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A proposito di J.

Hillman di Lilia de Rosa


In occasione della commemorazione del grande J.Hillman, deceduto il 27 Ottobre 2011, voglio
inserire qui questo mio studio su una delle sue più illuminanti opere,  “Revisione della
Psicologia”  presentata al ciclo di seminari dell' Associazione culturale Crocevia  , nel Maggio
2005

                      IV Parte  : Disumanizzazione  e fare anima

                                              Il mondo infuso d’Anima

Per cominciare il mio discorso su quest’ultima parte di Revisione, sperando di


potere concludere in  modo che tutto quanto è  stato già detto trovi una forma
finale nell’immaginazione di ognuno, comincerò dalla mia immaginazione,
perché non vi è dubbio che tutto quello che dirò è pur sempre filtrato dalla
mia visione del pensiero di Hillman, delle sue parole, e dai sentimenti ed
emozioni che le stesse hanno in me suscitato. Per quanto lo studio ha
richiesto l’uso di tutte le mie facoltà razionali, l’aderenza al testo mi ha
naturalmente imposto di mettere in opera anche la mia coscienza immaginale
e quindi di fare anima.
Innanzi tutto, quello che mi ha colpito rileggendo il testo nel suo intero, è il
rintracciarvi una sorta di cammino interno ( che non avevo notato nelle mie
precedenti letture) , - si può accostare ad una partitura musicale, ad
un copione teatrale , o forse anche all’opera pittorica di  Bosch o
alla prospettiva multipla di  Escher - : a me è apparso - in senso più
filosofico -  una sorta di percorso che va dal particolare al generale , dall’uomo
singolo all’uomo cosmico, dal personale al trans-personale, all’oltreumano o,
per dirla con parole più propriamente hillmaniane, dalla personalizzazione
alla dis- umanizzazione. Questo è il cammino di pensiero che segue Hillman
per presentare la sua psicologia  centrata sull’anima e non sull’uomo.

La visione complessiva dell’opera che stiamo esaminando (  e della quale mi


è stato dato il compito di  commentare l’ultima parte ) mi fa intendere la 
psicologia del fare anima come  una  psicologia del percorrere le profondità
dell’Anima, di un incedere incessante tra le sue  diverse manifestazioni ,
spesso distorte e incomprensibili, immense e indecifrabili:  siamo sempre in
terapia – sostiene Hillman-  nel senso che abitati dall’anima , toccati da essa,
attraversati da essa, possiamo trasformare gli eventi in esperienze
significative per la nostra vita interiore  e pertanto ogni vicenda, esterna e
interna insieme , ci consente di attivare un processo di conoscenza di noi
stessi e del mondo.  Processo che è possibile sempre anche attraverso le
nostre malattie e le nostre patologizzazioni, come  ampiamente dibattuto
nella seconda parte di quest’opera, in quanto anche i nostri sintomi ci
consentono di guardare oltre , di vedere in essi  espressioni dell’anima. In
questo senso  Hillman  si è espresso in modo decisamente critico verso tutte
quelle forme (le più varie) di negazione o di rimozione della patologia,
compresa  la terapia psicologica  intesa come pratica professionale,
attribuendo ad essa il pericolo dell’abuso della patologizzazione,
sostanzialmente trasformatasi in nuova religione  e nella quale l’asimmetria e
la scissione dell’archetipo del Guaritore ferito conduce alla definizione
negativa del sintomo da curare con un “trattamento”.

IL suo obiettivo è…liberare l’anima dal suo stato di alienazione nella terapia
professionale fino a che non disponiamo di una visione della
patologizzazione che, per cominciare, non necessiti di trattamento
professionale.( pag.147)  Con  questa prospettiva , ripeto,  tutto ciò che ci
accade  ( e qui si intende gli accadimenti della vita di ciascuno di noi, dai più
semplici ai più complessi, fino ai più spaventosi)  poichè mette in moto
profonde energie, potenze affettive,  immaginazioni mitiche, sentimenti
primitivi, ci offre l’occasione di affacciare  il nostro sguardo
immaginativo sulle vicende dell’anima  che sempre vanno  oltre il mero piano
personale ( che è poi   il piano dell’Io) per  coglierne il significato più
profondo. In una delle sue risposta nel recente epistolario curato da R.M. e
L.T.  Hillman chiama la sua psicologia un “aprire le ostriche e pulire le perle,
cioè recuperare e portare alla luce e indossarequotidianamente la vita
dell’immaginazione, che non può redimere la tragedia, non lenire la
sofferenza, ma può arricchirle e renderle più tollerabili, interessanti e
preziose.”

   Torniamo dunque ad  Anima e alle sue numerose incarnazioni che via via
vanno prendendo dimora  dentro di noi attraverso le vicissitudini quotidiane
e con le quali possiamo intrattenerci immaginativamente,  accoglierle,
piuttosto che spiegarle, rimuoverle, interpretarle.  Anima –abbiamo detto-
è personificazione dell’inconscio, così come  sentimento di interiorità
personale:  personalizza l’esistenza individuale, le dà valore. E ancora 
“ incarna l’attività riflessiva, reattiva e speculare della coscienza. Sotto il
profilo funzionale……opera come il complesso che mette in rapporto la
nostra usuale coscienza con l’immaginazione…… ,essa è in pari tempo il
ponte verso l’immaginale e  l’altra sponda.”  (Pag.95 -96 idem).

….. “un individuo privo della sua figura d’anima non è un essere umano: E’
uno che ha perduto anima”

Perdere l’anima è per Hillman l’incapacità o l’impossibilità o il rifiuto ad


entrare in contatto con la propria coscienza immaginale attraverso gli
accadimenti interiori che, se è vero che costituiscono la nostra più
profonda meità, sono anche il ponte per trascenderla. Poiché l’anima abita
dentro di noi, ma anche fuori di noi, là, nel mondo. Ci preesiste e ci
oltrepassa,  anche se ognuno di noi può conoscerla solo attraverso la propria
esperienza personale, attraverso quel “coefficiente personale” che ci consente
di entrare in contatto con la sua vastità.   Perché – come più volte ripetuto –
non l’anima abita in noi, ma noi in essa. E se è vero che possiamo incontrarla
nei nostri sogni come nei nostri sintomi,  nelle nostre immaginazioni  come
nella nostra carne, tra le nostre più intime emozioni, sensazioni, dolori,  è
pure vero che essa è fuori di noi,  ai confini della nostra soggettività, oltre l’Io
e oltre il me.

E’ questo “andare al di là dei confini del me” l’oggetto di analisi dell’ultima


parte di questa   re-visione della psicologia che Hillman propone, del suo
modo di intenderla,  restituendole la sua più  intima essenza, per l’appunto
l’Anima; e alla quale intende dare un solo obbligo: il vedere in trasparenza, il
prendersene cura, il renderle  servizio.  Per far questo è necessario andare
oltre l’Io e oltre il Sé, ed entrare in connessione con le forze che muovono non
solo i nostri sintomi e le nostre afflizioni , ma  l’universo intero, e  che per
quanto  intrecciano, animano  e sostengono le nostre esperienze personali,
non sono nostre.

Per farlo, proverò ad elaborare alcune affermazioni sulle quali ho già sostato a
lungo con il pensiero e sulle quali intendo riflettere ancora insieme a voi,
anche perché, ogni volta che ci torno su, ne intuisco una sfumatura nuova , ne
intravedo un’altra forma e non mi appaiono mai come la volta precedente.

Partirò da questa :” L’anima ha estensioni inumane”.

“Estensione” è concetto che si rifà alla spazialità e alla temporalità, ad un


contenitore, a dei limiti. Ma la natura dell’Anima non è riconducibile a dei
limiti, nè spaziali né temporali: limiti insiti invece nella natura dell’uomo. Se
parliamo di anima dobbiamo dunque andare oltre l’uomo.

Per una psicologia che si rifà all’umanesimo, che valorizza al massimo


l’esperienza individuale come unico strumento per entrare in contatto con gli
archetipi, che promuove il “fare anima”, questa affermazione appare
pressocchè paradossale. Tanto più che l’inumano, pur richiamando gli dei
come forze che sottendono i nostri impulsi così come le nostre idee, non fa
capo ad  una religione. La psicologia archetipicanon è una religione. La
religione  prende gli dei (o il Dio) alla lettera:li letteralizza. La psicologia
archetipica li tratta come figure simboliche, li immagina. Nella prima il
rapporto con gli dei avviene attraverso la preghiera , il culto, il rito. Nell’altra
è attraverso metodi psicologici quali il personizzare, il patologizzare, lo 
psicologizzare. La religione rimanda allo spirito, la psicologia all’anima.
Entrambe però hanno bisogno di una fede. La fede nella realtà dell’anima. E
l’anima ha per l’appunto estensioni che travalicano la nostra realtà soggettiva
e che,  pur attraversandoci,  o meglio ancora  transitando noi in essa, non ci
appartiene.
Tale presupposto fondamentale , il fatto cioè che  tutto ciò che ci accade è
governato da forze che non ci appartengono  perché non  sono umane, libera
almeno in parte le nostre azioni  dalla esclusiva responsabilità personale ,
proprio in quanto si riconosce che in  esse si muovono forze che vanno al di là
di noi.  Riuscire a vedere così le nostre emozioni, se non ci libera ( e non ci
libera)  dai travagli personali, ci mostra  dice Hillman  una diversa qualità di
esperienza (pag 301).  I litigi in famiglia, gli entusiasmi degli amanti, le
esplosioni in ufficio, hanno tutti dei retroterra profondi: epici, tragici o
comici che siano, essi sono sempre mitici, incontenibili dalla vita  e
distanziati da essa.   

Le emozioni  appartengono agli archetipi, i quali agiscono in noi attraverso il


centro emotivo del complesso.    Pur facendo strettamente parte della nostra
esperienza personale , esse trascendono la storia e il luogo, sono “eterne”,
come dice   Roberto Calasso nelle sue Nozze di Cadmo e Armonia,
transpersonali, sacre:

……. un’enunciato mitico più che una proprietà umana.

Vorrei fare qui una breve digressione sulla presenza del senso
tragico nella visione hillmaniana. Nel corso del dibattito attivato
con il recente epistolario cui abbiamo già accennato alcuni  hanno
avvertito nella sua opera l’assenza della tragicità, o per lo meno la
sua perdita di spessore,  tanto da intravederne in qualche modo i
tratti post-moderni ed edulcorati della New Age, oggi molto in voga
secondo lo spirito del tempo, che cerca in tutti i modi di trarsi
fuori dalla sofferenza superando il conflitto attraverso il recupero
del”meraviglioso”.

Non  mi stupisce la reazione di Hillman stesso ad una di queste


argomentazioni, tanto da farlo  sobbalzare. In realtà la tragedia  -
risponde- è insita nell’anima stessa , e mai nei suoi scritti è
rimasta esclusa la presenza delle afflizioni, del dolore, dei travagli:
tutte espressioni   necessarie e inevitabili dell’anima. Forse il
recuperarne la bellezza attraverso l’immaginazione, renderle
espressioni immaginative, turba il senso etico di chi vuole vederla
ancora sotto l’aspetto eroico della sconfitta o della vincita. Hillman
propone l’attraversamento della vita e l’ accoglimento della
tragedia che continuamente  la permea , nei tradimenti come nelle
depressioni, nel cattivo seme come nella vecchiaia ( pag.62- 63 di
Caro Hillman ), ma non con lo spirito eroico dell’Io combattivo, né
con l’attaccamento nostalgico del pessimismo a tutti i costi, né con
la fissazione del Senex sulla pesantezza dell’esistere.  Attivare
l’immaginazione non  rende  i dolori dell’anima più leggeri, ma li
approfondisce  e li immerge nello sfondo mitico dove solo forse
possono  trovare un’altro logos e un altro senso al di là della
vicenda concreta e personale.  

La psicologia ha sempre trattato il mondo delle emozioni  così come la sua


patologia  rimanendo sul fondo personalistico, orientandosi verso la
comprensione, la spiegazione, l’interpretazione, e non vi è dubbio che se il
nostro fine è medico, cioè appartenente al mondo della cura,  questo modo di
procedere  può essere d’aiuto. La terapia clinica ritiene i suoi pazienti
responsabili di ciò che accade, li indirizza verso la scelta  migliore, è pertanto
legata ancora ad una visione moralistica che presuppone una  capacità di
scelta, la volontà di dirigersi verso l’una o l’altra strada.  Ma , in definitiva ,
anche la scelta si muove secondo  una prospettiva archetipica che privilegia
l’uno al posto dell’altro , rimandando alla figura dello Sceglitore o del
Riparatore,  soggetto che si pone come centrale  e che esercita la funzione  di
scegliere  tra il bene e male. Ecco, Hillman vuole liberare la psicologia dal
suo assillo moralistico, per il semplice fatto che anche gli atteggiamenti
morali sono incarnati da un dio, e  ogni dio, ossia ogni aspetto della psiche, ha
una sua morale. Ermes, come Ares, come Dioniso, hanno la morale relativa al
principio che incarnano; così come anche l’amoralità rappresentata dal
Briccone, da Caino o da Prometeo ha una sua prospettica archetipica e il suo
principio morale. 
Il punto di vista archetipico, insomma,  tenta di distogliere completamente la
nostra concentrazione  monoculare dalla questione del bene e del male .

Come psicologi dell’anima dobbiamo andare oltre l’umano e il piano


personale delle vicende affettive per  concentrarci sull’anima, uscendo fuori
da quella “ristretta soggettività umanizzata” cui ogni terapia in qualche modo
necessariamente  ci vincola (come sostiene a pag 202 inrisposta a Zoia).

Pertanto Hillman , come filosofo e non come  terapeuta, critica duramente


l’umanesimo moderno che  centrando il suo universo sull’Io e sulla fantasia
monoteistica di una soggettività che sceglie e agisce , ha esaltato fantasie
come   l’amore o il perdono o il sentimento : mezzi per giungere ad una
presunta unità , redenzione o  superamento.  Tornando un momento indietro,
al  suo secondo capitolo (pag.125-126), egli  ha già duramente criticato questa
visione idealistica dell’umanesimo moderno , che definisce addirittura
delirante, col suo  concentrarsi sull’aspetto più chiaro della natura umana,
dove persino la morte diventa dolce, perde la sua ombra, …perché il suo fine
è la trascendenza. Per trascenderla essa si lascia alle spalle tutto ciò che è
più basso, vile, oscuro, giudicandolo un insieme di valori regressivi. Una
psicologia semplicistica, che guarda con occhi innocenti  e che ignora del
tutto la visione stoica e tragica dell’uomo esistenziale, irrazionale e
patologico ( e in queste parole è forse la risposta più densa a chi gli contesta
l’assenza di senso tragico).
Giungiamo allora alla seconda affermazione che consegue a questa analisi e
che si compendia nell’enunciato :

“La giusta misura del genere umano è l’uomo; quella della psicologia è
l’anima”.

 Richiamandosi ancora una volta al Rinascimento, la psicologia  che Hillman


propone , mette al centro l’anima , non l’uomo, operando una distinzione tra
psiche ed anima, termini molto spesso usati come equivalenti o sinonimi. Non
è semplice cogliere questa differenza .I due termini infatti pur essendo
intrinsecamente connessi, non sono identici. Qui vi propongo quella
differenza che mi è sembrato di sapere afferrare: l’una (la psiche) è la
funzione riflessiva dell’anima, individuale o collettiva che sia,  ha ancora a che
fare con l’uomo.  L’altra (l’Anima ),  è indipendente dall’uomo e dalla
coscienza che la riflette. La psicologia del Rinascimento - e si badi bene che il
termine psicologia viene raramente usato in quei tempi - ci ricorda Hillman -
comincia proprio dalla seconda,  dalla rivelazione dell’indipendente realtà
dell’anima.  Essa esiste indipendentemente dall’uomo.  Nel Rinascimento la
psiche è ovunque: religione, politica, denaro sono aree del riflettere
psicologico. Il panpsichismo  è l’espressione filosofica del neoplatonismo al
quale il rinascimento ha attinto. Uomo, natura, anima sono  tre termini
connessi intimamente, ma l’anima, che è dentro l’uno e dentro l’altra, è anche
al di là dell’uno e dell’altra.  Il mondo infuso d’anima è espressione della
filosofia dell’immanenza di cui il pensiero di  Ficino  è portatore. L’anima per
Ficino “congiunge tutte le cose, è il centro della natura, il termine medio di
tutte le cose.” Perciò “il filosofare ficiniano è tutto e solo un invito a
vedere con gli occhi dell’anima l’anima delle cose…..una spinta a
tuffarsi nelle profondità della propria anima perché nella luce
interiore tutto il mondo si faccia più chiaro.” (Pag.338)

Mettere al centro l’anima è una vera e propria rivoluzione in filosofia, in


quanto fa sì che ogni pensiero, quindi lo stesso filosofare, abbia una
implicazione psicologica,  trovi il suo fondamento nell’anima…..  La filosofia
diviene un riflesso di quello che avviene nell’anima.

Questo situare l’anima in posizione centrale, nel pensiero come nella natura ,
come in qualsiasi esperienza umana , significa che essa regna in e tra tutte le
cose , e per questo la filosofia di Ficino è stata chiamata la “filosofia
dell’immanenza”.   

Questa visione aveva nel quattrocento un contenuto altamente rivoluzionario,


forse solo pari all’impatto della psicoanalisi nel nostro secolo, in quanto le sue
affermazioni danno a psiche l’onore di essere non solo oggetto di studio, ma
soggetto di studio, annullando di fatto ogni distinzione tra soggetto e oggetto,
relativizzando pertanto ogni visione ed ogni prospettiva, ed intaccando la
superiorità assoluta della rivelazione cristiana. Questa è di fatto anche la sua
modernità se pensiamo che la stessa in-distinzione è il presupposto
fondamentale dell’attuale fisica quantistica.

Da questa centralità assegnata all’Anima da Ficino e dal neoplatonismo, così


come dalla psicologia archetipica ,è necessario avanzare verso una ulteriore
riflessione che mette al  centro la morte in quel particolare legame che essa ha
con l’anima:  Persefone ed Ade. Qui la psicologia archetipica sembra inoltrarsi
verso un altro paradosso: se Anima è archetipo della vita, come è concepibile
questo suo legame con la morte? Questo discendere nelle profondità di Ade
come si concilia con l’esaltazione della vita insita in quel suo viverla in
profondità?  In realtà mettersi in contatto con Anima significa penetrare nelle
profondità umbratili delle nostre riflessioni immaginali che noi attiviamo
attraverso ogni esperienza soggettiva, ma contemporaneamente alla morte di
ogni accadimento reale e letterale, proprio  perché ogni accadimento visto con
gli occhi di anima cessa di essere reale e diviene immaginale . Dalla
prospettiva di Ade, cioè al di là e al di sotto delle nostre vicende umane,
quando esse si sono già ritirate o concluse nella vita reale,  esse permangono
negli occhi dell’anima e solo allora  diventano veramente reali. Ciò fa dire ad
Hillman che

 noi siamo le nostre immagini.

Questa prospettiva , che intimamente  lega  morte e vita ,  riguarda solo


l’Anima,  laddove  Morte non è più morte in senso medico, conclusione del
ciclo vitale, unica e irreversibile , e Vita non è solo esperienza  letterale , ma
sguardo che si inoltra nelle profondità degli inferi  simultaneamente alla vita
di ogni giorno, allorché le vicende quotidiane diventano vicende psichiche.

                        Nel regno di Ade esiste solo psiche, tutti gli altri punti di
vista                            svaniscono.

 Noi incontriamo Ade tutte le volte in cui i fatti concreti di ogni giorno
svaniscono e cadono nelle nostre immaginazioni profonde, oltre il fatto che ha
dato loro vita, quando veniamo rapiti dalla nostra coscienza usuale , afferrati
e portati  verso il basso nel regno delle nostre emozioni e dei nostri patimenti,
nel momento in cui ogni accaduto  assume una prospettiva diversa perché lo
vediamo psicologicamente.  Vorrei qui aprire una parentesi a
proposito di Pathos: pathos è termine che rimanda al subire
qualcosa che proviene dall’esterno : un’offesa come una malattia ,
una notizia come una visione.  Non  necessariamente deve avere a
che fare con la sofferenza, quanto con  qualcosa che ci mette in
contatto con la nostra passività e con la nostra impotenza nel
momento in cui  qualcosa  ci attraversa con intensità o eccesso.
Ecco: secondo me, questo  patire, guardato in trasparenza,  “attiva
“in noi un processo omeopatico che agisce come rimedio  in
quanto ci consente  fondamentalmente di non subirlo ma di
trasformarlo.  Solo così il pathos cessa di essere solo sofferenza ma luogo
dove si attiva lo  sguardo di Persefone, rapita alla sua normalità  e dove le
immagini che si risvegliano ci portano nella realtà più intima dell’anima.  

Fino a che non ci risvegliamo a questa realtà intima , cioè fino a che la nostra
coscienza illibata della realtà naturale ( Persefone) non viene stuprata  e
tradita (pag. 349 ), fino a quando non ci apriamo alla prospettiva di Ade  noi
rifiutiamo di ammettere che la realtà umana dipende interamente dalle
realtà che accadono nell’anima  .. e che proprio in quelle noi siamo
veramente reali. E inoltre  sostenere che noi non siamo reali     significa
allentare la presa sulla vita  e sui punti di vista del mondo umano , sui fatti
letterali e soggettivi, sugli accadimenti personali.

Pertanto, continua Hillman, ogni atto della coscienza è il riflesso d’una


immagine fantastica che va molto oltre il letteralismo della nostra vita
biologica, sociale o religiosa.

IL rifiuto di riconoscerci come irreali ci impedisce di psicologizzarci e di


guardare in trasparenza.   Rifiuto che in definitiva nasce dal  rifiuto della
nostra fragilità  che ci porta a costruire e ad aggrapparci a qualunque cosa
possa puntellarci e renderci solidi. Rifiuto che porta anche la moderna
psicologia umanistica a rivolgersi verso  fantasie di luce di autorealizzazione
fondate sull’Io o sul  Sé, costruendo un uomo forte con un’anima fragile
perché non capace di rivolgersi alla (sua)  natura mitica  e al suo eterno
impulso ad uscire dalla vita.

L’Anima del Rinascimento, che Hillman riprende, non ha invece dimenticato


l’ombra della morte e , nel benessere dell’Anima, ha creato questo strano
matrimonio tra inumanità e anima. Può esserci - si chiede  Hillman stesso -
un più acuto contrasto? La morale rinascimentale non divideva il fare anima
dalla profonda inumanità e dai processi di patologizzazione presenti
nell’anima stessa.

“Nutrirsi d’immagini” significa  quindi potere  giungere all’altra sponda, non


nel trascendente in senso spiritualistico religioso, ma “al di là del troppo e
solo umano”

come dice Grazia Marchianò nella sua lettera al già citato epistolario, ridando
alla capacità visionaria il suo potere di cura e lenimento della umane fatiche.

Non solo, ma ciò restituisce meraviglia alla vita –commenta Hillman  – oltre


ad  un’accettazione più compassionevole delle  nostre necessarie
limitazioni .
 Come se attraverso questa capacità “visionaria” della mente noi possiamo
reggere ( e non in senso eroico) la nostra umanità.

Il paradosso dunque  si rivela terapeutico, capace di farci andare oltre i nostri


stessi confini ed attaccamenti, donando  contemporaneamente  una
grandiosità alla nostra semplice, unica individualità.

Questa quindi la re-visione della psicologia di Hillman, una visione che ci fa


sognare, vivere profondamente ed andare oltre: andare oltre soprattutto a
questa sua stessa visione  che, come tutto, bisogna sapere abbandonare e
oltrepassare per entrare nei meravigliosi giardini di Anima.

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