Sei sulla pagina 1di 21

ETICA SMARRITA DELLA LIBERAZIONE

CAPITOLO 1: IDENTITA’ E RELAZIONI


La donna come altro
“Avevo freddo e sudavo; avevo paura. Qualcuno stava per avvelenarmi: Ero io, e non ero più io. Stringevo la fiala. Ho sollevato la testa,
ho guardato i muri con ebetudine; tenevo la fiala in mano, la camera era vuota, ma non ero più sola: entreranno in camera: io non vedrò
niente, ma loro mi vedranno. Come non ci ho pensato? È strano, io morirò sola, ma la mia morte saranno gli altri a viverla. Son rimasta a
lungo davanti allo specchio guardando il viso di sopravvissuta.
Così Annie, né I Mandarini, abbandona il suo desiderio di suicidio, strappata alla morte dalla relazione con i vivi. Era sola davanti alla
morte, ma nel rappresentarla nega la solitudine radicale rivelandola come finzione. Anne è viva, parla a sé stessa, e nel parlarsi usa quella
rete simbolica che è il linguaggio.
Comprendere è dare parola e dare parola significa comprendere. Ma proprio la parola precede l’uso che ne facciamo, è ricevuta e dice,
già essa sola, della relazione con gli altri. Osserva Bergson che anche se volessimo isolarci assolutamente dalla società, non potremmo
perché la nostra memoria e la nostra immaginazione vivono di ciò che la società vi ha immesso, perché l’anima della società è
immanente al linguaggio che parliamo e perché anche se non facciamo che pensare, parliamo ancora a noi stessi.
La relazione con l’altro è insomma ineludibile, ma bisogna comprendere in quali termini è data.
Alterità come contrapposizione
La categoria filosofica centrale di Sartre che qui ci interessa richiamare è quella del rapporto tra l’in-sé e il per-sé. Il primo si riferisce
all’essere opaco delle cose, mentre il per-sé designa la coscienza, ossia quella realtà che, essendo dotata di coscienza, non coincide con
sé stessa. “Non vi è nell’in-sé alcuna particella d’essere che sia distante da sé. Non vi è nell’essere così concepito il minimo indizio di
dualità. È la pienezza”. L’essere della coscienza consiste nell’esistere a distanza da sé stesso come presenza a sé stesso. A partire da
questa ontologia, Sartre imposta il problema dell’altro – ovvero il rapporto con un altro per-sé.
Si tratta del problema di superare il solipsismo che non è mai stato preso sul serio dai filosofi realisti ed è rimasto tema irresolubile per
gli idealisti. La percezione dell’altro come soggetto presuppone sempre una sorta di relazione con la coscienza del prossimo che appare
primariamente come un soggetto e che riduce il proprio io ad un oggetto. “Ciò a cui si riferisce la mia percezione d’altri nel mondo è la
mia possibilità permanente di essere-visto-da-lui, cioè la possibilità permanente per un soggetto che mi vede di sostituirsi all’oggetto
visto da me. “Lo sguardo è prima di tutto un intermediario che mi rimanda da me a me stesso” poiché “si tratta del mio essere quale si
determina in e per mezzo della libertà d’altri. È come se avessi una dimensione d’essere dalla quale fossi separato da un nulla radicale: e
questo nulla, è la libertà d’altri; altri deve far essere il mio essere-per-lui in quanto deve essere il suo essere, così ogni mio libero
comportamento mi impegna in un nuovo ambiente, dove la materia del mio essere è l’imprevedibile libertà di un altro”. Lo sguardo
dell’altro aliena dalle proprie possibilità, ma proprio questo percepirsi come oggetto fa sì che ci si sottragga al prossimo recuperandosi.
È sullo sfondo di questa prospettiva che si colloca la relazione con l’altro da sé secondo Simone de Beauvoir, un rapporto che si staglia
su un orizzonte in cui la relazionalità appare originariamente di tipo dialettico-conflittuale. In questo senso l’opposizione uomo-donna
non presenta alcuna peculiarità, apparendo piuttosto come un esempio di un’universale disposizione contrappostiva che interessa tutti,
dai singoli uomini alle nazioni.
“Si capisce che la dualità, come ogni dualità, si sia tradotta in conflitto”, troviamo nelle pagine introduttive de Il secondo sesso. Basta
che tre persone si trovino casualmente riunite nello scompartimento di un treno perché ciascuno consideri con una sottile ostilità gli altri.
Allo stesso modo il contadino in viaggio si accorge che gli abitanti dei villaggi vicini lo guardano a loro volta come uno straniero,
svelando così come l’alterità non sia assoluta, ma relativa. Questi fenomeni non si capirebbero se la realtà umana fosse esclusivamente
un Mitsein basato sulla solidarietà e l’amicizia. Si spiegano invece se si scopre nella coscienza stessa una fondamentale ostilità di fronte
ad ogni altra coscienza; il soggetto si pone solo opponendosi: vuole affermarsi come essenziale e costituire l’altro in “inessenziale”, in
oggetto. La dialettica hegeliana implica sempre un’opposizione tra la tesi e l’antitesi: è l’opposizione che provoca il movimento
dialettico, perché anche la sintesi diventa poi momento positivo di una nuova opposizione.
Nei testi della De Beauvoir troviamo che questo movimento dialettico racchiude un’ineliminabile ambiguità, perché se è vero che le
coscienze lottano le une contro le altre per affermare la loro essenzialità, hanno allo stesso tempo bisogno le une delle altre per svelare il
mondo e per potersi riconoscere come trascendenze. “L’altro “osserva, “mi sottrae incessantemente il mondo intero, per cui il primo
movimento è di odiarlo. Ma questo odio è ingenuo e se i fossi veramente tutto, non vi sarebbe nulla attorno a me, il mondo sarebbe
vuoto, non vi sarebbe più nulla da possedere e io stesso non sarei nulla. Il giovane di buona volontà comprende presto che l’altro,
sottraendogli il mondo, al tempo stesso glielo dona, giacché una cosa non gli è data se non attraverso il movimento che la separa da lui”.
L’altro, confermando il suo senso e cogliendoci come oggetti del suo mondo, ci sottrae costantemente il nostro mondo, che cessa di
coincidere con quel senso e quel punto di vista assoluto che aveva prima dell’incontro con l’altro, ma al tempo stesso è proprio la
presenza di una coscienza che conferisce significati che in qualche modo restituisce un mondo, appunto, significante, umano. Questa
ambiguità emerge con ancora maggior chiarezza nell’esigenza del riconoscimento. Il possesso o qualunque tipo di relazione che possa
esserci tra l’essere umano e le cose di cui si serve, non è sufficiente per confermare la sua trascendenza. Un attore cerca gli applausi del
pubblico, ma non si accontenterebbe di applausi registrati, né di persone pagate per lodarlo. Com’è ovvio non è la materialità delle grida
“bravo” che lo confermano come attore, ma il giudizio libero delle altre coscienze.
Se nella relazione, l’altro fosse sempre e radicalmente oggettificato, ridotto a cosa, la coscienza non potrebbe mai ricevere questa
conferma. Tale dinamica è così fondamentale che perfino nelle più abbiette pratiche sadiche, in cui sembra più estrema la riduzione
dell’altro ad oggetto, l’aguzzino cerca in fondo la presenza di un’altra coscienza.
“Affinché nelle sofferenze inflitte divenga anch’io carne e sangue, bisogna che nella passività dell’altro io riconosca la mia propria
condizione, e che quindi la abitino una libertà e una coscienza. Il libertino sarebbe proprio da compatire se agisse su un oggetto inerme
che non sentisse nulla. Nella sua rivolta l’oggetto torturato si afferma come mio simile e io raggiungo, grazie alla sua mediazione quella
sintesi dello spirito e della carne che si era in un primo momento negata”.
Per la Beauvoir è anche possibile mantenere opposizione ed alterità. È vero che gli altri sono dialetticamente opposti a sé, ma al
contempo sono percepiti anche come potenziali collaboratori della propria libertà. La libertà richiede un futuro che può essere aperto
solo da altre coscienze. Se da un lato lo sguardo altrui minaccia sempre di ridurre il soggetto ad oggetto, dall’altro senza la conferma di
altri, i nostri atti si riducono a fatti opachi.
Radicale ambiguità dell’individuo umano che oggettiva l’altro e al tempo stesso lo mantiene come coscienza per confermare sé stesso.
In questo punto di intersezione, annullamento dell’altro e della conservazione della sua trascendenza, è possibile cogliere la specificità
della dialettica uomo-donna.
Il secondo sesso si propone proprio di mettere a fuoco come questa ambiguità della coscienza abbia storicamente acquisito, nel rapporto
tra i sessi un dinamismo peculiare.
Nella lotta servo padrone il servo si sottomette per non perdere totalmente sé stesso, ma poi riconquista sé e la propria indipendenza
attraverso il lavoro.
La donna, sostiene la De Beauvoir, non ha mai opposto all’uomo una speculare pretesa di riconoscimento, E’ quello che determina la tesi
di tutto il secondo sesso, perché è anche a partire da questa asimmetria che la donna è concepita come Altro.
Genderizzazione dell’alterità
Il movimento dialettico che si instaura nell’incontro con qualcuno che ha la pretesa di non essere un fatto opaco, ma una coscienza, una
fonte di senso sul mondo, mette in crisi la granitica sicurezza del soggetto, il suo essere prospettiva a partire dalla quale si costituisce un
mondo propriamente umano.
Ne Il secondo sesso la De Beauvoir fa un passo importante che segna la sua più grande fortuna nel mondo del movimento femminista e,
successivamente, nell’ambito dei women’s studies. La dialettica tra le coscienze individuali viene infatti trasferita alla dialettica tra gli
uomini e le donne presi non come individui, ma in quanto appartenenti ad un genere.
La dialettica del riconoscimento, con i suoi vincitori ed i suoi sconfitti, si radicalizza generalmente in una visione dell’altro in quanto
donna e in quanto uomo, con tutte le strutture e le aspettative sociali nei confronti dei due sessi. La contrapposizione si sposta dunque ad
un livello che trascende quello del concreto individuo, di questo uomo e di questa donna, anche se poi si manifesta comunque sempre
nella storia e nelle relazioni di persone singolari.
La relazione è ineliminabile; più concretamente ancora, è ineliminabile la relazione tra i due sessi. La coppia è una unità fondamentale le
cui metà sono connesse indissolubilmente l’una all’altra. Nessuna frattura della società in sessi è possibile. Eco ciò che essenzialmente
definisce la donna: essa è altro nel seno di una totalità, in cui due termini sono indispensabili l’uno per l’altro.
L’opposizione che “non è stata infranta” all’interno di questo originario essere-insieme trova la sua peculiarità nella fissità del ruolo di
Altro della donna.
Quello che la De Beauvoir nel suo testo sostiene a più riprese è che in questo peculiare movimento dialettico tra i sessi, gli uomini
trovano nelle donne una complicità che nessun oppressore ha mai trovato tra le sue vittime.
In questo caso la vita dell’uomo non è in questione e la donna non rischia mai veramente tutto, assumendo essa stessa il ruolo dell’altro,
concependosi in relazione all’uomo. La donna appare come inessenziale che non torna mai ad essenziale, non facendosi mai
autenticamente soggetto.
Quanta malafede si gioca in questa opposizione? Ad un primo livello troviamo una malafede che deriva da quello che potremmo definire
come un colpevole errore ermeneutico. Si tratta di una sorta di circolo vizioso per cui “quando un individuo o un gruppo di individui è
tenuto in condizioni di inferiorità, esso è di fatto inferiore; ma bisognerebbe intendersi sul valore del verbo essere. La malafede consiste
nell’attribuirgli un significato sostanziale, mentre ha il senso dinamico hegeliano: “essere” è essere diventato, è essere stato fatto nel
modo che ci si manifesta; sì, le donne nell’insieme sono oggi inferiori agli uomini, cioè vivono in una situazione che apre loro minori
possibilità: il problema è di sapere se questo stato di cose deve perpetuarsi.
Ad un secondo livello invece c’è la malafede di coloro che interpretano coscientemente il ruolo dell’inessenziale. In generale rinunciare
ad essere Altro, rifiutare la complicità con l’uomo significherebbe rinunciare a tutti i vantaggi che porta l’alleanza con la “casta
superiore”. Da un lato la donna non ha i mezzi per rivendicare sé stessa come oggetto, dall’altra si compiace nella parte dell’altro. Tale
accettazione diventa da parte sua malafede quando il livello culturale che ha raggiunto le permetterebbe di assumere la trascendenza
della sua esistenza: si tratta in questo caso della volontaria rinuncia alla libertà e dell’accettazione del dominio.
Il fatto che questo antagonismo veda come contrapposti i due generi, sottolinea più profondamente la radicalità dell’oppressione ma non
coglie ancora la drammaticità che la De Beauvoir vi scorge.
Il punto è che non è in gioco soltanto il ruolo sociale della donna, ma la stessa vera identità di ogni singola donna. L’identità è decisa da
coscienza e nello scontro l’esistenza altrui e il suo sguardo sul mondo dice del significato e della propria identità.
Nell’intreccio dei rapporti amorosi “aperti” che la De Beauvoir cerca di descrivere come pienamente accettabili ed onesti,
improvvisamente nasce un ostacolo quando uno dei personaggi, peraltro meschinamente egoista, pretende nei suoi confronti l’esclusività
e si sente tradito da questo ménage a più voci.
Innocenza o colpevolezza non appartengono all’atto in sé, ma sono il risultato di uno sguardo di una coscienza che interpreta quell’atto.
Non possiamo essere ciò che vogliamo essere se una coscienza estranea ci vede diversamente. In questa prospettiva, la sottomissione
della donna all’uomo veicola la perdita della propria identità. Occorre combattersi e scegliersi. La conseguenza di questa opposizione
radicale è la solitudine, con il suo carico assoluto e ingiudicabile di responsabilità.
Ma chi è, dunque, la donna? Non è un uomo, ma come l’uomo è un essere umano. Tuttavia questa rimane un’affermazione astratta, in
quanto ogni essere umano concreto ha sempre la sua particolare situazione. Da un lato nega l’esistenza di una sorta di universale
“femminilità”, perché esistono solo singole donne, dall’altra le indica, appunto, come donne, riconoscendone i tratti comuni.
È a partire dall’uomo, il maschio, che si definisce l’essere umano ed in seconda battuta ci si chiede chi sia la donna.
L’essere umano è coscienza, apertura e trascendenza: è un soggetto che rompe l’opacità dell’immanenza del suo essere gettato nel
mondo. A partire da questo, se si considera che l’uomo (maschio) sia l’essere umano, allora nel cogliere le determinazioni della donna si
parte dalla coscienza dell’uomo: questi, soggetto, si trova di fronte a sé qualcosa che non è lui. Ecco perché “La donna si determina e si
differenzia in relazione all’uomo, non l’uomo in relazione a lei.; è l’inessenziale di fronte all’essenziale. Egli è il Soggetto, l’Assoluto:
lei è Altro”.
Ben si spiega quanto stiamo dicendo leggendo una lunga nota de “Il secondo sesso” dove l’autrice cita e commenta a tale proposito
Levinas.
Il sesso non è una differenza specifica qualsiasi. La differenza tra i sessi non è una contraddizione. Essa non è neanche la dualità di due
termini complementari perché due termini complementari presuppongono un tutto preesistente. L’alterità si compie nel femminile.
Termine di pari livello ma di senso opposto alla coscienza. Levinas indica l’uomo e la donna come unitotalità che si arricchiscono: non si
tratta di due termini complementari perché questo richiederebbe un tutto preesistente.
Ciò che però osserva la De Beauvoir è che la prospettiva di Levinas è quella maschile: la donna è Altro. La donna è presentata come
“termine di pari livello, ma di senso opposto alla coscienza”, dimenticando che anche lei è coscienza. La femminilità è accolta come
alterità che non contempla la reciprocità: l’ambivalenza di questo essere altro non è messa a tema. La situazione della donna è presentata
qui, secondo una prospettiva singolare in quanto “ella si scopre e si sceglie in un mondo in cui gli uomini le impongono di assumere la
parte dell’altro.
Quello che viene indicato è insomma un autentico dramma: un conflitto tra la rivendicazione di un soggetto che si pone come essenziale
e le esigenze di una situazione che fa di lei un inessenziale.
Conflitto e malafede
La tirannia maschile si inscrive nell’orizzonte di una concezione intrinsecamente conflittuale della relazione: per De Beauvoir il rapporto
dell’uomo con i suoi simili non è originariamente di amicizia, perché l’imperialismo della coscienza umana cerca di realizzare
nell’oggetto la propria sovranità. Leggendo in questa prospettiva ogni relazione umana la donna è Altro perché in questa relazione
dialetticamente oppositiva l’uomo esce vittorioso come il padrone sul servo.
La donna prende coscienza di sé sempre come servo, sempre in relazione al padrone-uomo e non attraverso un’attività che l’uomo
padrone non è più in grado di fare. Il dinamismo di questa conflittualità ha una duplice radice: antropologica e socioculturale. La prima
consiste nell’opposizione tra le coscienze che colgono l’altro come oggetto, come fatticità immanente. La seconda è il ruolo di altro
sempre assegnato alla donna. La prospettiva morale è comunque aperta al cambiamento: tale situazione non è irreversibile perché la
donna è una coscienza trascendente, capace quindi di assumere la propria storia e di forgiare la propria identità.
Si impone, a questo punto, una riflessione. Se la contrapposizione è costitutiva, ma è la cultura ad assegnare alla donna sempre il lato
dell’inessenziale, allora il cambiamento, o conversione, dovrebbe soltanto portare ad una sostituzione di ruoli, ad un’alternanza,
assegnando dialetticamente ora all’uno ora all’altro il ruolo dell’inessenziale.
Ne “Il secondo sesso” si indica espressamente come la presa di coscienza della donna non porti ad una convergenza, ma ad una nuova
opposizione: “non si tratta di una guerra tra individui chiusi ognuno nella propria sfera; una casta rivendicante che muove all’assalto ed è
tenuta in scacco dalla casta privilegiata. Sono due trascendenze che si affrontano; invece di riconoscersi scambievolmente, l’una libertà
vuole dominare l’altra. I due soggetti cercano ciascuno nell’altro un’ancora in cui ritrovarsi. È qui che si spiega l’oppressione: si tratta
della tendenza dell’esistente a fuggire sé stesso alienandosi nell’altro che domina. La dinamica parrebbe inarrestabile e immodificabile,
tanto che per poter corrompere la donna che prende coscienza di sé le viene indicata “come sua vocazione questa rinuncia che tenta ogni
esistente angosciato dalla propria libertà”. Convincendola che dedicarsi all’altro realizza e giustifica pienamente la sua esistenza, si
narcotizzerebbe la consapevolezza della propria individualità e della propria apertura trascendente.
È a partire da questo ruolo assegnato e assunto che la donna si pone nei confronti dell’uomo come un oggetto paradossalmente dotato di
soggettività. La contraddizione di questo porsi come oggetto con soggettività ha conseguenze rilevanti perché porta a far assumere sia
all’uomo sia alla donna un ruolo, un personaggio, cadendo cosi nella malafede. L’una veste i panni della debolezza che deve essere
salvata, l’altro deve difendere l’immagine virile del dominatore.
La malafede consiste proprio nella funzione che questi ruoli dicano di un’identità e non siano invece il frutto di scelte, anche se
stratificate in una cultura e in una tradizione. È malafede assumere una situazione umana come immodificabile, come una necessità
inevitabile. È malafede non riconoscere che i valori che si perseguono siano stati posti dalle libertà che hanno assegnato o hanno assunto
quel ruolo. Ed è proprio la malafede che si pone come ulteriore ostacolo, impedendo una relazione simmetrica. La donna, convinta di
avere un valore infinito nella sua femminilità si rapporta all’uomo comunque sempre come l’altro e quindi cerca in lui la giustificazione
della propria esistenza; viceversa l’uomo, cogliendola come altro, la percepisce come un bene inessenziale. Lo scambio non può essere
tra pari. De Beauvoir indica allo stesso tempo degli spiragli. Innanzitutto nel libro sulla donna sembra intravedere la possibilità di
riconoscere l’universalità di alcuni tratti dell’umano in qualche modo sottratti alla determinazione storico-culturale. Troviamo infatti che
l’importanza di essere un essere umano supera quella delle singolarità che distinguono gli individui.
In questo orizzonte si scopre allora un’inaspettata comunanza tra l’uomo e la donna: “nell’uno e nell’altro sesso si svolge lo stesso
dramma della carne e dello spirito, del finto e del trascendente; ambedue sono rosi dal tempo, spiati dalla morte, hanno uno stesso
essenziale bisogno dell’altro”.
La contrapposizione è originaria, ma potrebbe risolversi in una convergenza delle libertà se quelle stesse libertà smettessero di
“disputarsi falsi privilegi”. Sullo sfondo di questa convergenza il comune destino di morte che rode il presente. Questo concetto è meglio
definito e analiticamente espresso ne Per una morale dell’ambiguità, dove sottolinea più volte come la libertà non possa volersi senza
tendere ad un avvenire aperto; il futuro, però, è aperto se si intreccia con la libertà di altri uomini, capaci di promulgare i nostri fini oltre
il termine della nostra vita. La libertà altrui è necessaria per non irrigidirsi nell’assurdità della fatticità.
Ma la libertà è sempre un rischio e se la relazione è originariamente in opposizione, superare il contrasto non è mai stato spontaneo. È
significativo che proprio nelle ampie pagine dedicate all’analisi e all’interpretazione delle relazioni sessuali libere da vincoli e legami,
riemerga una donna che in quanto dinamismo perde sé stessa. Se si accentua il caso della violenza in questo tipo di relazioni nessuno
perde veramente l’altro, “ma in questo caso la donna mente doppiamente a sé stessa”. Rispetto all’uomo lei può prendere solo facendosi
preda, presentando la sua stessa corporeità come totalità di sé, e presentando quindi sé stessa come qualcosa che può essere preso,
afferrato, usato. Rimane in balia della trascendenza dell’altro. Ecco allora che quando l’uomo si accorge di essere stato ingannato, pur
adirandosi percepisce la vicenda solo come un fallimento di un’impresa. La donna si è fatta pura immanenza e in essa rimane
imbrigliata, senza il riscatto della libertà altrui.
L’ambiguità della condizione umana è data dalla necessità di accettare la separazione e contrapposizione tra le persone e trovare
ugualmente una via in cui le libertà si incontrino.
La stessa possibile convergenza delle libertà deve fare i conti con l’opposizione e con la categoria di Altro, presentata come definizione
storico-culturale della donna. Focalizzando l’attenzione sulla “liberazione sessuale” e sulla necessita di un’autonomia anche economica
della donna rispetto all’uomo, varie autrici vi trovano il nucleo concettuale delle loro rivendicazioni e lo stimolo per illustrare e spiegare
la subordinazione storica della donna.
Un’opposizione radicale
Shulamite Firestone è tra le lettrici più attente de “Il secondo sesso” e diviene una delle figure di spicco del femminismo radicale
statunitense degli anni Settanta. Tra le pensatrici di quella stagione del movimento femminista, la sessualità riveste un ruolo di primo
piano nell’elaborazione teorica che cerca di dare una risposta alla domanda sulle cause della subordinazione della donna all’uomo. E’ a
partire dalla dicotomia biologica dell’uomo e della donna che muovono per indicare in modo generale i primi come oppressori e le
seconde come oppresse. È per questo che nel manifesto del nuovo femminismo, redatto nel 1969 dal movimento delle Redstockings si
afferma con forza l’impossibilità di rifarsi semplicemente a teorie già esistenti perché essendo comunque un prodotto della cultura
maschile, ne veicolano in ogni caso la supremazia. Ogni forma di dominio è un’estensione dell’oppressione e dello sfruttamento
dell’uomo sulla donna. In questo contesto, Firestone, nel 1970 pubblica la “Dialettica dei sessi”: in quelle pagine il concetto della donna
come Altro è esplicitamente inquadrato nel contesto della dialettica del materialismo storico di matrice marxiana. La Firestone riconosce
a Marx e a Engel il merito di non essersi fermati, analogamente alle femministe della prima ora, a discorsi moraleggianti contro lo
sfruttamento di classe, ma di aver individuato le sue radici economiche e di aver progettato una soluzione sullo stesso terreno, basandole
su presupposti economici oggettivi e già presenti nella società. Allo stesso tempo denuncia quella che considera una manchevolezza
nella loro lettura della realtà: lo sfruttamento delle donne non è riconducibile solo ad una dinamica economica, ma è il frutto di
un’innaturale divisione dei sessi. De Beauvoir ritiene che l’uomo veda il mondo sotto il segno della dualità: l’uno che coincide con sé, e
l’altro. Questa dualità non aveva originariamente un riferimento sessuale, ma, è la donna ad essere confinata nella categoria dell’altro. Il
concetto di Altro, in cui la donna è stata rinchiusa, non trascende la storia, ma è il frutto e la conseguenza di una lettura delle differenze
sessuali che ha strutturato una società divisa in oppressi ed oppressori. Si intrecciano qui 3 tesi: la divisione biologica in sessi è la base
reale da cui partire per qualsiasi analisi politica della società, sia dal punto di vista politico sia dal punto di vista economico; tale
divisione è in sé oppressiva, tanto che, ad uno sguardo superficiale può sembrare ben fondata l’idea che questa ineguale divisione in sessi
sia qualcosa di normale; accettarla effettivamente come normale dipende dall’uomo, è una questione culturale. La biologia è dunque in
sé foriera di oppressione per la donna ma non lo è in modo deterministico perché l’essere umano può liberarsi della sua natura. Questo è
il motivo per cui ha senso un’analisi empirica della società individuando il dato biologico del sesso come il dato e la variabile principale
e per la tecnologia costituisce il fattore di liberazione dalla natura.
Da questo orizzonte ermeneutico Firestone trasforma il materialismo storico di Engel ponendo alla base del suo dinamismo la biologia.
La gravidanza, l’allattamento, la cura dei bambini pongono la donna in un’oggettiva situazione di debolezza, bisognosa dell’aiuto
maschile. È dunque la natura, intesa nel suo lato unicamente biologico, a causare una situazione in cui l’uomo ha la supremazia. Ad essa
è collegata anche la famiglia che viene a questo punto letta come il luogo dell’oppressione. La sovrastruttura culturale diventa il modo di
organizzare l’unità famigliare biologica ai fini della riproduzione della specie, oltre al modo di scambiarsi beni e servizi.
“L’organizzazione sessuale-riproduttiva della società fornisce la base reale, l’unica a partire dalla quale possiamo elaborare la
spiegazione definitiva di tutta la sovrastruttura delle istituzioni economiche, giuridiche e politiche e delle idee religiose e dell’altro
genere di un dato periodo storico”.
La contrapposizione dialettica tra i sessi è dunque ricondotta alla procreazione e alla distruzione biologica dell’uomo e della donna. È
questo, secondo Firestone, ciò che muove la storia, organizza la società, distingue le classi, ordina la sovrastruttura culturale. Date queste
premesse, si comprende come per l’attivista e pensatrice americana la soluzione del problema della sottomissione femminile richiederà
di riformare proprio la questione procreativa.
La differenza biologica non è di per sé causa sufficiente della subordinazione: la disuguaglianza sessuale dei poteri ha effettivamente una
base biologica, ma l’essere umano non è dato dalla sua biologia, non è, un “elemento naturale”. Come De Beauvoir, anche Firestone
parla della natura identificando con essa unicamente il corpo, riducendo invece la dimensione propriamente umana alla sola sfera
culturale. Questa contrapposizione di natura e cultura fa la sua apparizione con la scienza moderna e con il primato della prassi della
teoresi. La matematizzazione del reale e l’espulsione del concetto stesso di teleologia, aveva già portato ad interpretare la natura secondo
delle costanti quantitative. In questo modo la natura viene a coincidere con la materia, mentre l’intelligibilità del reale è intesa come la
riconducibilità a ciò che è più elementare, ai costitutivi semplici dei composti.
L’idea di antiphysis presente ne Il secondo sesso trova qui largo spazio e viene esplicitamente richiamata. La società umana è una
antiphysis: essa non subisce passivamente la presenza della natura, ma la trasforma secondo il proprio utile. Questa trasformazione si
effettua oggettivamente nella prassi. La definizione della specie umana come Antiphysis viene parzialmente corretta osservando come
l’uomo non possa davvero contraddire il dato naturale, ma è la maniera di accettarlo che ne stabilisce la verità per l’uomo, la natura è
reale solo in quanto viene riguadagnata dall’azione ch’egli esercita; né fa eccezione la sua propria natura.
Questo punto è di capitale importanza: se la natura è relegata alla biologia, ciò che è proprio dell’essere umano, capace di libertà e di
elaborazione culturale, non è un elemento naturale, così come ciò che è un valore naturale non è necessariamente un valore umano. La
natura condanna la donna all’inferiorità rispetto all’uomo, ma la cultura, ossia la sola dimensione colta come autenticamente umana, la
può salvare. La categoria hegeliana dell’alterità è insomma giocata e fatta derivare fondamentalmente dal dato biologico della sessualità:
eliminata questa differenza, sarà eliminata la fonte di ogni contrapposizione dialettica. Qua la riflessione della Firestone intreccia però la
prospettiva filosofica di analisi con quella politica di intervento. Il femminismo da lei proposto diventa radicale, perché affronta
rivendicazioni femministe non solo come una questione di primo piano per le donne, ma come questione centrale per qualunque analisi
rivoluzionaria di vasta portata. Il femminismo radicale considera l’attuale analisi della sinistra superata e superficiale, perché non mette
in relazione la struttura del sistema di classe economico con la sua origine nel sistema di classe sessuale, il modello di tutti gli altri
sistemi basato sullo sfruttamento, e quindi, quello che deve essere eliminato per primo da ogni vera rivoluzione.
Trasformando le radici
La “Dialettica dei sessi” presenta il femminismo come il primo movimento capace di combinare efficacemente l’elemento personale con
quello politico. Il suo obiettivo è quello di riformulare le relazioni tra gli uomini rivoluzionandone l’origine e il dinamismo. Se la
conflittualità deriva dalla differenza sessuale, rimuovere la contrapposizione richiederà eliminare tale differenza, non assumerla come
dato significativo e mettere in questo modo in discussione le relazioni fondamentali che ad essa sono legate. Il femminismo sarà il primo
movimento ad affrontare il problema in una prospettiva materialistica. La definizione del femminismo è radicale proponendo di variare
le relazioni che si pongono all’origine dell’uomo stesso. La differenza sessuale è presentata come la fonte della dialettica oppositiva tra
l’uomo e la donna, mentre è da imputare alla cultura la colpa di aver sclerotizzato come immutabile un semplice dato biologico
assegnandogli indebitamente un valore umano. Poiché la natura è un dato per certi versi poco modificabile, occorrerà rivolgersi allora
proprio alla cultura cambiando le condizioni per cui tale dato diventa significativo. Sarà dunque il compito della cultura e in particolare
della scienza, della tecnologia e dell’organizzazione sociale, mettere le basi per la liberazione femminile. Certamente non si può
dimenticare che la differenza tra i sessi si trova alla base del dinamismo di attrazione tra uomo e donna, nonché nel fulcro stesso della
generazione di nuovi esseri umani. È chiaro che se per eliminare la contrapposizione occorre eliminare la differenza sessuale, si
andranno a intaccare le relazioni che la stessa Firestone indica come fondamentali: quella tra l’uomo e la donna e quella tra la madre ed i
figli. Variare la relazione che si pone all’origine dell’essere umano significa variare il modo in cui comprendiamo l’essere umano stesso.
Il punto di partenza è una relazionalità intesa come originariamente conflittuale, tesi qui assunta ed affermata, ma mai teoreticamente
giustificata. Le relazioni fondamentali sono lette sempre in modo antagonistico e oppressivo, mai di collaborazione né, a maggior
ragione, come espressione di un originario essere-con.
Le relazioni contrappositive, assunte come dinamica originaria, portano a dare importanza e valore alle differenze biologiche, le quali, a
loro volta, alimentano relazioni di opposizione.
Relazioni e famiglia (è possibile amare?)
In questo contesto Firestone rivisita la teoria freudiana sostenendo che i problemi di sessualità sono conseguenza della famiglia. Anche
in questo aspetto la situazione è quella di un circolo vizioso e senza uscita: la sessualità è alla radice della conflittualità e il problema
della sessualità deriva falla famiglia che della sessualità sarebbe il prodotto. “Se eliminassimo la famiglia elimineremmo in effetti, le
repressioni che plasmano la sessualità in forme specifiche. Se davvero la sessualità non fosse mai scissa dalle altre relazioni, se un
individuo reagisse all’altro in modo totale, che semplicemente includesse la sessualità come una delle componenti, allora sarebbe
improbabile che un fattore puramente fisico potesse essere decisivo. Tuttavia, per ora non abbiamo modo di saperlo”.
Nel sistema concettuale in cui si muove, non abbiamo modo di saperlo, da un lato perché la struttura famigliare esiste di fatto, dall’altro
perché nel femminismo radicale la questione va affrontata da una prospettiva materialistica e ogni relazione è letta nei termini della
sessualità. La stessa ipotesi di lavoro che pone la sessualità al centro di ogni analisi contraddice l’idea di poterla comprendere come una
delle componenti delle relazioni.
La particolare relazione che lega le donne e i bambini rientra in questa logica di primitiva e strutturale opposizione. Quando ci si riferisce
alle categorie umane deboli si pensa infatti alle donne e ai bambini. Tale legame è frutto, secondo Firestone, dall’oppressione che
accomuna entrambi i gruppi. Un’oppressione che si intreccia e si rafforza in questa reciprocità del legame e che porta la scrittrice
americana a considerare inscindibile la questione della liberazione femminile da quella della liberazione dell’infanzia.
Firestone analizza l’evoluzione dalla famiglia patriarcale a quella nucleare identificando in quest’ultima una congiunta oppressione della
donna e dei bambini. Mentre in precedenza i legami fondamentali erano quelli di sangue, con la famiglia nucleare diventa centrale l’unità
coniugale. In questo contesto, si verificano profondi cambiamenti culturali tra i quali quello di una diversa concezione del ciclo vitale. È
qui che si fa strada il concetto di infanzia, prima inesistente.
Quest’epoca della vita precedentemente era un semplice apprendistato della vita adulta. Spesso allattati da estranei, i bambini venivano
mandati in altre famiglie per lavorare; in quel contesto, non si creava alcun particolare legame tra i genitori e i figli: i primi non avevano
bisogno dei loro bambini, i secondi non sviluppavano una particolare dipendenza. Dal XIV secolo si sarebbe cominciato a considerare i
bambini in modo particolare, a dar peso alla loro innocenza ritenendola una condizione da difendere e preservare.
Tutto questo avrebbe chiuso i bambini in una classe oppressa, analogamente alle donne. A partire da questa relazione opprimente, lo
stesso concetto di rispetto diventa ambiguo e strumentale al dominio.
La nuova famiglia borghese, centrata sui bambini, imponeva una continua sorveglianza; tutta l’indipendenza di un tempo venne abolita.
Sulla scorta della De Beauvoir viene presentato come strutturale un legame tra sessualità e relazione di dominio; allo stesso tempo la
famiglia è letta secondo il modello di un rapporto di potere in cui il marito costituisce il borghese e la moglie e i figli il proletariato.
L’analisi della proposta della Firestone si limita a riesporre un’indebolita versione della teoria marxiana in cui la sessualità viene
sostituita all’economia. In questa prospettiva viene letta anche quella particolare relazione che chiamiamo AMORE, sia nella sua forma
di amore materno, sia in quella dell’amore tra uomo e donna. Quando la conflittualità è posta costitutivamente all’interno delle relazioni,
l’amore diventa un’anomalia, più spesso una finzione, e richiede una spiegazione.
Persino l’amore materno, prototipo e icona della gratuità, non è letto come una tensione positiva verso il figlio: questi è un altro rispetto
alla donna, altro che le impone rinunce e sacrifici. La conflittualità rimane la prima dimensione del rapporto. L’amore della madre nasce
da una somma di contrapposizioni dialettiche tra l’uomo e la donna, tra la donna e il figlio, tra il figlio e l’adulto. La madre nutre
sentimenti di odio e vorrebbe uccidere il figlio, sentimento che perdura finché coglie la sua impotenza, il suo essere, analogamente a lei,
oppressa dall’uomo adulto. La malevolenza che prova nei confronti del bambino viene allora deviata all’esterno, facendo nascere quello
che chiamiamo amore materno.
La solidarietà tra gli oppressi non fuga l’oppressione. Occorre andare alla radice, bandendo l’idea stessa di classi dominabili, dominate e
dominanti. Poiché tali classi sono il frutto di differenze, la soluzione sarà quella di cancellare i segni della differenza.
Tale condizione umana è appunto quella in cui la cultura abbia preso il sopravvento liberando la donna, e di conseguenza la società, dal
ruolo di madre assegnatole dalla natura, ovvero, dal solo dato biologico, considerato in sé privo di significato, ma comunque foriero di
schiavitù.
La sua proposta è quella di eliminare la base biologica sfruttando le nuove tecnologie per vicariare all’esterno del corpo femminile le
funzioni riproduttive. Analogamente alla rivolta del proletariato, che dopo una dittatura temporanea e l’approssimazione dei mezzi e dei
processi di produzione avrebbe dovuto eliminare le classi sociali, si dovrebbe ottenere una restituzione alle donne del controllo del loro
corpo e della riproduzione, per giungere ad una società in cui sia il lavoro sia la riproduzione siano collettivizzati e in cui non ci siano né
classi sociali né distinzioni tra sessi.
La separazione tra la riproduzione e la sessualità permetterebbe una libertà in cui le differenze genitali non avrebbero alcun significato
“umano” permettendo di giungere a una pansessualità priva di ostacoli in cui si instaurerebbe come normale una “perversità polimorfa”.
La generazione e la gestazione dovrebbero essere consegnate alla tecnica, mentre la cura dei figli dovrebbe essere affidata all’intera
comunità.
La tecnologia permetterebbe il compimento della ribellione contro la natura, al tempo stesso liberando la donna dalle caratteristiche del
proprio corpo e premettendo la trasformazione della società, svincolata dalla differenza sessuale.
Se l’amore per il figlio è colto come frutto di un odio che trova un’alleanza, come si dovrà leggere quello che nasce avendo al centro la
stessa differenza sessale, foriera di opposizione? Su questo punto l’analisi della Firestone oscilla tra la descrizione di una relazione
conflittuale di possesso e l’armonia utopica dell’incontro di due egoismi perfettamente equilibrati. Vi si trova una dinamica hegeliano –
sartriana. Si tratta della cosalizzazione dell’altro nel tentativo di affermare sé stessi attraverso il suo possesso. Anche Firestone coglie
come la ricerca dell’altro implichi un’apertura che rende il soggetto estremamente vulnerabile: volersi appropriare dell’altro implica
divenire dipendenti della sua dipendenza. Poiché questa reciproca apertura è un movimento di possesso, i soggetti in gioco potranno non
essere feriti solo nel caso di una perfetta simmetria di forze.
L’attrazione è descritta come un movimento che nasce dall’ammirazione per l’unità integrata che l’altro è, dal desiderio di fare in
qualche modo parte del suo sé, diventando importanti per il suo equilibrio psichico. Tale ammirazione è però letta come invidia, ancora
una volta frutto del contesto di dominio oppressivo. Un’invidia delle qualità dell’altro che si vogliono in qualche modo possedere e
incorporare. L’amore, in questa dinamica, non è e non può essere apertura all’altro per una donazione di sé, pur in un desiderio di
reciprocità. L’apertura è inevitabile, ma è volta a prendere l’altro in un dominio egoistico. “L’amore è visto come il culmine
dell’egoismo: in sé cerca di arricchirsi attraverso l’assorbimento di un altro essere. L’amore è essere psichicamente spalancati all’altro. È
una situazione di totale vulnerabilità emotiva, perciò deve essere non solo l’incorporazione dell’altro ma uno scambio di personalità.
Qualsiasi cosa che non sia un reciproco scambio danneggerà l’una e l’altra parte” – Firestone.
Poiché è il frutto di una presa solo se le forze sono davvero pari a nessuno dei due amanti-contendenti soccombe. In questo caso
“L’amore tra due uguali sarebbe un arricchimento, in cui ciascuno dei due si estende attraverso l’altro: invece di essere uno solo egli
potrebbe partecipare all’esperienza di un altro. Questo spiega la beatitudine che provano gli amanti fortunati: gli amanti solo
temporaneamente liberati da un isolamento che ogni individuo deve sopportare.
La simmetria totale è però impossibile o, quantomeno, rara: equivarrebbe infatti al rapporto tra due persone identiche, in una sorta di
relazione specchio in cui il possesso dell’altro diventa davvero possesso di sé.
Il vicolo chiuso in cui la Firestone sembra aver chiusa l’amore è forse più vicino a Sartre. Di fatto, solo se la tensione alla reciprocità è
compresa nel duplice movimento di donazione e possesso, l’asimmetria non diventa ostacolo alla crescita dei soggetti della relazione.
Ogni asimmetria finisce con l’implicare una divisione in oppressi ed oppressori, in vincitori e vinti. Sarebbe dunque la disuguaglianza,
che genera asimmetria, a corrompere l’amore. È possibile eliminarla?  tale quesito richiede di affrontare il problema della differenza
biologica.
Nonostante la differenza biologica sia la fonte di asimmetria relazionale e quindi di sottomissione, gli uomini e le donne continuano ad
innamorarsi, senza percepire immediatamente l’opposizione presente tra loro.
L’uomo da un lato degrada la donna per distinguerla dalla madre, dall’altro la idealizza al di sopra delle altre per giustificare la sua
discesa ad una “casta inferiore”. La donna non avrebbe alcun motivo per idealizzare l’uomo ma si presta al suo gioco ingannevole:
benché sappia che l’innamoramento maschile è inautentico, esige una forma di prova prima di permettere a sé stessa di amarlo.
Questa descrizione pretende di indicare una maschera armonica che nasconde l’opposizione in cui il rapporto consiste veramente.
Ne Il secondo sesso troviamo una sorta di alleanza tra donna oppressa e il suo oppressore, frutto della ricerca di qualcuno che, avendo in
sé la propria giustificazione, giustifichi di riflesso la sua esistenza. In Firestone si infiltra un’osservazione che sembra redimere la
relazione dalla condanna della lotta reciproca.
Cultura tecnologica e rivoluzione
L’idea che la natura sia foriera di ineguaglianza ha guadagnato alla Firestone la critica di molte femministe negli anni successivi. I suoi
scritti hanno introdotto l’idea che si possa realmente prendere le distanze dalla propria corporeità e che la cultura, in particolare quella
tecnologica, sia lo strumento per farlo. L’accettazione del dato biologico della propria corporeità per la Firestone farebbe regredire
l’uomo al livello del mondo animale. La dialettica dei sessi è la dualistica divisione delle specie animali in funzione ella generazione.
Accettarla per l’uomo equivarrebbe a negare qualsiasi differenza tra la nostra specie e le altre.
La cultura neutralizzerebbe nell’uomo il dato biologico che cesserebbe di essere determinante e significativo. Firestone vede la cultura
come la risposta della mente agli accidenti e alle limitazioni della realtà alle quali l’uomo replica, superandole, sia con la reazione
fantastica di mondi possibili, sia con la modificazione reale del mondo attraverso la tecnologia. Nel primo caso parla di un mondo
estetico, in cui la limitazione della realtà è negata creando un mondo ideale governato da un ordine armonico artificiale. Nel secondo si
tratta del mondo tecnologico, in cui “i fatti contingenti della realtà vengono superati attraverso il dominio sulle opere stesse della realtà”.
Nella sua visione utopistica la Firestone propone l’idea della tecnologia come strumento della liberazione della natura del proprio corpo.
Quello che ci sembra di poter individuare è un itinerario di 3 fasi:
1. La formulazione di una sorta di disprezzo del soma femminile senza che questo si traduca in un disprezzo della donna: i limiti w
le caratteristiche del corpo non hanno nulla a che vedere con l’identità e il valore dell’uomo e della donna. Questa tesi non è
problematica se pensata in ordine alle normali limitazioni della salute che segnano abitualmente la condizione umana.
Qui si sostiene che la corporeità della donna in quanto tale, sia con le sue caratteristiche negative e foriera di oppressione, e che
la donna sia invece altro rispetto ad essa.
2. È l’idea che avendo “messo a nudo” le leggi della natura, si possa poi attraverso la tecnologia rivolgerle contro di essa per
plasmarla in accordo con il progetto dell’uomo.
3. Da qui il piano rivoluzionario di cambiare la società attraverso la modificazione e l’abbandono delle determinazioni corporee. I
rivoluzionari sono per definizione ancora missionari del mondo estetico; idealisti della politica.
L’utopia di una generazione integralmente tecnicizzata ha lasciato in eredità l’idea che si possa pensare la generazione come un processo
scomponibile in una serie di passaggi attraverso parti di corpi. Pur non avendo raggiunto il traguardo della società quasi androgina da lei
immaginata, parte della rivoluzione culturale propugnata dalla Firestone è comunque avvenuta. Non è di poco conto che sia non solo
tecnicamente possibile, ma anche culturalmente percepito neutro il fatto che un essere umano possa essere geneticamente figlio di coloro
che mettono a disposizione i propri gameti, inserito nell’utero di una donna che funge unicamente da gestante, allevato da terzi che
saranno genitori sociali, o addirittura portando avanti il progetto di un utero artificiale.
CAPITOLO 2: LA RELAZIONE CON IL PROPRIO CORPO
Il corpo che sono, il corpo che non sono
“Donne non si nasce, si diventa”: questa celebre affermazione costituisce lo slogan di larga parte del pensiero femminista. È l’esistenza,
la scelta, l’intreccio storico della libertà che decide che cosa significhi essere donna. Chi sia la donna è il risultato storico della cultura e
dell’assetto sociale. Il corpo non è estraneo a questo dinamismo: il significato e il valore dei fatti biologici, anche quelli che
contraddistinguono il fisico femminile, deriverebbero esclusivamente dal contesto sociale e politico.
Il richiamo al corpo che stiamo facendo è importante in quanto l’esperienza che facciamo di noi stessi è sempre anche una conoscenza
del corpo e attraverso il corpo. Tuttavia la percezione del fisico, è filtrata dalla cultura e da una rete umana di significati. È per questo
motivo che il modo in cui facciamo esperienza di noi stessi come esseri corporei contribuisce a forgiare le nostre capacità e le nostre
passioni, le nostre debolezze e i nostri punti di forza. Anche le differenze di potere interne alla società sono in qualche modo incarnate
poiché gli esseri umani sono esseri corporei e la prospettiva da cui la loro stessa corporeità è accolta costituisce un circolo
autoalimentantesi il modo in cui ciascuno comprende sé stesso ed è compreso dagli altri, stabilendo addirittura ciò che può fare. Si tratta
di un circolo perché il fatto bruto del corpo non dice nulla del valore né del disvalore, poiché per Simone de Beauvoir è solo l’esistenza,
l’intreccio delle libertà e delle coscienze, che definisce la trama di significati.
De Beauvoir afferma che l’esistenza umana impone di rivedere i concetti di necessità e di contingenza. L’esistenza è quel movimento
attraverso cui si compiono i fatti (Merleau- Ponty). La De Beauvoir glossa il collega osservando che bisogna anche ammettere che
esistono condizioni di possibilità senza le quali l’esperienza stessa non si darebbe. Una di quelle condizioni è il proprio corpo. Il corpo in
quanto materia vissuta è condizione necessaria per l’esperienza, perché si apra un mondo al soggetto, ma per lei ciò che importa non è
questo corpo, vale a dire, il corpo umano così come noi lo conosciamo. Questo punto è complesso perché stiamo di un soggetto umano,
dove un certo tipo di soma caratterizza il vivente che questi è.
L’identità personale nasce proprio dalla constatazione che la nostra modalità di esprimere il mondo è sempre anche un’esperienza
corporea. Non solo perché il corpo funge da strumento ma anche perché noi siamo quegli occhi che vedono e quella parte di pelle che
sente, benché siamo più di quel vedere e di quel toccare. Essere un certo tipo di corpo implica una prospettiva e un modo in cui si fa
esperienza della realtà diverso dalla prospettiva e dal modo in cui lo fanno gli altri esseri corporei.
Per un’esperienza propriamente umana è necessario un corpo e un corpo mortale, ma la De Beauvoir non considera come altrettanto
indispensabile un corpo sessuato. La sessualità è letta solo in funzione della perpetuazione della specie, al fine di sanare il limite mortale
dell’individuo, ma non entra nella definizione dell’essere umano. A questo proposito dobbiamo sottolineare due punti importanti.
Innanzitutto la lettura della differenza sessuale funzionale solo alla generazione, e quindi confinata alla sola struttura corporeo-
riproduttiva: data la premessa di una distinzione tra natura e cultura, tale differenza risulta relegata nella dimensione del materiale grezzo
in sé privo di significato. In secondo luogo, la curiosa idea che il vissuto del nostro essere esseri corporei sessuati non faccia parte del
modo umano di esperire il mondo al pari del nostro essere mortali. È vero che l’orizzonte della morte incide nella progettualità
dell’uomo ma anche il corpo struttura l’esperienza: proprio perché non è un oggetto tra gli oggetti, ma anche il corpo entra nella modalità
con cui ci rapportiamo agli altri.
Ne Il secondo sesso leggiamo che la donna non è semplicemente un organismo sessuato e che “tra i dati biologici acquistano importanza
soltanto quelli che acquistano un valore concreto dell’azione”. Ad un primo livello l’affermazione descrive chiaramente l’esperienza
perché la realtà è spesso intenzionata proprio a partire dall’azione che vogliamo compiere. In particolare questo si capisce molto bene se
pensiamo alla situazione in cui si fa esperienza di una patologia. Il corpo, che rende possibile il nostro nel mondo, si fa oggettivamente
presente al soggetto quando ostruisce la progettualità o quando è veicolo di piacere, o è messo a tema quando lo si percepisce come ciò
che di noi è primariamente visibile.
I fatti del corpo hanno valore solo in funzione del contesto storico-sociale. È vero che l’impalcatura dei fini determina dei significati, ma
nei suoi testi sembra evaporare totalmente quella che potremmo indicare come la dimensione oggettiva del soggetto. Per tornare al tema
della generazione, se non c’è progetto in quella dimensione, l’eventuale sterilità del corpo non è problematica, ma oggettivamente quel
corpo è sterile, anche se non è saputo come tale. Se sorge il progetto di generare il dato acquista importanza per il soggetto, ma non si
modifica perché era già presente. Ciò che è sterile è il corpo, fatto poi soggettivamente assunto e per cui quel concreto soggetto corporeo
si scopre sterile.
Un soggetto non può essere definito a prescindere dal pensiero per il quale è soggetto, così come il soggetto di manifesta soltanto
attraverso l’oggetto con cui è in relazione, con cui viene coinvolto – De Beauvoir.
Il soggetto è sempre coinvolto in un contesto e in situazioni a cui costantemente attribuisce e da cui costantemente riceve significati.
L’analisi della De Beauvoir estremizza la relazione intenzione-oggetto arrivando a sostenere che “il corpo oggetto descritto dagli
scienziati non esiste nel concreto ma solo, ma solo esiste il corpo sperimentato dal soggetto”. Affermare che “il corpo oggetto non esiste”
è molto forte. Da un lato sembra ben evidenziare l’irriducibilità della persona al corpo, dall’altro rischia di far fluttuare la persona stessa
lontana dal corpo, come se l’intenzionalità soggettiva bastasse a definire l’identità, scalzando ogni pretesa del corpo di dire qualcosa
della propria persona.
Lo studio della biologia è necessario perché il corpo è lo strumento del nostro contatto con il mondo che assume un aspetto diverso.
Strumento è ciò che ci permette di fare o raggiungere qualcosa, ma può essere sostituito con altro: non entra nell’identità del soggetto
che lo usa. Se il corpo è definibile come un utensile, allora è altro rispetto al soggetto, eppure, diversamente dagli altri strumenti, non è
mai davvero possibile allontanarvisi, abbandonarlo senza cessare di essere sé stessi.
In altri passaggi lo troviamo descritto come una situazione, come il nostro modo di fare presa sul mondo. In prima istanza l’affermazione
è vera perché il corpo, le sue capacità, il suo stato di salute, la sua conformazione, non sono una cosa, ma sono modi di esistere di
qualcuno. Questo modo è certamente impregnato della lettura che l’essere umano fa del corpo stesso. Il punto è però comprendere se il
corpo in quanto tale dice qualcosa del soggetto, lo manifesta o è qualcosa che non può fare altro che nasconderlo.
Secondo la De Beauvoir la soluzione predominante sembra essere la seconda: mantiene una distanza tra il soggetto umano e il suo corpo.
L’importanza del significato che si attribuisce a corpo è infatti radicalizzata fino quasi a far sfumare la sua oggettività, diventata
improvvisamente ininfluente. Diciamo di trovare un’oscillazione perché in molte pagine si intrecciano punti in cui il corpo è descritto
come estraneo se non ostile al soggetto ed altri in cui descrive efficacemente come la struttura e il dinamismo biologico non possano
essere colti nella loro verità se staccati dalla complessità dell’intero essere umano e della sua esistenza, considerando il corpo come un
elemento autonomo.
È in questo duplice senso che ci sembra di poter leggere passi come quello in cui si afferma che “se accettiamo un punto di vista umano,
e definiamo il corpo attraverso l’esistenza, la biologia diventa una scienza astratta; nel momento stesso in cui il dato fisiologico riveste
un significato, quest’ultimo appare in relazione con tutto un contesto; la debolezza si rivela per tale solo alla luce degli scopi che l’uomo
si prefigge, degli strumenti di cui dispone e delle leggi che impone”. Da un lato individua come il modo in cui è percepito e valutato un
dato corporeo dipenda dallo sguardo con cui lo osserviamo. Dall’altro sembra che questo sguardo prospettico e contestualizzato
determini il valore del dato corporeo: in questo senso ogni sguardo determina una verità, senza possibilità di poterlo rispettoso o
inadeguato nei confronti di ciò che interpreta. L’idea fondamentale è che il corpo esista concretamente per l’essere umano nella
prospettiva globale della sua esistenza; unicamente in questa prospettiva si può accogliere il contributo della biologia, della psicoanalisi
o del materialismo storico.
Il corpo e la sessualità sono concrete espressioni dell’esistenza, ed è in relazione ad essa che è possibile scoprire il loro significato. Pur
essendo l’essere umano sessuato, tale dato non definisce più né l’uomo né la donna. Poiché però la cultura è modellata sull’uomo, la
donna si trova comunque costretta in canoni definitori che le sono alieni. L’idea stessa della donna verrebbe ad essere il frutto di una
elaborazione della civiltà, del modo in cui la cultura e il pensiero fanno percepire la biologia.
Per la De Beauvoir l’essere umano “maschi e femmine sono due tipi di individui in seno ad una specie che si differenziano ai fini della
riproduzione”. L’autrice prende in considerazione anche la spiegazione della sessualità fornita da Hegel, ma la rifiuta. All’interno del
sistema panlogista hegeliano la sessualità diventa la mediazione attraverso la quale il soggetto si realizza concretamente come genere,
superando la propria individualità. La De Beauvoir osserva come Hegel colga un importante significato della sessualità ma sbagli poiché
tenta di sostanzializzarlo. La sessualità acquista significato in quanto è agita: in altre parole, ha senso solo in quanto gli uomini la
esercitano e, in questo modo, le attribuiscono un significato e un valore.
Non si sta riferendo alla sola biologia dell’essere umano, a quella che potremmo indicare come la sua definizione. Il corpo non ha in sé
alcun senso, ma lo acquista solo nella libera azione e progettualità dell’uomo. Lo stesso sesso oscilla tra il riconoscimento di un’evidenza
e la funzione che al suo corpo si attribuisce.
Ma il corpo ha una sua realtà e una sua storia. In particolare la donna conosce il ritmo del tempo in una storia letteralmente incarnata, che
in lei si svolge e si sviluppa nel dinamismo della sua fertilità. L’unità identitaria della donna che sembra soggetta a forze aliene che
domina a fatica e che, suo malgrado, agiscono in lei. Questo è il punto: la distanza tra l’intenzionalità e il corpo rende questo qualcosa, e
poiché la distanza non può sfociare in autentica separazione, Il secondo sesso ci presenta una donna intimamente e insanabilmente
frantumata, incapace di raccogliere in unità la sua identità.
Negli anni fertili la donna ciclicamente “sperimenta più personalmente il suo corpo come una cosa opaca, alienata, in preda ad una vita
ostinata ed estranea che in esso ogni mese fa e disfa una culla.
La donna come l’uomo è il suo corpo ma il suo è altro da lei. Una vita estranea, non la propria vita. Appartiene al regno della biologia,
della natura, non a quello umano della cultura. L’essere umano al tempo stesso è e non è il proprio corpo, ma la donna, a differenza
dell’uomo, ne è addirittura prigioniera ed è in esso alienata. Il tempo in cui la ciclicità di questa maternità costantemente preparata ed
elusa termina, la menopausa, si presenta allora come la soglia della liberazione. È il momento in cui non è più in preda alle forze che la
travolgono: coincide con sé stessa. È forse qui dove la marginalizzazione del corpo della propria identità fa emergere più
drammaticamente la perdita dell’utilità del soggetto, dove unità non significa necessariamente semplicità ed è incompatibile con la
complessità. La donna è femmina ma il suo esserlo sembra condannarla ad una schiavitù, ad una dipendenza da altro da sé. La
menopausa è salutata come riconciliazione con sé stessi, ma a ben vedere questo più che la notizia di una liberazione è la manifestazione
di un dramma. Quel coincidere con sé stessa può essere letto in due modi: o indica che prima la donna è continuamente alienata, oppur
che a partire da quel momento cade nell’immanenza della fatticità. Tutto il volume sulla donna parta da un’interpretazione secondo la
prima ipotesi. Qui occorre cercare di capire meglio quale sia la schiavitù della femmina a cui la donna, per lunghi anni, è intimamente
condannata.
La generazione come violazione e alienazione. L’asservimento alla specie.
Se la cultura e la società modellata sul modello maschile condannano la donna al ruolo di Altro, la natura sembra a sua volta chiuderla in
una servitù iscritta nel suo stesso corpo. La maternità è presentata come una forza che aliena la donna a sé stessa.
Il dato biologico delle femmine, prendendo in considerazione ad ampio raggio il regno animale, è letto ne Il secondo sesso, come indice
di un loro asservimento alla specie che si rivela sempre più stretto mano a mano che si sale nella scala evolutiva e nella complessità dei
viventi.
Vede come quantomeno è stretto il legame della madre con l’uovo, tanto meno è impegnativo il travaglio ed è più indeterminato il
rapporto dei genitori con la prole. Nei mammiferi la femmina instaura un rapporto strettissimo con i piccoli e diventa appunto preda della
specie, con la vita regolata dal ciclo sessuale. È curioso notare come tale complessità mostri un emergere sempre maggiore della
dipendenza reciproca come un dato di ricchezza che sarebbe invece ragionevole pensare tenendo presente che tale dipendenza aumenta
con il grado di complessità dei viventi ed è più forte nei mammiferi superiori, in modo particolarissimo nell’uomo. Vale inoltre la pena
notare come la stessa ascesa nella classe evolutiva sua accompagnata da una crescita della relazione tra generazioni. Una relazione che
ne accompagna e ne segna la progressiva perfezione.
La De Beauvoir vede uno stretto rapporto tra la maternità e dinamismo sociale. L’equilibrio delle forze produttrici e riproduttrici si
realizza in modo diverso secondo differenti momenti della storia umana in quanto condizionano il rapporto del maschio e della femmina
tra loro e con la prole.
In questo modo si esce dal campo della biologia, perché la società non può essere considerata come una specie. La De Beauvoir non
rinnega la biologia, ma nega che questa sia sufficiente a definire la donna. Al tempo stesso afferma che la donna è asservita alla specie e
che da tale fatto derivano limiti nelle sue capacità individuali. Anche questo non è una semplice descrizione: leggere la fisiologia come
asservimento alla specie non è un dato, ma già una precisa interpretazione alla luce di un’idea dell’identità umana separata dalla sua
identità corporea.
In ogni caso questa schiavitù non la definisce. Se la predisposizione fisiologica della donna alla maternità è foriera di schiavitù il
processo della gravidanza non può che essere letto come un acutizzarsi di questa mancanza di libertà. “La gravidanza è soprattutto un
dramma che si svolge nell’intimo della donna che la sente nello stesso tempo come un arricchimento e una mutilazione”.
In questa dicotomia di approcci che fanno oscillare la donna tra ricchezza e povertà, realizzazione e alienazione, l’accento va posto
sull’intimità: per Simone la trascendenza è affidata all’azione transitiva, dove la soggettività si pone ponendo altro da sé, mentre nella
maternità la soggettività si chiude su se stessa non potendo distinguere il sé e l’altro da sé.
La gravidanza implica la percezione di una custodia di una vita che si sviluppa al tempo stesso con la donna e senza di lei, ma
contemporaneamente ciò che si sta forgiando è una coscienza con suo carico di libertà e di trascendenza, che solo un essere in grado di
trascendersi può formare. Ecco allora che la contrapposizione tra trascendenza e intimità appare il frutto di una precomprensione che, se
da un lato tenta di spiegare il particolare vissuto di una vita cosciente custode di un’altra, dall’altro costituisce un filtro che riconduce
necessariamente la relazione a quella della contrapposizione oggettivante.
La donna è interpretata come un essere umano, coscienza e libertà, che è diventato uno strumento passivo della vita. Vita che appare
come una forza sostanzializzata in grado di costringere l’essere cosciente all’immanenza, ma questa è l’ipostatizzazione di un’astrazione.
La vita è il modo di essere di un ente. Diventare strumenti passivi del proprio modo di essere nel mondo racchiude una contraddizione
difficilmente sanabile se la propria corporeità continua ad essere interpretata come qualcosa che è altro da sé.
Le donne che vogliono ripetere l’esperienza della maternità e che trovano gioia nell’allattamento e nel parto sono interpretate come
soggetti che si precipitano volontariamente nella passiva fertilità del corpo, cercando avidamente la possibilità di alienare la loro libertà a
vantaggio della loro carne. In questo modo si elimina l’angoscia della libertà, ma è anche una finzione che si basa su un equivoco. La
riconciliazione con sé stessa è ottenuta possedendo il proprio corpo, ma questo le appartiene perché appartiene al bambino. La società
riveste quel corpo di dignità e quasi di sacralità, tanto che la madre ha l’illusione di essere in sé un valore, mentre lo è solo perché un
figlio si fa in lei.
La maternità è la chiusura nell’immanenza della carne, in quanto ciò che è generato è a sua volta trascendenza, non termina nella cosalità
di un prodotto. Per comprenderlo però bisogna accertare che la libertà si apra all’incognito della rischiosa relazione con altre libertà. È
per certi versi strano che colei che ha richiamato la necessità dell’esistenza altrui per poter mantenere il senso della propria non riesca a
leggere la maternità in questi termini. D’altro canto la trascendenza è ricondotta all’attività produttiva, indicando solamente il lavoro
come strumento di liberazione, in quanto appunto attività produttrice. Solo attraverso il suo lavoro la donna fa propriamente qualcosa e
cessa di essere un parassita. Generare nel corpo non rivestirebbe alcuna trascendenza proprio perché tale processo non è leggibile come
autentico lavoro produttivo. Perché benché voglia un figlio, l’identità e il senso di chi sta venendo al mondo non dipende da lei, ma dalla
storia che avrà un nuovo inizio a partire da questo nuovo essere. La controllabilità del processo produttivo sembra riconsegnare alla
donna la possibilità di questo movimento di senso su di sé e sul generato.
L’argomentazione che conduce la De Beauvoir ad un rifiuto netto della maternità, sarà rovesciato a sostegno di una maternità
tecnicamente mediata. “Il possesso materno non diviene mai, salvo nei casi di follia, arbitrario annichilimento dell’altro, volontà di
soggezione totale. Invece di occupare la posizione del despota, la madre si sdoppia: una parte contiene il bambino inerme, accoglie
tendenze regressive, confronta le paure, condivide le frustrazioni; l’altra si allinea invece con le dinamiche emancipanti del piccolo, con
le energie propulsive che tendono all’individuazione e alla separazione.
Simone De Beauvoir coglie la generazione come immanenza e alienazione. Presuppone una violazione dell’intimità, una violazione vista
come inseparabile dallo stesso atto generante. La contrapposizione continuativa della relazione si manifesta anche con una violenza posta
all’origine della generazione e a cui la donna sembra essere intrinsecamente condannata: la donna è presa dal maschio e per questo
appare come un’interiorità violata. Il perpetuarsi della specie richiede l’incontro dei gameti e del corpo della donna che protegge l’ovulo
diventa un ostacolo da abbattere.
L’asimmetria tra l’uomo e la donna smetterebbe di creare problemi insolubili se al desiderio si intrecciasse il rispetto per la libertà. La
dimensione dell’alterità resta; ma essa non ha più un carattere ostile. Se da un lato questa spezza una lancia a favore della storicità della
situazione di subordinazione della donna, indicando quindi la possibilità di una redenzione del rapporto, dall’altro ne sottolinea la
strutturale difficoltà, in quanto la contrapposizione c’è originariamente.
Cremaschi nota che la conflittualità è tolta solo perché una parte sceglie di farsi cosa per l’altro: l’essenziale e l’inessenziale rimangono
tali.
“La donna finisce per vivere l’avventura sessuale nella sua immediatezza come una storia interiore, e non come una relazione col mondo
e con gli altri”, l’enfasi negativa rischia di far passare quasi inosservata l’acutezza e la problematicità dell’osservazione di fondo: nella
donna anche il corpo è legato all’interiorità, dimensione che, proprio perché indica la profondità, potrebbe essere una delle fonti di una
più ampia capacità di trascendenza. Viceversa all’interiorità de Beauvoir accosta l’immanenza.
La donna è presentata come quella che subisce più profondamente questa alienazione, una violenza che si riverbera nelle difficoltà anche
fisiche legate alla generazione. Solo nei periodi in cui sfugge alla “schiavitù della maternità” può eguagliare il maschio, ma rimane una
“individualità non rivendicata”, poiché nella sua identità, culturalmente mediata, finisce comunque coll’abdicare sé stessa in favore della
specie.
Il secondo sesso sostiene che la donna non sia i suoi ormoni ma paradossalmente tutta questa enfasi negativa elimina quella
consapevolezza della corporeità che segna uno specifico modo di conoscere il mondo che rimane precluso all’esperienza. Il corpo
certamente non esaurisce la donna, ma nella sua realtà concreta e sessuata dice qualcosa del soggetto, di quel concreto soggetto che è la
donna e che è l’uomo.
L’irriducibilità della differenza richiede il riconoscimento dell’altro in quanto sessuato e non ammette che uno possa porsi come
modello.
Negare l’importanza della differenza sessuale significa ricadere nella logica androcentrica secondo la quale solo quello maschile è visto
come a problematico.
Ne Il secondo sesso quello che viene descritto è un corpo intriso dei significati e delle pratiche socio-culturali.
Sara Heinemaa osserva che quando de Beauvoir parla della differenza sessuale descrive il corpo come soggetto della percezione e non
come oggetto biologico. In questa prospettiva il corpo è mosso da connessioni motivazionali.
Heinemaa sostiene che il testo sulla donna della de Beauvoir applica alla questione del sesso la prospettiva secondo cui i valori degli
oggetti non sono indipendenti dalle nostre attività che, invece, è ciò che crea il senso e il valore che noi troviamo nel mondo. La
descrizione scientifica delle differenze sessuali costituisce l’oggetto stesso della sua indagine critica.
De Beauvoir descrive il corpo nella concreta situazione in cui la donna è altro, per cui la sua descrizione i contorni di una denuncia
sociale, allo stesso tempo presenta un’analisi della struttura somatica della fisiologia femminile proponendola soventemente come
astoricamente negativa.
L’ambiguità del rapporto col proprio corpo, che sembra alternativamente coincidere con sé e segnare i contorni della propria prigione,
emerge in alcuni modi con cui affrontiamo varie questioni legate alle biotecnologie, in primo luogo quelle connesse alla generazione. La
rimozione della corporeità e della sua potenzialità dell’identità femminile è alla base di affermazioni come quella secondo cui “l’utero è
un posto buio e pericoloso, un ambiente difficile. Il luogo originario della relazione – quello tra madre e generato – diventa dunque il
luogo del pericolo”.
Il corpo oggettivato dalla scienza rischia di avere il sopravvento. Come scrive Finzi non deve stupire che la biologia contemporanea
individui tre agenti essenziali nel processo di riproduzione: l’ovulo, lo spermatozoide e l’utero. In realtà nessuno di tali prodotti
prescinde da un corpo vivente. Ovulo e spermatozoo possono incontrarsi in una provetta e un’incubatrice può sostituire l’utero per
qualche giorno ma sono ancora necessarie due più “macchine biologiche” per portare a termine una procreazione.
E’ interessante osservare che la messa fuori scena del rapporto sessuale fornisce un alibi complessivo della cancellazione degli individui
che partecipano con i loro prodotti sessuali o con il loro apparati procreativi al processo generativo.
La dimensione umana del corpo e della generazione si riaffaccia inaspettatamente, e per certi versi contraddittoriamente, proprio nel
modo in cui le biotecnologie riproduttive vengono semantizzate e pensate.
Soggetto, corpo e società: l’erotizzazione del sociale
La spersonalizzazione del corpo è implicitamente intrecciata ad una dimensione che Simone de Beauvoir sempre sfiora senza
soffermarvisi. Si tratta dell’intimità corporea e quale ruolo svolge nell’interiorità. Nel testo sulla donna questa dimensione viene
contrapposta alla trascendenza ed è letta più come un ostacolo che come una fonte della libertà. È infatti l’azione transitiva che invera la
trascendenza.
L’interiorità è in qualche modo rifiutata sulla base dell’ontologia esistenzialista: l’essere umano è nulla, non essere e solo proiettandosi
nel mondo fa apparire l’essere. L’interiorità è quindi vista come opacità, come in sé.
L’essere umano è trascendenza, il suo movimento può avere la duplice dimensione di andare oltre sé stesso, ma anche dentro sé stesso.
L’essere umano, infondo, non è mai totalmente oggettivabile dallo sguardo dell’altro proprio perché la sua profondità si sottrae ad ogni
possibile reificazione conoscitiva; grazie a questo la situazione può essere trascesa ab intra: proprio perché abbiamo una profondità che
si sottrae alle determinazioni estrinseche e contingenti possiamo sempre decidere che tipo di persona vogliamo essere.
Nei testi della pensatrice francese non si tiene mai conto che la stessa crescita matura attraverso ciò che accade, la riflessione, le
decisioni prese, ha come condizione di possibilità l’interiorità: è necessario che tutto sia conservato e protetto nell’interiorità
dell’esistente, la cui profondità è direttamente proporzionale alla capacità di cogliere la ricchezza dell’esperienza stessa. Questa
mancanza di intimità si allea con l’esclusione del corpo dal nucleo identitario della persona. Le relazioni devono essere mantenute in una
tensione di apertura. Considerando però il movimento della coscienza occorre in qualche modo una sorta esteriorizzazione garante anche
nei confronti dello stesso soggetto della sua appartenenza al mondo umano. Quando la De Beauvoir comprende che anche il rapporto tra
uomo e donna è vissuto da quest’ultima come qualcosa di interiore non si pone il problema se questa interiorizzazione dica qualcosa di
coinvolgimento più personale. Il fenomeno è letto con il disprezzo già accordato alla corporeità femminile, ritenuta responsabile di
questa interiorizzazione dell’atto.
È su questa linea che si può trovare una spiegazione della tesi di una libertà sessuale che si pretende non intaccare la radicalità di un
amore preferenziale rispondente alla sola intenzionalità, né inverato né tradito dagli atti al tempo stesso intenzionali e corporei. Come
probabilmente è noto, nei suoi testi cerca di offrire una giustificazione teorica all’impostazione esistenziale del suo rapporto con Sartre:
una sorta di contratto di reciproco amore periodicamente rinnovato, con l’accordo di lasciare ampio spazio a rapporti con terze persone
che raccontate e vissute nella totale trasparenza avrebbero assicurato il loro rapporto contro quelle che ritenevano essere le menzogne e
le ipocrisie dell’amore borghese. Il riferimento alla vita della nostra Autrice per comprendere la sua concezione del corpo è motivato dal
fatto che i suoi scritti e la sua storia sono scientemente e volutamente intrecciati.
De Beauvoir e Sartre impostano la loro relazione nella distinzione tra un amore necessario (il loro) e una serie di amori contingenti
(quelli con le terze persone) che non avrebbero comunque intaccato l’importanza del primo. Com’è noto ai lettori dei loro carteggi e
delle loro interviste, alcune delle quali fatte a Sartre dalla stessa de Beauvoir, questo menage spesso gestito a tre ha coinvolto varie
giovani ragazze allieve di Simone. Dietro a queste vicende che in alcuni casi hanno avuto seguiti giudiziari o gravi conseguenze a livello
psichico delle ragazze coinvolte, si trova una concezione della corporeità reificata e privata di autentico significato personale,
accompagnata da un’intenzionalità cosciente e sovrana, capace di decidere della centralità o perifericità di un atto. In questo senso gli
stessi personaggi a cui viene affidato di trasmettere la teoria in forma narrativa non nascondono la frustrazione e le ferite che questa
forzatura antropologica porta con sé.
Il fatto che l’intenzionalità possa rendere periferiche e prive di importanza tutte le relazioni a prescindere dalla materia degli atti non è
privo di problematicità anche teorica.
L’essere umano è corporeo ma se il corpo diventa solo uno strumento di relazione il significato viene relegato, appunto, alla sola
intenzionalità. Ma proprio in questa intenzionalità si struttura una dinamica che impedisce una relazione tra due soggetti, ma sempre e
solo tra una trascendenza ed un’immanenza.
È vero che l’intenzione di un atto non è mai veramente conoscibile in terza persona poiché solo il soggetto agente conosce quale sia il
fine soggettivamente assunto e perseguito con la propria azione. Allo stesso tempo se si privano gli atti, nella loro materialità, di un
significato intersoggettivamente riconoscibile, non è più veramente possibile una comunicazione umana.
In Simone de Beauvoir il significato sembra essere affidato alla sola intenzione là dove atti di intimità corporea dovrebbero, per il solo
fatto di volere così, cambiare significato esistenziale nei diversi casi.
Si tratta però di un tentativo destinato al fallimento, perché la frattura stabilità tra sé ed il proprio corpo non regge al confronto con la
realtà. Ci sono persone che, attraverso la materialità dell’uso del proprio corpo, cercavano una stabilità relazionale adeguata alla realtà
degli atti compiuti che però né Sarte né de Beauvoir erano disposti a concedere.
La de Beauvoir da un lato svaluta il corpo femminile se letto alla luce di una situazione storica in cui la natura androcentrica è
predominante. Ci sono passi in cui sembra indicare che questa concreta situazione storica può essere superata: il rapporto tra sessi
potrebbe ricevere un significato liberante e paritario se, nel prendere il corpo altrui, si rispettasse la libertà che lo abita. Poi troviamo
un’ulteriore dissociazione tra l’identità della persona e il suo corpo: nel caso della donna questo la imprigiona in una vita altra da lei e
per entrambi i sessi assume un ruolo fondamentale rispetto all’intenzionalità che rimane la sola fonte di senso.
Occorre collegare tutto questo con alcune osservazioni di Firestone, che fa un’acuta analisi di una crescente e deviante erotizzazione dei
rapporti. Le donne sono apertamente disprezzate e al contempo elevate a stati di finta venerazione; indica nel romanticismo lo strumento
di cui l’uomo si serve per impedire alle donne di rendersi conto della loro situazione. Con questo termine si riferisce ad un sistema
nascosto di oppressione sviluppatosi quando le donne si sono poco a poco “liberate della loro biologia”. Secondo l’attivista americana,
tra le sue caratteristiche ci sarebbero l’erotismo e l’ideale di bellezza. Il primo consiste nella concentrazione della sessualità su soggetti
fortemente carichi o nello spostamento di altri bisogni sociali sul sesso; il secondo è invece un ideale a cui conformare il proprio aspetto
che viene utilizzato come strumento di controllo politico.
L’alleanza tra questi due elementi provoca una situazione di costante sovrastimolazione comunicativa dove qualunque messaggio è
vincolato attraverso un richiamo sessale. Si instaura un circolo vizioso, per cui i mezzi ordinari di sollecitazione hanno perso efficacia e
sia le immagini sia l’abbigliamento diventano sempre più provocanti. Firestone ritiene che la liberalizzazione della sessualità
eliminerebbe alla radice tutto questo sottolineare come proprio una svalutazione del corpo porti ad una sua apparente esaltazione
attraverso un’enfasi erotizzante di ogni relazione sociale. La marginalizzazione del ruolo del corpo nell’identità personale non facilita
affatto l’affermazione della trascendenza del soggetto, ma la sua reificazione.
CAPITOLO 3: IL PROGETTO COME CATEGORIA UNICA DI SENSO
Il periodo morale. Ambiguità e libertà.
In diversi modi, assorbendo la materia allo spirito o viceversa, negando la morte o spostando la verità in dimensioni altre rispetto alla
vita, i filosofi avrebbero più spesso negato la radicale ambiguità dell’essere umano. Ma tale tentativo consolatorio accentua lo
smarrimento perché la verità dell’esistenza si fa comunque sempre presente mostrando la vita e la morte, la solitudine ed il proprio
legame con il mondo, la libertà di ciascuno intrecciata alla sua schiavitù. Occorre elaborare una morale che non dissipi, ma invece accetti
questa situazione. Il contributo di Simone de Beauvoir è l’elaborazione di un’etica esistenzialistica dove l’ambiguità costituisce il punto
di partenza della stessa riflessione. Ambiguità indica la situazione ossimorica dell’essere umano sovrano unico in un universo di oggetti,
assieme ad altri uomini parimenti sovrani. Ma l’ambiguità non risiede solo nel rapporto tra sé e l’altro da sé, affondando le radici
nell’uomo stesso: secondo l’ontologia sartriana che de Beauvoir pone alla base del suo pensiero egli è una soggettività il cui essere è non
essere, una coscienza che non potrà mai realizzare l’impossibile adeguazione dell’in sé con il per sé. Non rifiutare l’ambiguità significa
assumere lo stacco di questa partita apparentemente persa in partenza.
Fino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale per la nostra Autrice, la morale si confonde con la pratica e non è posta in discussione.
A partire dal 1939 tutto cambia e il caos in cui tutto il mondo sembra sprofondare mette in questione questa spontaneità irriflessa. In quel
momento cerca di formulare una teoria morale in cui cercare delle ragioni per l’azione.
Pirro e Cinea, pubblicato nel 1944, in cui vengono affrontati due problemi legati alla libertà: quello del limite, di volta in volta
autodefinito, della propria trascendenza e quello della coesistenza con altre libertà.
Il tema è appassionante e nelle fitte pagine che compongono il saggio troviamo l’acuta comprensione di cui non ci sia mai nessun punto
in cui l’essere umano possa dire di aver compiuto sé stesso, come non esista alcun obiettivo finito capace di saziare la costante
trascendenza della coscienza e della volontà verso nuovi oggetti e nuove mete. Il punto è proprio questo: l’esistenza non è tale se non
progettando continuamente, se non volendo. Perché questo sia dia è necessario porsi delle mete. In questo modo, agendo, ogni uomo
decide del posto che occupa nel mondo, senza potersi esimere dall’occuparne uno. L’errore sta nello scambiare il senso del soggetto con
il contenuto degli obiettivi che il soggetto stesso ha definito. Bisogna anche aggiungere che non è possibile comprendere un progetto a
partire da categorie esterne ad esso. Tale tentativo è fallimentare perché tenta di scomporre tutto in fini intermedi che finiscono col far
apparire ogni impresa contraddittoria o vuota.
“Un progetto è esattamente ciò che esso stesso decide di essere, ha il senso di chi dà: non lo si può definire dall’esterno. Esso non è
contraddittorio, è possibile e coerente dal momento in cui esiste, ed esiste non appena un uomo lo fa esistere”.
Proprio questa dinamica segna l’originaria estraneità tra gli uomini le cui libertà non sono non sono né opposte, né unite, ma separate.
Proiettandosi nel mondo, ognuno in qualche modo situa gli altri uomini rispetto a sé.
L’ottimismo hegeliano di una finale riconciliazione rimane per de Beauvoir impossibile, perché occorrerebbe che l’uomo potesse
riconoscersi nell’universale che lo contiene. Ma nella dialettica di Hegel ciò che si conservava nella sintesi è sempre solo la fatticità
dell’uomo, non il suo essere trascendenza.
Il nostro rapporto con l’altro non è semplice e può essere ingannato dalla diversa prospettiva con cui ci rapportiamo a lui e a noi stessi.
L’io si coglie come non perfettamente coincidente con ciò che di volta in volta è: non si tratta di un oggetto pieno perché è mancanza di
essere. L’altro non appare immediatamente in questa luce: contemporaneamente assomma la pienezza dell’oggetto pieno e la capacità di
trascendenza del soggetto. Se questo altro, ha bisogno di noi, ecco che l’intera esistenza, nel suo complesso appare giustificata. Da qui
quello che per Simone de Beauvoir è l’inganno della dedizione: molti uomini, e soprattutto donne, cadrebbero nell’errore di dedicarsi
incondizionatamente a qualcuno pensando di dare così senso alla propria vita.
La dedizione di questa cornice concettuale diventa moralmente illecita o cade nella malafede. La de Beauvoir rinviene un sottile circolo
vizioso. La dedizione dovrebbe, per essere vera, porsi come incondizionata: il fine è altro in sé, e tale finalità non può essere messa in
discussione da nulla, pena la contraddittorietà della pretesa. Eppure, rileva, troviamo che se colui che è l’oggetto della propria dedizione
non manifesta poi gratitudine appare improvvisamente come ingiustificato. In realtà, non è altro a dare senso, ma la propria libertà a cui
non si può mai abdicare, tanto che pensare di rinunciarvi è una maschera liberamente assunta.
Bisogna assumere che è stata la propria libertà a dedicare a qualcuno il proprio tempo, le proprie energie, a fare di lui, o di lei, il proprio
fine. Non è onesto rifiutare che è stato il soggetto ad aver dato quel contenuto alla propria libertà. Se questo è profondamente vero,
dobbiamo allo stesso tempo rilevare come la de Beauvoir assimili indebitamente il dolore della mancanza di reciprocità in un’amicizia o
in un amore che finisce, con la falsità del libero dono di sé. L’errore sta a monte, perché avendo posto i soggetti come originariamente
separati si preclude la possibilità di rinvenire e perseguire un bene della relazione che ricade, in quanto tale, sui soggetti della relazione
stessa. Fuori da questa prospettiva, effettivamente ogni atto nasconde un insanabile egoismo.
Se le cose stanno così, non è neanche possibile definire che cosa sia bene per l’altro a prescindere dal suo volere: è proprio questo che
rende intrinsecamente possibile una vera dedizione. “C’è dedizione solo se assumo come fine un fine definito dall’altro; ma allora è
contraddittorio supporre che proprio io possa definire questo fine per lui”. Questo significa che ogni volta che si agisce contro la volontà
dell’altro “per il suo bene”, si sta perseguendo una menzogna, poiché in realtà è solo il fine posto dalla propria volontà quello che si
persegue.
La soluzione sembrerebbe quella di porsi al servizio dei fini che l’altro pone: così sarebbe allora vera dedizione e non tirannide
mascherata dal proprio volere. Ma anche questo è impossibile, perché bisognerebbe poter conoscere quale sia la vera volontà dell’altro.
Poiché nessun uomo è riassumibile in un punto non possiamo mai identificare una volontà, un fine e un bene. Dobbiamo sempre
scegliere.
Dobbiamo giudicare e facendolo diventiamo tiranni. Avendo eliminato la possibilità di riconoscere contenutisticamente dei beni per
l’uomo, non esiste più alcun criterio: solo l’arbitrio.
Qualsiasi nostra azione è incapace di fondare l’altro, perché la sua esistenza è affidata alla sua sola libertà. Tutto ciò che noi possiamo
fare costituirà solo un punto di partenza da cui l’altro soggetto partirà trascendendolo. Da un lato tutto ciò mette bene in luce come non
esiste fatticità in grado di eliminare la libertà, dall’altro trae con sé un’ulteriore ed importante conseguenza. Se non è mai possibile
identificare contenutisticamente un bene per l’altro e la nostra azione crea per lui solo dei punti di partenza, non è allora mai possibile
fare davvero nulla né per né contro l’altro. Ed è qui che si gioca l’ambigua condizione del rapporto tra più libertà, tra questi assoluti
datori di senso, tra loro separati, ma al tempo stesso bisognosi di reciproco riconoscimento.
La posizione di Simone de Beauvoir viene richiamata da un altro suo saggio chiamato Per una morale dell’ambiguità. Dopo la fase
morale, essa rifiuta ogni generalizzazione e pretesa universalistica, riconducendo la sensatezza ai soli fatti, ma l’itinerario intellettuale di
questi scritti di etica non è semplicemente accantonato.
Per una morale dell’ambiguità presenta sin dalle prime pagine un nucleo teorico importante che fa da base a tutta la riflessione. Si tratta
della mancanza di coincidenza tra il soggetto e il suo proprio essere. Tale distanza, che è parte dello scacco che deve essere assunto, è
condizione di possibilità della morale: senza questo scacco non c’è morale perché significherebbe che l’essere è già ciò che può
diventare.
Il dover essere ha senso solo se l’uomo non è già tutto ciò che può essere, solo se è possibile rinvenire nell’ontologia un dinamismo e un
telos. Viceversa non è possibile ricavare alcuna indicazione normativa per l’azione. La de Beauvoir non parla di un dover essere in
relazione a una finalità oggettivamente riconducibile che riguarda il soggetto ma non è posta da lui, ma dal dover essere dell’azione
libera in quanto tale, il suo diversi dare come manifestazione dell’esistenza del soggetto.
Non gli è permesso di esistere senza tendere a quell’essere che non sarà mai; ma gli è possibile volere questa stessa tensione con lo
scacco che comporta. Solo il soggetto può svelare l’essere, ed è questo un compito a cui non può sottrarsi. Questo significa anche che
non ci sono valori da realizzare fuori da quelli che il soggetto, esistendo, suscita nel mondo. I fini posti e raggiunti sono solo nuovi punti
di partenza, in una costante distanza dal proprio essere che caratterizza, appunto, il soggetto. Occorre una convinzione affinché lo scacco
venga costantemente superato proprio mantenendo questa distanza da sé. La de Beauvoir paragona questa convinzione esistenzialistica
all’epochè hegeliana.
Fedele al principio esistenzialista per cui è l’esistenza a forgiare continuamente l’essenza, de Beauvoir rifiuta categoricamente che si
possa parlare di valori universali, poiché l’uomo oggettivo astratto, semplicemente non esiste. Chi ha realtà sono invece i singoli, ed è
proprio questa pluralità degli uomini concreti, singolari, proiettantisi verso fini propri a partire da situazioni la cui particolarità è radicale,
irriducibile quanto la stessa soggettività ad essere la fonte dei valori.
Bene o male, utile o inutile sono qui dei marcatori assiologici che acquistano senso solo a partire da una volontà cosciente che si proietta
nel mondo. Il significato di una situazione sorge all’interno di un progetto posto da un soggetto libero. In questo senso nulla possiede
alcun valore a priori, né può essere letto come utile o disutile; non è quindi perché si riconosce un valore che si persegue un fine.
Tutti gli esseri umani possiedono originariamente la libertà, una capacità di scegliere e di agire proiettandosi nel mondo che precede il
suo effettivo esercizio. La libertà morale, viceversa consisto in quella che potremmo chiamare l’affermazione consapevole della libertà
ontologica: non è raggiunta da tutti e può essere volontariamente negata dal soggetto o resa difficile dalla situazione. Il dovere si colloca
proprio nel passaggio dalla prima alla seconda. La libertà morale è ottenibile solo interagendo con altri soggetti moralmente liberi: dal
fatto che la propria libertà dipende da quella altrui, sorge l’obbligazione di aiutare o almeno di non ostacolare il movimento di altri per
acquisire questo secondo livello di libertà. De Beauvoir elabora l’idea di una libertà sociale che renda possibile il passaggio dal primo al
secondo livello di libertà poiché le persone non sono automaticamente sempre nelle condizioni di volere sé stesse libere. Il soggetto è la
mancanza d’essere, una coscienza capace di trascendere il tempo e lo spazio, ma al tempo stesso si tratta di un soggetto astratto, privo di
legami e desituato.
Qualora vi sia una adeguata situazione sociale, tale realizzazione è possibile: il soggetto può affermare coscientemente la propria libertà,
attivare legami positivi e contribuire alla libertà di altri.
Rileggendo da questa prospettiva il Secondo sesso, alcune criticità già evidenziate dalla visione essenzialmente negativa della donna
sembrano apparentemente trovare una soluzione: la de Beauvoir avrebbe sia presentato una denuncia sociale per una situazione che priva
le donne della possibilità di fare esperienza dell’elemento del per-sé dell’esistenza umana, sia descritto la donna a partire da questa
situazione di oppressione. Probabilmente l’intento dell’autrice è stato proprio questo ma fallisce nel tentativo. Le sue stesse premesse
depotenziano la forza della denuncia di oppressione sulla donna. Nonostante sia il tasto più noto al pubblico, il Secondo sesso ci appare
paradossalmente quello teoricamente più debole: oscillando tra una denuncia sociale ed un’enfasi fenomenologica ì, finisce con l’essere
o con un’incoerente condanna della donna all’immanenza o un’esortazione alla donna stessa perché prenda sul serio la sua libertà, senza
però poter imputare alcuna seria consapevolezza, né all’uomo né alla società, della situazione che costituisce solo un dato di cui tenere
conto e da cui partire per realizzare la propria libertà morale.
Volere sé stessi liberi
All’interno di questo duplice livello della libertà, il primo imperativo della morale è quello si volere sé stessi liberi. Se l’essere umano si
coglie come colui che è in grado di svelare l’essere, allora è anche in grado di comprendere come attraverso la propria libertà sia
chiamato a decidere del mondo e di sé. L’importante è non fermarsi ai fini particolari che strada facendo vengono realizzati, mantenendo
invece una costante tensione per conservare l’essere a distanza e affermarsi come libertà. Poiché il senso del mondo è deciso dal
soggetto, occorre non lasciarsi ingabbiare in immagini, modelli o valori che possono essere assunti solo se voluti e costituiti tali. In
questo senso svelare il mondo e volere sé stessi liberi coincidono.
Viene spontaneo ricordare come Sartre abbia largamente parlato della ineludibilità della libertà tanto che la malafede è proprio quella
situazione in cui il soggetto cerca una giustificazione esterna a sé dei suoi atti per mascherare sé stesso la propria radicale libertà.
La malafede è una menzogna a sé stessi e sembra assurdo parlare di volersi liberi se la libertà non è mai davvero eliminabile.
Volersi libero significa effettuare il passaggio dalla natura alla moralità fondando una libertà autentica sullo scaturire originario della
nostra esistenza.
L’essere umano non può evitare di proiettarsi nel mondo: il soggetto è costantemente chiamato ad agire, ma questa peculiarità è pura
contingenza. Perché questo moto abbia un senso, un significato, occorre che la volontà lo fondi: la direzione del proprio esistere acquista
un senso solo se si rende conto e assume che l’esistenza dipende dalle proprie scelte. Prende sul serio la propria libertà: questo significa
passare alla libertà morale.
Il duplice livello di cui stiamo parlando ci fa comprendere come non sia possibile non volersi liberi, perché siamo liberi, ma è sempre
possibile volersi non liberi, rifiutando o rinunciando ad assumere in prima persona la propria esistenza. Volersi liberi significa persistere
nel vano desiderio di essere, senza accettarsi come mancanza di essere. L’importante è rilanciare costantemente la propria libertà senza
ancorarla ai fini raggiunti: non sono essi a fondare e a giustificare la libertà che si fonda.
Le pagine che la De Beauvoir dedica all’assunzione cosciente della propria libertà sono di una potenza antropologica straordinaria
perché indicano come l’essere umano sia il frutto delle circostanze e di ciò che il soggetto fa in esse ed a partire da esse. Il passaggio
dalla libertà ontologica a quella morale è il passaggio alla consapevolezza che dipende da noi la persona che vogliamo essere.
La libertà non può essere economizzata: o la si impegna, o la si perde. Certamente l’impossibilità di ancorare la libertà ad una verità sui
valori e sul bene trasforma suo malgrado la libertà stessa in arbitrarismo, ma rimane profonda la consapevolezza che la prima esigenza
della morale è quella di assumere consapevolmente la propria libertà. Ogni altro alibi significa per l’uomo tradire sé stesso.
L’esistenza non può essere oggetto di risparmi: non si può pensare di mettere da parte il tempo come se ammassassimo del grano in un
magazzino per usarlo successivamente. L’attimo che passa non lo ritroveremo in futuro. L’invito è quello di non esimersi dalla scelta
mettendo in gioco veramente la propria libertà. Dobbiamo cogliere come l’esistenza non si dia se non nella misura in cui si spende.
Impegnarsi, consapevoli che questo implica dare e darsi senso, richiede anche assumere come le nostre azioni non siano tra loro elementi
isolati, ma costituiscano il continuo rinnovamento dell’esistenza del soggetto.
Impegnarsi richiede anche una sorta di fedeltà a sé stessi. Occorre perseverare nella propria volontà, con una pazienza che conferma il
valore del fine e della verità della scelta compiuta. La de Beauvoir coglie acutamente come la stessa contingenza della libertà richieda di
ripetere nel tempo la scelta fatta. Lei lo chiama “il dramma della scelta originaria”: il fatto che questa debba ripetersi, in ogni istante,
durante tutto il corso della vita. Questo binomio inscindibile nella libertà della serietà e contingenza della scelta congiunga due aspetti: la
necessità di riconfermare ripetutamente l’impegno della libertà verso il fine posto, ma anche la possibilità di cambiare, di volere e dare
luogo, nel senso più profondo del termine, ad una conversione.
Scegliere sé stessi: nulla è mai semplicemente esaurito nel suo semplice essere dato. Naturalmente le scelte compiute strutturano un
mondo, forgiano situazioni che avanzano poi richieste e presentano esigenze che condizionano poi le scelte successive ed è per questo
che mano a mano che passa il tempo le “conversioni”, i cambiamenti radicali, sono sempre più difficili, ma non si dà mai la situazione in
cui tale possibilità venga annullata. Il fanciullo non ha in sé l’uomo che diventerà, il suo futuro è indefinitamente aperto e non c’è un
passato di scelte compiute che grava sulla liberta. Per un uomo adulto ogni decisione parte da ciò che è già stato, da quel momento che la
sua libertà ha già plasmato. L’essere umano ha una sua durata, una temporalità; la scelta morale è libera, e proprio in quanto tale gravida
di esigenze. Il rapporto tra la libertà e il passato vale anche per la storia. Lasciare il passato alla sola fatticità significa spopolare il
mondo; è proprio dell’uomo avere un passato e trascurarlo significa che volgendosi indietro ci si vede preceduti da un arido deserto.
La libertà non è pura spontaneità, anzi ne è quasi l’opposto. Se volere sé stessi liberi è un imperativo morale, significa però che si può
anche non arrivare mai a questa meta. De Beauvoir delinea cinque tipi di personalità, che in maniera diversa, falliscono in questa
impresa: il sotto-uomo, l’uomo serio, il nichilista, l’avventuriero e l’uomo appassionato.
Il sotto-uomo è colui che ha un atteggiamento timoroso di fronte all’esistenza e non accoglie mai veramente la sfida della propria scelta.
Proprio perché non si impegna in nulla, intorno a sé scopre solo una realtà insignificante e opaca, un mondo nudo che risulta a sua volta
incapace di suscitare di suscitare alcun desiderio di sentire, di capire e di vivere pienamente. Tale mancanza di vitalità rende
paradossalmente più attraenti individui malvagi e odiosi, che però hanno scoperto delle ragioni di esistere, piuttosto che coloro che
cercano di annullare ogni movimento dell’esistenza e di gettarsi nel mondo.
Non volendo mai prendere posizione costituisce i suoi atti più come fughe che come scelte positive; cercando di mantenere la sua
presenza nel mondo al livello della fatticità nuda, rimane in un’esistenza che rimane sempre ingiustificata. Persino questo è comunque
una scelta e rimane quindi responsabile di sé stesso. Da qui il suo fallimento; vorrebbe ignorarsi.
Qui viene spontaneo accostare queste pagine agli scritti di Kierkegaard. Parlando dell’esteta questi mostra come il vuoto dell’esistenza di
una ricerca sempre rinnovata sfoci nella disperazione. Ma se l’uomo riesce ad assumerla e a sceglierla con un atto di volontà, torna
appunto al positivo. Quando è scelta, la disperazione diventa un atto serio con cui il singolo soggetto assume l’ansia di infinito.
Accettando che l’angoscia e la disperazione lo riguardino, finalmente l’esteta sceglie sé e non le cose attorno a sé. Questo passaggio è
fuggito dal sotto-uomo di cui parla De Beauvoir. Tale evasione è spesso resa possibile dall’assunzione acritica delle opinioni e valori
posti da altri, rifugiandosi in luoghi comuni che lo esimono dall’affrontare l’assunzione della scelta. Non potendo cancellare l’esistenza
angosciosa della sua libertà, cerca di neutralizzarla impegnandola positivamente in un contributo che semplicemente accetta in modo
acritico dalla società, rendendolo peraltro una forza incontrollata alla marcè di chi di volta in volta sappia catturarla.
De Beauvoir indica a questo punto quasi un divenire necessario che porta dal sotto-uomo, all’ uomo-serio; colui che nel porre valori
incondizionati e assoluti abdica alla propria libertà, ponendo sé stesso come inessenziale di fronte ad un oggetto posto invece come
essenziale. Per comprendere quale sia il nucleo di questo modo inautentico di vivere, dobbiamo distinguere due aspetti che nel pensiero
della nostra Autrice sono strettamente intrecciati. In primo luogo l’idea che i beni e i valori esistano unicamente in quanto posti dal
soggetto volente; data questa premessa il fine è solo un fine di fatto e non di diritto: il suo contenuto è totalmente contingente e non trova
altra giustificazione se non nell’essere stato posto da un soggetto volente.
Accanto a questo l’idea che questo fine dal valore in sé sia accolto come assoluto. Poiché l’assoluto non può che essere unico,
considerare in questo modo un fine implica la sacrificabilità di qualsiasi altro fine-bene-valore.
A ben vedere la sovrapposizione di questi due aspetti operata dalla de Beauvoir, non è necessaria: è infatti possibile identificare dei beni
e perseguirli pur riconoscendo la loro pluralità. Di volta in volta occorrerà comprendere quale sia la gerarchia dei beni in gioco. È
proprio dalla possibilità di identificare oggettivamente una gerarchia di beni che è possibile biasimare una scelta. Nel testo che stiamo
commentando si riportano alcuni esempi di uomini seri, come quello dell’amministratore coloniale che, intendendo la strada che vuole
costruire un fine assoluto, non ha alcuno scrupolo a garantire la costruzione anche al prezzo della vita di molti indigeni. Ma il fanatismo
colpevole di quell’amministratore è colto come tale perché la vita degli indigeni è un bene oggettivamente superiore a quello della
strada. De Beauvoir obbietterebbe a questa osservazione che è moralmente sbagliato sopprimere quegli uomini perché sono coscienze
libere, capaci di trascendenza, e che la loro libertà è necessaria per riconoscere il senso alla propria,
Qui possiamo mostrare che anche questa affermazione è incoerente e può essere accusata di malafede: le libertà che possono confermare
il significato del progetto dell’amministratore possono benissimo essere quelle dei suoi compatrioti in Europa, o dei coloni nel paese in
cui lavora, o dei commercianti che si agevoleranno della strada.
Accusarlo di aver indebitamente trasformato un obiettivo in un fine assoluto nullificando ingiustamente il valore della vita di altri
uomini, presuppone che quegli uomini e le loro vite siano dei valori in sé a prescindere dal colono e persino a prescindere dalla capacità
di passare dalla libertà ontologica alla libertà morale.
E’ molto acuta l’osservazione che se dei fini contenutisticamente finiti diventano l’unico senso della vita, il soggetto in questo modo si
dimentica che attraverso questi sta vivendo e che questa impresa non cade col fallimento o con la fine di quegli obiettivi.
La “Conversione” sarebbe possibile se non ci si fosse dimenticati che la libertà è sempre stata presente in ogni scelta e che la situazione
del presente è un punto di partenza per un ulteriore rimettersi in gioco dell’esistente. Ma se la finalità è sclerotizzata
nella datità raggiunta, questo movimento si arresta. De Beauvoir sostiene che la serietà è uno dei modi per realizzare l’impossibile sintesi
dell’in-sé e del per sé.
Il nichilista è colui che decide di non essere nulla. Per liberarsi della propria libertà nega il mondo e sé stesso; sotto questo aspetto è
molto vicino al sotto-uomo, ma diversamente da quello il suo rifiuto non è originario perché segue un tentativo di proiettarsi nel mondo.
Questo atteggiamento condurrebbe al suicidio, ma il nichilista ottiene piuttosto il suo essere nulla attraverso la distruzione di altri esseri
umani. La loro esistenza riflette immancabilmente la sua: gli latri, rivelandogli il mondo, lo mostrano a sé stesso come presenza in quel
mondo. Ecco allora che la volontà di distruggere diviene facilmente una volontà di potenza.
Poiché non si può rimanere autenticamente fedeli a questo movimento di contraddizione dell’esistenza, alla fine non si è potuto evitare,
anche in arte, il ritorno positivo e quindi alla serietà.
L’eroe nichilista si rivela essere il frutto di errore prospettico: ritiene vero che il mondo non possegga alcuna giustificazione e che il
soggetto stesso non sia nulla, ma scorda che è dal soggetto stesso che dipende la giustificazione del mondo, e che solo lui può, volendo,
esistere autenticamente.
L’avventuriero, amante dell’azione per l’azione, che gioisce del suo stesso proiettarsi nel mondo, indifferente al contenuto di volta in
volta assunto da suo volere. Sa che non esiste una giustificazione esterna per la sua esistenza e quindi non cerca valori eterni o sociali per
le sue imprese ma agisce per il solo gusto di agire, per far esplodere la sua stessa vitalità. Non raggiunge il genuino atteggiamento morale
per almeno 3 ragioni. In primo luogo può nascondere la “ricerca seria” della fama e della fortuna. In secondo luogo perché, anche
volendo pensare all’avventura nella sua purezza, questa rimane tale solo in un momento soggettivo che, però, è astratto. Sul suo
cammino l’avventuriero incontra inevitabilmente altri, di modo che ogni impresa coinvolge sempre altre esistenze.
La sua stessa libertà, per averla voluta realizzare in modo astratto, si rovescia in schiavitù: per rimanere libero da tutti i fini, ha bisogno
di ricchezze e di agi, e poco a poco finisce con l’assumerli come fine supremo.
Il terzo motivo di fallimento, poiché il significato della sua vita dipende solo da lui e non da imprese condivise, sa che questo significato
muore con lui. Ecco allora che per perpetuare sé stesso scrive libri sulle sue imprese e fomenta un certo culto della propria personalità.
Questo desiderio svela il bisogno degli altri per affermare il senso della propria esistenza.
L’opposto all’avventuriero è l’uomo appassionato, caratterizzato dall’attaccamento all’oggetto della sua passione, ma diversamente
dall’uomo serio, sa che questa importanza dipende interamente proprio da questa passione, non ha valore in sé indipendentemente da lui.
Fa esperienza della propria mancanza d’essere e attraverso il proprio desiderio aggiunge significati al mondo umano.
Tra la serietà e la passione ci sono gradi intermedi e può accadere che si passi dal volere un fine al fare di questo un oggetto di passione,
o viceversa. Se da un lato l’uomo appassionato fa sorgere nel mondo nuove e insolite ricchezze, dall’altro spopola, perché nulla fuori dal
suo progetto ha più significato.
Quando la passione diventa maniacale, si dà un duplice movimento. Da un lato il desiderio conferisce essere all’oggetto del desiderio
stesso, dall’altro il suo possesso sembra conferire essere al soggetto. Qui l’inganno non riguarda la fonte di ciò che è amato, ma l’idea di
poterlo davvero possedere, perché l’essere rimane sempre a distanza. L’appassionato non raggiunge la libertà morale perché si chiude
nella solitudine. A confronto dell’oggetto della propria passione le altre persone perdono valore. Una conversione è però possibile se
l’uomo appassionato accetta la distanza dal suo oggetto come parte della sua stessa passione, come condizione di svelamento
dell’oggetto. Questo può avvenire solo quando tale è una persona, e solo quando l’altro si assume come libero. È questo uno spiraglio
importante per salvare la relazione che è invece sempre segnata dalla conflittualità.
Volere gli altri liberi
Le cinque personalità descritte falliscono nel passaggio dalla libertà ontologica a quella morale. Si ha però l’impressione che qualunque
uomo sia condannato al fallimento della libertà, comunque si rapporti ai propri fini: se li sceglie o li assume passivamente, se persegue
contenuti definiti o la sua sola azione, se coglie che il loro valore dipende dalla scelta o se li ritiene validi in sé. La de Beauvoir ritiene di
aver impostato erroneamente il problema. Anni dopo considera le descrizioni dei diversi tipi di uomo che ha offerto ancora più arbitrarie
e astratte di quelle di Hegel.
In Per una morale dell’ambiguità troviamo lo stesso argomento: è la libertà quel fine universale e assoluto che non può essere cercato in
altri fini e che li giustifica nel loro complesso. Il punto è che l’essere umano va declinato al plurale: non esiste l’uomo ma gli uomini. La
morale deve necessariamente tenere conto di tale realtà in un universo di sole datità. Questo vale su un duplice versante: da un lato
occorre prendere atto della realtà dell’esistenza di altri uomini che strutturano un mondo umano e intrecciano la storia delle loro azioni;
dall’altro, la loro esistenza è necessaria perché il proprio agire non cada nel regno dei fatti, non diventi semplicemente un elemento di
datità. L’essere umano ha bisogno di riconoscimento, e questo richiede l’esistenza di altri uomini liberi.
De Beauvoir ritiene di poter rispondere a coloro che considerano l’esistenzialismo un solipsismo che sfocia inevitabilmente in una
volontà di potenza di stampo nietzschiano “Se è vero che ogni progetto emana da una soggettività è altrettanto vero che questo
movimento soggettivo pone da sé stesso un superamento della soggettività. L’uomo può trovare una giustificazione della propria
esistenza solo nell’esistenza di altri”. Volersi liberi significa volere anche gli altri liberi.
Ora è necessario affrontare il secondo imperativo morale. Se il primo imperativo indicava il dovere di volere sé stessi liberi, questo
indica il dovere di volere gli altri liberi. Cerchiamo di vedere la connessione tra le due proposizioni e le implicazioni della seconda.
Volere sé stessi liberi è al tempo stesso condizione ed esigenza della morale; la volontà può essere detta buona in questo senso poiché
vuole sé stessa volente.
De Beauvoir dichiara che Kant è stato la sua ispirazione. Per quanto riguarda lo stile argomentativo, teso ad individuare una qualche
forma di universale, e non nell’etica in quanto tale. In questo richiamo al ruolo della volontà, la de Beauvoir, come Kant, indica che
dobbiamo subordinare al volere morale la spontaneità originaria delle nostre intenzioni e motivi, senza appiattirsi sul dato situazionale
che precede la libertà. Poiché le nostre azioni hanno significato solo se lo ricevono da altri, promuovere la volontà degli altri rientra nel
nostro stesso interesse. Proprio questo genera una legge morale che muove a condannare il conflitto e la tirannia e a promuovere la
libertà di tutti. Non è un caso che Il secondo sesso dichiari sin dall’inizio che non vuole porre la sorte dell’individuo in termini di felicità,
ma di libertà.
Troviamo una precisazione dell’affermazione iniziale che abbiamo già avuto modo di considerare, ossia che una morale dell’ambiguità si
rifiuta di negare a priori che degli esistenti separati possano comunque essere collegati e che le loro singolari libertà possano forgiare
leggi valide per tutti. Qui si impone una riflessione. Perché la propria esistenza mantenga un senso ha bisogno del riconoscimento di altri
che siano a loro volta liberi cioè richiede che vi sia un futuro che rimanga aperto attraverso le loro libertà.
Volere la libertà di tutti appare più come una decisione che un’asserzione teoricamente sostenibile.
La libertà di tutti è presentata come una sorta di esigenza morale. Tale esigenza ha più la forma di un postulato non giustificabile che di
una intrinseca di coerenza del ragionamento morale stesso. La de Beauvoir sostiene che appena una libertà si ripiega su sé stessa, si
rinnega in favore dell’oggetto, e che quindi dobbiamo rispettare la libertà solo quando si destina alla libertà e non quando rinuncia a sé
stessa. Ma questo discorso è astratto, perché non esiste la libertà, come una sorta di ipostatizzazione della capacità di trascendenza.
Esistono invece uomini liberi vogliono fini e che si gettano nel mondo. Questi fini necessariamente si intrecciano abdicando in favore di
un oggetto. Il punto è che occorre valutare sulla liceità dei contenuti di queste libertà, ma tale giudizio, date le premesse poste, è
dichiarato a priori privo di significato.
L’intrascendibilità della libertà risiede nel fatto che appena abbiamo a che fare con degli esseri umani, abbiamo a che fare con la loro
libertà: non possiamo sottrarci al pericolo che essi costituiscono, perché per farlo dovremmo ritrarci da ogni contatto con l’uomo, ma in
questo modo perderemmo noi stessi. Che fare allora? La soluzione è il combattimento. Rimane solo da capire per chi lottare e questo
dipende solo dal proprio progetto.
Per chi, con chi e contro chi lottare non può essere definito a priori. Il rispetto della libertà dell’altro non è una regola astratta perché è la
condizione del nostro stesso sforzo, ma poi, suo malgrado, mostra come l’altro non sia un termine assoluto ma selettivo: è quello che noi
definiamo, attraverso il nostro progetto, il nostro prossimo. Troviamo due condizioni per l’esercizio della libertà. Innanzitutto occorre
che al soggetto sia possibile far sentire la propria voce, e per questo bisogna lottare contro chi pretende di soffocarla. Tuttavia proprio
questo porta a contraddire l’imperativo a volere tutti liberi: “Per farmi esistere davanti agli uomini liberi, sarò spesso costretto a trattare
certi uomini come oggetti. Il prigioniero ucciderà il carceriere per andare a raggiungere i suoi compagni; è un peccato che anche il
carceriere non sia un compagno, ma per il prigioniero sarebbe ancora peggio non avere mai più nessun compagno”.
È chiaro che ci sono due progetti diversi che contrappongono due libertà. È un peccato che non siano compagni, ma ciò che è
irrinunciabile è che ci siano dei compagni, non che questo uomo lo sia.
In secondo luogo è necessario avere rapporti con uomini che siano liberi per noi, ossia che possano rispondere all’appello della nostra
libertà. Ci sono alcune trascendenze che per noi si irrigidiscono in oggetti e che possiamo superare, altre invece che possiamo
accompagnare, altre ancora che ci superano.
Occorre creare situazioni per cui gli uomini possano accompagnare e superare la nostra trascendenza. Ma anche qui l’universalità viene
meno. È vero che afferma di dover cercare situazioni di salute, sapere e benessere perché la libertà degli uomini non si consumi nella
lotta contro di loro e possa invece rivolgersi in questo gioco di mutua trascendenza, ma poi il singolo essere umano si si staglia
sull’orizzonte della concretezza del suo volere.
Sorprendente ammissione dell’inevitabilità della violenza. Non si può accettare a cuor leggero il ricorso ad essa ma neanche eluderla,
perché le libertà, di fatto, divergono e non si può dire nulla sul valore del loro contenuto.
Siamo condannati alla violenza, condannati al fallimento di quella morale che vuole tutti liberi. Il rispetto della persona umana è astratto
e non ci serve da guida; gli individui sono tra loro separati e la persona umana è tutta intera nel carnefice come nella vittima.
L’ambiguità esplode quando ci si rende conto che ciascuno è legato a tutti ma esiste per sé, quando si assume che si è interessati alla
libertà di tutti ma attraverso progetti singolari.
La via per l’azione dovrebbe essere quella della tensione alla libertà, capace, lei sola, di fondere il valore di ogni fine. Tra la libertà di un
uomo e qualsiasi altro valore posto da un progetto non c’è paragone possibile, non sono commensurabili perché l’uno è la fonte
dell’altro.
Bisogna scegliere: quel tutti dell’imperativo è definitivamente messo in crisi. Si possono ritenere gli avvenimenti umani frutto della
necessità, come quando ci si trova di fronte alla forza naturale di un terremoto; occorre decidere, pendere una posizione. Questa scelta
determina dei legami con alcuni, delle opposizioni con altri.
Prendere posizione, senza mascherare la libertà della scelta implica assumere la responsabilità verso l’altro della propria azione. Rimane
da comprendere di che responsabilità si tratti, dato che da un lato ogni scelta implica alleati e nemici, dall’altro abbiamo già visto come
non si possa mai veramente nulla né per né contro l’altro. Su questo la posizione della de Beauvoir è netta: le nostre azioni sono in un
certo senso indifferenti per l’altro che può comunque trascenderle, ma non per noi. È vero che possiamo agire solo sulla fatticità
dell’altro, ma proprio di questo dobbiamo rispondere: strutturiamo una situazione che facilita o rende arduo il suo passaggio alla libertà
morale, e poiché siamo noi a strutturarla, ne siamo responsabili. La datità in cui l’altro si muove è un fatto, ma siamo noi a decidere di
far parte, e come, di quel fatto.
In ultima analisi questa responsabilità è un peso che ciascuno deve portare in solitudine, senza potersi appellare ad altro che alla sua
scelta, il cui valore rimane insindacabile. Le libertà si sostengono come le pietre di un arco, ma ciascuna giustifica sé stessa e le sue
alleanze. È la condizione libera dell’uomo a definire il bene e il male, perché questi sono tali all’interno del movimento di un’esistenza
che si proietta nel mondo. Alla fine il passaggio dal volere sé stessi liberi a volere tutti liberi risulta vuoto e il secondo imperativo si
frantuma nella molteplicità delle volontà che si intrecciano. Non esiste alcun criterio contenutistico per prendere la parte di una o
dell’altra, non è possibile giudicare.
Il metodo della morale realista
L’impossibilità del giudizio è la conseguenza del primato assiologico accordato dalla libertà rispetto al suo contenuto. Nonostante questo
l’essere umano deve decidere, prendere posizione, agire, anche se non esistono valori a priori e norme che possano aiutarlo. De Beauvoir
non rinuncia immediatamente a delineare un metodo che possa fungere da guida per l’agire morale. Il punto di partenza della sua
riflessione è che non possiamo non scegliere, ma neanche possiamo dire alcunché sul concetto della scelta. La soluzione che offre negli
scritti della sua “epoca morale” è che l’etica, come l’arte, non fornisce ricette, ma può solo proporre dei metodi.
L’unica indicazione che sembra possibile dare è quella della coerenza tra i fini perseguiti e i mezzi utilizzati per raggiungerli. I mezzi
sono giustificati dal fine, ma poiché sono proprio le azioni presenti a definire il fine, ciò che in ultima analisi risulta irrinunciabile è che
non lo contraddicano, inficiandolo nel presente, e condannando tutta l’impresa a sprofondare nell’assurdo. Per giustificare i mezzi il fine
deve essere manifesto nell’azione, svelarsi chiaramente nel corpo dell’impresa attuale. Il metodo della morale consiste proprio in questo:
nella coerenza tra fini e significati, ossia tra fini, mezzi e libertà.
Non si elimina la responsabilità assoluta della propria scelta al contempo il contenuto dell’azione non può smentire il senso della libertà.
È nell’orizzonte di questo metodo che de Beauvoir parla di una morale realista in cui si abbandona l’astrattezza dei principi e delle leggi
universali per confrontarsi con la specificità dei problemi che l’essere umano incontra nella vita.
Quando si evita di confrontarsi con la concretezza della vita si invitano gli uomini a sottomettere i propri comportamenti ad imperativi
universali e senza tempo, a conformare le proprie azioni ai grandi ideali, come la Giustizia, la Legge, la Verità, di un paradiso
intellegibile. Ma questa generalizzazione morale è indicata come sterile perché si tratta di prescrizioni astratte che non sono in grado di
offrire nessun aiuto positivo per decidere che cosa si debba fare nelle situazioni concrete, sia nella propria vita personale sia a livello
politico. È dunque contestando quello schema concettuale che l’universalità astratta dei principi morali evocata viene indicata non solo
come vuota, ma addirittura come dannosa per le decisioni che devono confrontarsi con la complessità contenutistica dell’esperienza
umana.
De Beauvoir ricorre ad un paragone con la fisica e l’ingegneria: come la forza di gravità non spiega come costruire gli aerei così la
nozione di Legge o Giustizia può solo limitare le aree di azione dei politici, ma senza aiutarli a trovare soluzioni per i problemi specifici.
Ecco perché molti politici rifiutano la morale e si dichiarano “realisti”. Questa progressiva contrapposizione tra morale e politica è un
errore. Queste due dimensioni dell’agire non sono però separate poiché in ogni azione politiche ci sono delle scelte morali senza numero.

“L’uomo è quello che vi è di più alto per l’uomo”  il politico che vuole essere realista può sperare in trovare in questa affermazione la
giustificazione obiettiva alle sue imprese; sa quello che deve volere; deve voler servire l’uomo. E siccome non c’è altro valore che
questo, tutti i mezzi impiegati sono di per sé stessi indifferenti: non esiste alcun tabu. Il realista sfugge all’esitazione morale: il fine è
fissato e i mezzi determinati dal fine stesso.
Le varie politiche ugualmente realistiche sono tra loro molto differenti a seconda della concezione di uomo che adottano. Quelli che
occorre fare è assumere che solo i cosiddetti obbiettivi oggettivi sono di fatto risposte alle domande su come si dovrebbe considerare
l’uomo e il mondo, ma anche che esse forgiano, decidendoli, quali siano i valori.
I politici non dovrebbero trincerarsi di obiettivi razionali distinguendo tra fini e significati, perché dovrebbero rendersi conto che i fini
politici richiedono scelte e queste istituiscono significati. Dovrebbero rinunciare alle certezze del cosiddetto realismo politico. L’etica
dovrebbe interessarsi delle singole azioni dell’uomo ed essere relativa ai problemi concreti con cui questi si deve confrontare.
I cardini sono dunque due: prendere sul serio la propria libertà senza trincerarsi dietro inesistenti valori aggiuntivi, agire in modo
coerente rispetto ai fini posti, il cui senso deve trasparire nelle azioni messe in atto per raggiungerli. Questo discorso non riesce però a
dare risposta a quei problemi concreti che pure la morale realista avrebbe dovuto poter affrontare efficacemente. Troviamo un esempio di
ciò che è detto in cui Simone de Beauvoir analizza due problemi: il sacrificio degli innocenti e la questione della punizione o della
vendetta. Partiamo dal primo.
La domanda da cui parte la sua riflessione investe la sensatezza e la liceità delle azioni che mettono a repentaglio la libertà, o addirittura
la vita di innocenti. Un esempio: pensando al movimento di opposizione al nazismo è giusto fare atti di resistenza quando si può
prevedere che incolpevoli ostaggi verranno poi uccisi per rappresaglia?
Se questo progetto è una guerra, non ci si può nascondere che richiede sempre enormi sacrifici; troppo spesso si cerca di camuffare
questa realtà dietro a teorie in cui l’individuo è totalmente subordinato alla comunità, trasformando così il problema morale del suo
sacrificio in un problema tecnico che è l’errore del realismo politico. Ma se l’individuo non è importante come può esserlo la società che
dagli individui è composta? Se questi non hanno valore nemmeno il concetto di sacrificio lo ha, perché non si sta sacrificando nulla ma
usando dei mezzi a disposizione. Se invece l’individuo è posto come valore singolare e irriducibile, la parola sacrificio ritrova il suo
senso; quel che un uomo perde rinunciando ai suoi progetti, al suo avvenire, alla sua stessa vita, non appare più come una cosa
trascurabile.
La politica dovrebbe avere sempre al centro l’individuo: i progetti che lo sacrificano facilmente in favore dell’insieme rappresentano un
problema non solo tecnico che risponde al calcolo delle risorse umane, ma morale. Esistono azioni violente in cui alcune persone sono
sacrificate per salvarne altre. Il metodo della morale non è qui rispettato, perché in questo modo i fini e i mezzi sono contraddittori:
permettere e volere la morte di uomini per salvare uomini. De Beauvoir sostiene l’inaccettabilità di volere la morte un solo uomo per
salvarne diecimila. Ha ragione perché ogni uomo è un fine in sé, ma tale ragionamento è vero solo in astratto ed è assurdo nella pratica,
in quanto quando si deve prendere una decisione si ha a che fare con delle quantità: occorrerà allora scegliere secondo un criterio di
utilità; quale? Non può che essere quello che garantisce un avvenire aperto, necessario per mantenere la trascendenza.
Senza un futuro la liberta appassisce quindi là dove l’azione richiede di sacrificare delle libertà, il criterio rimane quello di salvare la
libertà del futuro. È chiaramente plausibile sacrificare sé stessi per mantenere un futuro di libertà, non possiamo dire la stessa cosa
quando la nostra azione implica il sacrificio di altri: o essi stessi sono coinvolti volontariamente nel progetto o l’atto non è accettabile,
perché il futuro che si preserva non salverà la loro trascendenza, in quanto questa è già negata nel presente. È proprio partendo dalle
premesse esistenzialistiche che questa idea della sacrificabilità degli uomini presenti per gli uomini futuri non è moralmente accettabile.
De Beauvoir non si nasconde che la natura del futuro è ambigua tanto quanto il presente e che non possiamo mai conoscere il senso della
storia se non quando ci si dispiega attualmente nella contemporaneità; anche se esistesse una scienza della storia, ogni singolo momento
lascerebbe l’azione nel dubbio e nella necessità di decidere. Non vi è alcuna differenza tra una dottrina della necessità dialettica e una
teoria che lascia spazio alla contingenza, mentre c’è differenza nell’ordine morale. Questa attenzione per la libertà del futuro non
fornisce dunque alcuna soluzione al problema del sacrificio di innocente, né toglie lo scandalo della violenza che rimane ineliminabile.
Come fare? Quando un’azione coinvolge altri è lecita? Non basta pensare alle possibilità di successo: da un lato non è possibile
determinare con certezza l’esito, dall’altro gli interessi in gioco non sono riducibili ad un’equazione.
Parlare di necessità sarebbe allora malafede: è sempre la libera scelta che pone l’azione e i valori.
La teoria morale che abbiamo cercato fino a qui di ricostruire si mostra alla fine alquanto problematica. Accanto ai due imperativi di
“volere sé stessi liberi” e “volere tutti gli altri liberi”, si affianca una sorta di pragmatismo etico. Si tratta di assumere coraggiosamente la
piena responsabilità delle proprie azioni senza mascherarsi dietro a nulla, ma se non si vuole semplicemente aspettare il giudizio della
storia occorrerà ritrovare un criterio per il presente che non renda semplicemente “scelta” sinonimo di “arbitrarietà”.
Benché lei stessa dica che una valutazione matematica per giungere ad una decisione è impossibile, sembra comunque affidare al metodo
la capacità di indicare una via per giungere a soluzioni plausibili. E questo è proprio il punto: plausibile e ragionevole non sono in sé
indicatori del valore morale. Alla fine sembra che solo la violenza gratuita possa essere condannata, ma possiamo spingerci a dire che in
fondo, se fosse inserita in un progetto per dare libertà d’azione a molti uomini, in quest’orizzonte teorico potrebbe essere giustificata.
L’incompletezza del metodo della morale realista sembra potersi evincere anche dalla trattazione del tema della vendetta. Il contesto è
quello dell’immediato dopoguerra; de Beauvoir riflette sul significato e sulle condizioni di possibilità sia della vendetta sia della
punizione, arrivando alla conclusione che siano entrambe votate al fallimento, anche se non si può rinunciare alla punizione perché non
si può permettere che il crimine contro l’uomo passi inosservato.
Di fronte al tradimento o a certe violenze, si ode spesso esclamare “La pagherà!”, ma questo apparente desiderio di ristabilire la giustizia
facendo pagare il colpevole, affonda le proprie radici nell’odio.
Nella vendetta la “punizione” non ha invece altro scopo che il dolore da infliggere. È la sofferenza e la morte di individui che si
ritengono responsabili di atti malvagi ciò che si cerca. Si vuole che l’avversario comprenda per esperienza diretta ciò che ha fatto. Ma
proprio qui risiede la prima causa intrinseca del fallimento della vendetta; chi si vendica cerca il rovesciamento della situazione per
ristabilire una reciproca la cui negazione costituisce la più fondamentale delle ingiustizie, ma non riuscirà mai nell’intento.
La vendetta non può riuscire nell’intento perché la sofferenza della vittima lascia intatta la sua coscienza che, attraverso la sofferenza
ritrova e riafferma la sua autonomia. Qualora invece ci sia pentimento, ancora una volta la posizione dell’antico boia non eguaglia quella
delle vittime, perché rimane padrone delle sue libertà.
Quando si vuole vendicare dei morti, da dove si può trarre la liceità della vendetta? Chi agisce non può farlo a nome proprio e deve
quindi intervenire in quanto partecipa dell’essenza universale dell’uomo che è stata lesa nella vittima. Legittima la sua azione perché
pone la punizione sul piano dell’universale, facendone l’esercizio di un diritto. Ma secondo de Beauvoir questa pretesa lo trasformerebbe
a sua volta in un tiranno, poiché nessun uomo è qualificato per difendere i diritti universali dell’uomo.
La vendetta dovrebbe lasciare allora posto all’idea della punizione, dove non un singolo uomo si erge a giudice, ma la comunità nelle sue
istituzioni, purificando il giudizio della passioni soggettive. I giudici non si propongono di vendicare i morti ma guardano al futuro.
Qui intervengono però altri fattori di fallimento. Il primo luogo de Beauvoir vede un’ineliminabile distanza storica tra il contesto in cui
l’azione criminale è stata realizzata e quello del giudizio, così come una differenza tra l’uomo che ha commesso l’atto e l’uomo
imputato.
La punizione mancherebbe il bersaglio: il contesto e l’uomo che ha compiuto gli atti che si vogliono punire non sono presenti.
In secondo luogo, il fallimento deriva dall’impossibilità di cancellare il male e l’orrore compiuto: non si ristabilirà alcun ordine e non si
bilanceranno gli errori. Non è possibile restaurare davvero la giustizia infranta. In ultimo, con un processo ci ritroviamo davanti alla
contrapposizione tra l’idea astratta di società giusta con la concretezza di un’esistenza, con l’individualità della morte del condannato.
Solo la vendetta, fondata sull’odio, potrebbe dar senso alla punizione costituendola come un momento di una lotta, ma abbiamo già visto
come anche la vendetta sia destinata a fallire.
La punizione è necessaria perché non si può accettare che la degradazione dell’umanità sia ignorata.
La morale realista si gioca proprio qui, quando il ragionamento morale esige un’azione di cui al tempo stesso decreta il fallimento. Da
quanto detto sembrerebbe che la vendetta e la punizione non raggiungano il loro scopo; tuttavia, de Beauvoir si rifiuta di concludere che
quindi non si possa veramente parlare di un dovere di giustizia. La sua conclusione è che bisogna ugualmente punire. In questo modo
riconosciamo che l’uomo è veramente responsabile dei suoi atti, sia nel male sia nel bene.
Bisogna però rimanere consapevoli che l’obiettivo morale di restaurazione della giustizia rimane comunque inevaso e che alla fine,
volendo noi vivi punire chi ha causato la morte di altri, ciò che facciamo è in realtà affermare noi stessi.
I nostri atti non sono solo fenomeni materiali, ma sono anche atti significanti: mirano sempre ad una situazione umana e devono al
contempo crearla e rivestirla di significato. Il realista ritiene di poter fare qualsiasi cosa per aggiungere il fine, ma spesso cade
nell’incoerenza tra il fine e il mezzo.
Il realismo politico è malafede: non perché sottragga la politica alla morale asserendo che i valori non la riguardano e che esistono solo
ragioni di convenienza o ragioni di stato, ma perché non ci sono fini giustificati a priori, in quanto esistono solo le decisioni e le scelte.
Alla fine de Beauvoir non riesce a dire sesia giusto o no sacrificare un uomo per salvarne mille: l’unico invito è quello di assumere fino
in fondo la propria decisione, collegando il futuro al presente dell’esistente, il fine alla decisione presa e il mezzo al fine. La morale per
la nostra Autrice è realista; per mezzo di essa l’uomo si realizza, realizzando i fini che sceglie.
Di fatto, anni dopo, lei stessa giudicherà troppo astratti gli scritti di questo periodo, ma in fondo quello che farà sarà di radicalizzare
questo modo di intendere la morale realista nella linea di scegliere e di fondare sé stessi. Ciò che troviamo negli scritti successivi è una
definitiva rinuncia a individuare una regola, o un metodo, valida per tutti.
L’arte di vivere
De Beauvoir progressivamente cerca di passare sempre più decisamente dell’universale alla ricchezza dell’esistente. Tale obiettivo
permea le pagine del suo romanzo più importante (I Mandarini).
La vita umana si svolge come in due dimensioni, una universale e l’altra legata allo spazio e al tempo. La filosofia ha il compito di
esprimere entrambe, ma spesso non esplicita bene il livello della soggettività dove risiede l’aspetto singolare e al tempo stesso
drammatico della condizione umana stessa.
La riflessione filosofica offre una ricostruzione intellettuale dell’esistenza umana, ma il romanzo mostra l’esperienza “nella sua forma
originale”. D’altro canto anche la metafisica ha una sua forma soggettiva: tutte le persone hanno esperienze metafisiche in cui
sperimentano sé stesse come tali nella totalità del mondo. Ne sono un esempio la paura, il sospetto, la ricerca del potere, il timore della
morte, la lotta, la brama di assoluto. Proprio questa dimensione può essere espressa nella forma di un’avventura spirituale.
I romanzi filosofici dovrebbero mostrare un tipo di autenticità o essenza dell’esperienza soggettiva. Secondo la de Beauvoir riguardo a
questo obiettivo, l’esistenzialismo occupa un posto speciale poiché “se è scritto e letto onestamente, il romanzo metafisico offre una
rivelazione dell’esistenza che non ha equivalenti in nessun’ altra forma di espressione”. Il significato degli oggetti non può essere
separato dal soggetto perché include la nostra relazione con esso, una relazione che è azione, emozione, sentimento. Per questo afferma
che la metafisica non è primariamente un sistema: fare metafisica significa guardare il mondo attraverso sé stessi e con la totalità di sé
stessi. L’esperienza basilare del mondo consiste nel nostro coinvolgimento con l’oggetto: prima di poter pensare al mondo, dobbiamo
esprimerlo, farlo apparire. Il romanzo permette di esprimere la verità delle esperienze concrete dei singoli, degli altri e di sé stessi.
Tutto questo è di capitale importanza anche per la teoria morale della de Beauvoir in quanto è proprio a partire dall’esistenza concreta
che cerca di sviluppare un’etica. Avendo però abbandonato il tentativo di esprimerla in forme universali, l’etica diventa per lei un’arte di
vivere, come è perfettamente espresso ne I Mandarini.
Il romanzo si articola attorno ad una serie di decisioni da prendere che si presentano ai protagonisti come autentici drammi morali. È
proprio attraverso queste scelte che si chiarisce il concetto di “arte di vivere”. Questa consiste in una vita coerente, di cui ci si riconosce
pienamente autori.
Osservando il modo in cui le figure del racconto prendono le loro decisioni in questioni morali, si coglie come per de Beauvoir non
esistano leggi valide per un approccio individuale alla vita, con cui cerca di forgiare proprio quest’etica come arte di vivere, con
l’obiettivo di fornire a sé, analogamente ai personaggi dei suoi romanzi, un’identità coerente creata attraverso la narrazione.
Nella sua autobiografia si propone di tracciare e di cesellare la sua vita attiva.
La prospettiva dell’arte di vivere ha senz’altro il pregio di prestare attenzione a quelle che potremmo chiamare le forme della
soggettività, ossia alla concreta situazione in cui il soggetto si trova, con le sue relazioni e la sua storia. La libertà da cui scaturiscono
doveri, la prossimità di certi uomini implica legami di solidarietà che risulterebbero sfumati e vani se pensati genericamente nei confronti
dell’umanità, così come l’accesso a certe conoscenze porta con sé la responsabilità del loro utilizzo.
Ciò che manca in Simone de Beauvoir è la possibilità di rinvenire un senso che non origini dalla volontà stessa del soggetto, ma che sia
intersoggettivamente riconoscibile come tale. Nella sua arte di vivere quando si presentano i dilemmi morali il punto non sta tanto nel
riconoscere che cosa si debba fare, ma nel deciderlo. Il giudizio in quanto tale è bandito.
L’unica clausola rimane la coerenza con la posizione assunta, ed è questa un’eco del metodo della morale delineata negli anni Quaranta.
Ne I Mandarini de Beauvoir vuole mostrare la radicale ambiguità della condizione e dell’azione umana, rinunciando ad indicare
soluzioni. Ciò che rimane alla fine è la pura autoprogettazione.
Progetto e giustificazione
Prendere sul serio la propria libertà e cogliere la centralità esistenziale del progetto sono come due facce della stessa medaglia.
Certamente la libertà così assunta deve affrontare ostacoli che offrono una resistenza al suo avanzare. Tali ostacoli non solo non
depotenziano il dovere della libertà, ma sono anzi suscitati dal suo stesso movimento. Senza di esso l’azione stessa non sarebbe
possibile. Una realtà diventa un limite del proprio potere a seconda del tipo di azione che ci si propone. Tuttavia perché la volontà non
muoia sull’ostacolo che essa stessa ha suscitato è necessario che, dandosi un contenuto singolare, non si limiti ad esso. Assumere lo
scacco nella libertà significa cogliere come ogni progetto parziale non sia altro che un modo di porre l’esistente; persino il fallimento è
incapace di condannare all’immanenza, perché diventa il punto di partenza per un nuovo movimento della libertà. Occorre però
impegnarsi nel mondo con progetti definiti.
Per de Beauvoir la realtà in sé non ha alcun valore né significato, ma lo riceve dall’essere umano, dal soggetto capace di trascendenza.
Questo significa che l’esistenza inerte delle cose è separazione, solitudine. Non esiste alcun vincolo tra sé e il mondo, nulla gli
appartiene. Il legame viene posto.
Questo è forse il centro di tutto il discorso. Benché successivamente lei colga come la società non si aggiunga in un secondo momento
all’individuo, ma lo accompagni sin dalla sua nascita, non rivede mai la prospettiva secondo cui il legame con l’altro da sé sia posto dal
libero impegno del soggetto. Non solo: perché l’altro da sé appartenga al soggetto, deve ricevere da lui una fondazione di senso.
Tale prospettiva non si limita alla realtà oggettuale ma anche gli altri soggetti: il legame con un individuo può esistere solo se creato, e lo
è attraverso un progetto di sé verso l’altro. Il progetto è ciò che definisce il legame con l’altro, il primo elemento di valutazione dei
doveri e dei diritti.
Questa progettualità nasce dalla trascendenza dell’uomo che non si esaurisce nella fatticità del già dato. Da un lato perché “L’uomo è
l’essere della lontananza, egli è sempre altrove. Nel mondo non esiste nessun punto privilegiato da quale l’uomo possa dire: “sono io”
con sicurezza; egli è costitutivamente orientato verso qualcosa di differente da sé”. Questo è il motivo per cui il soggetto è in qualche
modo sempre parzialmente deluso dal risultato raggiunto.
La meta è tale solo quando è guardata a distanza, durante il movimento verso essa, ma una volta raggiunta non basta più e si trasforma
immediatamente in un nuovo punto di partenza. Se il fine viene inteso come valore in sé, indipendentemente dal progetto si cade nella
situazione dell’uomo serio, che abdica alla sua libertà. Ma proprio qui si collegano al tempo stesso un punto di forza e un punto di
debolezza del suo discorso. Il primo risiede nel fatto che la centralità della libertà che progetta e prende posizione riconsegna in modo
forte al soggetto la costituzione della propria identità morale e intersoggettiva. All’uomo non capitano semplicemente cose perché è lui
che deve decidere come reagire e come progettare.
Proprio questo decidere di sé, questo darsi un’identità, permette una vera comunicazione e rende possibile anche cercare nello sguardo
dell’altro il riconoscimento di ciò che si è deciso di essere. L’ineludibilità della libertà nella giustificazione interna dell’esistenza fa sì
che nessuna legge possa essere veramente tale per il soggetto essendo al tempo stesso eteronoma. Questo di per sé si traduce in esigenze
profonde perché l’essere umano sceglie il proprio progetto e con esso scegli sé stesso.
La fenomenologia della libertà che non è mai appagata dal risultato raggiunto esprime bene l’apertura alla trascendenza che è propria
dell’essere umano e che non può mai essere saziata da alcun risultato finito: in questo senso la necessità di un riferimento ad altri esseri
personali risulta imprescindibile nella dinamica della stessa libertà e dell’esistenza.
Il punto debole è dettato dalla consegna del valore alla sola progettualità soggettiva. Due sono le note da fare a questo proposito.
Innanzitutto la pretesa di riconoscimento della propria identità e sottilmente frustrata dall’idea che qualunque scelta si equivalga. Se il
valore è unicamente posto dal valore soggettivo, l’identità e il valore del soggetto stesso non cambia qualunque cosa scelga.
Il punto problematico di Simone de Beauvoir deriva dall’aprioristica eliminazione della possibilità di un fondamento che trascenda la
volontà soggettiva, bandendo così la possibilità di rinvenire un dover essere che possa in qualche modo intercettare e offrire criteri della
progettualità dell’esistente che diventa così l’unica fondazione. Se questo non esclude una rigorosità nel soggetto stesso, si esclude però
la possibilità di un riconoscimento intersoggettivo del valore del progetto, la cui giustificazione e fondazione risiede nella stessa
esistenza progettante. Da un lato la responsabilità è assoluta: il mondo in cui vive non è addebitabile ad altri che allo stesso soggetto
libero che sceglie ed agisce. Dall’altro è una responsabilità autoreferenziale perché la lode e il biasimo non hanno senso fuori dal
progetto del singolo esistente. Ecco allora che l’altro non può che essere interpretato come strumento o ostacolo del proprio progettare
perché il senso e il valore del mondo deriva dal progetto del per-sé e non ha alcune senso, né valore, né utilità, prima o fuori da quel
progetto. Il futuro rimane aperto e ciò che abbiamo fatto e ciò che siamo stati non cade nell’inerte fatticità. Nulla è in sé condannabile,
nulla assolvibile. Rimane solo il progetto a cui anche il progetto con l’altro si piega. Ecco allora che “in un certo senso la violenza non è
un male, dal momento che non si può nulla né per né contro un uomo.
Ma appunto, scegliendo di agire su questa fatticità, rinunciamo ad assumere l’altro come una libertà e in pari misura riduciamo le
possibilità di espansione del nostro essere; l’uomo con cui faccio violenza non è un mio pari, e io ho bisogno che gli uomini siano miei
pari”. Poiché per definizione non è però possibile assumere tutti come libertà e non esiste criterio fuori dal progetto, ancora una volta
sarà il proprio arbitrio a decidere.
CAPITOLO 4: DA SIMONE E OLTRE SIMONE
Progettarsi madri
Libertà, progetto, arbitrio: la fecondità del richiamo ad assumere la propria libertà come un compito e il tentativo di strutturare un’etica
che prenda sul serio tale movimento si arenano sulla sabbia compatta dell’arbitrio, rimasto unico giudice dell’azione e del suo senso.
Tutto questo investe ogni dimensione dell’esistenza e anche la questione della generazione e della maternità.
Simone de Beauvoir ritiene la maternità una condanna, la Firestone addita la gestazione come una cosa barbarica. Per entrambe la
scienza è lo strumento che può liberare dalla maternità con le tecniche di fecondazione extracorporea e la maternità surrogata. La
tecnologia, sostiene la Firestone, ha posto le premesse per rovesciare l’alleanza tra la condizione naturale e la cultura.
Da un lato quello che in Firestone sembrava ancora utopistico diventa prima possibile e poi addirittura prassi su larga scala, dall’altro la
visione della maternità e della scienza cambiano profondamente, mentre poco a poco l’utopica fiducia nel ruolo salvifico delle scienze si
ridimensiona fino a venire apertamente contestato da molte pensatrici. Con gli anni Ottanta nell’ambito dei women’s studies comincia a
svilupparsi il pensiero della differenza e una maggior attenzione alla peculiarità della donna.
Si mette a tema tutto ciò che la donna ha sviluppato attraverso la maternità; parallelamente nasce un filone di studi sull’etica della cura
che riporta l’attenzione sulle relazioni. Alcuni settori del femminismo radicale si oppongono duramente alle tecnologie riproduttive,
considerandole la riproduzione dello schiavismo maschile nei confronti delle donne, ancora più pesantemente viste come “macchine per
fare bambini”. Per lo più, nel giro di pochi anni il sentire comune si è come assuefatto alla medicalizzazione di tutte le fasi dell’esistenza
e l’utilizzo delle tecnologie riproduttive rientra tra le normali opzioni offerte sul mercato. In tutto questo l’eredità di Simone de Beauvoir
sembrerebbe esaurirsi in una sorta di interesse storico per aver fornito con la sua celebre frase “donne non si nasce, si diventa”, il
leitmotiv delle teorizzazioni della separabilità del gender dal sesso biologico.
Per la nostra Autrice solo un atto produttivo permette di esercitare la trascendenza umana mentre tutto ciò che ha a che fare con la
fatticità della biologia è un legame con l’immanenza che può arrivare anche ad essere una condanna. In questa prospettiva, la
generazione, la gestazione ed il parto non possono essere in alcun modo considerati come un atto creativo. Si tratta di una funzione
naturale senza alcuna progettualità da parte della donna. Per liberarsi dalla schiavitù imposta da una società patriarcale occorrerebbe
innanzitutto liberarsi del ruolo riproduttivo a lei imposto.
La maternità potrebbe essere accettabile solo se potesse rientrare nella categoria del progetto e non semplicemente in quella degli
accadimenti.
Va notato che il tema dell’aborto è affrontato con argomentazioni politico-sociologiche, mettendo in campo la questione degli aborti
clandestini, la morale a quei tempi dominante che fa percepire la libertà sessuale come una colpa, la doppiezza del perbenismo maschile
e così via.
L’aborto nella sua drammaticità, è alla fine presentato come uno strumento per la libera accettazione della maternità.
Dalla liberazione “dalla” maternità alla liberazione “della “maternità.
Solo una maternità che sia fortemente e interamente l’esito di un progetto appartiene alla donna e acquista un senso umano. In sé
l’ingestibilità del processo generativo e la peculiare relazione con il figlio costituisce infatti una situazione di insanabile immanenza,
opposta alla libertà del soggetto.
Il primo passo che la de Beauvoir addita come necessario è certamente quello della liberazione dalla maternità, considerata un pesante
fardello caricato sulla donna dalla biologia e dalla cultura maschile. Separare la sessualità dalla maternità attraverso la contraccezione e,
in extremis, l’aborto.
La maternità non è propriamente un progetto: la libertà è messa in campo nel sono versante negativo del rifiuto, prevenendo la
generazione o eliminandone il frutto. Anche a prescindere dalle considerazioni negative sulla maternità, comunque più volte espresse nel
libro sulla donna, qualora si volesse trasformarla veramente in un progetto bisognerebbe tenere conto di molti fattori che superano la sola
volontà soggettiva, molti dei quali legati al corpo stesso della donna e alla sua età. Oggi le personalità tecniche raggiunte sembrerebbero
invece permettere una più piena collocazione della maternità nella sfera della progettualità. Le tecniche di fecondazione extracorporea
nella duplice variante omologa ed eterologa, la possibilità di delegare a terzi la gestazione, l’eventualità di spostare in avanti i tempi della
generazione rispetto a quelli dell’età feconda e secondo l’intreccio dei progetti che segnano l’esistenza, l’eventuale controllo della qualità
del generato rispetto ad alcune anomalie temute o probabili: sono tutti mezzi che mirano a liberare la maternità dalla biologia e ad
affidarla alla programmazione internazionale. Dalla liberazione dalla maternità alla liberazione della maternità.
La percezione comune è che questa sia una risposta tecnica e controllata ad un progetto di maternità per altre vie difficoltoso e
impossibile. Certamente non si tratta di un progetto solipsisticamente chiuso, perché la procreazione extracorporea coinvolge la vasta
società diventando un fatto pubblico. La natura stessa della tecnica la sottrae all’ambito del privato, anche se riguarda sfere molto
personali dell’esistenza, inserendola tra ciò che non può sottrarsi alla domanda sull’accettabilità e legittimità sociale. Ma anche questa
dimensione sociale della tecnica ben si accorda con la struttura teorica delineata dalla pensatrice francese che ha più volte ricordato come
il proprio progetto non si sviluppi mai in un deserto di significati, proprio perché si inserisce sempre e comunque in un mondo umano.
Sulla scia del pensiero di de Beauvoir, volersi madri è percepito come un modo concreto per passare dalla libertà ontologica alla libertà
morale: l’onere soggettivo e oggettivo che il mezzo per realizzare il progetto può portare con sé può essere valutato solo ed
esclusivamente in relazione al soggetto valente e progettante.
Rimane la sola arte di vivere, di forgiare la propria narrazione: volersi madri sembra alla fine sufficiente per avallare la liberazione dalla
maternità da qualsiasi vincolo biologico o relazionale.
La teorizzazione di una distanza dal proprio corpo è inoltre la base per la legittimazione della spersonalizzazione del processo
generativo.
Nella generazione tecnicamente mediata i soggetti sono sostituiti da gameti e dai propri organi sessuali, a prescindere dalle relazioni che
quei corpi significano e causano. Il recupero della maternità a cui abbiamo assistito negli ultimi anni è un recupero che non esce da
questa frattura. L’incremento delle tecniche di procreazione extracorporea sembra sottolineare la ricerca di un legame fisico con il
generato, accordando quindi una rinnovata importanza alla corporeità; al tempo stesso il corpo è depotenziato del suo statuto personale
accettando che gli individui scivolino sullo sfondo di un contesto medico per la stimolazione delle gonadi e il prelievo dei gameti,
delegando équipe sanitarie di tentare la generazione per poi trasferire nel grembo di una donna qualcuno degli embrioni umani così
ottenuti, acconsentendo al nebuloso destino degli altri.
In questo quadro di liberazione dalla maternità quello che succede è l’oblio del pensiero critico, di quel pensiero che aveva mosso alcune
intellettuali, tra cui la stessa de Beauvoir, a riflettere sulla donna e sulla maternità stessa. Tale abbandono nasce dalla fragilità teorica di
una morale che si basi solo sulla libertà individuale, sulla volontà del soggetto.
In primo luogo si elimina la riflessione sull’azione normalizzante dell’uso sociale delle biotecnologie e di come nuove forme culturali
prescrivano una serie di comportamenti come normativi.
Date le possibilità biomediche offerte, non poter avere un bambino non è più semplicemente frutto di una situazione sfortunata o
semplicemente non adatta alla procreazione, ma è diventato qualcosa di anormale: ogni donna con un problema o una situazione che
rende difficile una gravidanza dovrebbe andare nelle cliniche della fertilità dove le tecnologie la “normalizzerebbero”. L’accento sulla
libera scelta impedisce di cogliere come questa normalizzazione mini silenziosamente proprio la pretesa di “scelta libera”.
L’enfasi sul solo progetto mette a tacere la riflessione su come le tecnologie riproduttive possano favorire il commercio di parti del corpo
umano ridotto a risorsa di gameti o ad incubatrice; si silenzia la valutazione di che cosa significhi scegliere chi può continuare a vivere in
funzione di parametri qualitativi e salutistici, di quale ricaduta abbia sulla giustizia tale impostazione eugenetica.
Tra le questioni che rimangono accantonate, offuscate dall’egemonia della volontà progettante, si colloca anche la relazione o meglio la
dimensione relazionale della persona, sottoposta a fortissime tensioni nelle tecniche riproduttive. Si dimentica che esistono relazioni che
non sono solo costituite dal progetto, ma che spesso lo precedono, o che si intrecciano ad esso pur non essendo sempre esplicitamente
volute. Esiste una relazione che è addirittura originante. Ma forse proprio da qui possiamo ripartire togliendo l’etica della liberazione da
quello smarrimento in cui sembra precipitare quando l’impegno della volontà del soggetto non ha altri riferimenti che la volontà stessa.
C’è un mito in cui la donna è protagonista dimenticata: quello di Teseo e del Minotauro di Creta. Teseo riesce ad uscire dal labirinto
grazie al filo che Arianna ha preparato e che ha permesso di ritrovare all’uscita, dopo essersi inoltrato nei tortuosi corridoi del palazzo di
Minosse. Questo filo è stato assunto a simbolo del logos ma possiamo aggiungere che Teseo trova l’uscita perché ha mantenuto,
attraverso il filo, la relazione con l’altro da sé, una relazione che gli è stata ricordata e offerta da una donna. La persona è sempre in
relazione e cercare di considerare i problemi a prescindere da questa dimensione è miope e porta a perdersi in un labirinto. Il modo in cui
leggiamo le relazioni cambia il modo in cui comprendiamo le situazioni, i beni in gioco, la stessa questione dell’autodeterminazione.
Ripensando la relazione
Questa realtà con cui bisogna fare i conti, è quella intessuta dal mondo umano, quel mondo con cui bisogna ineludibilmente confrontarsi
e rispetto a cui bisogna prendere una posizione. La libertà in fondo è sempre in qualche modo dipendente. Rimane da capire come
coniugare questo intreccio di libertà, progetti, orizzonti di senso, dipendenze, relazioni.
A differenza di altri testi filosofici, qui si recupera in modo più forte il senso di una responsabilità solidale nei confronti degli uomini, di
un dovere che porta ad includerli nella propria progettualità e non a definirli a partire dalla direzione di questa.
C’è un dato che mostra come l’essere umano si dia proprio come un originario essere-con. All’inizio di questo testo avevamo richiamato
il nostro comune essere “nati di donna”. L’essere figli indica proprio un originario essere-con, così originario da essere originante.
Si tratta di un fatto ontologico: sin dal suo sorgere l’essere e la permanenza dell’essere richiede un essere-con. Non si tratta neanche solo
della mera trasmissione della vita, come in qualsiasi altro vivente. Benché ne Il secondo sesso la generazione sia in più passi letta in
modo spersonalizzato e solo in funzione del mantenimento della specie, non possiamo non notare come negli esseri umani la
genitorialità-filiazione assuma una significatività totalmente differente.
Se prescindiamo dalla relazione e partiamo dagli individui isolati compiamo contemporaneamente due errori: in primo luogo pensiamo
ad un essere umano che non esiste, perché la relazione con l’altro lo precede e gli fornisce gli strumenti per comprendere il mondo e per
esprimerlo – il linguaggio, rete simbolica della cultura -, elementi indispensabili per il dispiegarsi della sua stessa libertà. È in una
relazione asimmetrica di cura, materiale, affettiva, culturale che il soggetto ha la possibilità di crescere e sviluppare tutte le sue facoltà.
L’essere umano è ontologicamente libero, ma solo passando attraverso una relazione umana può assumere questa libertà e attualizzarla.
In secondo luogo, pensare ad un individuo a prescindere dalle sue relazioni porta inevitabilmente ad uno scontro tra progetti di vita, non
potendo far altro che impostare i problemi, rendendoli molte volte razionalmente insolubili, come uno scontro tra diritti. Il risultato è
l’affermazione del diritto più forte o il tentativo di risolvere contrattualisticamente i dilemmi. È ormai ampia la letteratura femminista di
critica al modello contrattualistico, e ad essa rimandiamo, limitandoci a richiamare che l’dea di contraenti uguali e collaborativi non
considera il fatto che raramente gli esseri umani entrano davvero in modo paritario nelle relazioni sociali e che in molte fasi della loro
vita non sono affatto in grado di partecipare alla contrattazione stessa.
Identità, narrazione e relazioni
L’identità è il risultato cangiante della costante narrazione della propria esistenza. È qualcosa di dinamico anche perché l’essere umano è
libertà e trascendenza. L’uomo diviene ciò che è.
Pensare l’io in forma narrativa significa collocarlo dentro dei contesti che rendono intellegibile l’azione, permettendone così anche la
valutazione etica; questi contesti sono formati da cose, persone, relazioni, intrecci di storie. L’attenzione della de Beauvoir alla
narrazione è il frutto del tentativo di coniugare universalità e situazionalità, oltre che dell’idea dell’etica come arte di vivere. Nella sua
autobiografia realizza una costante contaminazione tra la storia vissuta e la storia costruita, cercando una continua costruzione della sua
identità. Nella realtà il soggetto è sempre coautore. Ciascuno di noi, pur essendo il protagonista del proprio dramma, recita delle parti
secondarie nei drammi degli altri; ciascun dramma pone vincoli agli altri. Nella narrazione si coglie con più evidenza come l’uomo si
trovi costitutivamente definito da relazioni, come ne trovi di nuove senza averle intenzionalmente cercate, come ne strutturi
volontariamente altre. Qualunque sia l’origine delle diverse relazioni, queste entrano comunque nella definizione di ciò che siamo,
stabiliscono legami, chiamano in causa la libertà, interrogano questioni di giustizia.
L’identità implica sempre la relazione con l’altro da sé. Prendere in considerazione la relazione con l’altro da sé permette di
comprendere quello che prima abbiamo indicato come costitutivo essere-con, sia a livello ontologico, sia a livello morale.
A livello ontologico la relazione si pone all’origine dell’identità; a livello morale mette in luce come nella costruzione del chi di ciascuno
entri sia l’eredità culturale della storia e del contesto in cui si è inseriti, sia il tipo di risposta alla domanda posta alla propria libertà della
presenza dell’altro. Il soggetto, la cui identità morale si costituisce nel tempo attraverso le proprie azioni e l’intreccio di situazioni che
interessano il filo narrativo della sua vita, è ben distante dal soggetto morale autonomo di stampo kantiano. Si tratta di un soggetto
comprensibile solo in una rete di relazioni; si parla quindi di un soggetto relazionale. Ecco perché la relazione costituisce una categoria
non solo metafisica ma anche etica.
Se prendiamo sul serio l’attenzione posta alla storia di ciascuno, l’ineludibilità delle relazioni e l’accento ad assumere la propria libertà
impegnandola, possiamo cogliere come l’etica non possa costitutivamente riguardare un soggetto astratto, solitario ed autonomamente
progettante. La questione morale si gioca su un duplice versante: quello della libertà e quello del contenuto della libertà, che deve
coniugarsi con le altre dimensioni dell’essere umano. La sola libertà non è infatti sufficiente: la realtà offre una sorta di resistenza che
obbliga a valutare contenutisticamente l’impegno della libertà stessa. Si tratta di una possibilità di coniugare l’agire con tutte le
dimensioni che costituiscono la realtà umana nella sua corporeità, nella sua apertura alla verità, nel suo essere relazionale. Certamente
ogni azione non potrà soddisfare sempre al massimo grado tutte le dimensioni della complessa realtà dell’umano.
L’agire ha una duplice dimensione: quella puntuale dell’azione compresa in sé stessa, quella dell’orientamento dell’esistenza che nella
successione finalizzata di azioni decide dell’essere.
Se è vero quanto stiamo dicendo, e cioè che la struttura della libertà richiede di prendere sul serio le relazioni e che queste hanno un
valore umano che precede la progettualità, allora occorrerà prendere altrettanto sul serio l’idea che il modo corretto di impostare i
problemi morali è quello che non oppone autonomia e relazione, ma coglie l’autonomia nella relazione. Questo significa che i beni in
gioco non siano conoscibili partendo dal soggetto irrelato e autonomamente considerato.
Simone de Beauvoir ha denunciato la condizione di oppressione femminile che nasce da una cultura maschilista e da una serie di
stereotipi sulla sua natura e sul suo ruolo sociale. La via d’uscita è di ripensare la società a partire da sé stessi.
La generazione e la maternità sono a questo proposito, delle relazioni paradigmatiche. Pensare alla generazione solo biologicamente e
come una funzione per la specie è spersonalizzante e lesivo del riconoscimento del valore della donna. Allo stesso tempo, pensarla dal
solo punto di vista della progettualità soggettiva costituisce un errore prospettico perché la generazione stessa implica un terzo, il
generato. La sua identità non è il frutto del nostro progetto: si può avere un figlio, ma è impossibile avere a priori questo figlio. Il suo
apparire nel mondo è una totale novità e l’unica relazione davvero rispettosa nei suoi confronti è quella che lo coglie nella sua
individualità. Quando il generato è interpretato come materiale biologico e come tale manipolabile o eliminabile si torna
contemporaneamente a vedere la generazione in funzione della specie e a mascherare che i singoli atti compiuti in quel processo prima
istituiscono una relazione umana e costituiscono una presa di posizione nei confronti di uno o più degli esseri umani in relazione.
La liberazione dalla maternità è dunque reale nella misura in cui si coglie non come prodotto o fine di un progetto, ma per quello che è,
ossia una relazione di particolare asimmetria in cui l’altro è massimamente vulnerabile e totalmente dipendente. Considerare il nostro
essere nati di donna riconsegna la consapevolezza che tale relazione costituisce la condizione originaria di ciascuno. L’apparire al
mondo di un essere umano, genera il dovere di prendersi cura di lui. Questo dovere si modula nelle relazioni. In primo ruolo in quella di
maternità e paternità, e poi in quella sociale. È inoltre solo a partire dalle relazioni che possiamo cogliere l’esigenza di giustizia della
cura dovuta a chi si prende cura: non si tratta di bandire l’onere della cura dell’altro che le relazioni veicolano, ma di prenderla sul serio.
Bisogna ripensare ad una società che esca dall’inganno degli individui separati e opposti e che metta al centro dei beni umani come beni
di relazione.
Nell’epoca delle biotecnologie, dove anche la maternità è divenuta biotech, c’è bisogno di uno sforzo addizionale per coglierla come una
relazione significante e originante tra esseri umani. La donna generante non è una macchina biologica di materiale genetico, né una
gestante ma è un essere capace di trascendenza che non può essere rigettato nell’immanenza delle cose: il contrario costituisce una colpa
morale.
Poiché le tecnologie riproduttive rientrano in un’attività cooperativa la società stessa è chiamata in causa: da questa relazione sorge il
dovere di tutelare il bene sia del generante sia del generato, facendosi carico della difesa e della cura di chi abbiamo casualmente
contribuito a chiamare all’esistenza. Nascondersi dietro alla logica produttiva della tecnologia e dietro il suo linguaggio spersonalizzato
sarebbe malafede: bisogna prendere sul serio la propria libertà.

Potrebbero piacerti anche