“L’uomo è quello che vi è di più alto per l’uomo” il politico che vuole essere realista può sperare in trovare in questa affermazione la
giustificazione obiettiva alle sue imprese; sa quello che deve volere; deve voler servire l’uomo. E siccome non c’è altro valore che
questo, tutti i mezzi impiegati sono di per sé stessi indifferenti: non esiste alcun tabu. Il realista sfugge all’esitazione morale: il fine è
fissato e i mezzi determinati dal fine stesso.
Le varie politiche ugualmente realistiche sono tra loro molto differenti a seconda della concezione di uomo che adottano. Quelli che
occorre fare è assumere che solo i cosiddetti obbiettivi oggettivi sono di fatto risposte alle domande su come si dovrebbe considerare
l’uomo e il mondo, ma anche che esse forgiano, decidendoli, quali siano i valori.
I politici non dovrebbero trincerarsi di obiettivi razionali distinguendo tra fini e significati, perché dovrebbero rendersi conto che i fini
politici richiedono scelte e queste istituiscono significati. Dovrebbero rinunciare alle certezze del cosiddetto realismo politico. L’etica
dovrebbe interessarsi delle singole azioni dell’uomo ed essere relativa ai problemi concreti con cui questi si deve confrontare.
I cardini sono dunque due: prendere sul serio la propria libertà senza trincerarsi dietro inesistenti valori aggiuntivi, agire in modo
coerente rispetto ai fini posti, il cui senso deve trasparire nelle azioni messe in atto per raggiungerli. Questo discorso non riesce però a
dare risposta a quei problemi concreti che pure la morale realista avrebbe dovuto poter affrontare efficacemente. Troviamo un esempio di
ciò che è detto in cui Simone de Beauvoir analizza due problemi: il sacrificio degli innocenti e la questione della punizione o della
vendetta. Partiamo dal primo.
La domanda da cui parte la sua riflessione investe la sensatezza e la liceità delle azioni che mettono a repentaglio la libertà, o addirittura
la vita di innocenti. Un esempio: pensando al movimento di opposizione al nazismo è giusto fare atti di resistenza quando si può
prevedere che incolpevoli ostaggi verranno poi uccisi per rappresaglia?
Se questo progetto è una guerra, non ci si può nascondere che richiede sempre enormi sacrifici; troppo spesso si cerca di camuffare
questa realtà dietro a teorie in cui l’individuo è totalmente subordinato alla comunità, trasformando così il problema morale del suo
sacrificio in un problema tecnico che è l’errore del realismo politico. Ma se l’individuo non è importante come può esserlo la società che
dagli individui è composta? Se questi non hanno valore nemmeno il concetto di sacrificio lo ha, perché non si sta sacrificando nulla ma
usando dei mezzi a disposizione. Se invece l’individuo è posto come valore singolare e irriducibile, la parola sacrificio ritrova il suo
senso; quel che un uomo perde rinunciando ai suoi progetti, al suo avvenire, alla sua stessa vita, non appare più come una cosa
trascurabile.
La politica dovrebbe avere sempre al centro l’individuo: i progetti che lo sacrificano facilmente in favore dell’insieme rappresentano un
problema non solo tecnico che risponde al calcolo delle risorse umane, ma morale. Esistono azioni violente in cui alcune persone sono
sacrificate per salvarne altre. Il metodo della morale non è qui rispettato, perché in questo modo i fini e i mezzi sono contraddittori:
permettere e volere la morte di uomini per salvare uomini. De Beauvoir sostiene l’inaccettabilità di volere la morte un solo uomo per
salvarne diecimila. Ha ragione perché ogni uomo è un fine in sé, ma tale ragionamento è vero solo in astratto ed è assurdo nella pratica,
in quanto quando si deve prendere una decisione si ha a che fare con delle quantità: occorrerà allora scegliere secondo un criterio di
utilità; quale? Non può che essere quello che garantisce un avvenire aperto, necessario per mantenere la trascendenza.
Senza un futuro la liberta appassisce quindi là dove l’azione richiede di sacrificare delle libertà, il criterio rimane quello di salvare la
libertà del futuro. È chiaramente plausibile sacrificare sé stessi per mantenere un futuro di libertà, non possiamo dire la stessa cosa
quando la nostra azione implica il sacrificio di altri: o essi stessi sono coinvolti volontariamente nel progetto o l’atto non è accettabile,
perché il futuro che si preserva non salverà la loro trascendenza, in quanto questa è già negata nel presente. È proprio partendo dalle
premesse esistenzialistiche che questa idea della sacrificabilità degli uomini presenti per gli uomini futuri non è moralmente accettabile.
De Beauvoir non si nasconde che la natura del futuro è ambigua tanto quanto il presente e che non possiamo mai conoscere il senso della
storia se non quando ci si dispiega attualmente nella contemporaneità; anche se esistesse una scienza della storia, ogni singolo momento
lascerebbe l’azione nel dubbio e nella necessità di decidere. Non vi è alcuna differenza tra una dottrina della necessità dialettica e una
teoria che lascia spazio alla contingenza, mentre c’è differenza nell’ordine morale. Questa attenzione per la libertà del futuro non
fornisce dunque alcuna soluzione al problema del sacrificio di innocente, né toglie lo scandalo della violenza che rimane ineliminabile.
Come fare? Quando un’azione coinvolge altri è lecita? Non basta pensare alle possibilità di successo: da un lato non è possibile
determinare con certezza l’esito, dall’altro gli interessi in gioco non sono riducibili ad un’equazione.
Parlare di necessità sarebbe allora malafede: è sempre la libera scelta che pone l’azione e i valori.
La teoria morale che abbiamo cercato fino a qui di ricostruire si mostra alla fine alquanto problematica. Accanto ai due imperativi di
“volere sé stessi liberi” e “volere tutti gli altri liberi”, si affianca una sorta di pragmatismo etico. Si tratta di assumere coraggiosamente la
piena responsabilità delle proprie azioni senza mascherarsi dietro a nulla, ma se non si vuole semplicemente aspettare il giudizio della
storia occorrerà ritrovare un criterio per il presente che non renda semplicemente “scelta” sinonimo di “arbitrarietà”.
Benché lei stessa dica che una valutazione matematica per giungere ad una decisione è impossibile, sembra comunque affidare al metodo
la capacità di indicare una via per giungere a soluzioni plausibili. E questo è proprio il punto: plausibile e ragionevole non sono in sé
indicatori del valore morale. Alla fine sembra che solo la violenza gratuita possa essere condannata, ma possiamo spingerci a dire che in
fondo, se fosse inserita in un progetto per dare libertà d’azione a molti uomini, in quest’orizzonte teorico potrebbe essere giustificata.
L’incompletezza del metodo della morale realista sembra potersi evincere anche dalla trattazione del tema della vendetta. Il contesto è
quello dell’immediato dopoguerra; de Beauvoir riflette sul significato e sulle condizioni di possibilità sia della vendetta sia della
punizione, arrivando alla conclusione che siano entrambe votate al fallimento, anche se non si può rinunciare alla punizione perché non
si può permettere che il crimine contro l’uomo passi inosservato.
Di fronte al tradimento o a certe violenze, si ode spesso esclamare “La pagherà!”, ma questo apparente desiderio di ristabilire la giustizia
facendo pagare il colpevole, affonda le proprie radici nell’odio.
Nella vendetta la “punizione” non ha invece altro scopo che il dolore da infliggere. È la sofferenza e la morte di individui che si
ritengono responsabili di atti malvagi ciò che si cerca. Si vuole che l’avversario comprenda per esperienza diretta ciò che ha fatto. Ma
proprio qui risiede la prima causa intrinseca del fallimento della vendetta; chi si vendica cerca il rovesciamento della situazione per
ristabilire una reciproca la cui negazione costituisce la più fondamentale delle ingiustizie, ma non riuscirà mai nell’intento.
La vendetta non può riuscire nell’intento perché la sofferenza della vittima lascia intatta la sua coscienza che, attraverso la sofferenza
ritrova e riafferma la sua autonomia. Qualora invece ci sia pentimento, ancora una volta la posizione dell’antico boia non eguaglia quella
delle vittime, perché rimane padrone delle sue libertà.
Quando si vuole vendicare dei morti, da dove si può trarre la liceità della vendetta? Chi agisce non può farlo a nome proprio e deve
quindi intervenire in quanto partecipa dell’essenza universale dell’uomo che è stata lesa nella vittima. Legittima la sua azione perché
pone la punizione sul piano dell’universale, facendone l’esercizio di un diritto. Ma secondo de Beauvoir questa pretesa lo trasformerebbe
a sua volta in un tiranno, poiché nessun uomo è qualificato per difendere i diritti universali dell’uomo.
La vendetta dovrebbe lasciare allora posto all’idea della punizione, dove non un singolo uomo si erge a giudice, ma la comunità nelle sue
istituzioni, purificando il giudizio della passioni soggettive. I giudici non si propongono di vendicare i morti ma guardano al futuro.
Qui intervengono però altri fattori di fallimento. Il primo luogo de Beauvoir vede un’ineliminabile distanza storica tra il contesto in cui
l’azione criminale è stata realizzata e quello del giudizio, così come una differenza tra l’uomo che ha commesso l’atto e l’uomo
imputato.
La punizione mancherebbe il bersaglio: il contesto e l’uomo che ha compiuto gli atti che si vogliono punire non sono presenti.
In secondo luogo, il fallimento deriva dall’impossibilità di cancellare il male e l’orrore compiuto: non si ristabilirà alcun ordine e non si
bilanceranno gli errori. Non è possibile restaurare davvero la giustizia infranta. In ultimo, con un processo ci ritroviamo davanti alla
contrapposizione tra l’idea astratta di società giusta con la concretezza di un’esistenza, con l’individualità della morte del condannato.
Solo la vendetta, fondata sull’odio, potrebbe dar senso alla punizione costituendola come un momento di una lotta, ma abbiamo già visto
come anche la vendetta sia destinata a fallire.
La punizione è necessaria perché non si può accettare che la degradazione dell’umanità sia ignorata.
La morale realista si gioca proprio qui, quando il ragionamento morale esige un’azione di cui al tempo stesso decreta il fallimento. Da
quanto detto sembrerebbe che la vendetta e la punizione non raggiungano il loro scopo; tuttavia, de Beauvoir si rifiuta di concludere che
quindi non si possa veramente parlare di un dovere di giustizia. La sua conclusione è che bisogna ugualmente punire. In questo modo
riconosciamo che l’uomo è veramente responsabile dei suoi atti, sia nel male sia nel bene.
Bisogna però rimanere consapevoli che l’obiettivo morale di restaurazione della giustizia rimane comunque inevaso e che alla fine,
volendo noi vivi punire chi ha causato la morte di altri, ciò che facciamo è in realtà affermare noi stessi.
I nostri atti non sono solo fenomeni materiali, ma sono anche atti significanti: mirano sempre ad una situazione umana e devono al
contempo crearla e rivestirla di significato. Il realista ritiene di poter fare qualsiasi cosa per aggiungere il fine, ma spesso cade
nell’incoerenza tra il fine e il mezzo.
Il realismo politico è malafede: non perché sottragga la politica alla morale asserendo che i valori non la riguardano e che esistono solo
ragioni di convenienza o ragioni di stato, ma perché non ci sono fini giustificati a priori, in quanto esistono solo le decisioni e le scelte.
Alla fine de Beauvoir non riesce a dire sesia giusto o no sacrificare un uomo per salvarne mille: l’unico invito è quello di assumere fino
in fondo la propria decisione, collegando il futuro al presente dell’esistente, il fine alla decisione presa e il mezzo al fine. La morale per
la nostra Autrice è realista; per mezzo di essa l’uomo si realizza, realizzando i fini che sceglie.
Di fatto, anni dopo, lei stessa giudicherà troppo astratti gli scritti di questo periodo, ma in fondo quello che farà sarà di radicalizzare
questo modo di intendere la morale realista nella linea di scegliere e di fondare sé stessi. Ciò che troviamo negli scritti successivi è una
definitiva rinuncia a individuare una regola, o un metodo, valida per tutti.
L’arte di vivere
De Beauvoir progressivamente cerca di passare sempre più decisamente dell’universale alla ricchezza dell’esistente. Tale obiettivo
permea le pagine del suo romanzo più importante (I Mandarini).
La vita umana si svolge come in due dimensioni, una universale e l’altra legata allo spazio e al tempo. La filosofia ha il compito di
esprimere entrambe, ma spesso non esplicita bene il livello della soggettività dove risiede l’aspetto singolare e al tempo stesso
drammatico della condizione umana stessa.
La riflessione filosofica offre una ricostruzione intellettuale dell’esistenza umana, ma il romanzo mostra l’esperienza “nella sua forma
originale”. D’altro canto anche la metafisica ha una sua forma soggettiva: tutte le persone hanno esperienze metafisiche in cui
sperimentano sé stesse come tali nella totalità del mondo. Ne sono un esempio la paura, il sospetto, la ricerca del potere, il timore della
morte, la lotta, la brama di assoluto. Proprio questa dimensione può essere espressa nella forma di un’avventura spirituale.
I romanzi filosofici dovrebbero mostrare un tipo di autenticità o essenza dell’esperienza soggettiva. Secondo la de Beauvoir riguardo a
questo obiettivo, l’esistenzialismo occupa un posto speciale poiché “se è scritto e letto onestamente, il romanzo metafisico offre una
rivelazione dell’esistenza che non ha equivalenti in nessun’ altra forma di espressione”. Il significato degli oggetti non può essere
separato dal soggetto perché include la nostra relazione con esso, una relazione che è azione, emozione, sentimento. Per questo afferma
che la metafisica non è primariamente un sistema: fare metafisica significa guardare il mondo attraverso sé stessi e con la totalità di sé
stessi. L’esperienza basilare del mondo consiste nel nostro coinvolgimento con l’oggetto: prima di poter pensare al mondo, dobbiamo
esprimerlo, farlo apparire. Il romanzo permette di esprimere la verità delle esperienze concrete dei singoli, degli altri e di sé stessi.
Tutto questo è di capitale importanza anche per la teoria morale della de Beauvoir in quanto è proprio a partire dall’esistenza concreta
che cerca di sviluppare un’etica. Avendo però abbandonato il tentativo di esprimerla in forme universali, l’etica diventa per lei un’arte di
vivere, come è perfettamente espresso ne I Mandarini.
Il romanzo si articola attorno ad una serie di decisioni da prendere che si presentano ai protagonisti come autentici drammi morali. È
proprio attraverso queste scelte che si chiarisce il concetto di “arte di vivere”. Questa consiste in una vita coerente, di cui ci si riconosce
pienamente autori.
Osservando il modo in cui le figure del racconto prendono le loro decisioni in questioni morali, si coglie come per de Beauvoir non
esistano leggi valide per un approccio individuale alla vita, con cui cerca di forgiare proprio quest’etica come arte di vivere, con
l’obiettivo di fornire a sé, analogamente ai personaggi dei suoi romanzi, un’identità coerente creata attraverso la narrazione.
Nella sua autobiografia si propone di tracciare e di cesellare la sua vita attiva.
La prospettiva dell’arte di vivere ha senz’altro il pregio di prestare attenzione a quelle che potremmo chiamare le forme della
soggettività, ossia alla concreta situazione in cui il soggetto si trova, con le sue relazioni e la sua storia. La libertà da cui scaturiscono
doveri, la prossimità di certi uomini implica legami di solidarietà che risulterebbero sfumati e vani se pensati genericamente nei confronti
dell’umanità, così come l’accesso a certe conoscenze porta con sé la responsabilità del loro utilizzo.
Ciò che manca in Simone de Beauvoir è la possibilità di rinvenire un senso che non origini dalla volontà stessa del soggetto, ma che sia
intersoggettivamente riconoscibile come tale. Nella sua arte di vivere quando si presentano i dilemmi morali il punto non sta tanto nel
riconoscere che cosa si debba fare, ma nel deciderlo. Il giudizio in quanto tale è bandito.
L’unica clausola rimane la coerenza con la posizione assunta, ed è questa un’eco del metodo della morale delineata negli anni Quaranta.
Ne I Mandarini de Beauvoir vuole mostrare la radicale ambiguità della condizione e dell’azione umana, rinunciando ad indicare
soluzioni. Ciò che rimane alla fine è la pura autoprogettazione.
Progetto e giustificazione
Prendere sul serio la propria libertà e cogliere la centralità esistenziale del progetto sono come due facce della stessa medaglia.
Certamente la libertà così assunta deve affrontare ostacoli che offrono una resistenza al suo avanzare. Tali ostacoli non solo non
depotenziano il dovere della libertà, ma sono anzi suscitati dal suo stesso movimento. Senza di esso l’azione stessa non sarebbe
possibile. Una realtà diventa un limite del proprio potere a seconda del tipo di azione che ci si propone. Tuttavia perché la volontà non
muoia sull’ostacolo che essa stessa ha suscitato è necessario che, dandosi un contenuto singolare, non si limiti ad esso. Assumere lo
scacco nella libertà significa cogliere come ogni progetto parziale non sia altro che un modo di porre l’esistente; persino il fallimento è
incapace di condannare all’immanenza, perché diventa il punto di partenza per un nuovo movimento della libertà. Occorre però
impegnarsi nel mondo con progetti definiti.
Per de Beauvoir la realtà in sé non ha alcun valore né significato, ma lo riceve dall’essere umano, dal soggetto capace di trascendenza.
Questo significa che l’esistenza inerte delle cose è separazione, solitudine. Non esiste alcun vincolo tra sé e il mondo, nulla gli
appartiene. Il legame viene posto.
Questo è forse il centro di tutto il discorso. Benché successivamente lei colga come la società non si aggiunga in un secondo momento
all’individuo, ma lo accompagni sin dalla sua nascita, non rivede mai la prospettiva secondo cui il legame con l’altro da sé sia posto dal
libero impegno del soggetto. Non solo: perché l’altro da sé appartenga al soggetto, deve ricevere da lui una fondazione di senso.
Tale prospettiva non si limita alla realtà oggettuale ma anche gli altri soggetti: il legame con un individuo può esistere solo se creato, e lo
è attraverso un progetto di sé verso l’altro. Il progetto è ciò che definisce il legame con l’altro, il primo elemento di valutazione dei
doveri e dei diritti.
Questa progettualità nasce dalla trascendenza dell’uomo che non si esaurisce nella fatticità del già dato. Da un lato perché “L’uomo è
l’essere della lontananza, egli è sempre altrove. Nel mondo non esiste nessun punto privilegiato da quale l’uomo possa dire: “sono io”
con sicurezza; egli è costitutivamente orientato verso qualcosa di differente da sé”. Questo è il motivo per cui il soggetto è in qualche
modo sempre parzialmente deluso dal risultato raggiunto.
La meta è tale solo quando è guardata a distanza, durante il movimento verso essa, ma una volta raggiunta non basta più e si trasforma
immediatamente in un nuovo punto di partenza. Se il fine viene inteso come valore in sé, indipendentemente dal progetto si cade nella
situazione dell’uomo serio, che abdica alla sua libertà. Ma proprio qui si collegano al tempo stesso un punto di forza e un punto di
debolezza del suo discorso. Il primo risiede nel fatto che la centralità della libertà che progetta e prende posizione riconsegna in modo
forte al soggetto la costituzione della propria identità morale e intersoggettiva. All’uomo non capitano semplicemente cose perché è lui
che deve decidere come reagire e come progettare.
Proprio questo decidere di sé, questo darsi un’identità, permette una vera comunicazione e rende possibile anche cercare nello sguardo
dell’altro il riconoscimento di ciò che si è deciso di essere. L’ineludibilità della libertà nella giustificazione interna dell’esistenza fa sì
che nessuna legge possa essere veramente tale per il soggetto essendo al tempo stesso eteronoma. Questo di per sé si traduce in esigenze
profonde perché l’essere umano sceglie il proprio progetto e con esso scegli sé stesso.
La fenomenologia della libertà che non è mai appagata dal risultato raggiunto esprime bene l’apertura alla trascendenza che è propria
dell’essere umano e che non può mai essere saziata da alcun risultato finito: in questo senso la necessità di un riferimento ad altri esseri
personali risulta imprescindibile nella dinamica della stessa libertà e dell’esistenza.
Il punto debole è dettato dalla consegna del valore alla sola progettualità soggettiva. Due sono le note da fare a questo proposito.
Innanzitutto la pretesa di riconoscimento della propria identità e sottilmente frustrata dall’idea che qualunque scelta si equivalga. Se il
valore è unicamente posto dal valore soggettivo, l’identità e il valore del soggetto stesso non cambia qualunque cosa scelga.
Il punto problematico di Simone de Beauvoir deriva dall’aprioristica eliminazione della possibilità di un fondamento che trascenda la
volontà soggettiva, bandendo così la possibilità di rinvenire un dover essere che possa in qualche modo intercettare e offrire criteri della
progettualità dell’esistente che diventa così l’unica fondazione. Se questo non esclude una rigorosità nel soggetto stesso, si esclude però
la possibilità di un riconoscimento intersoggettivo del valore del progetto, la cui giustificazione e fondazione risiede nella stessa
esistenza progettante. Da un lato la responsabilità è assoluta: il mondo in cui vive non è addebitabile ad altri che allo stesso soggetto
libero che sceglie ed agisce. Dall’altro è una responsabilità autoreferenziale perché la lode e il biasimo non hanno senso fuori dal
progetto del singolo esistente. Ecco allora che l’altro non può che essere interpretato come strumento o ostacolo del proprio progettare
perché il senso e il valore del mondo deriva dal progetto del per-sé e non ha alcune senso, né valore, né utilità, prima o fuori da quel
progetto. Il futuro rimane aperto e ciò che abbiamo fatto e ciò che siamo stati non cade nell’inerte fatticità. Nulla è in sé condannabile,
nulla assolvibile. Rimane solo il progetto a cui anche il progetto con l’altro si piega. Ecco allora che “in un certo senso la violenza non è
un male, dal momento che non si può nulla né per né contro un uomo.
Ma appunto, scegliendo di agire su questa fatticità, rinunciamo ad assumere l’altro come una libertà e in pari misura riduciamo le
possibilità di espansione del nostro essere; l’uomo con cui faccio violenza non è un mio pari, e io ho bisogno che gli uomini siano miei
pari”. Poiché per definizione non è però possibile assumere tutti come libertà e non esiste criterio fuori dal progetto, ancora una volta
sarà il proprio arbitrio a decidere.
CAPITOLO 4: DA SIMONE E OLTRE SIMONE
Progettarsi madri
Libertà, progetto, arbitrio: la fecondità del richiamo ad assumere la propria libertà come un compito e il tentativo di strutturare un’etica
che prenda sul serio tale movimento si arenano sulla sabbia compatta dell’arbitrio, rimasto unico giudice dell’azione e del suo senso.
Tutto questo investe ogni dimensione dell’esistenza e anche la questione della generazione e della maternità.
Simone de Beauvoir ritiene la maternità una condanna, la Firestone addita la gestazione come una cosa barbarica. Per entrambe la
scienza è lo strumento che può liberare dalla maternità con le tecniche di fecondazione extracorporea e la maternità surrogata. La
tecnologia, sostiene la Firestone, ha posto le premesse per rovesciare l’alleanza tra la condizione naturale e la cultura.
Da un lato quello che in Firestone sembrava ancora utopistico diventa prima possibile e poi addirittura prassi su larga scala, dall’altro la
visione della maternità e della scienza cambiano profondamente, mentre poco a poco l’utopica fiducia nel ruolo salvifico delle scienze si
ridimensiona fino a venire apertamente contestato da molte pensatrici. Con gli anni Ottanta nell’ambito dei women’s studies comincia a
svilupparsi il pensiero della differenza e una maggior attenzione alla peculiarità della donna.
Si mette a tema tutto ciò che la donna ha sviluppato attraverso la maternità; parallelamente nasce un filone di studi sull’etica della cura
che riporta l’attenzione sulle relazioni. Alcuni settori del femminismo radicale si oppongono duramente alle tecnologie riproduttive,
considerandole la riproduzione dello schiavismo maschile nei confronti delle donne, ancora più pesantemente viste come “macchine per
fare bambini”. Per lo più, nel giro di pochi anni il sentire comune si è come assuefatto alla medicalizzazione di tutte le fasi dell’esistenza
e l’utilizzo delle tecnologie riproduttive rientra tra le normali opzioni offerte sul mercato. In tutto questo l’eredità di Simone de Beauvoir
sembrerebbe esaurirsi in una sorta di interesse storico per aver fornito con la sua celebre frase “donne non si nasce, si diventa”, il
leitmotiv delle teorizzazioni della separabilità del gender dal sesso biologico.
Per la nostra Autrice solo un atto produttivo permette di esercitare la trascendenza umana mentre tutto ciò che ha a che fare con la
fatticità della biologia è un legame con l’immanenza che può arrivare anche ad essere una condanna. In questa prospettiva, la
generazione, la gestazione ed il parto non possono essere in alcun modo considerati come un atto creativo. Si tratta di una funzione
naturale senza alcuna progettualità da parte della donna. Per liberarsi dalla schiavitù imposta da una società patriarcale occorrerebbe
innanzitutto liberarsi del ruolo riproduttivo a lei imposto.
La maternità potrebbe essere accettabile solo se potesse rientrare nella categoria del progetto e non semplicemente in quella degli
accadimenti.
Va notato che il tema dell’aborto è affrontato con argomentazioni politico-sociologiche, mettendo in campo la questione degli aborti
clandestini, la morale a quei tempi dominante che fa percepire la libertà sessuale come una colpa, la doppiezza del perbenismo maschile
e così via.
L’aborto nella sua drammaticità, è alla fine presentato come uno strumento per la libera accettazione della maternità.
Dalla liberazione “dalla” maternità alla liberazione “della “maternità.
Solo una maternità che sia fortemente e interamente l’esito di un progetto appartiene alla donna e acquista un senso umano. In sé
l’ingestibilità del processo generativo e la peculiare relazione con il figlio costituisce infatti una situazione di insanabile immanenza,
opposta alla libertà del soggetto.
Il primo passo che la de Beauvoir addita come necessario è certamente quello della liberazione dalla maternità, considerata un pesante
fardello caricato sulla donna dalla biologia e dalla cultura maschile. Separare la sessualità dalla maternità attraverso la contraccezione e,
in extremis, l’aborto.
La maternità non è propriamente un progetto: la libertà è messa in campo nel sono versante negativo del rifiuto, prevenendo la
generazione o eliminandone il frutto. Anche a prescindere dalle considerazioni negative sulla maternità, comunque più volte espresse nel
libro sulla donna, qualora si volesse trasformarla veramente in un progetto bisognerebbe tenere conto di molti fattori che superano la sola
volontà soggettiva, molti dei quali legati al corpo stesso della donna e alla sua età. Oggi le personalità tecniche raggiunte sembrerebbero
invece permettere una più piena collocazione della maternità nella sfera della progettualità. Le tecniche di fecondazione extracorporea
nella duplice variante omologa ed eterologa, la possibilità di delegare a terzi la gestazione, l’eventualità di spostare in avanti i tempi della
generazione rispetto a quelli dell’età feconda e secondo l’intreccio dei progetti che segnano l’esistenza, l’eventuale controllo della qualità
del generato rispetto ad alcune anomalie temute o probabili: sono tutti mezzi che mirano a liberare la maternità dalla biologia e ad
affidarla alla programmazione internazionale. Dalla liberazione dalla maternità alla liberazione della maternità.
La percezione comune è che questa sia una risposta tecnica e controllata ad un progetto di maternità per altre vie difficoltoso e
impossibile. Certamente non si tratta di un progetto solipsisticamente chiuso, perché la procreazione extracorporea coinvolge la vasta
società diventando un fatto pubblico. La natura stessa della tecnica la sottrae all’ambito del privato, anche se riguarda sfere molto
personali dell’esistenza, inserendola tra ciò che non può sottrarsi alla domanda sull’accettabilità e legittimità sociale. Ma anche questa
dimensione sociale della tecnica ben si accorda con la struttura teorica delineata dalla pensatrice francese che ha più volte ricordato come
il proprio progetto non si sviluppi mai in un deserto di significati, proprio perché si inserisce sempre e comunque in un mondo umano.
Sulla scia del pensiero di de Beauvoir, volersi madri è percepito come un modo concreto per passare dalla libertà ontologica alla libertà
morale: l’onere soggettivo e oggettivo che il mezzo per realizzare il progetto può portare con sé può essere valutato solo ed
esclusivamente in relazione al soggetto valente e progettante.
Rimane la sola arte di vivere, di forgiare la propria narrazione: volersi madri sembra alla fine sufficiente per avallare la liberazione dalla
maternità da qualsiasi vincolo biologico o relazionale.
La teorizzazione di una distanza dal proprio corpo è inoltre la base per la legittimazione della spersonalizzazione del processo
generativo.
Nella generazione tecnicamente mediata i soggetti sono sostituiti da gameti e dai propri organi sessuali, a prescindere dalle relazioni che
quei corpi significano e causano. Il recupero della maternità a cui abbiamo assistito negli ultimi anni è un recupero che non esce da
questa frattura. L’incremento delle tecniche di procreazione extracorporea sembra sottolineare la ricerca di un legame fisico con il
generato, accordando quindi una rinnovata importanza alla corporeità; al tempo stesso il corpo è depotenziato del suo statuto personale
accettando che gli individui scivolino sullo sfondo di un contesto medico per la stimolazione delle gonadi e il prelievo dei gameti,
delegando équipe sanitarie di tentare la generazione per poi trasferire nel grembo di una donna qualcuno degli embrioni umani così
ottenuti, acconsentendo al nebuloso destino degli altri.
In questo quadro di liberazione dalla maternità quello che succede è l’oblio del pensiero critico, di quel pensiero che aveva mosso alcune
intellettuali, tra cui la stessa de Beauvoir, a riflettere sulla donna e sulla maternità stessa. Tale abbandono nasce dalla fragilità teorica di
una morale che si basi solo sulla libertà individuale, sulla volontà del soggetto.
In primo luogo si elimina la riflessione sull’azione normalizzante dell’uso sociale delle biotecnologie e di come nuove forme culturali
prescrivano una serie di comportamenti come normativi.
Date le possibilità biomediche offerte, non poter avere un bambino non è più semplicemente frutto di una situazione sfortunata o
semplicemente non adatta alla procreazione, ma è diventato qualcosa di anormale: ogni donna con un problema o una situazione che
rende difficile una gravidanza dovrebbe andare nelle cliniche della fertilità dove le tecnologie la “normalizzerebbero”. L’accento sulla
libera scelta impedisce di cogliere come questa normalizzazione mini silenziosamente proprio la pretesa di “scelta libera”.
L’enfasi sul solo progetto mette a tacere la riflessione su come le tecnologie riproduttive possano favorire il commercio di parti del corpo
umano ridotto a risorsa di gameti o ad incubatrice; si silenzia la valutazione di che cosa significhi scegliere chi può continuare a vivere in
funzione di parametri qualitativi e salutistici, di quale ricaduta abbia sulla giustizia tale impostazione eugenetica.
Tra le questioni che rimangono accantonate, offuscate dall’egemonia della volontà progettante, si colloca anche la relazione o meglio la
dimensione relazionale della persona, sottoposta a fortissime tensioni nelle tecniche riproduttive. Si dimentica che esistono relazioni che
non sono solo costituite dal progetto, ma che spesso lo precedono, o che si intrecciano ad esso pur non essendo sempre esplicitamente
volute. Esiste una relazione che è addirittura originante. Ma forse proprio da qui possiamo ripartire togliendo l’etica della liberazione da
quello smarrimento in cui sembra precipitare quando l’impegno della volontà del soggetto non ha altri riferimenti che la volontà stessa.
C’è un mito in cui la donna è protagonista dimenticata: quello di Teseo e del Minotauro di Creta. Teseo riesce ad uscire dal labirinto
grazie al filo che Arianna ha preparato e che ha permesso di ritrovare all’uscita, dopo essersi inoltrato nei tortuosi corridoi del palazzo di
Minosse. Questo filo è stato assunto a simbolo del logos ma possiamo aggiungere che Teseo trova l’uscita perché ha mantenuto,
attraverso il filo, la relazione con l’altro da sé, una relazione che gli è stata ricordata e offerta da una donna. La persona è sempre in
relazione e cercare di considerare i problemi a prescindere da questa dimensione è miope e porta a perdersi in un labirinto. Il modo in cui
leggiamo le relazioni cambia il modo in cui comprendiamo le situazioni, i beni in gioco, la stessa questione dell’autodeterminazione.
Ripensando la relazione
Questa realtà con cui bisogna fare i conti, è quella intessuta dal mondo umano, quel mondo con cui bisogna ineludibilmente confrontarsi
e rispetto a cui bisogna prendere una posizione. La libertà in fondo è sempre in qualche modo dipendente. Rimane da capire come
coniugare questo intreccio di libertà, progetti, orizzonti di senso, dipendenze, relazioni.
A differenza di altri testi filosofici, qui si recupera in modo più forte il senso di una responsabilità solidale nei confronti degli uomini, di
un dovere che porta ad includerli nella propria progettualità e non a definirli a partire dalla direzione di questa.
C’è un dato che mostra come l’essere umano si dia proprio come un originario essere-con. All’inizio di questo testo avevamo richiamato
il nostro comune essere “nati di donna”. L’essere figli indica proprio un originario essere-con, così originario da essere originante.
Si tratta di un fatto ontologico: sin dal suo sorgere l’essere e la permanenza dell’essere richiede un essere-con. Non si tratta neanche solo
della mera trasmissione della vita, come in qualsiasi altro vivente. Benché ne Il secondo sesso la generazione sia in più passi letta in
modo spersonalizzato e solo in funzione del mantenimento della specie, non possiamo non notare come negli esseri umani la
genitorialità-filiazione assuma una significatività totalmente differente.
Se prescindiamo dalla relazione e partiamo dagli individui isolati compiamo contemporaneamente due errori: in primo luogo pensiamo
ad un essere umano che non esiste, perché la relazione con l’altro lo precede e gli fornisce gli strumenti per comprendere il mondo e per
esprimerlo – il linguaggio, rete simbolica della cultura -, elementi indispensabili per il dispiegarsi della sua stessa libertà. È in una
relazione asimmetrica di cura, materiale, affettiva, culturale che il soggetto ha la possibilità di crescere e sviluppare tutte le sue facoltà.
L’essere umano è ontologicamente libero, ma solo passando attraverso una relazione umana può assumere questa libertà e attualizzarla.
In secondo luogo, pensare ad un individuo a prescindere dalle sue relazioni porta inevitabilmente ad uno scontro tra progetti di vita, non
potendo far altro che impostare i problemi, rendendoli molte volte razionalmente insolubili, come uno scontro tra diritti. Il risultato è
l’affermazione del diritto più forte o il tentativo di risolvere contrattualisticamente i dilemmi. È ormai ampia la letteratura femminista di
critica al modello contrattualistico, e ad essa rimandiamo, limitandoci a richiamare che l’dea di contraenti uguali e collaborativi non
considera il fatto che raramente gli esseri umani entrano davvero in modo paritario nelle relazioni sociali e che in molte fasi della loro
vita non sono affatto in grado di partecipare alla contrattazione stessa.
Identità, narrazione e relazioni
L’identità è il risultato cangiante della costante narrazione della propria esistenza. È qualcosa di dinamico anche perché l’essere umano è
libertà e trascendenza. L’uomo diviene ciò che è.
Pensare l’io in forma narrativa significa collocarlo dentro dei contesti che rendono intellegibile l’azione, permettendone così anche la
valutazione etica; questi contesti sono formati da cose, persone, relazioni, intrecci di storie. L’attenzione della de Beauvoir alla
narrazione è il frutto del tentativo di coniugare universalità e situazionalità, oltre che dell’idea dell’etica come arte di vivere. Nella sua
autobiografia realizza una costante contaminazione tra la storia vissuta e la storia costruita, cercando una continua costruzione della sua
identità. Nella realtà il soggetto è sempre coautore. Ciascuno di noi, pur essendo il protagonista del proprio dramma, recita delle parti
secondarie nei drammi degli altri; ciascun dramma pone vincoli agli altri. Nella narrazione si coglie con più evidenza come l’uomo si
trovi costitutivamente definito da relazioni, come ne trovi di nuove senza averle intenzionalmente cercate, come ne strutturi
volontariamente altre. Qualunque sia l’origine delle diverse relazioni, queste entrano comunque nella definizione di ciò che siamo,
stabiliscono legami, chiamano in causa la libertà, interrogano questioni di giustizia.
L’identità implica sempre la relazione con l’altro da sé. Prendere in considerazione la relazione con l’altro da sé permette di
comprendere quello che prima abbiamo indicato come costitutivo essere-con, sia a livello ontologico, sia a livello morale.
A livello ontologico la relazione si pone all’origine dell’identità; a livello morale mette in luce come nella costruzione del chi di ciascuno
entri sia l’eredità culturale della storia e del contesto in cui si è inseriti, sia il tipo di risposta alla domanda posta alla propria libertà della
presenza dell’altro. Il soggetto, la cui identità morale si costituisce nel tempo attraverso le proprie azioni e l’intreccio di situazioni che
interessano il filo narrativo della sua vita, è ben distante dal soggetto morale autonomo di stampo kantiano. Si tratta di un soggetto
comprensibile solo in una rete di relazioni; si parla quindi di un soggetto relazionale. Ecco perché la relazione costituisce una categoria
non solo metafisica ma anche etica.
Se prendiamo sul serio l’attenzione posta alla storia di ciascuno, l’ineludibilità delle relazioni e l’accento ad assumere la propria libertà
impegnandola, possiamo cogliere come l’etica non possa costitutivamente riguardare un soggetto astratto, solitario ed autonomamente
progettante. La questione morale si gioca su un duplice versante: quello della libertà e quello del contenuto della libertà, che deve
coniugarsi con le altre dimensioni dell’essere umano. La sola libertà non è infatti sufficiente: la realtà offre una sorta di resistenza che
obbliga a valutare contenutisticamente l’impegno della libertà stessa. Si tratta di una possibilità di coniugare l’agire con tutte le
dimensioni che costituiscono la realtà umana nella sua corporeità, nella sua apertura alla verità, nel suo essere relazionale. Certamente
ogni azione non potrà soddisfare sempre al massimo grado tutte le dimensioni della complessa realtà dell’umano.
L’agire ha una duplice dimensione: quella puntuale dell’azione compresa in sé stessa, quella dell’orientamento dell’esistenza che nella
successione finalizzata di azioni decide dell’essere.
Se è vero quanto stiamo dicendo, e cioè che la struttura della libertà richiede di prendere sul serio le relazioni e che queste hanno un
valore umano che precede la progettualità, allora occorrerà prendere altrettanto sul serio l’idea che il modo corretto di impostare i
problemi morali è quello che non oppone autonomia e relazione, ma coglie l’autonomia nella relazione. Questo significa che i beni in
gioco non siano conoscibili partendo dal soggetto irrelato e autonomamente considerato.
Simone de Beauvoir ha denunciato la condizione di oppressione femminile che nasce da una cultura maschilista e da una serie di
stereotipi sulla sua natura e sul suo ruolo sociale. La via d’uscita è di ripensare la società a partire da sé stessi.
La generazione e la maternità sono a questo proposito, delle relazioni paradigmatiche. Pensare alla generazione solo biologicamente e
come una funzione per la specie è spersonalizzante e lesivo del riconoscimento del valore della donna. Allo stesso tempo, pensarla dal
solo punto di vista della progettualità soggettiva costituisce un errore prospettico perché la generazione stessa implica un terzo, il
generato. La sua identità non è il frutto del nostro progetto: si può avere un figlio, ma è impossibile avere a priori questo figlio. Il suo
apparire nel mondo è una totale novità e l’unica relazione davvero rispettosa nei suoi confronti è quella che lo coglie nella sua
individualità. Quando il generato è interpretato come materiale biologico e come tale manipolabile o eliminabile si torna
contemporaneamente a vedere la generazione in funzione della specie e a mascherare che i singoli atti compiuti in quel processo prima
istituiscono una relazione umana e costituiscono una presa di posizione nei confronti di uno o più degli esseri umani in relazione.
La liberazione dalla maternità è dunque reale nella misura in cui si coglie non come prodotto o fine di un progetto, ma per quello che è,
ossia una relazione di particolare asimmetria in cui l’altro è massimamente vulnerabile e totalmente dipendente. Considerare il nostro
essere nati di donna riconsegna la consapevolezza che tale relazione costituisce la condizione originaria di ciascuno. L’apparire al
mondo di un essere umano, genera il dovere di prendersi cura di lui. Questo dovere si modula nelle relazioni. In primo ruolo in quella di
maternità e paternità, e poi in quella sociale. È inoltre solo a partire dalle relazioni che possiamo cogliere l’esigenza di giustizia della
cura dovuta a chi si prende cura: non si tratta di bandire l’onere della cura dell’altro che le relazioni veicolano, ma di prenderla sul serio.
Bisogna ripensare ad una società che esca dall’inganno degli individui separati e opposti e che metta al centro dei beni umani come beni
di relazione.
Nell’epoca delle biotecnologie, dove anche la maternità è divenuta biotech, c’è bisogno di uno sforzo addizionale per coglierla come una
relazione significante e originante tra esseri umani. La donna generante non è una macchina biologica di materiale genetico, né una
gestante ma è un essere capace di trascendenza che non può essere rigettato nell’immanenza delle cose: il contrario costituisce una colpa
morale.
Poiché le tecnologie riproduttive rientrano in un’attività cooperativa la società stessa è chiamata in causa: da questa relazione sorge il
dovere di tutelare il bene sia del generante sia del generato, facendosi carico della difesa e della cura di chi abbiamo casualmente
contribuito a chiamare all’esistenza. Nascondersi dietro alla logica produttiva della tecnologia e dietro il suo linguaggio spersonalizzato
sarebbe malafede: bisogna prendere sul serio la propria libertà.