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L’esercizio dei sensi – Daniele Bruzzone

Prologo – L’ombra del sospetto


Libro VII della Repubblica, “Mito della caverna”: degli uomini sono rinchiusi all’interno di una caverna da quando sono nati,
incatenati in maniera da dover stare fermi e guardare solamente davanti a sé. Dietro di loro arde un fuoco, e fra il fuoco e i
prigionieri c’è un muricciolo, lungo il quale degli uomini portano attrezzi e figure di ogni genere, che sporgono al di sopra del
muro. I prigionieri vedono solo le ombre proiettate dal fuoco sulla parte della caverna che sta di fronte a loro e quindi, se
fossero in grado di discorrere tra loro, riterrebbero come realtà queste ombre.
Le ombre che i personaggi vedono rappresentano la conoscenza sensibile, che secondo Platone ci inganna. Il corpo è
ingannevole e bisogna guadagnare una distanza da esso per lavorare con l’intelletto per raggiungere la verità. Il corpo, al quale
siamo “incatenati” da un malevolo destino, non è che un ostacolo al raggiungimento della verità. La vista rappresenta un
inganno: con gli occhi non vediamo che “ombre”. La conoscenza coincide con una “conversione” che consiste nella
liberazione dalla prigionia del corpo e dall’illusione della sensibilità (elevazione → repressione della dimensione sensoriale).
Per non essere “posseduti” dai sensi, occorre affrancarsene o sottometterli alla vigile supervisione della ragione e alla ferrea
regia della volontà, che li controllano. Anche a causa di questo pregiudizio platonico, i sensi sono stati a lungo trascurati: o
perché dati per scontati o perché ritenuti inaffidabili.
Accade che anche gli studenti di scienze umane si formino prevalentemente lontani da quel contatto vivo con gli esseri umani
“in carne ed ossa” che può far maturare in loro la consapevolezza di ciò che non si può trovare nei libri, perché appartiene alla
singolarità irripetibile di ognuno. Capita inoltre che non sappiano riconoscere nelle persone ogni volta un unicum, ma che si
limitino a ricondurle ostinatamente a ciò che hanno appreso prima di incontrarle. La capacità di vedere, di ascoltare, di stabilire
un contatto, di assaporare un istante o di “respirare” la tonalità emotiva di un luogo o di una situazione, fa parte del bagaglio
irrinunciabile di ogni educatore.
Aisthesis → estetica come fenomenologia dell’esperienza sensibile e delle sue possibili modalità (scienza della percezione)
Non v’è relazione interpersonale che non sia mediata dai sensi. Essi sono gli strumenti dell’incontro e della comunicazione e
non rappresentano semplicemente i canali con cui percepiamo qualcosa di esteriore, bensì i linguaggi con cui ci rapportiamo a
tutto ciò che è interiore. Attraverso i sensi esso ci raggiunge ancora prima di essere verbalizzato, o anche quando è destinato a
rimanere inespresso. Mediante i sensi sentiamo (prima di poterlo spiegare) il senso.
Accade che la modalità di esercitare i sensi venga in certo senso “formata” dal contesto organizzativo e costretta ad adeguarsi a
modalità consolidate e routinarie, col rischio di smarrire però la sua originaria vitalità. Se questo processo riesce,
malauguratamente, a intorpidire la sensibilità di un professionista, il rischio di cadere in una sorta di an-estesia è molto alto.
Allora può accadere che, insieme con la capacità di percepire, vada perduta anche la capacità di sentire certe cose.
È l’esercizio della sensibilità, forse, l’unica chance che abbiamo per non perdere la prerogativa essenziale della cura educativa:
quella di essere, in ogni incontro e in ogni contesto in cui si realizza, stimolo incessante a una o più completa umanizzazione.
I cinque sensi di Jeremy Podeswa (Canada, 1999) → cinque persone lottano contro la progressiva perdita di uno dei cinque
sensi. Fatto di cronaca che fa da sfondo alle crisi esistenziali: la scomparsa di una bambina proprio nel parco antistante
l’edificio in cui essi vivono e lavorano. Le storie si risolveranno parallelamente al mistero della scomparsa della bambina. La
ricerca dei sensi diviene la metafora di un bisogno di autenticità e di un rapporto con gli altri più intimo e vero, che sappia
abbattere le barriere delle convenzioni, dei moralismi e del senso comune. Ripartire dal corpo è il primo passo di un’intensa
vicenda spirituale.
Capitolo 1 – Il mondo dei sensi e il senso del mondo
Italo Calvino, Sotto il sole giaguaro (1995) -> tema ricorrente: l’incapacità dei protagonisti di utilizzare al meglio la propria
sensibilità per entrare in contatto con il mondo che li circonda. Ne Il nome, il naso, tre uomini cercano la donna desiderata
seguendone il profumo e l’odore della pelle, ma quando la trovano la scoprono morta; in Sapore, Sapere, un uomo scopre,
grazie al palato sensibile della sua compagna, i sapori della cucina messicana, che risvegliano nella coppia una passione
assopita da anni; in Un re in ascolto il sovrano, dall’orecchio sopraffino, perde la voce proprio quando deve rispondere al canto
della donna misteriosa che lo affascina.
In una conferenza, Calvino annuncia lo scopo di questo libro: “Un libro che parla dei cinque sensi, per dimostrare che l’uomo
contemporaneo ne ha perso l’uso. […] per ognuno dei sensi devo fare uno sforzo che mi permetta di padroneggiare una gamma
di sensazioni e sfumature. […] Il mio scopo non è tanto quello di fare un libro quanto quello di cambiare, me stesso, scopo che
penso dovrebbe essere quello di ogni impresa umana.”
Negli stessi anni Calvino scriveva Palomar, libro incentrato sulla possibilità di fare esperienza della realtà senza essere intrisi
di pregiudizi e categorie: è l’atto del guardare, anteriore a ogni lettura e interpretazione, che viene posto in primo piano, nel
tentativo di risalire al mondo che preesiste a ogni sguardo. Il signor Palomar decide che la sua unica occupazione consisterà nel
puro osservare. Non esiste il mondo senza l’occhio che lo guarda, i sensi e il mondo sono indissolubilmente accoppiati. La
realtà non ci è accessibile se non attraverso l’esercizio dei sensi che non si limitano a riprodurla, ma le danno forma. L’io non è
altro che la finestra attraverso la quale il mondo guarda il mondo. Questo richiamo al primato della sensibilità tende a
riscoprire lo stupore del contatto vivo con il mondo.
1.1. Il pensiero dicotomico
La cultura occidentale risente ancora di un secolare retaggio di svalutazione del corpo, avendo perseguito per secoli l’idea
di un’antinomia tra fisico e spirituale e della superiorità del secondo rispetto al primo. Se l’umano è un animale razionale, e
se la razionalità è una prerogativa esclusiva della dimensione intellettuale, ne consegue che tutto ciò che non rientra nella
dimensione intellettuale coincide con l’irrazionale e minaccia perfino di destabilizzarne l’egemonia. I fenomeni sensoriali
sono considerati “inferiori” ai processi mentali, quando non addirittura loro antagonisti.
Baumgarten afferma che ogni discorso razionale può prescindere da quell’“altra ragione” che si basa sulla percezione, il
sentimento e l’immaginazione. Sacrificare queste facoltà a esclusivo vantaggio di un’astratta capacità di pensare significa,
paradossalmente, togliere vento alle vele del pensiero stesso e deprivarlo della sua linfa vitale.
L’atteggiamento con cui i sensi vengono tutt’ora considerati è ambivalente. Il richiamo ai sensi, per certi versi, vale come
attestazioni di credibilità (es. espressioni di uso comune: “toccare con mano”). Nondimeno, i sensi sono tradizionalmente
ritenuti infidi, ingannevoli, approssimativi e superficiali (Nietzsche: “i sensi ingannano, la ragione corregge gli errori”).
Analoga sorte è toccata a emozioni e sentimenti: sono chiamati in causa come testimoni inconfutabili (es. quando qualcuno
afferma di essere convinto di qualcosa perché “in cuor suo lo sa”) ma vengono anche considerati la fonte di ogni rovina.
Sensazioni ed emozioni presentano una stretta connessione: sono entrambi fenomeni dell’affettività, ossia della capacità
che il mondo ha di colpirci o impressionarci. I vissuti emotivi vengono frequentemente descritti facendo riferimento a
metafore corporee (es. “mi fa venire la pelle d’oca”, “mi allarga il cuore”). Anche l’affettività è stata ritenuta perlopiù un
“fattore di turbamento o di perdita temporanea della ragione”.
1.2. La desoggettivazione del corpo
La dicotomia mente/corpo ha condizionato per secoli le pratiche educative. Va perduta la spiritualità del corpo, che ne
viene astratta appunto per ridurlo a mera cosa materiale.
Ne consegue che curare ed educare diventano azioni transitive da compiere sul corpo, dimenticando che, anzitutto, sono
azioni che si compiono con il corpo. La conseguenza consiste nell’oblio della dimensione simbolica del linguaggio del
corpo, quale sintassi primigenia della conoscenza e della relazione tra persone.
L’intento della scienza è quello di analizzare la realtà per decifrarne l’intimo segreto che ci permetta di controllarla. Essa si
serve di quel “guardare che seziona e separa” e che riduce la realtà a mera oggettività. In questo modo, però, “la scienza
manipola le cose e rinuncia ad abitarle”. L’oblio della sensibilità comporta l’impossibilità di conoscere davvero l’oggetto
in modo meramente oggettivo. Il soggetto umano non è comprensibile se non mediante un vivo contatto intersoggettivo.
La persona umana è sempre un mistero singolare e si rivela proprio nella misura in cui si riconosce la sua unicità; il
tentativo di ricondurla a criteri di massima o a categorie preconcette non fa che aumentare la probabilità di cadere
nell’equivoco. All’umano si accede primariamente mediante il sentire: nelle modalità del “sentirsi” e del “sentire l’altro”.
È nel sentire che incontriamo noi stessi e prendiamo coscienza progressivamente della nostra soggettività; ed è nel sentire
che percepiamo la presenza altrui e impariamo a riconoscerne la soggettività.
L’altro non può ridursi a un mio modo di sentire, né “si esaurisce in ciò che suscita in me”, in quanto “è un atro soggetto
che ha una propria vita e un proprio flusso di sensazioni”, ma i sensi costituiscono pur tuttavia il primo strumento
attraverso il quale mi espongo sul mondo dell’altro.
La grammatica dei sensi è il linguaggio primigenio nel quale si esprime il nostro contatto con il mondo. Il sentire è la
modalità originaria in cui “il mondo si delinea passivamente prima che l’io si volga attivamente verso di esso” ed orienta il
pensiero e l’azione. La sensibilità non è una facoltà puramente recettiva ascrivibile al mero funzionamento degli organi di
senso, ma consiste in un’attività intenzionale capace di cogliere, al di là del dato sensoriale, l’essenza dei fenomeni che in
esso si offrono.
1.3. La rivoluzione fenomenologica
Il recupero filosofico dell’esperienza sensibile si deve al movimento fenomenologico che, nel tentativo di risalire all’unità
di io e mondo, non può che ripartire dal corpo, non più inteso come antitesi della coscienza, bensì come dimensione
sorgiva della coscienza stessa. La coscienza, al suo stato più elementare e spontaneo, si dà come flusso percettivo che
caratterizza il mondo-della-vita molto prima di poterlo trasformare in oggetto di riflessione; esso ci è quindi dato ancora
prima di poterlo effettivamente conoscere.
La fenomenologia è “una filosofia tutta tesa a ritrovare quel contatto ingenuo con il mondo per dargli infine uno statuto
filosofico”.
Nell’esperienza immediata del mondo, ogni cosa si offre alla coscienza attraverso molteplici impressioni sensoriali. Vi
sono presentimenti di ciò che non si può, a rigore, vedere o udire o toccare ecc. che Husserl chiama “adombramenti”. La
percezione di qualcosa è, pertanto, un’ombra che annuncia e che rivela. I sensi sono gli strumenti che permettono un
accesso diretto alle cose stesse e l’intuizione della loro essenza. L’apparenza “non nasconde l’essenza, la rivela: è
l’essenza”. Adottare una postura fenomenologica ha il vantaggio “di insegnarci a ritenere valido soltanto ciò che vediamo
realmente […] e di evitare che, a quanto si vede, si sovrapponga una qualsiasi teoria, anche se perfettamente fondata.”
Ingannevoli non sono i sensi, ma le inferenze che a volte se ne traggono. È sempre possibile, dunque, una percezione
migliore e più accurata: è necessario sviluppare una disciplina che regoli l’esercizio dei sensi, in modo da renderli più
vividi e perspicaci.
È attraverso i sensi che conosciamo primariamente il mondo. Più tardi, l’avvento del linguaggio e del ragionamento
sospingeranno questa forma immediata e arcaica dell’esistenza in un oblio da cui soltanto le esperienze simboliche per
eccellenza sapranno richiamarla. L’arte, la musica, la danza, la malattia, la follia risvegliano la consapevolezza che “io non
sono di fronte al mio corpo, ma sono nel mio corpo, o meglio sono il mio corpo”.
La postura fenomenologica riconcilia la secolare frattura che aveva separato sensibilità e razionalità, come appartenessero
a mondi inconciliabili.
1.4. Il primato del sentire
Straus differenzia il sentire dal percepire. Vi è un momento patico (che coincide con il mero “sentire” o “recepire” dei
sensi) e un momento gnosico (che consiste propriamente nel “percepire” qualcosa e nel “prenderne atto”). “Il momento
gnosico sottolinea solamente il cosa di ciò che è dato oggettualmente, il momento patico il come esso si dà”. Secondo
Merleau-Ponty, questi due aspetti non possono essere veramente distinti, in quanto noi non abbiamo mai coscienza del
puro dato sensoriale, ma sempre simultaneamente anche dell’oggetto che in esso si manifesta. “Il visibile è ciò che si
coglie con gli occhi, il sensibile ciò che si coglie tramite i sensi”.
I sensi, non ci presentano semplicemente dei dati, ma sempre dei significati. Il momento della “donazione di senso”
permea anche i vissuti percettivi, rendendo presente non una congerie di dati sensoriali disordinati, ma un fenomeno
significativo e coerente. Noi siamo capaci di cogliere simultaneamente, con il dato sensoriale, anche il suo significato. Già
nello strato recettivo della sensibilità, è insita un’attività intenzionale che ci permette di rivolgerci verso qualcosa di
significativo. È proprio la diversa percezione che si può avere di un oggetto a determinare il tipo di rapporto che si può
stabilire con esso. Non si tratta, quindi, di un’impressione che il mondo esercita sulla mente come fosse una tabula rasa,
bensì un’affermazione che implica una reazione da parte del soggetto.
Il processo percettivo, non si limita a riprodurre il mondo in sé, ma contribuisce a delineare quel mondo per me. In questo
processo sono implicati fattori biologici e sociali: ci sono limiti fisici a ciò che possiamo percepire con il corpo e
condizionamenti culturali nell’uso che facciamo delle nostre facoltà percettive. I sensi permettono l’apparire del mondo e,
al tempo stesso, lo delimitano. Il corpo non è semplicemente un apparato organico dotato di un suo funzionamento, ma
anche un soggetto sociale, culturalmente, storicamente e biograficamente condizionato. Ognuno percepisce nel modo in
cui ha imparato a farlo o secondo i criteri convalidati e le abitudini consolidate nel suo contesto di appartenenza.
La sensibilità si forma attraverso quella disciplina che è rappresentata dall’educazione, formale o informale. Il famoso caso
di Victor, il “ragazzo selvaggio” dell’Aveyron cresciuto in uno stato animalesco e scoperto casualmente nel 1798, dimostra
che le percezioni sensoriali sono soggette all’influenza della cultura e dell’educazione non meno dei pensieri e delle
emozioni. Il fenomeno della selezione degli stimoli, constatato dal dottor Itard, ne è un esempio: mentre Victor non reagiva
al suono di uno sparo (non essendo per lui significativo), egli si voltava al suono delle castagne sbucciate, di cui era
ghiotto. Già a livello sensoriale, dunque, il soggetto discerne, sulla base dei suoi interessi attuali, ciò a cui intende rivolgere
la sua attenzione.
La variazione dello stato d’animo può farci percepire le cose in una luce differente. Non sono la piacevolezza e le
possibilità del mondo a rendere positivo l’atteggiamento dell’ottimista, quanto piuttosto il contrario: il suo atteggiamento
positivo gli permette di cogliere del mondo ciò che è piacevole e possibile. Si comprende allora l’importanza delle
dimensioni emotive nel lavoro educativo: lo stato d’animo in cui ci si trova incide molto spesso sul tipo di relazione che si
instaura tra le persone e contribuisce a dischiudere o a precludere possibilità di crescita e di cambiamento.
1.5. L’unità dei sensi
L’unità precede e trascende la loro distinzione. I sensi, pur essendo diversi e rivolgendosi a differenti dimensioni della
realtà, comunicano tra loro e si influenzano vicendevolmente. Ci è possibile cogliere qualcosa nella sua unità perché i sensi
interferiscono tra loro (es. secchezza foglia). Anche il linguaggio corrente fa continuamente riferimento alla trasposizione
da un senso all’altro (“battuta di cattivo gusto”, “persona priva di tatto” ecc.). La creazione artistica ha ben compreso la
natura dei fenomeni sinestetici, e li ha sfruttati per produrre, ad esempio, impressioni visive a partire da stimoli sonori, o
viceversa.
La realtà sensibile è anteriore agli organi di senso attraverso i quali viene percepita, e non si può ridurre semplicemente
agli stimoli che essi sono in grado di registrare. Piuttosto, attraverso quegli stimoli sensoriali è possibile risalire a
dimensioni sensibili trasversali. La profondità di un oceano e la profondità di un sentimento non sono diverse; né l’una si
può considerare più vera dell’altra, solo per il fatto di essere misurabile: sono due modi di percepire la medesima qualità
sensibile della profondità.
La percezione “è naturalmente sinestetica perché è innanzitutto pre-estesica: il sensibile non fa ancora riferimento a dei
sensi specifici”. Ma poiché, come si è ribadito più volte, l’esperienza sensibile non è esperienza dei sensi, bensì esperienza
attraverso i sensi, occorre prendere in esame le singole modalità sensoriali per chiedersi a quali dimensioni esse ci
introducano e che cosa significhi esercitarle in modo adeguato all’interno di una relazione educativa.
La vita segreta delle parole di Isabel Coixet (Spagna, 2005) → La vicenda si svolge su una piattaforma petrolifera isolata in
mezzo all’oceano, emblema della solitudine, del naufragio esistenziale e della plumbea desolazione in cui il dolore talvolta
confina l’esistenza. Qui si incontrano un uomo, Josef, gravemente ustionato a causa di un’esplosione, e una giovane donna,
Hanna, che si è offerta di assisterlo. Lei appare misteriosamente ritrosa, anaffettiva e distaccata da ogni piacere; lui ama la
vita e la celebra nonostante la sofferenza. La diffidenza di Hanna verso il mondo si manifesta attraverso tutti i sensi (problema
di udito, porta un apparecchio acustico che spesso tiene spento; non dice nulla di sé e preferisce mentire su tutto ciò che la
riguarda; non tollera il disordine; porta con sé una quantità di saponette con cui si lava le mani dopo aver toccato qualsiasi
cosa, per poi buttarle; mangia sempre gli stessi alimenti). Josef, a causa dell’incidente è temporaneamente privo della vista e
cerca di entrare in relazione con Hanna utilizzando gli altri sensi (ne annusa l’odore; la interroga per ascoltarne la voce;
assapora il cibo e la rimprovera per la sua incapacità di gustarlo; legge attraverso il tatto la sua storia drammatica segnata
sulla pelle). Protagonista di questa vicenda è la sensibilità: da un lato è attraverso i sensi che si esprime un rapporto con il
mondo che, nel caso di Hanna, si è misteriosamente interrotto; dall’altro è ancora attraverso i sensi che lei riesce a ritrovare
un contatto con la vita che le era divenuta ormai estranea. Si realizza un capovolgimento paradossale: colei che deve lenire la
sofferenza reca in sé il dolore più grane; ed è proprio nell’atto di prendersi cura delle ferite altrui che riuscirà a curare le
proprie.
Il palcoscenico – Al centro diurno
•Lele: […] vediamo la gente passare e vorremmo almeno uno sguardo, una conferma che ci siamo, che non siamo invisibili,
noi che viviamo nell’illusione di trovare qualcuno che vi veda, che ci fissi negli occhi, ci guardi dentro anche solo per un
attimo e ci saluti con un sorriso. […] abbiamo cominciato a raccontare i nostri sogni, quelli che riempiono di magia le nostre
notti e rendono meno tristi i nostri giorni. E i nostri sogni si sono mescolati ai nostri ricordi, perché per sognare bisogna avere
dei ricordi, belli o brutti, ma sono l’unica cosa che ci appartiene, sono la nostra vita. Abbiamo tirato fuori le cose più nascoste
di noi, quelle che vengono dalla notte dell’anima, quelle che, di giorno, ci fanno dare del pazzo e ci fanno guardare male dalla
gente. Abbiamo raccontato della paura che spesso ci rapisce, della fretta di questa città che non ci lascia respirare, degli occhi
distratti che guardano sempre altrove, dei sentimenti che noi, Angeli della strada, vediamo volar via dalla gente per lasciare il
posto alle ombre nere dell’ambizione, dell’invidia, dell’intolleranza.
[…] Noi, invece, i sentimenti li abbiamo e, in quel momento, abbiamo sentito che, insieme ai fari luminosi, si dirigeva su di
noi tutta l’attenzione come se mille occhi spalancati, mille occhi nuovi e stupiti ci vedessero dentro per la prima volta […]
sapevamo che, per la prima volta, i nostri sentimenti sarebbero arrivati dritti al loro cuore e che i nostri dolori, le nostre paure,
le nostre miserie avrebbero finalmente trovato casa.
•Pablo: […] I nostri più brutti ricordi li abbiamo intrecciati ai nostri sogni più belli, per delicatezza e pudore, per non fare
troppo male. […] quando la strada sarà il nostro teatro, qualcuno avrà il coraggio di fissare lo sguardo sul nostro dolore? […]
Oggi i riflettori daranno luce ad altre storie e tutto tornerà come prima e noi, Angeli della strada, torneremo nell’invisibilità di
chi non merita un posto in questo mondo… forse hai ragione tu: era solo un bel sogno!
•Dal diario di Paola, educatrice: si domandavano quanto della fama e del successo di ieri abbia modificato la loro immagine
all’interno della città. Forse hanno ragione loro: pochissimo. […] forse noi stessi non ci crediamo. Forse noi stessi non
riusciamo a farci stupire dalle loro possibilità, a guardarli con occhi diversi che aprono alla speranza. […] ci sono confini
invisibili ma ben delimitati nella nostra mente che ci impediscono di vedere l’inguardabile. Confini che si alzano come muri
invalicabili quando guardare per conoscere, comprendere, compatire è cosa troppo amara, troppo difficile, troppo rischiosa.
[…] non proviamo a guardare con i loro occhi e a vedere la realtà come la vedono loro. Ci sentiamo loro paladini, ma ci
guardiamo bene dall’immedesimarci nella loro esperienza e ripercorrere la loro vita come se fosse stata la nostra. […]
Dobbiamo imparare a guardare dall’alto, per avere una visione d’insieme, a guardare dal punto di vista dell’altro e degli altri,
per scoprire la diversità dei mondi interiori, a vedere l’essenziale, sfondando le cose dagli orpelli dei nostri pregiudizi e delle
nostre precomprensioni. Perché gli invisibili agli occhi diventino l’anello su cui si misura il senso di una società e di una vita di
senso. Dobbiamo tenere alto lo sguardo quando Lele e Pablo ci guardano.
Capitolo 2 – La vista e lo sguardo
Pur nella sua tipica diffidenza dai sensi, il pensiero occidentale ha prediletto quelli “distali” (vista e udito) rispetto a quelli
“prossemici” (tatto e gusto), forse perché la percezione “a distanza” consente di mantenere una sorta di autonomia dell’Io e una
certa egemonia della mente sul corpo, rispetto alle esperienze che, invece, comportano il contatto o, addirittura, l’introiezione.
L’ascoltare e il vedere vengono assunti a metafora dell’attività intellettuale.
Il passaggio dalla tradizione orale alla cultura scritta ha sancito un primato del vedere sull’ascoltare che l’avvento della scienza
moderna ha rafforzato definitivamente, stabilendo come criterio di validità il metodo dell’osservazione, con tutti i suoi apparati
tecnologici. L’effetto di questa accentuazione della vista potenziata dalla tecnica è una più radicata diffidenza nei confronti
dell’occhio umano, a cui originariamente si offre lo spettacolo del mondo.
L’ipertrofia del vedere a discapito degli altri sensi è qualcosa da cui neppure la fenomenologia è immune.
2.1 Occhi che non vedono
Lo sguardo di chi esercita una professione educativa è talvolta incapace di cogliere l’essenziale – ovvero ciò che è unico e
inedito in ciascuno. Si tratta, spesso, dello sguardo preconcetto di chi suppone di aver già visto a sufficienza, o dello
sguardo anaffettivo di chi vede con gli occhi della mente ma non con quelli del cuore, oppure ancora dello sguardo
distratto di chi è troppo impegnato a trovare quel che cerca per lasciarsi sorprendere dall’im-previsto.
Quando prevale la presunzione di aver già capito tutto, di aver già visto tutto, allora non c’è più altro da vedere, o meglio,
non c’è l’atro perché lo si è ridotto a sé, assimilando la sua alterità alle proprie categorie concettuali, imprigionando il suo
poter-essere entro le maglie di ciò che è pre-visto, quindi pre-determinato. Ma proprio questo atteggiamento aumenta il
rischio di cadere in quelle trappole dell’inautenticità che sono rappresentate dalla chiacchiera, dalla curiosità e
dall’equivoco.
Nel lavoro con le persone questo rischio si presenta ogniqualvolta si è indotti ad attribuire in anticipo determinate
caratteristiche a certi soggetti, o a “catalogarli” in base ad alcune caratteristiche comuni.
La postura oggettivante, che riduce l’altro a ciò che già si conosce di lui, di fatto rappresenta il maggiore ostacolo per un
educatore, in quanto lo rende completamente cieco alla dimensione del possibile. Il soggetto viene destituito della sua
qualità più significativa: la soggettività. Bisogna liberarsi dei “paraocchi abituali” della scienza e della tecnica per sfuggire
all’inganno di un sapere pre-veggente che, tutto sommato, ci impedisce di vedere ciò che è più importante.
La prima operazione fenomenologica è rappresentata dall’epoché: solo praticando la “sospensione del giudizio” e
mettendo tra parentesi tutto ciò che già si conosce o si presume di sapere, si può dischiudere l’esperienza autentica di
qualcosa o di qualcuno. Il fenomenologo è guidato dalla consapevolezza che ogni soggetto è unico e diverso.
2.2 Come fosse la prima volta
Un educatore fenomenologicamente orientato sa che le persone non si incontrano nelle descrizioni contenute nei manuali.
Il suo lavoro è possibile grazie allo scarto che c’è tra le persone, perché in esso si annida ogni differenza individuale e
ogni possibilità di crescita e di cambiamento.
“Nessuna teoria può sostituire un percorso di conoscenza dell’individuale”, la fenomenologia comporta una sorta di ri-
apprendimento: occorre spogliarsi il più possibile delle precomprensioni derivanti dal senso comune, dall’esperienza
pregressa o dalla conoscenza scientifica, per disporsi di fronte al nuovo con uno sguardo più limpido e perspicace.
Lo sguardo fenomenologico è la prima modalità con cui l’educatore “sensibile” deve confrontarsi, perché il primo gesto di
cura educativa consiste proprio nel rivolgere all’altro uno sguardo capace di vederlo e nell’esserci come presenza umana
significativa e attenta: cosciente e responsabile.
Non è sufficiente lo sguardo “clinico” dell’esperto, capace di riconoscere i segni e di ricondurli a un alfabeto predisposto
per la loro interpretazione, ma è necessario recuperare lo sguardo “ingenuo” di chi non sa e è ancora capace di
meravigliarsi, di vedere qualcosa di nuovo laddove tutto sembrerebbe già noto o prevedibile. Sono il dubbio e l’incertezza
i veri motori della conoscenza, ciò che la salvano dal divenire un serbatoio di carabattole desuete e ne conservano nel
tempo la vitalità. Tra il senso della vista e la facoltà cognitiva si è stabilita un’assonanza privilegiata, tanto che tutte le
nostre costruzioni intellettuali non sono che modi di “vedere il mondo”. Ma proprio queste teorie, allorché diventano
costruzione ideologiche o strutture concettuali cristallizzate e immutabili possono offuscare lo sguardo.
Il richiamo al percipi è fondamentale: vedere non significa dominare, bensì essere esposti, recepire, accogliere, lasciarsi
interrogare. Solo se saremo capaci di recuperare questa dimensione di passività del vedere potremo sottrarci all’illusione
del dominio che, invece, è la suprema tentazione dell’io.
2.3 Si può vedere quel che non c’è ancora?
È il confine tra luce e ombra che permette di distinguere i contorni della realtà. La pretesa di illuminare tutto e di
estinguere completamente le zone d’ombra dell’esperienza coincide, paradossalmente, con lo smarrimento della capacità
di comprendere. Occorre dunque allargare lo sguardo, includendovi anche ciò che non è immediatamente evidente, ciò
che non è (ancora) visibile. Vedere veramente qualcuno significa scorgere e far venire alla luce il suo stile peculiare, il suo
modo di discostarsi dalla norma, il suo potenziale latente, il suo progetto di sé.
Nel lavoro educativo occorre vedere qualcosa che ancora non c’è. È questa “chiaroveggenza” che permette all’educatore
di scorgere in anticipo le possibilità di sviluppo dell’altro e di aiutarlo a realizzarle.
All’educazione non si richiede la precisione dello sguardo diagnostico o l’esattezza dello sguardo clinico, bensì la fiducia
e il coraggio di quello che è stato chiamato “sguardo destinale”, quella capacità di vedere l’altro non solo per “quello che
veramente è, ma soprattutto per quello che egli può e deve diventare”.
La vista diventa la metafora della superiorità e del controllo sull’altro, è l’occhio che domina, che giudica, che ammalia,
che paralizza e che, al limite può nuocere o addirittura uccidere. Ma si tratta di uno sguardo molto diverso da quello
necessario per vedere nell’altro una vocazione alla libertà.
L’autentica relazione educativa è caratterizzata dal rispetto incondizionato del Tu nella sua singolarità e nella sua alterità e
dalla dedizione disinteressata alla causa della sua piena realizzazione come soggetto libero, autonomo e responsabile di sé.
L’educazione dovrebbe essere il luogo in cui si custodisce e si coltiva il desiderio di ciascuno di “essere di più”. Bisogna
pertanto evitare di appiattirla sulla logica della semplice risposta a un bisogno, universale e quindi anonimo, giacché
considerare l’altro soltanto sotto il profilo del suo bisogno è un modo per assoggettarlo.
La riduzione dell’educativo a controllo e dominio è sintomatico di un certo tipo di educazione, tesa forse più a conformare
l’altro al desiderio altrui che a discernere il suo proprio desiderio e a dargli forma.
2.4 Tutto ha inizio da uno sguardo
Nonostante questo potere di ridurre l’altro a un oggetto, lo sguardo ha altresì il potere di far esistere l’altro come soggetto.
Ciò è possibile nella misura in cui gli sguardi si incrociano e si riconoscono pari nella dignità e nel desiderio di essere.
L’apparire del “volto” dell’altro, se non ci trova indifferenti, in un certo senso ci “spossessa” di noi stessi e ci ingiunge di
farci prossimi e responsabili. La forma propria dell’attività educativa è il servire (ecco perché quando si intende asservire
l’altro o esercitare su di lui un potere, se ne deve anzitutto oscurare il volto: confondendone l’identità, negandone i diritti,
ignorandone la storia, costringendolo a indossare una maschera).
Una maschera possiamo imporla solo nella misura in cui ne indossiamo una a nostra volta: è quindi “gettando la
maschera” ed evitando di trincerarsi dietro ruoli anonimi e convenzionali che si può accedere a una relazione autentica.
Perché gli altri ci mostrino il loro volto, è indispensabile che noi mostriamo loro il nostro. Allora è possibile l’incontro:
non con un destinatario più o meno stereotipato del mio lavoro, ma con un destino che mi interpella.
Non basta vedere qualcosa per sentirsene coinvolti; solo chi è dotato di uno sguardo capace di sentire non rimane
indifferente e può interessarsi a ciò che vede come a qualcosa che lo riguarda. L’etica della cura nasce qui. Soltanto chi ha
coltivato la propria sensibilità può cogliere ciò che ad altri sfuggirebbe. Questo tipo di sensibilità è forse uno dei requisiti
più importanti di qualsiasi vocazione alla cura e all’educazione. La facoltà di vedere richiede una intenzionalità e una
profondità d’animo che non si improvvisano.
Uno degli equivoci più frequenti consiste nel considerare il proprio modo di vedere come l’unico vero o l’unico possibile.
Lavorare in équipe o far parte di un team dovrebbe servire ad assumere consapevolezza della relatività del proprio punto
di vista.
Il segreto della verità non consiste nel prescindere da ogni soggettività, ma nel fare in modo che non resti isolata. La verità
sulle cose non è il punto di vista dell’assoluto, bensì l’intersezione di punti di vista, la loro integrazione e la loro
intersoggettività.
2.5 Avere riguardo dell’altro
Anche nel lavoro con le persone, gli “automatismi” offerti dalla scienza e dalla tecnica possono semplificare enormemente
e accelerare il lavoro, ma al tempo stesso comportano un duplice inconveniente: la perdita di qualità dell’immagine e
l’atrofia dell’abilità creativa dell’osservatore.
Occorre dunque sviluppare l’attitudine a guardare attentamente. Si tratta di quella faticosa disciplina che ci educa a
trattenere il giudizio affrettato, a mettere tra parentesi per un istante le nostre categorie, a non far uso immediatamente di
ciò che sappiamo, per fermarci di fronte a qualcosa o a qualcuno e attendere che ci si riveli. È una rinuncia
all’imperialismo dell’io per far posto all’altro, un modo più recettivo e meno presuntuoso, la cui qualità fondamentale è la
disponibilità. Ed è il rispetto la virtù forse più connaturata all’esercizio del vedere, esso è la forma propria dell’attenzione
rivolta alle persone. Rispettare vuol dire “guardare indietro”, “scorgere”, ma anche “considerare”, “stimare”, “avere
riguardo”. Esprime il contrario del vedere affrettato e sommario che non nota nulla e non ha tempo per nessuno. È
l’atteggiamento di chi guarda e riguarda per vedere meglio e non cadere in inganno.
La prima mancanza di riguardo nei confronti di qualcuno è proprio la distrazione o la superficialità con cui lo si considera.
Rispetto, significa anzitutto riconoscere la dignità dell’altro e salvaguardarne l’unicità. È una forma di attenzione non
possessiva che vuole “lasciar essere” l’altro nella sua differenza, rinunciando alla tentazione di colonizzarne i pensieri e i
desideri o di renderlo simile a sé. Lo si potrebbe accostare all’atto contemplativo.
Non possiamo veramente incontrare qualcuno se non riconoscendone e rispettandone la trascendenza e l’alterità. Se l’alter
diventa alienus, la comprensione si fa impossibile, la comunicazione impraticabile.
Il segreto di un’autentica relazione d’aiuto consiste in un delicato equilibrio tra prossimità e distanza. Non dipende da una
regola universale né da un calcolo matematico: richiede la capacità di sapersi avvicinare all’altro pur rimanendo distinti,
di farsi carico della sua situazione senza perdere la lucidità, e di commisurare di volta in volta il proprio grado di
coinvolgimento al suo livello di autonomia e di responsabilità.
Rosso come il cielo di Cristiano Bortone (Italia, 2005) → ambientato negli anni Sessanta in un istituto per ragazzi non vedenti,
il film narra la storia di Mirco Mencacci che, quando è ancora bambino, a seguito di un incidente, perde quasi completamente
la vista e viene trasferito in un collegio speciale di Genova. L’istituzione, che dovrebbe offrire a chi non vede strumenti per
condurre una vita normale, è invece afflitta a sua volta da una strutturale incapacità di vedere: essendo fondata sul
presupposto dell’handicap, essa non fa che accentuare la diversità dei ragazzi, rinunciando a credere nelle loro possibilità e
tentando di scoraggiare le loro aspirazioni. Solo uno degli insegnanti continua a considerare quegli alunni come ragazzini
normali e tenta di sviluppare in loro gli altri sensi di cui sono dotati. Grazie alla fiducia di questo educatore, Mirco riesce a
trovare una via di riscatto: rifiutandosi di essere definito per ciò che gli manca, scopre un mondo (quello dei suoni) che lo
mette in grado di esprimermi e persino di far vedere ad altri ciò che, pur non essendo ciechi, altrimenti non vedrebbero. La sua
capacità di raccontare storie ed emozioni e di evocare immagini mediante i suoni diventa contagiosa e consente anche ai suoi
compagni di ritrovare un protagonismo che, a causa del loro deficit, era stato loro negato.
I destini incrociati
[…] essere donna significava per me saper sentire oltre l’udibile, saper sperare oltre l’inseparabile, saper accettare l’imprevisto,
accogliere il nuovo, trovare strategie inesplorate.
[…] il tuo sguardo, il brillio dei tuoi grandi occhi, il collo sottile proteso innaturalmente in avanti mi raccontava di una
curiosità che era già conoscenza, scienza e successo. Mi fermai, attratta da un corpicino che mi sussurrava qualcosa, un corpo
di bimba mutilato, gambe tranciate poco sopra il ginocchio, eppure dinamico, fresco, desideroso di scoprire il mondo.
Inspiegabilmente non mi suscitava commiserazione, quella pietà spicciola che chiude il futuro e lascia spazio solo a una
sopravvivenza senza senso; quel corpo mi sussurrava qualcosa di impercettibile ma con un’eco che mi risuonava dentro e non
mi lasciava tranquilla. Avevo già i miei problemi nella mia lotta quotidiana contro l’apatia, l’inerzia e il torpore che mi
rendevano tutto terribilmente pesante e faticoso. Ogni minima deviazione dalla routine quotidiana irrompeva come un tuono
inatteso e non poteva che essere presagio di una tempesta in arrivo. La mia era una vita senza melodia, un sottofondo triste e
malinconico conduceva la mia esistenza verso la noia di una vita vuota. Eppure quell’espressione, quel lampo degli occhi mi
suggerivano un nuovo accordo per un probabile inizio, si trattava solo di concentrarsi, mettersi all’ascolto, uscire dalla banalità
del presente per comporre un nuovo canto per la vita.
[…] “Anch’io sono un’atleta e una campionessa; quando vuoi possiamo iniziare gli allenamenti”. Improvvisamente mi accorsi,
per la prima volta dopo tanto tempo, che avevo ascoltato il mio intuito, quello che mi permetteva di dare scacco matto nelle
mie partite più dure, quello che mi dava il coraggio di rischiare perché questo dava senso alle mie fatiche. Tu non aspettavi
altro e dopo un’ora eravamo già pronte per la prima lezione. Tutti i giorni una partita, fino al termine della comune degenza
ospedaliera, e tu hai superato le attese, ti sei appassionata, come se quella scacchiera narrasse una fiaba medievale in un mondo
a te lontano ti dicesse che non c’è una sola possibilità nella vita, ce ne sono tante, basta saper ascoltare l’eco del destino e non
mollare il filo rosso della speranza.
[…] nei tuoi occhi c’è lo schianto di una mina; nel tuo sguardo il silenzio del dolore. E io, accanto a te, tutti i lunedì rivivo quel
fragore e quel silenzio e li sento miei e li consegno al ricordo del fragore e del silenzio che ha deviato anche il mio destino.
[…]e quel casuale e inatteso incontro tra un corpicino mutilato e un’anima persa quel dialogo che ha trasformato l’evidenza in
possibilità, quell’incontro tra due destini dolorosi ha generato un’alleanza nuova che nell’ascolto e nella cura reciproci ha
trovato il suo compimento.
Capitolo 3 – L’udito e l’ascolto
La tradizione giudaica è incentrata preferibilmente sull’ascoltare. Nella Bibbia, la creazione del mondo coincide con un atto di
parola: “Dio disse: “Sia la luce!”, e la luce fu”.
La fisica quantistica, con la “teoria delle stringhe”, identifica l’origine della materia nella vibrazione di filamenti subatomici di
energia. Anche dal punto di vista ontogenetico, l’udito sembra detenere un primato rispetto alla vista: l’esistenza umana, fin dai
suoi albori intrauterini, è avvolta in un “bagno sonoro”. Il senso dell’udito si differenzia piuttosto precocemente e la percezione
dell’altro è originariamente un’esperienza di tipo uditivo.
Il mistero della relazione io-tu si traduce perlopiù ricorrendo a termini acustici: “entrare in sintonia” o “mettersi sulla stessa
lunghezza d’onda” non sono che modi di esprimere quella “simpatia” che rende possibile la comunicazione umana e che
costituisce la condizione sine qua dei legami interpersonali.
3.1. La sintonia del cuore
Mentre gli stimoli visivi giungono frontalmente, quelli acustici provengono da ogni direzione. Udendone il suono,
possiamo avvertire qualcosa ancor prima di vederlo; ma lo percepiamo prima di poterne identificare la fonte. L’orecchio
umano non può, come l’occhio, esplorare o perlustrare, ma solo recepire. Esso è esposto a ciò che lo circonda e, in un
certo senso, persino indifeso. I suoni si diffondono e ci pervadono, sottrarvisi non è semplice come con altri tipi di
sollecitazioni.
Se l’esperienza della visione è connessa a un “afferrare” qualcosa, quella uditiva è maggiormente legata a un “essere
afferrati” da qualcosa, l’ascolto comporta sempre una particolare vulnerabilità.
Suoni e rumori entrano in noi anche senza che o vogliamo, l’ascolto produce una sorta di estasi e di decentramento, in
virtù dei quali l’io viene “spiazzato” dalla presenza dell’altro. L’udito ci rende consapevoli di essere non solo soggetti di
qualcosa, ma anzitutto soggetti a qualcosa.
La “capacità di penetrazione” è una caratteristica strutturale del mondo acustico. “L’udito è il senso dell’interiorità,
sembra portare il mondo nel cuore del sé, mentre la vista lo respinge piuttosto all’esterno”, ciò che è più intimo non si può
che ascoltare. La dimensione dell’intimità è dischiusa dal fenomeno della risonanza: ciò che udiamo risuona in noi e noi
risuoniamo con esso. Grazie al fenomeno della consonanza, quando determinati suoni ci raggiungono noi stessi vibriamo
all’unisono con la fonte che li ha emessi. Così, rispetto a qualcuno possiamo sempre sentirci “concordi” o “discordi”, e ciò
determina la qualità dell’interazione.
Perfino gli stati d’animo fondamentali che accompagnano come sottofondo le nostre esperienze sono stati definiti con un
termine mutuato dall’acustica: “tonalità emotive”. Quando desideriamo conoscere la situazione di qualcuno, non possiamo
esimerci dall’interrogarci su quale sia la tonalità emotiva che, in quel momento, lo pervade.
Entrare in relazione comporta lo sforzo di “sintonizzarsi”. Ognuno è come un “diapason differentemente regolato” e,
perché si dia un dialogo autentico e profondo con qualcuno, è necessario cogliere il suo “tono” dell’umore come
condizione generale entro cui gli si offre il mondo. La percezione del mondo è sempre mediata da una certa tonalità
emotiva.
Non può esservi autentica comprensione nella semplice descrizione di una situazione, ma soltanto nell’ascolto capace di
cogliere il modo peculiare che ogni persona ha di percepirla.
3.2. Dei silenzi e delle parole
L’udito è dunque l’organo della relazione per eccellenza: è prevalentemente mediante la voce che comunichiamo, e
attraverso l’ascolto gli esseri umani si aprono alla comprensione di livelli più profondi del reale oppure si chiudono in
mondi autoreferenziali e distratti. L’atto di ascoltare, a differenza dell’udire involontario, presuppone una precisa
intenzionalità: occorre “stare a sentire” e cogliere il senso profondo di ciò che viene comunicato e, perfino, di ciò che, non
detto, soggiace nelle parole. Svuotato di questo intento, l’ascolto può degenerare in altrettante modalità distorsive: il mal-
inteso (ascoltato male o distrattamente) o l’equi-voco (attribuire erroneamente lo stesso significato a due cose diverse).
Anche nel caso dell’ascolto la presunzione costituisce la minaccia più insidiosa: chi pensa di saperne abbastanza o di aver
già capito tutto, smette di ascoltare e si priva dell’unico modo che avrebbe per comprendere davvero. Ma l’udito è anche il
senso dell’impermanenza: il suono è per definizione istantaneo, precario, transitorio.
Ogni forma di accoglienza e di conoscenza autentica dell’altra incomincia dall’ascolto: disponibilità a farsi raccontare una
storia, interesse a comprendere un’altra visione del mondo e della vita, attitudine a immedesimarsi in un modo di essere
diverso dal proprio. Occorre mettere a tacere la voce prepotente e ingombrante dell’io e prestare attenzione. Il silenzio è la
condizione preliminare dell’ascolto, “deve essere sentito non come una privazione, ma come un dispositivo di risonanza”.
Chi lavora con le persone deve imparare ad ascoltare non come chi registra una serie di dati, bensì come chi è capace di
coglierne il senso recondito. La modalità dell’interpretazione non corrisponde all’ascolto più autentico. Chi interpreta,
stabilisce una connessione tra ciò che vede o ascolta e ciò che sa o pensa o sente. Questo tentativo di rendere familiare
l’estraneo spesso però lo espropria, appunto, della sua estraneità, in quanto si sovrappone alla voce dell’altro la propria
voce. Ciò che ci dicono non può mai essere cristallizzato o utilizzato per definirle, perché le parole esprimono ciò che
passa. Ciò che ascoltiamo da lui è l’effetto di un’attività. Le parole dell’altro non sono l’altro, ma rimandano a lui.
L’ascolto esige dunque il silenzio della mente, non soltanto quello delle parole. Occorre neutralizzare gli automatismi
percettivi e intellettuali che altrimenti ci condurrebbero fuori strada. L’assenza di parole, in una relazione umana, non è
mai vuoto, ma è sempre pieno di senso. Il silenzio, a volte, custodisce semplicemente ciò che non può essere detto e ciò
che conta di più. Il rispetto del silenzio rappresenta la regola d’oro della comunicazione.
Vi sono parole “pesanti” che andrebbero bandite dal lessico di un educatore: parole indelicate, ingiuste o addirittura
violente, estranee, insensibili o insensate. Occorre “ponderare” l’uso delle parole, perché non feriscano, e resistere alle
seduzioni del linguaggio tecnico e impersonale che, di fatto, le disumanizza.
3.3. Non si può ascoltare senza sentire
Comprendere empaticamente l’altro significa assumere l’angolo di visuale dell’altro, ma non confondersi con lui. Questa
distinzione caratterizza la relazione d’aiuto. L’aiuto consiste nel prestargli quell’attenzione amorevole che gli permette di
ascoltarsi meglio a sua volta e di confondersi più a fondo.
Questo tipo di conoscenza per immedesimazione si può conquistare a due condizioni: che si apprenda a stemperare
l’imperialismo dell’intelletto per dar credito alla dimensione emozionale (non si tratta semplicemente di “capire” l’altro
come se potessimo spiegarne il modo di essere, bensì di “sentire” l’altro in modo da comprenderne e condividerne almeno
in parte la situazione) e che si smetta di considerare l’altro come l’oggetto di un discorso e si incominci a considerarlo
come il partner di un dialogo.
Nel lavoro con le persone, la personalità costituisce un fattore decisivo della professionalità; e l’inevitabile
coinvolgimento che la relazione con l’altro comporta, richiede di saper restare costantemente in contatto con se stessi.
Ascolto di sé e ascolto dell’altro sono strettamente legati e si condizionano vicendevolmente, tanto da poter affermare che
la capacità di comprendere l’altro è direttamente proporzionale alla conoscenza di sé.
Gli educatori sono indotti dalla natura stessa del loro lavoro a prendere coscienza del fatto che non c’è ascolto dell’altro
che non sia, simultaneamente, ascolto di sé.
L’ascolto autentico produce inevitabilmente una qualche risonanza emotiva: entrare in una relazione educativa implica
farsi carico, in un delicato equilibrio, del vissuto dell’altro, delle sue sofferenze e delle sue aspirazioni.
La pretesa di prendersi cura delle persone e del loro destino senza, in qualche modo, risentirne, è assurda e illusoria. Il
lavoro con le persone comporta un costante lavoro su di sé; perché l’arte dell’ascolto si può apprendere e affinare,
certamente, ma anche deteriorare o perdere del tutto. Ogni relazione comporta un duplice itinerario: verso l’esterno e
verso l’interno, somigliando in tal modo a un “viaggio verso l’altro attraverso se stessi”.
Les choristes di Christophe Barratier (Francia, Svizzera, 2004) → Clément Mathieu, assunto come sorvegliante in un collegio
per ragazzi difficili («il fondo dello stagno»), diventa per loro un vero e proprio educatore grazie alla sua passione segreta per
la musica. Molti anni dopo, uno di quei bambini, poi divenuto un famoso direttore d’orchestra, ricorda con gratitudine
quell’incontro decisivo. Mathieu si trova a confronto con un’istituzione impersonale e autoritaria, in cui l’inflessibilità delle
ferree regole disciplinari è pari alla loro manifesta inefficacia. Sfidando l’idea deterministica secondo la quale i ragazzi
svantaggiati sarebbero pressoché predestinati a un futuro di delinquenza e di marginalità, il sorvegliante è deciso a dar loro
un’opportunità ed è più interessato ad ascoltarli che a controllarli e punirli. In questo senso, la sua idea di formare un coro di
voci bianche si rivela una trovata pedagogica vincente: consente a ciascuno di scoprire che la propria voce è degna di essere
ascoltata, e nel contempo permette a tutti di scoprire che possono essere insieme artefici di qualcosa di bello, e non solo
vittime di un destino avverso. È dunque l’arte dell’ascolto la qualità educativa su cui è incentrata la vicenda: un
atteggiamento che, sospendendo il pregiudizio e prestando attenzione alla singolarità di ciascuno, riesce a portare alla luce
ciò che, diversamente, sarebbe rimasto latente forse per sempre.
L’abbraccio
•Greta: […] d’improvviso mia madre si accasciò tra le mie braccia. Sentii la sua presa sempre più lieve, la sua mano sempre
più fredda, il respiro prima frequente, poi gradualmente più lento. L’ultimo soffio mi accarezzò il viso come per salutarmi e il
suo spirito se ne andò. Rimasi lì, ferma, per tre ore: il morso del dolore, cattivo, penetrante, lacerante, mi aveva paralizzato;
non potevo e non volevo staccarmi da quel corpo che, all’esordio della vita, per primo avevo toccato, che mi aveva cullato e
nutrito di cibo e d’amore.
[…] Poi ripresi la mia vita, irrimediabilmente deformata da quell’urto con la morte. Troppo arrabbiata con Dio per sentirlo
vicino, per accogliere la sua mano, per accettare di gettarmi tra le sue braccia, troppo rispettosa del dolore di mio padre per
chiedergli consolazione, mi collocai ai margini di un mondo parallelo: da una parte la scuola e la famiglia mutilata, dall’altra i
miei pensieri senza futuro chiusi nel ricordo di quel contatto primordiale che doveva insegnarmi la vita.
[…] Compii diciotto anni, terminai le scuole superiori e, senza un saluto, me ne andai alla ricerca dell’abbraccio salvifico di
mia madre. Mi allontanai da mio padre; non gli chiesi nulla, perché nulla credevo potesse darmi: a lui avevano rubato un amore
rimpiazzabile, a me avevano strappato una madre per sempre. Vagai senza meta nel mondo.
[…] Dimenticai il senso del mio viaggio, il fitto velo dell’oblio mi avvolse il cuore rendendolo insensibile a qualsiasi tocco.
Droga e alcol mi allontanavano da me stessa. Per sentire ancora il mio corpo dovevo inciderlo, tagliarlo, tatuarlo: solo in quel
modo, nel dolore, riuscivo a restare in contatto con me stessa, a non perdermi, a non svanire nell’ebbrezza di un delirio.
[…] Senza meta non c’è viaggio, è un perdersi senza fine in pensieri confusi, in parole che ritenevo audaci ma apparvero
effimere, in azioni che stimavo ardite ma si mostrarono vigliacche, in emozioni che credevo esaltanti ma celavano fantasmi di
morte. senza meta non si va avanti, il vento del desiderio non soffia più, la brezza della condivisione non accarezza più, il
respiro dell’amore non fa rabbrividire i corpi.
[…] La morte era lì, sulla soglia: mi spiava, mi lanciava i suoi sguardi seduttori, mi tendeva la mano. Più volte fui lì e lì per
toccarla nell’illusione di trovare in lei la pace che trovavo tra le braccia perse di mia madre e in quelle rinnegate di mio padre.
Quasi per caso, ai margini del buco nero che definitivamente avrebbe inghiottito la mia anima, incontrai Cura. Mi lasciai
raccogliere, ricostruire pezzo per pezzo, plasmare in una nuova forma dalle sembianze vitali. Non fu indolore, né per me, né
per chi mi donava cura. Toccare e farsi toccare da me non era facile: bisognava vincere la paura, bisognava scoprirsi, togliersi
le maschere, farsi riconoscere. Avevo bisogno di trovare spazio, di consentire e acconsentire. Chiedevo a Cura di rispettare i
tempi, di distinguere i segni, di essere disposta ad ospitarmi tra i suoi confini, se ce n’era bisogno. Volevo abitare il limite ma
chiedevo a Cura di fare altrettanto, di accettare il rischio della sua fluidità e di essere trascinata, in alcuni momenti, ora da un
lato, ora dall’altro del confine. Le chiedevo di aiutarmi ad abbattere con coraggio i muri di omertà che danno valore legale al
pregiudizio. Così, in un tempo che era il mio tempo, il tocco di Cura mi restituì la mia forma originaria.
“Ci vuole tatto” per non urtare sensibilità, per dare certe notizie, per correggere, disapprovare, chiedere. Ci vuole tatto per
sentire ciò che è negato alla vista e all’udito. […] I donatori di cura usarono tutto il loro tatto per restituirmi a me stessa: mi
trattennero con tocco fermo ma leggero nei momenti di fuga, mi regalarono carezze mentali nel rimpianto di una vita buona. Ci
vogliono tocchi di mani forti, pronte a contenere, sorreggere e rialzare, e tocchi di mani delicate, assidue nelle carezze,
rassicuranti nel dolore.
[…] Mi gettai nel suo caldo abbraccio. Sentii la presa forte di mano paterna sorreggermi, vidi con stupore la delicata mano
materna accarezzarmi. E in quell’abbraccio d’amore mi addormentai. In sogno il tocco di mia madre mi richiamò alla vita.
“Due non è il doppio ma il contrario di uno, della sua solitudine. Due è alleanza, filo doppio che non è spezzato”.
Capitolo 4 – il tatto e il gesto
Già nella vita intrauterina il feto è immerso in un ambiente liquido caldo e avvolgente, rispetto al quale il distacco della nascita
rappresenta un primo trauma. Inoltre, nei primi mesi di vita, il contatto fisico riveste un’importanza cruciale capace di
influenzare lo sviluppo cognitivo e sociale
Il bisogno fondamentale di contatto, che John Bowlby ha definito di attaccamento, orienta il neonato a costruire un rapporto di
dipendenza con la figura che gli fornisce cura, sicurezza e sostegno affettivo. Questa relazione elettiva costituisce una “base
sicura” per la crescita psicofisica e la premessa di una vita adulta equilibrata e serena. La fiducia necessaria per vivere viene
acquisita e consolidata grazie al rapporto fisico e affettivo con la madre o un caregiver capace di sostituirla adeguatamente:
essi, tramite il contatto continuo, assicurano al bambino il contenimento necessario a strutturare progressivamente la propria
personalità. Gli studi di René Spitz sull’istituzionalizzazione infantile e sulla deprivazione affettiva derivante dalla mancanza
di contatto fisico nel primo anno di vita, hanno dimostrato che i bambini abbandonati dalla madre o lasciati a lungo da soli
nella culla, anche se adeguatamente accuditi e gratificati nei loro bisogni fisiologici, manifestano segnali precoci e disperati
della “depressione anaclitica”, una sorta di apatia patologica che può arrecare danni irreversibili sul piano fisico e mentale.
Le esperienze tattili hanno una particolare rilevanza nella strutturazione del carattere, essendo originariamente l’esperienza del
contatto legata alla sfera dell’affettività. A metafore di tipo tattile ricorriamo per esprimere la qualità di ciò che più ci colpisce
e il modo in cui ci impressiona: “calda” accoglienza, “pungente ironia”, “opprimente” senso di colpa ecc.
4.1. Se mi tocchi, esisto
L’“io-pelle” rappresenta il nucleo protomentale dell’identità, che tiene insieme dall’interno e al tempo stesso separa
dall’esterno: l’involucro epidermico è una sorta di “soglia”, che permette la coesione di sé e la comunicazione con il
mondo. Quella del tatto è quindi originariamente esperienza di con-tatto, percezione cioè di una coesistenza tra noi e il
mondo in cui simultaneamente acquisiamo il senso della consistenza del mondo e di noi stessi.
Il tatto è dunque una questione di relazione: è per antonomasia l’esperienza di essere due che precede sempre l’esperienza
di essere uno. Nel contatto è immediatamente evidente che tu precede l’io e gli consente di definirsi.
Questa è la ragione per cui il contatto fisico costituisce un elemento insostituibile di contenimento emotivo e di
rassicurazione. Il contatto umano, per chi soffre, è “uno strumento potente di restaurazione del sé”.
Al contrario, l’assenza di contatto fisico viene vissuta come un tentativo di evitamento o come un indice di esclusione, e
pertanto può essere particolarmente dolorosa per chi si trova nella solitudine o nella sofferenza. Il pudore può impedirci di
toccare qualcuno, forse nel timore inconsapevole che la sua sorte possa “contaminarci”. Perché toccare qualcuno significa
non solo dirgli “io sono con te”, ma anche “io sono come te”, e questa comunanza di destino può spaventare. Ma non si
può davvero toccare qualcuno con cura, se non si è toccati dal suo destino o se ci si pone davanti ad esso come qualcosa di
estraneo. Può accadere allora che i malati, i disabili, i poveri, gli anziani, si trasformino in altrettante categorie di
“intoccabili”: perfettamente accuditi, eppure tenuti a distanza; trattati magari con deferenza, ma lasciati soli nella loro
indigenza di affetto e nel loro desiderio di un abbraccio che li riporti entro il perimetro della vita.
È proprio l’assenza di contatto il motivo di sofferenza più acuto nelle persone bisognose di assistenza e di accudimento.
Essere toccati può essere vissuto come un gesto invasivo e come “indebita intrusione nel proprio spazio personale”,
richiede particolare sensibilità da parte di tutti coloro che prestano assistenza a persone che, trovandosi in condizioni di
non autosufficienza o di ridotta autonomia, sono costrette a mettersi “nelle mani” di altri. È dalla qualità del contatto che
l’altro si accorge se sono nei suoi confronti affettuoso o sterile, attento o negligente, sereno o nervoso, empatico o
distaccato.
Nel nostro modo di maneggiare l’altro si rivela sempre qualcosa di noi, persino il nostro carattere e la nostra storia.
Nel lavoro di cura, può serpeggiare un disagio che si traduce in un contatto fisico incurante, meramente funzionale ma
distratto e anaffettivo, quasi a sottolineare la pericolosa scissione tra il curare e l’aver cura che può affliggere, e in certo
senso snaturare, non solo le professioni socio-educative ma anche quelle della salute.
Il cinismo, benché nasca come meccanismo di difesa, finisce per produrre un diffuso malessere negli utenti e negli
operatori stessi.
Accade che il contatto diventi la forma primaria dell’incontro, soprattutto laddove altri canali sono preclusi. Il contatto
fisico non è solo la forma più remota e ancestrale della comunicazione, ma anche quella ulteriore ed estrema, che continua
ad alimentare la relazione anche laddove ogni altra forma di dialogo è pregiudicata o interrotta. Esso è l’unica forma di
comunicazione che rimane quando le parole si ritirano nel silenzio.
4.2. Maneggiare con cura
In tedesco, la relazione di cura è identificata con un termine che deriva da mano, quasi a suggerire la particolare
delicatezza richiesta dall’azione di “maneggiare” qualcuno, affinché non scada nella forma deteriore del “manipolare”
insensibile e brutale. Il contatto con la corporeità fragile o ferita comporta sempre una certa ripercussione esistenziale ed
emotiva. Non si tratta mai di un gesto meramente transitivo, ma sempre reciproco. La riduzione dell’azione educativa o
terapeutica a “trattamento” rivela la fatica di stare nel contatto e una sostanziale incapacità di tollerare ed elaborare il
coinvolgimento che esso produce.
È necessario sviluppare quel “tatto pedagogico” che consiste in una particolare sensibilità per le differenze individuali e in
una spiccata attitudine a valorizzare prontamente l’occasione educativa insita in ogni concreta situazione prevista o
imprevista. Tatto non è solo la qualità del toccare, bensì il modo di approcciare e di “trattare” l’altro. Avere tatto o
mancare di tatto è una connotazione essenziale del lavoro di cura. Si tratta della qualità affettiva dell’incontro, da cui
dipende essenzialmente il tipo di rapporto che si instaura. Il tatto è una dimensione fondamentale. Altrimenti, l’identità
propria e la singolarità dell’altro si disperdono in un rapporto meramente funzionale in cui “il tu viene assunto e ritenuto
alla stregua di un generico altro-da-me in un ruolo, nelle mani di un tale che si declina come io”.
Perdendo la qualità coesistenziale dell’incontro, il rapporto si riduce a un semplice “porsi di fronte” a qualcuno per un
determinato scopo: la relazione degenera in prestazione, perdendo progressivamente la sua umanità.
Ogniqualvolta ci si pone dinanzi a una persona non come un “tu”, ma come un generico “altro”, ci si dispone a “porre
mano” alla sua vita in modi inadeguati alla sua dignità di persona.
Di là da ogni pretesa di oggettivazione, occorre rimarcare che “la parola fondamentale io-tu fonda il metodo della
relazione”. Soltanto considerando l’altro come un interlocutore attivo e capace si permette alla parte migliore di lui di
emergere e di manifestarsi. Soltanto impegnandosi a preservare la dignità dell’altro come fosse la propria, si può
preservare la qualità umana e umanizzante dell’educazione e della cura. Ciò suppone il riconoscimento di una comune
condition humaine, che precede e supera di gran lunga ogni possibile differenza di status o funzione. Il “noi della cura” si
realizza infatti grazie a un tipo di coesistenza e di compartecipazione che si pone oltre la semplice comunicazione e
trascende l’impersonalità dei ruoli, anche professionali.
Imparare ad avere tatto non è soltanto una forma di protezione della dignità dei destinatari dal gesto di cura, ma anche una
garanzia a difesa della propria dignità e del proprio benessere di professionisti. Occorre apprendere e coltivare le virtù
della gentilezza e della mitezza, quali “forme di vita che ci aiutano a mantenere la nostra dignità”.
Solo da questi atteggiamenti possono scaturire il contatto genuino e il gesto accurato. La tenerezza necessaria a incontrare
l’altro senza assimilarlo comporta la capacità di smussare le spigolosità emozionali e le asperità cognitive che ci
impedirebbero di fargli posto. Essa consiste in “una postura della mente che non ha nulla di spontaneo” e come tale va
affinata. Solo chi ha coscienza della propria indigenza può prendersi cura del bisogno di altri, e solo chi conosce le proprie
fragilità può aiutare altri a convivere con il limite dando un senso alla vita.
Si può fare di Giulio Manfredonia (Italia, 2008) → Ispirato alla vicenda reale della cooperativa sociale “Noncello” di
Pordenone, il film racconta la storia di Nello, ex sindacalista, dal momento in cui presiede la Cooperativa 180. Egli si rifiuta di
assumere il paradigma clinico che continua a considerare le persone in base al loro problema, non li chiama “pazienti” o
“malati”, bensì “soci” e “lavoratori”. Scommettendo sulle loro potenzialità riesce a trasformare quell’insieme di folli in una
squadra di montatori di parquet e a restituire loro diritti, capacità decisionale e responsabilità (dignità personale). Egli ha
avuto la capacità di “prendere per il verso giusto” chi, nonostante il limite della patologia, possiede nondimeno una parte
sana e degna di fiducia. Il compito di un educatore è credere nell’altro prima ancora che lui creda in se stesso.
I profumi dell’arcobaleno
Della sua casa afghana Paiman ricorda soprattutto i profumi. Ogni stanza, ogni angolo aveva il suo e, passando, l’uno si
arricchiva dell’altro dando origine, nell’incedere, a una varietà di sensazioni diverse e piacevoli.
[…] Sua madre soleva dire che in questa danza di aromi si poteva sperimentare il miracolo di un Dio che, con la leggerezza
dell’aria, con un suo soffio, riusciva a lasciare tracce della sua presenza nella memoria e secondo la sensibilità di ognuno;
Paiman preferiva pensare a un meraviglioso arcobaleno degli odori e pensava che prima o poi, nella vita, Allah, il
Misericordioso, gli avrebbe concesso di raggiungerli e di coronare il suo sogno di salire a Lui insieme alle essenze più preziose
e gradite.
[…] Paiman amava quei profumi, l’arcobaleno della vita, e ne seguiva la traccia, come se sentisse il suo destino dovesse essere
in qualche modo legato ad essi e sognava un futuro profumato di bene. Ma un freddo, grigio e crudele giorno, rientrando da
scuola, Paiman sentì da lontano un fetore di bruciato e di morte. In pochi minuti, a tredici anni, si trovò solo. La sua famiglia
stava volando al cospetto del Signore come un soffio innocente insieme alla casa e ai suoi aromi. Per un attimo, ma solo per
uno, sentì, tra il tanfo del fuoco assassino, profumo di mirra e si inchinò in preghiera, consegnando ad Allah tutti i suoi cari.
[…] Gli odori più acri, più sgradevoli, più irrespirabili si erano impossessati di lui, comprimendo e spingendo nelle più remote
pieghe della memoria i profumi delle sue origini. Nulla più poteva profumare i suoi ricordi. […] il Dio misericordioso che gli
avevano fatto conoscere in famiglia era un inganno, un’illusione nata dall’inebriante miscuglio di aromi che per tredici anni gli
avevano velato la verità.
[…] Mattia, il ragazzo italiano, lo guardò negli occhi e si riconobbe, così udì quel grido di dolore e fece una scelta dura,
rischiosa, difficile: accettò di vivere intensamente quel momento come traccia di bene, si calò nella vita di Paiman e l’accolse
tutta intera, anche gli aspetti più duri e più ripugnanti per lanciare un messaggio di purezza e purificazione. Chiamò e supplicò
il padre di andare oltre le apparenze, di provare ad alzare il velo di sporcizia e di miseria, di sentire, oltre la coltre di fetore, il
dolore, l’angoscia, la solitudine. Ricordi sommersi nella memoria di una vita affiorano alla mente e al cuore del padre: piccoli
ritagli di esperienze bruciate dal fallimento, tracce di incontri profumati di bene, volti imploranti che rispecchiavano il suo,
sguardi gelidi che rifiutavano l’aiuto.
[…] Gli offrirono un bagno, morbidi asciugamani e sapone; la madre versò nella vasca un sacchetto di sassolini colorati che,
sciogliendosi a contatto con l’acqua calda, emanavano nuovi aromi, profumi delicati che lo accarezzavano come da anni
Paiman non aveva provato. Quei profumi erano promessa di bene, erano cura, oli essenziali che lenirono le ferite del suo
animo, che gli restituivano un sé compresso, dimenticato, ferito. Quei profumi lo stavano riconducendo a se stesso.
[…] Paiman e Mattia sanno quanto sia importante “profumare” ciò che fanno, giorno per giorno, con oli essenziali, piacevoli e
inebrianti, perché solo il male separa il bello dal buono mentre il bene è l’unità viva e attiva: ciò che è buono non può che
essere bello e dà gioia. “Il mio nome significa promessa – dice Paiman – e la promessa è un profumo che sale al cielo, un unico
punto d’incontro tra la mirra del dolore e l’incenso della speranza”. Poi ride e aggiunge: “Ma il profumo di pizza è arcobaleno
che stupisce e dà gioia, è il tesoro che mi ha salvato, anche per questo ringrazio Dio!”
Capitolo 5 – L’olfatto e l’atmosfera
L’olfatto è il senso più direttamente collegato alla sfera psichica. Gli odori hanno la capacità di legarsi a determinati vissuti
emotivi e di renderli attuali anche a distanza di tempo. Un profumo può richiamare alla mente il ricordo di une vento e
ravvivarne la sensazione fisica, come se accadesse di nuovo. La percezione dell’odore è sempre connotata da una
determinazione attrattiva o repellente. L’odore dell’altro o del luogo in cui vive è ciò che di lui mi raggiunge senza che io
possa opporre resistenza: mi si impone e penetra in me determinando un’immediata reazione emotiva. Esso comporta
un’intimità, a volte non voluta, ben prima del contatto fisico e perfino in assenza di esso. L’odore è pervasivo e per questo ci
condiziona profondamente.
5.2. Come una boccata d’ossigeno
Attraversando un determinato luogo siamo come avvolti dall’aura che lo pervade e ne inaliamo il clima emotivo.
L’atmosfera affettiva non ci lascia indifferenti, ma ci dispone a un certo tipo di rapporto con quel luogo e quella
situazione. Può accadere che, entrando in certi luoghi, si avverta una discrepanza, “una sollecitazione a rivolgermi a una
disposizione d’animo differente da quella in cui mi trovo”.
Il “sorbire” l’atmosfera del paesaggio indica che essa è anzitutto una qualità emotiva che aleggia e nella quale siamo
immersi, e che solo in un secondo momento diventa nostra, nella misura in cui penetra in noi. Il clima che si respira in un
servizio educativo o in una comunità può risultare ostile o accogliente, formale o autentico, triste o gioioso, contaminando
lo stato d’animo di chi lo abita.
5.2. Ognuno ha la sua “aura”
Ogni relazione con il prossimo è mediata da un determinato carattere “olfattivo”. Questa connotazione ha a che fare con
qualcosa di intimo, di misterioso, di imprendibile: l’essenza di qualcuno, che noi percepiamo vagamente senza a volte
saperla definire esattamente. Stare in una relazione educativa spesso significa saper cogliere questo nucleo profondo, in
cui abita davvero l’“anima” dell’altro, al di là di ogni convenzione e di ogni finzione.
Da questo luogo interiore promana un “alone” che caratterizza il modo di essere di ciascuno in modo estremamente
personale. Ognuno ha un “aura” tutta sua e diffonde attorno a sé un’atmosfera particolare, come quando siamo allietati da
qualcuno che “sprizza allegria da tutti i pori” o rattristati da qualcuno che ha un’“aria malinconica”. Chiamiamo “animo”
la particolare qualità psichica e morale che caratterizza una persona e che da essa promana, come un alito pieno di vita o
un soffio mortifero. Il fattore olfattivo ha dunque un carattere non soltanto affettivo, ma anche morale.
L’“aria” che ci accompagna determina in modo decisivo i rapporti quotidiani con il prossimo. Antipatie e simpatie
spontanee hanno il loro fondamento in questo “aver l’aria di” che può attrarre quanto respingere.
L’aura di affidabilità e autorevolezza di cui vediamo circondati gli individui carismatici rinforza il loro magnetismo e la
loro capacità seduttiva. Forse l’esemplarità che contraddistingue i veri educatori, che riescono a catalizzare le risorse altrui
e a farli crescere, consiste proprio in questo: essi fungono da “modelli” non in virtù di una presunta perfezione, bensì di
un’indole o di un’essenza particolare, capace di diffondere attorno a sé una scia che valga la pena seguire.
5.3. Ispirare e inspirare fiducia
Un luogo educativo, per risultare effettivamente tale, deve connotarsi per un’atmosfera che favorisca l’apprendimento, la
crescita e il cambiamento. Un clima di sicurezza e protezione, che consente alle persone di esplorare il mondo senza
timore di perdersi e di rendersi gradualmente autonome; uno stato d’animo di allegria e ottimismo, in modo tale che esse
possano assumere un atteggiamento positivo nei confronti di se stesse e della vita; un senso di freschezza e di aspettativa,
che Bollnow chiama “sentimento mattutino”, grazie al quale tutto appare in qualche modo possibile.
Ciò che un professionista dell’educazione deve ispirare è quella “fiducia di fondo” grazie alla quale impariamo che il
mondo non è ostile ma ospitale e che vivere ed essere felici è possibile. Perché divenga generativa, però, questa fiducia
dell’uno nei confronti dell’altro deve progressivamente diventare fiducia dell’uno nei confronti di se stesso. Se coloro nei
quali crediamo credono in noi, allora possiamo imparare a credere in noi stessi.
La fiducia è il primo dei “sentimenti che aiutano a vivere”, ovvero quei “sentimenti germinativi” che consentono alle
persone di abbandonare i propri meccanismi difensivi e di disporsi al cambiamento. Va da sé che vi siano condizioni
istituzionali, ambientali, architettoniche, simboliche, organizzative, che possono facilitare od ostacolare l’insorgere di
determinate tonalità emotive. Il genius loci interferisce con lo stato d’animo delle persone. Da qui l’importanza di aver
cura della “scena”: di tutti quegli “elementi generatori” (luce, colori, materiali, suoni, profumi ecc.) che contribuiscono a
determinare la particolare atmosfera che di questo incontro costituisce lo sfondo. Porsi nell’ottica fenomenologica dello
spazio vissuto per fare in modo che un soggetto si “senta a casa” in un luogo che non è la sua dimora abituale. Questo
lavoro estetico sugli spazi, la loro strutturazione, la loro organizzazione e il loro utilizzo, consiste nel “dar forma a oggetti,
spazi e strutture, avendo di mira il coinvolgimento affettivo del quale i soggetti possono così fare esperienza”.
Non che l’incontro con atmosfere meno “elevate” sia di per sé inesorabilmente nocivo, ma di sicuro riveste per la
formazione del carattere un’altra funzione: l’esperienza del limite e della sofferenza, che lo aiutano a rafforzare il proprio
carattere. “Le tonalità emotive elevate sviluppano, quelle depresse mettono alla prova; nelle prime la vita assume
pienamente la sua forma, nelle altre invece la forma si consolida” (Bollnow)
Per poter dare consistenza a se stessi occorre attraversare l’esperienza del limite e della sofferenza; ma per poter
espandere se stessi e dischiudere possibilità, è necessario alimentare il desiderio e il piacere di esistere. L’atmosfera
ottimale per la crescita è l’equilibrio tra serietà e amorevolezza, immaginazione e realismo, impegno e ottimismo, fatica e
speranza.
Monsieur Ibrahim e i fiori del corano di Francois Dupeyron (Francia, 2003) → 1960: nel quartiere ebraico di Parigi, un vecchio
arabo sufista, Ibrahim, gestisce una drogheria frequentata da un ragazzino ebreo di undici anni. Mosè (Momo) è figlio di un
avvocato che, dopo la fuga della moglie, rinuncia alla funzione di padre e ha un rapporto autoritario e anaffettivo nei
confronti del figlio. Ibrahim dopo il suicidio del padre di Momo, assume la funzione di padre adottivo. I due affrontano insieme
un viaggio in oriente alla scoperta dei colori e degli aromi dei fiori del Corano. Nel percorso scoprono che ogni fede ha un
proprio odore: di cera quello delle chiese cattoliche, di incenso quello delle ortodosse e di piedi quello delle moschee.
Attraverso questo ritorno alle origini comuni, Momo scopre che l’amore paterno supera tutti i vincoli, da quello biologico a
quello religioso, per fondarsi su un incontro e una relazione profonda di amore. Sono gli odori i mediatori di questa scoperta:
in quello “scrigno” di profumi che è il negozio di Ibrahim, Momo respira la fiducia necessaria a intraprendere il percorso che lo
condurrà a diventare un uomo. L’eredità che il padre adottivo gli lascerà è un’identità: d’ora in poi sarà lui, ancorché ebreo,
l’arabo della drogheria di rue Bleue.
Cioccolata amara fondente
“Io sono come una tavoletta di cioccolata fondente: buona per qualcuno, troppo amara per qualcun altro. Forse è la vita che mi
ha reso così… a me, però, la cioccolata nera piace molto!”.
[…] Paolo e Walter, tuttavia, nella loro affannosa e ostinata ricerca di felicità, nel loro volersi saziare per non sentire il vuoto
delle loro anime, nella bulimia di emozioni artefatte, non erano riusciti a gustare il sapore vero della vita e, a distanza di due
mesi, erano morti, l’uno di AIDS, l’altro suicida.
[…] la sua vita era sbriciolata, era come un pugno di farina nella tormenta di dolore, inghiottita dal vortice di un pianto senza
fine. Mancava il senso, mancava la speranza. Tutte le nostre conoscenze psicologiche e pedagogiche ci lasciavano impotenti: il
nostro sapore non riusciva a dare sapore alla sua vita, non era sale, era insipido nutrimento che lei rifiutava. Forse le stavamo
offrendo solo la buccia della vita. Passò un mese e il dolore assunse le sembianze dell’apatia, dell’indifferenza, del disinteresse
alla propria e all’altrui vita. Era un lento suicidio, un’inappetenza fisica e sociale che l’avrebbe portata alla fine. La sua realtà si
allontanava gradualmente ma inesorabilmente dalle “immersioni” nella vita condivisa con gli amici e assumeva sempre più il
sapore artificiale di un’esistenza senza il gusto del vivere.
[…] Maura prese Elvira per un braccio, la fece alzare e, con tono che non lasciava spazio a repliche, le disse: “Ora fai fagotto e
vieni a stare a casa mia, qui ci muori e non voglio perdere anche te. Almeno tu ti devi salvare”. Maura era una cuoca: la sua
casa era il luogo dell’incontro e dello scontro, del conflitto e della convivialità, delle offese più taglienti e dei gesti di squisita
solidarietà. Entrare in casa sua significava scegliere di acchiappare la vita, magari per il lembo del mantello, ma tenerla stretta
per potersene avvolgere. Entrare in casa sua era come assaporare cibi dal gusto intenso, non sempre graditissimi ma dal sapore
indimenticabile.
[…] Capimmo finalmente che il nostro cioccolato era dono monodirezionale, che non era in grado di innescare un
cambiamento perché non si fondeva nell’esperienza, non consentiva a noi di fare esperienza di Elvira né a lei di pregustare
altre esperienze, capimmo che per comprendere il suo rifiuto dovevamo noi stessi farci nutrimento per lei. Elvira non aveva
bisogno di buon gusto, necessitava di qualcosa di buono che riempisse la sua vita e che la saziasse di relazioni.
Maura non era stata a guardare cercando di risolvere il problema dall’esterno, Maura era riuscita a chinarsi sul dolore
dell’amica, ad attraversarlo, a sentirne tutto il sapore di erbe amare e fiele. Ed era riuscita a trasformare questo sapore in sapere
dell’esperienza. Maura aveva capito che bisognava entrare in comunione con Elvira, accoglierla nella casa e nella vita e farle
gustare la bellezza della prossimità e della solidarietà. Maura ci ha insegnato che vivere con “gusto” significa vivere i propri
rapporti nella dimensione del “sapere” e non solo del sapere: sapori forti, forse non sempre o non per tutti gradevoli ma che
costringono a un pensiero, rimangono nella memoria, generano cambiamento; sapori delicati e raffinati, dove i copi e gli animi
sono fragili; sapori scelti appositamente per l’altro, che ha altri gusti e altra cultura; sapori presentati con gusto, perché il bello
da gioia e la gioia porta al bene; sapori che richiedono preparazione e tempo perché la pazienza consente la riflessione e il
rispetto. Maura ci ha dimostrato che vivere nel “gusto” significa vivere dentro le situazioni, condividerle fino in fondo,
assaporarle, immergersi, spezzarsi. Perché è nell’atto dello spezzare e condividere che il sapore diventa sapienza del cuore che
discerne, svela, salva.
Capitolo 6 – Il gusto e il sapore
Anche i sapori hanno la capacità di legarsi a ricordi particolarmente intensi e di conservarne la carica emotiva. La dimensione
prettamente sensoriale non è separabile da quella propriamente psicologica. La percezione del gusto avviene nel cervello a
opera di reti di neuroni deputati al riconoscimento dei diversi sapori. Fin dagli esordi della vita relazionale, la bocca e il gusto
sembrano coinvolti in un processo di percezione di quelle che non sono più semplicemente proprietà sensoriali, ma qualità
affettive e morali
6.1. Il senso del giudizio
La percezione sensoriale e l’intuizione emozionale si riferiscono alla medesima qualità, che viene colta in due modi
diversi, ora fisico e ora affettivo. L’amarezza del gusto è più esteriore ed effimera di quella del sentimento: se una
sostanza amarognola lascia provvisoriamente sulla lingua una sensazione sgradevole, un’esperienza negativa o deludente
lascia un “amaro in bocca” che può durare anche anni. Ciò significa che il senso del gusto è solo l’aspetto superficiale di
un fenomeno percettivo che si dispiega a diversi livelli di profondità.
Il gusto, tramite l’alternativa gradevole/sgradevole, ci segnala essenzialmente ciò che è buono e ciò che è cattivo. Il gusto
(sapere) diviene la condizione della saggezza, ovvero dell’arte del discernimento e del giudizio. Il gusto non è più
considerato soltanto un’idiosincrasia individuale ma una facoltà che si struttura al crocevia tra dati biologici e
condizionamenti culturali. L’esperienza educativa, in questo campo, è fondamentale: si possono avere “gusti barbari” ma
si può anche sviluppare un “gusto raffinato”, nella misura in cui si impara a riconoscere ciò che è bello e non si segue
semplicemente un’inclinazione soggettiva. Non si tratta più di un giudizio arbitrario, ma di una valutazione che ha un
fondamento oggettivo.
Il gusto si affina, come la coscienza. La formazione del giudizio di gusto diventa cruciale, soprattutto in una società in cui
il discernimento soggettivo svolge un ruolo di primo piano. Ogni educazione è “in linea di principio educazione del buon
gusto, se è vero che anche le questioni etiche e politiche possono essere concepite come problemi di gusto, ossia come
questioni di scelta”.
Il gusto non è guidato semplicemente dal principio del piacere, ma da quello del valore. Max Scheler: quanto più l’ordine
affettivo delle preferenze di un individuo riflette il sistema gerarchico assiologico dell’universo, tanto più il suo agire
morale saprà riconciliare il volere con il dovere. Quell’ordine del sentire rappresenta un punto d’arrivo che va conquistato
attraverso un’opera di purificazione del sentire. Occorre spostare progressivamente il baricentro dal sentire immediato,
che considera buono qualcosa perché lo desidera, al sentire formato, che desidera qualcosa in quanto e nella misura in cui
è buono.
6.1. L’uomo buono e il suo tesoro
Il gusto è per definizione il senso dell’introiezione. E poiché ciò che si ingerisce si assimila, al gusto è associata
l’esperienza della trasformazione e persino della conversione. Se ciò che una persona introduce è buono, la renderà buona.
L’effetto di questo processo di assimilazione è reciproco: ciò che produce una persona buona sarà buono. Ci sono persone
fondamentalmente buone in quanto hanno imparato ad alimentarsi del bene.
La virtù più immediatamente legata al senso del gusto è quella della bontà, che è l’attitudine a discernere e a volere il
bene, che significa amare.
Per le persone che quotidianamente si occupano di altre persone, questa qualità non si può considerare secondaria: solo
chi ama può aver cura di chi dipende da lui in modo gratuito e non possessivo. Anche l’amore ha le sue ombre. Nel nome
dell’amore e del bene dell’altro si possono compiere anche piccoli o grandi crimini: imprigionarlo in una gabbia dorata,
sostituirci a lui e decidere al suo posto, impedirgli di rischiare e sbagliare, rinviare indefinitamente il momento in cui si
staccherà da noi.
L’amore autentico è una “volontà di promozione” senza la quale non può darsi nessuna autentica cura, nessuna vera
educazione. L’“amorevolezza” concreta raccomandata da don Bosco, l’“amore profondo per il mondo e per gli uomini” di
cui parla Paulo Freire. L’amore pedagogico risveglia, in chi non l’ha ancora imparato o in chi l’ha temporaneamente
perduto, l’autentico amore per la vita.
La bontà è forse la qualità educativa più efficace, e nello stesso tempo la più impalpabile e misteriosa, perché affonda le
proprie radici nel proprio personale modo di essere e nel proprio rapporto con il mondo. La mancanza di bontà non
dovrebbe essere considerata soltanto come una lacuna, ma come una vera e propria controindicazione professionale.
Questa è la ragione per cui occorre aver cura costantemente della propria umanità: nel lavoro educativo e di cura, proprio
ciò che è più personale rappresenta il primo requisito professionale indispensabile.
Il pranzo di Babette di Gabriel Axel (Danimarca, 1987) → Costa danese, 1800: Babette Hersant, fuggita dalla Francia per
ragioni politiche, viene ospitata in un villaggio da due sorelle, Martina e Philippa, figlie di un pastore protestante. Dopo
quattordici anni di servizio, Babette riceve la notizia della vincita alla lotteria di diecimila franchi d’oro. Decide di organizzare
un banchetto per le dodici autorità del paese in memoria del Pastore padre delle sorelle. Gli originari dissapori si sciolgono, i
ricordi affiorano e la serata assume contorni gioviali e sereni. Il generale L., un tempo spasimante di una delle sorelle, che
aveva intuito la vera identità di Babette, un tempo cuoca del rinomato Café Anglais di Parigi, durante il brindisi pronuncerà le
parole che il vecchio pastore usava proclamare: “rettitudine e felicità si sono baciate”, a indicare il potere del cibo di disvelare
la bellezza e della bontà delle relazioni in cui erano immersi senza più rendersene conto. Celebrazione del potere del cibo di
riconciliare le persone tra loro e con la vita.
Sbagliato nel tempo
È passato un anno da quando te ne andasti dalla comunità. Mi lasciasti una scatola e un biglietto: “Ti regalo il mio tempo, la
mia storia scritta nelle pagine strappate di un diario impossibile, sul retro di volantini raccattati per strada, sui fogli volanti di
quaderno, sugli angoli bianchi dei giornali. Parole scritte a caso su scontrini, biglietti del treno, post-it rubati da qualche
scrivania. Non cercatemi, probabilmente sarò in carcere, là dove il tempo passato scavalca il presente e divora il futuro”.
[…] “Il mondo è una grande fregatura, ma quando riuscirò a trovare le sue corde e a suonarlo, la vita sarà solo danza”.
[…] La tua presenza era sempre meno gradita. I genitori si lamentavano. Fosti allontanato una, due, tre volte. Sparisti da lì per
un po’ ma ti facesti conoscere da tutti i servizi sociali della città. La sera del tuo sedicesimo compleanno organizzasti una
“festa del muretto” in pompa magna: con un bel cocktail di fumo, alcol e rock and roll in corpo, passasti in rassegna i motorini
parcheggiati, ne sfregiasti due o tre e poi volasti via con il migliore. La polizia ti fermò due isolati dopo. Finisti dritto in
comunità. Quasi ti aspettavamo. La profezia si realizzava, il tempo si compiva.
Due anni di lavoro assiduo, con i colleghi, in équipe, nella rete, nel territorio, a scuola. Tu eri il tipo di ragazzo che stimola alla
ricerca, all’azione, al meglio. Ti avvolgeva un mistero di intelligenza, bellezza, sfrontatezza, intemperanza, trasgressione,
curiosità, originalità, indignazione, imprevedibilità. Era una lotta continua, con noi stessi, contro un tempo che scorreva in
un’alternanza di successi e fallimenti educativi ma che non lasciava cocci per strada, solo esperienze da analizzare, sezionare,
comprendere.
[…] In queste terre di tempi sospesi sono entrata in punta di piedi: avevo paura di aprire varchi sconosciuti, sabbie mobili che
avrebbero risucchiato anche me in un passato rigettato e negato, mari d’angoscia in cui avrei corso il rischio di sprofondare
nell’oblio della vita e della bellezza.
[…] Sempre “sbagliato” nel tempo, sempre in anticipo, o in ritardo, o troppo veloce o troppo lento. Mai “giusto”. Sempre un
tempo notturno, senza colori, senza natura, senza chiaroscuri. E quel tempo l’hai sepolto in una scatola: per anni, giorno per
giorno, hai negato il presente buttandolo in un precoce passato, senza trattenerlo, senza sostare, senza guardare la strada
percorsa né ascoltare il suono degli incontri. Come se il tuo tempo di vita presente avesse divorato gli anni passati e, insieme
ad essi, la parte di te cui quegli anni appartenevano. Quei biglietti, quelle parole sparse rappresentavano un te rammentato,
diviso tra anima e corpo, passione e ragione, bene e male. Ti mancava il tempo dell’attesa, della cura, della riconciliazione, del
dialogo interiore, del contrappunto che fa della musica un racconto. Quelle fratture, nette e prive di qualsiasi legame, ti
costringevano a un eterno presente. […] cercavi tutto ciò che il tempo non può trattenere. Odiavi fermarti, ascoltare, ascoltarti.
[…] Era difficile comunicare con te, stavi lì, in comunità, come se fosse un tempo di attesa, come se non valesse la pena di
investire in spazi che non ti appartenevano, in tempi scanditi da attività insipide che non riuscivano a dare senso allo scorrere
dei giorni. Aspettavi forse un tempo opportuno che disvelasse il tuo desiderio di vita, ma qual era questo tempo? Come
prendersi cura di te? Come fare, essere ed esserci?
[…] Solo ritrovando il tempo perduto, facendo pace con i frammenti di ricordi conficcati come schegge nella tua memoria,
solo rimettendo in ordine le pagine strappate della tua vita ti sarebbe stato possibile trovarne un senso. Non il mio né quello di
nessun altro ma quello che a te avrebbe consentito di vederti pienamente in una storia nuova, di trovare il tuo futuro interiore.
[…] Si poteva e si doveva tentare, ora che anche a noi si era svelato l’errore: ti era sempre mancato il tempo giusto, il tempo
opportuno: quello dell’abbraccio e della tenerezza, quello delle lacrime e delle gioie, quello della scoperta di te stesso e della
cura del tuo corpo, quello del legame e della distanza dagli altri, quello del desiderio di bellezza e del piacere. Solo la musica
poteva aiutarti a misurare il tuo tempo, a scandirlo negli alti e bassi delle tue tonalità e a prendertene cura.
Capitolo 7 – Il tempo e il desiderio
La nostra esistenza è essenzialmente intessuta nel tempo, non solo cronologico, ma nel “tempo vissuto”, quello interiore,
indissolubilmente legato al significato che attribuiamo agli eventi e inciso nell’anima e nella memoria in maniera direttamente
proporzionale all’impatto affettivo e alla risonanza che quei fatti hanno avuto e continuano ad avere nella costruzione della
nostra storia e della nostra identità. È un tempo soggettivo, connotato in ogni istante da una diversa tonalità emotiva che ne
trasforma la percezione.
La percezione del tempo è anzitutto coscienza della transitorietà dell’esistenza, della sua precarietà e della sua indigenza. Forse
per questo Martin Heidegger individuava nell’angoscia la tonalità emotiva fondamentale: in quel sentimento di spaesamento si
trovano riuniti il rammarico della finitudine e la vertigine della responsabilità. Maria Zambrano direbbe che ogni essere umano
è chiamato a “desnacer”, ovvero a “portare a termine l’evento incompiuto della propria nascita”.
È quella della nascita la categoria ontologica fondamentale dalla quale scaturisce il lavoro pedagogico. Alla luce di questa
esigenza radicale di rinnovamento, l’educatore avvicina le storie di vita delle persone che incontra, cercando ogni volta di
rintracciarvi l’incompiuto, il possibile, l’eventuale.
7.1. Dischiudere il possibile
Il senso della temporalità non è solo il senso della fine, ma anche il senso del fine della vita e di tutte le cose: è la
domanda sullo scopo ultimo.
Laddove l’intenzionalità si esaurisce o si disperde, quando le circostanze di una vita mortificano il desiderio e la fiducia a
tal punto da arrestare il processo di crescita e di evoluzione personale, allora accade “che l’essere-gettato prevale sul pro-
gettato, paralizzando la dinamica educativa”. Lo si può riscontrare nelle normali battute d’arresto di cui è irto il percorso
formativo; oppure nei casi in cui, a motivo di particolari condizioni sfavorevoli, la vita si trova in certo qual modo
“inceppata” e incapace, da sola, di ritrovare una direzione significativa; fino alle forme più estreme, in cui l’incenerirsi
della speranza e della progettualità si traducono nelle ossessioni del delirio o dell’angoscia psicotica.
Quando la speranza viene meno il legame con la vita si allenta, a volte si spezza irrimediabilmente: in questi casi, ogni
capacità di resilienza si affievolisce e l’individuo, deposte le armi, soccombe al suo destino.
In questi casi, l’esigenza più urgente e profonda delle persone non è di qualcuno che risponda al loro bisogno immediato,
ma di qualcuno che salvi il loro desiderio di vivere. Nell’accompagnamento educativo, la dimensione temporale della
relazione impone il rispetto di almeno due condizioni: la prima è la disponibilità, la seconda è la competenza narrativa.
Poiché una persona è il suo tempo, il primo e principale modo che abbiamo per averne cura è darle tempo. Non v’è
comunicazione possibile nella fretta o nella superficialità. Occorre accantonare la pretesa a favore dell’attesa. Il segreto
dell’incontro, il mistero di ogni relazione educativa, sta tutto in questa disponibilità: ad ascoltare una storia senza
giudicarla, a introdursi in essa in punta di piedi, ad accompagnarla per un tratto, a uscirne con la stessa discrezione con cui
vi si è entrati.
Una “progettazione educativa” appare riduttiva e del tutto incongruente rispetto alla natura della progettualità umana. Il
tentativo di irreggimentare i ritmi della crescita e della maturazione entro canoni prefissati e protocolli standardizzati, può
indurre a trascurare un dato fondamentale: che il tempo della formazione è sempre una dimensione soggettiva. Il mestiere
dell’educatore richiede pazienza, che rappresenta la capacità di “agganciare” il desiderio dell’altro di essere nei tempi e
nei modi in cui si manifesta e di aiutarlo a esprimerlo, nominarlo, dargli forma.
La seconda condizione della cura educativa è la capacità di aiutare l’altro a raccontarsi. Il lavoro educativo ha lo scopo di
costruire o ricostruire una storia di vita degna di essere vissuta. Non nel risolvere i problemi, né nel rimuovere ostacoli,
ma nel permettere alle persone di assumere la guida della propria vita e sperimentare che essa non è priva di senso.
7.2. Noi siamo un racconto
L’accompagnamento educativo è tutto rivolto al futuro, intento a dischiudere prospettive laddove tutto appare precluso,
dedito a seminare speranza laddove tutto sembra perduto. Spesso l’inquietudine di chi soffre ha a che fare con l’enigma
dell’identità: la domanda “chi sono io?” può portare una risposta solamente se si è in grado di configurare una soluzione al
problema “chi voglio e posso diventare?”.
Come ha chiarito Paul Ricoeur, “la comprensione che ognuno ha di se stesso è narrativa: non posso cogliere me stesso al
di fuori del tempo e quindi al di fuori del racconto”. Nella narrazione di sé, ciascuno compone e ricompone
incessantemente la trama della propria esistenza, come un insieme di eventi tenuti insieme da nessi di significato. Nel
racconto, il narratore riconcilia le diverse versioni di sé e cerca un senso di continuità in “quell’arcipelago id io mantenuti
e perduti che il tempo e il pensiero autobiografico si prefiggono, con risolutezza e metodo, di accostare o fondere”.
L’esistenza consiste in un itinerario, un attraversamento, una sorta di “erranza” nella quale l’unico modo per non smarrirsi
è tenere saldo in mano il fil rouge della propria storia. Spesso il lavoro educativo consiste proprio in questa operazione
paziente e delicata: di disfare insieme all’altro la storia sfilacciata della sua vita passata e intessere pazientemente con lui
un racconto che “tenga”. Certo il passato non si modifica né si cancella; ma il suo significato si può ridefinire, e con esso
il potere che esercita sul presente e sull’avvenire.
“Curare la propria storia”, in questi casi, “significa rivisitare la memoria del passato, ricomponendola in un nuovo
racconto”. Si tratta di rivelare la possibilità di un progetto a chi non conosce se non il destino; o di dischiudere l’avvenire
a chi, altrimenti, rimarrebbe imbrigliato al passato o impantanato in un presente senza futuro.
Oggi il disagio dei giovani è dovuto soprattutto a un radicale cambio di segno, per cui il futuro-promessa è diventato il
futuro-minaccia. Diseredati dell’avvenire, che non appartiene più loro come un tempo da desiderare, ma sempre più
incombe come un funesto presagio da rinviare il più possibile, le giovani generazioni si dibattono tra il ripiegamento e
l’immersione in un’immediatezza consegnata al principio del piacere e l’acuta percezione dell’insensatezza e
dell’inconsistenza delle loro vite, che rischia di avvolgerli nelle spire del pessimismo e della depressione. Questa
frustrazione, legata al sentimento di essere stati “derubati” del futuro, può altresì sfociare in reazioni violente, aggressive o
autolesionistiche. In questo contesto di incertezza e disorientamento, a maggior ragione, il lavoro educativo diventa
indispensabile, per “restituire futuri possibili” e rintracciare una “direzione” per la vita.
La leggenda di Bagger Vance di Robert Redford (USA, 2000) → Georgia, 1930. Runnulph Junuh, giovane promessa del golf
negli anni antecedenti al primo conflitto mondiale, ritorna dalla guerra con l’animo devastato e per un decennio vive alla
giornata anestetizzando le sue ferite con l’alcol. La comparsa improvvisa del giovane caddie Bagger Vance e la sua proposta
di partecipare a un grande torneo di golf lo trova incredulo e sfiduciato. Bagger riuscirà a fargli affrontare i fantasmi del
passato, a “sconfiggere i draghi interiori”, a riconoscersi nella ricerca del senso della propria vita, attraverso la riscoperta del
talento che lo rende unico. Si tratta di cogliere il momento opportuno e di riprogettare il futuro a partire da sé. Metafora della
vita e del tempo che ci è dato: non come un “tiranno” che inesorabilmente scorre e si consuma, inghiottendo desideri e
aspirazioni, ma come un alleato che offre sempre un’altra possibilità per ritrovare la voglia di vivere, ricominciare ad amare e
rigenerare l’esperienza.
Epilogo – Sulla formazione estetica degli educatori
Dalle diverse modalità che l’esercizio dei sensi può concretamente assumere derivano atteggiamenti, stili di pensiero e, spesso
e volentieri, il corso dell’azione ne risulta influenzato in maniera determinante.
La formazione iniziale e continua dei professionisti non deve servire unicamente a fornire loro livelli di conoscenza e di know-
how via via sempre più accurati, ma deve altresì aiutarli a recuperare quella consapevolezza di sé nel rapporto immediato con
la realtà che rappresenta il senso profondo di ogni fenomenologia.
La capacità empatica, con ragione considerata un requisito indispensabile per quanti fanno un lavoro di relazione, non coincide
semplicemente con l’esercizio di un’abilità di tipo intellettuale, bensì con l’attitudine coltivata a percepire e intuire. Il lavoro
educativo e terapeutico richiede quindi una formazione estetica che aiuti i professionisti a focalizzare e ad appropriarsi con
maggiore consapevolezza dei diversi modi del sentire. Bisogna fare in modo che l’acquisizione di nozioni teoriche e di
strumenti operativi non si accompagni a quel processo parallelo e inesorabile che talvolta conduce alla perdita della sensibilità.
Scopo primario della formazione estetica dei professionisti è il tirocinio della capacità di vedere, ascoltare, toccare e, in
generale, stare in contatto con l’altro. Questo affinamento della sensibilità incomincia da un recupero di consapevolezza della
propria corporeità, ben sapendo che tale obiettivo è inconsueto e impopolare.
Ma se vogliamo davvero “esserci”, in ogni istante, nel mondo e con gli altri, dobbiamo allenare l’attitudine a prestare
attenzione alle cose, senza imbrigliarle immediatamente nella griglia più o meno rigida delle nostre precomprensioni
intellettuali.
La fenomenologia è la condizione indispensabile per potersi porre dinanzi alla realtà rispettandone la fisionomia e cercando di
coglierne l’essenza. L’atteggiamento fenomenologico è “una faticosa acquisizione” che esige una disciplina rigorosa e mira a
ottenere un cambiamento profondo. Husserl ne parla come di “una completa trasformazione personale che sulle prime potrebbe
essere paragonata a una conversione religiosa”. Si tratta di una sorta di itinerario ascetico, il cui primo passo non consiste
nell’affrancarsi dal corpo, bensì nel ritrovare in esso un radicamento più consapevole. Per il resto, si tratta di lasciarsi guidare
dalle cose stesse, rinunciando all’imperialismo che vorrebbe convincerci di esserne padroni.

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