto riguarda noi stessi, in quanto stiamo
consciamente rifiutando una parte di noi.

Abbiamo già visto una delle scelte più sofferte nella


tradizione letteraria greca, ovvero quella di Agamennone,

Una delle scelte più sofferte nella tradizione letteraria


latina, ma anche greca, è quella compiuta dal personaggio
di Medea, l’eroina della Colchide, caratterizzata dal
continuo contrasto tra irrazionalità e razionalità, dal più
profondo turbamento psicologico, prodotto dall’incapacità

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legittima di capire se uccidere o meno i figli, come atto
estremo di vendetta in seguito al tradimento di Giasone.
A differenza della Medea di Euripide, dove c’è un continuo
confronto e rapporto tra Medea e Giasone, tra mondo
barbaro e mondo civilizzato; nella Medea di Seneca c’è una
maggiore attenzione alla psiche, all’interiorità di Medea e
alla sua irrazionalità, il suo sentire più sfrenato e
devastante, che la portano all’infanticidio, visto da Medea
come un modo per non essere dimenticata da Giasone.

La scelta in questo caso si accosta al sacrificio atroce di una


madre che
agisce da donna tradita, dimentica degli affetti pur di
compiere vendetta.

RIASSUNTO DELL’OPERA

Seneca ci descrive Medea mossa dall’amore deluso,


più che dall’orgoglio ferito. In quest’ottica i figli fatti a
pezzi sono il simbolo estremo di quell’amore vilipeso e
calpestato, troppo doloroso e amaro da avere a lungo
sotto agli occhi. Medea trova la forza di uccidere i figli
solo dopo aver avuto la conferma di quanto per
Giasone essi siano cari, al di là del legame tra lei e il
proprio uomo. Medea odia Giasone, ma non cessa di
chiamarlo marito, di desiderare di tenerlo con sé.
Chi non può vivere un amore vive per distruggerlo,
vendicarlo, macchiarlo di tragicità.
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La scelta è sofferenza anche per la protagonista del film “La
scelta di Sophie”,  film del 1982 diretto da Alan Pakula e
tratto dall'omonimo romanzo di William Styron.

Siamo negli Stati Uniti del 1947; la seconda guerra


mondiale è terminata da poco, ma  sono molte le
ferite aperte e le tracce evidenti della tragedia.
I protagonisti del film sono tre: Stingo, un giovane
aspirante scrittore che, finita la guerra, si trasferisce in
una casa bizzarra dipinta di rosa a Brooklyn, dove
abita una coppia turbata dai rapporti spesso
tempestosi, composta da Sophie Zavistowski
(interpretata da Marylin Streep), una bella donna
polacca immigrata dopo aver subito la terribile
esperienza del campo di sterminio di Auschwitz, e
Nathan Landau, un intellettuale ebreo, brillante,
raffinato, ma con variazioni d'umore sconcertanti (si
scoprirà poi che fa uso di droghe), ossessionato
dall'olocausto nazista che ha sterminato sei milioni di
ebrei.
I tre instaurano  un profondo rapporto di amicizia. 
Ma ben presto quell’amicizia conoscerà non solo
momenti naturali di  litigio e  distacco, ma anche
scoperte di tremende verità, attraverso l’utilizzo di
numerosi flashback.
Si scoprirà infatti che il padre di Sophie, esaltato
inizialmente e ricordato dalla figlia come uomo buono
e giusto e come polacco attivo antinazista deportato e
ucciso, era invece un amico dei nazisti a favore di uno
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sterminio degli ebrei e un sostenitore e un
promulgatore delle leggi per la purezza razziale
approvate in Polonia, leggi antisemite, soprattutto in
ambito scolastico, che imponevano, ad esempio, ai
bambini ebrei e tedeschi di sedere in banchi separati.
Tra le altre verità, si scopre quella più sconcertante:
Sophie, deportata con i due figli ad Auschwitz, è stata
costretta a scegliere  tra i suoi due figli quale mandare
a morte, potendo tenere soltanto l’altro; ha
abbandonato  quindi la sua bambina alla morte e, pur
di salvarsi e salvare il figlio Jan, ha collaborato come
segretaria per il comandante  di Auschwitz. Questa
verità mette in chiaro i comportamenti della donna e il
suo rapporto con Nathan e Stingo: entrambi sono
infatti innamorati di lei ma in maniera completamente
diversa: Nathan con i suoi comportamenti paranoici e
violenti, Stingo animato da un sentimento puro e
sincero, pronto a fuggire con lei promettendole
serenità e una famiglia.
Proprio per questo motivo, Sophie non riesce a
concedersi veramente al giovane scrittore. Infatti il suo
passato e le sue scelte, che l'hanno portata alla perdita
dei suoi due figli ad Auschwitz, la convincono che non
potrà mai più essere una madre e che lei quella vita
felice e serena non la può più meritare. Così, in un
vortice di autodistruzione, resta legata a Nathan in un
rapporto malsano e infelice, compiendo ancora una
volta una scelta di morte, convinta che sia il suo unico
destino, in un mondo in cui sente che Gesù l'abbia
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abbandonata nel tormento dei suoi ricordi e quindi dei
suoi peccati.
Siamo quindi nel clima della Shoah, termine che in lingua
ebraica significa “distruzione”, utilizzato oggi dagli storici
per indicare il tentativo attuato dal regime nazista di
sterminare gli Ebrei.
Infatti, fra il 1939 e il 1945 circa 6 milioni di Ebrei vennero
sistematicamente uccisi dai nazisti del Terzo Reich. Alla
base dello sterminio vi era un’ideologia razzista e
specificamente antisemita che si basava sulla convinzione
che gli ebrei appartenessero a una razza inferiore e
pericolosa, che doveva essere eliminata. Ma era dovuto
anche all’opinione del partito nazista comandato da Hitler
che la sconfitta della Germania nella Prima guerra
mondiale fosse dovuta a un complotto ebraico
internazionale.
Il primo attacco su vasta scala contro gli ebrei fu il
boicottaggio nazionale dei negozi ebraici, avvenuto due
soli mesi dopo l’ascesa al potere di Hitler. Infatti, dal
1°aprile 1933 e il 1935, una lunga serie di misure
discriminatorie escluse progressivamente gli ebrei
dall’economia, dalla cultura, da tutti i settori della vita
pubblica tedesca, privandoli persino della cittadinanza
tedesca.

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Nel settembre del 1935 a Norimberga, durante il settimo
congresso del partito nazista, vennero stabilite due leggi, la
Legge sulla cittadinanza del Reich e la Legge per la
protezione del sangue, che stabilivano rispettivamente
l’esclusione degli ebrei dalla vita civile e politica e
vietavano le relazioni tra ebrei e non ebrei. Dal 1938 in
poi, e in particolare dalla cosiddetta “notte dei cristalli” (la
notte tra l’8 e il 9 novembre 1938, quando in tutta la
Germania, le sinagoghe furono date alle fiamme e i negozi
ebraici devastati), il processo di segregazione e repressione
subì un’accelerazione che sfociò dapprima nella
ghettizzazione e successivamente nella decisione, presa dai
vertici nazisti nella Conferenza di Wannsee, nel gennaio
1942, di porre fine alla questione ebraica attraverso lo
sterminio sistematico. Tale sterminio aveva come obiettivo
l’annientamento programmatico e scientifico della razza
ebraica. Lo sterminio partì dalla Germania, ma si espanse
via via con le conquiste del Terzo Reich, colpendo gli Ebrei
dei paesi occupati, vale a dire di quasi tutta Europa. In
particolare l’invasione della Polonia, nel settembre del
1939 portò sotto il controllo tedesco un territorio abitato
circa da 2 milioni di ebrei. Essi furono in una prima fase
‘ghettizzati’, cioè forzosamente concentrati in appositi
quartieri delle città separati dal resto della popolazione per
mezzo di filo spinato o addirittura da mura. Qui vivevano in
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condizioni terribili; soffrivano e morivano per la fame e per
le malattie, aspettando di essere deportati.
A partire dal gennaio del 1942, con la conferenza di
Wannsee si arrivò alla “soluzione finale” del problema
ebraico. L’eliminazione degli ebrei venne realizzata in due
fasi: le operazioni mobili di massacro, che portavano la
popolazione ebraica in un luogo isolato e li eliminavano in
massa, i centri di sterminio, campi creati esclusivamente
col solo scopo di uccidere, e i campi di concentramento o
Lager.I primi Lager erano già attivi dal 1933 ed erano
utilizzati, fino a quel momento, per rinchiudervi prigionieri
politici e dissidenti. Dal 1942 divennero invece lo
strumento primario per la realizzazione dello sterminio.
Nel 1943, in seguito alla grande insurrezione degli ebrei
polacchi nel getto di Varsavia, venne decisa la loro
eliminazione; a tale scopo vennero realizzati in Polonia
numerosi campi di concentramento, fra cui quello di
Auschwitz-Birkenau, assunto come simbolo universale di
atrocità. Infatti, egli utilizzò nel modo più efficiente la
tecnica delle camere a gas per l’eliminazione degli ebrei,
affiancate da forni crematori utilizzati per smaltire i
cadaveri il più velocemente possibile, in modo da non
lasciare tracce. In questi campi di concentramento
giungevano ogni giorno convogli carichi di persone; non

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solo ebrei ma anche omosessuali, zingari, oppositori
politici e Testimoni di Geova.
All’arrivo dei prigionieri avveniva la prima selezione:
vecchi, malati e bambini erano immediatamente inviati alle
camere a gas; gli adulti, che non venivano più considerati
come uomini ma come numeri, erano destinati al lavoro,
finche la fatica, la malattia o la fame non li sovrastava. I
campi di sterminio erano anche luoghi di torture, di
esperimenti pseudoscientifici su cavie umane (come quelli
effettuati sui gemelli di J. Mengele), di lavori sfiancanti e
selezioni quotidiane: di tali atrocità è rimasta
testimonianza nelle memorie di coloro che riuscirono a
sopravvivere. (ad esempio, per le scene ambientate nel
campo di Birkenau, il regista Pakula si fece aiutare da Kitty
Hart, una donna americana ebrea superstite della Shoah.
Kitty Hart lavorò in modo molto meticoloso, aggiungendo
particolari anche fino ad allora poco noti nella quotidianità
della storia di Birkenau  un esempio lampante è dato
dalla presenza nel film della ricostruzione esatta della
cosiddetta “camminata di Auschwitz” : la Hart raccontò a
Pakula che ad Auschwitz il terreno era talmente pieno di
fango che l’unico modo per camminare consisteva nel
mettere gli zoccoli negli stessi punti dove stavano le
impronte di chi aveva camminato in precedenza per
evitare di rimanere impantanati . Pakula ricostruì questo
modo di camminare in un modo a dir poco perfetto).

ALTRO ESEMPIO: PIERO TERRACINA – VEDI DOCUMENTO


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[lo aggiungo o no?: In Italia il regime fascista aveva
emanato nel 1938 le leggi razziali che, tra l’altro,
escludevano gli Ebrei dalle scuole, da molte professioni,
dalla vita sociale. La deportazione e lo sterminio iniziarono
dopo il settembre 1943 mentre gli Alleati sbarcavano in
Sicilia. Essi venivano accolti dalla popolazione come dei
liberatori. Gli Italiani volevano la fine della guerra ma
erano anche stanchi del fascismo. Nel marzo 1943 vi
furono molti scioperi operai contro di esso. Di fronte a
questa situazione il Gran Consiglio del Fascismo votò la
sfiducia a Mussolini (25 luglio 1943). Lo stesso giorno il re
informò il duce che aveva affidato l’incarico di formare un
nuovo governo al maresciallo Pietro Badoglio. Subito dopo
Mussolini venne arrestato. Il nuovo 1° ministro firmò a
Cassibile (in Sicilia) l’armistizio con gli Alleati. Quest’ultimo
venne reso noto l’8 settembre. Ma nessuno diede al
popolo e all’esercito le indicazioni per affrontare la nuova
situazione. I Tedeschi occuparono l’Italia centrale e
settentrionale e il 12 settembre liberarono Mussolini.
Hitler consentì al duce di fondare nel nord la Repubblica
sociale italiana, con sede a Salò. Ora l’Italia era divisa in
due: Il centro nord sotto la repubblica di Salò e il sud, dove
sopravviveva il Regno d’Italia. Gli Alleati il 6 giugno 1944,
approdavano in Normandia con la più grande flotta da
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sbarco, così che i Tedeschi dovettero ritirarsi. Nel 1945 la
sorte della Germania appariva segnata. Il 30 settembre
Hitler si tolse la vita. Nella Berlino occupata dai Russi, il 7
maggio 1945 l’ammiraglio Donitz firmava la resa senza
condizioni della Germania. L’Italia era stata liberata pochi
giorni prima, il 25 aprile 1945. La resa del Giappone
avvenne solo dopo che due bombe atomiche avevano
distrutto le città di Hiroshima e Nagasaki. Il 2 settembre
1945 però anche il Giappone firmò la resa. La seconda
guerra mondiale si chiudeva con 55 milioni di morti.]

[La Shoah in sintesi


Con Hitler al potere (1933), la questione mediorientale si
acuisce, dal momento che il Fuhrer aveva posto
l’antisemitismo come uno dei punti cardine del suo
programma.
1933 segregazione razziale e primo campo a Dachau,
destinato non solo agli ebrei ma anche a oppositori politici,
zingari, omosessuali, nomadi, poveri.
1935 Leggi di Norimberga, prime leggi antisemite,
approvate nel 1938 anche in Italia.
1938 Notte dei Cristalli: la notte tra il 9 e il 10 novembre,
col pretesto dell’uccisione di un diplomatico tedesco da
parte di un ebreo, furono assassinati e deportati tantissimi
ebrei, e i loro negozi e abitazioni vennero saccheggiati e
distrutti. Dal momento che la popolazione stava iniziando a
capire ciò che stava accadendo, venne varato il decreto
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Nacht und Nebel (1941) e si decise che gli ebrei sarebbero
stati deportati e rastrellati di notte, evitando possibili
opposizioni di cittadini tedeschi.
1942 Conferenza di Wansee: soluzione finale: gli ebrei
dovevano essere eliminati, e occorre una pianificazione
industriale della deportazione della shoah (creazione di
nuovi campi di sterminio).
Chiaramente in seguito a ciò, dal 1933 l’esodo degli ebrei
verso la Palestina diventa molto più frequente,
trasformandosi in una fuga dalla persecuzione nazista;
tuttavia rimane limitato perché gran parte degli ebrei
preferì migrare verso gli USA o in Inghilterra.
1947 il cargo Exodus di ex deportati ebrei sopravvissuti ai
campi è respinto ad Haifa dagli inglesi
Subito dopo la guerra, a proposito dell’ambiguità inglese,
una nave chiamata Exodus trasportava un carico di
deportati ebrei, sopravvissuti ai campi; gli inglesi non le
permettono di attraccare nel porto palestinese di Haifa,
per non inimicarsi gli arabi, ignorando la dichiarazione di
Balfour.]

Ma una scelta, oltre a generare sofferenza, può


generare paralisi, l’incapacità di reagire a una
situazione, di trovare una via di fuga dalla propria
condizione, ed è quello che capita ad Eveline, una delle
storie tratta da “Gente di Dublino” di James Joyce.
James Joyce, one of the most important writer of the Victorian Age,  born in Dublin in 1882.
He sets all his work in Ireland and he want to give a realistic portrait of the life of ordinary people doing
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ordinary things. He represents the man’s mental reality fusing with the reality of the natural world around
him.
His most famous works is, among the others, “Dubliners”, a collection of fifteen short stories all about life
in Dublin.

The stories are divided into four groups: childhood, adolescence, maturity and public life.
The short story "Eveline" is part of the section dedicated to adolescence and describes the life of a
nineteen-year-old who has the opportunity of changing her routine life but she is unable to leave her
familiar community in Dublin.
 
Eveline is an unhappy and whipped girl, who thinks of her past life, the tragic events (her mother's death)
and what she has not done, and what she wanted to do.
She is a lonely girl, submerged by a gray everyday life that imprisons her in his routine existence.
Her life is in fact engaged in taking care of the house, of her father and two younger brothers.
She is a young woman who, however, tired of this her miserable condition, made the decision to run away
from her home and her family; now she is allowed to dream of a better life, a happy and respectable life,
along with Frank, who wants to take her to Buenos Aires and marry her.
Eveline, though, when she is about to leave with Frank and totally change her life, surrender, feels
overwhelmed by a feeling of dread,  prefers to remain in her condition of immobility because it is the
surest, safest one, rather than really changing her life.
Eveline remains an incapable girl, that is not able to choose its fate, remaining imprisoned,
paralyzed, in his routine life.

La scelta più importante, quindi, come si evince anche


da questo racconto, è quella di scegliere chi si vuole
essere, la scelta del proprio destino e del proprio io.
Si danno innumerevoli immagini di sé e possiamo
constatare noi stessi che la percezione che una persona ha
di noi non è quella che ha un’altra. E nemmeno l’immagine
di noi stessi è sempre chiara. Questo aspetto è espresso
chiaramente nell’opera “Uno, Nessuno e Centomila” di
Luigi Pirandello, iniziata nel 1909 e che pubblicò solo nel
1926.
Il romanzo inizia con la presentazione, sotto forma di
monologo a volte ironico a volte affannato, in cui il
destinatario viene chiamato in causa con appelli
diretti, o addirittura inserito come personaggio
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nell'azione, accanto all'io narrante, di Vitangelo
Moscarda, una persona alquanto ordinaria che ha ereditato
dal padre una banca.
Una mattina la moglie gli fa notare di avere il naso
leggermente storto e questo genera in lui una profonda crisi,
in quanto si accorge che la percezione che ha di sé non è
assolutamente quella che gli altri hanno di lui.
Inizia quindi un intenso percorso di autoconsapevolezza, in
quanto si rende conto del fatto che esistono
infiniti «Moscarda», l'uno diverso dall'altro, a
seconda della visione delle tante persone che lo
conoscono, in primo luogo la moglie.
In lui nasce pertanto un vero orrore per la
prigione delle «forme» in cui gli altri lo
costringono e decide quindi, inizialmente, di essere solo
e solamente Uno, colui che aveva sempre pensato di essere
agli occhi degli altri.
Si propone il programma di
distruggere tutte le immagini che gli
altri si sono costruite di lui,
attraverso una serie di gesti
bizzarri, imprevedibili, sconcertanti,
di vere e proprie «pazzie».
La pazzia è un modo caro agli eroi
pirandelliani per scardinare il
meccanismo delle «forme», delle
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convenzioni e degli istituti sociali
che imprigionano la «vita» nel suo
fluire.
Moscarda vuole distruggere le
identità impostegli, senza più la
pretesa di costruirsene un'altra
alternativa: comincia così la serie
delle sue pazzie: prima sfratta un
povero squilibrato, Marco di Dio,
dalla catapecchia che persino il
padre usuraio, per pietà, gli aveva
concesso gratuitamente, e in tal
modo suscita l'esecrazione di tutta
la città; poi, con un improvviso
colpo di scena, rivela alla folla
indignata, accorsa per assistere allo
sfratto, di aver donato un'altra casa
migliore a di Dio. In seguito impone
agli amministratori di liquidare la
banca paterna, maltratta la moglie
Dida (che pur ama) e la induce a
lasciarlo. A questo punto i due
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amministratori, la moglie e il
suocero congiurano per farlo
interdire. È avvertito da Anna Rosa,
un'amica di Dida, ed egli,
rivelandole tutte le sue
considerazioni sull'inconsistenza
della persona, sulle forme che gli
altri ci impongono, l'affascina, ma fa
anche saltare il suo equilibrio
psichico, e la donna, con gesto
improvviso e inspiegabile, gli spara,
ferendolo gravemente. Ne nasce
uno scandalo enorme: tutta la città
è convinta che tra lui e Anna Rosa ci
sia una relazione colpevole. A
Moscarda, consigliato da un
sacerdote, non resta che
riconoscere tutte le colpe
attribuitegli e dimostrare un eroico
ravvedimento. Dona tutti i suoi averi
per fondare un ospizio di mendicità,
ed egli stesso vi viene ricoverato,
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vivendo insieme con tutti gli altri
mendicanti, vestendo la divisa della
comunità e mangiando nella ciotola
di legno.
Moscarda ha cercato, con le sue
«follie», di ribellarsi al sistema
ferreo delle convenzioni sociali, di
scardinarlo, ma è rimasto sconfitto.
Lui che voleva distruggere tutte le
«forme» impostegli, deve accettare
l'ennesima «forma» attribuitagli
dalla comunità, quella dell'adultero,
e scontare per essa una dura pena,
del tutto immeritata. E tuttavia
proprio in questa sconfitta trova una
forma di guarigione dalle angosce
che lo ossessionavano. Se prima la
consapevolezza di non essere
«nessuno» gli dava un senso di
orrore e di solitudine tremenda, ora
accetta di buon grado di alienarsi
totalmente da se stesso, rifiuta
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definitivamente ogni identità
personale, addirittura il proprio
nome, e si abbandona gioiosamente
al fluire mutevole della vita,
«morendo» ad ogni attimo e
«rinascendo» sempre nuovo e senza
ricordi, senza più fissarsi in alcuna
forma per sé, ma identificandosi con
tutte le cose fuori, gli alberi, le
nuvole, il vento, in una totale
estraniazione dalla società e dalla
prigionia delle «forme» che essa
impone; diventa quindi centomila.
Il personaggio di Vitangelo Moscarda è uno dei più
complessi personaggi pirandelliani, che vuole scindere
quello che pensa di essere dalle cosiddette “forme”
attribuitegli dagli altri.
Ma bisogna accettare che non sempre la nostra scelta è
attuabile, che non siamo onnipotenti.
Le maschere, infatti, non sono esclusivamente una scelta
con la quale ci proponiamo agli altri, ma è anche un
meccanismo altrui che, partendo dal giudizio come
parametro universale, sviluppa una propria percezione di un
altro individuo.
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Come detto precedentemente, ogni scelta implica una
rinuncia e una sofferenza nel lasciare l’altra
possibilità. Ma quando sono le scelte ad essere sofferte?
Quando quella che stiamo prendendo è una decisione
dolorosa perché più insidiosa e più struggente? Per arrivare
ad una meta prefissata occorre spesso andare oltre,
attraversare questa ferita: l’esito sarà proporzionale
all’intensità delle sofferenza patita.

SCIENZE
Diversamente dalla morale nelle scienze la scelta si fonda sulla previsione delle possibilità e la
fecondità delle conseguenze
« La scienza sa e l'etica valuta; esistono spiegazioni e previsioni scientifiche, ma non esistono spiegazioni e
previsioni etiche – esistono valutazioni etiche. L'etica non è scienza; l'etica è senza verità. Da tutta la scienza
non possiamo estrarre un grammo di morale...[essenziale è allora] la scelta dei valori supremi [...] e questa è
una scelta che trova la sua base non nella scienza, ma nella coscienza di ogni uomo e di ogni donna.
Pluralismo, dunque scelta; scelta, dunque libertà; libertà, dunque responsabilità. [16] »

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1. Curiosità:
- La scena del treno e della “scelta del figlio” venne girata
una sola volta, perché troppo straziante

2. la sensazione provata dai superstiti della Shoah nella


vergogna a volte bruciante dentro l’animo di molti  di
“essere sopravvissuti al posto di altri” .

3. Ed è questo , dunque , il significato profondo che da la


pellicola di Pakula . In una “Casa rosa” , vera e propria isola
di normalità fin troppo Irreale in un mondo ancora ferito
dall’ odio e dallo sterminio , il passato riaffiora come un
fulmine a ciel sereno sulla sua vittima , fino a farle scegliere
, ancora una volta , la morte per la salvezza . La salvezza
dalla “vergogna” dell’essersi salvati , e soprattutto,
dell’essersi salvati al posto di un altro, in questo caso , di
un familiare.

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