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Hegel: «La coscienza della vita, la coscienza dell’esistere e dell’operare della vita stessa, è
soltanto il dolore per questo esistere e per questo operare». L’infelicità è data dalla finitezza
della coscienza che si trova a desiderare l’altra sua parte ma, in virtù della sua inessenzialità,
capisce che la sua meta è irraggiungibile.
L’intrasmutabile è visto dalla coscienza in tre momenti: nel primo momento la coscienza
vede l’intrasmutabile come opposto a sé, ed esso è quindi l’essenza estranea che, essendole
opposta, la rilega alla singolarità1; l’intrasmutabile svela però poi in se stesso la singolarità2;
infine la coscienza si riconosce come singolo nell’intrasmutabile, si riconcilia nell’unità di
opposti singolare-universale. I tre momenti dell’intrasmutabile sono i momenti che la coscienza
percorre nella sua infelicità, cioè quando è scissa.
L’antitesi iniziale, fra trasmutabile e intrasmutabile, è emblema dell’ebraismo dove Dio,
l’Assoluto, è lontano ed esterno all’uomo, che da lui dipende. Il secondo momento si identifica
col cristianesimo medievale, dove l'Assoluto assume una forma sensibile ma fallimentare. Cristo
è Dio trascendentale, quindi lontano perché messaggero, portatore dell’aldilà, partecipe di una
dimensione ultraterrena; ed è Dio incarnato, ma sempre distante perché troppo inserito in un
periodo storico particolare, un contesto che lo confina nel tempo. Ancora una volta Dio è
qualcosa di separato e diverso da noi, la coscienza è ancora infelice.
Un’ulteriore descrizione del movimento della coscienza inessenziale verso l’unità è così
descritto da Hegel:
Come detto all’inizio, la coscienza infelice supera lo stoicismo, che ora possiamo
identificare meglio col puro pensiero, pensare astratto, «che prescinde dalla singolarità», e lo
scetticismo che forma il suo pensiero come inquietudine, «singolarità come contraddizione
1
Hegel usa qui l’espressione “condanna alla singolarità”, Hegel.
2
«il secondo in trasmutabile è una figura della singolarità», Hegel.
2
inconsapevole, la quale si esplica in un movimento senza sosta». La coscienza infelice sintetizza
questi due momenti, puro pensare e singolarità, si eleva rispetto a essi ma ancora non raggiunge
«quel pensare per il quale la singolarità della coscienza è riconciliata con il puro pensare
stesso».
Essa diventa pensiero devoto o devozione. Lo slancio della sua volontà, che si mostra un
desiderio irrealizzabile, si sposta al pensare e diventa devozione. Si affida allora alla fede
vissuta come sentimento del divino; il suo pensiero di Dio è inconsapevole3. Il credente è ancora
intrappolato nella coscienza della scissione, credendo di aver raggiunto l’assoluto per poi invece
accorgersi di aver sbagliato e provare il sentimento della nostalgia. La devozione è una delle
figure attraverso cui si manifesta l’infelicità cristiano-medievale; è, appunto, pensiero
sentimentale e religioso ma non ancora concetto. La coscienza rientra in se stessa con la
consapevolezza di aver raggiunto solo la propria particolarità mentre cercava l’essenziale. Ha
potuto cogliere solo l’effettualità della propria esistenza, non quella dell’essenza, dell’assoluto.
L’assoluto, l’Altro, è il trascendente, ciò che sarà sempre al di là di ciò che possiamo
raggiungere.
Da questo momento la coscienza uscirà quando «rinunzierà a ricercare la singolarità
trasmutabile come effettuale o a trattenerla come singolarità dileguata; e solo così è atta a
trovare la singolarità come verace o come universale». Questo momento, in cui la coscienza
vede contrapporsi la propria infinità all’assolutezza di Dio, porta un’esperienza di
mortificazione. L’insuccesso del solo pensare devoto spinge quindi verso un’altra direzione. Dal
pensare si passa allora all’agire.
Scrive Hegel:
Esso ha sentito l’oggetto del suo puro sentire e questo oggetto è lui stesso; sorge dunque
qui come sentimento di sé o come un effettuale che è per sé. In questo ritorno in se
stesso è divenuta per noi la sua seconda relazione, quella dell’appetito e del lavoro. […]
La coscienza infelice si trova soltanto come coscienza che appetisce e lavora.
La coscienza pia rinuncia al contatto immediato con Dio e si avvale allora dello
strumento del lavoro. La speranza di questo ricongiungimento è però anche essa destinata a
infrangersi: il frutto del proprio lavoro appare come un dono di Dio, dato da Dio, e anche le
forze e le capacità impiegate sembrano avere la stessa origine. La coscienza operando partecipa
3
«Il suo pensare, come devozione, resta un vago brusio di campane o una calda nebulosità, un pensare musicale
che non arriva al concetto, che sarebbe l’unica e immanente guisa oggettiva».
3
alla relazione di due estremi: costituisce l’attivo di fronte al quale sta il passivo4. L’attività si
presenta come potenza, e proprio in questa potenza la coscienza vede l’in-sé, l’essenza che è
diversa da lei, e non la riconduce in se stessa ma all’altro. Questa nuova consapevolezza umilia
ulteriormente lo stato della coscienza. Anche di fronte all’operare colui che agisce è, in ultima
istanza, soltanto Dio.
4
«Quindi nel suo operare la coscienza si trova da prima nella relazione di due estremi; come l’attivo Al-di-qua
essa sta da un lato, e di fronte a lei sta l’effettualità passiva».