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Storia della filosofia moderna e

contemporanea

25/02
Nel saggio sul dono si parla di come intessiamo relazioni con gli altri grazie a doni e
oggetti, è un testo antropologico. Purezza e pericolo ha a che fare con la classificazione,
purezza e impurità, come viene costruito socialmente questo concetto. I due modelli
concettuali, di questo concetto nella filosofia sono moderni. Parlano entrambi dell’io, e
si pongono il problema del rapporto con l’altro, aprono poi due vie diverse. Quadro di
callobotte, quadro di un uomo che si affaccia alla finestra. La stanza rimanda alle
meditazioni di cartesio, 1641. C’è appunto il topos dell’uomo nella stanza. Nella seconda
meditazione l’io pensa deve un po’ respirare, si sciolgono le briglia. C’è la famosa
analisi del pezzo di cera, l’io che conosce il pezzo di cera che si scioglie eccetera. Se
abbiamo di fronte un pezzo di cera, vediamo la cera stessa, non facciamo nessuna
inferenza. Concluderei subito che la cera si conosce con una visione oculare, non
mentale. Però ci si ricorda di esserci affacciati ad una finestra, e di aver visto degli
uomini alla finestra. Cosa vedo della realtà, se non cappelli e vestiti, che potrebbero
nascondere degli automi? In questa esperienza s’innesta un dubbio, vedo solo delle
forme che si muovono, che potrebbero ingannarmi, delle quali non posso essere sicuro.
Allora, per coerenza, devo dubitare anche con la cera. Non conosco la cera con gli occhi
corporei, ma dall’intelletto. La conoscenza riposa su un’operazione mentale. La cosa che
c’interessa è la finestra, è il rapporto con gli altri. Come conosco la cera non con gli
occhi ma con l’intelletto, nello stesso modo conosco gli esseri umani non con gli occhi
ma con l’intelletto. Posso descrivere la forma, l’estensione, dell’essere umano, ma mi
posso accontentare di questo, di queste qualità geometriche? No, per cartesio c’è
appunto unione di res estensa e res cogitans. Dovrei conoscere la sua mente. Posso avere
accesso alla mente altrui? È molto  dubbio, in un ottica cartesiana. La mente non ha la
capacità di declinarsi alla seconda o alla terza persona. Posso dire con sicurezza che sto
pensando e che esisto, ma non posso dire la stessa cosa degli altri. L’ego cogito può
essere declinato solamente alla prima persona. Per malebranche conosciamo le menti
degli altri soltanto per congettura, non possiamo neanche conoscerle attraverso uno
scavo interiore, perchè siamo diversi. Congetturiamo che le anime degli altri siano come
le nostre. Pretendiamo, c’illudiamo, che gli altri sentano noi e noi sentiamo gli altri. Il
movimento con gli altri è quasi un fare finta, un congetturare. Cartesiano mette subito in
dubbio la conoscenza. Attraverso il dubbio si problematizza completamente il mondo
circostante. Il Dio garante mi assicura poi che il mondo è certo. Il mondo che sparisce
poi ritorna, sono sicuro delle cose, della materia, del mio corpo. Gli altri però, non
tornano. Gli altri Io, rimangono marginali. È un bordo oscuro. Da una parte questa messa
in questione del mondo è un gesto filosofico fondamentale. Per husserl non si può che
ripartire da qui a fare filosofia. È anche un gesto di libertà, sartre ci vede una libertà in
negativo, la libertà di dire no, di sospendere e mettere in discussione il mondo e gli altri.
È un gesto anche emancipatorio. Il prezzo da pagare per questo gesto è la solitudine
dell’io. La libertà del filosofo cartesiano è un libertà cartesiana, dice levinas. È un
mondo silenzioso. Un mondo senza colori e suoni. Questo si fonda sulla rinuncia
all’altro. Lo sciogliere i legami, fare a meno del riconoscimento, vedere senza essere
visti. Hegel inizia il suo racconto filosofico dall’io, dalla coscienza che esclude l’altro è
trova la certezza. Il problema è che l’io non è un luogo di verità o realtà, per Hegel. Un
io=io fichtiano. È una certezza statica, povera di contenuti. Quello che è altro, è
inessenziale, e contrassegnato dal carattere del negativo. Ma, l’altro, inessenziale,
escluso, è un’altra autocoscienza. Compare un individuo, di fronte ad un individuo. La
finestra di cartesio, un io che vede alla finestra degli altri io. Hegel però, mette sullo
stesso piano le due autocoscienze, i due personaggi principali. Gli individui, come si
relazionano? Come si stabilisce un ponte? Inizialmente i due sono giustapposti, 
completamente esterni. Immediatamente, gli individui sono figure autonome. Ciascuna è
bensì certa si se stessa, non dell’altra. Inizialmente vedo l’altro come una cosa. Sono
certo di me (cartesio) ma non sono certo dell’altro (malebranche). Mancando questa
certezza, la certezza di se non ha più verità. È una semplice certezza soggettiva, una
verità labile. L’altro certifica la tua certezza. Se la certezza non è intersoggettiva,
comunicabile, è una certezza senza verità alcuna. Manca il riconoscimento. La forma più
elementare di riconoscimento è rispecchiamento. Vedo l’altro fare la stessa cosa che
faccio io. Ma se devo entrare nella mente di un altro, mi trovo nel problema di
malebranche. Come posso essere sicuro che il riconoscimento sia biunivoco se la mente
dell’altro è silenziosa. Hegel abbandona allora la semantica del vedere, dell’occhio che
vede ed è visto, e abbraccia un fare, che è anche un mostrare. Deve fare qualcosa per
essere visto, deve mostrarsi, sporgersi, presentarsi. Bisogna presentarsi come
autocoscienze, non come automi. Ingaggiare un rischio, far vedere che possiamo fare a
meno della nostra vita biologica. Siccome siamo all’interno di una relazione, se
disprezzo la vita e mi mostro come autocoscienza, non posso sopportare che l’altra
autocoscienza rimanga attaccata alla vita. Il riconoscimento diventa un conflitto totale,
se il primo s’impone il disprezzo della vita, persegue la morte della vita anche nell’altro.

02/03
Con Hegel si parla di signoria e servitù. Siamo arrivati al tema della lotta per il
riconoscimento, molto fertile. Honnet attualizza questo tema: per lui quasi tutti i conflitti
sociali del nostro mondo derivano appunto dal riconoscimento. È una lotta per
uguaglianza delle risorse, dei diritti, ma soprattuto per il riconoscimento di uno statuto
individuale e sociale. La postmodernità sta facendo tornare grandi lotte di
riconoscimento ed identità. Conflitti sociali, che si fondano su motivazioni non politiche,
coi è le religioni, le etnie. Hegel partiva dall’io che conosceva se stesso, quello di
cartesio. Per Hegel questo è un io tautologico, è una certezza totalmente minimale e
astratta, io=io fichtiano. Due uomini poi, si vedono, due autocoscienza stanno una
davanti all’altra. Vedo nell’altro, però, me stesso. La relazione si pone ancora nella
forma della tautologia. A deve riconoscere B, ma anche l’inverso. Si tratta dell’essere
riconosciuti, più che riconoscere. Infatti Hegel cambia il suo lessico, dal campo
semantico del vedere, ad uno del fare, del dare segni per dimostrarsi. Come se
l’individuo che vedo dalla finestra mi facesse segno per mostrarsi. L’autocoscienza, per
essere riconosciuta come tale deve dimostrare appunto di non essere una cosa. Deve
esporre se stessa alla perdita della vita, ad un rischio mortale per distruggere la
materialità. Il conflitto deriva dal momento del rispecchiamento, vedo l’altro fare lo
stesso che ho fatto io. Quindi, non mettiamo a repentaglio soltanto noi stessi, cerchiamo
la morte dell’altro se stesso, dell’individuo di fronte. Non possiamo tollerare che l’altro
non rinunci come noi alla vita. Se non rinunciasse alla vita sarebbe una cosa, e quindi
non sarebbe un’autocoscienza che può riconoscersi. La nostra autocoscienza si sdoppia
in servo e signore. Il servo, che si abbandona alla cosalità, il signore invece, che è
autocoscienza pura. In questo momento, il servo riconosce l’autocoscienza. Quel
qualcuno che ti riconosce però, sembra qualcuno di abietto, qualcosa che sta ai limiti
dell’umano. Non sembra una grande coscienza. Servirebbe che anche il servo venga
riconosciuto come vera autocoscienza. Si può fare? L’autocoscienza A è finalmente
riconosciuta, ma da un essere abietto. Riconoscere il servo vorrebbe dire rinnegare la
simmetria. Per essere signore c’è bisogno di un servo. Il servo gli presuppone l’accesso
alla vita materiale. In Hegel c’è un rapporto circolare di riconoscimento, A riconosce B e
viceversa. Le due vie: una passa dal riconoscimento. L’altra non fa più appello all’altro,
ma alla formazione, al lavoro e trasformazione di se stessi. Hegel, a differenza di
cartesio, mette l’altro al centro. La relazione con l’altro non è immediata, non è pacifica,
armoniosa, è conflittuale.

04/03
Signoria e servitù sono contemporaneamente individui e momenti diversi. Ognuno dei
due ha un se’ un’autocoscienza che nasce proprio dallo sdoppiamento. Nessuno dei due
estremi può stare senza l’altro. Il servo ha in se’ il rapporto con l’essere padrone, e
viceversa. 
Le meditazioni cartesiane sono un testo stratificato. Le opere pubblicate sono la punta
dell’iceberg, la cui massa è sommersa da idee, scritti, discorsi. Le meditazioni parte da
una occasione, da due lezioni a Parigi e Strasburgo. Fu scritto prima in tedesco, poi
trascritto e tradotto in francese da levinas. Per vent’anni il testo francese è stata l’unica
versione circolante. Sartre, levinas, merleau-ponty studieranno da questo testo. A 70 anni
pubblica “introduzioni alla fenomenologia”, non parla tanto di aspetti di metodo, è una
introduzione anche all’esperienza. Si entra nei contenuti quasi subito. Le meditazioni,
ovviamente, sono poste sotto il segno di Cartesio. Per husserl, la fenomenologia come la
intende lui, è un nuovo Cartesianesimo. La fenomenologia, per essere cartesiana, deve
respingere quasi tutte le tesi contenute da Cartesio. Dove sta la continuità? La
fenomenologia vuole essere una filosofia di tutto il sapere. Deve essere in grado di
collegare i campi scollegati, dispersi, del sapere. L’io, meditando su se stesso, scopre di
essere il primo mattone inconfutabile sul quale si può costruire tutta la scienza. Poi, il
dubbio, la messa in discussione del reale nella sua apparente ovvietà. Per tornare al
soggetto, dobbiamo interrogarci su quel mondo. Cartesio mette in dubbio l’ovvietà della
presenza del mondo, l’ovvietà delle scienze, l’ovvietà della presenza. Cartesio parla di
dubbio, husserl parla di epokè. Che, in meno, ha il fatto che epokè non elimina il mondo,
non spenge la luce sui fenomeni. Ha un’ambizione negativa meno forte rispetto al
dubbio cartesiano. L’epokè sospende la nostra credenza ingenua, ma il mondo continua
ad apparirci. Il dubbio cartesiano però, è una scala che deve essere usata e poi buttata
via. Si usa all’inizio poi si lascia. Il dubbio mira al reperimento di una certezza, una volta
che si è raggiunta non si serve più. L’epokè non cessa mai, fa tutt’uno con la filosofia
stessa. Il momento dell’epokè cambia il nostro modo di vedere le cose tramite un
esercizio permanente. La riduzione non riduce e basta l’esperienza, da un certo punto di
vista la cresce. La sospensione della credenza vale anche per tutti gli altri Io. Non posso
dire noi, loro, perchè siamo certezze legate ingenuamente all’esperienza sensibile,
sospesa. Devi mettere in questione, nell’epokè, il fatto che tu sia un Io come me. Devi
mettere in questione anche te stesso. Otteniamo un Io, un Io trascendentale. Dobbiamo
guardarci non come persone, non come enti spazio-temporali, ma come soggetto
trascendentale. Sono la condizione di possibilità di ogni senso del mondo. Siamo il polo
unificante per il quale ciò che chiamo mondo ha senso per me. La fenomenologia
elimina ogni idea di cose in se’. Cartesio non ha inteso correttamente che la scienza
universale è un egolologia. Il cogito serviva per ritornare alla validità delle scienze, ma
scienze di natura, non dell’ego. L’io è un mattone sul quale si edifica un sapere
scientifico. Per husserl l’io e la scienza universale, invece, sono la stessa cosa. Il mondo
è costitutivo dell’esperienza di se’. L’epokè non è una negazione del mondo, sospende
solo la credenza, i fenomeni continuano a presentarsi, percezione, ricordo,
immaginazione. Ogni cogito ha in se’ il suo cogitatum. Il cogito non è mai
un’operazione astratta, autosufficiente, pone immediatamente un oggetto. La coscienza è
sempre coscienza di qualcosa, e la sua caratteristica fondamentale è l’intenzionalità.
Questo è il punto di svolta della fenomenologia. Dire che la coscienza è intenzionale
significa intendere che non è una sfera chiusa, ma è un campo aperto. Si riferisce sempre
ad altro rispetto a se’. Non c’è un mondo senza un io, ma non c’è neanche un io senza un
mondo. Pensare ed oggetto pensato sono due lati di un’unica attività. Il pensiero non è
autosufficiente, e il pensato, non è una cosa. La fenomenologia c’insegna a vedere il
mondo non come fatto di oggetti a se stanti. L’esperienza è fatta da una molteplicità di
strati sovrapposti, nel quale l’aggiunta di un nuovo strato modifica gli altri.

09/03
Quali sono le conseguenze dell’intenzionalità? Innanzitutto la coscienza non è isolata.
Poi c’è il tema ricorrente del flusso della coscienza. Questo fa sì che la coscienza venga
pensata all’interno di una temporalità. La coscienza è intrinsecamente temporale, è
tempo dentro di se’, a differenza del cogito cartesiano che è vincolato al momento,
all’istante. Penso dunque sono, ora. La coscienza di husserl, intenzionale, fa della
temporalità una sua dimensione costitutiva. Poi c’è l’attualità e la potenzialità: quando la
coscienza pensa, ricorda, sviluppa uno spazio d’intenzionalità che è fatto sia di attualità e
potenzialità. Delinea uno spazio più ampio della mera attualità dell’atto intenzionale.
L’atto intenzionale viene riempito attraverso dei sistemi dei conferma, delle esperienze
concordanti… La mia coscienza intenzionale continua ad intenzionare oggetti, attraverso
una serie di verifiche e di conferme, complesse e possono dar luogo a delle delusioni.
Certe intenzioni possono anche rimanere vuote, il mio cogito ha un cogitatum che non
c’è, in attesa di essere riempita, al momento vuota. Questo ragionamento sul
riempimento della coscienza sembra kantianeggiare. Qual è la differenza? Nella
fenomenologia l’intenzione non è mai completamente vuota ne’ mai completamente
piena. Non si danno forme completamente vuote a priori, anche l’intenzione più vuota di
tutte non è completamente vuota. Il cavallo alato, anche quest’intenzione è intenzione di
qualcosa. Però, l’intenzione della coscienza non è mai neanche veramente piena. Anche
nel caso dell’intuizione spaziale, l’intenzionalità non si esaurisce, ne anticipa, ne
prefigura delle potenzialità non presenti o attualizzate. Husserl fa l’esempio del cubo,
posso percepire uno, due dei suoi lati, non tutti. Eppure la mia coscienza intenziona
anche gli altri lati. C’è attualità, quello che sto evidentemente percependo, e potenzialità,
i lati del cubo che non vedo, ma di qui faccio intenzione. La potenzialità, pure se non si
riempie di ciò che pensavo, si riempirà semplicemente di qualcos’altro. La potenzialità si
riempie sempre. La coscienza intenzionale pone degli orizzonti. Mette insieme il
presente e l’assente. Intenzione il mare, immaginando che oltre ci sia altro mare. La
coscienza pone allo stesso tempo degli elementi che riempiono l’intenzione e che
pongono un orizzonte. L’al di là dell’ orizzonte si poggia sempre su un’immanenza.
Assenza e presenza legate insieme. Cosa fa allora il fenomenologo?  Descrive questi
orizzonti che la coscienza pone continuamente nella sua attività intenzionale. È una
descrizione che mira a distendere i vari strati dell’attività intenzionale. La vita della
coscienza intenzionale è sì un flusso, ma non indistinto, non senza punti di riferimento.
Si danno delle tipicità, delle strutture, non rigide e statiche, delle linee caratteristiche che
permettono di esplorare i vari modi in cui la coscienza intenziona gli oggetti. C’è il
percepire, il ricordare, l’immaginare… Questi sono fusi tra di loro, il fenomenologo si
propone di coglierne le strutture tipiche. La fenomenologia è un lavoro che ci permetta,
dai dati, di riappropriarsi del senso. Inoltre, essendo un continuo divenire, immer wieder
(sempre di nuovo). È un lavoro senza fine, non ha un compimento. La coscienza
comincia sempre di nuovo a rischiararsi, accompagna la vita sempre. La scala, a
differenza delle meditazioni di cartesio, non va mai buttata via. Anche con il percorso di
husserl con gli studenti. Alla fine di questo ragionamento nasce un problema insidioso.
La coscienza non è isolata, non è un isola. Come si fa ad uscire da quell’isola presunta
della coscienza. L’intenzionalità promette un’apertura, ma cosa mi rimane in mano se
non contenuti personali della mia vita cosciente. Questo Io, sta uscendo da se stesso? O
rimugina su ciò che sta facendo lui? La quinta meditazione si apre con questo problema.
Come faccio a sapere che c’è un mondo al di fuori del mio solipsismo. Questo problema,
per husserl, si pone in due modi: il problema dell’esistenza del mondo, e il problema
dell’esistenza degli altri. Solus ipse, è solo, in un mondo che non esiste. L’esperienza ci
dice, che nel mondo, alcuni oggetti ci appaiano diversi dagli altri. Esistono degli altri,
non so perché, ma è evidente che una persona sia diversa dalla sedia su cui è seduto.
Posso eliminare questa diversità, ma non sono soddisfatto. Cartesio dà per scontato che
ci siano altre sostanze pensanti. Per husserl, l’impostazione alla cartesio, di accertarsi
prima del mondo e mai degli altri, è sbagliata. Sto pensando il mondo e gli altri come
delle cose intorno a me, non ho messo tra parentesi fino in fondo la datità. Continuo a
dare per scontato, e allora non riesco più a cogliere lo spazio. Di fronte ad un altro io, la
fenomenologia prova a descrivere questa presenza. Nella mia esperienza noto che c’è
l’esperienza degli altri. Da un lato c’è una dimensione di oggettività degli altri io. Sono
situati esattamente come oggetti nel mondo. Però non sono soltanto cose materiali. Ma
non sono neanche spiriti. Faccio esperienza degli altri anche come soggetti. Immagino
che ognuno faccia la stessa cosa che faccio io. Questo stesso mondo si dà per ciascuno di
noi. Inoltre, l’altro, non esperisce solo il mondo, ma anche me stesso. L’altro mi sta
costituendo. Dobbiamo capire le relazioni tra soggettività, oggettività, i vari strati.

10/03
Posto il quadro metodologico della fenomenologia, husserl si imbatte nel solipsismo.
Una condizione di solitudine. Questo problema per husserl ha due facce, soli rispetto al
mondo e soli rispetto agli altri. Io e mondo si danno insieme però, quindi non si sofferma
più di tanto su questa dicotomia. Il problema della chiusura del mondo è già stato
trattato. Il problema degli altri è più serio. Come ci si da’ l’esperienza dell’altro, in che
modo ci può essere il filo conduttore per proseguire la ricerca. La descrizione parte
dall’Io, percepisco che ci sono degli altri esistenti. Diversi dalle cose materiali. Gli altri
si danno per me come oggetti del mondo, ma non come cose, come esseri psicofisici.
Esseri con un rapporto particolare con il loro corpo. Questi altri Io, non sono soltanto
oggetti, sono anche soggetti per i quali si da’ questo mondo. È un soggetto per cui si da’
questo mondo, al cui interno ci sono anche io. L’altro è un soggetto per cui si da’ mondo
più io stesso. Esperisco il mondo con gli altri: ha un significato oggettivo, nel mondo ci
sono gli altri, ma, io e gli altri intenzioniamo il medesimo mondo. È un mondo
cointenzionato. Il mondo è fuori di me, ma è disponibile ad essere cointenzionata da
altri. Il mondo è un punto d’incontro delle prospettive dei vari Io. Husserl stratifica:
primo strato, l’esserci-per-me di un altro. Ma il mondo non è una cosa che sta lì, è ciò
che quel tipo di oggetto, di cogitatum, è cointenzionato da altri. Il mondo è ciò che è
disponibile ad una pluralità di altre coscienze intenzionali. Il secondo strato è: l’essere-
qui-per ciascuno. Ci sono due mondi diversi però. C’è un mondo universalmente
accessibile, per ciascuna coscienza, per qualsiasi soggetto intenzionale, e questo è il
mondo come natura, il mondo oggettivo. Accessibile in qualsiasi momento a qualsiasi
soggetto. Gli oggetti della cultura non sono un ciascuno incondizionato. Per capire
qualcosa di un libro, ci sono dei prerequisiti, se non ho una cultura comune rispetto al
mondo, non posso capire. Ci sono dei limiti all’accessibilità al senso degli oggetti
culturali. Gli oggetti di cultura sono tali perché altri condividono con me il senso. Sullo
sfondo dei rapporti interpersonali c’è il problema più grande della concezione del
mondo. Il mondo non esiste se non ci sono gli altri, non possiamo cercare gli altri su uno
sfondo di mondo già esistente. Come stanno in rapporto questi tre strati? Qual è il più
importante? Un possibile approccio è quello culturalista, ovvero che il nostro sguardo sul
mondo è sempre modellato dalla cultura, dagli usi e costumi. Possiamo invece adottare
un approccio inverso. Ovvero che la diversità culturale nasce primordialmente da un
mondo comune. Il mondo esiste, le culture si formano da questo. Abitiamo tutti in uno
stesso mondo. Husserl è di questo secondo avviso, è un universalista, il mondo è
preliminare rispetto al ritagliamento culturale. La cosa interessante è il ruolo dell’altro io
di fronte a me. Proseguendo per una strada universalistica: riconosco un altro in te, nella
misura in cui condivido con te un idea di universalità. Prima ho un idea universale di
umanità, successivamente mi riconosco insieme a te come istanze particolari di ciò.
Husserl allora rovescia i termini della frazione, mettendo al denominatore un singolo
altro, l’altro. Il mondo-per-ciascuno, deve essere prima di tutto un mondo per qualcuno.
Un mondo per un soggetto, che ne da una sua interpretazione specifica. Sono Io la realtà
fondamentale. Solo che, questo io non sta da solo, si pone immediatamente come altro,
in rapporto con l’altro. Non c’è un soggetto assoluto e autosufficiente. C’è un soggetto
scisso sin dall’inizio, dalla quale scissione dipende tutta l’umanità. È un umanesimo
basato sul rapporto con l’altro io. Il soggetto non basta da solo, arrivo all’idea di uomo
generale grazie al fatto che c’è un altro fuori da me. Husserl utilizza una mossa
metodologica spiazzante, quasi una dimostrazione per assurdo. Cerca di distinguere ciò
che mi appartiene veramente, ciò che è solo mio. Per cercare di arrivare all’altro si
ripiega ancora di più in se stesso. Qui bisogna sospendere tematicamente, togliere tutte le
cose che dipendono da altri, arrivare ad una sfera ristretta della mia esperienza che
dipenda soltanto da me, che mi costituisca in ciò che mi è più proprio. Del proprio non
farà parte la cultura, non farà parte il mondo in quanto tale, perché necessita degli altri.
Cosa è rimasto nella sfera del proprio? Una natura particolare, e il mio corpo. Ciò che
appartiene al mio proprio non è il corpo fisico, korper ma un corpo vivente, leib. Il mio
corpo vivo è l’unica cosa di cui dispongo immediatamente. I movimenti del mio corpo,
io posso muovere la mano, io posso, io posso.  L’altra caratteristica è la cinestesi, la
percezione del movimento: a un movimento esterno del mio corpo, corrisponde una
percezione interna del mio movimento. Il movimento del Leib, è avvertibile
interiormente. Questa duplice esperienza è soltanto per il Leib, non per il korper. La
sensazione cinestetica è solo ed esclusivamente mia. Si delinea una sfera del proprio che
coglie alcuni dati esperienziali indipendenti dall’intenzionalità altrui. Parla anche di cose
appartenenti soltanto alla mia sfera personale, ma non le identifica. Rimangono vaghe,
perché difficilmente non rimandano all’esistenza di altri. 

11/03
Dividiamo per comodità la quinta meditazione in due parti. Abbiamo cercato di capire in
cosa consista la sfera del proprio. In un certo modo è una natura che contiene comunque
un’oggettività. Si ottiene cercando di togliere tutti gli strati del mondo. Contiene il leib,
il corpo vivo, che è a mia disposizione immediatamente, il mio posso, che dipende solo e
completamente da me. Poi c’è quest’interfaccia esterno-interno, spiegata da husserl
attraverso la cinestesi. Tolto tutto, non troviamo una sostanza, un nocciolo forte.
Troviamo un polo, un punto di riferimento, un centro di attrazione. Non troviamo una res
cogitans, una sostanza. L’io proprio è la guida trascendentale per l’esperienza dell’altro.
L’io proprio è un leib, una delle sue dimensioni è quella del corpo vivente, caratterizzato
dall’io posso e dalla cinestesi. Già polo, non è chiuso, compiuto, ma si getta all’esterno.
Il leib, poi, fa del rapporto interno-esterno una sua caratteristica principale. Poi husserl
parla della monade, vira e attualizza Leibniz. È interessato alla singolarità concreta della
monade. Non è una camera oscura con immagini proiettate dall’esterno. Per leibniz le
monadi sono sostanze spirituali, sono delle finestre aperte sul mondo, dei punti di vista,
delle prospettive che rispecchiano il mondo. Anche qui, c’è la concretezza singolare
della monade, indipendente sì, autosufficiente, ma aperte sul mondo. Io proprio come
monade riflette ancora questo rapporto con l’esterno. Infine l’io proprio ha in lui, è, un
orizzonte. Dire che l’io proprio è un orizzonte, significa trovare anche qui, l’elemento di
apertura verso un assente. Orizzonte significa presenza-assenza, attualità-potenzialità.
L’assenza dei lati del campanile, che non vedo ma prefiguro, si può dare anche sulla
linea temporale. Posso considerare un oggetto in una dimensione che si lega ai ricordi, al
passato. Anche il ricordo apre la possibilità di un orizzonte. L’io che si riduce alla sfera
appartentiva, sta tracciando un orizzonte rispetto a qualcosa che non è proprio. Mi
definisco proprio determinando un non proprio. L’io proprio non può essere
autosufficiente, perché si rapporta sempre ad un estraneo, a qualcosa che sta fuori
dall’orizzonte. Da una parte l’io proprio è qualcosa di irriducibile all’altro, indipendente
dall’altro. Qualcosa che non può essere oggettivato, non massificabile. Dall’altra, si
scopre che questa singolarità si lega all’apertura. Si ribadisce comunque che l’io non è
un isola, che è una finestra semmai. Pone una relazione continua col non proprio, con
l’estraneo. Adesso abbiamo la bussola, avendo definito l’io proprio, per definire l’altro.
Abbiamo purificato l’io proprio dall’altro, ma facendo così abbiamo fatto anche
l’operazione inversa. Il paragrafo 50 inizia ad esplorare la sfera dell’estraneo.
Innanzitutto bisogna imparare a non scambiare i concetti di altro ed estraneo. Per husserl
non sono due sinonimi. Sembrerebbe che il campo dell’estraneo, sia più ampio, del
campo dell’altro. Colme possiamo descrivere l’elemento della differenza. L’altro è più
vicino a me dell’estraneo, da una parte. Con un tavolo, se non vedo due gambe, posso
comunque girargli intorno e vederlo tutto. Ma, posso vedere una persona nella sua
interezza, se gli giro intorno? All’interno dell’estraneo, del non proprio, ci sta l’altro.
Che però, in un certo senso lo eccede. L’altro eccede l’estraneo da due lati, è sia più
vicino sia più lontano. Distinguo l’altro dall’estraneo, perché l’altro ha un leib. Ma come
faccio a saperlo? Non sento le cinestesi degli altri. Esperienza è originale conoscenza, e
conoscenza dell’originale. Il dato fondamentale dell’altro ci sfugge, non riesce a
manifestarsi completamente. Non è l’apparenza di lui che mi è preclusa,  è l’apparenza
per lui. Non so cosa gli appare, questo mi è precluso. L’intenzionalità rimane sempre
mediata e indiretta. L’intenzionalità non riesce mai ad essere lì, diretto. 1 07

16/03
Quando appercezioni sulla base della somiglianza, non facciamo un inferenza, ma è un
associazione immediata. Le sintesi passive sono spontanee, senza volerlo, senza
ragionarci, la coscienza non può fare a meno di effettuare quella sintesi. Percepiamo un
oggetto tramite somiglianza senza ragionamento, poi possiamo concettualizzarlo,
ricordarlo. Ma il primo movimento è passivo, originario, spontaneo della coscienza.
Nell’accoppiamento non assimilo un oggetto ad un altro come nella somiglianza, qui
abbiamo due contenuti entrambi dati alla concezione. Due elementi dell’intenzionalità
vengono appaiati, ma non c’è una linea temporale. La coscienza vede due oggetti in uno,
appaiati. In questo fenomeno si possono distinguere vari momenti, un’appercezione,
un’appercezione di somiglianza, e un sovrascivolamento di senso da uno all’altro. Ma
qui avviene simultaneamente in entrambi i lati. Non c’è un elemento 1 ed un elemento 2.
Non c’è una cronologia in queste fasi, è un’unica operazione della coscienza nella quale
possiamo distinguere delle fasi. Anche nell’esperienza dell’altro ha luogo un fenomeno
di accoppiamento, come nel caso dei due triangoli. Come funziona per quanto riguarda
ego ed alter-ego? Sono io stesso uno degli elementi accoppiati. Nell’appaiamento non si
dà altro io se non nell’appaiamento. Il triangolo posso identificarlo anche da solo, nel
caso dell’alternativa-ego no, è sempre associato al mio ego. Scatta l’accoppiamento
appena c’è l’alter-ego. L’associazione con me è inevitabile. I tre momenti sono
percezione, appercezione di somiglianza, e trasferimento di senso. Ma questo
trasferimento è chiaro, intuitivo, per quanto riguarda il triangolo. Tra me e l’altro io
invece cosa si trasferisce? Vengono trasferite le caratteristiche dell’io proprio, l’essere
monade, l’essere orizzonte, l’essere leib. Nel caso del leib, il trasferimento di senso che
conseguenze ha? Il leib è un dispositivo ad interfaccia tra interno ed esterno, un ponte.
Notiamo però nel trasferimento del leib, questo strano misto di familiarità e lontananza,
di conoscenza e non. L’accoppiamento mi dice che l’altro io e sempre come me, ma allo
stesso tempo è sempre irraggiungibile. Lo spazio dell’esperienza dell’altro sta tra due
limiti, l’identificazione completa, e la totale estraniazione, trascendenza. L’lesperienza
dell’altro per husserl si colloca in questo spazio intermedio. 

17/03
Ci siamo soffermati sulla dinamica dell’accoppiamento, che serve ad husserl per
spiegare il rapporto tra me e l’altro. Questo rapporto è una doppia eccedenza nel campo
dell’estraneo, ovvero di ciò che non fa parte della mia sfera. L’altro è sia più familiare
sia più estraneo. L’accoppiamento è un trasferimento di senso attraverso i leib. La
trasposizione di senso del leib è una struttura a chiasmo. Interno-esterno, miei, che
corrispondono ad un esterno dell’altro, che presuppongo sia parallelo ad un interno, che
comunque non vedo. C’è fin dall’inizio un elemento simmetrico, ma anche impuro, non
è una perfetta identificazione. C’è sempre un margine di imperfezione, qualcosa che non
sia copia di me. Come si fa a confermare la mia esperienza dell’alter ego? Fino ad ora,
siamo partiti dall’ego che si esperisce come leib, che traspone il corpo vivente nell’altro.
Ma come si pone il problema della reciprocità? L’alter-ego può intenzionare l’ego? Qual
è lo stile dell’appresentazione dell’altro io, come capiamo che l’altro io è effettivamente
un’altro io? Una prima riprova dell’altro è il comportamento, il primo momento della
chiarificazione dell’alter-ego. Associando un dentro ad un fuori, un muoversi nel mondo
dell’esperienza, l’io-posso, esperisco il fatto che il mio leib è il mio potere. Per analogia
anche l’altro leib sarà a disposizione a dell’alter-ego. Un primo stile di confermo è dato
da una serie di indizi che si armonizzano, che hanno una coerenza, che ci fanno associare
un versante psichico, al versante fisico del corpo. Il comportamento non è comunque
un’immagine statica, una foto, un flash. Mette in movimento quell’immagine. Basta
questo stile di conferma basato su degli indirizzi coerenti tra loro? Cosa differenzia un
vero alter-ego da un robot, da un meccanismo? L’uomo rispetto alla macchina ha delle
risposte complesse e varie, ha una cinestesi, ha un corpo vivente, un leib, ma questo
basta a definirlo? Un’altro sistema di conferma è quello dell’empatia. Interpreto l’altro
non sulla base di uno schema puramente concettuale, ci metto una base di
immedesimazione, emotiva, empatica. L’empatia è riuscire a comprendere la condizione
dell’altro sulla base di mie determinate esperienze passate. Però di nuovo è un gioco
d’indizi, si può empatizzare anche per qualcosa che non è alter-ego. Un punto di
partenza, provvisorio, da confermare, in processo, diventa però una finestra. Si può
strutturare allora un’esperienza che vale simmetricamente. La reciprocità è un tema
fondamentale. Ma non sembra darsi completamente finché siamo nel leib, se fosse
reciprocità perfetta io dipenderei dall’ alter-ego e viceversa. Husserl dice che l’altro è
fenomenologicamente una modificazione del mio ego. Siamo davvero usciti dal
solipsismo? Modificazione significa ogni cambiamento di oggetto o di atto che avviene
all’interno della vita intenzionale della mia coscienza. La memoria è una modificazione
della percezione, la sviluppa aggiungendo un elemento di senso. Cosa viene fuori per
quanto riguarda ego ed alter-ego per la modificazione? Il passato è per noi sempre e
soltanto nella forma del ricordo, ogni volta il passato è un presente ricordato. La
modificazione intenzionale, come il passato per il presente, è cambiamento. L’altro, non
è che una modificazione del mio ego, l’altro modifica il mio ego che è già presente.
L’originale è sempre lì, perché uno dei due termini sono io, e non posso uscire dal mio
leib. L’altro non può essere pensato da me se non a partire dal mio ego. Poi, entrando
l’altro nel mio mondo primordinale, sembra cambiarmi. Inizio a dire mio, a riferirmi alla
mia sfera privata, grazie ad un accoppiamento con qualcosa che non è mio. L’ego di
partenza per l’esperienza dell’altro non è ancora ego, posso chiamarlo così solo quando
ci accoppiamo con un alter-ego. Cosa cambia nel mio ego quando arriva l’altro? Non ci
possiamo più accontentare del leib, husserl sceglie l’io come monade. “Nella mia
monade si costituisce un’altra monade”.

18/03 mancante

23/03
Abbiamo riflettuto sul concetto di monade, singolarità ma anche finestra sul mondo. Una
forma concreta, non trascendentale. Il soggetto è un soggetto concreto, situato nel mondo
e nello spazio. Il mio ego noni è un io penso kantiano. Sono un qui ed un ora, diverso dal
qui ed ora di qualsiasi altra monade. Lo spazio che si crea dal rapporto con le monadi è
uno spazio orientato, con dei soggetti situati, con uniformità ed asimmetrie. Il tempo
trova nell’ora un punto d’intersezione tra l’esistenza delle monadi. Ogni monade
condividono la temporalità, in spazi diversi. Trovano nell’ora un punto in comune,
s’intersecano. Intersoggettività è sempre sistole e diastole, si contrae e si espande, si
avvicina e si distanzia. Il mio Io, è diventato parte del tempo di un altro, della sua storia,
e viceversa. La mia esistenza proseguirà col mio flusso, ma rimarrà il tempo dell’altro in
me. Il tempo individuale diventa qualcosa di diverso: mio e non mio. Attraverso la
trasposizione di senso della monade, impariamo qualcosa di più rispetto al leib. Il qui e
l’ora non sono più gli stessi dopo il rapporto con le monadi. Ci sono poi nelle
meditazioni due nuovi argomenti. Quando abbiamo tolto degli strati, del mondo
intersoggettivo ed oggettivo della natura, li avevamo già definiti. Avevamo tolto anche i
significati culturali, dipendenti dalla presenza di altri e dalla loro caratterizzazione.
Husserl in questi paragrafi riprende quella stratificazione di mondi, e ricostruire la
gerarchia. Ricostruisce il senso del mondo oggettivo e del mondo della cultura a partire
del rapporto io-altro. Strato 0, mondo primordinale, strato 1, alter ego e intersoggettività.
Come si possono ridefinire gli strati superiori? Il punto di partenza è il concetto di
comunità, comunanza. Ciò che è comune. Già in 0 e 1 c’è comunità, condividono uno
spazio ed un tempo comuni. Questo primo strato di comunanza, si forma dal rapporto io-
altro. Intenzioniamo il mondo oggettivo, poi, che si da per qualsiasi tipo di altro alter-
ego. Mi svincolo dalla presenza concreta del singolo alter-ego, lo trasformo in una
variabile, in una Y, io stesso mi trasformo in una X. Il mondo oggettivo è questa
universalizzazione della struttura monadica base. Diventa comunità per ogni possibile
monade. La condizione d’esperienza del mondo oggettivo non è uno schema culturale.
La cultura viene logicamente dopo, per Husserl. Il mondo oggettivo, d’altra parte, non è
originario. È una stratificazione dell’esperienza che presuppone la relazione tra monadi.
Il mondo è per me nella sua oggettività, soltanto dopo aver fatto esperienza dell’altro. Se
non ho strutturato l’esperienza dell’altro, neanche il mondo ha senso per me. L’altro è
precedente, necessario, al mondo oggettivo. All’interno della totale oggettività, si ritaglia
una plurisoggettività per un determinato gruppo di monadi. Il libro avrà un senso per un
noi ristretto, non per l’umanità. È uno strato il cui senso è disponibile non a tutte le
monadi, ma ad una comunità, ad un insieme determinato di monadi. È un welt, una
regione del mondo, una sfera limitata. Qual è la differenza del mondo oggettivo, per
tutti, e mondo della cultura, per molti? Non c’è scarto tra natura e cultura, sono entrambi
strati dell’esperienza, e sono entrambi necessari ed omogenei. Hanno delle differenze in
termini di accessibilità. Il senso del mondo oggettivo e accessibile a chiunque, il
significato culturale non è altrettanto accessibile a qualsiasi oggetto. C’è un vincolo di
significato nella cultura. Prova a descrivere il problema della comunicabilità culturale
proprio con questa descrizione fenomenologica. Anche il mondo oggettivo è uno strato
però. Non è un qualcosa di assoluto. Oggettivo e culturale non sono differenza tra
assoluto e condizionato. Sono entrambi a loro volta condizionato dalla struttura duale
ego-alter ego. Si collocano entrambi sul lato del condizionato. Diversamente dal dubbio
cartesiano, fatto per smettere di dubitare, l’epokè trascendentale non si sospende mai
finché facciamo filosofia. Mi posso affermare come monade soltanto su quello sfondo di
epokè. Il lavoro della filosofia, illuministicamente, cambia il mondo, cambia il modo
delle relazioni. Il discorso sulle monadi sembrerebbe contro intuitivo. Ma husserl la
pensa proprio così. Nel paragrafo 60, prova a spiegare come cambi lo sguardo nello
studio del mondo come società di monadi. Che tipo di risvolti di senso veicola questo
concetto? La monadologia è un tipo d’intersoggettività in cui la relazione è costituiva.
Non è un circolo di spiriti, non è un’associazione di menti, è all’interno di un mondo
costitutivo e condizionato. Nel momento in cui si costituisce, costituisce anche un
insieme più ampio, un mondo comune. Da una parte intersoggettività verso il mondo
comune, dall’altra il mondo comune connette e separa le monadi una rispetto all’altra.
Lo spazio comune tra me e te, permette la relazione, ma fa sì che la relazione rimanga
una relazione trac diversi. La città è l’infinità pluralità di punti di vista che s’intersecano.
Poi, la monadologia, ha una struttura reticolare. Le monadi sono singolarità relazionali,
diverse, ma senza senso se non all’interno della rete. E la rete prende vita dal fatto che si
articola da relazioni e differenze. Le monadi sono perfettamente uguali nella
monadologia. Quindi tutte di pari dignità e livello. Simmetricamente nessuno può fare a
meno dell’altro. Poi c’è l’universalismo, non astratto, di Umanità, è articolato e
stratificato. Husserl ragiona sulla questione dei mondi possibili e conpossibili di le
inizia. I mondi possibili, per Leibniz, sono infiniti. Il mondo per lui è un insieme di enti
non contraddittori. Quindi, i mondi possibili sono infiniti. Di fatto il mondo esistente è
uno solo, e la sua realizzazione esclude tutti gli altri, che avranno quantomeno un
elemento contraddittorio. Il mondo delle monadi non è l’unico mondo possibile, come
l’ego può variare, anche il mondo può farlo. Di fronte abbiamo il mondo attuale. La
realizzazione di un mondo impone una scelta che esclude altre possibilità. Come il Dio
di leibniz che ha scelto un mondo migliore, se ci mettiamo la soggettività trascendentale,
si tratta di scegliere il mondo. La monadologia dipende dalla mente, quindi posso sempre
comprenderla. Ma non è a disposizione della mia volontà, posso comprendere ma non
posso decidere sempre.

24/03 mancante costa.

25/03 mancante heidegger:

30/03
I modelli di husserl ed heidegger fissano le coordinate per le nuovi teorie. Husserl parte
dal problema del solipsismo, parte da un problema cartesiano. Passa dalla riduzione al
proprio, approfondisce ancora di più la soggettività, stringe il campo, e scopre che in
quel nucleo che rimane c’è l’io-proprio. Per heidegger è diverso, l’originario è l’esserci
con altri, la coesistenza. In heidegger il ritrovarsi, dipende da un’operazione sola,
stabilendo un rapporto di progettazione della propria esistenza a partire dalla morte.
Questa operazione consente di ritrovarsi. Come la premessa tra heidegger e husserl era
opposta, anche la conclusione è completamente rovesciata. Il noi di heidegger è basato
sul rapporto col futuro, con la storicità, con la tradizione. Sartre era del 1905 e levinas
del 1906. Sartre vince anche il premio nobel per la letteratura, ma lo rifiuta. Si era
formato accademicamente, dalla normale a Parigi, alla Sorbona. Prima di arrivare alla
fenomenologia, sartre, legge Marx, ascolta Hegel. Kojeve tiene delle lezioni sulla
fenomenologia dello spirito nel 30, coincide con una scoperta di hegel, che era quasi
ignoto in Francia prima di quegli anni. Kojeve mette in evidenza una radicale
opposizione tra l’uomo e la natura, e signoria e servitù. Poco prima c’era stato wahl, che
nel 29 scrive un libro sulla coscienza infelice in hegel. Proponeva una lettura di hegel
sotto il segno dell’incompiutezza, della scissione dell’autocoscienza. È un opera molto
importante per la nuova corrente dell’esistenzialismo, un disagio, una noia, un’angoscia.
Hegel, husserl, heidegger sono i  punti di riferimento, insieme a cartesio, per sartre e per
gli altri. Nel 33 pubblica due testi. Il ruolo dell’io, per sartre, va drasticamente
ridimensionato. L’essere e il nulla è un libro di guerra. Sartre utilizza delle parole
hegeliane, il se’,gli oggetti, ed il per se’. Il se’ è, è un tutto pieno massiccio, che si da
nella sua totale pienezza e positività. Le negazioni tra cose, se dico che il tavolo non è la
sedia, non ho meglio compreso lo statuto del tavolo. I rapporti di differenza non
cambiano niente rispetto alla sostanzialità dell’oggetto. La negazione è esterna, per
quanto riguarda gli oggetti. Il per se’, invece, prevede una negazione interna, che lo
costituisce. Il per se’, può prendere una libertà rispetto alle cose, ma ha anche una
nullificazione all’interno di se stesso, non siamo ciò che siamo stati. La nostra realtà è
tale che non ci riduciamo al nostro passato. Il per se’, è fatto di possibilità, progetti,
pensieri, decisioni, svolte, e queste non si aggiungono dall’esterno, lo definiscono, ciò
che siamo è mischiato a ciò che non siamo ancora. Il nucleo del non esserci rende lo
statuto ontologico pieno. Se mi vergogno c’è un altro che mi guarda, come se fosse un
altro me. Ho vergogna nella misura in cui sono oggetto per qualcun altro, ne viene fuori
un sentimento così profondo,  che sembra irrreversibile. Il per se’ non è comunque
solitario. La negazione io non sono l’altro e viceversa, è come quella degli oggetti? Io e
l’altro io sono diversi ma intrinsecamente legati. Le autocoscienze servo padrone, non
hanno come loro attitudine di conoscersi. Il riconoscimento è di tipo dell’essere. Non
lottano cognitivamente. In husserl è tutto in soggettiva, io incontro l’altro, in hegel un
autocoscienza incontra un’altra autocoscienza. 

31/03
L’essere umano, il per se’, si distingue dal per se’, dalle cose. Introduce qui anche la
vergogna. L’esistenza dell’io deve essere completa anche grazie all’altro. Sartre evoca
tre autori, husserl, heidegger ed hegel. Sartre apprezza il problema del rapporto con
l’altro come negazione interna , non esterna, di husserl. La negazione è essenziale al loro
statuto per husserl e sartre, anche se husserl, per sartre non sarebbe riuscito ad uscire dal
cerchio della coscienza, perchè l’altro è inconoscibile. Per hegel, il rapporto con gli altri
è dipendenza non solo conoscitiva piuttosto ontologica, servo-padrone. Però hegel
descrive il rapporto di sorvolo, dall’alto, del per noi, del filosofo che comprende tutto,
senza mai dare un focus più interno. Hegel perde, per sartre la concretezza e la
singolarità dei concetti in questione. Heidegger pone ancora più risolutamente il rapporto
sul piano dell’essere, più che della conoscenza. L’altro è da sempre con me, non c’è
bisogno di incontrarlo. Il solipsismo è un falso problema per heidegger, perchè l’altro è
già da subito lì con noi. Non sono per lui. Sono con lui. Heidegger pensa un noi non
universale, un noi concreto che tende però a sminuire l’individualità dell’esistenza.
Stabilendo relazioni con altri si perde anche l’io. Per sartre heidegger pensa la relazione
con altri con un concetto di squadra, equipe, un gruppo nel quale l’individualità si perde.
Come la barca da canottaggio, dove tutti i membri fanno all’unisono un medesimo
movimento, e diventano un unico corpo. Si perde il senso dell’esperienza concreta, sei
un tutt’uno, una totalità fusa indistinta. Per sartre, l’autenticità della singolarità deve
rimanere intatta, concreta, contingente. Quando incontro gli altri, non incontro un noi,
incontro un tu, un egli, un’altra singolarità. Non lo si costituisce cognitivamente, lo
incontriamo contingentemente è inevitabilmente. Sartre, levinas, per designare l’altro
utilizzano una sorta di “altrui” francese. Sartre pone alcune condizioni per il discorso
filosofico con i predecessori. Le condizioni per l’esperienza dell’altro sono 4.
Innanzitutto bisogna porsi il problema a partire dal punto di vista soggettivo. Non si
sorvola mai come fa hegel. Il cogito del punto di partenza però, deve essere allargato, al
suo interno devo trovare le prove anche per l’esistenza dell’altro, deve possedere gli
elementi per l’esistenza di qualcos’altro. Non può solo essere un’operazione conoscitiva.
L’alter-ego, non deve essere assimilabile all’esistenza delle cose. La familiarità con
l’altro lo differenzia dal per se’. Ci deve essere un modo per preservare la peculiarità
dell’altro alla tendenza dell’io a digerirlo, a fagocitarlo e a farlo un elemento della
coscienza, reificandolo, perdendone l’alterità. Terzo punto, l’altro devo scoprirlo come
un’esistenza diversa da quella degli oggetti. La negazione esterna lascia gli enti
immutati, la negazione interna costituisce gli enti interni che sono in relazione. È una
negazione reciproca, negandosi, si costituiscono gli esterni. Il rapporto con gli altri non è
relazione esterna, piuttosto lo è interna. A+B sono soltanto due oggetti giustapposti,
separati da una negazione esterna. Io e te formiamo un tutto, ti nego e mi costituisco, e
viceversa. In sartre la difficoltà è l’andamento discorsivo, senza scansioni interne. Sartre
usa molto gli esempi dell’esperienza concreta. Mi si danno nell’esperienza oggetti che
tendo ad identificare come altri. La loro esistenza come oggetti è molto probabile ma
non può mai essere certa. Ci sono acconto degli in se’, degli oggetti nel loro statuto
ontologico, e qualcosa che è oggetto della mia conoscenza, ma diverso dal resto.
Nell’intenzionalità della mia coscienza non c’è differenza tra oggetti veri e propri e
oggetti della conoscenza. La sommatoria degli oggetti però s’interrompe. Quell’uomo ha
una dimensione non sommativa con gli oggetti, non si pone con esteriorità, ma organizza
un mondo attorno a lui. Tra prato e sedia c’è una relazione soltanto esteriore, l’uomo
pone relazioni interiori, organizzazioni senza distanza delle cose. L’uomo non vede
soltanto una collezione di enti, ma una disposizione organizzata. La stanza è per me un
mondo sotto il segno dell’utilizzabilità. Se entra un altro nella stanza, riorganizza le cose
del mio mondo. Il mondo non è pià il mio stesso mondo, disgrega il mio ordine. La
stanza viene attraversato da altri progetti, principi. Lo spazio che ho organizzato
personalmente, assume un’orientamento che mi sfugge. L’apparizione di un uomo nel
mio universo è caratterizzata dalla disgregazione, dalla disintegrazione. Ingloba dentro
di se’, disorganizza, il mio mondo. Un primo elemento che caratterizza l’esperienza di
altri, dopo che lo riconosco come un altro, è la disintegrazione. Tuttavia, l’esperienza
degli altri non è soltanto perdita, negativa. L’uomo che o legge camminando,
completamente assorto, non disintegra così totalmente. C’è nell’esperienza dell’altro un
orizzonte di assenza. Più che l’assenza dell’altro come sfera irraggiungibile, interna, ciò
che esperisco è l’assenza del mondo che io percepisco. Come se l’altro scavasse un buco
nel mio mondo. Lo spazio non è più mio. Il mondo si disgrega per me soltanto nella
misura in cui è per qualcun altro. Perde senso per me nella misura in cui prende senso
per qualcun altro. L’assenza di mondo è l’indice che quel mondo ha preso senso per
qualcun altro. Le cose sono viste da altri. Quando si aggiungono gli altri, nel mio mondo,
si aggiungono degli elementi di nulla, che ci costituiscono, e ci negano.

01/04
A partire da alcuni esempi di sartre abbiamo analizzato lo sguardo. Vedo una donna che
viene incontro a me, in un parco, un uomo che legge mentre cammina. Notiamo un tipo
d’esperienza irriducibile, quello che comporta con l’apparizione dell’altro, una
riorganizzazione del mio stesso mondo. L’altro si pone come il centro di una nuova
significatività del mondo. Il suo intervento si sovrappone al mio, mette in subordine,
disintegra il mio mondo. Questo è confermato anche ai casi in cui altri sono mediamente
inseriti nel mio mondo, come l’esempio dell’ uomo assorto alla lettura mentre cammina.
È in qualche modo chiuso in una bolla all‘ interno della mia esperienza, e seppur
lievemente, s’inserisce nel mio mondo un vuoto, una zona d’ombra sulla quale non ho
più possesso o possibilità d’intervento. Come in husserl, l’esperienza dell’altro è
collegato in qualche modo ad un’assenza. In husserl l’intenzionalità dell’altro prevede
una predelineazione del lato che non vedo del quadrato, ma che nel rapporto con l’altro
non posso appercepire, presentificare. L’interiorità dell’altro può essere predelineata, ma
mai completamente intenzionata, perchè non posso girarci intorno come ad un quadrato.
L’assenza in sartre, invece, non è tanto l’interiorità dell’altro, quanto un pezzo del mio
mondo. È il mondo che viene colorato di assenza. Mi rendo conto però, che l’assenza è
tale perché c’è un elemento che la produce. Da qui l’idea che ci sia una relazione
fondamentale del rapporto tra me e l’altro, ovvero l’essere visto. Il mio essere visto,
l’essere visto delle cose dagli altri. Sartre sottolinea con chiarezza che questo essere
visto dagli altri è un fatto irriducibile. L’io soggetto non può porre l’essere visto, perché
in qualche modo sono soltanto l’elemento ricettivo. Questa mia posizione di punto di
vista esterno rimane, pur scavando nel per se’, non posso trovare l’essere visto. Tanto
meno può essere attribuito all’in seè, essere pieno autosufficiente e non relazionale. Ne’
dal soggetto, ne’ dagli enti oggetti, si può dedurre questo essere visto dagli altri.
Quest’esperienza sfugge, quindi è un fatto irriducibile, non spiegabile a partire da
nient’altro. Sartre prova a dimostrare in che senso l’esistenza di altri è concreta,
effettiva, certa. Per uscire dal solipsismo dobbiamo avere prove forti che l’altro non sia
soltanto probabilità ma certezza. Sartre ricorre, per dimostrare ciò, ad una stuttura a
chiasmo. Si parte cartesianamente che io sono cogito, certo di me stesso, della mia
propria esistenza concreta. A questo io soggetto certo corrisponde l’esperienza di un
altro, che però è un oggetto probabile. Soggetto certo-oggetto probabile. È nel momento
in cui altri mi guarda, io sono un oggetto probabile per lui. All’esperienza della mia
oggettificazione corrisponde un altro come soggetto certo. Una sorta di cogito allargato,
ribaltato. Come in husserl l’accoppiamento, c’è un leib, che presenza una faccia interna,
la cinestesi, e una faccia esterna. Nell’accoppiamento, dove vedo dei comportamenti
simili ai miei, appercipisco che c’è un interno corrispondente a quell’esterno, un leib.
Cosa c’è di diverso rispetto a questa struttura? Innanzitutto la posizione dell’io e
dell’altro. In husserl l’io sta interamente a sinistra, in sartre l’io sta da entrambi le parti
dello schema. Chiasmo(entralacement). L’io, in sartre, nella parte destra, è passivo, non
è più soggetto. Non pone, è posto, è visto dall’altro. Mentre husserl aveva dovuto
mettere tra parentesi l’interno dei vissuti dell’altro, qui in sartre, l’esperienza degli altri,
ponendoci come visti, è certezza. La soggettività concreta degli altri diventa necessità.
C’è un aspetto più minaccioso dello sguardo altrui in sartre, che ci oggettifica. Gli
esempi fatti fino ad ora da sartre sono sempre stati con un focus sul soggetto. Se
ribaltiamo al passivo l’essere visto cosa succede? È un’esperienza concreta e quotidiana,
non è eccezionale. Che cos’è lo sguardo? Lo sguardo non è un oggetto. Un nucleo
irriducibile che resiste all’oggettificazione. Nello sguardo c’è una forma di assenza. È un
rinvio a me stesso. È un spostare l’attenzione su di se’. Prima che mi guardassero non
facevo caso a me stesso. Sento dei rami spezzati, deduco che sono vulnerabile. Posso
essere ferito. È il mio essere che si trasforma, è un rinvio a me stesso non soltanto
cognitivo. Lo sguardo è un intermediario che rinvia da me a me stesso. L’esperienza è
quasi originaria, quasi fisica. Poi dopo arriva il giudizio. È uno strato elementare, sul
quale poi si costruiscono altre cose. Se mi avvicino alla serratura con l’orecchio per
spiare, lo faccio per alcuni progetti. Gli strumenti sono insieme vincolo e possibilità. Mi
trovo in questa situazione: ci sono da una parte la libertà, le possibilità, dall’altra i
vincoli, la fatticità. La situazione è contesto, vincolo, e insieme occasione, libertà. La
situazione è un insieme di possibilità che ha preso una forma. Il progetto della gelosia
s’inserisce con lo spettacolo oggettivo in un tutt’uno. Se ad un certo punto, mentre sto
origliando, scopro che qualcuno mi sta guardando, che succede? Da soggetto divento
anche un oggetto, un in se’ per uno sguardo, e ne sono consapevole. L’io prende una
coscienza, non irriflessa, non riflessa, ma per altri. Quello sguardo non mi sta vietando si
stare a guardare al buco della serratura. Tuttavia, l’io di cui prendo coscienza, è un io che
mi sfugge per principio. Questo io che emerge, è un io che io sono senza conoscerlo. È
un io che non mi appartiene. Per husserl l’irraggiungibilità era dell’altro, dell’orizzonte
trascendente dell’alter-ego. Qui si scopre che c’è uno strato inconoscibile dentro di me,
un io che non raggiungo più. Dovremo approfondire allora che cos’è questo io che viene
fuori attraverso l’esperienza con altri.

06/04
Ci siamo soffermati sul tema dello sguardo, ne abbiamo messo in evidenza alcuni
aspetti. Lo sguardo è un’esperienza concreta. Non è un oggetto. Non sono gli occhi,
resiste all’oggettificazione. Gli occhi possono anche fisicamente non esserci, e lo
sguardo ci sarebbe lo stesso. Lo sguardo mi fa tornare su di me: è un rinvio da me a me
stesso. Lo sguardo altrui ci fa prendere una sorta di coscienza di se’, da essere inchiostro
imbevuto nella carta del mondo, diventa un qualcosa di cosciente. Non è una coscienza
intenzionale tutta riversata nelle cose del mondo. Ma non è nemmeno un’autocoscienza
dove l’io guarda se stesso. È una coscienza mediata attraverso lo sguardo dell’altro.
Questo ritorno da me a me stesso, non da luogo ad una presa di coscienza. Prendo
coscienza di me nella misura in cui mi allontano da me stesso. L’immagine di se’ che mi
restituisce lo sguardo degli altri non è un modo di prendere possesso della nostra
coscienza. Nel momento in cui mi scopro mi sfuggo, perchè l’immagine che mi
restituisce l’altro non è più mia. C’è, come in husserl, un elemento di estraneità. Per
husserl era l’irraggiungibilità dell’interiorità altrui. Qui invece non riusciamo a cogliere
noi stessi. La nostra dimensione di coscienza che viene mediata attraverso lo sguardo
dell’altro. Sartre si concentra a questo punto sull’io guardato. In che maniera si
costituisce, si modifica. Poi si chiede che cos’è l’altro. Come si definisce. Poi che cos’è
l’essere per altri, l’ultimo passaggio del capitolo sullo sguardo. L’io guardato, emerso
dell’esperienza di essere visto, è un io nuovo. Quest’io si trasforma. In primo luogo lo
sguardo non è una relazione cognitiva, non ha a che fare con rappresentazioni di me, ma
penetra in profondità nell’essere stesso dell’io. Lo sguardo è una relazione di essere.
Dobbiamo porre il tema dell’altro sul piano dell’essere e non sul piano della conoscenza.
Io sono quell’essere che è visto. Non sono soltanto conosciuto e pensato da altri. Non è
soltanto un’opinione, diventa un’elemento costitutivo di ciò che sono. Che tipo di essere
è, però?  Questo essere che io sono è un essere indeterminato. L’essere visto da altri non
mi rafforza nella mia identità, non sottolinea i contorni dell’io per renderlo più definito.
Ne aumenta l’indeterminatezza, perchè lo sguardo mi sgancia da qualsiasi tipo di
definizione. Sono esposto alla libertà dell’altro che s’incarna nel suo sguardo. Il fatto di
avere un’altro che mi guarda, proprio perchè si pone sul piano dell’essere, e che l’altro è
libero, è ciò che s’incolla su di me. Lo sguardo altrui non può mai essere una messa a
fuoco della mia identità, al contrario, ciò di cui prendo coscienza è la mia
indeterminatezza. Questo perchè non posso controllare l’essenza libera dell’altro che mi
guarda. Io divento una possibilità per l’altro, e mi rende impossibile ogni fissazione in
una struttura identitaria stabile. Quell’io nuovo che s’incolla su di me è come se fosse un
ombra. L’ombra da sola è sempre vincolata all’esistenza di un ente che la produce. Ma
non è una copia, una rappresentazione. È collegata, ma non mi somiglia, e varia
passivamente. Non proiettiamo attivamente la nostra ombra, non siamo gli autori della
nostra ombra, anche se l’ombra è nostra, siamo noi. L’ombra cambia a seconda della
luce che m’investe, e cambia a seconda del terreno sul quale si stagna. L’ombra mi
appartiene ma varia continuamente da parametri che non dipendono da me. La luce è lo
sguardo altrui, che proietta un’ombra dietro di me, che altrimenti non ci sarebbe stato.
Finchè sono imbevuto come inchiostro nel mondo non ho ombra, inizio a proiettarla
quando l’altro mi guarda. L’ombra della mia identità non si aggiunge all’esterno, ma va
dentro di me, introduce una fessura di niente all’interno della mia presenza. In più
l’ombra dello sguardo ha un principio di variazione alto, perché l’altro è libertà,
indeterminazione. È un’ombra fatta di totale indeterminazione. Il niente radicale è
l’imprevedibile libertà di un altro. È un rapporto che contiene elementi di asimmetria,
non come nelle monadi, che sono reticolari e reciproche. Sartre qui utilizza il concetto di
alienazione per quanto riguarda il rapporto io-altro. Alienazione è un termine marxinano,
si riscopre Marx in questi anni insieme ad hegel. Alienazione ha in se’ l’altro nella sua
etimologia, ma ha un senso di spostamento. Un cedere il se’. Come l’operaio che cede
all’altro il suo lavoro in Marx. C’è un pezzo di noi, una parte del nostro bene che viene
ceduto ad altri. C’è un forte elemento d’inconsapevolezza. Il lavoratore non si riconosce
più nel suo stesso prodotto del lavoro. In sartre cos si cede ad altri nella relazione dello
sguardo? Sicuramente non sono così libero come prima. Sartre non si sofferma solo
sull’alienazione della libertà però, fa un passo oltre, e dice che si aliena non solo la mia
libertà,
, ma anche il mio stesso essere. L’alienazione non coinvolge solo la mia libertà di agire,
lo fa nella misura in cui coinvolge la mia sostanza. L’agire esternamente e l’essere
internamente sono collegati. Non si ha privazione di libertà senza che questo intacchi la
mia identità. L’essere liberi trasforma il mio stesso in profondità e viceversa. La
privazione dell’identità è la forma imminente dell’alienazione della libertà. Non
riconoscere l’identità di qualcuno è una privazione di libertà molto radicale e profonda.
La cancellazione dell’identità. Ciò che viene tolto, ancora prima della libertà fisica di
agire, è il senso dell’identità. Il senso del tu puoi, viene anticipato dal sensi del tu sei. Il
nostro interno si cristallizza in una superficie esterna al contatto con gli altri. Inizio ad
avere un fuori per un altro, un elemento della natura. Sarà anche alienazione della mia
organizzazione del mondo. Attraverso lo sguardo dell’altro la mia trascendenza è
trascesa. L’altro trascende la mia trascendenza, perchè ci sta al di là. Due negazione si
annullano, una trascendenza trascesa si riduce a non essere più trascendente. Divento
come un albero piegato dal vento. Esempio dell’essere seduti: cosa esperiamo del nostro
essere seduti? Vediamo la sedia? No. Facciamo qualcosa, ma certamente la percezione
del corpo che sta in una certa posizione rispetto ad un altro oggetto ed un altro rapporto
non riesco ad esperirla. Non posso vedermi, vedere la sedia. Non mi vedo come un
oggetto dotato di proprietà, è soltanto a livello dello sguardo dell’altro che struttura una
proprietà del genere. L’altro che mi guarda al buco della serratura è un qualcosa che mi
minaccia, e dà tutto un altro senso all’angolo buio nel sottoscala. Quell’angolo buio
diventa qualcos’altro: diventa un nascondiglio. Prima era una cosa, inerte, e per me
indifferente, con lo sguardo dell’altro diventa una possibilità, un progetto. Allora l’altro
ci apre delle possibilità in più che non avevamo considerato? È quindi un accrescimento
delle possibilità dell’Io? Però per l’altro quell’ombra nel sottoscala è pure qualcosa.
L’azione del sentirsi in colpa origliando dalla serratura, nasce prima della visione
dell’altro. Perchè nascondermi nel sottoscala non è un’affermazione della mia potenza e
della mia libertà? Magari l’altro ha una lampada, la possibilità di illuminare quell’angolo
buio. Da una parte sto simulando di essere un oggetto, mi mimetizzo nell’arredamento e
mi spossesso di me. Il fatto che l’altro eserciti la propria libertà sull’ombra, toglie la mia.
L’altro è la morte sottile, la morte nascosta delle mie possibilità. Non è una morte
conclamata, non sono ammanettato. Sono virtualmente libero, ma le mie possibilità
muoiono impercettibilmente attraverso l’esperienza dell’altro. Le mie possibilità
diventano probabilità, ma di più sono in pericolo, divento schiavo. L’essere in pericolo è
la struttura permanente dell’essere per altri. L’altro è limitazione della mia volontà in
quanto totale imprevedibilità. Non saprò mai quello che l’altro può o vuole fare. C’è un
nuovo io che emerge, un io schiavo, assoggettato, in pericolo

20/04
La relazione tra io ed altro si dà nell’essere delle cose, non nasce da una progettualità
ordinata, ci troviamo presi in questo rapporto pre-politicamente. Quindi la politica deve
fare i conti con questo sostrato che preesiste. Il rapporto io-altro è una relazione d’essere,
prima di tutto. Secondariamente, è una relazione d’essere particolare segnata dal fatto
che l’essere comprende il nulla dentro di se’. È infatti una relazione interna: una
negazione in cui i termini si costituiscono reciprocamente uno negando l’altro. La
relazione non è giustapposta. La relazione non è esterna, ma costituisce i termini. Non è
una sorta di A non é B, è più un A è non B. A è…? C’ è un pezzo dell’essere dell’ A che
viene meno se il B non c’è. Questo è ciò che intendiamo con negazione interna e non
esterna. La relazione io altro va pensata in questa maniera, una relazione interna e
reciproca. Il per se’ assume una dimensione d’essere diversa appena si stabilisce il
rapporto con un altro per se’. Succede che l’io assuma la forma di un essere
indeterminato. Nel rapporto con altri io non scopro la mia piena identità di me rispetto a
me stesso, non scopro ciò che sono. Altri inserisce un elemento di incompletezza. B
coincide con l’imprevedibile libertà dell’altro. Divento soggetto di un’incalcolabile
libertà di altri. Mi toglie consapevolezza ed auto affermazione, non me l’aggiunge.
Proietta un’ombra dentro di me. Che non vedo, che non possiedo, ma che proietto
inconsapevolmente. L’ombra è l’altro dentro me. Sottrazione della luce della coscienza,
ma anche indissociabile dal per se’. Privazione di libertà, poi, è successiva e comunque
in relazione ad una privazione d’identità. La mia identità non rimane intatta se l’altro si
relaziona a me. Le catene trasformano l’io stesso e intaccano la nostra identità. Il lavoro
di privazione d’identità, infatti, è uno dei passaggi principali per perpetrare la privazione
di libertà. Più che esercitare una coercizione esteriore, non ti riconosco, distruggo la tua
identità, è un concetto molto più profondo. Il tema del riconoscimento qui s’intreccia sul
tema politico. L’io diventa una trascendenza trascesa. Ovvero una doppia negazione che
ci riduce ad oggetto. Abbiamo fato l’esempio dell’essere seduto, come proprietà che
soltanto lo sguardo di altri mio attribuisce. C’è una sorta di punto cieco nella mia
centratura dello spazio. C’è una zona che non posso cogliere, che non posso vedere.
Proprio intorno alla centratura dell’io. In questo momento sono seduto su una sedia, e lo
spazio mi si dispone attorno se giro in torno alla stanza. Ma c’è sempre un qualcosa che
non riesco a vedere. La centratura dello spazio è anche un vincolo. Questa zona d’ombra,
però, è cieca per me, non per altri. Il per se’, definito inizialmente per indeterminate
possibilità, si degrada, attraverso lo sguardo, e trasforma ciò che è possibile in ciò che è
probabile. Lo sguardo dell’altro oggettiva le mie volontà, reifica le mie attività e le
cambia di modalità. Non è una presa di possesso e controllo, è una perdita di controllo,
la reificazione diventa schiavitù. L’essere schiavo è la struttura primaria del mio incontro
con altri. Divento nella relazione con altri un soggetto che non ha più possibilità. Ciò che
ci fa essere realtà umana è un qualcosa di più, ma allo stesso tempo è un qualcosa di
meno, un’assenza che ci toglie e ci dà. In sartre c’è quest’intenzione che non può mai
essere riempita, che non può mai essere presentificata. L’altro deve essere diverso da un
oggetto, nella relazione io altro, l’altro deve essere riconosciuto come un qualcosa che
non è oggetto, e che mi rende oggetto del suo sguardo. Lo sguardo presuppone una
qualche soggettività che quello sguardo emana. Sartre insiste non tanto come husserl sul
non poter rendere un leib un korper. Sartre vede il movimento di ritorno: l’altro non è un
oggetto, perchè rende oggetto me. Una sedia in più si aggiunge al mondo lasciandolo
immutato nei suoi rapporti, se nella stanza si aggiunge un altro, svanisce il senso
dell’oggettività. È un qualcosa che mi priva del mio mondo, un’emorragia interna. Non
ho più a disposizione il mio mondo, l’altri mi rende oggetto. Husserl rispettava la
soggettività altrui non oggettivabile, sartre ribalta la situazione mostrando come ci renda
oggetti noi. L’oggettività husserliana era l’avere un mondo comune. L’oggettità sartriana
è invece il diventare un oggetto io stesso, e quindi si nega la possibilità di pormi come
per se’ di fronte il mondo. Oggettività è possibilità del reale di porsi come oggettivo
proprio perchè è un mondo comune a più. L’oggettità mi priva del mondo, sono un ente
per cui non esiste più un mondo. Il processo in primo luogo, non mi priva dell’identità,
ma del mondo. Poi successivamente perdo la mia dimensione di soggetto. Tradotto in
altri termini la riduzione a oggetto dell’io passa per le condizioni materiali di contesto.
Se il mondo non è più a mia disposizione, è inaccessibile, allora sono io stesso una cosa.
L’alienazione dell’io passa dall’alienazione delle cose. Questo è il processo in cui
perdiamo la nostra soggettività. Parleremo poi di quella dimensione di assenza che
caratterizza il rapporto io-altri. In che modo è costitutiva dello sguardo.
L’oggettificazione prescinde l’altro, o è completamente necessario avere una presenza
fisica di fronte a me? Sartre dimostra che la presenza fisica spazio.temporale non è così
importante per far sì che lo sguardo entri dentro di noi.

21/04 mancante fussi:

22/04
In certi punti la teoria di sartre è contro intuitiva, esagera, privilegiando e perdendo
alcuni aspetti. La vergogna è una modalità primitiva del rapporto del per se’ con gli
altri? Per provare vergogna il soggetto deve avere già da prima dei parametri che gli
fanno concepire il comportamento come vergognosi. Sennò reagirebbe alla presenza di
un altro in maniere diverse. Il soggetto che guarda nel buco della serratura sa già che sta
facendo qualcosa di sbagliato. Lo sguardo non fa altro che emergere qualcosa che
magari è inconscio in te. La vergogna non è quindi primitiva. La relazione io-altro
attualizza un giudizio morale che riposa su dei codici di normatività che già esistono.
Sartre invece sostiene che non c’è niente di tutto questo. L’occhio che guarda dal buco,
cambia, allo sguardo di altro. Inoltre ciò che scatta, che cambia, è la perdita della mia
libertà. La chiamiamo vergogna, ma sartre porta in luce un senso più profondo e
preliminare. Si descrive un’esperienza di perdita del mondo e di perdita di se’. La
vergogna sarebbe la modalità eminente sulla quale iniziamo a pensare il rapporto io-
altro. Tuttavia L vergogna è solo una delle possibili modalità del rapporto. Lo sguardo
può essere anche rassicurante, positivo. Riduce il tessuto dei rapporti intersoggettivi
soltanto ad un lato. Prende la parte e la porta al tutto. Questa visione ci dà degli
strumenti per mettere in luce un lato dei rapporti, quelle del conflitto, l’insocievole
socievolezza. Sartre dà strumenti articolati per pensare il lato dell’insocievole. Quella di
sartre non è una società d’individui, non c’è centralità dell’individuo. Non c’è un io
senza un altro. La relazione è costitutiva. La strada non passa dall’idea che prima ci sono
gli individui e poi le relazioni. Ci passa dall’interno delle relazioni. Si possono trovare
spunti positivi in questo rapporto? Lo stesso fatto di vestirsi, è un elemento che fa
trasparire la nostra vergogna. Venire vestito, significa che ho qualcosa di vergognarsi. È
una confessione della mia vergogna. Devo cercare di costruirmi una sorta di soggettività,
e di possibilità. Se invece sono fiero della mia immagine, devo essere in qualche modo
rassegnato ad essere questo, ad essere come tu mi vuoi. Significa adeguarsi all’immagine
che gli altri hanno di te, significa abbandonarsi all’oggettità. Anche se il per se’ ha delle
chances di riconquista, l’innocenza è persa, non potrai mai avere l’illusione di
riacquistare la tua pienezza che avevi prima dell’incontro con l’altro. Sartre segna un
punto di non ritorno. Non possiamo più evitare il rapporto negativo. Lo sguardo è
comunque simmetrico, sono visto e vedo. Anche il mondo dell’altro scompare. Questa
reciprocità si fonda comunque sul negativo, e non può mai avere la caratteristica della
simultaneità. È un braccio di ferro, un equilibrio instabile nel quale uno sguardo spinge
verso l’altro. Uno dei due rende l’altro un in se’.  È una reciprocità non simultanea, una
bilancia nella quale uno dei due prevale. Io e altro non sono dati dall’inizio. Sartre si
chiede cosa si può dire sulla natura dell’io e dell’altro a partire dall’esperienza dell’altro.
Ci sono tre punti fondamentali: l’altro non è oggetto, non posso oggettivarlo, anzi è un
qualcosa che mi rende oggetto. Poi c’è la questione dell’assenza. Nella misura in cui
guardo l’altro lo riduco a probabilità, lo reifico. A quel punto qual è la sua differenza da
un mero automa. Il non esserci non è privazione rispetto alla presenza. Non è negazione
di quell’essere ora lì. L’assenza è la modalità caratteristica dell’altro. L’assenza si può
esaudire per un per se’. Non sembra corretto parlare di assenza per un gesso.
Innanzitutto per dire che qualcuno è assente deve esserci un termine di paragone umano,
se qualcuno è assente qualcuno deve essere presente. Qualcuno ci deve essere altrimenti
diremmo che la stanza è vuota. Quest’assenza presenza deve essere già in relazione.
Quando due per se’ si contendono il mondo. L’assenza quindi, è una relazione, non uno
stato d’essere. Inoltre è in un suo modo una forma di presenza. Dire che è assente
significa dire che è per se’ da qualche altra parte. L’altro è caratterizzato sempre da
quella forma perturbante che è l’assenza. Sartre ci fa pensare che altri è primariamente
assente. L’assenza non è un qualcosa che si aggiunge accidentalmente. La pura fisicità ci
fa perdere la qualità specifica dello sguardo. Se ci fosse solo presenza spazio-temporale
non ci sarebbe sguardo. Per far sì che lo sguardo nasca, si deve innestare un assenza
nella presenza. L’assenza è quindi un sa forma di essere diversa dalla presenza, ma non
una non presenza. Altri è una realtà prenumerica. Una cosa la individuo perchè ha una
posizione nello spazio nel tempo. È sottratto,l’altro, dal principio di numerazione.
Quando parliamo in pubblico non facciamo un’esperienza di essere guardati da tante
individualità numeriche. Facciamo l’esperienza di un anonimato, un qualcosa che non è
più A+B+C. Altri è un tipo di assenza presenza quasi impersonale. In pubblico abbiamo
paura di perdere la nostra identità, di perdersi in un tutto impersonale. È un’individualità
che si disgrega. Per sartre la relazione con altri comporta una paura irrazionale di essere
io di fronte ad un qualcosa di innominabile. La relazione io altro non riesce mai a porsi
come una totalità. Altri è un oggetto esplosivo. Posso affermare il mio per se’
oggettivando altro. Ma ho la sensazione che ci sia attorno a lui oggetto la possibilità
permanente che lo si faccia esplodere. Che io provi improvvisamente la furia fuori di me
dal mondo. Desideriamo che l’altro rimanga oggetto. Descrive la realtà su delle
successive fasi di scissi-parità, come se sviluppasse dividendosi in fessure.l’ekstasis è
l’uscita da se’.Le ekstasis secondo sartre sono 3: il per se’ si contrappone all’in se’. L’in
se’ si scompone in due cellule che sono l’in se’ e il per se’, qualitativamente diverse. Il
per se’ si pone proprio attraverso questa scissione. La cellula primordiale è l’in se’ puro,
si scinde internamente in per se’ ed in in se’. Questa èla prima ekstasis. Poi c’è la
seconda ekstasis, l’auto riflessione. Un ulteriore movimento di scissione in cui mi
guardo come se fossi da fuori. Assumo quindi una posizione più ampia e mi colgo,
divento coscienza del fatto che la mia essenza deriva da una prima ekstasis. Questa
autoconsapevolezza comporta a sua volta una negazione, è un me visto da un altrove. È
una scissione ulteriore. L’essere per altri è la terza ekstasis: è il momento in cui mi rendo
conto che c’è un’ulteriore prospettiva. Scopriamo che siamo noi stesso soltanto nella
relazione con altri. Inizialmente si pone come un qualcosa di ancora più ampio. Ogni
volta che si pone un cerchio più ampio, però, non comprende, ma spezza, introduce una
scissiparità. Perché l’essere per altri è una perdita del mio per se’. L’essere per altri è
esperimentare la fuga dal mio mondo. La terza ekstasis quindi non riabbraccia la
soggettività. Nega tutto ciò che sta dentro e prima. Introduce un ulteriore elemento di
perdita. La relazione con altri, è una totalità spezzata. Il suo punto d’approdo è proprio
l’impossibilità di una totalità che si ponga come sintesi. Il raggruppare non chiude, ma
spezza, il nulla dentro l’essere.
 

27/04
Oggi parleremo di un nuovo autore, levinas. Il tema del rapporto io.altro sarà
estremamente centrale. In husserl il tema è importante, ma non si può ridurre a
quell’unica matrice. Anche in sartre il capitolo sullo sguardo è un solo capitolo, come
per ricoeur e per butler. Per levinas è la cifra prima di tutta la sua riflessione. Levinas
introduce una torsione molto forte. Il concetto di alterità è inteso in una chiave sempre
più alta e altra. Innesta elementi culturali diversi, come per l’ebraismo. Altri diventerà
sempre di più il rapporto con la trascendenza e quindi Dio. Il tempo e l’altro fotografa la
sua riflessione sul tema in un punto particolare della sua riflessione. Non è il tutto
levinas. È un momento però fondamentale, perchè è la prima volta che emerge
tematicamente il concetto dell’altro e dell’alterità. A Strasburgo nomina durkheim, ne
viene impressionato. Gli rimane l’attenzione alla socialità. L’altro autore di riferimento è
Bergson. Bergson, dice, ci ha liberato dal dominio del tempo spazializzato dagli orologi,
si scopre una dimensione qualitativa del tempo, in un’ottica di liberazione. Bergson è
espressione di un tempo come strumento di cambiamento e liberazione, per levinas. La
relazione sociale e la temporalità, durkheim e Bergson, sono quindi gli ingredienti base.
Andrà a friburgo, anche a seguire le lezioni del brillante allievo di husserl, heidegger.
Viene coinvolto nella traduzione francese delle meditazioni cartesiane. Ha un ruolo
quasi filologico di trasmissione dei testi. Scrive una tesi di dottorato, la prima
monografia di husserl in francese. Dal 30 al 40 pubblica una serie di articoli e saggi
sempre su husserl. Scrive anche un testo sul nazismo, forse il primo. È il segno di una
riflessione forte che fa sulla storia del suo tempo e sui fenomeni politici. Marca a lungo
la sua riflessione filosofica. Esperienze di umiliazione, di perdita, di morte, nella notte
senza ore della coscienza europea, nel periodo dei totalitarismi. C’è coinvolto anche
personalmente. Passa anche in un campo di prigionia. Nel libro di prigionia mette le basi
per il suo saggio più importante, totalità è infinito. Levinas afferma che totalità e infinito
è un libro sull’intersoggettività. Come un filo tra la quinta meditazione. Ci sono delle
interviste di levinas particolarmente significative all’introduzione dell’autore.
Dall’interviste, levinas stesso, da degli elementi per farci capire il suo percorso e la sua
traiettoria filosofica. Levinas punta il dito contro l’approccio sartriano come un tentativo
teleologico di costruire un percorso a tappe. Ritiene che il tentativo d’introduzione del
nulla nella totalità sia fallito. Levinas vede nell’altro una possibilità di relazione positiva.
E intende l’alterità come un rapporto ancora più radicale. Levinas tende a rovesciare più
radicalmente la prospettiva dell’intersoggettività. La fenomenologia viene percepita
come un tipo di approccio filosofico che ci avvicina alle cose. Il modo in cui arriva la
proposta fenomenologia di husserl come una rottura con un tipo di esercizio filosofico
perso in astrazioni concettuali autoreferenziali. Husserl propone un approccio in cui fare
filosofia e riflettere sul mondo fanno tutt’uno. L’intenzionalità dice che la coscienza è
abitata dalle cose. La coscienza non è nient’altro che i sui contenuti, è sempre coscienza
di qualcosa. La coscienza non è una sfera di cristallo che riflette il mondo come uno
specchio della natura (rorty). La coscienza è quelle cose. Le cose sono fatte di orizzonti.
Di presenza e di assenza. Levinas coglie questi punti della teoria hussrliana. Levinas non
vede come un’ostacolo il riappropriarsi degli orizzonti della coscienza. Non è un limite
come in sartre. Heidegger coglieva ciò che aveva precedentemente preparato husserl.
Levinas descrive delle figure dell’esperienza.

28/04
Gli argomenti sono, la soggettività, il mondo, la morte(tempo), il rapporto con altri.
Sartre li disponeva in ordine diverso. Parte dal tema della solitudine, dopodiché dice che
c’è un problema di superamento della solitudine. Sia husserl che sartre si ponevano lo
stesso problema sul come uscire dal solipsismo. I primi due ponevano il problema del
solipsismo su un ambito conoscitivo, in questa maniera per levinas non si poteva mai
uscire da se stessi. Prima si pone un problema, poi si pone una soluzione, nel capitolo sul
mondo, fallimentare, infine dal concetto della morte si esplora una via che promette di
essere effettivamente quella corretta. La dialettica di levinas non è hegeliana. La
dialettica dovrebbe riuscire a descrivere una mappatura ontologica dell’essere. È un
essere che procede per ostacoli e negazioni. Levinas stesso usa la parola superamento,
che fa venire in mente hegel. Se qualcosa di hegel c’è, si lascia da parte l’idea che si
debba arrivare ad una totalità. È una dialettica aperta, negativa, non conclusa. È un
pluralismo che non si risolve mai in unità. Non è un plurale di una stessa unità. Levinas
parla di figure della socialità, un qualcosa che sta a metà strada tra i concetti astratti e
l’esperienza particolari. La figura ha un ambizione di universalità rimanendo però
fortemente concreta. Un po’ come le figure dello spirito della filosofia hegeliana, che
parla di signoria e servitù, di funzioni concrete, che portano un concetto, che aspirano ad
esserlo rimanendo però particolari. Ci sono due tesi: il soggetto solo esclude il tempo, il
tempo è la relazione del soggetto con gli altri. Cos’è la solitudine per levinas? Si va per
negazione attraverso un primo confronto con heidegger. A differenza sua levinas non
pensa una solitudine a partire dall’isolamento del soggetto che si ritaglia uno spazio.
L’individuo per heidegger non è mai isolato, la solitudine è il momento in cui si recupera
la propria dimensione all’interno della dimensione sociale. In questa maniera per levinas
heidegger ha sbagliato. Si perde il senso più forte della relazione con altri. Il dasein
solitario sta da solo, mentre nella relazione, gli uomini stanno gli uni a fianco agli altri
senza mai incontrarsi. Tutti fanno da soli le stesse cose. La relazione rimane un elemento
primo di grande cornice che poi non svolge nessuna funzione. La relazione con altri va
pensata spazialmente in maniera diversa. Non siamo gli uni accanto agli altri, ma di
fronte(sguardo), faccia a faccia. La solitudine riguarda il nostro statuto di esistente.
Come heidegger aveva diviso essere ed esistente, levinas parla di esistere e l’esistente.
Esistere in generale e l’esistente. È qui che scatta la solitudine. Dall’esistenza
all’esistente era anche il titolo dell’opera ce aveva appena scritto. Bisogna concentrarsi
su questa relazione, è lì che si gioca la questione della solitudine. Come si passa
dall’esistere all’esistente? Se il problema è come mettere a fuoco il passaggio logico tra
esistere ed esistente, si deve in primo luogo provare a cogliere l’esistere in se’ senza
l’esistente. Ci troviamo sempre in un mondo che non abbiamo fatto, ci troviamo gettati.
L’esistente è gettato dentro l’esistere. L’esistere non è un contenitore nel quale
s’innestano cose, non è quindi una forma vuota, non è però neanche un puro nulla.
Immaginando un mondo senza uomini, non ci sarebbe comunque un niente, rimane un
sfondo d’esistere comunque. Parla di un campo di forze dell’essere. Le forze
condizionano, ma non sono a loro volta degli enti. Oppure parla di un’atmosfera
d’essere. Il lemma tipico di levinas è c’è, impersonale, indeclinabile. L’esistere è il c’è
indipendentemente da ogni esistente. Levinas fa riferimento alla figura e all’esperienza
dell’insonnia. Sei di fronte al buio, ma non riesci a sottrarti, non riesci a chiudere gli
occhi della coscienza, e comunque non riesci a dare una forma a quel nulla che hai
davanti. L’insonnia ti si impone, la coscienza non riesce ne’ ad addormentarsi ne’ a
svegliarsi. Cartolo si convinse che non si dovesse neppure parlare, e s limitava
semplicemente a muovere il dito. In questo divenire che fluisce senza punti di
riferimento è stabilità, anche il linguaggio come forma di minima stabilizzazione non
riesce ad aggrapparsi alla realtà, è solo parvenza. Per cratilo in realtà non ci si può
bagnare neanche una sola volta nello stesso fiume. Il divenire resiste a qualsiasi tipo
d’individuazione. È un fluire senza punti di riferimento. Il y a è un esistere senza alcuna
forma, identità, nome, unità. Levinas voleva riflettere sulla relazione tra esistere ed
esistente. L’ipostasi è il passaggio dall’essere, a un qualcosa. Il puro anonimato dell’y a
prende un nome particolare, l’ipostasi è questo passaggio. L’ipostasi è anche chiudere gli
occhi rispetto a quell’anonimato che mi colpisce nell’insonnia. La coscienza è la
possibilità di chiudere le palpebre, di mettere tra parentesi l’anonimato. La chiusura
degli occhi è un modo di affermarci nell’esistere, è una fuga fuori dal pieno, ma anche
dentro  al pieno. L’ipostasi ha a che fare, in primo luogo, con la costruzione dell’identità.
L’identità è una relazione, siamo identici a qualcosa, ad un termine di paragone.
L’ipostasi consiste in un partire da se’, ma anche in un tornare da se’, prende quindi il
significato dell’identità. Dal momento in cui deve resistere alla disgregazione,
dev’essere una monade, della quale non si evidenzia il fatto di essere un punto di vista
sul mondo, ma anzi il fatto che sia senza porte e finestre, non relazionale, sola e chiusa.
Deve essere così, perchè altrimenti verrei riassorbito nell’anonimato dell’ y a. L’ipostasi
è che il momento in cui l’esistente si definisce nel suo essere presente. Io penso lo dico
nel presente, se lo coniugo al passato o al futuro mi riferisco sempre al presente. C’è un
forte radicamento nell’istante presente di questo esistente. Non ha storia, non ha ricordo.
Esiste però sempre in un istante che si sposta, non riesce ad avere una permanenza del
tempo, è istantanea. È quindi un impostasi di evanescenza. Levinas ne parla anche come
io. Se dico Io, non intendo primitivamente niente di sostanziale, io è un punto di vista,
una centratura. Io è soltanto un modo di esistere che precede ogni sostanzialità, un modo
per introdurre permanenza alla variabilità. Anche nell’io come funzione, l’atto d’indicare
le cose senza parlare. Rappresenta, l’io, una prima affermazione di libertà.

29/04
Io, mondo, morte e poi altri. Ingredienti già visti ma mescolati in maniera diversa. Nella
prima conferenza l’accento cade sulla soggettività, che si aggancia alla questione
dell’esistente. Il nucleo fondante della singolarità non sta in contenuti della mente ma sta
nel fatto stesso di esistere, come proprietà intransitiva. Prende il punto di partenza, cona
una forte connotazione ontologica. L’esistente singolo è un’ipostasi dell’esistenza. L’il y
a è collocato in una sfera anonima, un’esistere impersonale e insensato. Un fiume che
sfugge persino alla parola. L’il y a ha quasi non ha nome. Una delle strategie per
aggirare l’insonnia, è aggirarla, conviene alzarsi. Conviene tornare a vedere le cose del
mondo invece di stare in una stanza buia senza punti di riferimento. Quando la coscienza
ritorna un po’ padrona di se’ può anche tornare a chiedere gli occhi. Di quest’ipostasi,
levinas sottolinea il fatto che è caratterizzata da un doppio movimento d’identità, andata
e ritorno. Questo per differenziarsi dall’il y a in personale. L’esistente è solitudine e
assenza di relazione. Se fosse sin da subito relazione rischierebbe di perdersi
nell’indifferenziato dell’il y a. Deve essere monadicamente chiuso e solo. È ancorato nel
presente, ha una prima forma minimale di temporalità. È un presente che lega l’ipostasi.
Il soggetto può avere esperienza del passato e futuro soltanto come dilatazione di
presente. L’io si pone comunque come qualcosa che non ha sostanza, è più una funzione,
non è una cosa. L’io è potenza o possibilità di emergere e riscattarsi dall’il y a anonimo,
è libertà. Libertà non è soltanto possibilità però, è anche condanna, un qualcosa di
definitivo, un vincolo. L’alienato è colui che non si risconosce, che non risponde delle
sue azioni. Le cose che ha fatto non le ha fatte lui, non era identico, non era la medesima
persona. Per Locke si deve riconoscere come il medesimo, si deve ricordare. Perchè ci
sia un esistente, l’io deve tornare a se stesso nell’ identità. È vincolato alla propria
dimensione identitaria. L’esistere che si caratterizzava inizialmente come libertà diventa
un vincolo. Questa definitività prende poi la forma del nostro proprio corpo. Non
possiamo non prenderci cura del nostro corpo. Siamo vincolati al nostro corpo, che ci
piaccia oppure no. Sottolinea quindi il rovesciamento alla presunta libertà dell’inizio,
che diventa vincolo alla propria materialità. Così si chiude la prima conferenza di levinas
sul tema. Si riparte dal punto finale dello schema precedente, ovvero dell’io come
materialità. In che modo dal vincolo col nostro corpo possiamo aprirci e fare un contatto
con l’alterità? Una via promettente sembra essere quella della necessità del soggetto di
prendersi cura di se’ nella misura in cui il corpo è attraversato da una misura di bisogno,
e quindi di mancanza. Il corpo ha bisogno di qualcosa che non ha, tende ad un altro
rispetto a se’, a ciò di cui manca. Non è come il tutto pieno dell’in se’ di sartre. Il nostro
io materiale per levinas è attraversato da desiderio e mancanza, corrispettivi di una
frattura interna. Il rapporto io-mondo non è tanto di utensili come in heidegger, ovvero
di oggetti significativi in base alla loro utilizzabilità. La filosofia si deve rendere conto
della relazione primaria con questi piccoli niente. Per levinas non bisogna bypassare le
necessita del quotidiano, infatti apprezza sartre per la sua misura esistenzialista
materialista. La struttura stessa del corpo come mancanza sembra spingere l’io fuori da
se stesso. L’identità che si costituisce come andata e ritorno sembra essere vincolata ad
un giro più largo. Mi devo appoggiare sulle cose di cui ho bisogno, gli alimenti dai quali
dipende la mia stessa esistenza. Gli alimenti sono un gettarsi fuori da se’ per andare
incontro al mondo e alle cose. Quindi non è nella chiave dell’utensile, ma in quella degli
alimenti, che l’io solo esce da se stesso. Dire che una cosa è un alimento per me significa
che la posso assimilare, diventa mia, è me. Dall’altra parte il rapporto con le cose come
alimenti non è soltanto utilitario. Si possono assimilare sostanze anche senza mangiare.
Nell’esperienza dell’alimento c’è un’esperienza estetica, sensoriale, che vale di per se’, e
non per ciò a cui mira. La dimensione dell’alimento non va intesa in una chiave
puramente utilitaria. Se io godo di un alimento lo devo esperire, ovvero devo porre uno
spazio di sensazioni, un rapporto cognitivo. È una luce conoscitiva. Annusare il profumo
di un fiore significa fare esperienza. L’oggetto illuminato non ha un’estraneità intrinseca.
Sembra uscire fuori da noi. Nella seconda conferenza passa dall’io materiale, sembra
d’incontrare una nuova alterità, ma si scopre che è sempre emanata dall’io stesso, che
alla fine si ritrova sempre in compagnia di se’, e non incontra nessun’altro che se’ stesso.
Sostiene che attraverso una via conoscitiva, anche ampia, si possa davvero uscire dalla
solitudine dell’io. Levinas cerca di essere estremamente esigente per quanto riguarda la
nozione di alterità. Tutti si sono accontentanti di un’alterità che si richiudeva però
sempre nell’identifico, che assimila, e annulla le differenze. 

04/05
Le prime due conferenze sono un momento negativo. Una volta data l’ipostasi,
affermazione su un il y a anonimo, come si raggiunge l’altro? L’affermazione è
tracotante di soggettività, si crea in assenza di relazione, una libertà senza gli altri. C’è
questo mito dell’autonomia che si costituisce rompendo il rapporto con gli altri. È un
autonomia, per levinas, illusoria, perchè si rovescia in un vincolo, in un’impossibilità.
Terza e quarta conferenza delineano una “pars costruens”. Si lascia sul terreno l’idea che
il soggetto sia anche un corpo, caratterizzato da un vincolo inestricabile con la propria
materialità. Si esplora, ripartendo dall’io materiale, un altro tipo di esperienza, non
bisogno/godimento, da quello che la traduzione chiama lavoro. Travaglie, è il lavoro, ma
anche quello che in italiano è travaglio. Una pena, una sofferenza, uno sforzo legato alla
materialità. Parla esplicitamente di dolore e sforzo. Non dobbiamo aver paura di
sporcarci le mani con elementi materiali, è intesa come sofferenza non tanto morale, ma
proprio fisica. Cosa si prova quando il nostro corpo è in travaglio? Sono proprio io che
soffro, la mia soggettività è tirata in ballo direttamente. Quando sento male, è
un’esperienza, che a differenza di altre differenze, magari cognitive, sembra resistere alla
comunicabilità. Il dolore fisico è un dolore che soltanto io provo in quel momento,
dall’esterno se ne vedono soltanto dei sintomi, che sono comunque lontanissimi
dall’esperienza di quel dolore. Il dolore rimane così il mio dolore, legato strettamente al
soggetto. Però il possessivo “mio”, del dolore, è strano. C’è qualcosa nel dolore che mi
possiede, che mi allontana da me stesso. Non dipende comunque da me. Sono io senza
essere me stesso. Il dolore mi attraversa, s’impossessa di me. Posso nascondermi dalla
minaccia dello sguardo degli altri, ma quando sento male, non posso allontanarmi dal
mio dolore. La struttura formale che viene fuori in questo tipo di figura, dalle successive
esplorazioni di levinas, vede da una parte un’intensità del dolore che corrisponde
all’intensità di un legame con noi stessi. Posso separarmi da idee e rappresentazioni
mentali, ma non dal dolore fisico. Da una parte quindi, un forte legame con noi stessi,
dall’altra, il Travaglio è anche pura passività nei confronti dell’assolutamente altro. Ci
vede un momento di alterità assoluta non comprensibile nel soggetto stesso. Il dolore e la
morte sono ovviamente continui, in un certo senso il dolore anticipa in piccolo ciò che fa
la morte. Il dolore è una sorta di prossimità la morte, la prefigura. Anche nella morte si
ha questo abbinamento tra una identità irrevocabile, intensità di una relazione tra io e me
stesso, e allo stesso tempo uno spossesamento di noi. La morte è la mia morte, non è
sovrapponibile, non è comunicabile. È un tipo di esperienza che fa leva su un’intimità
del soggetto. La morte non è però affermazione della soggettività, è qualcosa che mi
attraversa. È un’esperienza di passività. Per heidegger, l’essere per la morte era
affermazione di attività del soggetto, recupero dell’autenticità del soggetto stesso. Per
levinas la morte non è affatto questo, è una detronizzazione del soggetto, che però si
definisce a quel soggetto specifico. È un io che invece di opporsi, si depone. È una
soggettività che trova se stessa deponendosi. Nel rapporto con la morte la soggettività si
depone. La morte la rende inerme, ci prende e ci mette in discussione. Di fronte alla
morte non siamo più io posso, siamo più che altro io non posso. Il posteggio allo stesso
tempo sembra mantenere soggettività, perchè la morte è la sua morte. La morte è alterità
così forte che mi annulla. La relazione io altro non si stabilisce più, perchè l’altro, nella
sua figura estrema della morte annulla l’io. La morte è un altro che non governo. Una
volta trovata una forma di alterità che resiste al soggetto, cosa impedisce però che sia
l’altro che annulli l’IO? Dove ci si deve fermare? Qual è il tipo di vincolo da imporre a
questo tipo di conflittualità? La morte, pensata rigorosamente, resiste anche a questa
assimilazione della progettualità. Il soggetto afferma se stesso negandosi, deponendosi. 
La morte non è un soggetto che scompare nel nulla, è il fragore di un oceano di vita che
esce. È una scissione del soggetto che non viene in togliere, ma in eccesso. L’altro
modello che ha in mente levinas è cartesio, ma non quello del cogito, e della sua
autonomia. Il cartesio successivo, dell’idea di Dio e dell’infinito. L’io si trova come al
solito nella condizione di dover giustificare la presenza degli altri. La leva che usa
cartesio è quella di Dio: questo Dio per levinas, è intanto un’idea di. Ovvero è filtrata dal
soggetto che lo pensa. Dio è un idea in me, non è un essere trascendentale che sta fuori.
È l’idea di Dio per come ce l’ho dentro di me. C’è qualcosa che ci lega a noi stessi, ma
in quanto idea di Dio infinita, è anche estranea. L’infinito è un oggetto della mente più
grande della mente. Spezza quindi il suo cerchio magico, la sua solitudine. Come la
morte che mi fuoriesce, anche l’idea di Dio entra e fuori esce dal soggetto. Non posso
abbracciare l’infinito, posso toccarlo, essere sicuro della sua esistenza, ma va al di là
della mia apertura delle braccia. Contenuto più grande del suo contenitore. Anche la
morte ha questa caratteristica di mandarci fuori rimanendo comunque la nostra morte.
L’altra caratteristica della morte, dopo l’inafferrabilità, il non poter essere progettata, è
quella del vecchio epicureo. La massima del io non sto dove sta la morte e viceversa. La
morte non si da simultaneamente nel mio presente. Non possono stare insieme. La morte
apre una dimensione di temporalità. La morte è un non ancora. Lascia comunque un
margine per costruire una relazione con l’altro. Che tipo di soggettività viene fuori?
Sicuramente non quella basata sulla libertà delle possibilità dell’ipostasi. La morte mi
ha, ma non ora, a venire. Tutto questo fa della morte una sorta di grande figura della
relazione con l’altro. L’incontro, il faccia a faccia con altri, prendono senso a partire da
questa riflessione formale. 

05/05
Siamo arrivati a delineare un tipo di relazione con l’alterità, autrui, in grado di impedire
il viaggio di ritorno dell’identità su se stessa. Con il travaglio, lavoro, sembra scavarsi un
intervallo che il soggetto non riesce più a colmare. È un’alterità che resiste all’io. Nella
morte c’è un non io così forte che l’io scompare. Un’obiezione posta: in che senso La
morte non può essere oggetto di un progetto. L’intenzionalità dell’autolesionismo, per
esempio, perchè non è calcolata? Il dominio del mio progetto viene meno nel momento
in cui la situazione si realizza. Se progetto un viaggio, anticipo un’esperienza, la
costituisco predelineandola. L’aspettativa può essere poi più o meno riempita. Posso
riconfigurare la mia esperienza e la mia intenzionalità può prendere un’altra dimensione.
Possiamo applicare questo schema alla morte? In che senso la morte può essere un
oggetto come un viaggio. La morte è un oggetto che non posso mai afferrare, non può
mai essere riempito e non posso farne esperienza. La sofferenza pure prefigura una
situazione di questo tipo. È comunque qualcosa che mi spiazza, che la mia coscienza non
riesce a prefigurare perfettamente. Quello che arriva non dipende più da me, e non posso
riadattare la mia intenzionalità come con un viaggio. La mia libertà nella morte è messa
fuori gioco. Fare della morte un progetto, nell’autolesionismo, è un’aspettativa sbagliata
che sfugge alla mia capacità intenzionale. La morte è un oggetto che non può essere
posto nella sua datità, non può essere delineato e conosciuto. Siamo di fronte ad una
relazione con l’alterità che tende a sfuggire da ogni forma di possibilità. Non è un
progetto, non è una possibilità, è un io non posso. Di fronte alla morte e alla sofferenza
fisica, ci troviamo di fronte ad un nuovo tipo di alterità. A che cosa punta levinas in
questo tipo di operazione? Si nota che per lui, autrui, è un primo luogo qualcosa che non
ha nome, qualcosa che differisce da qualsiasi tipo d’identità. Non è l’altro da me, il
diverso con cui trovo degli elementi di somiglianza. Uno dei problemi che levinas vede,
anche in husserl, è che l’alter-ego, è sempre pensato a partire dall’io. Per levinas,
dobbiamo pensare ad un alter- ma senza ego. Ad un altro impersonale. Alter rimanda ad
una relazione rispetto all’alius tra molti. Pensare l’altro a partire dall’io significa ridurre
sempre l’ispeità, pensare l’altro sempre a partire da una somiglianza con noi stessi. Ci
sarà sempre un escluso, ci sarà sempre una violenza, e una non somiglianza, e quindi una
mancanza di rispetto eccetera… ci sono problemi di giustizia, perdono, responsabilità.
Come il caso della responsabilità infinita della vittima nei confronti del carnefice.
Levinas non vuole pensare l’intersoggettività a partire da se’ stessi, a partire da una
totalità erronea. Finchè pensiamo in termini di totalità sbagliamo. Levinas prova a
ripensare il rapporto con autrui con un modo diverso di ragionare, scardinando il pensare
l’alter sempre a partire dell’ego. Levinas non si ferma alla morte e prosegue nella quarta
conferenza esplorando altre figure sociali. Dobbiamo pensare a figure sociali che
mantengano l’equilibrio tra due poli senza che nessuno prevalga sull’altro. Nella morte,
ciò che mi salva dall’infinità distruzione dell’io, è l’introduzione di una temporalità
diversa. L’ipostasi ha una forma embrionale di temporalità, ovvero il presente
dell’esistere. Ipostasi è inchiodamento del soggetto non solo nello spazio, ma anche nel
tempo. La morte cambia le cose. La morte non è presente. Quando mi relaziono a lei, è
sempre un non ancora. Non è ancora il tempo. Il tempo è la relazione tra questi due
momenti, il presente dell’ipostasi e l’<venire della morte. Il tempo è lo spazio che sta in
mezzo ai due poli. Ma non è una semplice relazione di continuità tra un t1 e un t2. Qui
non ci sarebbe nessuna alterità. Non può essere nemmeno uno slancio (Bergson), in cui
si parte dal presente. Levinas cerca delle figure di relazione in cui l’avvenire venga posto
in relazione col presente senza però essere ridotto a tale. E questa relazione del tempo sta
nella relazione con gli altri. Se sono da solo, non esco dal presente, se mi relazione ad
altri mi relaziono ad un avvenire che non dipende più da me, che non è già scritto nel
mio presente. Il tempo non è più soltanto tuo. Per levinas la cognizione del tempo di
husserl è sempre centrata nel soggetto, e dal presente, come ritenzione. Questo funziona
soltanto quando la coscienza è sola, se c’è presenza dell’alterità la struttura del tempo
cambia. Quali sono le forme di socialità più concrete in cui prende corpo la relazione
con altri?  Questo altro che mi toglie dal tempo, non assomiglia all’emorragia interna del
mondo di sartre? Sartre vive l’altro come uno scacco dell’io, che mi riduce a cosa.
Questo perchè continua a pensare al soggetto come possibilità. Per levinas non è una
questione di lotta tra i due elementi a confronto. Non è neanche una reciprocità di
riconoscimento però. Ci sono due figure nella quarta conferenza, la prima è la
femminilità. Una forma di alterità in cui l’alterità stessa è l’essenza. La differenza dei
sessi è strana. Per levinas la femminilità è il momento per fare un passo indietro. Non è
amore platonico di ricerca della totalità. È una forma di alterità non d’incontro-scontro
tra due per se’, non è neanche il servo padrone come in hegel. La femminilità non lotta
non impone, è una figura di deposizione, si ritira. La femminilità ci mette di fronte ad un
altro che detta i termini di una relazione che non può essere intesa come forma di potere
e possesso. La femminilità è una presenza-assenza, non accetta il gioco dello scontro.
Essere in una relazione con la femminilità dunque è un momento in cui il soggetto
sopravvive. La relazione erotica non è affermare l’io posso, è un deporsi. Una relazione
che non è dovuta alla nostra iniziativa, che ferisce la nostra soggettività. La carezza non
è toccare, afferrare, un oggetto. Ha a che fare con un corpo vivente, un leib, che ha una
cinestesi che però mi sfugge. Sento e sono sentito. Produco effetti che non conosco. È un
intenzionalità senza visione. La relazione con altri non è presentificazione dell’altro, è
l’assenza. Non si vede neanche un lato come in husserl. È l’assenza ciò che definisce
l’alterità. In particolare l’assenza complessa in un orizzonte di avvenire. Assenza che è il
tempo. Altri è assente, nel futuro che non posso prevedere. L’ultima figura è quella di
paternità. Non ovviamente biologica. È una relazione non soltanto materiale. La
relazione che attraverso il mettere qualcuno al mondo, io sono mio figlio e allo stesso
tempo non lo sono. Soggettività che sopravvive e che è sbalzata fuori da se stessa. Mio
figlio non è un mio specchio. Fosse così avrei un rappporto dove l’alterità non c’è. Dove
il figlio è una replica del padre. È tale la presenza dell’io nella fecondità che siamo
indotti a non uscire dalla nostra identità, sbagliando. Proprio perchè il coinvolgimento è
così forte, il soggetto viene profondamente disarcionato. La deposizione del soggetto
diventa totale. Alterità s’insinua nel soggetto stesso. Non possiamo pensare il rapporto
con l’alterità in termini di io posso. Non abbiamo gli altri in nostro potere. È l’affianco
che salta. Husserl, heidegger, sartre, avevano continuato a pensare il rapporto con l’altro
come un essere uno a fianco dell’altro. Non è un modo corretto per pensare il rapporto
con l’altro. Il rapporto con l’altro è un faccia a faccia.
06/05
Nella terza e nella quarta conferenza si esplora un a sorta di pars costruens, nella quale
emerge il tema del tempo rispetto alla sofferenza, alla morte, nella terza, e in altre figure
sociali nella quarta. Alla fine della quarta conferenza, dove emergono queste figure
particolari come la femminilità da una parte, la fecondità e il rapporto tra genitore e
figlio dall’altra. Sono figure, insieme concetti e concretezza, nozione astratta e non, un
po’ come quello hegeliani. Queste due figure confluiscono in un’idea complessiva di
cos’è la socialità umana. Levinas riprende la nozione di uomo come animale sociale di
Aristotele. Ci sono modelli di socialità sbagliati, che mostrano lacune teoriche
fondamentali. L’essere con altri di heidegger è un essere fianco a fianco. Per levinas la
socialità si costruisce a partire da una posizione diversa dei soggetti, ovvero il faccia a
faccia. Dal modello precedente di socialità, nel quale una serie di soggetti che stanno a
caso si riconoscono in un un noi tutto, levinas vuole creare e pensare un nuovo rapporto.
Ovvero quello dell’ego e dell’autrui che stanno uno davanti a l’altro, e che si guardano.
In levinas l’io non pone l’altro, non lo caratterizza. L’autrui non ha le caratteristiche di
una soggettività che pone le cose. È un qualcosa che non può, non fa. Non è l’io che
pone l’altro, ma non è neanche l’altro che pone l’io in senso forte, positivo. L’altro è
tutto ciò che non sono in una relazione non assimilabile. Il tutto della totalità di
heidegger deve essere spezzato. Stesso (meme), contrapposto all’altro, nella prima
coppia. Poi in levinas, io contrapposto ad autrui. Invece di pensare la relazione io-altro in
termini di duplicazione, contrapposizione, a partire da un’identità, qui c’è un io che
diventa io nella misura in cui è in relazione con questo autrui, che non è l’altro, che non
è pensato a partire dal rispecchiamento dell’identito. L’altro è un’identità piena,
entificato, è un’altra ipostasi, mentre autrui non lo è, non è un oggetto, non ha un nome e
cognome. È presenza e assenza, è uno spazio vuoto. Non è ne’ presenza, ne’ il nulla, è
l’assenza. L’ io invece diventa io nella misura in cui non è il medesimo. Idem e ipse
possono stare insieme, le pensiamo per lo più insieme, ma non c’è un nesso logico tra le
due, die ricoeur. Levinas e ricoeur pensano che si possa dire “io”, ipseità, che però si
definisce in contrapposizione all’identità. L’ipostasi iniziale tende a pensare l’altro come
medesimezza, in realtà alla fine capiamo che l’alterità in senso proprio si contrappone
alla medesimezza. L’ io si mantiene, ma si conserva diverso rispetto all’inizio, ma perde
il nesso con l’identità di essere identico a se’. Questo è un modo per spezzare l’egemonia
dell’identico. Pensando in termini d’identità, si smarrisce il concetto di un altro proprio
in se’. Levinas individua in cartesio un pensatore estremamente ambivalente, che pone il
cogito, quindi dell’autonomia senza relazione, insieme all’infinito dentro di se’. Cartesio
pone le basi di una riflessioneche scopre l’altro come incomprensibile e irriducibile. Il
soggetto cartesiano scopre di avere un’idea di infinito che non può aver posto lui.
Cartesio è quindi l’esempio di un approccio sul meme, ma anche sul senso di un’ alterità
che non può essere ricondotta al meme. La nozione di volto ci aiuta, rispetto alla carezza
per esempio. Il volto non è un’esperienza fenomenologica. Perchè, innanzitutto, non è
soltanto un fenomeno, non è soltanto qualcosa che accade. Un po’ come per lo sguardo
di sartre. Il volto non è un oggetto della vista, non si può riassumere in un’esperienza
sensoriale. Il volto non è qualcosa che appare, ma non è neanche mistero, è proprio ciò
che si espone. Il volto è nudo. Non viene coperto da vestiti. Il volto è quindi ciò che non
può essere velato, pur non essendo riducibile alla percezione di esso. Il volto quindi, è
anche minacciato, perchè non può essere difeso da alcuna struttura. È inerme, invita alla
violenza perchè non può essere protetto da una corazza. Allo stesso tempo è anche ciò
che dice “non uccidermi”. La relazione col volto non è quindi primordialmente
conoscitiva. È un rapporto epico. Il soggetto non viene posto come soggetto di
conoscenza, semmai di responsabilità. Si può uccidere, il volto non impedisce
l’omicidio, ma fa dell’omicidio un atto morale. Si è inevitabilmente responsabili. Non
esiste mai un noi che sta sopra le nostre teste. Non ti uccido perchè partecipi come me in
un universale. La relazione si da sempre in un singolare. Il primato in levinas non è
nell’io. Ricoeur prova a rimettere insieme husserl e levinas. Se si parla di conoscenza,
husserl ha ragione, perchè bisogna partire dall’io. Eticamente levinas ha ragione, però
sbaglia a livello di conoscenza. Levinas dirà che la relazione cognitiva sia derivabile da
quella etica. La responsabilità è dettata dal volto stesso. Il volto è qualcosa che esprime,
e mi chiede una risposta. Non sei più innocente o indifferente rispetto al volto. Si è
responsabili anche senza conoscere, anche senza intenzionare. Ma la versione più forte
di ciò è che: per essere davvero responsabili bisogna escludere la conoscenza, perchè in
tal caso non saremmo più in rapporto con l’alterità. Questa è l’idea dell’etica come
filosofia prima di levinas. La responsabilità, il piano etico, viene prima, il piano
epistemologico viene derivato. Il volto, quando si da, stabilisce in primo momento una
relazione etica, non relazionale a livello conoscitivo. Il volto quando si esprime non si
sta descrivendo, non trasferisce dei contenuti che riconosciamo come appartenenti ad un
altro io. Prima ancora di ragionare, di entrare nella logica di conoscenza, scatta la
responsabilità. Per levinas non dobbiamo dimenticarci della responsabilità asimmetrica,
che pone le basi delle relazioni. L’altro deve essere davvero un altro rispetto all’io
perchè la relazione sia asimmetrica. Lo sguardo di sartre è qualcosa che ti minaccia,
espressione di una soggettività che ti oggettifica. Il volto di levinas di rende un io invece,
di rende un io responsabile, l’io del non posso, non più l’ipostasi libera. Le direzioni e
gli effetti sono completamente diversi. Il volto di rende un io, non ti soggettifica come lo
sguardo, ma ti rende un io etico, un io responsabile.

11/05
In levinas viene fuori una relazione particolare. La soluzione positiva al problema di non
intendere l’intersoggettività in chiave conoscitiva, è la soluzione etica. Si fonda la
relazione etica sul concetto di responsabilità. La responsabilità è un concetto ovviamente
relazionale. Più della felicità e del dovere. Richiede che ci sia qualcuno a cui si risponde.
È quindi coerente con la centralità di autrui. Il volto di altri che mi costituisce come
soggetto, non come ipostasi, e in più come soggetto etico. Levinas intende alterità nella
sua accezione più forte. Pensare la responsabilità a partire dall’alterità comporta delle
tesi controintuitive. Il soggetto non può non essere responsabile. Intesa così la
responsabilità non è alienabile. È sempre e soltanto mia. La responsabilità, altro caso,
comporta una scelta, ma non si può non scegliere. Il soggetto diventa vincolato. Ancora
più controintuitivo è il rapporto con la conoscenza. Levinas la mette in secondo piano.
Per essere responsabili non dobbiamo conoscere l’altro, perchè l’elemento cognitivo
comporta una luce che rimanda al soggetto solipsistico. Una responsabilità al buio, senza
conoscenza. La responsabilità, inoltre, è del tutto incondizionata, infinita. Sono
responsabile, per esempio, anche del carnefice. È incardinata in modo incondizionato
nella mia soggettività. A partire dall’infinito, che spezza la totalità. La responsabilità è
quindi completamente asimmetrica. Sono responsabile a prescindere da chi sia l’altro, a
prescindere dal contesto, ma anche a prescindere dal fatto che l’altro lo sia a sua volta.
Dato che l’alterità è alter, non abbiamo due termini speculari di responsabilità. C’è un
fondamento irriducibile etico, qualsiasi tipo di giustizia deve comunque farci i conti. Il
nucleo di responsabilità asimmetrico deve essere posto sempre alla base. Ricoeur è più
rassicurante. Risponde alla controintuitività delle tesi di levinas e al loro carattere
estremo. Ricoeur sottolinea alcune cose, da una parte difende un’idea di soggetto diversa
da quella di levinas. Tiene insieme il primato etico del tu e il primato epistemologico
dell’io. Si deve trovare una mediazione tra queste due condizioni, per essere un soggetto
etico responsabile, devo essere precedentemente soggetto. Inoltre devo essere un
soggetto relazionale, non solipsistico. Il soggetto non può non relazionarsi all’altro se
non pensandolo come alter ego, per ricoeur, dando ragione a husserl. Ti riconosco come
un altro perchè penso che tu sia un Io, una prima persona. Ti distinguo dal tavolo perchè
non può pensarsi alla prima persona. Questo per ricoeur è fondamentale. Inoltre nella
relazione etica, la responsabilità base è il riconoscimento reciproco. Questa è la struttura
reciproca. Soggettività, riconoscimento e il rapporto con il tempo. Il tempo è anche per
ricoeur un elemento fondamentale. È un tipo diverso di temporalità rispetto a levinas. È
la storia che ha un rapporto forte. Sia la storia individuale, l’identità narrativa. La storia è
anche uno sfondo collettivo di temporalità in cui si situa la soggettività. Per levinas il
tempo è importante soprattutto nella misura del futuro, per ricoeur è più importante il
passato. Non come qualcosa che ci determina, rimane la costruzione del soggetto. Per
ricoeur il soggetto non è tale se non è un passato che racconta. L’ermeneutica è una sorta
di arte dell’interpretazione, ovvero di fare emerge un significato da una realtà.
Comprendere un significato che è già lì. La spiegazione invece non va a cercare dei
significati immanenti ma dei nessi causali per esempio, sussunzioni sotto leggi.
L’ermeneuta entra dentro i significati che hanno le cose. L’ermeneutica da anche molta
importanza al linguaggio, in senso ampio. Ermeneutica non solo di un testo, ma di ogni
tipo di testo, parlati, scritti, sistemi. La centralità del linguaggio si riversa nel modo in
cui ricoeur lavora. Sostanzialmente ricoeur lavora su linguaggio ordinario e linguaggio
filosofico. Ricoeur è stato uno dei più capaci di unire filosofia continentale e filosofia
analitica. Il dialogo è quindi sia con i continentali che con gli analitici. Ermeneutica,
centralità del linguaggio come ordinario e filosofico, e l’interpretazione di tipo infinito.
La sua interpretazione è mediazione, di linguaggio e di mediazioni. Espone
un’alternativa, una contraria, e poi cerca un punto di sintesi. Non è una mediazione che
vuole risolvere tutti i problemi. È una mediazione incompleta, che trasforma
un’opposizione in un concetto terzo. L’interpretazione è infinita, innanzitutto, e poi
perchè interpretazioni alternative sono anche conviventi. Ricoeur è interessato a lasciare
i percorsi aperti, non vuole stabilire la verità. Preferisce l’emergere dei problemi e delle
contraddizioni, piuttosto che risolverli. Sotto l’etichetta generale dell’ermeneutica,
troviamo riflessioni a partire dalla fenomenologia, ha dialogato con le scienze umane, si
è interessato a problemi della letteratura, della filosofia analitica. 1965 scrive un saggio
su Freud, sull’interpretazione. La psicanalisi è una pratica straordinaria d’interpretazione
dei segni per ricoeur. Questo è un momento di riflessione sulla questione delle filosofie
del soggetto, sulle filosofie cartesiane. Troviamo anche l’idea di Marx, Nietzsche e
Freud come maestri del sospetto, come coloro che hanno messo in questione la trincea
della sicurezza dell’io come soggetto. Portano il dubbio cartesiano dentro il soggetto
cartesiano stesso. La coscienza per loro può essere un luogo di contraffazione della
verità, più che di verità stessa. Quindi questo è un primo grande momento di riflessione
sul soggetto. Successivamente, anche rispetto a forme del linguaggio come la metafora,
viene fuori un’idea d’identità narrativa, nella quale il tempo da cosmologico, della
natura, diventa propriamente umano. Nell’ 81 esce “la scuola della fenomenologia”, fa
un commento per esempio alla quinta meditazione. Nel 90 il se’ come un altro riprende
questi temi. L’introduzione è un po’ una presentazione di tutto il libro, e il decimo studio
ne trae in qualche modo le fila, mantenendo la sua autonomia. Il tema del rapporto io-
altro non è in tutto il libro, parla molto del se’. Questi non sono capitoli, sono, come li
chiama lui, studi, sono in qualche modo assestanti. Come nel caso di husserl e levinas,
queste nascono come conferenze, una serie di lezioni legate da un filo conduttore, ma
con ognuna con un’ambizione di compiutezza. Il libro inizia con un dialogo con la
filosofia analitica: analizza lo statuto dell’io come io parlante. Analizza la prima persona
e riflette sul fatto che si usa più che io la parola se’.  Come se la soggettività dell’io
comporti un movimento di uscita, e di ritorno, perchè il se’ è un pronome riflessivo. È un
io non tutto unitario, è un qualcosa che rimanda a riflessività. Questi sono i primi due
studi. 3 e 4 si concentrano sullo statuto dell’io come soggetto che agisce, agente. Il
dialogo rimane comunque con la filosofia analitica, e le teorie dell’azione. 5 e 6 si
confermano invece sull’io in quanto tale. Le teorie dell’identità. Qui riprende la teoria
dell’identità narrativa. Posto l’io come costruzione di un’identità attraverso il rapporto
con un tempo narrato, 7 8 e 9 passano all’ambiguo della morale. Passano all’io come
soggetto morale a partire dalle riflessioni precedenti. L’idea che il soggetto morale sia
innanzitutto qualcuno che risponde delle stesse leggi che si crea. È un rapporto che ha
sollecitudine del prossimo. Il capitolo 10, si pone allora come provvisoria conclusione,
lo statuto di essere dell’io e dell’altro. Quale statuto, o meglio quali statuti, non
arrivando ad una sola e unitaria definizione. La scrittura di levinas è molto implicita ed
evocativa, sintetica, ricoeur è iper-esplicito. C’è poi un continuo dialogo che ricoeur
instaura con altri filosofi. Non ci sono esempi, ci sono autori della storia della filosofia.
A partire dall’idea che l’esperienza non è mai pura, anche la lettura è un’esperienza.
Troviamo cartesio, Nietzsche, Spinoza, husserl, heidegger, ecc… 

12/05
Nella prefazione introduce i temi, e quindi sviscera lo stesso titolo dell’opera. Si
confronta poi con le filosofie del soggetto, in che modo sono problematiche eccetera. Poi
parla di una terza via, che lui chiama ermeneutica del se’, nell’introduzione ne illustra le
scansioni generali. Ci sono 3 intenzioni dell’io: innanzitutto si riflette sul fatto
dell’identità. Ricoeur non parla alla maniera dei precedenti, parte invece dal linguaggio.
Analizza le forme concettuali depositate nel linguaggio stesso. Ricoeur nota brevemente
che la parola per l’identità non è tanto la parola io, quando piuttosto la parola se’, in
varie lingue. Soi francese, self inglese, se’ italiano. Per ricoeur questo significa che la
soggettività non è tanto una posizione immediata di un io di fronte ad un non io. Il
linguaggio mostra come l’io non sia un dato immediato, ma una costruzione riflessiva
implicita nel pronome riflessivo se’. Il soggetto riflette su se stesso. Si estroflette e
ritorna in se’. Se’ è un pronome riflessivo per qualsiasi persona grammaticale,
presentarsi, chiamarsi, anche all’infinito. La declinazione dell’io si staglia su un più
ampio sfondo di riflessività. Il se’ è in qualche modo diverso dall’io, ed è quasi un
insieme più ampio nel quale posso specificare l’io. Lo sfondo di riflessività del se’, è
fondamentale e obbligatorio per l’io della soggettività. Il se’ comprende l’io, lo include.
Non c’è io senza un se’. Questa era la prima intenzione. Poi, dopo aver posto la
differenza tra io e se’, ci dobbiamo chiedere che cosa sia quell’io/se’. Nella seconda
intenzione ricoeur distingue due significati: in identità confluiscono due concetti diversi,
che posteriormente posso collegare, ma che devo in un primo momento distinguere. Il
concetto d’identico esige di due momenti diversi. Posso dire che la cattedra è identica se
ieri la vedo così e oggi pure. Per stabilire una relazione di identicità devo poter comprare
due istanze in due momenti diversi. Ho stabilito una relazione e con un oggetto dato A in
un certo momento del tempo con un oggetto a dato in un momento diverso del tempo
trasportando delle caratteristiche. L’uguale dell’identità è fatto da un t1 e un t2. Per
stabilire identità devo selezionare le caratteristiche fondamentali che mi fanno
riconoscere una cosa con la medesima. Identità è quindi correlazione di due enti
attraverso una proprietà fondamentale, ovvero una fondamentale permanenza del tempo.
In latino la distinzione s’indica con il pronome idem. Questo però non è l’unica
accezione dell’identità. L’altro tipo d’identità è quella di quando riferisco l’identità ad
enti caratterizzati da un senso di medesimezza di cui si fanno carico. Se pensiamo
all’identità in termini di essere se stessi, pensiamo ad un ipse. Il contrario di idem sarà
variabile, ovvero di non permanenza del tempo, che muta le sue proprietà. Il nucleo di
significato di ipse non implica l’asserzione di un qualcosa di immutabile nella
personalità. L’essere in persona, l’essere se stessi, non comporta che ci sia anche un
idem. Schiacciare l’essere in persona e l’identità su se stessi, e quindi sulla permanenza
del tempo, è un errore metodologico. Il tavolo sarà un idem, ma non un ipse. Ci possono
essere enti che sono ipse, ma non sono idem. C’è un ipse che va tenuto separato
dall’idem. Quindi: l’io va innanzitutto distinto dal se’, e che il self è più comprensivo ed
include l’io. Poi si parla delle differenze dell’ipse e dell’idem, e del fatto che non
debbano essere schiacciati. Il se’ come ipse è essere un se’ in persona, un proprio lui. Un
legame tra il se’ nel tempo, per poter dire ipse, ci deve però comunque essere. Nell’ipse
rimane infatti ancora il senso del se stesso. Quindi ci deve essere un legame, altrimenti
l’ipse si spezzerebbe in milioni di momenti. Una qualche forma di idem dovrà quindi
rimanere nell’ipse, anche se non lo costituirà. La terza intenzione è la dialettica tra se’ ed
altro. Non nel senso della somiglianza. È una relazione intima. È il se’ stesso in quanto
altro. Dire che se’ stesso è come un altro significa dire che c’è una forma di attestazione
di uno statuto che dipende fortemente da una dimensione di alterità. Enuclea due lati del
problema, due atteggiamenti diversi: di esaltazione del punto di vista dell’io, e di
umiliazione. Da una parte c’è un cogito che si afferma e si autopropone come nucleo
fondamentale ( husserl sulla scorta di cartesio), dall’altra il cogito spezzato (Nietzsche).
L’esigenza di spodestare l’io, però, nasce dal fatto che l’io è stato messo sul trono. Sono
quindi questi due lati della stessa medaglia. Anche le filosofie dell’anti-soggetto sono
filosofie del soggetto in realtà. Ricoeur mette in luce il fatto che l’io di cartesio afferma
se stesso come pietra di fondamento della filosofia, resistente al dubbio, ma che non
riesce più ad uscire da se stesso. Dopo la prima verità di se stesso non riesce più ad
averne altre. La filosofia del soggetto di cartesio non è affatto un trionfo dell’io, pone la
sua forza ma anche la sua estrema fragilità. Il soggetto si afferma come grande principio
di autonomia e di libertà, ma anche di ombre e di immobilità. Se è fondamento non può
uscire da se’, se vuole uscire da se’ non può essere fondamento. Ci sono poi dimensioni
nelle quali si prende atto della non consistenza dell’io, come in spinoza, che rinuncia alla
centralità del soggetto, e poi la filosofia che si sviluppa sul nucleo cartesiano. L’io
kantiano è senza psiche, senza storia e responsabilità. È privato di ogni sostanzialità.
S’inserisce il movimento critico dell’io spezzato, quello di Nietzsche, che fa emergere
un problema che già esisteva. Evidenziano l’altro lato della medaglia. Si deve trovare
un’altra posizione rispetto all’io, in particolare attraverso un programma di un
ermeneutica del se’. Mentre le filosofie del soggetto, puntavano su una dimensione
principale, lo scopo dell’ermeneutica è quello di fare emergere una pluralità.
L’ermeneutica non parte dalla presupposizione che il cogito è un qualcosa di semplice, si
proporrà di mettere in discussione la presunta semplicità del soggetto, senza però
arrivare ad una pluralità complessa e disorganizzata. Dalla semplicità del cogito, nel
quale non esiste mediazione e discorso, si passa all’articolazione disorganizzata. L’Unità
deve essere analogica, insieme di significati tenuti tra di loro non per univocità, ma
neanche per assoluta equivocità, bensì per l’appunto per analogia. Le filosofie del
soggetto, sulla semplicità e sulla fondazione ontologica del cogito, associavano una
modalità logica, ovvero la sua assoluta certezza, l’indubitabilità. Per coerenza, il se’ non
potrà contare su una assoluta certezza. Non è una forma di scetticismo, si dovrà cercare
un modo di affermare la propria ipseità, con una qualche forma di fiducia. Questa viene
chiamata modalità dell’attestazione. Il soggetto, più che essere sicuro di se’, attesta di se
stesso. L’attestazione è sicuramente meno certa di quella del cogito, ma è anche più ricca
di contenuti rispetto a quello puro ego existo.

13/05
L’io il se’, con la riflessività dell’io, il se’ articolato in una duplicità semantica di idem
ed ipse, uno irriducibile all’altro, e poi la dialettica del se’ con l’altro. Confronto delle
filosofie del soggetto con la loro doppia faccia, del cogito posto, e del cogito spezzato.
Ermeneutica del se’, come alternativa, come via di mezzo alternativa. L’ermeneutica si
differenzia perchè rinuncia da subito alla semplicità del soggetto. Rinuncia alla
fondamentalità e all’univocità dell’io, negando la possibilità di fondare un edificio su un
terreno che in realtà è plurale dall’inizio. Il cogito ambisce a certezza, il se’ come un
altro no. Non naufraga nell’indefinito e nell’incerto negativo, ha una sua modalità di
affidabilità, ovvero quella di attestazione. È un’affermazione di se’ senza pretese di
certezza incrollabile. Ricoeur sottolinea che l’io acquista delle cose, ma si tira fuori da
quel mondo dubbio. Il corpo, i tratti, la fisionomia, la personalità stanno dentro quel
mondo che il dubbio cartesiano ha annebbiato. Non ho un corpo nella misura in cui ho
un cogito. Il cogito non è nessuno, non ha un’identità narrativa di persona concreta. Il
prezzo da pagare per la certezza apodittica del cogito, è lo svuotamento di una serie di
caratteristiche dell’identità personale. Cos’è l’identità narrativa personale concreta? Il
tema dell’identità narrativa si associa programmaticamente alla questione della
temporalità. Una delle cose che il cogito lascia fuori per affermarsi con tale certezza, è il
tempo. La certezza del cogito è limitata all’istante in cui penso, non è estendibile. Il
cogito è un punto, privo di ombre e luminosissimo, ma soltanto un punto. L’io garantisce
una qualità epistemica dell’idee, ovvero la loro chiarezza, e la loro verità. La verità
istantanea del cogito si proietta sull’eterno presente. Il tempo sta fuori da questa filosofia
del soggetto, non si riesce a cogliere un rapporto tra ego e tempo, se non in questo eterno
presente. Ricoeur lavora per reintegrare la temporalità all’interno dell’io. Il nesso
soggetto-temporalità deve essere più ricco, rispetto a quello precedente. L’identità
narrativa risponde a questa esigenza. Il tempo, però, è il veicolo con cui l’altro entra in
relazione con l’io. Rinuncia all’illusione di una compattezza interna, tramite il tempo. Il
tempo comporta mutamento, quindi comporta diversità nella certezza cartesiana. Ma
questa diversità non distrugge l’identità, che si mantiene attraverso il tempo e il
cambiamento. Identico è un concetto esigente, sembra escludere il diverso. L’identità
narrativa si propone d’inserire il tempo nell’io senza perdere l’identità. Idem e ipse sono
due versanti dell’identità, entrambi legittimi. Uno batte sulla continuità temporale, l’altro
sull’ipseità del proprio io in persona. L’ipse può fare a meno della permanenza del
tempo? Questa sarebbe una tesi un po’ paradossale, ma anche falsa. Anche l’ipseità
stabilisce una sorta di nesso temporale. Anche nella stessa espressione soi meme la
concezione dell’ipse deve tenere conto di una qualche temporalità, non ai livelli
dell’idem. Posso dire che una persona è la stessa nel tempo perchè ha una forma di
personalità resistente al cambiamento e alle vicissitudini della vita. Quando diciamo così
facciamo riferimento anche ad un ipseità, che individua una temporalità. Il carattere è
quel tipo di caratterizzazione dell’ipseità in cui riaffiora in modo forte un elemento di
idem all’interno dell’ipse. Nel carattere idem e ipse tendono a sovrapporsi. Per Freud,
ognuno di noi è nevrotico nella misura in cui protegge la fragilità del nostro io con delle
mura, che da una parte riescono a proteggere l’io stesso ma dall’altro resistenza rispetto
al mutamento. Quando la nevrosi è troppo forti si arriva alla ripetizione degli stessi
approcci di fronte a circostanze che ne richiederebbero altri. C’è poi un’altra modalità,
quella della promessa. In che senso quando prometto qualcosa penso me stesso come un
se’ che rimane nel tempo? Quando prometto qualcosa, la promessa porta con se’
ovviamente la temporalità, non è vincolata alla validità del momento presente. C’è un
futuro interno. Io come soggetto mi faccio carico della mia azione futura. Per Nietzsche
esprimere una volontà del futuro. Vincolare me stesso al futuro. La promessa di per se’
ci presenta una forma di permanenza che somiglia e si svincola rispetto a quella del
carattere. All’interno dell’idem non dobbiamo promettere niente, il carattere porta con
se’ la temporalità. Perchè senti la necessità di fare promesse? Su una certa cosa specifica
non cambierò, ma il mio carattere può tranquillamente cambiare. Posso essere
completamente un’altra persona. Ma se prometto, su quella singola determinazione della
volontà, farò questo. Se riposa la mia continuità del tempo sull’identità del carattere non
ho bisogno di promettere niente. Se emerge l’esistenza di formalizzare la promessa ci
sono dei motivi fondati di pensare che cambierà la volontà. La promessa tiene stretto
qualcosa che è minacciato dal tempo. La promessa è una sfida al tempo, una negazione
del cambiamento. La promessa è un peso, un’impegno che richiede forza. Comporta
anche una dimensione di relazione con l’altro, comporta quindi una moralità, anche se
prometto a me stesso, significa quasi sdoppiarsi. La promessa comporta un’assunzione di
responsabilità legata all’elemento temporale. Il tempo diventa un medium rispetto a cui
si costruisce una permanenza diversa dalla fissità del carattere, quindi dell’ipse, e non
dell’idem. Anzi la promessa vale proprio perchè non si appoggia sull’idem, sul carattere,
che senza ombra di dubbio cambierà. Quando prometti, stai già predelineando
un’identità nel tempo, anche se non manterrai la promessa. Non c’è bisogno di sapere
conoscitivamente (levinas), se la promessa verrà o no mantenuta. L’identità narrativa
viene fuori qui come terza via. Nel caso del carattere abbiamo un ipse che si riduce
all’idem, il carattere è reificazione, è l’in se’ all’interno del per se’, è il “cosa del chi”.
Nel caso della promessa siamo all’estremo opposto, è un chi senza cosa, che può fare a
meno della medesimezza. L’identità narrativa è quel modo di costruire un’identità
attraverso la costruzione di una storia. Conoscere una persona, significa conoscere la sua
storia il suo passato. Pensiamo per storie, ma anche ci pensiamo per storie. Conoscere
l’identità di un soggetto non è soltanto la fissità di un carattere astorico. Non è soltanto il
filo tenue di una premessa che stringe un legame che spezza in qualche modo la linearità
del tempo. Il pensarci per storia si fa carico di quella temporalità con tutto il suo
spessore, con tutto quello che sta dentro. Però, la storia è una storia narrata, raccontata. Il
carattere diventa personaggio. Nella costruzione narrativa dell’identità ci si fa carico del
tempo, la permanenza è permeabile del tempo e dei cambiamenti. Il cambiamento non è
più minaccia dell’io, il cambiamento è l’io. Diventa parte costituiva di ciò che noi siamo.
Si aggiunge come una dimensione ulteriore che arricchisce il panorama concettuale.
Insistere sulla narrazione, significa fare accostamento tra filosofia e narrativa, ma
soprattutto un elemento di finzionalità nella nostra storia. Non è importante una presunta
storia oggettiva, è piuttosto un racconto biografico che non deve tener conto della totalità
dei fenomeni del passato. Acquisisco momenti, costruisco storia, sulla base di momenti
che hanno un senso per la mia identità. La mia identità narrativa mi pone come un
personaggio di finzione in qualche modo. Mi modello, mi costruisco un io. C’è parentela
nell’identità narrativa tra l’elemento storia e l’elemento finzione. Siamo personaggi di un
romanzo. Carattere, promesse, esistono, ma esiste anche il racconto. Idem e ipse si
allacciano. Finzione è quindi anche relazione con un’alterità, m’immagino come altro. 

19/05
È emerso il confronto con la riflessione delle filosofie del soggetto, il lavoro
metodologico in particolare del concetto di se’, dividendo dimensioni e piani del
significato. Emerge poi il confronto tra l’identità e l’alterità, in particolare sviluppata
nello studio decimo del libro. L’identità narrativa emerge nel rapporto tra idem ed ipse, e
nel rapporto della loro complessità prendendo come baricentro l’ipse. Il carattere è più
chiaramente un’idem, una permanenza nel tempo, della sua non modificabilità. Nella
promessa la continuità è invece tutta a carico dell’ipse. Nell’identità narrativa si prova a
trovare uno spazio tra le due dimensioni. La promessa mantenuta nega in qualche modo
lo scorrere del tempo, distruggendo il tempo nel mezzo, l’identità dell’idem lo distrugge
completamente. L’identità narrativa prova a colmare questo vuoto, per prendere sul serio
il decorso temporale. L’io è tale perchè è ed ha una storia, in particolare una storia
narrata. Gli studi nel mezzo analizzano eticamente il rapporto se’-altri. Il decimo fa un
po’ il bilancio della situazione e lascia comunque delle strade aperte. Nel decimo studio
non si parla più tanto del significato della parola se’, è il vero è proprio essere quello che
viene analizzato. Ricoeur si cimenta anche in ermeneutica densa in altre teorie
filosofiche, aristotele, heidegger. Che tipo di essere sono il se’ e l’altro? Ci sono tre
livelli: l’io se’, l’ipse idem, ipseità alterità. Ricoeur parla del concetto di attestazione a
cui aveva alluso nell’introduzione. Le posizioni speculari erano cartesio e Nietzsche.
L’io posto di cartesio e l’io spezzato di Nietzsche. Ricoeur vuole evitare la
frantumazione dell’io, senza arrivare però alla res cogitans e all’idea del’ soggetto come
fondazione. L’attestazione è un atto linguistico. Attestare non significa asserire
dimostrativamente, apoditticamente. Attestare ha a che fare col testimoniare. Si
testimonia del fatto che c’è un’identità di qualche tipo. Instaura anzi una relazione di
fiducia, di relazionalità. Il cogito ergo sum non richiede fiducia da parte di chi ascolta
l’attestazione. Il cogito infondo non è nessuno, è l’affermazione di un io che si è
spogliato di ogni tipo di caratteristiche personali. È un ego anonimo e impersonale, non
ha una storia, responsabilità, memoria. È un ego senza carta d’identità. L’attestazione è
diversa, anche se si accontenta di un impegno ontologico minore, pesca in maniera forte
sulla dimensione di ipseità. Sono proprio io in quanto storia, ricordi, azioni.
L’attestazione comporta una credenza, non una certezza. È un credere in, piuttosto che
un credere che. È un credere in qualcuno. L’attestazione parla dell’ipseità nella
soggettività più peculiare. Credere in qualcuno, significa farlo a prescindere dalle sue
azioni. Non è un’asserzione che va a pescare sulla datità oggettiva dell’identità che ho di
fronte. La credenza appunto investe direttamente l’ipseità del soggetto. L’attestazione
richiama come suo complemento il sospetto. La necessità dell’attestazione nasce da un
potenziale sospetto dell’ipseità degli altri. Il soggetto rimane comunque in piedi, non
viene distrutto come in Nietzsche ma neanche reso insospettabile come in cartesio.
L’attestare non è un’affermazione che si conclude in un risultato, in una dimostrazione.
Aristotele heidegger e spinoza servono a ricoeur a fare emergere una cosa, il soggetto
che agisce ha un aspetto di centralità, è un nucleo di identità, ma non è autoreferenziale,
non si consuma dentro se stesso. C’è centralità del soggetto come movente, ma c’è anche
uno sfondo che rende possibile ciò, che non è soltanto del soggetto. Un conto è produrre
qualcosa, un conto è soccorrere qualcuno, queste sono le differenze che ricoeur prende in
prestito da i concetti di praxis e poeisis. Soccorrere è una praxis, che struttura
immediatamente il soggetto come soggetto morale. Potenzia e atto della praxis, non sono
esclusivi dell’azione umana, fanno parte dello sfondo di ciò che fa il soggetto. Nel
soggetto che agisce c’è un’identità che si afferma nella praxis, ma anche il
riconoscimento che la praxis fa parte di dinamiche di mutamento che non sono umane
strettamente. Il soggetto è definito, ma anche decentrato. Il conatus, ugualmente
centralizza e decentralizza, nella misura che è di Dio ed è di tutti. Non c’è alcuna
centralità peculiare di me in quanto soggetto che agisce. Il massimo sviluppo del
conatus, in spinoza, coincide anche con la conoscenza adeguata della mia dipendenza da
tutto il resto. Il conatus è tanto più pieno, quanto più capisce che non è il centro di tutto.
Per ricoeur, è il riconoscimento di una relazione di alterità. Dal qui emerge la necessità
dell’altro. Emerge la dialettica inscindibile ipse-alter. Sposta ora la sua attenzione sul
concetto di alterità: in che maniera è una componente essenziale dell’ipseità? Cerca di
far emergere fortemente il carattere polisemico dell’alterità, ovvero la pluralità di
significati. I tre precedenti, delineavano un senso dell’alterità molto preciso, alter-ego di
husserl, l’essere per altri di sartre, autrui di levinas. Lo sforzo era dire precisamente ciò
che è l’altro. Ricoeur prova a mostrare tutto ciò che è l’altro, senza sistematizzarli.
L’alterità è un concetto molto ricco. Il segno di riconoscimento dell’alterità, è di sentirsi
in passività. Il soggetto trova un elemento che resiste alla sua soggettività. In heidegger
non c’è tanto relazione di fiducia reciproca, c’è soltanto un essere uno accanto a l’altro.
Anche qua viene fuori un qualcosa di sofferenza, nel rapporto di passività con l’altro. Il
soggetto agente agisce e patisce, sono due versanti della stessa dimensione esistenziale.
Il corpo proprio è allo stesso tempo uno strumento che mi permette di agire e un vincolo
che mi permette di agire. La prima esperienza che si fa con l’alterità si fa con il nostro
proprio corpo. Per Maine de biran il senso principale dell’intersoggettività è tatto, non la
vista. Il tatto ci da’ delle informazioni sul mondo solo se incontra una resistenza, un
corpo. La vista non è così. Il tatto trova e si scontra con un altro corpo. Ricoeur prova a
tenere insieme l’approccio di husserl e quello di levinas. Il primo che parte dall’ego e
percepisce l’altro come alter-ego, il secondo che percorre il percorso opposto. Husserl è
riuscito a ridurre l’abisso che separava l’io dall’altro, l’irraggiungibile di cartesio.
Husserl con l’intenzionalità ha stabilito una possibilità di collegamento e di mediazione
giocata su prossimità e distanza, somiglianze e differenze. Tra ego e alter-ego c’è
somiglianza, però c’è quell’alter che rende i punti di vista mai sovrapponibili. C’è quindi
un primato gnoseologico dell’io, insegnato da husserl. Si parte dall’io per conoscere
l’altro. Per ricoeur hanno sbagliato husserl e levinas a pensare che la loro posizione fosse
l’unica giusta. Levinas, secondo ricoeur, ha concepito autrui in maniera così forte e
paradossale, perchè dipende da un’assunzione primaria discutibile: il pensare l’identità
in maniera altrettanto radicale e ingiustificata. Levinas era partito dall’il y a. L’ipostasi
doveva infatti essere una totalità chiusa che spezzava l’anonimato. La totalità
dell’ipostasi doveva poi essere spezzata da qualcos’altro a sua volta. Non era necessario
per ricoeur concepire quell’io come totalità. La totalità è stata costruita in maniera
sbagliata e ingiustificata per ricoeur. L’essere non è totalità fino dall’inizio, è varietà, è
polisemia, differenza. Levinas esagera perchè fin dall’inizio ha usato l’iperbole. Serve
un’altra concezione dell’io, più che dell’altro. Sulla coscienza per ricoeur bisogna
sempre leggere Nietzsche e la genealogia della morale. Gli agnelli che imputano agli
uccelli rapaci una cattiveria, che loro non capiscono, che seguono la loro natura. C’è
un’impulso vitale, rispetto a cui ogni giudizio morale non aggancia la realtà. Poi in realtà
gli agnelli dicono che gli uccelli avrebbero potuto bloccare la loro volontà, come lo
fanno loro nei loro confronti. L’interiorità è quindi un’invenzione. Rispetto alla
coscienza c’è quindi sempre un sospetto nietszchiano di falsa coscienza. Ricoeur cerca
anche qui una via di mezzo che tenga conto del sospetto nietszchiano. Dobbiamo
rinunciare ad affermare la coscienza morale senza dimostrazioni. Una coscienza morale
costruita, la parola degli antenati che risuona nella mia testa. Viene recuperato anche
levinas, l’alterità è la relazione data dal volto di altri. La coscienza non si da’ senza
spiegazione, dipende dalla relazione con un’alterità. Può essere la voce degli antenati
alla Freud, L’autrui e il disagio del volto alla levinas. Levinas viene unito all’attestazione
di me. Non dobbiamo sciogliere questa relazione tra attestazione ed ingiunzione. Senza
l’ingiunzione levinasiana l’identità non si regge da sola, però l’ingiunzione funziona
soltanto se c’è un se’ che si attesta autonomamente. L’attestazione a sua volta richiama
un elemento d’ingiunzione. Ricoeur non vuole scegliere, lo fa consapevolmente. Il
filosofo non può che confessare che non sa. Sull’aporia dell’altro il discorso filosofico si
arresta. La nozione di alterità stessa, proprio perchè è alterità non può mai fermarsi in
qualcosa di identico. 

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