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Flavio Ubaldini

Il mistero del suono


senza numero
Pitagora e la musica dell'Universo

(\�cjenza
�_EXpress
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© Scienza Express edizioni, Trieste
Prima edizione in narrazioni marzo 2017
Flavio Ubaldini
IL MISTERO DEL SUONO SENZA NUMERO

Graphic Design: Nicole Vaséono

ISBN 978-88-9697-334-9
A Daniela

Il più bello dei mari è quello che non navigammo

Nazim Hikmet
Ilavra. apz8p6ç emz
Elenco dei personaggi

Personaggi principali

Pitagora di Samo Maestro fondatore della scuola dei


pitagorici

Ippaso di Metaponto Uno dei più brillanti membri della


scuola

Eratocle di Samo Primo allievo di Pitago�a nonché


unico discepolo samio

Milone di Crotone Pitagorico e campione olimpico

Filolao di Crotone Pitagorico e amico di Ippaso ed


Eratocle

Teano Moglie di Pitagora nonché prima


donna membro della scuola

Muia Figlia di Pitagora e membro della


scuola dei pitagorici
Personaggi minori

Glauco di Reggio V irtuoso dei dischi di bronzo

Elettra Sacerdotessa di Apollo

Trasibulo Servitore tuttofare di Pitagora

Gerone di Crotone Mastro fabbro di Crotone

Cilone, Basileios. · Apprendisti del fabbro Gerone


e Corebo

Liside di Metaponto Avversario di Ippaso nello stadion

Megade Giovane pitagorico

Caronda Allenatore di giavellotto

Mnesarco e Partenide Genitori di Pitagora

Temistodea Sacerdotessa di Apollo a Delfì


nonché insegnante del giovane
Pitagora

Trofonio di Metaponto Precettore di Milone

Alceo e ldotea Genitori di Milone

Zaleuco di Crotone Venditore di vino crotonese


La Panegiri di Hera
Dove lppaso, ai margini di una festa cittadina, si
scontra con un mercante e, più tardi, è protagonista
di una violenta lite, alla fine della quale ricorda la
prima volta che ha visto la stessa festa quattordici
anni or sono.

Maggio 51 7 a.C.

Lui! Ippaso di Metaponto! Il più intelligente tra i pita­


gorici espulso dalla scuola! Quel pensiero lo lacerava. Gli
stava facendo perdere il contatto con la realtà.
((Attento a dove metti i piedi, idiota!)), gli urlò un mer­
cante. Il giovane si voltò con rabbia. Un tempo nessuno a
Crotone si sarebbe permesso di apostrofarlo in quel modo.
((Non vedi che stavi per rovesciarmi le olive!)). Ippaso rico­
nobbe subito la parlata metapontina, la città in cui aveva
trascorso i primi sedici anni di vita.
Ippaso fissò il mercante con un'espressione da cui tra­
spariva il furore di cui era preda in quei giorni. ((Sai qual è
la tua fortuna, vecchio?)), disse prendendo un'oliva dal vaso,
per poi mettersela in bocca e masticarla rumorosamente.
(& che oggi mi sento nostalgico)), continuò sputando il
nocciolo ai piedi dell'uomo. Quegli tacque, probabilmente
spaventato dal tono del giovane e disorientato dall'accento
familiare. Ippaso afferrò una manciata di olive, gliele lanciò
addosso e si allontanò tra le bancarelle sotto lo sguardo di
alcuni curiosi che si erano fatti attorno.
Anche quella notte Ippaso aveva dormito poco: si era
svegliato continuamente dopo incubi popolati da dèi mal­
vagi, suoni dissonanti e strane figure geometriche. Quan­
do le prime luci dell'alba avevano raggiunto la sua finestra

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insieme a un vociare inconsueto, si era ricordato che era il
giorno della Panegiri di Hera, una delle più importanti ce­
lebrazioni dell'Italia greca. Durante i festeggiamenti miglia­
ia di fedeli della dea raggiungevano Crotone da ogni dove.
Nei quattordici anni che aveva trascorso in città mai
avrebbe rinunciato a partecipare alle gare atletiche della
Panegiri o a farsi coinvolgere dalla travolgente atmosfera
di cui Crotone cadeva preda. Oltre alle gare, c'erano pro­
cessioni, riti, incontri politici e le strade si rièmpivano di
bancarelle cariche di merci e cibarie.
Nonostante quell'anno non avesse il consueto entusia­
smo, Ippaso si era illuso che un giro per Crotone durante i
preparativi della Panegiri avrebbe potuto aiutarlo a distrarsi
ma, evidentemente, si era sbagliato. Anzi, l'incidente con il
mercante aveva aumentato la sua rabbia. E nemmeno i ri­
cordi delle feste passate lo aiutavano a superarla. Che senso
aveva avuto la decisione di rimanere a Crotone per entrare
nella scuola di Pitagora? Nessuno!
Ippaso tornò a casa. Provò a leggere e a correggere alcuni
appunti; ma, per farlo, doveva tornare su ogni frase tre o
quattro volte. Si distraeva in continuazione e rimuginava
sui dolorosi avvenimenti di cui era stato protagonista. Non
aveva ancora terminato la prima tavoletta d'argilla, che,
gettato uno sguardo all'orologio solare in cortile, si accorse
che era passata l'ora sesta. Infastidito per la propria lentezza
scaraventò la tavoletta contro il muro. Come poteva pensa­
re con tutto quel vociare che saliva dalle vie circostanti? Un
tempo lo avrebbe rallegrato, in quel momento riusciva solo
ad agitarlo di più. Ippaso si sentiva in gabbia e, per cercare
un po' di tranquillità, passava da una stanza all'altra, cer­
cando di sfuggire al rumore che non faceva che aumentare.
D'un tratto gli parve di riconoscere le voci di Filo­
lao e di Muia. E, gettata un'occhiata fuori, eccoli lì che

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passavano sotto la sua finestra, tutti presi a ridere e scherza­
re. Doveva uscire! Doveva raggiungerli!
In strada si fece largo a spinte e gomitate. Girato l' ango­
lo, eccoli: Filolao stava conversando come niente fosse con
Muia, la sua Muia! Se non avesse conosciuto bene l'amico
avrebbe detto che i due stessero amoreggiando.
«Muia! Filolao!», urlò mentre cercava di avvicinarsi. In
risposta l'amico cercò di confondersi tra la folla. lppaso af­
frettò il passo per raggiungerlo, ma · nel momento in cui
si trovò di fronte a Muia, si bloccò. Si guardarono negli
occhi, intensamente, per un istante. Quando poi lppaso si
voltò, Filolao stava sfruttando un flusso della folla e correva
per sfuggirgli . lppaso provò a stargli dietro, ma il riflusso
contrario glielo impediva. Dopo aver spintonato a destra e
a manca e dopo essersi preso qualche insulto, il metapon­
tino si girò di scatto e si accorse che anche Muia era scom­
parsa. Rabbia e sconforto presero il sopravvento. Avrebbe
voluto gridare a tutti quelli che facevano festa, «Che avete
da festeggiare?». Avrebbe voluto prendere a calci il primo
che passava. E soprattutto avrebbe voluto sapere perché
Muia e Filolao erano scappati!
((Lasciali perdere amico. Sono degli idioti».
Si voltò: a parlargli era stato Glauco di Reggio, i capelli
appiccicati alla fronte e un sorriso ebete sulle labbra. Il mu­
sicista indossava un chitone sporcato da macchie violacee
sul petto. Chiazze di sudore completavano il quadro. Luo­
mo avvicinò lentamente il volto a quello di lppaso.
((Bevi con me!», lo esortò porgendogli una grossa coppa
colma di vino. Nonostante la zaffata di odore acre, lppaso
rimase immobile, con il volto deformato dall'ira, a scruta­
re il musicista. Le iridi offuscate di Glauco sostennero lo
sguardo con la spavalderia conferitagli dal nettare di Dio­
niso. Poi, con un movimento del braccio e con un sorriso
complice, il musicista ripeté l'invito. Ippaso si riscosse, gli
sfilò la coppa dalle mani e ne tracannò il contenuto d'un
fiato senza staccare gli occhi da quelli dell'altro.
((Così mi piaci, amico!)) rise Glauco sguaiato. ((Vieni
'
con me, ti offro ancora da bere)), continuò colpendolo con
una tanto energica quanto scomposta pacca sulle spalle.
<<Te lo devo, amico mio. Non sai il successo che sto avendo
con quella tua invenzione. Tutti vogliono ascoltare Glauco
di Reggio che suona i dischi di bronzo. Persino l'arconte
mi ha invitato a esibirmi per i suoi ospiti)), e dicendolo
scimmiottò accento e movenze aristocratiche. ((E anche sua
moglie vuole sentire i celestiali tintinnii del musicista reggi­
no)), proseguì in un falsetto che nel finale andò a rompersi
in una nuova fragorosa risata. Il volto di Ippaso cominciò
a distendersi in uno stretto sorriso che sottolineò quel fi­
nale istrionico. ((Vedi che ti sta tornando il buonumore;
amico? Dai, andiamo! Qui dietro l'angolo c'è la bancarella
di Zaleuco. Da lui si trovano i migliori vini di Crotone.
Profumati dalle resine più aromatiche)).
Dopo aver bevuto da Zaleuco non potevano certo far
un torto alle altre bancarelle, e, in onore alla provenienza
di Ippaso, andarono a provare i vini del Metaponto. E poi
quelli di Reggio, perché anche Glauco voleva omaggiare la
propria città. E poi ancora, sulla strada per il porto, prose­
guirono il viaggio attraverso le vigne dell'Italia greca: Era­
clea, Poseidonia ed Elea. Tutto quel vino aiutò il grumo
caldo di rabbia che invadeva il basso ventre di Ippaso ad
attenuarsi e a distribuirsi per tutto il corpo. Gli era tornata
anche la favella e un po' alla volta Ippaso aveva raccontato
a Glauco la propria storia.
((Erano invidiosi, capisci, Glauco? Mi hanno espulso
perché sono il più bravo. Perché sono il più intelligente!)).
« È vero, amico mio. Lo penso anch'io. Credi che non
senta i discorsi che si fanno in giro?».
«So chi ha complottato contro di me!».
((Non ci -pensare, amico. Ecco le bancarelle di Taranto. I
loro vini sono i migliori d'Italia. Andiamo, ti offro un'altra
coppa».
Dopo esser passati anche per quelle di Locri avevano
imboccato l'ultimo tratto della discesa che conduceva al
porto. Più scendevano, più la folla si diradava. E quando
raggiunsero le vie del porto non c'era in giro anima viva. Il
sole stava assumendo le lievi tonalità del rosso e l'aria era
impregnata di .un penetrante odore di alghe e di spuma di
mare.
Di fronte all'officina navale Glauco si fermò, sollevò il
chitone e cominciò a svuotarsi la vescica. ((Vieni a liberarti
pure tu!». Finito che ebbero, alzò lentamente un braccio e
indicÒ il cortile dove un'imbarcazione era in manutenzio­
ne. ((Guarda, Ippaso!», biascicò. ((Guarda che bellezza! È
una trireme. Una meravigliosa invenzione degli ioni. Noi
usiamo ancora le pentecontere. Loro, invece, le considera­
no delle carrette e le hanno rimpiazzate con questi gioielli.
Guarda la fiancata. Tre file di rematori su tre livelli diver­
si!>>, e dicendolo muoveva il braccio in aria disegnando tre
archi sghimbesci. (& un'imbarcazione velocissima».
Alcuni schiamazzi dall'interno del magazzino interrup­
pero la sua appassionata descrizione.
<(Chi c'è? Non dovrebbe essere chiuso?», chiese Ippaso.
((Credo di saperlo. Vieni!», Glauco lo trascinò oltre la
porta socchiusa, da cui provenivano zaffate di legno e di
pece. Dietro a una catasta di travi cinque uomini giocavano
a dadi.

l .r·l
<<Ehi, Glauco!», urlò il più grosso. <Nieni qua che si gio­
ca». Quindi squadrò anche Ippaso e continuò. <<E chiedi
anche al tuo amico filosofo se vuole unirsi».
Ippaso scosse la testa. <<Resta pure se vuoi. Io mi farò un
giro».
Uscendo il metapontino si soffermò a guardare la diste­
sa marina di fronte a lui. Il porto sembrava deserto. Alla
sua sinistra il disco rosso di Apollo era ormai vicino all'o­
rizzonte.
D'un tratto si sentì osservato. Si voltò di scatto verso
destra e vide una sagoma femminile. Ci volle qualche istan­
te prima che la sua mente offuscata dal vino riconoscesse
Muia.
<<Che vuoi da me?», l'apostrofò con voce aspra.
<<Scusami, amore . . . non potevo farmi vedere con te>>,
mormorò lei avvicinandoglisi.
<<Ah, no? Perché? Per tuo padre?», le gridò contro lui
indietreggiando.
«No, è stato il Consiglio degli Eletti a vietare qualsiasi
contatto con te . . . ma io so che la condanna è ingiusta», si
affrettò a concludere la ragazza.
«E allora perché mi hai evitato?».
«Ho parlato con mia madre: anche lei crede che la con­
danna sia eccessiva. Però pensa che sia meglio non violarla.
Pensa che mio padre non sia del tutto convinto e che do­
vremmo cercare di persuaderlo a rifare il processo».
«lo non voglio essere giudicato di nuovo!», esplose Ip­
paso.
«Ti prego, stai tranquillo>>, disse lei accarezzandogli una
guancia. «Vedrai che si risolverà tutto per il meglio», con­
tinuò facendo scendere la mano sul petto. Ippaso le afferrò
la mano e strinse la ragazza a sé. Il respiro di Muia accelerò.
Profumava di resina. Ippaso la baciò mentre lei gli si ab­
bandonava tra le braccia.
Quando si rimisero in cammino, l'ultimo frammento di
sole stava varcando l'orizzonte.
((Guarda come sono rosse le nostre tre isole, amore mio.
Meloesa, Tyris ed Eranusa. Sembrano ardere. Così come
arde il mio cuore per te».
Si baciarono ancora mentre ciò che persisteva del sole si
riduceva a un'allusione nel cielo rosso.
((Vai. . . "ora vai», la scostò Ippaso. (( , . . se non vuoi che ti
vedano con me».
((A domani, amore», lo accarezzò ancora una volta Muia.
((Addio . . . », le sussurrò il giovane seguendola con lo
sguardo fino a dietro la curva.
Il cielo andava imbrunendo e l'odore di alghe si era fatto
più acre. Ristagnava nelle narici con un sentore di putrefa­
zione. Ippaso stava per rimettersi in movimento quando un
uomo, alto, robusto e con in testa un pileo sbucò dall'an­
golo opposto. Ippaso s'irrigidì. I muscoli mascellari gli pul­
savano. Gli occhi fissavano rabbiosi la figura massiccia.
((Traditore!», gli urlò in faccia l'uomo non appena gli fu
vicino. ((Hai tradito la scuola, il maestro e i confratelli. E
ora stai usando quella ragazza per i tuoi sporchi disegni».
(dnfame . . . figlio di un cane!», gli ringhiò a sua volta
Ippaso.
((Bada a come parli, traditore».
((Sei tu ad aver manovrato gli altri. Sei tu l'artefice di
questa lurida trama. Credi che non lo sappia?».
((Sei ubriaco! Non sai quello che dici. Fai pena. E infan­
ghi la scuola».
((Che gli dèi ti maledicano! Ti ho sentito quando cercavi
di convincere il maestro! Infame!».
((Modera il linguaggio!», urlò l'uomo spintonandolo.

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Ippaso scattò e reagì con inattesa violenza. Colpì l'uomo
con un calcio aitesticoli. Lo scagliò al suolo e cominciò a
tempestarlo di calci.
A ogni calcio che andava a segno i gemiti aumentavano
d'intensità. Quando Ippaso mirò al volto, l'uomo riuscì ad
afferrargli la caviglia, a sbilanciarlo e a costringerlo a saltel­
lare per non perdere l'equilibrio. Con un secondo strattone
lo fece cadere. Ippaso urtò violentemente il costato contro
una pietra. Rimase senza fiato e l'avversario ne approfittò.
Non senza fatica, l'uomo si alzò e si gettò sul metapontino
che schivò in parte il colpo rotolando sul fianco. Tutto il
peso dell'avversario finì sul braccio destro di Ippaso, che si
spezzò con uno schiocco sonoro. Il giovane urlò di dolore.
I due avversari si divincolarono e si rialzarono. Luomo
si teneva l'inguine e Ippaso il braccio spezzato. Si fissarono
con odio misto a sofferenza.
«Và e non farti più vedere)), sibilò l'uomo. «Se ti trovo
ancora vicino a Muia, giuro che ti ammazzo)).
Ippaso, le narici dilatate, inspirò con forza e gli sputò
in faccia, scatenandone il furore. Ippaso schivò il primo
pugno, e se fosse stato sobrio, avrebbe evitato anche il se­
condo. Invece ricevette tutta la forza e la rabbia del suo av­
versario contro la tempia. Cadde come svuotato e sbatté il
capo al suolo. Luomo guardò il corpo inerme, poi si riscos­
se e si allontanò mentre le tenebre sopraffacevano l'ultimo
barlume di luce.

Un lampo attraversò la memoria di Ippaso: era una as­


solata primavera di quattordici anni prima. Dieci ragazzi
seminudi, con muscoli e nervi tesi, erano in fremente attesa
sulla linea di partenza dello stadion di Metaponto. Il pub­
blico, soprattutto giovani ma anche molti adulti, taceva
nell'attesa della gara. Uno squillo di tromba risuonò nel si-

Il!
lenzio più completo e i dieci ragazzi scattarono all'unisono
come un branco di giovani lupi alla vista di una lepre.
«Vai, Liside!! Sei il migliore!».
«Vai, piè veloce!».
Dopo i primi cento piedi il giovane Liside aveva già di­
staccato il gruppo di almeno dieci piedi. Era imbattibile
nella gara dello stadion, forte di uno scatto fenomenale.
Percorsi duecento piedi anche Ippaso cominciò a stac­
carsi dal gruppo riuscendo a correre alla stessa velocità di
Liside.
«Liside! Lisideh>, continuava a urlare la folla. Ma· qual­
che voce dissonante cominciava a farsi sentirsi.
«Forza, Ippaso!».
A due terzi del percorso, Ippaso recuperava terreno
sull'avversario.
«Vai, Ippaso! Puoi raggiungerlo!», gridavano gli uni.
«Continua così, Liside! Stai per vincere!», facevano eco
gli altri.
La distanza tra i due concorrenti continuava ad accor­
ciarsi e le urla di incoraggiamento per Ippaso avevano ora
la stessa intensità di quelle a favore di Liside.
«Più veloce, Ippaso! Più veloce!».
Mancavano solo cento piedi all'arrivo e lo svantaggio di
Ippaso era ancora grande.
«Resisti, Liside! La vittoria è tua!».
A trenta piedi dal traguardo Liside avanzava ad ampie
falcate verso una vittoria sicura. Le urla dei suoi sostenito­
ri avevano di nuovo sopraffatto quelle degli avversari. Im­
provvisamente i primi ammutolirono: per la prima volta
da quando gareggiava, Liside aveva messo un piede in fallo
e per non finire a terra aveva dovuto compiere una serie di
passi scoordinati.
«Nooo!».

l')
Sulla linea del traguardo i giudici non ebbero dubbi.
Anche se di un piede o poco più, Ippaso era il vincitore
della gara.
Una folla esultante accerchiò il metapontino. Nel di­
sco, nel giavellotto e nel salto, Ippaso aveva avuto risultati
discreti ma non eccellenti. Fu la vittoria nello stadion a
farlo salire tra i primi nella classifica del pentathlon. Anche
nell'ultima competizione, la lotta, Ippaso gareggiò molto
bene. E alla fine figurò terzo, rientrando perciò tra i cinque
atleti che avrebbero rappresentato Metaponto nelle gare di
pentathlon della Panegiri di Hera.
Ippaso si trovò così a sedici anni per la prima volta in
viaggio. Dopo quattro giorni, gli atleti metapontini giun­
sero a Crotone alla vigilia della Panegiri.
Nella prima prova, Ippaso non fu convincente come
nelle qualificazioni ma si guadagnò pur sempre un rispet­
tabile nono posto ed esultò per il risultato. Ma a rendergli
indimenticabile quel primo viaggio fu altro.
Dopo i giochi, insieme a Liside e agli altri metaponti­
ni, il giovane aveva visitato l'area dei festeggiamenti. Erano
partiti dal tempio di Hera a Capo Lacinio, a sessantadue
stadi di distanza dalla città. Mosso dalla passione che aveva
per i templi, Ippaso si era perso a osservare le differenze tra
il tempio di Hera di Metaponto e quello di Crotone.
« ... quarantasei, quarantasette e quarantotto. Quaran­
totto!», il ragazzo aveva fatto 1,m giro intorno al tempio se­
guito da Liside e si era ritroVato alla rampa d'accesso. Le ca­
pigliature e i chitoni dei due ragazzi fluttuavano nel vento.
«Te lo avevo detto, Liside, che il perimetro di questo
tempio doveva essere circa una volta e mezza quello del
nostro».

lO
« È vero, ma io avrei detto fosse meno ... Intorno ai quat­
tro terzi».
<<Be', il rapporto di quattro terzi lo trovi confrontando le
altezze. Guarda le colonne! Sono alte otto rocchi, le nostre
seh>.
Ippaso si era avvicinato al colonnato sulla destra. Lì,
il precipizio sul mare mostrava anche una parte della sua
attraente pericolosità. Il vento era talmente forte che il ra­
gazzo doveva tenersi con una mano il lembo inferiore del
chitone. E anche il sentore di salsedine sembrava più forte.
<<Guarda! Questa è l'ara miracolosa di Crotone. Ne ave­
vo già sentito parlare».
<< È incredibile!», esclamò Liside <<Come è possibile che
le ceneri rimangano immobili con tutto il vento che c'è?».
<< È uno dei prodigi di Hera!».
Ippaso volse lo sguardo verso l'alto. <<Guarda la bellezza
delle decorazioni floreali sul timpano. Guarda i colori vivi­
di e armonici: giallo, verde e azzurro su sfondo rosso».
Liside annuiva ammirato.
<<Vieni», continuò Ippaso salendo i gradini della rampa.
<<Andiamo a vedere la facciata della cella templare».
Da quella parte, a dominare erano il rosso, il giallo e il
nero e, ai lati della porta, erano dipinti i frutti sacri alla dea:
due grosse melagrane spaccate.
<<Guarda i granelli della polpa: sembrano veri».
<<Dal bianco al rosso ci sono tutte le gradazioni che uno
potrebbe immaginare».
<<Ti va di entrare?», chiese Ippaso indicando il massiccio
portale d'ingresso della cella templare.
<<Sì, ma vorrei anche fare un giro per le bancarelle».

21
«Possiamo farlo più tardi. Non vorrai perderti l'occa­
sione della Panegiri! A meno che tu non voglia diventare
sacerdote di Hera, questo è l'unico periodo in cui si può
visitare la cella».
I due giovani entrarono nel luogo in cui veniva custo­
dita la meravigliosa statua della dea. Lespressione maestosa
e austera di quell'enorme scultura li intimorì. Decine di
ex-voto, che rappresentavano bambini in fasce e melagra­
ne, giacevano ai piedi della dea. Ippaso rimase . a lungo a
contemplare la statua. Vagava con lo sguardo sui dettagli,
calamitato ora dalla mirabile melagrana che la dea teneva
in mano, ora dai vividi colori della scultura, ora dalla pre­
ziosa e stupenda corona.
Quando uscirono dal tempio, Ippaso e Liside si separa­
rono e ciascuno dei due girovagò per pròprio conto tra le
bancarelle del mercato. Ippaso visitò diversi venditori ine­
briandosi di colori e odori, di canti e suoni, di essenze e
spezie, senza per questo disdegnare qualche coppa di vino.
A incuriosirlo fu il sistema di scambio a cui ricorrevano i
venditori. Usavano dei dischetti metallici: li chiamavano
monete. Gli era già capitato di vederne in precedenza, ma
era la prima volta che le vedeva usate sotto i suoi occhi
come merce di scambio. Queste, a differenza di quelle che
aveva visto in precedenza, avevano il disegno incavato an­
ziché in rilievo. Raffigurava un tripode, il simbolo di Cro­
tone.
Dopo un certo tempo, Ippaso si riunì ad altri due com­
pagni di gare e insieme lasciarono l'area del mercato. Aveva­
no camminato per un paio di stadi, quando il ragazzo notò
in lontananza un uomo che dalla scalinata del tempietto di
Achille arringava una piccola folla di giovani. Incuriosito
aveva esortato gli altri a seguirlo e insieme avevano rag­
giunto l'oratore, un uomo alto e magro con barba e capelli
lunghi e neri. A colpire Ippaso fu la voce dell'uomo. Il tono
profondo infondeva calma e sicurezza. Il timbro caldo ispi­
rava equilibrio e affidabilità. Ippaso non aveva mai sentito
nessuno parlare con tanta maestria. Le pause, la modula­
zione del volume, le enfatizzazioni. E la perfetta consonan­
za con cui la mimica accompagnava l'eloquio. Per non dire
dello sguardo che instaurava un breve contatto con ogni
singolo membro della folla e Ippaso rabbrividiva ogni volta
che si posava su di lui. A scuotere il ragazzo fu una gomitata
((Noi c'incamminiamo», gli disse uno degli amici. Eviden­
temente loro non avevano subito lo stesso fascino.
((Andate pure. Vi raggiungerÒ», rispose Ippaso; e non
appena i compagni si furono allontanati cominciò a farsi
strada tra la folla. Raggiunta la seconda fila si fermò e ri­
prese ad ascoltare. Fino a quel momento era rimasto trop­
po incantato dalla voce e dalla mimica per concentrarsi
sul significato di quanto stava dicendo l'uomo dalla lunga
capigliatura. Scoprì così che il contenuto era ancora più
affascinante. Dopo aver raccontato alcuni aneddoti sui suoi
viaggi in terre meravigliose e dopo aver accennato ad alcuni
divieti alimentari, tra i quali quello di mangiare fave, l'uo­
mo cominciò a parlare della vita e della morte e di come gli
uomini tornerebbero in vita dentro un nuovo corpo senza
serbare memoria della vita precedente. Per indicare quel
susseguirsi di discese all'Ade e risalite nel regno dei vivi
l'uomo usava un termine che Ippaso non aveva mai udito
prima: reincarnazione. Fu una folgorazione. Il pensiero di
tutte le generazioni di corpi che la sua anima aveva dovu­
to abitare prima di trasmigrare in lui gli diede un senso
di vertigine e al tempo stesso d'illuminazione. Una nuova
prospettiva sulla vita gli si aprì davanti agli occhi.
Quando l'uomo terminò di parlare, Ippaso sentì il bi­
sogno di sapere chi fosse. Solo allora notò due giovani che
dalla prima fila ogni tanto si voltavano e si scambiavano
commenti. Si presentò a loro.
«Salve, mi chiamo Ippaso e vengo da Metaponto».
«lo sono Filolao e sono di Crotone», rispose il giovane
alto e magro.
«lo mi chiamo Eratocle e provengo da Samo», disse il
suo compagno più corpulento.
«Samo? Che città è?».
«Avrai sentito parlare di Policrate . . . ».
«Sì . . . Policrate . . . e la sua flotta?».
«Giusto: Policrate è il tiranno di Samo, la mia isola, nel
mare Egeo», disse Eratocle con una punta di orgoglio, «vi­
cinissima alle coste della lonia e della Doride: le due regio­
ni che re Ciro il persiano conquistò quando ero bambino»,
concluse con tono rabbioso.
«Che cosa ti ha portato così lontano nell'Italia greca?».
«Ho voluto seguire il mio maestro, Pitagora».
«Pitagora? . . . ne ho sentito parlare. Ha molti ammirato-
ri a Metaponto. Tu . . . sei un suo discepolo?».
«Sì, e lo sono anch'io», rispose Filolao. «Quasi tutti qui
lo siamo», continuò indicando la piccola folla.
Lo sguardo di Ippaso s'illuminò: «Allora l'uomo che ab­
biamo ascoltato immagino sia lui, Pitagora, il vostro ma­
estro».
I due annuirono sorridendo.
«Anch'io voglio diventare uno di voi. Ditemi come si
fa».

Come era arrivato, così il lampo scomparve. Ippaso era


ancora sdraiato a terra, pesto e privo di sensi. Solo gli dèi
potevano sapere se i pitagorici avrebbero rivisto Ippaso, il
più brillante di tutti loro.

24
Nella bottega del fabbro
Dove Pitagora osserva correlazioni inattese tra
musica e numeri.

Giugno 528 a. C., undici anni prima

Baaam, baaam, boom, biiiim, baaammm . . .


Basta, basta, basta! Smettetela d i martellare su quelle in­
·cudini! Non sopporto tutto questo frastuono!
Pitagora aprì gli occhi. Era sudato. Quel principio d'e­
state era più caldo del solito. E da qualche giorno il ma­
estro si svegliava col rimbombo di quel suono metallico
nelle orecchie. Da quando avevano cambiato il percorso
mattutino per raggiungere la scuola, la notte continuava a
sognare la scena in cui lui, Eratocle e Filolao passavano da­
vanti alla bottega di Gerone vicino al tempietto di Eracle e
le loro voci venivano sopraffatte dal fragore delle martellate
del fabbro e dei suoi apprendisti.
Pitagora girò Io sguardo verso sua moglie che stava an­
cora dormendo. Mentre si alzava dal letto sentì rumori dal
piano inferiore. Inspirò profondamente e le narici gli si ri­
empirono del profumo di maza appena sfornata. Il suo ser­
vitore, Trasibulo, era già all'opera. Uscendo dalla camera,
Pitagora sentì la piccola Muia che si lamentava nel sonno.
Anche lei da qualche giorno era un po' irrequieta. Scese in
cucina dove Trasibulo gli aveva già imbandito la tavola.
((Il vostro pasto è pronto, maestro)), fece il servitore in­
dicando sul tavolo la maza spalmata di miele e la coppa di
ciceone. Pitagora rispose con un cenno del capo mentre
l'uomo usciva per avviarsi alla scuola.

2 r.
.)
Mangiò e bevve con lentezza. Finita colazione, mentre
indossava il chitone, Pitagora sentì risuonare le voci fami­
liari di Eratocle e Filolao.
«Buongiorno, maestro, spero che abbiate trascorso una
buona nottata».
((Non direi», rispose Pitagora. ((Sento di continuo il rim­
bombo del martellare del fabbro. E la tua gamba come va,
Filolao?».
((Mi duole ancora, maestro. Spero non vi dispiaccia se
anche stamani vi chiedo di percorrere il sentiero lungo.
Non ce la farei a salire per la ripida scorciatoia».
Pitagora lo guardò con un misto di comprensione e fa­
stidio: ((Non mi spiace», rispose secco.
Prima di uscire, il maestro si mise in testa il petaso di
paglia. Era ancora presto ma il sole era già abbastanza alto
sull'orizzonte. La giornata era serena e il solstizio alle porte.
Filolao notò che Eratocle si schermava gli occhi con una
mano.
((Eratocle, non capisco perché ti ostini a indossare il pi­
leo anche in queste lunghe giornate di sole. Non trovi che
le larghe falde di un petaso ti riparerebbero meglio dalla
luce?>>.
((Il pileo è tradizione della mia famiglia. È una delle po­
che cose che mi ricordano l'infanzia a Samo. E proprio per
questo non ci rinuncio».
Una piacevole brezza rendeva il caldo sopportabile e
increspava la superficie dello Ionio. I tre uomini s'incam­
minarono verso la scuola. Filolao zoppicava vistosamente.
Troppo poco tempo era passato dall'infortunio durante
l'allenamento con Milone. Forse la partecipazione ai giochi
olimpici era definitivamente compromessa.
((Non sarà poi così male rimanere a Crotone con Erato­
cle e gli altri», tentò di consolarsi.

26
· Svoltato l'angolo si avvicinavano al tempietto di Eracle.
Si cominciava a intravedere in lontananza la grossa schiena
nuda di Gerone che, -sulla soglia della bottega, si fletteva,
lucida di sudore, ad accompagnare i colpi con cui il fabbro
forgiava una spada. �aria aveva cominciato ad assumere
un retrogusto di metallo incandescente e, man mano che
i tre si avvicinavano, il clangore delle martellate si faceva
più forte.
Baaam, boom, baaam, boom, biiiim, baaammm ...
Nel tratto di strada tra il tempietto e la bottega, Pi­
tagora si mostrava sempre un po' inquieto. Inquieto ma
concentrato: tutta la sua attenzione pareva rivolta al lavoro
di Gerone. Il maestro sembrava magnetizzato dai gesti del
fabbro. Quel giorno, senza nessun preavviso, deviò dal pro­
prio cammino e s'infilò nella bottega. Eratocle e Filolao si
scambiarono uno sguardo perplesso e lo seguirono.
«Benvenuto maestro. La mia officina è a vostra dispo­
sizione», lo accolse Gerone con dignità, che non celò del
tutto sorpresa e deferenza.
Pitagora sembrò non badare all'uomo: spostava in con­
tinuazione gli occhi da un martellatore all'altro al ritmo dei
loro colpi.
Baaam, boom, baaam, booom, biiim, baaam, booom,
baaammm.
«Maestro, volevate chiedere qualcosa a mastro Gero­
ne?)), lo sollecitò Eratocle. Pitagora ignorò anche lui e ten­
ne lo sguardo fisso sui tre apprendisti che lavoravano con
martelli e incudini di dimensioni diverse. Un sorriso gli
illuminò il volto e gli occhi si fecero più luminosi. Poi,
all'improvviso Pitagora inarcò le sopracciglia, aprì la bocca
e inspirò profondamente: «oh Zeus!)).
Sotto lo sguardo di tutti, si avvicinò al più nerboruto
dei tre che di conseguenza smise di martellare, presto imi-

27
tato dagli altri. Per quanto sovrastasse la figura di Pitagora,
l'apprendista sembrava a disagio e sorrideva imbarazzato.
«Come ti chiami, ragazzo?».
«Cilone, maestro», rispose il giovane con voce profonda
mentre alcune gocce di sudore gli cadevano dal naso.
((E voi due? Quali sono i vostri nomi?».
((Basileios, per servirvi».
(do sono Corebo, maestro».
((Se non sbaglio, Cilone, la tua incudine e il tuo martello
sono più grandi di quelli di Corebo e di Basileios».
((Sì, maestro, questi sono gli arnesi per forgiare le ar­
mature delle ruote dei carri», rispose Cilone. ((Sono i più
grandi di tutti, se escludiamo quelli di mastro Ger� ne, na­
turalmente» .
((E quelli di Corebo e Basileios a che cosa servono?».
((Con gli arnesi di Basileios, che sono poco più piccoli
di quelli di Cilone, forgiamo le spade», intervenne Gerone
((mentre Corebo si sta occupando dei ferri di cavallo».
((Lincudine di Corebo è circa la metà di quella di Ci-
Ione», aggiunse infine Gerone che sembrava aver intuito
l'interesse di Pitagora per le dimensioni degli arnesi.
((Cilone, potresti colpire la tua incudine?», chiese Pita-
gora.
Il giovane sferrò una martellata sulla sua incudine.
baaammm
((E ora tu, Corebo, colpisci la tua» .
Corebo imitò Cilone.
biiimmmm
((E ora insieme!».
baaammm
biiimmmm
Pitagora si girò verso i suoi allievi con un sorriso serafi­
co. ((Sentite che armonia? Sentite come si fondono questi

28
suoni?», e poi voltandosi di nuovo verso le incudini: «Sen­
tite che consonanza?».
<<Sì, maestro. Ma . . . perché la cosa vi entusiasma?», fece
Filolao.
Pitagora lo guardò, roteò un po' lo sguardo, si toccò il
mento e inspirò.
«Cilone e Basileios, potreste colpire le vostre incudini
contemporaneamente?».
Cilone e Basileios eseguirono la richiesta.
baaammm
baaammm
Pitagora si coprì le orecchie con le mani mentre il volto
gli si modellava in una smorfia di disgusto.
«Sentite, ora, che fastidioso frastuono? Sentite che dis­
sonanza?».
« È vero», osservò Filolao. «Ma da che cosa può dipen­
dere la differenza?». Rimase pensieroso per un attimo e poi
riprese. «Le incudini e i martelli sono dello stesso materia­
le . . . ».
«Forse dalla dimensione dei martelli?», suggerì Eratode.
«Possiamo fare una prova)), disse Pitagora. «Corebo po­
tresti colpire l'incudine di Cilone con il tuo martelletto
mentre Basileios colpisce la sua?)).
Corebo raggiunse l'incudine di Cilone.
baaammm
baaammm
«No! Non dipende dalla dimensione dei martelli», sot­
tolineò Filolao guardando Eratode. «C'è una differenza nel
suono ma il risultato è comunque sgradevole».
Pitagora si mosse in direzione del fabbro: «Mastro Ge­
rone, avete un'incudine di dimensione diversa? Cilone ha
detto che la vostra è la più grande».
«Sì, la mia è tre volte quella di Corebo».

29
«Bene!», rispose Pitagora. <<Se non vi dispiace, colpitela
nello stesso istante in cui Cilone colpisce la sua». Mastro
Gerone e l'apprendista si scambiarono uno sguardo dub­
bioso, ma ancora una volta assecondarono Pitagora.
booommm
baaammm
<<Mmhh . . . di nuovo gradevoli all'orecchio», commentò
tra sé e sé Filolao, per poi rivolgersi al maestro: <<Che cosa
state cercando di dirci? Questa cosiddetta consonanza non
dipende dai martelli bensì dalle dimensioni delle incudi-
.
fil.,».
<& un'interpretazione plausibile, Filolao. Ma ora vorrei
pregare Corebo di unirsi all'esperimento e colpire la sua
incudine insieme a Cilone e a mastro Gerone».
I tre esaudirono di nuovo la richiesta di Pitagora.
booommm
baaammm
biiimmm
<<Ancora ana bella consonanza!», esclamò Eratocle. <<Sì,
una fusione armonica)), puntualizzò Pitagora.
<<Quindi.. .».
<<Allora... ».
<< ... che conclusioni...».
<< ... che cosa se ne può ... ».
<<Mi spiace interrompervi signori», s'inserì Gerone. <<Ma
entro stasera dovremmo completare venti spade. E, se non
lavoriamo sodo, non ce la facciamo. Con tutto il dovuto
rispetto vorrei chiedervi...».
<<Ci scusiamo per l'irruzione, mastro Gerone», lo rassi­
curò Pitagora. <<Vi siamo grati per la generosa collaborazio­
ne».
« È stato un onore, maestro, ma gli impegni presi ci im­
pongono di lavorare».

:w
I tre lasciarono la bottega. La brezza era cessata e il caldo
era diventato più intenso. Così come i suoni delle incudini,
il colore del cielo e quello del mare sembravano aver rag­
giunto una felice consonanza. Pitagora e i discepoli riprese­
ro il cammino al passo del lento zoppicare di Filolao.
«Maestro, come dovremmo interpretare il fenomeno
che abbiamo appena osservato?», chiese questi impaziente.
Pitagora taceva assorto.
«La martellata a tre, l'ultima, sembra confermare che la
consonanza non dipenda dalle dimensioni dei martelli ma
solo da quelle delle incudini», osservò Eratocle.
«Be', in realtà siamo andati oltre. Non solo la consonan­
za ma neppure l'altezza dei suoni dipende dai martelli. Ciò
che conta sono solo le dimensioni delle incudini», ribatté
con sicurezza Filolao.
Mentre gli allievi discutevano, la mente di Pitagora va­
gava tra la bottega e il sogno del mattino. Alcune frasi gli
riecheggiavano nella testa. Lincudine e il martello di Basi­
leios sono di poco più piccoli di quelli di Cilone. Lincudi­
ne di Corebo è circa la metà di quella di Cilone. Sì, la mia
è tre volte quella di Corebo.
«Mmh, è vero!», rispose Eratocle. «Quando Corebo ha
colpito l'incudine di Cilone con il martello più piccolo,
l'altezza del suono è rimasta invariata».
«Una volta esclusi i martelli», riprese Filolao, «quello
che dovremmo cercare di capire è perché alcune incudi­
ni colpite contemporaneamente producono suoni che si
fondono piacevolmente mentre altre danno luogo a suoni
dissonanti . . . ».
Nella mente di Pitagora andavano formandosi alcune
immagini: c'era l'incudine di Cilone con su scritto "2 Co­
rebo" e quella di Gerone con la scritta " 3 Corebo".
Vedeva anche una terza immagine, flebile e avvolta da
una densa foschia.
Nel frattempo, alle sue spalle, Filolao non aveva visto un
sasso sporgente sul suo cammino. Così incespicò e, per non
·
perdere l'equilibrio, fece forza sulla gamba infortunata. La
contrazione del muscolo gli provocò una fitta dolorosa. Il
giovane tentò di soffocare un urlo di dolore che però venne
fuori lo stesso.
Il maestro si voltò infastidito e fissò la scena. Filolao,
Eratocle e il sasso. Nella mente vide nitido un 3. Il pensiero
tornò alle incudini. Poi di nuovo a quanto stava accadendo.
Eratocle era corso a sostenere l'a�ico. Filolao ed Eratocle:
un 2. Il velo che copriva la terza immagine mentale si dis­
solse e Pitagora vide l'incudine di Gerone con su scritto
"3/2 Cilone".
((Oh Zeus! Ci sono!)), urlò il maestro.
Eratocle e Filolao lo fissarono sconcertati.
((Sì!)), disse Pitagora. (& chiaro! La consonanza dipende
dal rapporto tra le dimensioni delle incudini!)).
((Dal rapporto?)), ripeté Eratocle. ((In che modo dal rap­
porto?>>.
Pitagora raccolse un rametto e cominciò a tracciare se­
gni sulla sabbia della strada.
((Scrivo Ci sull'incudine di Cilone, Co su quella di Co­
rebo, Ge su quella di Gerone e Ba su quella di Basileios)).
Filolao si massaggiava la gamba con evidente dolore ma
non perdeva una parola del maestro. ((Se l'incudine di Ge­
rone è il triplo di quella di Corebo e se quella di Cilone è il
doppio di quella di Corebo . . . )).

Ge = 3Co Ci = 2Co

32
« . . . allora quella di Gerone deve essere una volta e mezza
quella di Cilone».

Ge = 3/2 Ci

«Manca quella di Basileios>>, osservò Eratocle.


«Dell'incudine di Basileios sappiamo solo che è di poco
più piccola di quella di Corebo», continuò Pitagora. «Non
sappiamo esattamente di quanto. Ma potremmo assumere
che le manchi soltanto una piccola quantità. Un decimo,
ad esempio. Se fosse così, potremmo scrivere . . . ».

Ba = 1 1 / 1 0 Co

Eratocle e Filolao tacquero un po' smarriti. Quando ri­


presero a camminare, Eratocle cercava di sostenere Filolao
che roppicava più di prima.
«Capite dov'è la chiave?», li pungolò Pitagora, dato che
gli allievi continuavano a tacere.
Dopo qualche passo ancora, l'espressione sofferente di
Filolao cominciò a dissolversi. Improvvis �mente il giovane
si liberò dal braccio del compagno ed esclamò: «Ma sì! I
suoni sono consonanti solo se i rapporti tra le dimensio­
ni sono numeri abbastanza piccoli: i numeri 2 e 3 vanno
bene, mentre con IO e Il la consonanza scompare».
Pitagora guardò Filolao con soddisfazione, «Esatto!», e
il giovane si abbandonò a un sorriso compiaciuto. Alle loro
spalle, Eratocle fece un gesto di fastidio.
<<Quindi c'è un legame tra suoni e numeri?», riprese Fi­
lolao.
«Non solo tra suoni e numeri», gli spiegò Pitagora. «An­
che tra suoni e fatti del mondo fisico, quali, ad esempio, le
dimensioni delle incudini».
«Perché un suono percepito dal nostro orecchio dovreb­
be essere legato a entità astratte come i numeri? Perché i
numeri dovrebbero rappresentare i fatti del mondo fisico?»,
insistette a chiedere Filolao.
Stavano percorrendo l'ultimo tratto di strada che li se­
parava dalla scuola. Eratocle era rimasto un po' indietro e
rifletteva. Cercava un'osservazione intelligente con cui con­
tribuire al discorso. Così azzardò, «Forse perché la natura
dei numeri non è poi così astratta come crediamo?)),
Filolao lo guardò scettico. «Mi sembra un'ipotesi un po'
troppo audace».
«E invece potrebbe essere un'ipotesi interessante . . . ad­
dirittura rivoluzionaria!», si entusiasmò Pitagora. «Anche
se non abbiamo ancora elementi sufficienti per affermar­
lo . . . potrebbe trattarsi di una coincidenza . . . ma se la con­
fermassimo sarebbe una scoperta formidabile! Dobbiamo
approfondire».
«Dovremmo quindi procurarci incudini e martelli?»,
chiese Eratocle eccitato dalla reazione del maestro.
«Ma no!», lo rimbrottò Pitagora. «Anzi, per conferma­
re la re;gola generale sarebbe meglio replicare l'esperimento
con strumenti diversi, corde che vibrano ad esempio, op­
pure con strumenti a fiato».
«Be', le corde ce le darà il costruttore di lire», suggerì
Filolao. «Ha la bottega vicino al tempio di Hera, ma ci vor­
ranno quasi due ore per arrivare a Capo Lacinio».
«C'è anche quello nuovo .. . qui in città», ribatté Era­
tocle. «Ha aperto qualche giorno fa, difronte al tempio di
Apollo. Si chiama Butacide».
«Che vorreste procurarvi dal costruttore di lire?» chiese
una voce da dietro le loro spalle. A rivolgersi loro era stato
lin giovane atletico, slanciato, con una capigliatura fluente
e riccioluta che li guardava dalla porta d'ingresso.
Innovazioni per la scuola
Dove Pitagora limita l'accesso alla scuola e
interroga il dio Apollo.

Giugno 528 a.C., lo stesso giorno

«Buon giorno, Ippaso», disse Filolao. «Ti sei svegliato


più presto del solito oggi».
«Non riuscivo a dormire per il caldo».
I tre giovani entrarono insieme nel cortile della scuo­
la. Eratocle si guardò intorno. Era ancora presto e l'area
scoperta era deserta. Solo un paio di giovani allievi par­
lottavano vicino alla rampa dell'accesso occidentale. Erano
all'ombra del peristilio, il colonnato rettangolare coperto
che delimitava il cortile. Quella struttura era stata una no­
vità per Crotone. L aveva voluta Pitagora quando aveva fat­
to costruire la scuola, due anni dopo il suo arrivo in città. Il
maestro diceva che se si discute camminando all'aria aper­
ta gli orizzonti si ampliano: quel colonnato avrebbe reso
possibile discutere anche nelle giornate di pioggia e di sole
rovente. Vicino alla rampa opposta, Eratocle vide Trasibulo
che spazzava, cercando di rimanere all'ombra dell'edificio,
e, nonostante questo, era costretto a fermarsi di tanto in
tanto per asciugarsi la fronte. Trasibulo era lo schiavo che
Pitagora aveva acquistato qualche anno prima di stabilirsi
a Crotone, al mercato di Naucrati, in Egitto. A quei tem­
pi non poteva permettersene uno giovane, ma qualcosa lo
aveva attratto nelle movenze e nel volto di quell'uomo: il
tempo e l'esperienza avrebbero dato ragione all'intuito di
Pitagora. Quando, successivamente, il maestro aveva de-

3S
ciso che la schiavitù andasse abolita, Trasibulo era voluto
rimanere comunque con lui come suo libero servitore.
((Che cos'è questa storia delle corde e delle lire?)), chiese
Ippaso rivolto a Eratocle.
((No, è che... nella bottega del fabbro ... )), balbettò
quest'ultimo accorgendosi che Pitagora lo stava fissando.
Conosceva bene quello sguardo del maestro: diceva che
aveva qualcosa in mente.
((Andiamo nel mio scrittoio)), disse Pitagora. I quattro
attraversarono il porticato, varcarono l'accesso settentrio­
nale, salirono le scale ed entrarono nella stanza del maestro.
Un penetrante odore di ciceone li avvolse. Pitagora li invitò
a sedersi, prese la coppa che come al solito Trasibulo gli
aveva preparato e andò a sorseggiarla davanti alla finestra.
Rimase lì, in piedi, a guardare in silenzio il cielo, con il sole
del mattino a illuminarne la figura ossuta. Il candore del
chitone era quasi abbagliante. Un tempo, i lunghi capelli
gli avevano fruttato il soprannome di il Chiomato di Samo.
Adesso, il Chiomato sfoggiava ancora una lunga capiglia­
tura che però nella parte alta si era sensibilmente diradata
ed era screziata da qualche sottilissima linea argentea che,
come rivoli lungo il fianco di una montagna, ne striava
il colore scuro. La lunga barba era invece nera come un
tempo.
Il maestro guardava il cielo ma sembrava muovere im­
percettibilmente le labbra, quasi recitasse una preghiera
agli dèi.
((Dobbiamo creare due grupph>.
((Due gruppi?)), gli fece eco Filolao. ((Che cosa intendete,
maestro?)).
((La scuola. Dobbiamo organizzarla in modo diverso.
Non possiamo andare avanti con questa struttura aperta in
cui tutto. il sapere è a disposizione di ogni allievo)).
«Non capisco . .. », lo interruppe Ippaso. «E poi che c'en­
tra con la mia domanda?».
«E se ci trovassimo difronte a una grande scoperta? Una
scoperta che potrebbe fornirci le chiavi per l'interpretazio­
.
ne dell'Universo? In quel caso . . . non potremo permetterei
.di divulgarla e condividerla con chiunque».
<<Per quale motivo . . . maestro?», chiese Eratocle.
«Come possiamo essere sicuri che gli allievi della scuola
siano affidabili? Qu:ilcuno potrebbe usare le nostre cono­
scenze per scopi personali e malvagi. Per il potere. Per la
ricchezza».
«Quindi proponete di dividerci per controllare meglio
la diffusione della conoscenza?>>, domandò Filolao.
«Li struttureremo in modo che un gruppo acceda a tutta
la conoscenza e l'altro ne conosca solo una parte», si permi­
se di spiegare Eratocle.
<<Proprio così!», confermò Pitagora.
Ippaso corrugò la fronte. «Ma in questo modo il pro­
blema si riduce, non si azzera. Come possiamo essere sicuri
che tutti i membri del gruppo ristretto siano affidabili?»,
disse guardando con intenzione Eratocle. Quindi volse lo
sguardo verso il maestro e continuò con uno stretto sorriso
a segnargli volto. «E . . . quale sarebbe questa scoperta che
potrebbe fornirci la chiave per l'interpretazione dell'Uni­
verso?».
Pitagora fissò il metapontino per qualche secondo. «Tu,
caro ragazzo, dovresti imparare a mostrare un po' di rispet­
to. Soprattutto quando parli con persone che hanno più
anni ed esperienza di te. Eppure ne abbiamo parlato tante
volte durante le lezioni».
«Non intendevo mancar di rispetto a nessuno. Ho fatto
solo una domanda».

]7
«Spesso il volto e il tono dicono più delle parole: la tua
tracotanza affiora con evidenza. Non è la prima volta che
succede. Dovresti imparare a dominarti. Oltre a essere di­
sdicevole, questo atteggiamento avrà sempre l'effetto di in­
dispettire il tuo interlocutore».
«Ma era solo una domanda!».
«Filolao saprà raccontarti i fatti», tagliò corto il maestro
uscendo dalla stanza.
Questi obbedì e raccontò delle incudini e dei martel­
li, mentre Eratocle taceva aggrottato: il maestro gli aveva
di nuovo preferito Filolao. Pitagora rientrò nello scrittoio
proprio mentre il giovane concludeva la spiegazione.
«Hai capito, Ippaso? Esiste una correlazione tra numeri,
suoni e fenomeni del mondo fisico. Eratocle si è spinto
a ipotizzare che la natura dei numeri potrebbe non· essere
così astratta come crediamo. Ipotesi molto apprezzata dal
maestro, del resto», concluse Filolao volgendo lo sguardo a
Pitagora che scavalcava la soglia.
Eratocle apprezzò il riconoscimento e palesemente si
rasserenò. <dn effetti, il maestro ha detto che la mia po­
trebbe essere un'ipotesi rivoluzionaria. Ma che per confer­
marla dovremmo cercare di approfondire il fenomeno e di
riprodurlo con i suoni emessi da corde in vibrazione. Ecco
perché ci serve un costruttore di lire».
I tre allievi stettero in silenzio, rotto dopo qualche istan­
te da Pitagora. «Che ne pensa allora il nostro Ippaso?».
« È interessante . . . Potrebbe aprire nuovi orizzonti. Tut­
tavia . . . l'ipotesi che i numeri non siano entità astratte mi
sembra . . . discutibile. E non sono sicuro che mantenere la
scoperta accessibile solo a un gruppo di eletti sia la scelta
giusta per la scuola . . . ne tradiremmo lo spirito».

:w
«Invece io sono convinto che abbia ragione il maestro»,
sbottò Eracocle con così tanta decisione da attirarsi gli
sguardi di tutti: non era il suo tono consueto.
Lo stupore di Ippaso si tramutò in un ghigno. «Eracocle
è d'accordo con il maestro? Ma che novità!» .
. «Che c'è, Ippaso? Forse ti dà fastidio il fatto di non aver
avuto tu l'idea?».
«Il punto non è in discussione! La scuola sarà strutturata
in due gruppi. Domani vi comunicherò le regole».

Era stata una giornata interminabile e non solo per il


lunghissimo tragitto che il carro di Apollo aveva percorso
nei cieli sereni d'inizio ·estate, ma soprattutto per le scoper­
te e le discussioni che si erano succedute. Questo aveva in
mente Picagora sulla via di casa. Il sole era appena tramon­
tato, l'aria era calda e nell'agorà c'era ancora molca gente.
Gli veniva da pensare che fosse stata la giornata più fe­
conda della sua vita, con tutto che aveva già vissuto mo­
menti non privi di emozioni e intuizioni. Sentiva di essere
davanti a una scoperta importante. Forse la più importante
di tutte. Un senso di vertigine lo colse. Mai durante i suoi
viaggi aveva sentito parlare di una qualche correlazione tra
suoni e numeri. Eppure aveva incontrato i più grandi sa­
pienti del mondo.
Aveva vent'anni quando dalla nativa Samo si era imbar­
cato per Mileto, dove aveva incontrato Talete. Il vecchio
filosofo aveva prontamente riconosciuto la superiorità del
giovane Pitagora tra tutti gli allievi. A ottant'anni compiuti
Talete lo riconobbe come degno erede e volle trasmettergli
le più profonde delle sue conoscenze. Il giovane si fece con­
quistare dal metodo con cui il filosofo di Mileto verificava
la validità delle proprietà geometriche. Dimostrazione lo
chiamava: partiva da fatti noti e procedeva lungo una care-

:�f)
na di deduzioni cercando di produrre conclusioni logiche.
Così confermava proprietà e, occasionalmente, ne svelava
di nuove.
«Se vuoi diventare il più sapiente tra gli uomini, salpa
alla volta dell'Egitto e vai a conoscere i sacerdoti di Memfì
e quelli di Tebe», gli disse Talete quando sentì arrivare la
fine. Dai sacerdoti egizi Pitagora apprese un'interessante
proprietà del triangolo e dei quadrati. E lui, primo tra gli
uomini, la dimostrò applicando il metodo del suo maestro.
Assetato di conoscenze, dopo Memfì e Tebe, Pitago­
·

ra visitò Babilonia, la Fenicia e l'India. Ma nessuno tra i


sapienti che incontrò conosceva il metodo di Talete. Nel
tempo, Pitagora lo estese dalla geometria all'aritmetica e
iniziò a chiamare teoremi le proprietà che andava dimo­
strando. Per questo, presto, i suoi allievi cominciarono a
riferirsi al teorema del triangolo e dei quadrati come al te­
orema di Pitagora.
Ma che cos'erano le dimostrazioni di allora in confronto
alla scoperta di quel giorno? Nulla! Un esercizio per allievi!
La scoperta del legame tra numeri e suoni avrebbero rivo­
luzionato l'interpretazione dell'Universo.
Eppure . . . eppure quel giorno Pitagora non provava l'e­
mozione che lo aveva animato dopo altre scoperte. Non
sentiva nessuna euforia, nessun calore lo scaldava nell'ani­
mo. «Forse sto invecchiando», pensò. Oppure era stata la
discussione con Ippaso ad avergli lasciato l'amaro in bocca?
In quel ragazzo, in quegli occhi che si illuminavano di­
fronte alla visione di nuova conoscenza, Pitagora rivede­
va se stesso nei suoi viaggi giovanili. Peccato che a Ippaso
mancasse il rispetto: per le idee altrui, per i più anziani,
per tutti e per tutto. Assumeva posizioni troppo nette:
non un dubbio, non una sfumatura. In quello Ippaso non
gli somigliava affatto. Ma Pitagora era certo che, sotto

·10
la sua guida, il giovane avrebbe smussato le spigolosità del
carattere.
Di ricordo in ricordo, Pitagora era arrivato al tempio di
Apollo, a un centinaio di passi da casa sua: una visita al dio
gli avrebbe fatto bene. Salì i gradini della rampa, attraversò
la peristasi e il pronao ed entrò nella cella templare. Oltre
alla sacerdotessa Elettra, Pitagora era l'unico ad avervi ac­
cesso: era stata Elettra stessa a concederglielo, in nome dei
rapporti che il maestro aveva intrattenuto con Temistoclea,
la sacerdotessa di Apollo a Delfi.

Pitagora era nato in una famiglia di ricchi mercanti sami


durante un viaggio d'affari che il padre Mnesarco, incisore
di gemme, aveva intrapreso assieme alla moglie Partenide.
La prima tappa del viaggio fu Delfi. Lì Mnesarco volle vi­
sitare l'oracolo di Apollo, la sacerdotessa Pitia, che gli an­
nunciò la nascita di un figlio dal destino straordinario. Fu
per quella profezia che Mnesarco cambiò il nome della mo­
glie in Pitai e decise che avrebbe chiamato il figlio Pitagora.
Il bambino nacque qualche mese dopo a Sidone in Fenicia.
Una volta tornati a Samo, Mnesarco fece costruire un tem­
pio dedicato ad Apollo. E così c'era chi a Crotone sosteneva
che Pitagora fosse figlio di Apollo.

Appena entrato nella cella templare, Pitagora si sentì


pervadere da una sensazione di frescura. Inspirò profon­
damente due volte e si inebriò dei profumi degli incensi
che la sacerdotessa Elettra sceglieva con cura. Le lam.pade
rischiaravano la grande statua di Apollo, seduto e con una
lira sulla gamba sinistra.
«Oh, divino Apollo!», invocò Pitagora. «Dio del­
la musica e della profezia, illuminami in questo mo­
mento decisivo per me, per la scuola e per l'umanità.

li
Quella che abbiamo trovata è dawero una così grande
rivelazione? I numeri sono dawero il mezzo per decifra­
re le leggi dell'Universo?)). Nonostante la mole, la sta­
tua di pietra gli sembrava irradiare leggerezza. Leggerez­
za e austerità. «0 piuttosto stiamo cadendo vittime di
un abbaglio? Rispondimi divino Apollo!)). La luce delle
lampade faceva ondeggiare la lunga capigliatura ricciolu­
ta della statua. «Se la nostra intuizione è giusta, dovrem­
mo cambiare le regole della scuola per proteggerla? Vie­
ni in mio soccorso in questa troppo ardua decisione!)).
Anche questa volta la voce arrivò come una profonda
vibrazione interiore che saliva da stomaco, diaframma e
viscere. «Non mi è concesso rivelare verità divine. Ma è
opportuno che i mortali proteggano i doni che ricevono)).
«C'è altro che tu voglia comunicarci divino Apollo?)).
«La scuola è incompleta. Dai ascolto a Teano. E che la
mia androgina natura possa esservi d'ispirazione)). Pitagora
ebbe chiaro cosa volevano dirgli i messaggi del dio.
Gli allenamenti olimpici
Dove gli allievi si confrontano nella lotta e
Pitagora cambia le regole della scuola nonostante
l'opposizione di alcuni.

Luglio 528 a. C., qualche giorno dopo

La finta di Ippaso aveva tratto in inganno Eratocle che


si era sbilanciato troppo. Ippaso ne aveva immediatamente
approfittato e ora, nonostante la superiorità fisica, Eratocle
rischiava di ritrovarsi steso a terra. Il metapontino era un
maestro in mosse d'astuzia e per di più conosceva bene i
punti deboli dell'avversario. Non tanto a livello fisico, lì
sarebbe stato difficile competere, quanto a livello mentale,
dove le debolezze dell'altro gli erano ben note.
«Resisti! Resisti! Le gambe! Fai forza sulle gambe! Non
devi cedere adesso!».
Filolao li seguiva mantenendosi a distanza ravvicinata.
Ogni tanto si spostava con passo zoppicante per vedere me­
glio qualche mossa.
Eratocle era possente e piuttosto sgraziato, a differenza
di Ippaso che era più un corridore che un lottatore. I corpi
avvinghiati dei giovani erano madidi di sudore, sia per lo
sforzo sia per il caldo di quelle giornate.
«Fai forza su quel braccio! Sta per cadere!». Filolao sem­
brava in simbiosi con i corpi dei compagni. Mimava zoppi­
cando le mosse dell'uno e quelle dell'altro dando vita a una
sorta di teatrino che parodiava la lotta, il tutto condito da
veementi consigli al lottatore di turno: tutta quell'attività
aveva fatto inzuppare di sudore anche il suo chitone.
Quando ormai sembrava che Eratode stesse per cedere,
questi ebbe uno scatto di orgoglio: non era mai stato battu­
to da Ippaso e non voleva subire quell'umiliazione proprio
qualche giorno dopo il loro litigio. Riuscì a far ruotare il
corpo sulla gamba destra e ad afferrare il fianco sinistro di
Ippaso.
Persino Milo ne, l'allenatore, che finò ad allora li aveva
seguiti senza troppa partecipazione, ebbe un sussulto, che
cercò di celare. Doveva mantenersi imparziale, ma in cuor
suo sperava che Ippaso fosse sconfitto.
Filolao lanciò un «Vai, Eratode!» che gli morì in gola
perché Ippaso fu velocissimo a sfruttare la rotazione dell' av­
versario, ad assecondarla e ad amplificarla. Prima di crol­
lare, Eratode sentì il piede di Ippaso sfiorargli il polpaccio
destro e in un batter d'occhio si ritrovò con la schiena a
terra e Ippaso sopra, un ghigno in volto, che gli bloccava
le braccia.
Rimasero così per qualche istante. Filolao li fissava, am­
mutolito e con la bocca semiaperta. Milone non riusciva a
celare le proprie emozioni e, dall'alto della sua mastodon­
tica mole, guardava i giovani a terra con severità e disap­
punto.
Non appena si fu ripreso dallo sbandamento, Eratode,
la fronte madida di sudore e il petto ansimante, si libe­
rò bruscamente dalla presa, si risollevò da terra e, fissando
Milone, gridò «Mi ha colpito alle gambe! Ha infranto la
regola! Merita una punizione».
«Ma che succede al nostro Eratode? Non riesce ad ac­
cettare le sconfitte?», lo schernì Ippaso.
Eratode si fece rosso in viso, le vene del collo gonfie.
Fronte a fronte all'avversario, gli esplose in faccia una ri­
sposta <<Questa non è una sconfitta! Quest'a è una caro­
gnata! Una tua spregevole carognata!»; quindi si allontanò
spintonandolo.

44
Ippaso indietreggiò senza scomporsi, ((Non è bello esse�
re superato da chi ritieni più debole, vero Eratocle?».
((Bastardo!», rispose Eratocle spingendolo di nuovo.
I due contendenti si erano spostati verso la parte centra­
le dello stadio. I..:allenatore capì che il litigio stava per dege­
nerare. Era sul punto di intervenire quando il suo sguardo
fu calamitato da un bagliore in alto. Reagì d'istinto. La co­
lossale muscolatura si contrasse, il corpo si inarcò e scattò
con un balzo animalesco. La mastodontica mole sembrò
aver perso peso per librarsi in aria. I..:allenatore concluse
la parabola andando ad abbattersi a mani aperte contro il
petto di Ippaso che fu scaraventato dieci passi più in là.
Mentre Milone stava ancora rotolando a terra e il suo pileo
rotolava con lui, un giavellotto andò a conficcarsi nel pun­
to in cui Ippaso si trovava appena un attimo prima.
Rimasero pietrificati: Eratocle, a un paio di piedi dal
giavellotto; Filolao, poco più in là, che muoveva lentamen­
te lo sguardo tra Ippaso, il giavellotto e l'allenatore; lppaso
stesso, a terra, tramortito; e Milone, seduto sull'erba, pal­
lido in volto.
Il primo a riprendersi fu quest'ultimo che alzatosi si vol­
�ò verso la direzione da cui era venuto il giavellotto ((Ca­
ronda!», tuonò. ((Per tutti gli dèi! Che vi salta in mente?!
Avete deciso di spedirei anzitempo all'Ade?».
Caronda stava allenando i pentathleti. ((No, Milone, mi
sembra che siate voi ad aver deciso di fare una visita a Cer­
bero», rispose. ((Ma se proprio ci tenete ad andare a cono­
scere il cane a tre teste, potreste scegliere modi più semplici
che farvi infilzare dai nostri giavellotti».
Solo allora Milone si rese conto che, nel parapiglia, era­
no finiti inavvertitamente nell'area dei lanci. Rivolse un
gesto di scuse a Caro nda, poi, guardando Eratocle _e Ippaso
li apostrofò con voce bassa, come il tuono di un temporale
distante. ((Siete due idioti».

/1 �;
Milo ne era l'allenatore dei lottatori. E che allenatore!
La prima ad accorgersi di quanto fosse eccezionale era stata
la levatrice che aveva preannunciato a Idotea un parto ge­
mellare e non aveva creduto ai propri occhi quando si era
ritrovata tra le mani quell'unico enorme neonato.
Lappetito del lattante era insaziabile. Suo padre Alceo
dovette presto procurarsi una capra perché il latte di Ido­
tea non bastava mai a sfamare il primogenito. Dopo un
mese Alceo acquistò una seconda capra. A sei mesi Milone
mangiava come un adulto, pur non rinunciando all'adora­
to latte di capra. E naturalmente cresceva a un ritmo im­
pressionante.
Oltre ad avergli fatto da balie, le capre erano diventa­
te le sue compagne di gioco. A due anni uno dei suoi di­
vertimenti preferiti consisteva nell'andare sotto una capra,
succhiare un po' di latte e sollevarla sulle spalle. L animale
rispondeva con una belata felice.
Ben presto a Crotone si diffuse la voce che Milone fosse
il figlio di Eracle, colui che aveva pregato gli dèi di far sor­
gere una florida città intorno al sepolcro dell'amico Croto­
ne, l'eroe figlio di Eaco, da cui la città aveva preso il nome.
Dopo tre anni, Alceo pensò di affidare il figlio a un pre­
cettore, Trofonio di Metaponto. Questi comprese subito
che le virtù fisiche del bambino dovevano essere indirizzate
verso la più importante tra le discipline da combattimento:
la lotta.
A sette anni, Milone iniziò a frequentare la scuola. Era
di dimensioni spropositate rispetto ai compagni. Il loro in­
segnante non era certo un gigante, ma quando stavano tut­
ti assieme sembrava che in classe di insegnanti ce ne fossero
due, tale era la statura di Milone.
Qualche volta al piccolo Milone capitava di usare la
forza per sottomettere gli altri bambini, ma non così spes-

46
so come si potrebbe immaginare. Quasi tutti provavano
sentimenti di rispetto e di timore nei suoi confronti. Era
raro che qualche bambino osasse contraddirlo o addirittura
affrontarlo. Non era rarissimo tuttavia che suscitasse senti­
menti d'invidia.
Gli insegnanti si trovarono d'accordo col precettore
Trofonio e continuarono a incoraggiare e coltivare le doti
atletiche del bambino. Nelle altre discipline scolastiche Mi­
Ione non brillava altrettanto, ma non era neppure tra i peg­
giori: imparava a memoria i versi di Omero e, con il tempo,
si rivelò piuttosto dotato con i numeri e con la geometria,
ma anche con la musica e con la lira. Le discipline in cui
zoppicava erano invece la retorica e la scrittura.
Negli incontri di lotta tra coetanei invece non c'era pro­
prio storia: finivano tutti a terra dopo pochi istanti. Gli
insegnanti avevano quindi cominciato a farlo combattere
con bambini via via più grandi: ma anche contro di questi,
Milone vinceva quasi sempre. Ben presto tutti si convinse­
ro che nel suo destino fosse iscritto un futuro di campione
olimpico.
Quando compì dieci anni, un allenatore iniziò a pre­
parare Milone per le gare di lotta della categoria fanciulli.
Volevano che partecipasse ai giochi olimpici della sessante­
sima Olimpiade, che si sarebbero tenuti da lì a due anni,
quando in effetti Milone si imbarcò per la prima volta e
raggiunse Olimpia.

A quei tempi Eratocle, Filolao e Ippaso avevano comin­


ciato da poco l'apprendimento delle lettere dell'alfabeto e
vivevano in tre città diverse: Mileto, Crotone e Metaponto.
Nonostante la tenera età, Filolao, come quasi tutti i bam­
bini e i ragazzi di Crotone, nutriva una smisurata ammira­
zione per Milone e si dilettava ad ascoltare e a ripetere gli
aneddoti che circolavano sulle sue gesta.
Dal giorno in cui Milone si era imbarcato per Olim­
pia, i ragazzi di Crotone attendevano sue notizie, eccitati
e ansiosi. Trascorrevano le giornate al porto e non appena
avvistavano un'imbarcazione proveniente da oriente si spo­
stavano in massa per circondare e interrogare l'equipaggio.
Dopo alcuni giorni iniziarono ad arrivare notizie, raramen­
te di prima mano, a volte di seconda o più spesso di terza o
quarta. In quei racconti non mancavano le contraddizioni,
che restituivano un po' di voce ai pochi detrattori di Milo­
ne. «Lo dicevo io, qui siamo nelle colonie, ma nella madre
patria troverà pane per i suoi denti», per rigettarli da lì a
poco nello sconforto. <& imbattibile il nostro Milone. Tie­
ne alto l'onore di Crotone!».
Un giorno infine arrivò la notizia che Milone ave�a sba­
ragliato senza difficoltà il penultimo avversario. La mattina
successiva mezza Crotone invase il porto. Un loro figlio ga­
reggiava nella finale della più importante disciplina olim­
pica! Quel giorno, tuttavia, non giunsero notizie. E la sera
non mancarono accese discussioni tra detrattori e apologeti
con dettagliati pronostici sul possibile esito.
Solo nel pomeriggio del giorno successivo una pente­
camera arrivò dalle coste occidentali del Peloponneso por­
tando la straordinaria notizia: Milone era stato incoronato
come migliore lottatore tra rutti i giovani greci della madre
patria e delle colonie.
Nel giorno del ritorno del campione, al porto c'era rurra
la città con in resta le aurorirà e gli esponenti dell'aristo­
crazia. Furono indette tre giornate di festeggiamenti il cui
inizio coincise con la fine della festa in onore di Achille.
Milone fu portato in trionfo. Il corteo risalì il pendio fino
alla cima della collina, attraversò l'acropoli e s'incammi­
nò verso Capo Lacinio. Costeggiò il mare e raggiunse il
promontorio dopo più di due ore. Molti videro in quella

4H
manifestazione, che riecheggiava le processioni in onore di
Achille, quasi un passaggio di testimone dall'antico eroe al
giovane campione.
Giunti al capo, i crotonesi trovarono i venditori pronti
per la festa. E a fare i migliori affari furono le bancarelle
di vino. Quelle tre giornate rimasero incise nella memoria
cittadina e furono immortalate da una statua di Milone che
combatte con uri leone. ·

Il sole era ormai alto e non consentiva di fare attività


fisica, inoltre, in seguito all'incidente, Ippaso ed Eratocle
avevano deciso di interrompere gli allenamenti. Dopo la
rampogna di Milone, i due giovani sembravano essersi ri­
conciliati. Ovviamente senza troppo entusiasmo.
Durante il tragitto tra lo stadio e la scuola, mentre pas­
savano difronte alla bottega di Gerone, Filolao non seppe
trattenersi dal raccontare a Milone la scoperta e le discus­
sioni di qualche giorno prima. Gli illustrò anche come la
visione di quei nuovi orizzonti intellettuali avesse indotto
il maestro a ripensare l'organizzazione della scuola. Quello
su cui Filolao invece glissò fu il diverbio che ne era seguito.
Non voleva riaccendere gli animi appena placati, visto che
fino a quel momento né Ippaso né Eratocle erano interve­
nuti nella discussione e avevano mantenuto un greve silen­
zio per tutto il percorso.
Giunti nei pressi della scuola scorsero Pitagora venire
verso di loro. Man mano che si avvicinava, lessero nella po­
stura del maestro i segni della stanchezza. Rispetto ai giorni
precedenti sembrava invecchiato di qualche anno.
«Ho qualcosa d'importante da dirvi», annunciò con un
tono grave che fece scendere una cappa di silenzio. Le rughe
sul suo volto scarno apparivano più profonde del solito.

·1 'J
«Su queste dieci tavolette ho stilato le nostre regole. A
esse d'ora in avanti dovremo riferirei per ogni decisione
riguardante la scuola».
A rompere il silenzio che seguì l'annuncio fu Filolao.
«Potreste dirci, maestro, quali saranno questi cambiamen­
(l.
· � ».

Pitagora li fece entrare nello scrittoio, bevve dalla cop­


pa il ciceone e parlò. «Non saremo più una scuola aperta
a chiunque. I giovani che vogliono entrare sono diventati
troppi».
«Questo dovrebbe inorgoglirvi, maestro. Anzi dovrebbe
essere motivo d'orgoglio sia per voi sia per noi allievi».
«Ippaso. . . noi non dobbiamo inorgoglirei! Noi abbiamo
il dovere di proteggere la sapienza che ci è stata donata.
Un obbligo che ci impone di mettere alla prova chi vuole
farla sua. Dobbiamo capire le intenzioni degli aspiranti e
dobbiamo impedire che la sapienza cada in mani spregiu­
dicate».
«Ragionevole», sottolineò Milone.
«Ragionevole e fondato», aggiunse Eratocle.
«Devo ammettere, Ippaso, che anch'io mi trovo d'accor­
do», concluse Filolao.
A Ippaso non piaceva subire pressioni. D'altra parte se
Pitagora e tutti gli altri erano d'accordo, qualche dubbio
non poteva non venirgli. «Quali sono queste regole che
ci permetterebbero di proteggere la nostra sapienza?», do­
.
mandò tornando a poggiarsi allo schienale. .
«Esamineremo gli aspiranti allievi. Ma non solo il loro
intelletto, come facciamo ora. Con le nuove regole verifi­
cheremo che ogni membro della scuola abbia animo puro
e spirito cristallino. Ogni allievo deve essere mosso dal solo
amore per la sapienza. Ognuno di noi dovrà mostrarsi ca­
pace di mantenere un segreto e di osservare il silenzio».

r; o
«Sarà arduo, maestro, verificare tutte queste qualità con
un solo esame», osservò Filolao.
«No, se l'esame durerà tre anni».
«Tre anni?!».
«Mi sembra una durata adeguata per indagare l'animo
dei giovani aspiranti», tuonò Milone.
<dl minimo necessario», gli fece eco Eratocle.
«Con quali criteri comprenderemo se il desiderio di ap­
prendere sia autentico?», chiese Filolao.
Pitagora prese in mano una delle tavolette. « È qui»,
disse mostrando loro una parte del testo. « È la lista delle
attitudini che tutti gli allievi dovranno possedere. E ho sta­
bilito anche le indicazioni per vagliarle».
Tutti volsero lo sguardo verso la tavoletta, anche se nes­
suno riusciva a leggervi il testo. Pitagora lo riassunse.
«Quindi dopo aver superato l'ammissione entreranno a
far parte del primo dei due gruppi?».
«Vedo che hai ben compreso, Eratocle. Quelli che sa­
ranno ammessi entreranno nella scuola come acusmatici».
«Acusmatici?», chiese Ippaso. «Cioè ascoltatori? Signifi­
ca che potranno solo ascoltare?».
«Potranno solo ascoltare senza mai interloquire. Non
saranno ammessi a tutte le lezioni. Ascolteranno quelle in
cui mostreremo le più elementari tra le nostre conoscen­
ze, nella loro versione più superficiale: mai riveleremo la
profonda essenza della verità a cui si accede attraverso la
dimostraZione».
«Dopo quanto · tempo potranno passare al secondo
gruppo?>>, domandò Eratocle.
«Niente tempi prestabiliti. Gli acusmatici potrebbe­
ro essere ammessi nel gruppo dei matematici dopo pochi
mesi, dopo qualche anno o addirittura mai».

51
«Quindi matematici sarà il nome dei membri del secon­
do gruppo)�. sottolineò Filolao.
«Matematici . . . coloro che desiderano apprendere. Sa­
ranno insieme matematici e filosofi. Desiderosi di appren­
dere e amanti della sapienza. Saranno i pionieri delle nuove
discipline)).
((Che faremo se uno di questi acusmatici si rivelerà ina­
deguato?)), si preoccupò Ippaso.
((Se un acusmatico ci deluderà, lo estrometterem? . E per
noi sarà come morto. Ma non prima di avergli restituito il
doppio dei beni che ha portato in dote alla scuola entran­
dovi)).
((Le nuove regole . . . sono queste?)), ebbe bisogno di chie­
dere Filolao.
Pitagora tacque e guardò gli allievi uno a uno. · ((Ce n'è
ancora una. Una regola di inclusione, non di esClusione: le
donne saranno ammesse alla scuola)).
((Le donne?)), esplose Milo ne. ((Sarebbe . . . contro ogni
logica . . . contro il senso comune . . . contro la tradizione)) .
((Maestro)), gli diede man forte Eratocle, ((le donne non
hanno mai frequentato le scuole. Tutto quello che serve per
la loro vita di mogli e di madri lo imparano in casa. Potreb­
be essere pericoloso renderle partecipi di conoscenze più
profonde. Se proprio dobbiamo . . . che siano acusmatiche)).
Ippaso non perse l'occasione di schierarsi con Pitagora.
(dnvece secondo me dovrebbero essere ammesse a pieno ti­
tolo)) , disse con sicurezza.
(dppaso è nel giusto. Per le donne varranno esattamente
le stesse regole che valgono per gli uomini)).
((Ma avranno le qualità razionali adeguate? Riusciranno
a dominare le loro emozioni?)), domandò Milone.
((Tra i miei insegnanti, a Delfi, c'è stata una donna: Te­
mistoclea, la sacerdotessa di Apollo. Fu lei a trasmettermi
buona parte delle mia dottrina etica e morale)).

sz
«E i numeri? E la geometria? Non ci occupiamo solo
di etica e di morale)), intervenne Eratocle. <<Le donne sono
molto dotate nella sfera delle emozioni e in quella dei sen­
timenti, ma saranno in grado di apprendere concetti com­
plessi come i nostri?)).
«Se non vi basta l'esempio di Temistoclea, pensate a
mia moglie. Sei anni fa, qualche mese dopo il mio arri­
vo a Crotone, Teano interruppe una vecchia consuetudi­
ne venendo ad ascoltare i miei discorsi. Era la prima volta
che una donna crotonese partecipava a eventi pubblici di
questo tipo)). Pitagora notò l'espressione un po' smarrita di
Ippaso e si rivolse al giovane. «È così: tu a quei tempi vivevi
a Metaponto, ma gli altri ricordano l'episodio)). I tre giova­
ni annuirono. «Io ed Eratocle eravamo arrivati da poco da
Samo)), continuò il maestro. «l miei rapporti con il tiran­
no Policrate erano diventati difficili, avevo sentito dire che
nell'Italia greca c'era abbondanza di uomini ben disposti
verso il sapere, e decisi di trasferirmi a Crotone)),
«Appena giunto in città, il maestro cominciò a tenere
discorsi pubblici per noi ragazzi)), spiegò Filolao a lppaso.
«E il suo carisma attirava anche molti adulti)).
«Tra loro c'era il padre di Teano>>, proseguì Pitagora. «A
furia di sentire i suoi resoconti, Teano divenne curiosa e
volle assistere di persona)),
La ragazza era arrivata nell'agorà insieme al padre e. pre­
se ad andarci regolarmente. In quei giorni � Crotone non
si parlava d'altro. E Teano non perdeva uno dei discorsi di
Pitagora. Alcuni mesi dopo, il maestro e la ragazza si spo­
sarono e, mentre Pitagora era impegnato nella fondazione
della scuola, nacque Muia.
« . . . per tornare alla capacità delle donne di appren­
dere concetti complessi, ho voluto citare Teano pro­
prio perché lei è il migliore esempio che io conosca.
Nonostante gli impegni domestici ha voluto che conti­
nuassi a raccontarle i fatti della scuola e ora conosce alla
perfezione la nostra dottrina e la nostra scienza. Ieri, ad
esempio, dopo aver sentito il racconto della nuova scoper­
ta mi ha suggerito un'ottima tecnica per proseguire l' espe­
rimento con le corde», senza lasciar spazio a domande in
merito, Pitagora concluse. «Credo che il modo migliore
di inaugurare questa nuova regola sia ammettere proprio
Teano». Nessuno ebbe da obiettare. Ippaso sorrise e il suo
.
sorriso sancì l'assenso di tutti alle nuove regole.
Musica e numeri
Dove Pitagora e Teano indagano i rapporti tra
musica e numeri e Ippaso, non convinto, sfida Teano
con un'ipotesi alternativa.

Agosto 528 a. C., un mese dopo

<<Uno, due, tre. . . )), la voce del maestro proveniva dall'of­


ficina della scuola. « ... quattro, cinque, sei...)), gli fece eco
Teano. Incuriosito Ippaso vi entrò.
«Ippaso, siediti)), lo invitò la donna mentre passava l'ul­
tima corda a Trasibulo. Il servitore dispose il filamento di
intestino di capra accanto agli altri sei su di una singolare
struttura in legno. Era una sorta di tavolo rettangolare con
due massicci ponticelli paralleli ai lati corti e fissati ai due
estremi. Le sette corde, equidistanti tra loro e parallele ai
lati lunghi, poggiavano sui ponticelli. A uno dei due erano
fissate per un'estremità le sette corde, l'altra pendeva libera
dall'altro lato.
«Lesperimento con le corde si sta finalmente concretiz­
zando)), sorrise Ippaso.
«Sì, ma Pitagora non ha voluto darmi ascolto)), gli ri­
spose Teano. «Sostiene che per riprodurre le consonanze
delle incudini si devono appendere pesi diversi a corde di
lunghezza uguale e ugual spessore)).
«Mi sembra chiaro, Teano)) inte·rvenne il maestro. «Non
capisco perché pensi altrimenti. Nella bottega di Gerone
abbiamo visto che incudini doppie oppure l'una i due ter­
zi dell'altra producono consonanze. Sono i rapporti con i
numeri l , 2 e 3 a dare luogo a consonanze. Numeri più
grandi, come 9 e l O, danno dissonanze.
Con le corde voglio vedere che cosa succede con numeri
più piccoli di 9, come 4/3, 5/4 e 615».
«Vedo le corde, ma non i pesi», osservò Ippaso.
«Eccoli», disse Pitagora e gli indicò un vassoio. <<Li ho
fatti forgiare da Filippo, l'orafo, per avere pesi precisi. Il
secondo è il doppio del primo; il terzo è i 3/2 del secondo,
il quarto è i 4/3 del terzo e così via. I.: idea è di far vibrare la
prima corda con la seconda, la seconda con la terza, la terza
con la quarta . . . ».
Ippaso ci pensò un attimo. «Ragionevole: così il secon­
do peso sarà il doppio del primo, il terzo il triplo, il quarto
il quadruplo ... ». Poi si volse a Teano: «Come mai tu dis­
senti.· � ».
« È l'intuito: mi dice che non funzionerà. Secondo me i
pesi dovrebbero essere identici e a variare dovrebbero essere
le lunghezze delle corde».
«Ma no!», ribatté Pitagora. «Se per le incudini la conso­
nanza dipende dai pesi, allora anche nel nostro esperimen­
to dovrebbe dipendere dai rapporti tra i pesi applicati alle
corde. Verifichiamolo! . . . Trasibulo, i pesi».
Il servitore portò il vassoio di legno con i sette cilindri
d'argento ordinati dal più piccolo al più grande. In cima a
ciascuno c'era un occhiello. Il maestro vi legò l'estremità
libera della corda corrispondente e cominciò a far vibrare
le corde con un plettro di corno. Pizzicò la prima corda
e la seconda. . . c'era qualcosa di strano. Pitagora corrugò
la fronte. Fermò la vibrazione della prima con un dito e
pizzicò la seconda e la terza. Poi ripeté l'operazione con
la terza e la quarta, con la quarta e la quinta, con la quin­
ta e la sesta. A questo punto il maestro si fermò. Scosse
la testa. C'era veramente qualcosa di strano. Il risultato
era diverso da quello ascoltato nella bottega di Gerone.
Teano sorrideva. «Immagino che ora · non opporrai più
obiezioni contro l'esperimento da me suggerito)), gli sor­
nse.
<<No, non mi opporrò. Proviamo)).
La donna prese due tavolette. Su di una scrisse: "Per
Filippo. Sette pesi identici al più grande dell'ultimo ordi­
ne". E sull'altra: "Per Butacide. Sette corde le cui lunghezze
siano uno, due, tre, quattro, cinque, sei e sette palmi". Le
porse quindi a Trasibulo. «Portale all'orafo e al costruttore
di lire)).
Ippaso era rimasto assorto fino a quel momento. Quan­
do il servitore uscì, ruppe il silenzio. «Non sono d'accor­
do. Credo che l'errore sia nell'uso delle corde. Ciò che vale
per le incudini non vale per le corde: sono oggetti troppo
diversi. Dovremmo usare dischi di bronzo. E dovrebbero
essere gli spessori dei dischi a stare in quei rapporti)).
«Non lo escludo)), rispose cauto Pitagora. «Ma se riuscis­
simo a riprodurre la consonanza con oggetti tanto diversi
dalle incudini, la nostra ipotesi ne uscirebbe rafforzata)).
«Il mio esperimento è più fondato)), ribadì Ippaso de­
ciso a non arrendersi. «Oggi stesso mi recherò da Gerone
per fargli forgiare i sette dischi di bronzo. E poi, se vorrete,
proveremo insieme i due esperimenti)).

Corde, pesi e dischi furono pronti dopo dieci giorni. La


voce che ci sarebbe stata una competizione tra esperimenti
si era diffusa rapidamente tra gli allievi e, quel giorno, l' of­
ficina della scuola era piuttosto affollata nonostante Pitago­
ra avesse ammesso i soli matematici. Il clima caldo e l' effet­
to della calca contribuivano a rendere l'atmosfera alquanto
soffocante. Trasibulo aveva predisposto gli strumenti per la
verifica sudando per buona parte della mattinata. Stavolta i
ponticelli erano sette e la loro disposizione curva ricordava

S7
la parte superiore della lira. Le corde erano mantenute in
tensione da sette cilindri di ugual dimensione che pende­
vano da uno dei lati corti della struttura di legno. Analoga­
mente sette dischi di bronzo disposti in ordine di spessore
pendevano dall'asse di un'altra struttura di legno.
Teano e Ippaso entrarono insieme nell'officina. La don­
na, vestita con un peplo color zafferano legato in vita· da
una cintura turchese, aveva in mano un plettro. Ippaso,
con indosso il solito chitone bianco, teneva in mano due
bacchette di legno.
Si posizionarono ognuno difronte al proprio strumento.
Calò il silenzio. Filolao ed Eratocle attendevano trepidanti
in prima fila. Dietro di loro Milo ne, dall'alto della sua mole
di recente campione olimpico, sembrava impassibile. D'un
tratto la porta sul retro si aprì ed entrò Pitagora. Il momen­
to della verifica era giunto. A un cenno del maestro, Teano
e Ippaso si avvicinarono agli strumenti. A cominciare fu
la moglie del maestro. Pizzicò la prima corda e poi la se­
conda di lunghezza doppia rispetto alla prima: consonanza
perfetta. Si voltò quindi a guardare Ippaso con un sorriso
che solo il metapontino riuscì a scorgere. Egli sostenne lo
sguardo con fierezza e quindi colpì il primo e il secondo
disco. Il risultato fu analogo: consonanza ugualmente per­
fetta. Ippaso restituì a Teano il sorriso.
Andarono avanti. Seconda e terza corda; secondo e terzo
disco: stessa consonanza. Il confronto si faceva via via più
avvincente. Nel silenzio assoluto dell'officina, si sentivano
solo le vibrazioni sonore.
Terza e quarta corda; terzo e quarto disco: stessa con­
sonanza. L aria dell'officina si era fatta più pesante e sul
chitone di Ippaso comparivano chiazze di sudore.
Quarta e quinta corda. Teano si ritrasse. Un mormorio
si diffuse tra i presenti. La sequenza non era sembrata con­
sonante. Teano guardò il marito. Poi si voltò verso Ippaso.
Al giovane scappò una risata, ma mentre si girava verso i di­
schi, l'euforia l'abbandonò. Titubante sollevò la bacchetta.
Rimase immobile per un istante e colpì il quarto disco. Poi,
violentemente, quasi a voler ricacciare il pensiero che gli
era balenato in mente, sferrò un fendente al quinto disco.
Il suo volto si contrasse: pensiero fondato! Prima, stesse
consonanze, ora stesse dissonanze. Gli esperimenti conti­
nuavano a procedere di pari passo. Il mormorio crebbe in
intensità. Tra tutti i presenti il solo Pitagora stava sorriden­
do. «Bene!», disse il maestro ad alta voce. «Abbiamo trovato
il limite!», concluse con una nota di esultanza.
«Che limite, maestro?», lo interrogò Filolao dalla prima
fila.
«Quello che separa la consonanza dalla dissonanza. E
quel limite è un numero! Un numero . . . capite?».
«La mia osservazione era giusta!», esultò Eratocle. «Se i
numeri regolano il mondo fisico, la loro natura non può
essere astratta».
«Penso proprio che tu abbia ragione. Mi convinco sem­
pre di più che nei numeri siano celate le leggi che regolano
la natura», chiosò soddisfatto Pitagora.
«Credo che ci stiamo spingendo un po' troppo in là con
l'immaginazione», osservò Ippaso, catturando l'attenzione
di tutti. «Pur ammettendo che i numeri ci forniscano uno
strumento per interpretare i fenomeni della natura, come
questi esperimenti sembrano suggerire, ciò non esclude che
essi possano essere comunque entità astratte».
«Ma come potrebbero oggetti che esistono solo nel­
le nostre menti spiegare fenomeni concreti?», lo incalzò
Eratocle. «E, poi, ogni singola mente potrebbe sviluppare
un'idea diversa di numero. Mentre noi sappiamo che si
tratta di un concetto universale e immutabile)).
«Non saprei dare una risposta precisa, ma credo che i
numeri potrebbero essere una creazione delle nostre menti
e sembrarci correlati ai fenomeni naturali solo perché noi
osserviamo tutti gli eventi attraverso il filtro parziale del
nostro intelletto)).
«Non mi sembra un'interpretazione plausibile: penso
che Eratocle abbia ragione)), tagliò corto Pitagora.
«Anch'io mi trovo d'accordo con Eratocle e credo che
questa idea dei numeri creati dalle menti umane sia sba­
gliata)), intervenne Teano.
«Durante i miei viaggi)), riprese Pitagora, «non ho mai
incontrato una mente razionale che possedesse un'idea di­
versa del concetto di numero. Tutti i sapienti con cui ho
parlato - egiziani, babilonesi, fenici, indiani - tutti con­
dividevano il medesimo concetto di numero. Questo fat­
to, unito alla scoperta che ci troviamo difronte, mi porta a
pensare non solo che il Numero sia un'entità concreta, ma
che abbia anche una natura divina. Se attraverso i nume­
ri riusciamo a interpretare le leggi della natura, non può
esserci altra spiegazione. Ma se qualcuno sarà in grado di
fornirmi una diversa interpretazione altrettanto soddisfa­
cente, sarò ben lieto di cambiare idea)), concluse il maestro
guardando Ippaso. Il giovane gli restituì uno sg�ardo vena­
to di rabbia, ma tacque.
<<Ad esempio)), continuò Pitagora, «che cosa possiamo
dedurre dai risultati appena osservati?)).
«Sembra che i numeri l , 2, 3 e 4 abbiano un ruolo pri­
vilegiato rispetto agli altri)), tentò Filolao.
«Giusta osservazione)), disse Teano annuendo. <<Paiono
essere gli unici a generare consonanze. Dev'esserci qualcosa
di speciale nella loro natura)).

60
«Lo credo anch'io», confermò Pitagora. <<Questi nume­
ri devono rappresentare un nucleo numerico fondamen­
tale della consonanza. Dovremo approfondire e sviscerare
la loro essenza)), Il maestro spostò la tavola più grande in
modo che tutti gli allievi · potessero vederla, prese lo stilo e
cominciò a incidere la superficie cerata.

1 , 2, 3, 4
5=3+2=4+ 1
6=4+2=3+2+ 1
7=4+3=4+2+ 1
8=4+3+ 1
9=4+3+2
10 = 4 + 3 + 2 + l

«Sono questi i numeri e queste le relazioni che dovremo


studiare», annunciò Pitagora sfiorando tutti i presenti con
lo sguardo. «Siamo difronte a una scoperta senza preceden­
ti. Nessuno dei sapienti che ho incontrato durante i miei
viaggi conosceva questa prodigiosa correlazione tra suoni
e numeri: rivoluzionerà il modo d'interpretare l'Universo.
Le interpretazioni attuali sono troppe. I sacerdoti egiziani
hanno la loro mitologia: Ra, lside, Osiride, e altri segreti a
cui mi iniziò Gemenefherbak da Sais. I Babilonesi credono
in Marduk, che creò l'uomo dal sangue di Kingu, impa­
stato con l'argilla. Gli Indiani credono nella trasmigrazio­
ne delle anime, così come fanno, tra noi Greci, i seguaci
del culto orfico. Ma fu solo grazie ai sacerdoti indiani che
ebbi la prova della validità di tale credenza. Le loro pratiche
meditative mi permisero infatti di far riaffiorare i ricordi
delle mie vite passate. Scoprii che nella vita precedente ero
stato Etalide, figlio del dio Ermete. Negli ultimi giorni di
vita, Etalide aveva ricevuto in dono dal divino genitore la
capacità di ricordare le vite passate. E grazie a questo dono
io stesso posso ricordarmele. Prima di Etalide fui Pirro, un
pescatore di Delo; e prima di Pirro, Erotimo da Argo, che
un giorno scoppiò in lacrime difronte a un vecchio scudo
ricordando di averlo usato nella vita precedente nel corpo
di Euforbo. Fui quindi anche Euforbo, l'eroe della guerra
di Troia morto per mano di re Menelao; e prima di Eufor­
bo vissi nei corpi di molti altri ancora . . . », Pitagora fece
una pausa.
((In quanti corpi, maestro, ha quindi dimorato la vostra
anima?», intervenne timido un giovane matematico.
((La mia anima non ha abitato solamente corpi umani,
ma anche animali e piante. E anche le vostre anime hanno
conosciuto vite analoghe. I.: unica differenza è che voi, come
quasi tutti gli esseri viventi, non ne serbate memoria».
((Le nostre anime continueranno indefinitamente a tra­
smigrare di esistenza in esistenza?», lo interrogò il giovane.
((No», rispose Pitagora. ((Lo scopo ultimo di un uomo
saggio è liberarsi da questa catena di reincarnazioni terrene
per raggiungere il livello eccelso». Il maestro mantenne per
qualche istante lo sguardo sul giovane allievo e poi riprese.
((Noi Greci abbiamo le nostre divinità: Zeus, Hera, Apollo.
In esse, giustamente, crediamo. Ma neppure attraverso i
nostri dèi siamo riusciti a trovare una risposta alla doman­
da più importante». Si fermò nuovamente e poi proseguì
con maggior enfasi. ((Qual è l'Arché? Qual è il principio
primo? Quel principio da cui anche i nostri dèi sono stati
generati?». Le domande riecheggiarono nell'officina.
((Durante il mio viaggio a Mileto», continuò il maestro,
(dncontrai il vecchio Talete. Egli mi disse che l'acqua era
il principio primo. Dopo alcuni giorni parlai con Anassi­
mandro, e lui credeva che il principio primo fosse l'apeiron:
quell'astratto concetto di illimitato, indeterminato ed eter-

6L
no. Ma ora io vi dico che entrambi sbagliavano!», prose­
guì Pitagora con voce più potente. Qualcuno tra gli allievi
bisbigliò. «Sbagliavano perché il principio primo non può
essere una sostanza totalmente priva di aspetti speculativi,
e non può essere neppure un'idea completamente astratta
come l' apeiron. Il principio primo deve essere qualcosa di
reale; e in esso deve essere necessariamente riconoscibile la
relazione con tutto ciò che da esso ha avuto origine, e cioè
con l'Universo. E qual è quell'entità che sembra possedere
questa proprietà?», in un rapido sguardo d'insieme Pitago­
ra sfiorò tutti i presenti. Nessuno ebbe il coraggio di aprire
bocca. « È il Numero! È il Numero che cela in sé le leggi per
interpretare la realtà che ci circonda. È il Numero che ha
generato tutto. È il Numero il principio primo». Pitagora
interruppe il crescendo, poi continuò con tono più pacato.
«Tutti gli indizi sembrano dircelo. L unico fatto che non
riesco ancora a spiegarmi è il motivo per cui l'esperimento
con corde uguali e pesi diversi sia fallito. Mi sarei aspettato
un'analogia con il fenomeno delle incudini».
«Credo di intuirne il motivo», intervenne Ippaso, sul
quale si concentrarono gli sguardi, non tutti benevoli, dei
presenti. «Forse le relazioni tra numeri e fenomeni ci sono
anche in quel caso ma si esprimono in modo diverso a se­
conda della grandezza considerata».
«Non capisco bene che cosa intendi», lo interruppe Fi­
lolao.
<<Considera entrambi gli esperimenti. Il nostro scopo
era di riprodurre le consonanze delle incudini usando gli
stessi rapporti numerici con altri oggetti sonori. Ci siamo
riusciti applicando i rapporti agli spessori dei dischi e alla
lunghezza delle corde, ma non ci siamo riusciti con i pesi
applicati alle corde». Filolao fissò Ippaso con sguardo in­
terrogativo. «Quello che voglio dire», riprese questi, «è che
forse una relazione tra numeri e pesi applicati alle corde
sussista comunque, ma solo attraverso una formula più
complessa. Quindi per ottenere gli stessi risultati bisogne­
rebbe applicare rapporti diversi».
((Bravo, Ippaso!», lo lodò Pitagora. ((La tua . interpre­
tazione non fa che confermare la mia idea. Le leggi che
regolano la natura albergano nei numeri. A noi spetta il
compito di decifrarle e interpretarle. Dobbiamo partire dai
mattoni per poter risalire alle leggi che hanno governato la
costruzione dell'edificio e i nostri risultati mi hanno con­
vinto che quei mattoni sono proprio questi dieci numeri»;
Le lezioni di Eratocle
Dove Eratoc/e insegna il teorema di Pitagora
all'allievo Eurito.

Settembre 52 7 a. C., tredici mesi dopo

Quella mattina Eratocle si era svegliato all'alba e aveva


girovagato per le stanze senza uno scopo preciso. Poi aveva
deciso di passeggiare senza fretta fino alla scuola. Al suo
arrivo aveva trovato il cortile semideserto. Un rapido sguar­
do all'ombra dello gnomone dell'orologio solare gli con­
fermò che era ancora troppo presto. Avrebbe avuto tempo
per controllare che tutto fosse pronto per la lezione. Entrò
nell'aula vuota. Cominciò a disporre stili, . tavolette cerate
e figure geometriche di legno, tutto il materiale che gli sa­
rebbe servito per il primo ciclo di lezioni. Il ciclo sulle basi
aritmetiche e geometriche dei pitagorici. Successivamente
avrebbe trattato le molteplici manifestazioni dei numeri:
nella musica, nel moto degli astri, nell'Universo. Era la pri­
ma volta che Eratocle aveva il compito di impartire lezioni
a un giovane matematico. Il ragazzo si chiamava Eurito ed
era stato appena giudicato idoneo per passare da acusmati­
co a matematico. Con le lezioni di Eratocle avrebbe impa­
rato le più recondite conoscenze dei pitagorici.
Le lezioni erano individuali e segrete perché il sapere dei
pitagorici non doveva essere svelato ad altri. Eratocle senti­
va la responsabilità di quel compito. Proprio per questo vo­
leva dare il meglio di sé e aveva speso giorni per prepararsi
al meglio. Non sarebbe stato da meno dei suoi coetanei già
impegnati da mesi in quella stessa attività.
«Entra», disse Eratocle accogliendo il ragazzo. «Eurito,
penso che tu sia consapevole dell'importanza di queste le­
zioni, che faranno di te un vero matematico».

()5
«Per cominciare <Ufronteremo gli aspetti fondamèntali
del nostro pensiero: geometria e aritmetica. Partiremo dal­
la prima importante nozione geometrica che il maestro ha
acquisito studiando il triangolo e i quadrati».
«La formula che apprese dai sacerdoti di Tebe . . . >>.
«Finora per te, quella è stata solo una formula», gli spie­
gò Eratode. «Ma da oggi diventerà un teorema: il teorema
di Pitagora. Il risultato che tutti avevano usato come una
formula per scopi pratici, il maestro lo ha dimostrato. Ha
svelato l'intima natura di una correlazione profonda tra le
figure geometriche e tra i numeri. Scoprire che è un teore­
ma, ti farà anche iniziare a capire il concetto di dimostra­
zione, che Pitagora imparò a Mileto dal grande Talete».
«Sarà un onore per me», si sbilanciò Eurito. Il giova­
ne non mentiva. Nei sui occhi ampli e illuminati Eratocle
lesse l'impazienza e l'entusiasmo del giovane assetato di sa­
pere; ma a gratificarlo ancor di più fu l'ammirazione che
traspariva dallo sguardo del giovane.
«Partiamo dalla formula», lo esortò Eratocle. «Come la
esporresti?».
«La formula . . . », esitò Eurito, «dice che se abbiamo un
triangolo con un angolo retto, allora l'area del quadrato
costruito sul lato lungo è uguale alla somma dell'area dei
quadrati costruiti sugli altri due lati».
«Bene, Eurito, forse però dovresti imparare i termini in
uso tra i matematici: un triangolo con un angolo retto è
rettangolo, il lato lungo è l'ipotenusa e gli altri due sono i
cateti».
Il ragazzo prese nota sulla tavoletta.
«Ora dovremo dimostrare che questa formula ha validi­
tà universale», spiegò Eratocle alzando il tono della voce.
«La tua convinzione sulla sua efficacia si basa solo sull'e­
sperienza».

66
«E non basta?», sgranò gli occhi Eurito.
<<Chi ci garantisce che non possa saltar fuori un caso,
che finora non abbiamo previsto, in cui la formula non
sia valida?», e su questa domanda Eratode fece una pausa;
quindi concluse. <<Ecco a che cosa serve la dimostrazione.
A mostrare con passaggi logici che quella formula ha un
valore universale>>.
<<Come?>>.
<<Ti guiderò passo passo con cinque tasselli. Comincia­
mo con il primo. Che forma ha?>>.

<< È un triangolo . . . rettangolo».


<<Molto bene!», lo lodò Eratocle: il ragazzo aveva appreso
il primo dei termini necessari. <<Ti mostro questo, ma pote­
vo mostrartene un qualsiasi altro: il ragionamento che sto
per fare potrà essere ripetuto in modo identico per qualsiasi
altro triangolo rettangolo».
<<D'accordo».
<<Ora guarda questi tre: se fai coincidere le loro superfici,
ti accorgerai che sono identici al primo».

67
Con poche abili mosse, Eurito sovrappose i quattro
triangoli.
«Adesso disponili in modo che le ipotenuse formino un
quadrato».
Eurito fece qualche tentativo senza riuscirei.
«Disponi il primo triangolo con il vertice che punta a
nord. Ruota il secondo rispetto al primo, con il vertice ver­
so ovest».
Eurito esegùì.

((Ora ruota il terzo triangolo. E quindi il quarto».


((Ho capito!», esultò il giovane sistemando i quattro tas­
selli.
Poi fece un passo indietro per osservare la figura che
aveva composto ed esclarilò «Divina Atena!)). Quindi si d­
avvicinò e con rapidità ottenne il quadrato.

69
<<Ecco infine la disposizione che cercavamo . . . », com-
mentò Eratode. (<Guarda il buco centrale: che cos'è?».
«Un quadratO>>.
«Giusto. Ma quanto è lungo il suo lato?».
Eurito studiò la figura, la copiò su una tavoletta cerata
e cominciò a scrivere lettere sui vertici di uno dei triangoli.
Poi aggiunse una lettera su un vertice del quadrato.

,C D, .B

«Credo che tu sia sulla buona strada . . . che cosa hai in


mente?».
(<AB è l'ipotenusa del triangolo ma anche il lato del qua­
drato, BC il cateto lungo e CA quello corto», gli occhi di
Eurito cercarono conferma in quelli dell'altro.
(< È giusto � vai avanti».
(<Anche BO è un cateto corto».
«Sì, ma non mi hai ancora detto nulla sulla lunghezza
del lato del quadrato piccolo ... » .
Lo sguardo di Eurito s i spostava tra le figure di legno e
quelle indse sulla cera.
(<Dèi dell'Olimpo! Il cateto lungo BC è uguale al cateto
corto CA più il lato del quadratino DC». Nel dirlo, Eurito
scrisse sulla tavoletta BC CA + DC.
=

70
«Ma allora DC è quanto manca al cateto corto per rag­
giungere il cateto lungo». E scrisse DC ;;:: BC CA. -

«Ottima conclusione, Eurito! E ora?)) lo incalzò Erato­


'
cle.
«Il lato del quadrato grande . . . è . . l'ipotenusa . . . il qua­
.

drato . . . è . . . costruito sull'ipotenusa)),


«Benissimo! E come possiamo concludere?)).
Eurito si concentrò sulla figure disegnate sulla tavoletta.
Poi sulle figure di legno.
«Ti aiuto io)), disse Eratocle mettendo nel quadrato cen­
trale un quinto tassello. «Ora la figura non contiene più
buchi e la somma delle superfici di tutti i tasselli è quella
del quadrato costruito sull'ipotenusa)).

<< . . . e . . . se riuscirò a ridisporre i tasselli in modo da

ottenere esattamente i quadrati costruiti sui due cateti avre­


mo la dimostrazioneh), azzardò il ragazzo ricevendo in pre­
mio da Eratocle un ampio sorriso.
Dopo qualche tentativo, qualche momento di sconforto
e qualche parola di suggerimento, Eurito dispose i cinque
tasselli a formare due quadrati.

71
Un bagliore illuminò i grandi occhi scuri di Eurito che
riprodusse la disposizione sulla tavoletta di cera e aggiunse
alcune lettere e un segmento.

c D. .E

B,

A.

((In basso c'è il quadrato di lato AC, il cateto lungo. So­


pra c'è il quadrato di lato DE, il cateto corto. Ho spostato i
tasselli del quadrato costruito sull'ipotenusa e ho ottenuto
la somma dei quadrati costruiti sui cateti!)), esclamò il gio-

Tl.
vane non riuscendo a trattenere un vero e proprio crescen­
do di gioia.
·<<Bene: hai fatto tua la prima lezione».
«Incredibile . . . » .
«Ed è solo l'inizio», lo solleticò Eratocle. «Ci incammi­
neremo per mirabili percorsi colmi di prodigi e meraviglie.
Presto ti accorgerai che i numeri sono la chiave per la com­
pleta comprensione dell'Universo, o meglio sono l' espres­
sione stessa della razionalità dell'Universo. Rappresentano
la via e il mezzo per interpretare il livello divino della realtà.
Il principio primo da cui noi abbiamo avuto origine; da cui
la terra, gli astri e persino i nostri dèi hanno avuto origine.
Il Numero . . . è il demiurgo del noto e dell'ignoto».
Tutto è numero
Dove Eratocle riprende la lezione e insegna a
Eurito la dottrina pitagorica fino a che lppaso non
scompagina la loro conversazione.

Settembre 52 7 a.C., l'indomani

Il giorno successivo Eratocle trovò Eurito già in aula.


«Ieri abbiamo dimostrato il teorema di Pitagora attra­
verso semplici manipolazioni di figure geometriche senza
mai usare i numeri. Oggi aggiungeremo a quelle. figure al­
cune considerazioni numeriche e ti mostrerò come numeri
e figure sono inestricabilmente interconnessh). Ciò detto,
tirò fuori dalla sacca cinque bastoncini e li dispose sullo
scrittoio in ordine di lunghezza.

((Il più piccolo di questi bastoncini è lungo un dito)),


disse Eratocle indicandolo. ((Secondo te quanto misurano
gli altri?)).

74
Eurito lo prese in mano assieme a quello appena più
lungo: li affiancò e li fece scorrere uno sull'altro. «Questo
mi sembra il doppio)). Senza aspettare risposta, li giustap­
pose e li affiancò al terzo. «Il terzo è uguale alla loro som­
ma)), ·osservò, «e se quello che ho detto dei primi due è
corretto, il terzo è tre volte il primo)). Stette ancora un po'
a osservarli tutti e cinque, a manipolarli, ad affiancarli e
dedusse che le lunghezze erano di l , 2, 3, 4 e 5 dita. Per
fissare le idee scrisse le misure sulla tavoletta.

l 2 3 4 5

«Ora vorrei che tu provassi a costruire un triangolo ret­


tangolo usando tre di questi bastoncinh), lo esortò Eratocle.
Eurito dispose di volta in volta i tre bastoncini a formare
un triangolo. E per tutti e tre i triangoli che ottenne misurò
gli angoli con lo gnomone, tranne quelli che a colpo d' oc­
chio non erano retti.
I..:unico triangolo a risultare rettangolo fu quello di lati
lunghi 3, 4 e 5 dita.

«Bene)), lo incoraggiò Eratocle. «Adesso cerchiamo di


trarre qualche conclusione dagli esperimenti che abbiamo
compiuto)).

7S
«Forse . . . direi che . . . possiamo distinguere tre casi. Con
alcune lunghezze è impossibile costruire un triangolo. Solo
se la somma dei lati più piccoli è maggiore del più grande,
allora è possibile farlo. E in alcuni di questi casi il triangolo
sarà rettangolo».
«Bravo!», lo lodò Eratocle. «Hai trovato un criterio ge­
nerale per distinguere le terne di numeri con cui è possibile
costruire un triangolo. Pensi che possa esistere anche un
criterio per capire quando il triangolo generato dalla terna
sia rettangolo?». Eurito passò più volte lo sguardo dal trian­
goli) al viso di Eratocle senza parlare. «Per ora fermiamoci
qui. Credo che tu abbia bisogno di conoscere certi nume­
ri particolari per trovarlo. Ce ne occuperemo tra qualche
ora».

Nel pomeriggio, quando Eratocle entrò, Eurito era tal­


mente immerso nelle elucubrazioni sui triangoli da non ac­
corgersi neppure che questi fosse entrato in aula.
«Eccomi di ritorno», esclamò Eratocle. Il giovane allievo
ebbe un sussulto. Eratocle gli si sedette davanti e sparse
sullo scrittoio una manciata di ciottoli. <<Ecco tutto quello
che ci serve per la lezione sui numeri triangolari e quadra­
ti». I grandi occhi scuri di Eurito s'illuminarono, correndo
sui ciottoli grigi tra i quali ne spiccavano alcuni più scuri,
quasi neri.
«Tra poco ti mostrerò una strabiliante scoperta che il
maestro ha fatto poche lune fa. Prima però dovrò illustrar­
tene una fondamentale per noi matematici, il cui disv�
lamento è cominciato poco più di un anno fa con una
sua geniale intuizione nella bottega di Gerone. Intuizione
confermata poi attraverso un esperimento con corde e di­
schi».
La scoperta che Eurito stava per apprendere avrebbe
rivoluzionato il destino dell'umanità nei secoli successivi,

76
ma in quel momento forse solo gli dèi avrebbero potuto
immaginarlo. Eratocle gli raccontò di Pitagora e Cerone,
delle incudini e delle corde, di lppaso e di Teano. Fino a
illustrargli come il maestro si fosse accorto dell'importan­
za fondamentale dei numeri l , 2, 3 e 4 e del loro ruolo
centrale nel rapporto con i suoni. ccLidea del maestro, che
io condivido totalmente, è che, non solo i numeri sono il
principio primo dell'Universo, ne sono anche il principio
materiale. In altre parole, oltre ad averlo generato, i nume­
ri rappresentano i costituenti fisici dell'Universo», affermò
Eratode sotto lo sguardo stupefatto e incredulo di Eurito.
cc Tutto ciò che osserviamo è composto di numeri», con­
cluse Eratode, cee te ne renderai conto man mano che pro­
cederemo con le lezioni . . . Domande?». Limpazienza di
Eurito si palesò nella rapidità con cui scosse la testa.
ceTra le più proficue ricerche ìn cui Pitagora si è impe­
gnato per trovare altre prove della mirabile relazione tra
numeri e suoni c'è sicuramente quella ottenuta con la di­
sposizione dei nostri ciottoli)), Eratode se li fece rimbal­
zare in mano. cc Partiamo da questo ciottolo scuro», disse
disponendo il primo ciottolo sullo scrittoio. ccQuanti ciot­
toli chiari dovrai affiancargli per formare il quadrato più
piccolo possibile?)),
Eurito prese tre cioùoli e formò un quadrato.

ccQuanti ciottoli in tutto?)),


ccQuattro», rispose l'allievo.
cclngrandisci ancora il quadrato con altri ciottoli>),

77
Eurito prese cinque ciottoli e li dispose lungo due lati.
<<Ne ho aggiunti cinque e in tutto ne abbiamo nove)), disse
anticipando la domanda.

<<E quanti ne servirebbero se tu volessi ingrandirlo an-


cora?��.
<<Sette per averne in tutto sedici)).
<<Bene. Scrivi la lista dei numeri che hai aggiunto».
Eurito scrisse sulla cera.

3 5 7

<<E prima di tutti scriviamo l , il ciottolo nero che ho


messo per primo)), aggiunse Eratocle. <<Che numeri sono
questi?)).
<d dispari)).
<<Esatto: i dispari. Ora scrivi la lista dei numeri che hai
ottenuto)).
Eurito la scrisse sotto la prima.

l 3 5 7
l 4 9 16

<<Noti qualcosa?».
Eurito si concentrò.
«Aggiungi una riga con i passi che abbiamo fatto)).
Il giovane, senza capire dove Eratocle volesse andare a
parare, scrisse· una terza riga che contava i passi.

7B
l 3 5 7
l 4 9 16
l 2 3 4

Quando iniziò ad andare col dito da una lista all'altra,


gli si illuminò il volto. <<Ho capito! Ogni somma è il nume­
ro di passi moltiplicato per se stesso)). E incise nella cera il
risultato.

l=lx l
4=2x2
9=3x3
1 6=4x4

«Da una disposizione di sassolini abbiamo ottenuto due


sequenze di numeri: i numeri dispari e i numeri quadrati)).
«Numeri quadrati?)), aggrottò la fronte Eurito.
«Così li ha voluti chiamare Pitagora. Proprio perché a
ogni passo formano un quadrato. Quindi 4 è il quadrato
di 2, 9 è il quadrato di 3, 1 6 è il quadrato di 4 e così via)).
«Prendono il nome dalla disposizione . . . )) .

«Esatto: e fin qui è questione di nomi)), concesse Era­


tocle. «Invece, l'aspetto interessante è che le due sequenze
sono legate tra loro)).
Non aveva finito di dirlo che già Eurito aveva scritto.

4= 1 +3
9= 1 +3+5
16 = l + 3 + 5 + 7

«Sono i numeri quadrati che ci fanno individuare le ter­


ne che danno luogo ai triangoli rettangoli?)) chiese Eurito.

79
«Sono loro. Ma prima di riprendere la ricerca ti mostro
il risultato eccelso, che ha portato Pitagora alla scoperta
della sacra Tetraktys)), rispose Eratocle con un lampo obli­
quo negli occhi.
Con mosse veloci Eratocle mostrò al discepolo come
costruire nuove disposizioni: partì dal ciottolo scuro e ne
aggiunse altri, passo a passo, in modo da formare non qua­
drati bensì triangoli equilateri. Cioè con lati di lunghezza
uguale. Il quarto di questi triangoli non era più una sem­
plice figura geometrica ma rappresentava la sacra Tetraktys,
. .

il triangolo magico che compendia in sé tutta la verità del


Numero e, conseguentemente, tutta la sostanza delle cose.

(<Panta arithmos esti. Tutto è numero)).


Eurito prontamente incise nella cera il motto con cui
i pitagorici celebravano le manifestazioni della sacra Te­
traktys. ((La figura la cui essenza esprime gli stessi numeri
e gli stessi rapporti dei suoni consonanti. Una formidabile
sintesi dell'ordine numerico-musicale del cosmo. Uri me­
raviglioso compendio dei princìpi matematici che regolano
l'ordine dell'Universo. La figura difronte alla quale tutti i
giuramenti dei pitagorici vengono formulati)), come nel
mentre gli spiegava Eratocle.
((Dopo questa inevitabile digressione sulla sacra Te­
traktyS>), concluse, «possiamo tornare ad affrontare il di­
scorso delle lunghezze dei lati dei triangoli e cercare quel

BO
criterio per determinare le terne di numeri che danno luo­
go ai triangoli rettangoli. Vorrei che tu trovassi la relazione
che deve sussistere tra le lunghezze dei lati affinché il trian­
golo sia rettangolo. Ti ho dato tutti gli strumenti. Se non
riuscirai a trovarla da solo, ci penseremo insieme domani)).

La mattina successiva Eratocle fu deluso e infastidito dal


trovare l'aula vuota. Attese qualche istante l'allievo, poi de­
cise di concedersi una coppa d'idromele. Mentre rientrava
in aula con la bevanda, dei passi veloci gli annunciavano
l'arrivo di un trafelato Eurito.
«Scusate, Eratocle. Ho trascorso la notte a cercare il cri­
terio per le terne)),
«Spero che un tale sforzo sia stato proficuo)), replicò Era-
tocle guardandolo severamente dall'alto della sua statura.
«Credo . . . lo sia . . . stato)), rispose timido il ragazzo.
«Dimmi)),
«Sono partito dal tassello a forma di triangolo rettango­
lo, ho provato a sovrapporgli i bastoncini e mi sono accorto
che i suoi lati sono lunghi esattamente il doppio di quelli
del triangolo rettangolo che abbiamo costruito con i ba­
stoncini. Questi ultimi erano lunghi 3, 4 e 5 dita, mentre i
lati del tassello sono 6, 8 e l O dita)).
{;allievo mostrò a Eratocle la copia della figura che ave­
va tracciato sulla tavoletta cerata. «Poi ho considerato che
in entrambi i casi potevo applicare il teorema di Pitagora
e, usando anche i ciottoli, mi sono ricollegato ai risultati
sui numeri quadrati. Così, su ciascun lato, invece di dise­
gnare un quadrato, ho disposto ciottoli a formare numeri
quadrati. Guardate: si vede chiaramente che il quadrato di
3 sommato al quadrato di 4 dà come risultato il quadrato
di 5)),

!l l
• •









• • • •



• •
• • • • •




• • • •

• • • • •

• • •

• • •

Eratocle guardò e assentì.


((Poi ho riformulato il teorema di Pitagora attraverso le
nuove nozioni sui numeri quadrati. E cioè, se un triangolo
è rettangolo e se a, b e c sono le lunghezze dei lati allora il
numero quadrato di a sommato al numero quadrato di b
darà come risultato il numero quadrato di c. Credo che il
criterio che cercavamo sia proprio il teorema di Pitagora:
le terne di numeri che generano i triangoli rettangoli sono
quelle che soddisfano la relazione di Pitagora)), concluse
Eurito gettando uno sguard.o speranzoso a Eratode che an­
nuì con più decisione.
((Dopo, mi sono messo alla ricerca di altre terne simili)),
si entusiasmò Eurito ((e, visto che 6, 8 e 1 0 lo è, ed è esat­
tamente il doppio di 3, 4 e 5, ho concluso che possiamo
ottenere illimitate terne moltiplicandone una per un qual-

B2
siasi numero. Moltiplicando per 3 ottengo 9, 1 2 e 1 5 che
soddisfa di nuovo il criterio. E lo stesso accade moltiplican­
do per 4: fa 1 2, 1 6 e 20. E così via)).
((Sono esempi corretti . . . )), lo interruppe Eratocle. <<Ma
sono solo esempi: ci vorrebbe una dimostrazione)).
((Eccola!)), gridò l'allievo mettendo in mano a Eratocle
una nuova tavoletta. Calò il silenzio, mentre questi guarda­
va e riguardava i segni incisi nella cera. ((Ottimo: questa sì
che è una dimostrazione)), si complimentò Eratocle.
((E su queste altre tavolette che cosa hai fatto?)).
((Ho cercato una terna che non si ottenesse da una mol­
tiplicazione di 3, 4 e 5 e dopo molti tentativi ho trovato
5, 1 2 e 1 3; ho costruito il triangolo e ho verificato che era
rettangolo)), concluse l'allievo tutto d'un fiato.
((Hai avuto una buona intuizione che potrebbe essere
un buon punto di partenza per. . . )).
(( . . . per completare un giochino da ragazzi)), concluse
una voce sulla soglia della stanza. I due si voltarono e si tro­
varono faccia a faccia con Ippaso che li fissava con un sorri­
so storto. Un lampo d'ira attraversò lo sguardo di Eratocle.
((Bell'argomento quello delle terne)), continuò il meta­
pontino. ((Ti ricordi quanto lo trovasti difficile all'inizio?)).
I.:intruso si concesse una pausa per far montare la rabbia in
Eratocle. (( . . . sarebbe interessante far conoscere al ragazzo
gli sviluppi di cui mi sto occupando io . . . ben oltre le ricer­
che del maestro . . . )).
((Meglio non sovraccaricare chi sta facendo suoi concetti
nuovi)), cercò di fermarlo Eratocle.
((Ragazzo? Vuoi ascoltare uno sviluppo veramente inte­
ressante?)).
Eurito guardò Eratocle. Poi arrossì, abbassò gli occhi e
annuì appena.
((Gli interessi degli allievi vanno sempre incoraggiati)),
Ippaso non perse l'occasione di incassare la vittoria su Era­
rode. «Il possibile sviluppo è molto semplice: come Era­
rode ti ha insegnato gli ovvi numeri quadrati, così puoi
immaginare i numeri cubici. Ci riesci, no?». La domanda
di Ippaso non lasciò tempo a una risposta del giovane. «A
questo punto potresti chiederti quali sono le terne di nu­
meri che soddisfano la relazione di Pitagora per i numeri
cubici. Cioè, quali sono quei numeri a, b e c per cui il
numero cubico di a più il numero cubico di b è uguale al
numero cubico di c?».
Eurito guardò Ippaso smarrito e ammirato a un tempo.
«Poi ci sarebbero anche altri sviluppi», tagliò corto Ip­
paso, «ma ne parleremo in futuro. . . Nel frattempo potrete
comunque discutere della mia idea».
Solo gli dèi potevano sapere quanto tempo sarebbe tra­
scorso prima che la domanda di Ippaso trovasse una rispo­
sta certa.

U4
L'ammissione di Muia
Dove lppaso conferisce il titolo di matematica a
Muia, la figlia di Pitagora, e dove Milone invita
Eratoc/e a casa sua.

Aprile 51 8 a.C., otto anni e mezzo dopo

Eratocle si era conquistato un posto in prima fila e per


tutto il tempo i suoi occhi erano rimasti puntati sulla ra­
gazza che stava in piedi difronte a colui che officiava la ce­
rimonia.
A quindici anni, Muia aveva già un corpo da donna.
Un'incantevole giovane donna. Somigliava alla madre ma
con una bellezza più prorompente. I lunghi e folti capelli
corvini le scendevano fino ai larghi fianchi, e alcune cioc­
che ribelli arrivavano a sfiorarle il seno. A volte quei lucidi
fili di seta andavano a intrecciarsi con le ciglia, che incor­
niciavano, splendide, · i grandi occhi, neri come una notte
di tempesta. Le labbra rosse si stagliavano sulla pelle nivea
come un papavero in un campo di gigli. Ogni parte di lei
era in armonia col tutto. Persino la lieve peluria sul labbro
superiore.
Per l'assegnazione del titolo di matematica, Muia in­
dossava un peplo turchese, che ne esaltava al meglio colori
e forme. Due spille d'argento a doppia spirale fermava­
no l'abito sulle spalle e una cintura color zafferano, visi­
bile solo sul lato aperto, lo fissava alla vita disponendolo
in eleganti drappeggi. Due piccoli dischi d'oro cesellati
con motivi floreali erano fissati ai perni che le foravano i
lobi delle orecchie e da ognuno pendeva un delicato cono,
anch'esso d'oro, con superficie modellata a spiraloide.

HS
Sandali di pelle nera le fasciavano i piedi. Eratocle avrebbe
saputo descrivere ogni minuscola porzione delle sue splen­
dide candide dita.
A presiedere la cerimonia era Ippaso. Pitagora aveva pre­
ferito farsi sostituire per non essere lui a proclamare mate­
matica la propria figlia.

<<Scordatela!)), una voce, profonda anche se mormorata


fece trasalire Eratocle che, torvo in viso, si voltò di scatto
per scoprire che a parlare era stato Milone.
«Non vedi come guarda Ippaso?)).
«Di chi stai parlando?)).
«Di chi sto parlando?)), lo motteggiò Milone. «Di Muia.
Di colei che continui a fissare sin dall'inizio)).
«Ti sbagli!)), rispose Eratocle in un bisbiglio che tendeva
a salire di tono. «E comunque è ovvio che Muia guardi
Ippaso: la sta proclamando matematica)).
«Poca esperienza con le donne . . . Eratocle)).
I due non si accorsero che Ippaso aveva smesso di par­
lare e li stava fissando. «Eratocle e Milone! Avete qualcosa
d'importante da discutere? Qualcosa d'interessante da con­
dividere con tutti noi?)), li apostrofò allargando teatralmen­
te le braccia a comprendere il pubblico.
Tutti si voltarono a guardarli. Entrambi arrossirono:
Milone di rabbia, Eratocle di vergogna.
«Nulla d'importante, Ippaso)), tagliò corto Milone.
«Bene, allora possiamo continuare>>.

Finita la cerimonia, Muia si avvicinò a .gratocle. «Sono


emozionatissima!)), e in risposta al sorriso di lui «Ma . . . di
che cosa parlavate voi due?>>.
«No .... è che parlavamo di...)).
« ... cose da uomini)), gli venne in soccorso Milone.
Muia si aprì in uno di quei sorrisi che facevano allargare
il cuore di Eratocle e poi si diresse verso Teano.
«Te lo ripeto Eratocle: scordatela! Ho più esperienza di
te: quando ti guarda, Muia vede un amico. Mentre quando
guarda Ippaso. . . ».
«Sono stanco di sentirtelo ripetere. Parliamo d'altro?».
A interrompere il loro battibecco fu proprio Ippaso.
«Salve disturbatori», fece col suo solito sorriso. «Avete visto
come mi guardava la ragazzina?».
Eratocle si rabbuiò.
«Quale ragazzina?», glissò Milone con ostentata indif-
ferenza.
«Muia! Non mi ha mai tolto gli occhi di dosso?».
«Presiedevi la cerimonia . . . », minimizzò Milone.
<<Credimi, Milone. Ho una certa esperienza di ammi-
ratrici e di ragazzine . . . le riconosco a prima vista. E Muia
è una di loro. Ed è anche la figlia di Pitagora. Questo non
la rende più interessante ai miei occhi. Anzi è . . . banale . . .
sciocca».
Eratocle non seppe trattenersi. «Sciocca?», esclamò con
voce strozzata. «Detto da te che non saresti degno neppure
di baciarle i piedi!».
«Eratocle, come ti scaldi! Ci convinceremo che ti sei in­
vaghito della figlia del maestro?».
Quasi evocato, sopraggiunse Pitagora, barba e capelli
ormai ingrigiti ma ancora snello e agile nel fisico.
«Buon lavoro, Ippaso», si complimentò velocemente.
«Vieni. Tra i neo-matematici c'è la figlia di un importante
aristocratico crotonese che gradirebbe conoscerti». Lo pre­
se con sé e si diresse verso un uomo elegante accompagnato
da tre schiavi.
«Odio quel figlio di un cane», sbottò Eratocle non appe­
na i due si furono allontanati.

B7
« Ippaso sa a essere insopportabile)), lo calmò Milone
mentre si allontanavano dalla sala.
«E poi ha in disprezzo la tradizione: quasi tutte le donne
affiliate alla scuola lo sono grazie a lui)).
«Con gran danno per le nostre finanze: i beni portati in
dote da una donna sono sempre miseri)).

Giunti alla casa di Milone, questi suggerì di continuare


la discussione all'ombra del peristilio.
Il èampione aprì il massiccio portone di legno con im­
pressionante facilità e i due entrarono nell'enorme cortile.
Nessun altro edificio privato crotonese era dotato di pe­
ristilio, e tra quelli pubblici, solo la scuola dei pitagorici
ne possedeva uno. La casa di Milone era stata completata
l'anno precedente, in seguito alla sua quarta vittoria olim­
pica. E ben presto era diventata una delle meraviglie della
città. Di gran lunga la più grande e bella tra le abitazioni,
arrivava quasi a competere con il tempio di Hera. Le vit­
torie, oltre a rendere Milone celebre e famoso, ne avevano
fatto uno dei cittadini più ricchi e potenti di Crotone. Di
pari passo era cresciuto il suo peso all'interno della scuola:
soprattutto in ragione del ricco contributo che il campione
versava nelle casse comuni.
Al centro del cortile un impluvio rettangolare era col­
mo d'acqua piovana. Intorno, mosaici raccontavano le sue
vittorie.
Eratocle aveva preso parte all'inaugurazione della casa.
Prima del banchetto, Milone gli aveva mostrato il pian
terreno. Il piano superiore, come da tradizione, ospitava
il gineceo e l'accesso, oltre che al padrone di casa, era con­
sentito a donne e bambini. Poiché Mi[one non aveva anco­
ra famiglia, quel piano fungeva unicamente da camera da
notte sua personale.

BB
Eratocle aveva consuetudine con l'androne: il settore
della casa riservato agli uomini, ai ricevimenti e ai simpo­
si. Le pareti erano rivestite di stucchi colorati e di dipinti.
I pavimenti erano ricoperti di mosaici. Larredamento era
costituito da tavoli, lettini e piccole sculture. Sul tavolo più
grande un piatto di terracotta dipinta di rosso conteneva
miniature di mele, uva, fichi, e melagrane, anch'essi in ter­
racotta e decorati a imitazione dei frutti stessi. Ogni por­
zione dell'androne era stata curata nei dettagli dai migliori
maestri che Milone aveva fatto arrivare da Atene.
Molti a Crotone erano rimasti ammirati dalla meravi­
gliosa casa, ma non tutti. Quei lussi privati avevano su­
scitato anche qualche critica. I tradizionalisti ritenevano
che solo gli edifici pubblici potessero far sfoggio di un tale
sfarzo e che per una casa privata quell'opulenza fosse disdi­
cevole. ·
Alla preparazione del banchetto d'inaugurazione parte­
ciparono dieci servitori. E anche le portate furono dieci:
carni, pesci, verdure, frutta e dolci serviti su piatti dipinti
con motivi a tema. A essere particolarmente ammirati fu­
rono i piatti per il pesce: dallo sfondo nero emergevano una
seppia, un tonno e una sogliola disposti a triangolo.
Il banchetto fu annaffiato da otri di vino. Flautiste suo­
narono, ballerine danzarono, attori recitarono Omero,
buffoni dileggiarono il pubblico e suscitarono sonore risate
con battute sui nemici sibariti e persiani, acrobati si esibi­
rono con corde, lame e fuochi. Fu una giornata indimenti­
cabile, ricordata negli anni. Qualcuno racconta addirittura
che per 1' occasione Milone avesse trasportato un bue sulle
spalle fino a casa e che l'avesse poi macellato, grigliato e
mangiato per intero durante il banchetto.

U9
Eratode non poté fare a meno di ricordare la festa di
inaugurazione mentre con Milone si accomodavano sui
lettini all'ombra del peristilio e il servitore addetto alla cu­
cina posava due coppe di vino davanti a loro.
Una voce si affacciò al portone d'ingresso. ((Sapevo di
trovarvi qui. Vi avevo visto incamminarvi in questa d�re­
zione».
((Vieni, Filolao! Bevi una coppa con noi!».
((Che sfrontata la ragazza! . . . tutto il tempo a guardare
Ippaso».
Continuarono a chiacchierare sdraiati sui lettini fino al
tramonto.

90
La lunghezza della diagonale
Dove lppaso cerca invano il numero del quale Muia
gli ha suggerito l'esistenza e Pitagora lo aiuta nella
ricerca.

Gen naio 51 7 a.C., dopo altri nove mesi

Erano mesi che Ippaso aveva la mente pervasa da


quell'ossessione. Quasi non riusciva a pensare ad altro: do­
veva riuscire a trovare almeno due numeri. Forse ne esiste­
vano un'immensità. Ma a lui ne sarebbero bastati due soli.
Eppure, per quanto si fosse impegnato molto a cercarli,
non era ancora riuscito a scovarne neppure l'ombra.
I..: ossessione era cominciata quando Ippaso era stato
fermato da Muia che gli aveva chiesto se esistesse un nu­
mero per descrivere il rapporto tra la diagonale e il lato di
un quadrato. Aveva riso e le aveva suggerito di chiedere a
qualche giovane acusmatico. ((Non ho tempo per esercizi
banali)), le aveva detto. Muia, indispettita, gli aveva dato
le spalle e Ippaso aveva proseguito verso l'aula degli esami:
strada facendo aveva provato a trovare la risposta a mente.
Il primo candidato a matematico era davanti a lui. ((Al­
lora Megacle, vediamo come esporresti il teorema di Piea­
gora)).
Il giovane cominciò cantilenando quasi che la dimostra­
zione fosse una litania. Ippaso annuiva distratto, giocherel­
lando con una tavoletta cerata.
(& da questo possiamo dedurre . . . )), proseguì Megacle.
Ippaso non gli prestava quasi attenzione: prese lo stilo e
tracciò un quadrato sulla tavoletta.

91
<<Poi, se consideriamo che . >>, continuò il giovane men­
. .

tre Ippaso aggiungeva una diagonale dividendo il quadrato


in due triangoli uguali.

«Da cui si può concludere . » , accelerò Megacle sempre


. .

più incalzante ignaro che Ippaso stesse disegnando quadra­


ti sui lati di uno dei triangoli.
Quello di Ippaso era poco più che un riflesso condizio­
nato. Ogni volta che vedeva un triangolo rettangolo trac­
ciava i quadrati sui suoi lati. Troppe volte aveva sentito il
maestro insegnare il teorema e troppe volte lo aveva inse­
gnato lui stesso a nuovi allievi.
«lppaso! Mi state ascoltando?)), si interruppe Megacle.
«Sì, sì!)), trasalì Ippaso. «Va abbastanza bene . . . l'espo­
sizione può essere migliorata. . . ne parlerò con il maestro.
Tra qualche giorno avrai l'esito)),

Tornando a casa Ippaso aveva continuato a pensare a


Muia, alla sua domanda, ai quadrati e ai triangoli che trac­
ciava continuamente. Neppure il vento gelido era riuscito
a distrarlo.
Pensava. Secondo il teorema, il quadrato grande, quello
sulla diagonale, ha l'area uguale alla somma dei quadrati
costruiti sui due cateti.
Infatti i cateti sono i lati del primo quadrato e l'ipote­
nusa è la sua diagonale. I cateti, pertanto, hanno la stessa
lunghezza.
Mettiamoci nel caso più semplice: scelgo che i due lati
abbiano lunghezza uno. Allora la domanda di Muia chiede
quanto è lunga la diagonale: infatti, se il lato è uguale a
uno, il rapporto tra diagonale e lato è uguale alla diagonale
stessa.
Di pensiero in pensiero, Ippaso era giunto a casa. Entrò,
prese un paio di tavolette nuove e sedette. Nonostante le
dita intirizzite rifece la solita figura: aggiunse U:na A a indi­
care l'area del quadrato maggiore.
E poi scrisse

A = lxl + lxl = 2

Sulla riga sotto, aggiunse

A = dxd

E quindi

dxd = 2

Quanto doveva essere lunga la diagonale? Esattamente


il numero che moltiplicato per se stesso dà come risultato

94
2. ((Ecco il numero che risponde alla domanda di Muia»,
esclamò ad alta voce Ippaso.
Quale fosse questo numero, però, gli sfuggiva. Forse
Muia non era poi così sciocca . . . E Ippaso diede corpo ai
propri dubbi scrivendo.

Rifletteva. Il misterioso numero d deve essere compreso


tra l e 2. Se fosse più piccolo di l , anche dxd sarebbe più
piccolo di l , e non lo è. E se fosse più grande, dxd sarebbe
più grande di 4, e nemmeno questo è vero.
Pertanto d deve avere il numeratore più grande del de­
nominatore.
n
d - - n > m
m

Con questo in testa, Ippaso si era messo a cercare quei


due numeri n ed m che facessero al caso suo. Con le raf­
finate tecniche aritmetiche della scuola si sarebbe tolto la
curiosità in pochi minuti.
Aveva cominciato con numeri piccoli.

3 3 9
- x - = - = 2 , 25
2 2 4

Ma il risultato era troppo grande.


Allora era passato a numeri un po' più grandi.

7 7 49
- x - 1 ,96
5 5 25

. . . troppo piccolo.

9S
. . . ancora più grandi.

11 11 121
-- x --
1 ,890625
8 8 64

Di nuovo troppo piccolo!


23 23 529
x = =
2,06640625
16 16 256

Questa volta, troppo grande.


<<No, no, no: Muia non è affatto sciocca . . ». La doman­ .

da della ragazzina si stava rivelando molto più complessa di


quanto si sarebbe aspettato. Continuò a provare e riprovare
con coppie di numeri sempre più grandi fino ad arrivare,
dopo alcuni giorni, a un'approssimazione molto vicina a 2.

99 99 980 1
-- x -- =

70 70 4900
2,00020408 1 63265306 1 2244897959 1 84

Ma anche quel numero non era 2!

Ippaso non aveva più frecce al suo arco: le tecniche di


calcolo che conosceva non gli permettevano di progredi­
re. Seguirono giorni di altri tentativi finché il metapontino
non cominciò a sospettare che quella potesse non essere la
strada giusta. Con riluttanza mise da parte l'orgoglio e si
decise a parlarne con il maestro.
Un giorno, attese che Pitagora finisse lezione e gli illu­
strò le sue difficoltà. Il maestro si rese subito conto di quan­
to difficile fosse la questione. E così i due decisero di non
parlarne con nessun altro e si diedero appuntamento per
la mattina successiva, a casa di Ippaso: insieme avrebbero
cercato di risolvere il problema.

96
Il giorno dopo, il maestro arrivò che Ippaso stava anco­
ra preparando la colazione. Mangiarono maza con miele e
bevvero ciceòne.
Rinfrancato il corpo e lo spirito, si misero al lavoro. Pi­
tagora volle provare a migliorare i calcoli. Ben presto, però,
anche il maestro convenne che non erano sulla strada giu­
sta.
((Non è lungo questo percorso che arriveremo alla solu­
zione. Non possiamo continuare a procedere per tentativi.
I numeri che cerchiamo potrebbero essere grandissimi. E
potremmo non avere le capacità e il tempo per trovarli)).
((E allora? Che cosa facciamo?)).
((Qualcosa di nuovo . . . una strada inesplorata . . . che ci
porti oltre il calcolo)).
((Sì, ma quale?)), lo incalzò . Ippaso. ((Dobbiamo cercare
un risultato senza numeri?)).
((Qualcosa del genere . . . che succederebbe se ipotizzas­
simo soltanto che quei due numeri esistano? . . . senza spe­
cificare quali essi siano?)), Pitagora rifletteva a voce alta. ((A
quali conclusioni ci porta questa ipotesi? Ci aiuta a capire
meglio la loro natura?)).
Ippaso andò a prendere delle tavolette cerate. E sulla
prima scrisse.
n
d x d = 2d
m

((Potremmo provare ad applicare qualche operazione)),


mormorò il maestro. E a sua volta scrisse.

n n
-- x - 2
m m

97
E sotto aggiunse.
nxn
2
mxm

(( . . . che è come dire che nxn è il doppio di mxm», de­


dusse Ippaso scrivendolo sulla tavoletta. ((Ma a che ci può
. .
servtre�. . . . nxn e pan. E aliora.� ».
'

Il maestro sembrava stanco. Ippaso gli offrì altro ciceone


che Pitagora accettò volentieri.
((Un numero dispari moltiplicato per se stesso dà risul­
tato dispari. Quindi se nxn è pari, n è pari».
((Se n è pari, scriviamolo come 2k e quindi nxn=4kxb,
gli andò dietro Ippaso. Poi tacque e scrisse quanto stavano
dicendo.
nxn 2m x m
2m x m 4kxk

((Non vedo che altro potremmo dedurre . . . », scosse la


testa Ippaso. Pitagora bevve l'ultimo sorso di ciceone. Poi
con gesto deciso prese in mano la tavoletta. ((Che cosa ab­
biamo detto finora? Il numero d moltiplicato per se stesso
dà come risultato 2» e cerchiò la formula dxd=2. (d numeri
n ed m sono tali che d=nfm,, e sottolineò anche questa
formula. (dnfine abbiamo dimostrato che se esistono, allora
sia m che n devono essere pari», concluse il maestro.
((Ma . . . questo non basta: i numeri pari sono ancora una
quantità illimitata. Di quali numeri pari stiamo parlando?».
((Che vuoi dire?», la voce di Pitagora calò di un tono.
(d numeri n ed m sono pari: allora possiamo scriverli
tutti e due come i doppi di numeri naturali». Ciò detto
Ippaso tacque e cominciò a scrivere.

YB
n = 2h m · = 2k
n 2h
--

m 2k
n h
m k
h
d =
k

« È la stessa formula di prima, solo scritta con k e con


h)), si infervorò il giovane, «che sono la metà di n e di m)).
Pitagora alzò gli occhi al cielo. Poi li riportò alla tavo­
letta e infine su Ippaso. Lo sguardo che posò sul discepolo
si era riempito di terrore: sembrava avesse visto Medusa.
«Che gli dèi mi salvino!)), sussurrò con un filo di voce.
«Maestro?)), si preoccupò Ippaso. <<Che cosa ho detto?)).
Sul volto di Pitagora, il terrore lasciò il posto a una fred­
da determinazione.
«Seguendo questo percorso non arriveremo da nessuna
parte!)), tagliò corto Pitagora. «La lezione è finita)) e con
passo veloce lasciò la casa del discepolo.

99
La musica della diagonale
Dove lppaso scopre un numero impossibile e Filolao
si meraviglia che, sebbene impossibile, quel numero
abbia un suono.

Gennaio 51 7 a.C., qualche giorno dopo

Ippaso varcò l'ingresso della scuola. Il cortile era anima­


to da gruppetti di matematici e acusmatici. Alla sua destra
matematici discutevano animatamente sotto lo sguardo
ammirato di giovani acusmatici. Dalla parte opposta altri
acusmatici passeggiavano silenziosi in ordine sparso. Vicino
al peristilio, il maestro parlava con Filolao. I due risposero
al suo cenno di saluto, poi il maestro diede loro le spalle e
sparì nell'edificio scolastico. Ippaso si avvicinò a Filolao.
«Non trovi che da qualche giorno il maestro abbia un
atteggiamento strano?)).
«Non mi sembra)), rispose di primo acchito Filolao, per
poi correggersi «A pensarci bene forse a volte ha l'aria un
po' preoccupata)) .
« È come se stesse cercando di evitarmi)).
«Non ne vedo il motivo)).
I due si avviarono verso le scale che portavano al piano
superiore.
«Dal giorno in cui abbiamo cercato quei due numeri . . .
il maestro mi evita . . . )).
((Quali numeri?>>.
((Perché mi evita?)), continuò a chiedersi Ippaso ignoran­
do la domanda di Filolao. ((Perché quest'improvviso muta­
mento di umore? Perché è scappato?)).

1 00
((Di che cosa parli? Spiegami! Il maestro è scappato via
durante la vostra discussione?)),
((Sì. Stavamo discutendo di un mio dubbio e improv­
visamente ha cambiato espressione: sembrava terrorizzato.
Ha troncato la discussione e se n'è andato)).
((Il maestro? [avrai di nuovo infastidito con qualche ri­
sposta . . ))
, ,

((Ci ho pensato � . . in passato . . . a volte posso essere sta­


to . . . inopportuno. Ma questa volta, no . . . nessuno di que­
gli atteggiamenti che tanto infastidiscono il maestro».
((Forse hai detto qualcosa)), provò ancora Filolao. ((Forse
qualcosa che hai detto lo ha disturbato . . . accennavi alla
ricerca di due numeri)).
Ippaso e Filolao avevano raggiunto lo scrittoio. Ippaso
invitò l'amico a entrare, prese alcune tavolette appena rasa­
te, tirò fuori il suo stilo e si sedette. Filolao lo imitò.
I raggi di un tiepido sole penetravano dalle finestre ri­
volte a sud. Lo scrittoio riceveva i raggi del sole, più basso
sull'orizzonte, nei mesi invernali; mentre la tettoia che dava
sul cortile lo riparava da quelli roventi dell'estate. Quel
giorno, nonostante il focolare, l'ambiente non era propria­
mente caldo e molti dei presenti continuavano a indossare
l'himation sul chitone anche dentro scuola.
Ippaso ripropose a Filolao la discussione che aveva avu­
.
to con il maestro. I due parlavano a bassa voce per non
disturbare gli acusmatici che occupavano la maggior parte
dei tavoli. ((Allora, se d è quel numero che moltiplicato per
se stesso dà come risultato 2, ed n ed m sono numeri il cui
rapporto è d, col maestro, abbiamo dimostrato che sia m
sia n sono pari)).
((D'accordo)), annuì Filolao.
((Sono arrivato al punto di dire che anche le metà di n e
di m, chiamiamole h e k, sono legate dalla formula d=h/k)),

1ot
qui Ippaso fece una pausa per lasciare a Filolao tempo e
modo di capire. <<Ecco. È stato a qui che il maestro ha avuto
quel brusco mutamento d'umore».
«Perché questa conclusione potrebbe averlo spaventa­
to?».
<<Che cosa ci ha visto che noi non vediamo?».
«Non lo so», rifletté ad alta voce Filolao. «Non mi sem­
bra che tu abbia aggiunto nulla di nuovo. Anzi, la tua os­
servazione chiude il cerchio: dopo tutti quegli sforzi siete
tornati al punto di partenza, d=h/k».
Ippaso fissò la tavoletta.
«Non è . . . precisamente . . . un cerchio che si chiude . . . h
e k sono la metà di n e la metà di m . . . il punto dove arri­
viamo non è proprio quello di partenza».
«Be', se non è un cerchio sarà una spirale . . . », rise Filo­
lao.
«Una spirale)), sussurrò lppaso. «Una spi-ra-le», scandì
lentamente. «Una spirale! Ecco il punto! È questa terrifi­
cante spirale ad aver terrorizzato il maestro!».
Tutti si voltarono a guardarli. Qualcuno protestò. Filo­
lao e Ippaso raccolsero le loro tavolette e uscirono.

«Ippaso, ma sei impazzito?», gli sibilò l'amico mentre


uscivano. «Parlare del maestro in quel modo? E per di più
ad alta voce?».
«Una tale scoperta! Come controllarsi?», bofonchiò il
metapontino. «Comunque nessuno ha capito a che cosa ci
riferissimo».
<<Ne sei sicuro? lo però non ho ancora capito quale sa­
rebbe questa scoperta così sconvolgente da far perdere il
controllo».
«Troviamo un'aula libera e te la spiego».

1 02
Mentre i due si incamminavano verso le scale, un uomo
col pileo sgattaiolò fuori dallo scrittorio e si avviò in fretta
nella direzione opposta alla loro.
Entrati in un'aula vuota, Ippaso e Filolao ripresero la
discussione.
«Capisci, Filolao? Se mi trovo nella situazione iniziale
ma con h e k che sono la metà di n ed m allora posso
ripetere tutto il ragionamento daccapo e arrivare ad altri
due numeri che sono la metà di h e k. Poi posso ripetere
di nuovo il tutto e arrivare ad altri due numeri che sono la
metà della metà, e così via lungo una spirale senza fine».
«Chiaro . . . e perché questo dovrebbe far paura al mae­
stro?».
«Perché abbiamo una serie illimitata di coppie di nume­
ri gli uni la metà dei precedenti».
Filolao meditò per qualche istante poi ebbe un sussulto.
«Ho capito! Una serie del genere non può esistere. O
meglio, non può essere illimitata . . . prima o poi dovrò arri­
vare a un numero che non è divisibile per due».
<<Giusto. E invece il nostro metodo ci permetterebbe di
andare avanti illimitatamente», Ippaso vide che Filolao ri­
guardava le tavolette. «Che c'è? Ti vedo perplesso. Non hai
afferrato il senso?».
«No, credo di aver capito . . . deve esserci un errore nel­
le vostre deduzioni. Capisco che il maestro ci possa essere
rimasto male, ma non è da lui reagire in quel modo a un
errore».
<lLe nostre deduzioni sono corrette. Fidati».
«E la conclusione assurda?».
«C'è una sola spiegazione».
«Quale?».
«Se le deduzioni sono giuste, a essete sbagliate sono le
premesse».

103
<<Che vorresti dire?)).
«Dico che non possono esistere due numeri interi il cui
rapporto è d se contemporaneamente il quadrato di d è 2)).
Filolao fissò Ippaso. Un lento sorriso gli affiorò sulle lab­
bra, per poi allargarsi a tutto il viso e sfociare in una sonora
risata.
«Ma è impossibile, Ippaso! Quel numero è la lunghez­
za della diagonale del quadrato di lato l . Una lunghezza
in una figura geometrica semplicissima. È impensabile che
non sia il rapporto di due numeri. Tutte le realtà dell'Uni­
verso sono esprimibili attraverso numeri. La causa prima
dell'Universo è il Numero. [Universo è costituito da nu­
meri)), Filolao era un fiume in piena: la sua foga investiva
lppaso e non lasciava spazio a dubbi. «Potrei forse arrivare
a concepire l'esistenza di un'eccezione in altri ambiti. Ma
non per una lunghezza come la diagonale!)).
Ippaso, imperturbabile e irritante, non reagì. Allora Fi­
lolao riprese con maggior enfasi: «Tutti i numeri o sono in­
teri o sono un rapporto tra due interi. Se fosse vero quello
che tu dici allora la lunghezza della diagonale non sarebbe
un numero. Ti rendi conto dell'assurdità di questa conclu­
sione? Una lunghezza che non è un numero? È semplice­
mente in-con-ce-pi-bi-le!)), scandì con enfasi Filolao.
Ippaso sostenne il suo sguardo. «Non c'è altra spiega­
zione)).
«Impossibile. Capisci le conseguenze? Sarebbe tutto fal­
so: panta arithmos esti, tutto è Numero! La musica è fatta di
numeri, il movimento degli astri è fatto di suoni e numeri,
tutti gli oggetti dell'Universo sono fatti di numeri e quin­
di di musica. Un oggetto senza numero non produrrebbe
suono. Quale sarebbe la musica della diagonale del qua­
drato? Vuoi dirmi che una corda di quella lunghezza non
produce suono?)), Filolao prese un po' di fiato, poi concluse
con ancora maggior enfasi. <<Se fosse vero, la nostra teoria
non avrebbe più senso . . . le nostre lezioni sarebbero inuti­
li. . . nessuno vorrebbe più frequentare la scuola . . . sarebbe
la nostra fine)).
«Lo so. E non mi lascia indifferente. Tuttavia l'argomen­
tazione, prodotta per buona parte da Pitagora, è incoritro­
vertibile. E giustifica la reazione del maestro. Sono state
proprio le possibili conseguenze a sconvolgerlo: Pitagora le
ha intuite molto prima di noi)).
Filolao conosceva il talento .di Ippaso. Sapeva di essere
stato vinto dalla sua argomentazione.
«Ma allora . . . ? Che dovremmo fare? Mantenere il segre­
.
to per evitare le conseguenze?)).
«Non amo il segreto. Mi opposi a esso quando scoprim­
mo la correlazione tra suoni e numeri. Ho ceduto perché
mi convinceste del possibile abuso di una teoria così po­
tente. In questo caso, però, mantenere segreta la scoperta
significherebbe continuare a insegnare e a diffondere una
dottrina falsa! Non è stato il maestro a insegnarci che noi
siamo filosofi? Che siamo coloro che amano la sapienza? ...
Che amanti saremmo se la tradissimo alla prima occasio­
ne?)).
«Che vuoi fare?)).
«Andrò dal maestro e gli dirò quello che penso)).

I OS
Odio, collera e silenzio
Dove, mentre Pitagora è travagliato dai pensieri e
dai dubbi, qualcuno complotta e trarria alle spalle
di lppaso.

Gennaio 51 7 a.C., lo stesso giorno

((Questa è la quarta del pomeriggio. E chissà quante ne


avrà bevute stamane!», disse tra sé e sé Trasibulo mentre
bussava alla porta di Pitagora. ((La vostra coppa, maestro».
Un uomo con indosso un pileo aspettava che il servitore
si allontanasse prima di bussare a sua volta.
((Panta arithmos esti».
((Panta arithmos esti», rispose Pitagora automaticamen­
te, prima di alzare gli occhi dalla tavoletta. ((A che punto
sei con il lavoro?».
((A buon punto . . . sono riuscito a farmi un'idea precisa
del quadro complessivo. Comprendo i motivi della vostra
preoccupazione. E credo che ci sia arrivato anche Ippaso».
Pitagora lo fissò. ((Prima di venire qui», continuò l'uomo,
((ero nello scrittoio quando lui e Filolao sono entrati. Han­
no cominciato a parlottare e a scrivere. Sono riuscito a
cogliere alcune frasi: stavano parlando del problema del­
la diagonale. Come facevano a conoscerlo? Dovete averne
parlato con loro . . . probabilmente con Ippaso>>.
((Con Ippaso . . . ne abbiamo parlato qualche giorno fa»,
confermò Pitagora con molta tranquillità. d.: acume di quel
.

ragazzo è formidabile. Peccato per la sua presunzione: gli


impedirà di diventare un grande filosofo e matematico».
L uomo, stupito, aggrottò la fronte. (dppaso si è accorto del
problema giocando con entità che tutti noi usiamo quoti-

l ()()
dianarnente da anni)), proseguì Pitagora. <<Ma nessuno di
noi aveva notato nulla: lui è stato il primo ad accorgersi che
qualcosa non andava)).
«Perché . . . allora . . . stava ancora indagando con Filo-
lao?)).
«Perché non era riuscito a cogliere a fondo la scoperta)).
«Quindi la scoperta è vostra, maestro, non di Ippaso!)).
«Mia . . . di Ippaso . . . chi può dirlo? Certo è che se non
mi avesse coinvolto nelle riflessioni, molto probabilmente
non mi sarei accorto di nulla. Poi ho visto io il problema
prima di lui e la mia reazione è stata quella di na.Scondere
il risultato. Tuttavia mi sono presto convinto che quel ri­
sultato prima o poi lo avrebbe trovato da solo. E non mi
sbagliavo)).
«Ci è arrivato solo perché voi lo avete messo sulla buona
strada. Il merito è vostro)), insistette l'uomo.
«A che serve discutere dei meriti? Limportante è capire
le conseguenze. Tu riesci a immaginare dove potrebbe por­
tarci questa infausta scoperta?)).
«Una catastrofe . . . è una catastrofe per tutti noi! Dob­
biamo mantenerla segreta)).
«Ne sei sicuro?)), chiese Pitagora con la sofferenza in voi-
to.
«Non possiamo gettare in pasto a Caronte il lavoro di
.,
annt.)).
Pitagora sembrava inquieto. «Ci ho riflettuto molto. Ho
soppesato tutte le possibilità)), disse con voce roca. «Con
quale spirito potrei tenere nascosta una tale scoperta? E Ip­
paso? Sono sicuro che si opporrebbe)).
«Ippaso, Ippaso>>, sbottò l'uomo. «Sono stufo di sentirne
il nome. Con che autorità ci condiziona? La decisione deve
essere presa dal Consiglio degli Eletti!)).

1 07
<<Contro i miei stessi insegnamenti? Contro la verità?)),
reagì Pitagora. «Noi siamo filosofi! Filosofi e matematici.
Dobbiamo ricercare la verità!)), ebbe bisogno di una pau­
sa. «E Ippaso potrebbe decidere di divulgare comunque la
scoperta)).
«Sarà nostro compito impedirglielo)), tagliò corto l'uo­
mo.
«Impedirglielo?)), ripeté Pitagora con un cenno d'ironia.
«E come?)).
«Lo decideremo nel Consiglio degli Eletth).
«Nel Consiglio degli Eletti. . . )).
I..:uomo si accomiatò: c'erano allievi che lo stavano
aspettando.

Pitagora rimase solo. In preda ai dubbi. «Segreto o veri­


tà?)), pensò gettando due pezzi di legna sul fuoco.
D'altra parte non c'era il precedente della relazione tra
numeri e musica? Non ne avevano forse limitato la diffu­
sione?
La breve giornata invernale volgeva al termine. Pitagora
accese lo stoppino della lampada.
Ci sono delle differenze: le incudini hanno prodotto
nuova conoscenza senza andare in contrasto con le nostre
convinzioni precedenti. La diagonale invece propone qual­
cosa di nuovo e contraddice buona parte dei nostri insegna­
menti. Potremmo continuare a insegnare una teoria falsa?
D'altro canto, come è possibile che la nostra dottrina
del Numero sia falsa? Come si spiegano tutte quelle coin­
cidenze? Come possono sussistere tutte quelle connessioni
tra numeri e fenomeni del mondo reale?
Bussarono alla porta: era Ippaso, seguito da Filolao.
«Sedete)), li invitò Pitagora, col tono consueto, reso ap­
pena più drammatico da un cenno di gravità.

t OB
Filolao sedette mentre Ippaso rimase in piedi a fissare il
maestro. Il riverbero della lampada illuminava i loro volti.
La barba e i .lunghi capelli argentati di Pitagora luccicavano
appena. Il tremolio di luci e ombre marcava la tensione sul
volto di Ippaso. Affrontare il maestro era più difficile di
quanto avesse immaginato. Non sapeva come cominciare.
Le troppe parole che aveva in mente gli avevano come con­
gestionato le corde vocali.
Fu Pitagora a parlare per primo. «So quello che hai da
dirmi, Ippaso».
I.:impassibilità del maestro spiazzò il metapontino e ne
accrebbe l'ira. «Credevate fossi uno stupido! Pensavate di
tenermi all'oscuro! Vi sbagliavate!».
Pitagora fu colto alla sprovvista. Pur conoscendo Ippaso
non si sarebbe aspettato un tono così aggressivo.
«Non è come credi, Ippaso», cercò di arginarlo stanca­
mente.
«Non è come credo? E allora perché voi avete cercato di
occultare tutto?», gli gettò in faccia il discepolo.
«Sei in balia delle emozioni. Controllati. Dovremmo af­
frontare questo discorso quando · sarai in grado di usare la
tua splendida razionalità».
«Ancora con le mie emozioni! Sono solo un pretesto per
evitarmi. . . per continuare a nascondere e a coprire». Tutti
gli insegnamenti appresi a scuola, tutti i consigli del ma­
estro, erano come cancellati: Ippaso si lasciava trascinare
dalla collera, forse addirittura dall'odio.
(<Non confondere fatti così diversi, Ippaso. Non parlare
senza cognizione dei fatti. Non agire con supponenza».
«Ditelo! Allora, ditelo . . . che non so di che cosa sto par­
.
lando. E se non so nulla, potrò ben rivelare a tutti quello
che so. Se non ha alcun valore, nessuno lo prenderà in con­
siderazione! E io sono libero di ripeterlo a chiunque».

1 ()CJ
Filolao, che fino a quel momento era rimasto a guarda­
re, ammutolito e spaventato dalla reazione di Ippaso, cercò
di intervenire. «lppaso, cerca di calmarti!», gli disse accom­
pagnando le parole con un tocco lieve sul braccio. Ippaso
fuggì da quel contatto. Era furibondo. Guardava il maestro
con odio, con quell'odio spietato che può nutrire un figlio
che si ribella al padre.
Pitagora si alzò e, proprio in quel momento, la fiamma
del fuoco, alimentata da una corrente d'aria, raggiunse la
corteccia di un ciocco che avvampò all'istante. Il bagliore
rossastro accentuò il rossore sul volto del maestro. Ora la
chioma e la barba sembravano sfavillare come la brace. Pi­
tagora puntò il dito contro il discepolo. «Stai oltrepassan­
do il limite, ragazzo. Ora io ti impongo, difronte agli dèi,
l'assoluto silenzio sulla scoperta. Ti impongo la sospensio­
ne dalla scuola almeno fino a quando non avremo deciso
come interpretare la scoperta».

1 1 ()
L'espulsione di Ippaso
Dove le trame arrivano al cospetto del Consiglio
degli Eletti che prende una decisione ineluttabile.

Maggio 51 7 a. C., qua ttro mesi dopo

Sullo scranno difronte a Ippaso sedevano un uomo e


una donna con indosso le maschere di Apollo e di Hera.
Lo scranno alla loro sinistra era occupato da un altro uomo
con la maschera di Dioniso e un pileo tra le mani. Alle
spalle di Ippaso sedevano nove persone, tutte con una ma­
schera da tragedia. Da quando era stato fondato due anni
prima, quella era sicuramente la più importante riunione
del Consiglio degli Eletti.
«Panta arithmos esti, panta arithmos esti». Dioniso e le
nove maschere tragiche intonarono quella lugubre mano­
dia salmodiante. «Panta arithmos esti, panta arithmos esti».
Poi tacquero per lasciare spazio al silenzio e, infine, ad
Apollo.
«Dichiaro aperta la ventunesima riunione del Consiglio
degli Eletti», disse l'uomo facendo scorrere lo sguardo sui
presenti. <<Oggi siamo chiamati a decidere dell'espulsione
di Ippaso. Dioniso lo accusa di aver divulgato una scoperta
non ancora verificata dal Consiglio degli Eletti e sulla cui
diffusione era stato imposto esplicito divieto. Ad aggravare
l'accusa, c'è il fatto che la divulgazione sarebbe avvenuta
durante un periodo di sospensione dalla sèuola. Per que­
sto, Dioniso ne chiede l'espulsione definitiva e irrevocabi­
le». Apollo guardò Dioniso e poi riprese. «Cedo la parola a
Dioniso perché esponga la sua versione dei fatti e motivi la
richiesta d'espulsione».

1 1 1
Dioniso si alzò e si rivolse ad Apollo e a Hera. «Signore
e signora degli Eletti, mi rivolgo a voi. Mi rivolgo a voi, o
mortale Diade, trasfigurazione della divina Diade. Mortale
e immortale, maschile e femminile, che vanno a fondersi
nella perfetta Tetrade, emblema della Giustizia universale.
Ed è a questa Giustizia universale e alla completezza del
Numero, che tutto comprende e tutto spiega, che chiedo
di giudicare la mia richiesta».
((Ti ascoltiamo, Dioniso. Narraci i fatti».
((Riporterò i fatti che ho osservato nella loro interezza e
con tutta l'oggettività possibile», rispose Dioniso con voce
grave. Poi poggiò lo sguardo su Ippaso, fissandolo negli oc­
chi pieni d'odio.
(d fatti che osservai ebbero luogo un mese e mezzo fa.
Circa una luna dopo la sospensione di Ippaso dalla scuola.
Era l'ora del tramonto e piovigginava.
Come molti crotonesi, stavo rientrando, quando, in lon­
tananza, notai Megacle uscire di casa. Il giovane mi sembrò
muoversi con fare sospetto. Decisi di seguirlo a distanza.
Dopo un tortuoso percorso per i vicoli meno frequentati,
Megacle giunse alla casa di Ippaso. Entrò nel cortile attra­
verso il portone socchiuso. Io mi spostai silenziosamente
per gettare uno sguardo all'interno. Lo vidi raccogliere una
pietruzza e lanciarla contro una finestra. Immediatamen­
te la porta di casa si dischiuse quel poco da permettere al
ragazzo di sgattaiolare dentro, per poi richiudersi alle sue
spalle. Attesi che la debole luce del crepuscolo fosse defini­
tivamente calata, quindi mi avvicinai alla finestra. Il buio
nel cortile era pressoché totale. Dalle finestre del pianter­
reno non provenivano luci. Da una sola al piano superiore
traspariva un fievolissimo chiarore. Rimasi fermo qualche
istante e mi accorsi che ne veniva anche un lieve bisbiglio».
((Qualcuno ti vide?», domandò Hera.

1 12
«Durante il percorso . . . l'ho già detto, c'era gente per
strada».
«E lì?».
«Lì, non credo».
«E che cosa facesti?».
«La curiosità fu più forte del buon senso. Decisi di ar­
rampicarmi su quel muro bagnato. Mi avvicinai alla fine­
stra e tastai l'intonaco fino a trovare qualche pietra spor­
gente. Salii per un tratto. Feci diversi tentativi prima di
trovare il punto d'appoggio giusto. Proprio quando mi
sembrava di aver raggiunto la base della finestra, scivolai,
mi ritrovai a rotolare sul terreno bagnato e finii in una poz­
zanghera. Rimasi fermo per qualche istante. Il bisbiglio era
cessato. E qualcuno si avvicinava alla finestra. Stetti così
immobile che l'ombra tornò verso l'interno della stanza.
lo, intanto, trovai un grosso ciocco salendo sul quale riuscii
a raggiungere la finestra: i bisbiglii risultavano finalmente
comprensibili.
Distinsi tre voci, tra le quali riconobbi Megacle e Ippa­
so. Per capire di chi fosse la terza persona dovetti gettare
uno sguardo tra le stecche della finestra. Al tavolo i due
sedevano con Leucippo e con altre due persone di spalle
che non riuscii a riconoscere».
«Che cosa dicevano?>>, continuò a domandare Hera.
«Capii quasi tutto».
<<Riferiscicelo nel modo più fedele possibile», si rivolse
a lui Apollo.
«Ippaso aveva le mani occupate da una tavoletta e da
uno stilo», cominciò Dioniso. «Altre tavolette erano sparse
sul tavolo. A parlare era quasi sempre lui: leggeva e com­
mentavà. Di tanto in tanto, i due giovani lo interrompeva­
no con qualche domanda».
Ippaso ascoltava senza battere ciglio.

tn
«Cosa era scritto sulle tavolette?>>, tornò a chiedere Hera.
«Erano state stilate da Ippaso e contenevano sia l'infau..,
sta scoperta sia ulteriori studi che egli aveva intrapreso per
trovare risultati simili con altre figure geometriche».
<<Come fai a dirlo?», indagò Apollo.
«Sentii Megacle dire "Tu dici di aver dimostrato che la
lunghezza della diagonale di un quadrato di lato l non è
un numero. E la dimostrazione che ci hai illustrato è con­
vincente. Ma un solo caso non può mandare all'aria tutta la
teoria del Numero". E Ippaso gli rispose che non era così.
Che bastava un solo caso per falsificare una teoria. E che
comunque lui di casi ne aveva trovati altri».
«Altri?», tuonò Apollo rivolto a Ippaso, la cui impassibi­
lità lasciò spazio a un moto di compiacimento.
«Sì, altri», annuì grave Dioniso. «Ippaso disse a Megacle
di aver trovato una lunghezza non esprimibile come nume­
ro persino nel pentagramma».
«Nel pentagramma?», urlò Apollo, per poi accasciarsi e
sussurrare << . . . nel simbolo della scuola».
Nel silenzio generale Ippaso sorrideva.
«Che altro disse Ippaso? Illustrò questa nuova dimostra­
zione?», chiese Hera.
«Non posso dirlo», si affrettò a rispondere Dioniso. E,
sotto lo sguardo torvo di Apollo, precisò «Non saprei. . .
non so dirlo, perché proprio in quel momento il ciocco su
cui poggiavo crollò. Appena caduto a terra qualcuno mi si
scagliò addosso. Sollevai un braccio d'istinto e una lama
mi lacerò il braccio. Per mia fortuna riuscii ad afferrare una
pietra e a colpire l'aggressore alla testa. Approfittai del suo
stordimento per fuggire».
Il silenzio avvolse le parole drammatiche di Dioniso, in­
terrotto, ancora una volta, da Apollo. «Sapresti riconoscere
chi ti ha aggredito?».

1 14
<<No. I..:oscurità era totale... sarà stato il servitore di Ip­
paso . . Ah, c'è anche dell'altro», fece poi con tono quasi
.

distratto.
<<Che cosa?>>, chiese Apollo.
<& un'impressione che ebbi un istante prima di cadere».
<<Quale?», lo incalzò Hera.
<<Una voce femminile», fece una pausa per lasciare tem­
po che tutti registrassero la cosa. <<Dalla finestra usciva an­
che la voce di una giovane donna».
Un brusio si diffuse tra i presenti.
<<E tu, Ippaso, che hai da dire a tua discolpa?», esplose
Apollo azzittendo l'aula con un colpo sullo scranno.
<<Non ho nulla da dire: non ho colpe! Gli dèi mi sono
testimoni», rispose il giovane senza esitazioni.
<<Chi era la donna?», urlò Apollo.
<<Non c'era nessuna donna!».
<<Bada, Ippaso. Hai prestato giuramento sulla sacra Te­
traktys», intervenne Dioniso.
<<Che valore può avere un giuramento su qualcosa in cui
non si crede?», replicò Ippaso con un sorriso sottile e pene­
trante come una lama. La sua risposta scatenò un vocife­
rare di commenti bisbigliati. "Non crede nella sacralità del
Numero?". " È un miscredente!". "Merita una condanna!".
<<Silenzio!», tuonò Apollo. E, dopo aver incrociato lo
sguardo con H era, riprese. <<Dichiaro terminata l'acqui­
sizione dei fatti e apro la discussione del Consiglio degli
Eletti».
«Che i servitori accompagnino Ippaso e Dioniso fuori
dall'aula», ordinò Hera.
Una volta chiuse le porte, Apollo prese di nuovo la pa­
rola. «I fatti esposti sono chiari. Chi vuole esprimere un
parere, lo faccia ora».
«lppaso merita una dura condanna!».

1 1s
«Che condanna proponi, Eracle, e con quali motivazio-
fil.� )) .
·

«Le infrazioni di Ippaso sono tra le più gravi che un


pitagorico possa commettere)), rispose l'uomo da dietro
la maschera leonina. «l fatti esposti da Dioniso e la tacita
ammissione dell'accusato ci mostrano come Ippaso abbia
ignorato l'imposizione dell'assoluto silenzio sulla scoperta,
divulgandola non solo con le parole ma molto più grave­
mente anche per iscritto. Egli ha inoltre c�ntinuato le ri­
cerche con l'intento di produrre altri risultati simili, volti a
scardinare la teoria del Numero. E si è spinto a reclutare e
a istruire adepti probabilmente con lo scopo di creare una
scuola alternativa alla nostra. Per non dire poi della man­
canza di rispetto e del disprezzo mostrati verso il Consiglio
degli Eletti)) . .Caula espresse la propria approvazione con
sonori brusii. (<È per questa ragione che chiedo la condanna
più dura che si possa applicare: la morte per annegamento)).
I commenti esplosero alti, ma questa volta dissonanti
e non unanimi. "Non abbiamo mai condannato a morte
nessuno " . "Se lo menta, quel maledetto arrogante.r" . " . . . una
·

punizione esemplare ma non la morte".


((Dissento)), si fece sentire Hera. ((Riconosco la contrad­
dizione tra i fatti divulgati e la teoria del Numero. Ricono­
sco che la loro divulgazione potrebbe esporre la scuola a un
grosso rischio. È pur vero, tuttavia, che la dimostrazione di
Ippaso sembra corretta e questo dovrebbe farci riflettere)).
((La dimostrazione è del maestro e non di Ippaso)), obiet­
tò Eracle. ((E personalmente non sono neppure d'accordo
sulla correttezza)).
«Lho letta e riletta)), lo interruppe Apollo, ((e io . . . mio
malgrado . . . non sono riuscito a trovarci errori)).

1 16
<<A Dioniso e me è parso che qualche problema ci sia . . . ».
«Di che problema parli?».
«La cosiddetta. . . dimostrazione si basa sul fatto che,
se ammettiamo l'esistenza di due numeri interi il cui rap­
porto moltiplicato per se stesso dà come risultato 2, allora
riusciamo a generare una serie illimitata di coppie di nu­
meri interi in cui i membri di ogni nuova coppia sono la
metà dei numeri precedenti. Poiché questo è impossibile,
anche l'assunzione di partenza deve esserlo. Ecco, è proprio
quest'ultimo passo che non convince né me né Dioniso».
«Per quale motivo?» chiese Hera.
«Potrei ribaltare la domanda e chiedere per quale mo­
tivo dovremmo accettare questo tipo di argomentazione.
Perché se da un'assunzione riesco a dedurre una conclusio­
ne falsa allora anche l'assunzione dovrebbe .essere falsa?».
« È logica, Eracle! Qualsiasi mente razionale accettereb­
be quel passo».
«Dissento», ribatté Eracle fermamente. «La dimostra­
zione divulgata da Ippaso è fallace. E questa fallacia ha
danneggiato tutti noi. È un'aggravante ulteriore che va a
rafforzare la motivazione per la massima condanna».
Laula gli rispose con accresciuto brusio. "È vero, la di­
mostrazione non è valida!". "Ha usato una dimostrazione
falsa, quel traditore". "Ma perché Apollo non si pronun-
cta
. �. ,.
«La dimostrazione è corretta», affermò Apollo. «Ma, allo
stesso tempo, riconosco che la discussione sul risultato sia
ancora aperta e che questo fatto renda la posizione di Ippa­
so meno difendibile. In ogni caso, la gravità del fatti non
è tale da giustificare una condanna a morte. Propongo di
espellere definitivamente Ippaso dalla scuola e, come detta
la regola, di dichiararlo morto per i pitagorici restituendo­
gli il doppio dei suoi beni».

1 17
Tutti tacquero. Nessuno osò infrangere il silenzio che se­
guì alle parole di Apollo.
<<Che si votino le due proposte», ordinò Hera.
Nove Eletti scelsero l'espulsione, tre la condanna a morte.

11B
La punizione degli dèi
Dove Muia soffre grandemente e dove Pitagora
cerca risposte nel Tempio di Apollo.

Luglio 51 7 a.C., due mesi dopo

<<Come sta . . . oggi?».


«Come negli ultimi due mesi: il suo umore è sempre lo
stesso».
«Almeno ha mangiato qualcosa?».
«Un tozzo di maza appena ed è tornata a letto».
In due mesi i capelli di Pitagora erano imbiancati. Qual­
che filo nero sopravviveva solo nella barba. Le rughe sul
volto scarno si erano vistosamente accentuate. Il maestro
guardò la moglie con lo sguardo amareggiato che non lo
abbandonava da tempo.
«Di Ippaso non si sa ancora nulla, vero?», riprese Teano.
«Glauco è stato l'ultimo a vederlo. Nessun altro dopo di
lui l'ha visto. Neppure in altre città».
Marito e moglie furono interrotti dall'ingresso di Muia.
I capelli sottili, una volta lucidi e ordinati, le scendevano
opachi, inerti e spettinati sul corpo smagrito. Gli occhi
arrossati erano cerchiati da una cornice livida sul volto
emaciato. Il naso, anch'esso arrossato, sembrava essersi al­
lungato. Eppure, nonostante i segni di sofferenza, la sua
bellezza era ancora innegabile. Ma era una bellezza diversa.
Dotata del fascino conferito dal dolore. La ragazza prese
una coppa, vi versò dell'acqua, bevve e tornò ad andarsene
ignorando i genitori.
«Vado al tempio», annunciò Pitagora scuotendo la testa.
Poi bevve d'un fiato una coppa di ciceone, indossò il petaso
e uscì nella giornata calda, umida e soleggiata.

1 1 <)
Esitò nell'entrare nella cella templare. Titubante volse gli
occhi alla statua. Forse a causa dell'insolita luce che filtra­
va dalle feritoie, Pitagora ebbe l'impressione che Apollo lo
guardasse con espressione severa. Il maestro si prostrò ai
piedi dell'effige.
((Oh, divino Apollo!», implorò. ((Aiutami in questo mo­
mento difficile. Suggeriscimi le parole per consolare mia
figlia».
Il dio rimase impassibile.
((Tutta la città mi ascolta! Le mie parole sono giuste e
sagge per gli altri! Non lo sono più per lei: sono impotente
davanti alle pene del mio stesso sangue>>.
Il volto di Apollo cominciò a oscurarsi.
((Non mi abbandonare in questo momento di estremo
bisogno!».
I..:espressione della statua diventava sempre più severa,
l'odore dell'aria cambiava e l'atmosfera andava facendosi
opprimente. Era come se le tenebre stessero avvolgendo la
cella templare. All'improvviso il volto di Apollo emise un
bagliore seguito da un boato. Le mura vibrarono e con loro
le viscere di Pitagora. Poi da quelle vibrazioni si materializ­
zò una voce.
((Sono in collera con te! Nostro padre Zeus è in collera
con te!».
Un nuovo bagliore illuminò il volto spettrale di Pitagora.
E il rombo che ne seguì si attenuò lasciando dietro di se un
fragoroso scroscio di pioggia.
((Perdonami, divino Apollo. Ho sbagliato a non venire
prima. Ero in preda al dubbio. Pensavo che non mi avresti
compreso. Che non avresti approvato».
((Ora è tardi. Anche se convincessi me, con mio padre
Zeus fallirai. Il signore degli dèi ha già formulato la sua
condanna».

1 20
La pioggia cessò di scrosciare d'improvviso.
«Condanna?)), chiese Pitagora, per poi ripetere con voce
più alta. ((Quale condanna?)). Non ebbe risposta. Il silenzio
era totale. A interromperlo fu un cigolio sinistro: il portale
della cella che si apriva. Due sagome scure si stagliarono
contro il vano d'ingresso. La luce esterna contribuiva a ren­
dere irriconoscibili i due visitatori: una figura di grandi di­
mensioni e una esile. Il maestro taceva atterrito. Mari. mano
che i due si avvicinavano, Pitagora capì che l'una era una
donna. Poi notò il pileo sul capo dell'altro. E li riconobbe.
Prostratasi ai piedi della statua la sacerdotessa parlò con
voce squillante e vigorosa. ((Sono qui come messaggera di
Apollo, latrice delle condanne che il padre Zeus volle inflig­
gervi. Il signore dell'Olimpo vi punisce per il vostro ruolo
nelle vicende che portarono alla scomparsa di Ippaso)).
Elettra fece una pausa e passò lo sguardo dall'uomo a Pi­
tagora, pietrificato e incapace di proferir parola.
((Tu, Pitagora)), riprese Elettra puntandogli contro il dito,
((sarai punito per aver ceduto a chi cercava di manipolarti.
A chi ha saputo usare i tuoi punti deboli per convincerti
di qualcosa di cui in profondità ancora dubiti. A chi ti ha
indotto a compiere azioni utili alla realizzazione del suo
piano. Un piano elaborato per eliminare l'unico ostacolo
a certi disegni di potere. Avresti potuto evitare l'epilogo
tragico di cui sei stato, allo stesso tempo, artefice incon­
sapevole e vittima. Ma nulla hai fatto per far prevalere la
giustizia)).
((Sono pronto)), rispose Pitagora guardando Elettra negli
occhi. ((Pronto ad accettare la giusta condanna)), Poi lanciò
uno sguardo all'uomo, abbassò il capo e continuò ((Sono
stato uno stolto a non accorgermi di quello che stava acca­
dendo)),
((A volte sfugge ciò che non si vuoi vedere)).

121
<<Oh Elettra, oh padre Apollo, oh divino Zeus! Eccomi
pronto alla pena. Non opporrò obiezione alcuna)).
«La condanna di Zeus vuole che tu, Pitagora, continui
a reincarnarti senza perdere mai completamente memoria
delle vite precedenti. Terminerai il tuo ciclo di reincarna­
zioni solo quando avrai trovato risposta definitiva al pro­
blema del suono senza numero. Visto che hai dubitato del­
la dimostrazione di Ippaso e che il tuo dubbio ha portato
a tragici esiti, per espiare le tue colpe dovrai trovare quel
numero che moltiplicato per se stesso dia come risultato
2 o, in alternativa, una teoria che ne spieghi l'apparente
paradosso)).
«Che succederà il giorno in cui troverò una risposta defi­
nitiva al problema?)).
«Quel giorno la tua anima troverà pace. La clemenza
di Zeus vuole che ella, dopo l'espiazione, abbia accesso ai
Campi Elisi>,.
«Sarò chiamato oggi stesso a cominciare il ciclo?''·
«No. Abiterai questo tuo corpo per altri venti anni du­
rante i quali arriverai a governare la città. Ne sarai scac­
ciato. Sarai costretto a fuggire e trascorrerai i tuoi ultimi
giorni in esilio''·
«Che Zeus sia lodato e che il suo volere misericordioso si
compia''·
Lo sguardo freddo di Elettra si spostò sul volto cadaveri­
co dell'uomo col pileo che fino a quel momento era rima­
sto immobile ad ascoltare.
«Tu, invece, per aver fatto nascere il Consiglio degli Elet­
ti e per aver tessuto una rete di alleanze al solo scopo di
manipolare il maestro e la scuola; per aver compiuto il tuo
disegno volto a eliminare Ippaso, l'unico che avrebbe po­
tuto impedire il tuo progetto di sposare Muia ed ereditare
il ruolo di capo della scuola. Tu, per questi misfatti finirai

1 22
i tuoi giorni sbranato dai lupi e la tua anima rimarrà per
sempre a soffrire le pene dell'Ade».
I.: uomo cercò di articolare qualche suono ma le parole gli
si strozzarono in gola.
<<0 . . ste . . . ».
.

«No! Oggi stesso, no! Prima avrai l'illusione di aver vinto,


e come era tuo desiderio, sposerai Muia. Però non sarai
a capo della scuola e il matrimonio non sarà mai, per te,
fonte di gioia. Muia ti darà figli ma ti disprezzerà. Vincerai
altri titoli nelle prossime olimpiadi e nei prossimi giochi
pitici di Delfi e guiderai l'esercito della città nella battaglia
vittoriosa contro i nemici di sempre: i sibariti. Quella vit­
toria, Milone, ti renderà ancora più ricco e celebre, ma non
per questo felice. Così vuole Zeus, signore dell'Olimpo».
All'uscita della sacerdotessa, una fioca luce tornò a illu­
minare la cella. E, quando anche Pitagora e Milone ebbero
varcato la soglia, il sole era tornato a risplendere.
Il maestro si voltò verso l'uomo e gli chiese. «Salute a te,
Milone. Hai notizia di Ippaso?».
«Nessuna, maestro. Ancora nessuna. Purtroppo».

123
Un'anima vagante nel tempo
Dove si continua a cercare la risposta.

1 2 febbraio 1 91 6 d.C., molti anni dopo

I..: anima di Pitagora si reincarnò cento volte e attraversò


un arco di oltre duemila quattrocento anni prima di tro­
vare la pace figlia della soluzione definitiva del problema.
Alcune sue reincarnazioni produssero grandi filosofi e ma­
tematici. Altre furono persone semplici.
Pitagora fu nel corpo di Zenone �i Elea, circa millecin­
quecento stadi a nordovest del luogo dove morì. Sotto
quelle spoglie investigò il problema della quantità di nu­
meri compresi tra due numeri dati. Una strada che lo con­
dusse all'elaborazione di quattro paradossi e all'intuizione
che la geometria e non il Numero governasse il mondo.
Dopo Zenone, nacque · in Asia Minore e fu Eudosso di
Cnido. Divenne allievo di Platone e risolse parzialmente il
problema considerando come ente geometrico il numero
il cui quadrato è 2. Eudosso trattò quel numero come la
diagonale del quadrato di lato l . E da quel momento le
grandezze incommensurabili poterono essere trattate, in
geometria, ma come se fossero numeri. Tuttavia quella non
era ancora la soluzione che gli avrebbe liberato l'anima. Pi­
tagora doveva e voleva trovare . una soluzione puramente
numerica.
Centosettanta anni dopo la sua morte, fu Euclide e ope­
rò nella Biblioteca di Alessandria d'Egitto dove scrisse gli
Elementi, opera di fondamentale importanza per la mate­
matica dei due millenni successivi.

1 24
Per molte e. molte reincarnazioni Pitagora non riuscì a
produrre alcun risultato degno di nota. Finché, a più di
un millennio e quaranta reincarnazioni di distanza, la sua
anima non capitò in una regione di lingue diverse: il per­
siano e l'arabo. Fu in Persia, nel corpo del matematico Al­
Mahani, che Pitagora capì un fatto fondamentale: quegli
strani oggetti, le grandezze incommensurabili, potevano
essere trattati come tutti gli altri numeri. Potevano essere
sommati, sottratti, moltiplicati e divisi senza la necessità di
porsi troppe domande sulla loro natura.
Ma neppure questo bastava. Non poteva bastare. Fun­
zionava ma non bastava: Pitagora doveva capirne il perché!
Come si possono definire queste grandezze incommensu­
rabili a partire dai numeri?
La risposta venne circa un millennio e altre trentanove
reincarnazioni dopo, quando Pitagora si reincarnò in Ger­
mania, e precisamente a Braunschweig, nella Bassa Sasso­
nia, nel corpo del matematico Richard Dedekind. Sotto
quelle spoglie, la sua anima trovò la risposta intorno al
1 860, quando Dedekind, professore non ancora trentenne
al Politecnico di Zurigo, definì quello che divenne poi noto
come il taglio di Dedekind. Attraverso quella definizione,
i numeri irrazionali, come la radice quadrata di 2, come
i matematici avevano chiamato nel frattempo il numero
che elevato al quadrato dà come risultato 2, poterono final­
mente essere costruiti a partire dagli interi ed entrare così a
pieno titolo nell'insieme dei numeri.
Il 1 2 febbraio 1 9 16, dopo cento reincarnazioni e oltre
duemila quattrocento anni di peregrinazioni, l'anima di
Pitagora trovò finalmente pace nei Campi Elisi.
Di reincarnazione in reincarnazione, Pitagora aveva ap­
preso molte nuove conoscenze e aveva visto smentite alcu­
ne sue convinzioni di un tempo. Altre furono confermate

12S
e alcune di queste acquisirono primaria importanza nello
sviluppo della matematica e della scienza.
Il seguito degli aspetti mistici sfumò nel tempo: la stessa
Tetraktys fu grandemente ridimensionata. I modelli astro­
nomici si rivelarono errati. Così come la convinzione che
la rotazione di ogni corpo celeste generasse un suono: la co­
siddetta musica delle sfere. Ma, seppur sbagliata, l'idea dei
suoni celesti partiva dall'intuizione che i moti degli astri
fossero correlati attraverso rapporti numerici così come lo
erano i suoni consonanti. Tale intuizione portò Keplero a
elaborare le leggi astronomiche.
Ma ciò che più fece gioire Pitagora fu vedere alcune sco­
perte della scuola di Crotone raggiungere l'Olimpo della
matematica. Il teorema, le terne, il metodo deduttivo, la
tecnica della dimostrazione per assurdo. E tra tutte questa
fu proprio la sua teoria più importante, quella del Numero,
a segnare maggiormente il destino dell'umanità: l'idea che
tutti i fenomeni del mondo fisico potessero essere interpre­
tati attraverso i numeri. ridea che aveva prodotto così tanti
problemi e contrasti, così tanti entusiasmi e delusioni, così
tanti complotti e divisioni. Seppur privata degli aspetti mi­
stici, fu quella teoria a dare linfa a tutte le scienze naturali
che Pitagora vide nascere durante le sue reincarnazioni e
che ancora oggi osserva dalla quiete dei Campi Elisi.

126
Appendice bibliografica

Per sapeme di più sul numero senza suono e sulla musi­


ca della diagonale del quadrato

Andrea Frova, Armonia celeste e dodecafonia - musica e scien­


za attraverso i secoli, BUR
La radice quadrata di 2 è il coefficiente che, nella scala del
temperamento equabile, genera il tritono. Infatti tre toni
equivalgono a sei semitoni e, nel temperamento equabile,
quella distanza si ottiene moltiplicando sei volte la frequen­
za del primo suono per la radice dodicesima di 2. E cioè
moltiplicando la frequenza del primo suono per la radice
quadrata di 2. Nel Medioevo il tritano veniva chiamato
"diabolus in musicà' per la sua dissonanza. Ma quindi il
suono senza numero, ovvero la musica della diagonale del
quadrato, è il "diabolus in musicà'? E che dire del fatto che
il temperamento equabile, basato sui numeri irrazionali,
sostituì il temperamento naturale e quello pitagorico, basa­
ti sui numeri razionali?

Per capire meglio come l'idea della musica delle sfere


portò Keplero a elaborare le sue leggi astronomiche

Gianni Zanarini, Invenzioni a due voci - Dialoghi tra musica


e scienza, Carocci editore.
Un dialogo tra teoria musicale e conoscenza scientifica che
si dipana attraverso la storia e i suoi protagonisti.

l l9
Per approfondire la figura storica o pseudo tale di
Pitagora

Giamblico, Summa pitagorica, Bompiani


Da quello che sappiamo, Pitagora e i suoi discepoli non
lasciarono scritti. O almeno nessun testo di prima mano
è giunto a noi. I più antichi documenti scritti su Pitagora
sono sei brevi frammenti di testo risalenti al secolo succes­
sivo alla sua morte e si trovano in testi di autori posteriori.
La maggior parte delle nozioni e delle leggende intorno a
Pitagora e alla sua scuola è dovuta a tre autori che operaro­
no tra il III e il IV sec. d.C. a circa sette secoli di distanza
dai fatti. Il più: recente è Giamblico, che visse tra il 245 e il
335 d.C. e fu allievo di Porfìrio, il secondo dei biografi di
Pitagora. Il terzo e più vecchio di tutti è Diogene Laerzio,
che operò nella prima metà del III sec. d.C. Vita di Pitagora
è il primo volume della Summa pitagorica di Giamblico.

Kitty Ferguson, La musica di Pitagora, Longanesi


Partendo dall'osservazione che sulla vita di Pitagora e sulla
storia della sua scuola le notizie pervenuteci sono vaghe,
apologetiche e a volte contraddittorie, la Ferguson, citando
e interpretando le più autorevoli fonti, cerca di ricostruire
e proporre un probabile Pitagora storico. Secondo l'autrice
la scoperta più importante dei pitagorici è senz'altro l'in­
tuizione che alla base della natura ci siano relazioni mate­
matiche. La Ferguson evidenzia il ruolo fondamentale che
tale intuizione gioca nei secoli e nei millenni successivi,
soprattutto nel periodo della Rivoluzione scientifica dei
secoli XV-XVI. Tra le altre cose, l'autrice parla anche della
presenza di donne nella scuola riportando i nomi di di­
ciassette delle più illustri pitagoriche pervenutici attraverso

HO
una citazione di Aristosseno (IV sec. a.C.) che Giamblko
riporta nella sua Summa Pitagorica. I.:appendice del libro
contiene la dimostrazione che Jacob Bronowski pensava
potesse essere stata usata da Pitagora. La si trova in lhe
Ascent ofMan. Nella stesura del capitolo "Le lezioni di Era­
tocle" mi sono ispirato a quella dimostrazione.

Per approfondire le usanze della Grecia e della Magna


Grecia

Franco Ghinatti, Riti e feste della Magna Grecia, Critica


Storica - rivista trimestrale fondata da Armando Saitta, a.
XI n.s., 1 974, 4, p. 533-576

In questo articolo lo studioso di epigrafia, storia e cultura


greca espone i risultati di una sua ricerca sui riti e sulle
cerimonie delle genti della Magna Grecia e sulla loro con­
nessione con lo sviluppo sociale e politico di quell'area. In
particolare, nelle pagine 546-55 1 , Ghinatti descrive le due
cerimonie che le fonti attestano per Crotone: il rituale di
lutto per Achille e la Panegiri di Hera Lacinia che si svolge­
vano a Capo Lacinio. Tra i vari dettagli, il grecista cita gli
ex-voto alla dea Hera, la statua di Milone e il prodigio delle
ceneri che rimanevano immobili.

Mariavittoria Antico Gallina et al., I Greci - Il sacro e il


quotidiano, Silvana Editoriale
I.:intenzione delle autrici è quella di trasmettere al letto­
re, attraverso un volume ricco di immagini e ricostruzioni,
elementi di riflessione su fenomeni sociali, politici, econo­
mici, così come sulle espressioni artistiche e architettoniche

131
nell'antica Grecia. Particolare attenzione viene rivolta alle
interrelazioni tra forme di pensiero e forme del vivere co­
munitario o privato, e tra la sfera del quotidiano e quella
del sacro.

Gabriella Arnioni et al., I Greci nel sud dell 'Italia, Silvana


Editoriale
Con un volume ricco di immagini, . mappe e ricostruzio­
ni, le autrici approfondiscono il ruolo dell'importantissima
presenza greca sul suolo italiota. Spostatisi dalle loro sedi
originarie i Greci portarono con sé conoscenze tecniche,
ma anche miti e leggende che, innestandosi spesso sui culti
locali, servirono di coesione con l'elemento autoctono ma
anche da base al rigoglioso e originale fiorire di vari setto­
ri della cultura, dalla filosofia alla letteratura, dalla storio­
grafia alle arti figurative. Particolarmente innovativa fu la
ricerca nel campo della matematica e dell'astronomia dei
Greci d'Occidente. Il loro lascito è una vitale eredità per il
pensiero e la scienza occidentali.

Eugenia Salza Prina Ricotti, L'arte del convito nella Grecia


antica - L'evoluzione del gusto da Achille ad Alessandro Ma­
gno, LErma di Bretschneider editore
Mille anni di storia fatta non solo di battaglie, re, filosofi e
grandì oratori, ma anche storia minuta, individuale, fatta
di tradizioni e consuetudini. Larcheologa passa in rasse­
gna la grande letteratura greco antica che racconta anche la
vita quotidiana di quei popoli e ci descrive cene, banchetti,
cibi, vini, ricette, usi e costumi attraverso i secoli di quella
civiltà. Il libro è riccamente corredato di fotografie, imma­
gini e ricostruzioni.

1 32
Per farsi un'idea di com'era Crotone al tempo di Pitagora

Roberto Spadea (a cura di), Ricerche nel santuario di Hera


Lacinia a Capo Colonna di Crotone, Gangemi Editori
Il volume raccoglie i . risultati di un progetto del ministe­
ro per i beni e le attività culturali effettuate nell'area del
parco archeologico di Capo Colonna di Crotone (anche
noto come Ca,po Lacinio), e in particolare nel santuario di
Hera Lacinia. I.:opera descrive diversi ritrovamenti, molti
dei quali risalenti al periodo in cui Pitagora viveva a Croto­
ne, e propone mappe con ricostruzioni dei vari edifici del
santuario.

Per un approfondimento sui numeri irrazionali e su


Ippaso

Kurt von Fritz, The Discovery ofIncommensurability by Hip­


pasus ofMetapontum. Annals of Mathematics, 46, 2, 1 945
L articolo propone alcune ipotesi su come possa essere av­
venuta la scoperta dei numeri irrazionali e dell'incommen­
surabilità.

Per approfondire la provocazione di Ippaso nel capitolo


"Tutto è numero"

Simon Singh, L'ultimo teorema di Fermat, Rizzoli


I.:autore narra in modo avvincente la plurisecolare ricerca
di una dimostrazione del Teorema di Fermat.

t :n
E da dove parte se non da Pitagora?
Il fatto che Ippaso possa avere avuto l'idea di generalizzare
le teme pitagoriche e intuire l'Ultimo Teorema di Fermat
non è riportato da nessuna fonte ed è puro frutto della mia
immaginazione. Lo stesso dicasi per il Consiglio degli Elet­
ti la cui esistenza non è storicamente provata ma risponde
solo a esigenze narrative.

1 34
Ringraziamenti

I miei ringraziamenti vanno a Daniela, per aver ascol­


tato le mie letture ad alta voce e avermi dato consigli. A
Sebastian Abbott, per una discussione sulle reincarnazioni
avvenuta su di un autobus che ci portava a suonare "Una
notte sul Montecalvo" a Friburgo. A Maurizio Codogno,
per un'osservazione sul rapporto tra tritono e la radice qua­
drata di 2. A Daniele Gouthier, per avermi incoraggiato a
scrivere questa storia e a Francesco G. Lo Polito, per i suoi
.
preziosi consigli. Grazie infine agli alunni della II A della
Scuola Secondaria di Primo Grado di Pattada (SS) - anno
scolastico 20 1 4/20 1 5 - e alla loro insegnante Giovanna Ar­
cadu, per aver scovato uno scambio di nomi nel secondo
capitolo.
Indice

Elenco dei personaggi 8

La Panegiri di Hera 11
Dove lppaso, ai margini di una festa cittadina,
si scontra con un mercante e, più tardi, è
protagonista di una violenta lite, alla fine della
quale ricorda la prima volta che ha visto la
festa quattordici anni prima.

Nella bottega del fabbro 25


Dove Pitagora osserva correlazioni inattese tra
musica e numeri.

Innovazioni per la scuola 35


Dove Pitagora limita l'accesso alla scuola e
interroga il dio Apollo.

Gli allenamenti olimpici 43


Dove gli allievi si confrontano nella lotta
e Pitagora cambia le regole della scuola
nonostante l'opposizione di alcuni.

Musica e numeri . 55
Dove Pitagora e Teano indagano i rapporti tra
musica e numeri e lppaso, non convinto, sfida
Teano con un 'ipotesi alternativa.

Le lezioni di Eratode 65
Dove Eratocle insegna il teorema di Pitagora
all'allievo Eurito.
Tutto è numero 74
Dove Eratocle riprende la lezione e insegna a
Eu rito la dottrina pitagorica fino a che lppaso
non scompagina la loro conversazione.

L'ammissione di Muia 85
Dove lppaso conferisce il titolo di matematica a
Muia, la figlia di Pitagora, e dove Milone invita
Eratocle a casa sua.

La lunghezza della diagonale 91


Dove lppaso cerca invano il numero del quale
Muia gli ha suggerito l'esistenza e Pitagora lo
aiuta nella ricerca.

La musica della diagonale 100


Dove lppaso scopre un numero impossibile e
. . Filolao si meraviglia che, sebbene impossibile,
quel n umero abbia un suono.

Odio, collera e silenzio 106


Dove, mentre Pitagora è trqvagliato dai
pensieri e dai dubbi, qualcuno complotta e
trama alle spalle di lppaso.

L'espulsione di Ippaso 111


Dove le trame arrivano al cospetto del
Consiglio degli Eletti che prende una decisione
ineluttabile.

La punizione degli dèi 1 19


Dove Muia soffre grandemente e dove Pitagora
cerca risposte nel Tempio di Apollo.
Un'anima vagante nel tempo 124
Dove si continua a cercare la risposta.

Appendice bibliografica 129

Ringraziamenti 137

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