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LA COSCIENZA INFELICE

La coscienza infelice si inserisce nella parte de La Fenomenologia dello Spirito dedicata


all’autocoscienza, cioè «la verità della coscienza di se stesso». Questa coscienza è l’ultima delle tre
tappe che portano alla realizzazione della libertà dell’autocoscienza. La prima di esse è lo stoicismo,
cioè il ritiro in se stessi: siamo padroni del nostro pensiero e della nostra morale e quindi,
nell’intimo, saremo liberi e ci sentiremo tali anche sotto costrizioni fisiche. Si passa poi al secondo
momento, che è quello dello scetticismo: attraverso la negazione del mondo esterno raggiungiamo
l’autosufficienza. Il superamento dello scetticismo avviene affidandosi al divino, ma la liberazione è
portatrice di infelicità: è infine la coscienza infelice, che avverte l’alterità con l’Assoluto ma sa
anche che questa scissione è inestinguibile, che non potrà mai raggiungere il valore a cui anela.
Storicamente, questo momento sarebbe identificabile con la religiosità medievale.
La coscienza è una, ma allo stesso tempo è duplice. Essa è scissa in se stessa e avverte
questa divisione interna attraverso una fondamentale coppia di opposti: l’essenziale e l’inessenziale.
La coscienza concepisce di essere inessenziale, mentre coglie l’essenza in Dio. Attraverso
l’esperienza religiosa le appare però insormontabile la barriera tra lei e il divino, tra la propria
finitezza e l’infinito. Questa coscienza, nella sua scissione, è due autocoscienze. Scrive Hegel: «essa
stessa è l’una e l’altra autocoscienza, e l’unità di entrambe le è anche l’essenza; ma essa per sé non
è ancora questa essenza medesima, essa per sé non è ancora l’unità di tutte e due le autocoscienze».
La coscienza che concepisce la contraddizione si riconosce trasmutabile e inessenziale ma
allo stesso tempo, essendo coscienza dell’intrasmutabile e dell’essere, vuole diventare ciò che non
è, vuole eliminare il contrasto che la lacera (la duplicità) giungendo all’unità. Essendo lei stessa la
parte della coppia di opposti che vuole rinnegare, essendo lei stessa l’impedimento a essere ciò a cui
ambisce, dovrebbe, usando le parole di Hegel, «liberare sé da se stessa». La sua brama e la
contraddizione che implica il suo soddisfacimento generano così una lotta interna, l’infelicità.
La coscienza avverte come distinte e opposte le due coscienze, l’una divina e l’altra
umana. Non può però partecipare di una sola delle due, neanche per un tempo breve, poiché
quando sceglie verso quale tendere subito è pressata dal carattere della coscienza esclusa, un
carattere che le si impone come proprio. Non potrà sentire il divino senza essere travolta dal
sentimento di finitezza e particolarità, e non potrà rimanere nell’umano senza voler raggiungere
il divino.
Questa coscienza allora non è nessuno dei due opposti che la formano, o il momento in
cui uno dei due poli tende all’altro: essa è il movimento tra i due, essa esiste proprio in quanto
oscillazione incessante, senza possibilità di quiete, tra le due coscienze che la dividono. Scrive

1
Hegel: «La coscienza della vita, la coscienza dell’esistere e dell’operare della vita stessa, è
soltanto il dolore per questo esistere e per questo operare». L’infelicità è data dalla finitezza
della coscienza che si trova a desiderare l’altra sua parte ma, in virtù della sua inessenzialità,
capisce che la sua meta è irraggiungibile.

L’intrasmutabile è visto dalla coscienza in tre momenti: nel primo momento la coscienza
vede l’intrasmutabile come opposto a sé, ed esso è quindi l’essenza estranea che, essendole
opposta, la rilega alla singolarità1; l’intrasmutabile svela però poi in se stesso la singolarità2;
infine la coscienza si riconosce come singolo nell’intrasmutabile, si riconcilia nell’unità di
opposti singolare-universale. I tre momenti dell’intrasmutabile sono i momenti che la coscienza
percorre nella sua infelicità, cioè quando è scissa.
L’antitesi iniziale, fra trasmutabile e intrasmutabile, è emblema dell’ebraismo dove Dio,
l’Assoluto, è lontano ed esterno all’uomo, che da lui dipende. Il secondo momento si identifica
col cristianesimo medievale, dove l'Assoluto assume una forma sensibile ma fallimentare. Cristo
è Dio trascendentale, quindi lontano perché messaggero, portatore dell’aldilà, partecipe di una
dimensione ultraterrena; ed è Dio incarnato, ma sempre distante perché troppo inserito in un
periodo storico particolare, un contesto che lo confina nel tempo. Ancora una volta Dio è
qualcosa di separato e diverso da noi, la coscienza è ancora infelice.

Un’ulteriore descrizione del movimento della coscienza inessenziale verso l’unità è così
descritto da Hegel:

Il movimento nel quale la coscienza inessenziale si adopera a raggiungere questo esser-


uno è medesimamente un triplice movimento, secondo la triplice relazione che essa
assumerà in rapporto al suo al di là che ha forma e figura: in primo luogo come
coscienza pura, poi come essenza singola comportatesi verso l’effettualità come appetito
e lavoro, e in terzo luogo come coscienza del suo essere-per-sé.

Come detto all’inizio, la coscienza infelice supera lo stoicismo, che ora possiamo
identificare meglio col puro pensiero, pensare astratto, «che prescinde dalla singolarità», e lo
scetticismo che forma il suo pensiero come inquietudine, «singolarità come contraddizione

1
Hegel usa qui l’espressione “condanna alla singolarità”, Hegel.
2
«il secondo in trasmutabile è una figura della singolarità», Hegel.

2
inconsapevole, la quale si esplica in un movimento senza sosta». La coscienza infelice sintetizza
questi due momenti, puro pensare e singolarità, si eleva rispetto a essi ma ancora non raggiunge
«quel pensare per il quale la singolarità della coscienza è riconciliata con il puro pensare
stesso».
Essa diventa pensiero devoto o devozione. Lo slancio della sua volontà, che si mostra un
desiderio irrealizzabile, si sposta al pensare e diventa devozione. Si affida allora alla fede
vissuta come sentimento del divino; il suo pensiero di Dio è inconsapevole3. Il credente è ancora
intrappolato nella coscienza della scissione, credendo di aver raggiunto l’assoluto per poi invece
accorgersi di aver sbagliato e provare il sentimento della nostalgia. La devozione è una delle
figure attraverso cui si manifesta l’infelicità cristiano-medievale; è, appunto, pensiero
sentimentale e religioso ma non ancora concetto. La coscienza rientra in se stessa con la
consapevolezza di aver raggiunto solo la propria particolarità mentre cercava l’essenziale. Ha
potuto cogliere solo l’effettualità della propria esistenza, non quella dell’essenza, dell’assoluto.
L’assoluto, l’Altro, è il trascendente, ciò che sarà sempre al di là di ciò che possiamo
raggiungere.
Da questo momento la coscienza uscirà quando «rinunzierà a ricercare la singolarità
trasmutabile come effettuale o a trattenerla come singolarità dileguata; e solo così è atta a
trovare la singolarità come verace o come universale». Questo momento, in cui la coscienza
vede contrapporsi la propria infinità all’assolutezza di Dio, porta un’esperienza di
mortificazione. L’insuccesso del solo pensare devoto spinge quindi verso un’altra direzione. Dal
pensare si passa allora all’agire.
Scrive Hegel:
Esso ha sentito l’oggetto del suo puro sentire e questo oggetto è lui stesso; sorge dunque
qui come sentimento di sé o come un effettuale che è per sé. In questo ritorno in se
stesso è divenuta per noi la sua seconda relazione, quella dell’appetito e del lavoro. […]
La coscienza infelice si trova soltanto come coscienza che appetisce e lavora.

La coscienza pia rinuncia al contatto immediato con Dio e si avvale allora dello
strumento del lavoro. La speranza di questo ricongiungimento è però anche essa destinata a
infrangersi: il frutto del proprio lavoro appare come un dono di Dio, dato da Dio, e anche le
forze e le capacità impiegate sembrano avere la stessa origine. La coscienza operando partecipa

3
«Il suo pensare, come devozione, resta un vago brusio di campane o una calda nebulosità, un pensare musicale
che non arriva al concetto, che sarebbe l’unica e immanente guisa oggettiva».

3
alla relazione di due estremi: costituisce l’attivo di fronte al quale sta il passivo4. L’attività si
presenta come potenza, e proprio in questa potenza la coscienza vede l’in-sé, l’essenza che è
diversa da lei, e non la riconduce in se stessa ma all’altro. Questa nuova consapevolezza umilia
ulteriormente lo stato della coscienza. Anche di fronte all’operare colui che agisce è, in ultima
istanza, soltanto Dio.

La coscienza estremizza la concezione di sé e di Dio. Giunta alla massima infelicità,


riveste il suo io della più completa negazione per favorire la grandezza di Dio. Pratica l’ascesi,
vuole la mortificazione della carne, si infligge l’umiliazione corporea. Cerca un contatto con
Dio attraverso la mediazione della Chiesa, e toccata l’infimità della sua sorte raggiunge
finalmente l’apice uscendo dal Medioevo ed entrando nel Rinascimento e nell’età moderna,
quando cioè l’uomo riprende coscienza della sua forza.

4
«Quindi nel suo operare la coscienza si trova da prima nella relazione di due estremi; come l’attivo Al-di-qua
essa sta da un lato, e di fronte a lei sta l’effettualità passiva».

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