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© Scienza Express edizioni, Trieste
Prima edizione in narrazioni marzo 2017
Flavio Ubaldini
IL MISTERO DEL SUONO SENZA NUMERO
ISBN 978-88-9697-334-9
A Daniela
Nazim Hikmet
Ilavra. apz8p6ç emz
Elenco dei personaggi
Personaggi principali
Maggio 51 7 a.C.
1 1
insieme a un vociare inconsueto, si era ricordato che era il
giorno della Panegiri di Hera, una delle più importanti ce
lebrazioni dell'Italia greca. Durante i festeggiamenti miglia
ia di fedeli della dea raggiungevano Crotone da ogni dove.
Nei quattordici anni che aveva trascorso in città mai
avrebbe rinunciato a partecipare alle gare atletiche della
Panegiri o a farsi coinvolgere dalla travolgente atmosfera
di cui Crotone cadeva preda. Oltre alle gare, c'erano pro
cessioni, riti, incontri politici e le strade si rièmpivano di
bancarelle cariche di merci e cibarie.
Nonostante quell'anno non avesse il consueto entusia
smo, Ippaso si era illuso che un giro per Crotone durante i
preparativi della Panegiri avrebbe potuto aiutarlo a distrarsi
ma, evidentemente, si era sbagliato. Anzi, l'incidente con il
mercante aveva aumentato la sua rabbia. E nemmeno i ri
cordi delle feste passate lo aiutavano a superarla. Che senso
aveva avuto la decisione di rimanere a Crotone per entrare
nella scuola di Pitagora? Nessuno!
Ippaso tornò a casa. Provò a leggere e a correggere alcuni
appunti; ma, per farlo, doveva tornare su ogni frase tre o
quattro volte. Si distraeva in continuazione e rimuginava
sui dolorosi avvenimenti di cui era stato protagonista. Non
aveva ancora terminato la prima tavoletta d'argilla, che,
gettato uno sguardo all'orologio solare in cortile, si accorse
che era passata l'ora sesta. Infastidito per la propria lentezza
scaraventò la tavoletta contro il muro. Come poteva pensa
re con tutto quel vociare che saliva dalle vie circostanti? Un
tempo lo avrebbe rallegrato, in quel momento riusciva solo
ad agitarlo di più. Ippaso si sentiva in gabbia e, per cercare
un po' di tranquillità, passava da una stanza all'altra, cer
cando di sfuggire al rumore che non faceva che aumentare.
D'un tratto gli parve di riconoscere le voci di Filo
lao e di Muia. E, gettata un'occhiata fuori, eccoli lì che
12
passavano sotto la sua finestra, tutti presi a ridere e scherza
re. Doveva uscire! Doveva raggiungerli!
In strada si fece largo a spinte e gomitate. Girato l' ango
lo, eccoli: Filolao stava conversando come niente fosse con
Muia, la sua Muia! Se non avesse conosciuto bene l'amico
avrebbe detto che i due stessero amoreggiando.
«Muia! Filolao!», urlò mentre cercava di avvicinarsi. In
risposta l'amico cercò di confondersi tra la folla. lppaso af
frettò il passo per raggiungerlo, ma · nel momento in cui
si trovò di fronte a Muia, si bloccò. Si guardarono negli
occhi, intensamente, per un istante. Quando poi lppaso si
voltò, Filolao stava sfruttando un flusso della folla e correva
per sfuggirgli . lppaso provò a stargli dietro, ma il riflusso
contrario glielo impediva. Dopo aver spintonato a destra e
a manca e dopo essersi preso qualche insulto, il metapon
tino si girò di scatto e si accorse che anche Muia era scom
parsa. Rabbia e sconforto presero il sopravvento. Avrebbe
voluto gridare a tutti quelli che facevano festa, «Che avete
da festeggiare?». Avrebbe voluto prendere a calci il primo
che passava. E soprattutto avrebbe voluto sapere perché
Muia e Filolao erano scappati!
((Lasciali perdere amico. Sono degli idioti».
Si voltò: a parlargli era stato Glauco di Reggio, i capelli
appiccicati alla fronte e un sorriso ebete sulle labbra. Il mu
sicista indossava un chitone sporcato da macchie violacee
sul petto. Chiazze di sudore completavano il quadro. Luo
mo avvicinò lentamente il volto a quello di lppaso.
((Bevi con me!», lo esortò porgendogli una grossa coppa
colma di vino. Nonostante la zaffata di odore acre, lppaso
rimase immobile, con il volto deformato dall'ira, a scruta
re il musicista. Le iridi offuscate di Glauco sostennero lo
sguardo con la spavalderia conferitagli dal nettare di Dio
niso. Poi, con un movimento del braccio e con un sorriso
complice, il musicista ripeté l'invito. Ippaso si riscosse, gli
sfilò la coppa dalle mani e ne tracannò il contenuto d'un
fiato senza staccare gli occhi da quelli dell'altro.
((Così mi piaci, amico!)) rise Glauco sguaiato. ((Vieni
'
con me, ti offro ancora da bere)), continuò colpendolo con
una tanto energica quanto scomposta pacca sulle spalle.
<<Te lo devo, amico mio. Non sai il successo che sto avendo
con quella tua invenzione. Tutti vogliono ascoltare Glauco
di Reggio che suona i dischi di bronzo. Persino l'arconte
mi ha invitato a esibirmi per i suoi ospiti)), e dicendolo
scimmiottò accento e movenze aristocratiche. ((E anche sua
moglie vuole sentire i celestiali tintinnii del musicista reggi
no)), proseguì in un falsetto che nel finale andò a rompersi
in una nuova fragorosa risata. Il volto di Ippaso cominciò
a distendersi in uno stretto sorriso che sottolineò quel fi
nale istrionico. ((Vedi che ti sta tornando il buonumore;
amico? Dai, andiamo! Qui dietro l'angolo c'è la bancarella
di Zaleuco. Da lui si trovano i migliori vini di Crotone.
Profumati dalle resine più aromatiche)).
Dopo aver bevuto da Zaleuco non potevano certo far
un torto alle altre bancarelle, e, in onore alla provenienza
di Ippaso, andarono a provare i vini del Metaponto. E poi
quelli di Reggio, perché anche Glauco voleva omaggiare la
propria città. E poi ancora, sulla strada per il porto, prose
guirono il viaggio attraverso le vigne dell'Italia greca: Era
clea, Poseidonia ed Elea. Tutto quel vino aiutò il grumo
caldo di rabbia che invadeva il basso ventre di Ippaso ad
attenuarsi e a distribuirsi per tutto il corpo. Gli era tornata
anche la favella e un po' alla volta Ippaso aveva raccontato
a Glauco la propria storia.
((Erano invidiosi, capisci, Glauco? Mi hanno espulso
perché sono il più bravo. Perché sono il più intelligente!)).
« È vero, amico mio. Lo penso anch'io. Credi che non
senta i discorsi che si fanno in giro?».
«So chi ha complottato contro di me!».
((Non ci -pensare, amico. Ecco le bancarelle di Taranto. I
loro vini sono i migliori d'Italia. Andiamo, ti offro un'altra
coppa».
Dopo esser passati anche per quelle di Locri avevano
imboccato l'ultimo tratto della discesa che conduceva al
porto. Più scendevano, più la folla si diradava. E quando
raggiunsero le vie del porto non c'era in giro anima viva. Il
sole stava assumendo le lievi tonalità del rosso e l'aria era
impregnata di .un penetrante odore di alghe e di spuma di
mare.
Di fronte all'officina navale Glauco si fermò, sollevò il
chitone e cominciò a svuotarsi la vescica. ((Vieni a liberarti
pure tu!». Finito che ebbero, alzò lentamente un braccio e
indicÒ il cortile dove un'imbarcazione era in manutenzio
ne. ((Guarda, Ippaso!», biascicò. ((Guarda che bellezza! È
una trireme. Una meravigliosa invenzione degli ioni. Noi
usiamo ancora le pentecontere. Loro, invece, le considera
no delle carrette e le hanno rimpiazzate con questi gioielli.
Guarda la fiancata. Tre file di rematori su tre livelli diver
si!>>, e dicendolo muoveva il braccio in aria disegnando tre
archi sghimbesci. (& un'imbarcazione velocissima».
Alcuni schiamazzi dall'interno del magazzino interrup
pero la sua appassionata descrizione.
<(Chi c'è? Non dovrebbe essere chiuso?», chiese Ippaso.
((Credo di saperlo. Vieni!», Glauco lo trascinò oltre la
porta socchiusa, da cui provenivano zaffate di legno e di
pece. Dietro a una catasta di travi cinque uomini giocavano
a dadi.
l .r·l
<<Ehi, Glauco!», urlò il più grosso. <Nieni qua che si gio
ca». Quindi squadrò anche Ippaso e continuò. <<E chiedi
anche al tuo amico filosofo se vuole unirsi».
Ippaso scosse la testa. <<Resta pure se vuoi. Io mi farò un
giro».
Uscendo il metapontino si soffermò a guardare la diste
sa marina di fronte a lui. Il porto sembrava deserto. Alla
sua sinistra il disco rosso di Apollo era ormai vicino all'o
rizzonte.
D'un tratto si sentì osservato. Si voltò di scatto verso
destra e vide una sagoma femminile. Ci volle qualche istan
te prima che la sua mente offuscata dal vino riconoscesse
Muia.
<<Che vuoi da me?», l'apostrofò con voce aspra.
<<Scusami, amore . . . non potevo farmi vedere con te>>,
mormorò lei avvicinandoglisi.
<<Ah, no? Perché? Per tuo padre?», le gridò contro lui
indietreggiando.
«No, è stato il Consiglio degli Eletti a vietare qualsiasi
contatto con te . . . ma io so che la condanna è ingiusta», si
affrettò a concludere la ragazza.
«E allora perché mi hai evitato?».
«Ho parlato con mia madre: anche lei crede che la con
danna sia eccessiva. Però pensa che sia meglio non violarla.
Pensa che mio padre non sia del tutto convinto e che do
vremmo cercare di persuaderlo a rifare il processo».
«lo non voglio essere giudicato di nuovo!», esplose Ip
paso.
«Ti prego, stai tranquillo>>, disse lei accarezzandogli una
guancia. «Vedrai che si risolverà tutto per il meglio», con
tinuò facendo scendere la mano sul petto. Ippaso le afferrò
la mano e strinse la ragazza a sé. Il respiro di Muia accelerò.
Profumava di resina. Ippaso la baciò mentre lei gli si ab
bandonava tra le braccia.
Quando si rimisero in cammino, l'ultimo frammento di
sole stava varcando l'orizzonte.
((Guarda come sono rosse le nostre tre isole, amore mio.
Meloesa, Tyris ed Eranusa. Sembrano ardere. Così come
arde il mio cuore per te».
Si baciarono ancora mentre ciò che persisteva del sole si
riduceva a un'allusione nel cielo rosso.
((Vai. . . "ora vai», la scostò Ippaso. (( , . . se non vuoi che ti
vedano con me».
((A domani, amore», lo accarezzò ancora una volta Muia.
((Addio . . . », le sussurrò il giovane seguendola con lo
sguardo fino a dietro la curva.
Il cielo andava imbrunendo e l'odore di alghe si era fatto
più acre. Ristagnava nelle narici con un sentore di putrefa
zione. Ippaso stava per rimettersi in movimento quando un
uomo, alto, robusto e con in testa un pileo sbucò dall'an
golo opposto. Ippaso s'irrigidì. I muscoli mascellari gli pul
savano. Gli occhi fissavano rabbiosi la figura massiccia.
((Traditore!», gli urlò in faccia l'uomo non appena gli fu
vicino. ((Hai tradito la scuola, il maestro e i confratelli. E
ora stai usando quella ragazza per i tuoi sporchi disegni».
(dnfame . . . figlio di un cane!», gli ringhiò a sua volta
Ippaso.
((Bada a come parli, traditore».
((Sei tu ad aver manovrato gli altri. Sei tu l'artefice di
questa lurida trama. Credi che non lo sappia?».
((Sei ubriaco! Non sai quello che dici. Fai pena. E infan
ghi la scuola».
((Che gli dèi ti maledicano! Ti ho sentito quando cercavi
di convincere il maestro! Infame!».
((Modera il linguaggio!», urlò l'uomo spintonandolo.
17
Ippaso scattò e reagì con inattesa violenza. Colpì l'uomo
con un calcio aitesticoli. Lo scagliò al suolo e cominciò a
tempestarlo di calci.
A ogni calcio che andava a segno i gemiti aumentavano
d'intensità. Quando Ippaso mirò al volto, l'uomo riuscì ad
afferrargli la caviglia, a sbilanciarlo e a costringerlo a saltel
lare per non perdere l'equilibrio. Con un secondo strattone
lo fece cadere. Ippaso urtò violentemente il costato contro
una pietra. Rimase senza fiato e l'avversario ne approfittò.
Non senza fatica, l'uomo si alzò e si gettò sul metapontino
che schivò in parte il colpo rotolando sul fianco. Tutto il
peso dell'avversario finì sul braccio destro di Ippaso, che si
spezzò con uno schiocco sonoro. Il giovane urlò di dolore.
I due avversari si divincolarono e si rialzarono. Luomo
si teneva l'inguine e Ippaso il braccio spezzato. Si fissarono
con odio misto a sofferenza.
«Và e non farti più vedere)), sibilò l'uomo. «Se ti trovo
ancora vicino a Muia, giuro che ti ammazzo)).
Ippaso, le narici dilatate, inspirò con forza e gli sputò
in faccia, scatenandone il furore. Ippaso schivò il primo
pugno, e se fosse stato sobrio, avrebbe evitato anche il se
condo. Invece ricevette tutta la forza e la rabbia del suo av
versario contro la tempia. Cadde come svuotato e sbatté il
capo al suolo. Luomo guardò il corpo inerme, poi si riscos
se e si allontanò mentre le tenebre sopraffacevano l'ultimo
barlume di luce.
Il!
lenzio più completo e i dieci ragazzi scattarono all'unisono
come un branco di giovani lupi alla vista di una lepre.
«Vai, Liside!! Sei il migliore!».
«Vai, piè veloce!».
Dopo i primi cento piedi il giovane Liside aveva già di
staccato il gruppo di almeno dieci piedi. Era imbattibile
nella gara dello stadion, forte di uno scatto fenomenale.
Percorsi duecento piedi anche Ippaso cominciò a stac
carsi dal gruppo riuscendo a correre alla stessa velocità di
Liside.
«Liside! Lisideh>, continuava a urlare la folla. Ma· qual
che voce dissonante cominciava a farsi sentirsi.
«Forza, Ippaso!».
A due terzi del percorso, Ippaso recuperava terreno
sull'avversario.
«Vai, Ippaso! Puoi raggiungerlo!», gridavano gli uni.
«Continua così, Liside! Stai per vincere!», facevano eco
gli altri.
La distanza tra i due concorrenti continuava ad accor
ciarsi e le urla di incoraggiamento per Ippaso avevano ora
la stessa intensità di quelle a favore di Liside.
«Più veloce, Ippaso! Più veloce!».
Mancavano solo cento piedi all'arrivo e lo svantaggio di
Ippaso era ancora grande.
«Resisti, Liside! La vittoria è tua!».
A trenta piedi dal traguardo Liside avanzava ad ampie
falcate verso una vittoria sicura. Le urla dei suoi sostenito
ri avevano di nuovo sopraffatto quelle degli avversari. Im
provvisamente i primi ammutolirono: per la prima volta
da quando gareggiava, Liside aveva messo un piede in fallo
e per non finire a terra aveva dovuto compiere una serie di
passi scoordinati.
«Nooo!».
l')
Sulla linea del traguardo i giudici non ebbero dubbi.
Anche se di un piede o poco più, Ippaso era il vincitore
della gara.
Una folla esultante accerchiò il metapontino. Nel di
sco, nel giavellotto e nel salto, Ippaso aveva avuto risultati
discreti ma non eccellenti. Fu la vittoria nello stadion a
farlo salire tra i primi nella classifica del pentathlon. Anche
nell'ultima competizione, la lotta, Ippaso gareggiò molto
bene. E alla fine figurò terzo, rientrando perciò tra i cinque
atleti che avrebbero rappresentato Metaponto nelle gare di
pentathlon della Panegiri di Hera.
Ippaso si trovò così a sedici anni per la prima volta in
viaggio. Dopo quattro giorni, gli atleti metapontini giun
sero a Crotone alla vigilia della Panegiri.
Nella prima prova, Ippaso non fu convincente come
nelle qualificazioni ma si guadagnò pur sempre un rispet
tabile nono posto ed esultò per il risultato. Ma a rendergli
indimenticabile quel primo viaggio fu altro.
Dopo i giochi, insieme a Liside e agli altri metaponti
ni, il giovane aveva visitato l'area dei festeggiamenti. Erano
partiti dal tempio di Hera a Capo Lacinio, a sessantadue
stadi di distanza dalla città. Mosso dalla passione che aveva
per i templi, Ippaso si era perso a osservare le differenze tra
il tempio di Hera di Metaponto e quello di Crotone.
« ... quarantasei, quarantasette e quarantotto. Quaran
totto!», il ragazzo aveva fatto 1,m giro intorno al tempio se
guito da Liside e si era ritroVato alla rampa d'accesso. Le ca
pigliature e i chitoni dei due ragazzi fluttuavano nel vento.
«Te lo avevo detto, Liside, che il perimetro di questo
tempio doveva essere circa una volta e mezza quello del
nostro».
lO
« È vero, ma io avrei detto fosse meno ... Intorno ai quat
tro terzi».
<<Be', il rapporto di quattro terzi lo trovi confrontando le
altezze. Guarda le colonne! Sono alte otto rocchi, le nostre
seh>.
Ippaso si era avvicinato al colonnato sulla destra. Lì,
il precipizio sul mare mostrava anche una parte della sua
attraente pericolosità. Il vento era talmente forte che il ra
gazzo doveva tenersi con una mano il lembo inferiore del
chitone. E anche il sentore di salsedine sembrava più forte.
<<Guarda! Questa è l'ara miracolosa di Crotone. Ne ave
vo già sentito parlare».
<< È incredibile!», esclamò Liside <<Come è possibile che
le ceneri rimangano immobili con tutto il vento che c'è?».
<< È uno dei prodigi di Hera!».
Ippaso volse lo sguardo verso l'alto. <<Guarda la bellezza
delle decorazioni floreali sul timpano. Guarda i colori vivi
di e armonici: giallo, verde e azzurro su sfondo rosso».
Liside annuiva ammirato.
<<Vieni», continuò Ippaso salendo i gradini della rampa.
<<Andiamo a vedere la facciata della cella templare».
Da quella parte, a dominare erano il rosso, il giallo e il
nero e, ai lati della porta, erano dipinti i frutti sacri alla dea:
due grosse melagrane spaccate.
<<Guarda i granelli della polpa: sembrano veri».
<<Dal bianco al rosso ci sono tutte le gradazioni che uno
potrebbe immaginare».
<<Ti va di entrare?», chiese Ippaso indicando il massiccio
portale d'ingresso della cella templare.
<<Sì, ma vorrei anche fare un giro per le bancarelle».
21
«Possiamo farlo più tardi. Non vorrai perderti l'occa
sione della Panegiri! A meno che tu non voglia diventare
sacerdote di Hera, questo è l'unico periodo in cui si può
visitare la cella».
I due giovani entrarono nel luogo in cui veniva custo
dita la meravigliosa statua della dea. Lespressione maestosa
e austera di quell'enorme scultura li intimorì. Decine di
ex-voto, che rappresentavano bambini in fasce e melagra
ne, giacevano ai piedi della dea. Ippaso rimase . a lungo a
contemplare la statua. Vagava con lo sguardo sui dettagli,
calamitato ora dalla mirabile melagrana che la dea teneva
in mano, ora dai vividi colori della scultura, ora dalla pre
ziosa e stupenda corona.
Quando uscirono dal tempio, Ippaso e Liside si separa
rono e ciascuno dei due girovagò per pròprio conto tra le
bancarelle del mercato. Ippaso visitò diversi venditori ine
briandosi di colori e odori, di canti e suoni, di essenze e
spezie, senza per questo disdegnare qualche coppa di vino.
A incuriosirlo fu il sistema di scambio a cui ricorrevano i
venditori. Usavano dei dischetti metallici: li chiamavano
monete. Gli era già capitato di vederne in precedenza, ma
era la prima volta che le vedeva usate sotto i suoi occhi
come merce di scambio. Queste, a differenza di quelle che
aveva visto in precedenza, avevano il disegno incavato an
ziché in rilievo. Raffigurava un tripode, il simbolo di Cro
tone.
Dopo un certo tempo, Ippaso si riunì ad altri due com
pagni di gare e insieme lasciarono l'area del mercato. Aveva
no camminato per un paio di stadi, quando il ragazzo notò
in lontananza un uomo che dalla scalinata del tempietto di
Achille arringava una piccola folla di giovani. Incuriosito
aveva esortato gli altri a seguirlo e insieme avevano rag
giunto l'oratore, un uomo alto e magro con barba e capelli
lunghi e neri. A colpire Ippaso fu la voce dell'uomo. Il tono
profondo infondeva calma e sicurezza. Il timbro caldo ispi
rava equilibrio e affidabilità. Ippaso non aveva mai sentito
nessuno parlare con tanta maestria. Le pause, la modula
zione del volume, le enfatizzazioni. E la perfetta consonan
za con cui la mimica accompagnava l'eloquio. Per non dire
dello sguardo che instaurava un breve contatto con ogni
singolo membro della folla e Ippaso rabbrividiva ogni volta
che si posava su di lui. A scuotere il ragazzo fu una gomitata
((Noi c'incamminiamo», gli disse uno degli amici. Eviden
temente loro non avevano subito lo stesso fascino.
((Andate pure. Vi raggiungerÒ», rispose Ippaso; e non
appena i compagni si furono allontanati cominciò a farsi
strada tra la folla. Raggiunta la seconda fila si fermò e ri
prese ad ascoltare. Fino a quel momento era rimasto trop
po incantato dalla voce e dalla mimica per concentrarsi
sul significato di quanto stava dicendo l'uomo dalla lunga
capigliatura. Scoprì così che il contenuto era ancora più
affascinante. Dopo aver raccontato alcuni aneddoti sui suoi
viaggi in terre meravigliose e dopo aver accennato ad alcuni
divieti alimentari, tra i quali quello di mangiare fave, l'uo
mo cominciò a parlare della vita e della morte e di come gli
uomini tornerebbero in vita dentro un nuovo corpo senza
serbare memoria della vita precedente. Per indicare quel
susseguirsi di discese all'Ade e risalite nel regno dei vivi
l'uomo usava un termine che Ippaso non aveva mai udito
prima: reincarnazione. Fu una folgorazione. Il pensiero di
tutte le generazioni di corpi che la sua anima aveva dovu
to abitare prima di trasmigrare in lui gli diede un senso
di vertigine e al tempo stesso d'illuminazione. Una nuova
prospettiva sulla vita gli si aprì davanti agli occhi.
Quando l'uomo terminò di parlare, Ippaso sentì il bi
sogno di sapere chi fosse. Solo allora notò due giovani che
dalla prima fila ogni tanto si voltavano e si scambiavano
commenti. Si presentò a loro.
«Salve, mi chiamo Ippaso e vengo da Metaponto».
«lo sono Filolao e sono di Crotone», rispose il giovane
alto e magro.
«lo mi chiamo Eratocle e provengo da Samo», disse il
suo compagno più corpulento.
«Samo? Che città è?».
«Avrai sentito parlare di Policrate . . . ».
«Sì . . . Policrate . . . e la sua flotta?».
«Giusto: Policrate è il tiranno di Samo, la mia isola, nel
mare Egeo», disse Eratocle con una punta di orgoglio, «vi
cinissima alle coste della lonia e della Doride: le due regio
ni che re Ciro il persiano conquistò quando ero bambino»,
concluse con tono rabbioso.
«Che cosa ti ha portato così lontano nell'Italia greca?».
«Ho voluto seguire il mio maestro, Pitagora».
«Pitagora? . . . ne ho sentito parlare. Ha molti ammirato-
ri a Metaponto. Tu . . . sei un suo discepolo?».
«Sì, e lo sono anch'io», rispose Filolao. «Quasi tutti qui
lo siamo», continuò indicando la piccola folla.
Lo sguardo di Ippaso s'illuminò: «Allora l'uomo che ab
biamo ascoltato immagino sia lui, Pitagora, il vostro ma
estro».
I due annuirono sorridendo.
«Anch'io voglio diventare uno di voi. Ditemi come si
fa».
24
Nella bottega del fabbro
Dove Pitagora osserva correlazioni inattese tra
musica e numeri.
2 r.
.)
Mangiò e bevve con lentezza. Finita colazione, mentre
indossava il chitone, Pitagora sentì risuonare le voci fami
liari di Eratocle e Filolao.
«Buongiorno, maestro, spero che abbiate trascorso una
buona nottata».
((Non direi», rispose Pitagora. ((Sento di continuo il rim
bombo del martellare del fabbro. E la tua gamba come va,
Filolao?».
((Mi duole ancora, maestro. Spero non vi dispiaccia se
anche stamani vi chiedo di percorrere il sentiero lungo.
Non ce la farei a salire per la ripida scorciatoia».
Pitagora lo guardò con un misto di comprensione e fa
stidio: ((Non mi spiace», rispose secco.
Prima di uscire, il maestro si mise in testa il petaso di
paglia. Era ancora presto ma il sole era già abbastanza alto
sull'orizzonte. La giornata era serena e il solstizio alle porte.
Filolao notò che Eratocle si schermava gli occhi con una
mano.
((Eratocle, non capisco perché ti ostini a indossare il pi
leo anche in queste lunghe giornate di sole. Non trovi che
le larghe falde di un petaso ti riparerebbero meglio dalla
luce?>>.
((Il pileo è tradizione della mia famiglia. È una delle po
che cose che mi ricordano l'infanzia a Samo. E proprio per
questo non ci rinuncio».
Una piacevole brezza rendeva il caldo sopportabile e
increspava la superficie dello Ionio. I tre uomini s'incam
minarono verso la scuola. Filolao zoppicava vistosamente.
Troppo poco tempo era passato dall'infortunio durante
l'allenamento con Milone. Forse la partecipazione ai giochi
olimpici era definitivamente compromessa.
((Non sarà poi così male rimanere a Crotone con Erato
cle e gli altri», tentò di consolarsi.
26
· Svoltato l'angolo si avvicinavano al tempietto di Eracle.
Si cominciava a intravedere in lontananza la grossa schiena
nuda di Gerone che, -sulla soglia della bottega, si fletteva,
lucida di sudore, ad accompagnare i colpi con cui il fabbro
forgiava una spada. �aria aveva cominciato ad assumere
un retrogusto di metallo incandescente e, man mano che
i tre si avvicinavano, il clangore delle martellate si faceva
più forte.
Baaam, boom, baaam, boom, biiiim, baaammm ...
Nel tratto di strada tra il tempietto e la bottega, Pi
tagora si mostrava sempre un po' inquieto. Inquieto ma
concentrato: tutta la sua attenzione pareva rivolta al lavoro
di Gerone. Il maestro sembrava magnetizzato dai gesti del
fabbro. Quel giorno, senza nessun preavviso, deviò dal pro
prio cammino e s'infilò nella bottega. Eratocle e Filolao si
scambiarono uno sguardo perplesso e lo seguirono.
«Benvenuto maestro. La mia officina è a vostra dispo
sizione», lo accolse Gerone con dignità, che non celò del
tutto sorpresa e deferenza.
Pitagora sembrò non badare all'uomo: spostava in con
tinuazione gli occhi da un martellatore all'altro al ritmo dei
loro colpi.
Baaam, boom, baaam, booom, biiim, baaam, booom,
baaammm.
«Maestro, volevate chiedere qualcosa a mastro Gero
ne?)), lo sollecitò Eratocle. Pitagora ignorò anche lui e ten
ne lo sguardo fisso sui tre apprendisti che lavoravano con
martelli e incudini di dimensioni diverse. Un sorriso gli
illuminò il volto e gli occhi si fecero più luminosi. Poi,
all'improvviso Pitagora inarcò le sopracciglia, aprì la bocca
e inspirò profondamente: «oh Zeus!)).
Sotto lo sguardo di tutti, si avvicinò al più nerboruto
dei tre che di conseguenza smise di martellare, presto imi-
27
tato dagli altri. Per quanto sovrastasse la figura di Pitagora,
l'apprendista sembrava a disagio e sorrideva imbarazzato.
«Come ti chiami, ragazzo?».
«Cilone, maestro», rispose il giovane con voce profonda
mentre alcune gocce di sudore gli cadevano dal naso.
((E voi due? Quali sono i vostri nomi?».
((Basileios, per servirvi».
(do sono Corebo, maestro».
((Se non sbaglio, Cilone, la tua incudine e il tuo martello
sono più grandi di quelli di Corebo e di Basileios».
((Sì, maestro, questi sono gli arnesi per forgiare le ar
mature delle ruote dei carri», rispose Cilone. ((Sono i più
grandi di tutti, se escludiamo quelli di mastro Ger� ne, na
turalmente» .
((E quelli di Corebo e Basileios a che cosa servono?».
((Con gli arnesi di Basileios, che sono poco più piccoli
di quelli di Cilone, forgiamo le spade», intervenne Gerone
((mentre Corebo si sta occupando dei ferri di cavallo».
((Lincudine di Corebo è circa la metà di quella di Ci-
Ione», aggiunse infine Gerone che sembrava aver intuito
l'interesse di Pitagora per le dimensioni degli arnesi.
((Cilone, potresti colpire la tua incudine?», chiese Pita-
gora.
Il giovane sferrò una martellata sulla sua incudine.
baaammm
((E ora tu, Corebo, colpisci la tua» .
Corebo imitò Cilone.
biiimmmm
((E ora insieme!».
baaammm
biiimmmm
Pitagora si girò verso i suoi allievi con un sorriso serafi
co. ((Sentite che armonia? Sentite come si fondono questi
28
suoni?», e poi voltandosi di nuovo verso le incudini: «Sen
tite che consonanza?».
<<Sì, maestro. Ma . . . perché la cosa vi entusiasma?», fece
Filolao.
Pitagora lo guardò, roteò un po' lo sguardo, si toccò il
mento e inspirò.
«Cilone e Basileios, potreste colpire le vostre incudini
contemporaneamente?».
Cilone e Basileios eseguirono la richiesta.
baaammm
baaammm
Pitagora si coprì le orecchie con le mani mentre il volto
gli si modellava in una smorfia di disgusto.
«Sentite, ora, che fastidioso frastuono? Sentite che dis
sonanza?».
« È vero», osservò Filolao. «Ma da che cosa può dipen
dere la differenza?». Rimase pensieroso per un attimo e poi
riprese. «Le incudini e i martelli sono dello stesso materia
le . . . ».
«Forse dalla dimensione dei martelli?», suggerì Eratode.
«Possiamo fare una prova)), disse Pitagora. «Corebo po
tresti colpire l'incudine di Cilone con il tuo martelletto
mentre Basileios colpisce la sua?)).
Corebo raggiunse l'incudine di Cilone.
baaammm
baaammm
«No! Non dipende dalla dimensione dei martelli», sot
tolineò Filolao guardando Eratode. «C'è una differenza nel
suono ma il risultato è comunque sgradevole».
Pitagora si mosse in direzione del fabbro: «Mastro Ge
rone, avete un'incudine di dimensione diversa? Cilone ha
detto che la vostra è la più grande».
«Sì, la mia è tre volte quella di Corebo».
29
«Bene!», rispose Pitagora. <<Se non vi dispiace, colpitela
nello stesso istante in cui Cilone colpisce la sua». Mastro
Gerone e l'apprendista si scambiarono uno sguardo dub
bioso, ma ancora una volta assecondarono Pitagora.
booommm
baaammm
<<Mmhh . . . di nuovo gradevoli all'orecchio», commentò
tra sé e sé Filolao, per poi rivolgersi al maestro: <<Che cosa
state cercando di dirci? Questa cosiddetta consonanza non
dipende dai martelli bensì dalle dimensioni delle incudi-
.
fil.,».
<& un'interpretazione plausibile, Filolao. Ma ora vorrei
pregare Corebo di unirsi all'esperimento e colpire la sua
incudine insieme a Cilone e a mastro Gerone».
I tre esaudirono di nuovo la richiesta di Pitagora.
booommm
baaammm
biiimmm
<<Ancora ana bella consonanza!», esclamò Eratocle. <<Sì,
una fusione armonica)), puntualizzò Pitagora.
<<Quindi.. .».
<<Allora... ».
<< ... che conclusioni...».
<< ... che cosa se ne può ... ».
<<Mi spiace interrompervi signori», s'inserì Gerone. <<Ma
entro stasera dovremmo completare venti spade. E, se non
lavoriamo sodo, non ce la facciamo. Con tutto il dovuto
rispetto vorrei chiedervi...».
<<Ci scusiamo per l'irruzione, mastro Gerone», lo rassi
curò Pitagora. <<Vi siamo grati per la generosa collaborazio
ne».
« È stato un onore, maestro, ma gli impegni presi ci im
pongono di lavorare».
:w
I tre lasciarono la bottega. La brezza era cessata e il caldo
era diventato più intenso. Così come i suoni delle incudini,
il colore del cielo e quello del mare sembravano aver rag
giunto una felice consonanza. Pitagora e i discepoli riprese
ro il cammino al passo del lento zoppicare di Filolao.
«Maestro, come dovremmo interpretare il fenomeno
che abbiamo appena osservato?», chiese questi impaziente.
Pitagora taceva assorto.
«La martellata a tre, l'ultima, sembra confermare che la
consonanza non dipenda dalle dimensioni dei martelli ma
solo da quelle delle incudini», osservò Eratocle.
«Be', in realtà siamo andati oltre. Non solo la consonan
za ma neppure l'altezza dei suoni dipende dai martelli. Ciò
che conta sono solo le dimensioni delle incudini», ribatté
con sicurezza Filolao.
Mentre gli allievi discutevano, la mente di Pitagora va
gava tra la bottega e il sogno del mattino. Alcune frasi gli
riecheggiavano nella testa. Lincudine e il martello di Basi
leios sono di poco più piccoli di quelli di Cilone. Lincudi
ne di Corebo è circa la metà di quella di Cilone. Sì, la mia
è tre volte quella di Corebo.
«Mmh, è vero!», rispose Eratocle. «Quando Corebo ha
colpito l'incudine di Cilone con il martello più piccolo,
l'altezza del suono è rimasta invariata».
«Una volta esclusi i martelli», riprese Filolao, «quello
che dovremmo cercare di capire è perché alcune incudi
ni colpite contemporaneamente producono suoni che si
fondono piacevolmente mentre altre danno luogo a suoni
dissonanti . . . ».
Nella mente di Pitagora andavano formandosi alcune
immagini: c'era l'incudine di Cilone con su scritto "2 Co
rebo" e quella di Gerone con la scritta " 3 Corebo".
Vedeva anche una terza immagine, flebile e avvolta da
una densa foschia.
Nel frattempo, alle sue spalle, Filolao non aveva visto un
sasso sporgente sul suo cammino. Così incespicò e, per non
·
perdere l'equilibrio, fece forza sulla gamba infortunata. La
contrazione del muscolo gli provocò una fitta dolorosa. Il
giovane tentò di soffocare un urlo di dolore che però venne
fuori lo stesso.
Il maestro si voltò infastidito e fissò la scena. Filolao,
Eratocle e il sasso. Nella mente vide nitido un 3. Il pensiero
tornò alle incudini. Poi di nuovo a quanto stava accadendo.
Eratocle era corso a sostenere l'a�ico. Filolao ed Eratocle:
un 2. Il velo che copriva la terza immagine mentale si dis
solse e Pitagora vide l'incudine di Gerone con su scritto
"3/2 Cilone".
((Oh Zeus! Ci sono!)), urlò il maestro.
Eratocle e Filolao lo fissarono sconcertati.
((Sì!)), disse Pitagora. (& chiaro! La consonanza dipende
dal rapporto tra le dimensioni delle incudini!)).
((Dal rapporto?)), ripeté Eratocle. ((In che modo dal rap
porto?>>.
Pitagora raccolse un rametto e cominciò a tracciare se
gni sulla sabbia della strada.
((Scrivo Ci sull'incudine di Cilone, Co su quella di Co
rebo, Ge su quella di Gerone e Ba su quella di Basileios)).
Filolao si massaggiava la gamba con evidente dolore ma
non perdeva una parola del maestro. ((Se l'incudine di Ge
rone è il triplo di quella di Corebo e se quella di Cilone è il
doppio di quella di Corebo . . . )).
Ge = 3Co Ci = 2Co
32
« . . . allora quella di Gerone deve essere una volta e mezza
quella di Cilone».
Ge = 3/2 Ci
Ba = 1 1 / 1 0 Co
3S
ciso che la schiavitù andasse abolita, Trasibulo era voluto
rimanere comunque con lui come suo libero servitore.
((Che cos'è questa storia delle corde e delle lire?)), chiese
Ippaso rivolto a Eratocle.
((No, è che... nella bottega del fabbro ... )), balbettò
quest'ultimo accorgendosi che Pitagora lo stava fissando.
Conosceva bene quello sguardo del maestro: diceva che
aveva qualcosa in mente.
((Andiamo nel mio scrittoio)), disse Pitagora. I quattro
attraversarono il porticato, varcarono l'accesso settentrio
nale, salirono le scale ed entrarono nella stanza del maestro.
Un penetrante odore di ciceone li avvolse. Pitagora li invitò
a sedersi, prese la coppa che come al solito Trasibulo gli
aveva preparato e andò a sorseggiarla davanti alla finestra.
Rimase lì, in piedi, a guardare in silenzio il cielo, con il sole
del mattino a illuminarne la figura ossuta. Il candore del
chitone era quasi abbagliante. Un tempo, i lunghi capelli
gli avevano fruttato il soprannome di il Chiomato di Samo.
Adesso, il Chiomato sfoggiava ancora una lunga capiglia
tura che però nella parte alta si era sensibilmente diradata
ed era screziata da qualche sottilissima linea argentea che,
come rivoli lungo il fianco di una montagna, ne striava
il colore scuro. La lunga barba era invece nera come un
tempo.
Il maestro guardava il cielo ma sembrava muovere im
percettibilmente le labbra, quasi recitasse una preghiera
agli dèi.
((Dobbiamo creare due grupph>.
((Due gruppi?)), gli fece eco Filolao. ((Che cosa intendete,
maestro?)).
((La scuola. Dobbiamo organizzarla in modo diverso.
Non possiamo andare avanti con questa struttura aperta in
cui tutto. il sapere è a disposizione di ogni allievo)).
«Non capisco . .. », lo interruppe Ippaso. «E poi che c'en
tra con la mia domanda?».
«E se ci trovassimo difronte a una grande scoperta? Una
scoperta che potrebbe fornirci le chiavi per l'interpretazio
.
ne dell'Universo? In quel caso . . . non potremo permetterei
.di divulgarla e condividerla con chiunque».
<<Per quale motivo . . . maestro?», chiese Eratocle.
«Come possiamo essere sicuri che gli allievi della scuola
siano affidabili? Qu:ilcuno potrebbe usare le nostre cono
scenze per scopi personali e malvagi. Per il potere. Per la
ricchezza».
«Quindi proponete di dividerci per controllare meglio
la diffusione della conoscenza?>>, domandò Filolao.
«Li struttureremo in modo che un gruppo acceda a tutta
la conoscenza e l'altro ne conosca solo una parte», si permi
se di spiegare Eratocle.
<<Proprio così!», confermò Pitagora.
Ippaso corrugò la fronte. «Ma in questo modo il pro
blema si riduce, non si azzera. Come possiamo essere sicuri
che tutti i membri del gruppo ristretto siano affidabili?»,
disse guardando con intenzione Eratocle. Quindi volse lo
sguardo verso il maestro e continuò con uno stretto sorriso
a segnargli volto. «E . . . quale sarebbe questa scoperta che
potrebbe fornirci la chiave per l'interpretazione dell'Uni
verso?».
Pitagora fissò il metapontino per qualche secondo. «Tu,
caro ragazzo, dovresti imparare a mostrare un po' di rispet
to. Soprattutto quando parli con persone che hanno più
anni ed esperienza di te. Eppure ne abbiamo parlato tante
volte durante le lezioni».
«Non intendevo mancar di rispetto a nessuno. Ho fatto
solo una domanda».
]7
«Spesso il volto e il tono dicono più delle parole: la tua
tracotanza affiora con evidenza. Non è la prima volta che
succede. Dovresti imparare a dominarti. Oltre a essere di
sdicevole, questo atteggiamento avrà sempre l'effetto di in
dispettire il tuo interlocutore».
«Ma era solo una domanda!».
«Filolao saprà raccontarti i fatti», tagliò corto il maestro
uscendo dalla stanza.
Questi obbedì e raccontò delle incudini e dei martel
li, mentre Eratocle taceva aggrottato: il maestro gli aveva
di nuovo preferito Filolao. Pitagora rientrò nello scrittoio
proprio mentre il giovane concludeva la spiegazione.
«Hai capito, Ippaso? Esiste una correlazione tra numeri,
suoni e fenomeni del mondo fisico. Eratocle si è spinto
a ipotizzare che la natura dei numeri potrebbe non· essere
così astratta come crediamo. Ipotesi molto apprezzata dal
maestro, del resto», concluse Filolao volgendo lo sguardo a
Pitagora che scavalcava la soglia.
Eratocle apprezzò il riconoscimento e palesemente si
rasserenò. <dn effetti, il maestro ha detto che la mia po
trebbe essere un'ipotesi rivoluzionaria. Ma che per confer
marla dovremmo cercare di approfondire il fenomeno e di
riprodurlo con i suoni emessi da corde in vibrazione. Ecco
perché ci serve un costruttore di lire».
I tre allievi stettero in silenzio, rotto dopo qualche istan
te da Pitagora. «Che ne pensa allora il nostro Ippaso?».
« È interessante . . . Potrebbe aprire nuovi orizzonti. Tut
tavia . . . l'ipotesi che i numeri non siano entità astratte mi
sembra . . . discutibile. E non sono sicuro che mantenere la
scoperta accessibile solo a un gruppo di eletti sia la scelta
giusta per la scuola . . . ne tradiremmo lo spirito».
:w
«Invece io sono convinto che abbia ragione il maestro»,
sbottò Eracocle con così tanta decisione da attirarsi gli
sguardi di tutti: non era il suo tono consueto.
Lo stupore di Ippaso si tramutò in un ghigno. «Eracocle
è d'accordo con il maestro? Ma che novità!» .
. «Che c'è, Ippaso? Forse ti dà fastidio il fatto di non aver
avuto tu l'idea?».
«Il punto non è in discussione! La scuola sarà strutturata
in due gruppi. Domani vi comunicherò le regole».
:�f)
na di deduzioni cercando di produrre conclusioni logiche.
Così confermava proprietà e, occasionalmente, ne svelava
di nuove.
«Se vuoi diventare il più sapiente tra gli uomini, salpa
alla volta dell'Egitto e vai a conoscere i sacerdoti di Memfì
e quelli di Tebe», gli disse Talete quando sentì arrivare la
fine. Dai sacerdoti egizi Pitagora apprese un'interessante
proprietà del triangolo e dei quadrati. E lui, primo tra gli
uomini, la dimostrò applicando il metodo del suo maestro.
Assetato di conoscenze, dopo Memfì e Tebe, Pitago
·
·10
la sua guida, il giovane avrebbe smussato le spigolosità del
carattere.
Di ricordo in ricordo, Pitagora era arrivato al tempio di
Apollo, a un centinaio di passi da casa sua: una visita al dio
gli avrebbe fatto bene. Salì i gradini della rampa, attraversò
la peristasi e il pronao ed entrò nella cella templare. Oltre
alla sacerdotessa Elettra, Pitagora era l'unico ad avervi ac
cesso: era stata Elettra stessa a concederglielo, in nome dei
rapporti che il maestro aveva intrattenuto con Temistoclea,
la sacerdotessa di Apollo a Delfi.
li
Quella che abbiamo trovata è dawero una così grande
rivelazione? I numeri sono dawero il mezzo per decifra
re le leggi dell'Universo?)). Nonostante la mole, la sta
tua di pietra gli sembrava irradiare leggerezza. Leggerez
za e austerità. «0 piuttosto stiamo cadendo vittime di
un abbaglio? Rispondimi divino Apollo!)). La luce delle
lampade faceva ondeggiare la lunga capigliatura ricciolu
ta della statua. «Se la nostra intuizione è giusta, dovrem
mo cambiare le regole della scuola per proteggerla? Vie
ni in mio soccorso in questa troppo ardua decisione!)).
Anche questa volta la voce arrivò come una profonda
vibrazione interiore che saliva da stomaco, diaframma e
viscere. «Non mi è concesso rivelare verità divine. Ma è
opportuno che i mortali proteggano i doni che ricevono)).
«C'è altro che tu voglia comunicarci divino Apollo?)).
«La scuola è incompleta. Dai ascolto a Teano. E che la
mia androgina natura possa esservi d'ispirazione)). Pitagora
ebbe chiaro cosa volevano dirgli i messaggi del dio.
Gli allenamenti olimpici
Dove gli allievi si confrontano nella lotta e
Pitagora cambia le regole della scuola nonostante
l'opposizione di alcuni.
44
Ippaso indietreggiò senza scomporsi, ((Non è bello esse�
re superato da chi ritieni più debole, vero Eratocle?».
((Bastardo!», rispose Eratocle spingendolo di nuovo.
I due contendenti si erano spostati verso la parte centra
le dello stadio. I..:allenatore capì che il litigio stava per dege
nerare. Era sul punto di intervenire quando il suo sguardo
fu calamitato da un bagliore in alto. Reagì d'istinto. La co
lossale muscolatura si contrasse, il corpo si inarcò e scattò
con un balzo animalesco. La mastodontica mole sembrò
aver perso peso per librarsi in aria. I..:allenatore concluse
la parabola andando ad abbattersi a mani aperte contro il
petto di Ippaso che fu scaraventato dieci passi più in là.
Mentre Milone stava ancora rotolando a terra e il suo pileo
rotolava con lui, un giavellotto andò a conficcarsi nel pun
to in cui Ippaso si trovava appena un attimo prima.
Rimasero pietrificati: Eratocle, a un paio di piedi dal
giavellotto; Filolao, poco più in là, che muoveva lentamen
te lo sguardo tra Ippaso, il giavellotto e l'allenatore; lppaso
stesso, a terra, tramortito; e Milone, seduto sull'erba, pal
lido in volto.
Il primo a riprendersi fu quest'ultimo che alzatosi si vol
�ò verso la direzione da cui era venuto il giavellotto ((Ca
ronda!», tuonò. ((Per tutti gli dèi! Che vi salta in mente?!
Avete deciso di spedirei anzitempo all'Ade?».
Caronda stava allenando i pentathleti. ((No, Milone, mi
sembra che siate voi ad aver deciso di fare una visita a Cer
bero», rispose. ((Ma se proprio ci tenete ad andare a cono
scere il cane a tre teste, potreste scegliere modi più semplici
che farvi infilzare dai nostri giavellotti».
Solo allora Milone si rese conto che, nel parapiglia, era
no finiti inavvertitamente nell'area dei lanci. Rivolse un
gesto di scuse a Caro nda, poi, guardando Eratocle _e Ippaso
li apostrofò con voce bassa, come il tuono di un temporale
distante. ((Siete due idioti».
/1 �;
Milo ne era l'allenatore dei lottatori. E che allenatore!
La prima ad accorgersi di quanto fosse eccezionale era stata
la levatrice che aveva preannunciato a Idotea un parto ge
mellare e non aveva creduto ai propri occhi quando si era
ritrovata tra le mani quell'unico enorme neonato.
Lappetito del lattante era insaziabile. Suo padre Alceo
dovette presto procurarsi una capra perché il latte di Ido
tea non bastava mai a sfamare il primogenito. Dopo un
mese Alceo acquistò una seconda capra. A sei mesi Milone
mangiava come un adulto, pur non rinunciando all'adora
to latte di capra. E naturalmente cresceva a un ritmo im
pressionante.
Oltre ad avergli fatto da balie, le capre erano diventa
te le sue compagne di gioco. A due anni uno dei suoi di
vertimenti preferiti consisteva nell'andare sotto una capra,
succhiare un po' di latte e sollevarla sulle spalle. L animale
rispondeva con una belata felice.
Ben presto a Crotone si diffuse la voce che Milone fosse
il figlio di Eracle, colui che aveva pregato gli dèi di far sor
gere una florida città intorno al sepolcro dell'amico Croto
ne, l'eroe figlio di Eaco, da cui la città aveva preso il nome.
Dopo tre anni, Alceo pensò di affidare il figlio a un pre
cettore, Trofonio di Metaponto. Questi comprese subito
che le virtù fisiche del bambino dovevano essere indirizzate
verso la più importante tra le discipline da combattimento:
la lotta.
A sette anni, Milone iniziò a frequentare la scuola. Era
di dimensioni spropositate rispetto ai compagni. Il loro in
segnante non era certo un gigante, ma quando stavano tut
ti assieme sembrava che in classe di insegnanti ce ne fossero
due, tale era la statura di Milone.
Qualche volta al piccolo Milone capitava di usare la
forza per sottomettere gli altri bambini, ma non così spes-
46
so come si potrebbe immaginare. Quasi tutti provavano
sentimenti di rispetto e di timore nei suoi confronti. Era
raro che qualche bambino osasse contraddirlo o addirittura
affrontarlo. Non era rarissimo tuttavia che suscitasse senti
menti d'invidia.
Gli insegnanti si trovarono d'accordo col precettore
Trofonio e continuarono a incoraggiare e coltivare le doti
atletiche del bambino. Nelle altre discipline scolastiche Mi
Ione non brillava altrettanto, ma non era neppure tra i peg
giori: imparava a memoria i versi di Omero e, con il tempo,
si rivelò piuttosto dotato con i numeri e con la geometria,
ma anche con la musica e con la lira. Le discipline in cui
zoppicava erano invece la retorica e la scrittura.
Negli incontri di lotta tra coetanei invece non c'era pro
prio storia: finivano tutti a terra dopo pochi istanti. Gli
insegnanti avevano quindi cominciato a farlo combattere
con bambini via via più grandi: ma anche contro di questi,
Milone vinceva quasi sempre. Ben presto tutti si convinse
ro che nel suo destino fosse iscritto un futuro di campione
olimpico.
Quando compì dieci anni, un allenatore iniziò a pre
parare Milone per le gare di lotta della categoria fanciulli.
Volevano che partecipasse ai giochi olimpici della sessante
sima Olimpiade, che si sarebbero tenuti da lì a due anni,
quando in effetti Milone si imbarcò per la prima volta e
raggiunse Olimpia.
4H
manifestazione, che riecheggiava le processioni in onore di
Achille, quasi un passaggio di testimone dall'antico eroe al
giovane campione.
Giunti al capo, i crotonesi trovarono i venditori pronti
per la festa. E a fare i migliori affari furono le bancarelle
di vino. Quelle tre giornate rimasero incise nella memoria
cittadina e furono immortalate da una statua di Milone che
combatte con uri leone. ·
·1 'J
«Su queste dieci tavolette ho stilato le nostre regole. A
esse d'ora in avanti dovremo riferirei per ogni decisione
riguardante la scuola».
A rompere il silenzio che seguì l'annuncio fu Filolao.
«Potreste dirci, maestro, quali saranno questi cambiamen
(l.
· � ».
r; o
«Sarà arduo, maestro, verificare tutte queste qualità con
un solo esame», osservò Filolao.
«No, se l'esame durerà tre anni».
«Tre anni?!».
«Mi sembra una durata adeguata per indagare l'animo
dei giovani aspiranti», tuonò Milone.
<dl minimo necessario», gli fece eco Eratocle.
«Con quali criteri comprenderemo se il desiderio di ap
prendere sia autentico?», chiese Filolao.
Pitagora prese in mano una delle tavolette. « È qui»,
disse mostrando loro una parte del testo. « È la lista delle
attitudini che tutti gli allievi dovranno possedere. E ho sta
bilito anche le indicazioni per vagliarle».
Tutti volsero lo sguardo verso la tavoletta, anche se nes
suno riusciva a leggervi il testo. Pitagora lo riassunse.
«Quindi dopo aver superato l'ammissione entreranno a
far parte del primo dei due gruppi?».
«Vedo che hai ben compreso, Eratocle. Quelli che sa
ranno ammessi entreranno nella scuola come acusmatici».
«Acusmatici?», chiese Ippaso. «Cioè ascoltatori? Signifi
ca che potranno solo ascoltare?».
«Potranno solo ascoltare senza mai interloquire. Non
saranno ammessi a tutte le lezioni. Ascolteranno quelle in
cui mostreremo le più elementari tra le nostre conoscen
ze, nella loro versione più superficiale: mai riveleremo la
profonda essenza della verità a cui si accede attraverso la
dimostraZione».
«Dopo quanto · tempo potranno passare al secondo
gruppo?>>, domandò Eratocle.
«Niente tempi prestabiliti. Gli acusmatici potrebbe
ro essere ammessi nel gruppo dei matematici dopo pochi
mesi, dopo qualche anno o addirittura mai».
51
«Quindi matematici sarà il nome dei membri del secon
do gruppo)�. sottolineò Filolao.
«Matematici . . . coloro che desiderano apprendere. Sa
ranno insieme matematici e filosofi. Desiderosi di appren
dere e amanti della sapienza. Saranno i pionieri delle nuove
discipline)).
((Che faremo se uno di questi acusmatici si rivelerà ina
deguato?)), si preoccupò Ippaso.
((Se un acusmatico ci deluderà, lo estrometterem? . E per
noi sarà come morto. Ma non prima di avergli restituito il
doppio dei beni che ha portato in dote alla scuola entran
dovi)).
((Le nuove regole . . . sono queste?)), ebbe bisogno di chie
dere Filolao.
Pitagora tacque e guardò gli allievi uno a uno. · ((Ce n'è
ancora una. Una regola di inclusione, non di esClusione: le
donne saranno ammesse alla scuola)).
((Le donne?)), esplose Milo ne. ((Sarebbe . . . contro ogni
logica . . . contro il senso comune . . . contro la tradizione)) .
((Maestro)), gli diede man forte Eratocle, ((le donne non
hanno mai frequentato le scuole. Tutto quello che serve per
la loro vita di mogli e di madri lo imparano in casa. Potreb
be essere pericoloso renderle partecipi di conoscenze più
profonde. Se proprio dobbiamo . . . che siano acusmatiche)).
Ippaso non perse l'occasione di schierarsi con Pitagora.
(dnvece secondo me dovrebbero essere ammesse a pieno ti
tolo)) , disse con sicurezza.
(dppaso è nel giusto. Per le donne varranno esattamente
le stesse regole che valgono per gli uomini)).
((Ma avranno le qualità razionali adeguate? Riusciranno
a dominare le loro emozioni?)), domandò Milone.
((Tra i miei insegnanti, a Delfi, c'è stata una donna: Te
mistoclea, la sacerdotessa di Apollo. Fu lei a trasmettermi
buona parte delle mia dottrina etica e morale)).
sz
«E i numeri? E la geometria? Non ci occupiamo solo
di etica e di morale)), intervenne Eratocle. <<Le donne sono
molto dotate nella sfera delle emozioni e in quella dei sen
timenti, ma saranno in grado di apprendere concetti com
plessi come i nostri?)).
«Se non vi basta l'esempio di Temistoclea, pensate a
mia moglie. Sei anni fa, qualche mese dopo il mio arri
vo a Crotone, Teano interruppe una vecchia consuetudi
ne venendo ad ascoltare i miei discorsi. Era la prima volta
che una donna crotonese partecipava a eventi pubblici di
questo tipo)). Pitagora notò l'espressione un po' smarrita di
Ippaso e si rivolse al giovane. «È così: tu a quei tempi vivevi
a Metaponto, ma gli altri ricordano l'episodio)). I tre giova
ni annuirono. «Io ed Eratocle eravamo arrivati da poco da
Samo)), continuò il maestro. «l miei rapporti con il tiran
no Policrate erano diventati difficili, avevo sentito dire che
nell'Italia greca c'era abbondanza di uomini ben disposti
verso il sapere, e decisi di trasferirmi a Crotone)),
«Appena giunto in città, il maestro cominciò a tenere
discorsi pubblici per noi ragazzi)), spiegò Filolao a lppaso.
«E il suo carisma attirava anche molti adulti)).
«Tra loro c'era il padre di Teano>>, proseguì Pitagora. «A
furia di sentire i suoi resoconti, Teano divenne curiosa e
volle assistere di persona)),
La ragazza era arrivata nell'agorà insieme al padre e. pre
se ad andarci regolarmente. In quei giorni � Crotone non
si parlava d'altro. E Teano non perdeva uno dei discorsi di
Pitagora. Alcuni mesi dopo, il maestro e la ragazza si spo
sarono e, mentre Pitagora era impegnato nella fondazione
della scuola, nacque Muia.
« . . . per tornare alla capacità delle donne di appren
dere concetti complessi, ho voluto citare Teano pro
prio perché lei è il migliore esempio che io conosca.
Nonostante gli impegni domestici ha voluto che conti
nuassi a raccontarle i fatti della scuola e ora conosce alla
perfezione la nostra dottrina e la nostra scienza. Ieri, ad
esempio, dopo aver sentito il racconto della nuova scoper
ta mi ha suggerito un'ottima tecnica per proseguire l' espe
rimento con le corde», senza lasciar spazio a domande in
merito, Pitagora concluse. «Credo che il modo migliore
di inaugurare questa nuova regola sia ammettere proprio
Teano». Nessuno ebbe da obiettare. Ippaso sorrise e il suo
.
sorriso sancì l'assenso di tutti alle nuove regole.
Musica e numeri
Dove Pitagora e Teano indagano i rapporti tra
musica e numeri e Ippaso, non convinto, sfida Teano
con un'ipotesi alternativa.
S7
la parte superiore della lira. Le corde erano mantenute in
tensione da sette cilindri di ugual dimensione che pende
vano da uno dei lati corti della struttura di legno. Analoga
mente sette dischi di bronzo disposti in ordine di spessore
pendevano dall'asse di un'altra struttura di legno.
Teano e Ippaso entrarono insieme nell'officina. La don
na, vestita con un peplo color zafferano legato in vita· da
una cintura turchese, aveva in mano un plettro. Ippaso,
con indosso il solito chitone bianco, teneva in mano due
bacchette di legno.
Si posizionarono ognuno difronte al proprio strumento.
Calò il silenzio. Filolao ed Eratocle attendevano trepidanti
in prima fila. Dietro di loro Milo ne, dall'alto della sua mole
di recente campione olimpico, sembrava impassibile. D'un
tratto la porta sul retro si aprì ed entrò Pitagora. Il momen
to della verifica era giunto. A un cenno del maestro, Teano
e Ippaso si avvicinarono agli strumenti. A cominciare fu
la moglie del maestro. Pizzicò la prima corda e poi la se
conda di lunghezza doppia rispetto alla prima: consonanza
perfetta. Si voltò quindi a guardare Ippaso con un sorriso
che solo il metapontino riuscì a scorgere. Egli sostenne lo
sguardo con fierezza e quindi colpì il primo e il secondo
disco. Il risultato fu analogo: consonanza ugualmente per
fetta. Ippaso restituì a Teano il sorriso.
Andarono avanti. Seconda e terza corda; secondo e terzo
disco: stessa consonanza. Il confronto si faceva via via più
avvincente. Nel silenzio assoluto dell'officina, si sentivano
solo le vibrazioni sonore.
Terza e quarta corda; terzo e quarto disco: stessa con
sonanza. L aria dell'officina si era fatta più pesante e sul
chitone di Ippaso comparivano chiazze di sudore.
Quarta e quinta corda. Teano si ritrasse. Un mormorio
si diffuse tra i presenti. La sequenza non era sembrata con
sonante. Teano guardò il marito. Poi si voltò verso Ippaso.
Al giovane scappò una risata, ma mentre si girava verso i di
schi, l'euforia l'abbandonò. Titubante sollevò la bacchetta.
Rimase immobile per un istante e colpì il quarto disco. Poi,
violentemente, quasi a voler ricacciare il pensiero che gli
era balenato in mente, sferrò un fendente al quinto disco.
Il suo volto si contrasse: pensiero fondato! Prima, stesse
consonanze, ora stesse dissonanze. Gli esperimenti conti
nuavano a procedere di pari passo. Il mormorio crebbe in
intensità. Tra tutti i presenti il solo Pitagora stava sorriden
do. «Bene!», disse il maestro ad alta voce. «Abbiamo trovato
il limite!», concluse con una nota di esultanza.
«Che limite, maestro?», lo interrogò Filolao dalla prima
fila.
«Quello che separa la consonanza dalla dissonanza. E
quel limite è un numero! Un numero . . . capite?».
«La mia osservazione era giusta!», esultò Eratocle. «Se i
numeri regolano il mondo fisico, la loro natura non può
essere astratta».
«Penso proprio che tu abbia ragione. Mi convinco sem
pre di più che nei numeri siano celate le leggi che regolano
la natura», chiosò soddisfatto Pitagora.
«Credo che ci stiamo spingendo un po' troppo in là con
l'immaginazione», osservò Ippaso, catturando l'attenzione
di tutti. «Pur ammettendo che i numeri ci forniscano uno
strumento per interpretare i fenomeni della natura, come
questi esperimenti sembrano suggerire, ciò non esclude che
essi possano essere comunque entità astratte».
«Ma come potrebbero oggetti che esistono solo nel
le nostre menti spiegare fenomeni concreti?», lo incalzò
Eratocle. «E, poi, ogni singola mente potrebbe sviluppare
un'idea diversa di numero. Mentre noi sappiamo che si
tratta di un concetto universale e immutabile)).
«Non saprei dare una risposta precisa, ma credo che i
numeri potrebbero essere una creazione delle nostre menti
e sembrarci correlati ai fenomeni naturali solo perché noi
osserviamo tutti gli eventi attraverso il filtro parziale del
nostro intelletto)).
«Non mi sembra un'interpretazione plausibile: penso
che Eratocle abbia ragione)), tagliò corto Pitagora.
«Anch'io mi trovo d'accordo con Eratocle e credo che
questa idea dei numeri creati dalle menti umane sia sba
gliata)), intervenne Teano.
«Durante i miei viaggi)), riprese Pitagora, «non ho mai
incontrato una mente razionale che possedesse un'idea di
versa del concetto di numero. Tutti i sapienti con cui ho
parlato - egiziani, babilonesi, fenici, indiani - tutti con
dividevano il medesimo concetto di numero. Questo fat
to, unito alla scoperta che ci troviamo difronte, mi porta a
pensare non solo che il Numero sia un'entità concreta, ma
che abbia anche una natura divina. Se attraverso i nume
ri riusciamo a interpretare le leggi della natura, non può
esserci altra spiegazione. Ma se qualcuno sarà in grado di
fornirmi una diversa interpretazione altrettanto soddisfa
cente, sarò ben lieto di cambiare idea)), concluse il maestro
guardando Ippaso. Il giovane gli restituì uno sg�ardo vena
to di rabbia, ma tacque.
<<Ad esempio)), continuò Pitagora, «che cosa possiamo
dedurre dai risultati appena osservati?)).
«Sembra che i numeri l , 2, 3 e 4 abbiano un ruolo pri
vilegiato rispetto agli altri)), tentò Filolao.
«Giusta osservazione)), disse Teano annuendo. <<Paiono
essere gli unici a generare consonanze. Dev'esserci qualcosa
di speciale nella loro natura)).
60
«Lo credo anch'io», confermò Pitagora. <<Questi nume
ri devono rappresentare un nucleo numerico fondamen
tale della consonanza. Dovremo approfondire e sviscerare
la loro essenza)), Il maestro spostò la tavola più grande in
modo che tutti gli allievi · potessero vederla, prese lo stilo e
cominciò a incidere la superficie cerata.
1 , 2, 3, 4
5=3+2=4+ 1
6=4+2=3+2+ 1
7=4+3=4+2+ 1
8=4+3+ 1
9=4+3+2
10 = 4 + 3 + 2 + l
6L
no. Ma ora io vi dico che entrambi sbagliavano!», prose
guì Pitagora con voce più potente. Qualcuno tra gli allievi
bisbigliò. «Sbagliavano perché il principio primo non può
essere una sostanza totalmente priva di aspetti speculativi,
e non può essere neppure un'idea completamente astratta
come l' apeiron. Il principio primo deve essere qualcosa di
reale; e in esso deve essere necessariamente riconoscibile la
relazione con tutto ciò che da esso ha avuto origine, e cioè
con l'Universo. E qual è quell'entità che sembra possedere
questa proprietà?», in un rapido sguardo d'insieme Pitago
ra sfiorò tutti i presenti. Nessuno ebbe il coraggio di aprire
bocca. « È il Numero! È il Numero che cela in sé le leggi per
interpretare la realtà che ci circonda. È il Numero che ha
generato tutto. È il Numero il principio primo». Pitagora
interruppe il crescendo, poi continuò con tono più pacato.
«Tutti gli indizi sembrano dircelo. L unico fatto che non
riesco ancora a spiegarmi è il motivo per cui l'esperimento
con corde uguali e pesi diversi sia fallito. Mi sarei aspettato
un'analogia con il fenomeno delle incudini».
«Credo di intuirne il motivo», intervenne Ippaso, sul
quale si concentrarono gli sguardi, non tutti benevoli, dei
presenti. «Forse le relazioni tra numeri e fenomeni ci sono
anche in quel caso ma si esprimono in modo diverso a se
conda della grandezza considerata».
«Non capisco bene che cosa intendi», lo interruppe Fi
lolao.
<<Considera entrambi gli esperimenti. Il nostro scopo
era di riprodurre le consonanze delle incudini usando gli
stessi rapporti numerici con altri oggetti sonori. Ci siamo
riusciti applicando i rapporti agli spessori dei dischi e alla
lunghezza delle corde, ma non ci siamo riusciti con i pesi
applicati alle corde». Filolao fissò Ippaso con sguardo in
terrogativo. «Quello che voglio dire», riprese questi, «è che
forse una relazione tra numeri e pesi applicati alle corde
sussista comunque, ma solo attraverso una formula più
complessa. Quindi per ottenere gli stessi risultati bisogne
rebbe applicare rapporti diversi».
((Bravo, Ippaso!», lo lodò Pitagora. ((La tua . interpre
tazione non fa che confermare la mia idea. Le leggi che
regolano la natura albergano nei numeri. A noi spetta il
compito di decifrarle e interpretarle. Dobbiamo partire dai
mattoni per poter risalire alle leggi che hanno governato la
costruzione dell'edificio e i nostri risultati mi hanno con
vinto che quei mattoni sono proprio questi dieci numeri»;
Le lezioni di Eratocle
Dove Eratoc/e insegna il teorema di Pitagora
all'allievo Eurito.
()5
«Per cominciare <Ufronteremo gli aspetti fondamèntali
del nostro pensiero: geometria e aritmetica. Partiremo dal
la prima importante nozione geometrica che il maestro ha
acquisito studiando il triangolo e i quadrati».
«La formula che apprese dai sacerdoti di Tebe . . . >>.
«Finora per te, quella è stata solo una formula», gli spie
gò Eratode. «Ma da oggi diventerà un teorema: il teorema
di Pitagora. Il risultato che tutti avevano usato come una
formula per scopi pratici, il maestro lo ha dimostrato. Ha
svelato l'intima natura di una correlazione profonda tra le
figure geometriche e tra i numeri. Scoprire che è un teore
ma, ti farà anche iniziare a capire il concetto di dimostra
zione, che Pitagora imparò a Mileto dal grande Talete».
«Sarà un onore per me», si sbilanciò Eurito. Il giova
ne non mentiva. Nei sui occhi ampli e illuminati Eratocle
lesse l'impazienza e l'entusiasmo del giovane assetato di sa
pere; ma a gratificarlo ancor di più fu l'ammirazione che
traspariva dallo sguardo del giovane.
«Partiamo dalla formula», lo esortò Eratocle. «Come la
esporresti?».
«La formula . . . », esitò Eurito, «dice che se abbiamo un
triangolo con un angolo retto, allora l'area del quadrato
costruito sul lato lungo è uguale alla somma dell'area dei
quadrati costruiti sugli altri due lati».
«Bene, Eurito, forse però dovresti imparare i termini in
uso tra i matematici: un triangolo con un angolo retto è
rettangolo, il lato lungo è l'ipotenusa e gli altri due sono i
cateti».
Il ragazzo prese nota sulla tavoletta.
«Ora dovremo dimostrare che questa formula ha validi
tà universale», spiegò Eratocle alzando il tono della voce.
«La tua convinzione sulla sua efficacia si basa solo sull'e
sperienza».
66
«E non basta?», sgranò gli occhi Eurito.
<<Chi ci garantisce che non possa saltar fuori un caso,
che finora non abbiamo previsto, in cui la formula non
sia valida?», e su questa domanda Eratode fece una pausa;
quindi concluse. <<Ecco a che cosa serve la dimostrazione.
A mostrare con passaggi logici che quella formula ha un
valore universale>>.
<<Come?>>.
<<Ti guiderò passo passo con cinque tasselli. Comincia
mo con il primo. Che forma ha?>>.
67
Con poche abili mosse, Eurito sovrappose i quattro
triangoli.
«Adesso disponili in modo che le ipotenuse formino un
quadrato».
Eurito fece qualche tentativo senza riuscirei.
«Disponi il primo triangolo con il vertice che punta a
nord. Ruota il secondo rispetto al primo, con il vertice ver
so ovest».
Eurito esegùì.
69
<<Ecco infine la disposizione che cercavamo . . . », com-
mentò Eratode. (<Guarda il buco centrale: che cos'è?».
«Un quadratO>>.
«Giusto. Ma quanto è lungo il suo lato?».
Eurito studiò la figura, la copiò su una tavoletta cerata
e cominciò a scrivere lettere sui vertici di uno dei triangoli.
Poi aggiunse una lettera su un vertice del quadrato.
,C D, .B
70
«Ma allora DC è quanto manca al cateto corto per rag
giungere il cateto lungo». E scrisse DC ;;:: BC CA. -
71
Un bagliore illuminò i grandi occhi scuri di Eurito che
riprodusse la disposizione sulla tavoletta di cera e aggiunse
alcune lettere e un segmento.
c D. .E
B,
A.
Tl.
vane non riuscendo a trattenere un vero e proprio crescen
do di gioia.
·<<Bene: hai fatto tua la prima lezione».
«Incredibile . . . » .
«Ed è solo l'inizio», lo solleticò Eratocle. «Ci incammi
neremo per mirabili percorsi colmi di prodigi e meraviglie.
Presto ti accorgerai che i numeri sono la chiave per la com
pleta comprensione dell'Universo, o meglio sono l' espres
sione stessa della razionalità dell'Universo. Rappresentano
la via e il mezzo per interpretare il livello divino della realtà.
Il principio primo da cui noi abbiamo avuto origine; da cui
la terra, gli astri e persino i nostri dèi hanno avuto origine.
Il Numero . . . è il demiurgo del noto e dell'ignoto».
Tutto è numero
Dove Eratocle riprende la lezione e insegna a
Eurito la dottrina pitagorica fino a che lppaso non
scompagina la loro conversazione.
74
Eurito lo prese in mano assieme a quello appena più
lungo: li affiancò e li fece scorrere uno sull'altro. «Questo
mi sembra il doppio)). Senza aspettare risposta, li giustap
pose e li affiancò al terzo. «Il terzo è uguale alla loro som
ma)), ·osservò, «e se quello che ho detto dei primi due è
corretto, il terzo è tre volte il primo)). Stette ancora un po'
a osservarli tutti e cinque, a manipolarli, ad affiancarli e
dedusse che le lunghezze erano di l , 2, 3, 4 e 5 dita. Per
fissare le idee scrisse le misure sulla tavoletta.
l 2 3 4 5
7S
«Forse . . . direi che . . . possiamo distinguere tre casi. Con
alcune lunghezze è impossibile costruire un triangolo. Solo
se la somma dei lati più piccoli è maggiore del più grande,
allora è possibile farlo. E in alcuni di questi casi il triangolo
sarà rettangolo».
«Bravo!», lo lodò Eratocle. «Hai trovato un criterio ge
nerale per distinguere le terne di numeri con cui è possibile
costruire un triangolo. Pensi che possa esistere anche un
criterio per capire quando il triangolo generato dalla terna
sia rettangolo?». Eurito passò più volte lo sguardo dal trian
goli) al viso di Eratocle senza parlare. «Per ora fermiamoci
qui. Credo che tu abbia bisogno di conoscere certi nume
ri particolari per trovarlo. Ce ne occuperemo tra qualche
ora».
76
ma in quel momento forse solo gli dèi avrebbero potuto
immaginarlo. Eratocle gli raccontò di Pitagora e Cerone,
delle incudini e delle corde, di lppaso e di Teano. Fino a
illustrargli come il maestro si fosse accorto dell'importan
za fondamentale dei numeri l , 2, 3 e 4 e del loro ruolo
centrale nel rapporto con i suoni. ccLidea del maestro, che
io condivido totalmente, è che, non solo i numeri sono il
principio primo dell'Universo, ne sono anche il principio
materiale. In altre parole, oltre ad averlo generato, i nume
ri rappresentano i costituenti fisici dell'Universo», affermò
Eratode sotto lo sguardo stupefatto e incredulo di Eurito.
cc Tutto ciò che osserviamo è composto di numeri», con
cluse Eratode, cee te ne renderai conto man mano che pro
cederemo con le lezioni . . . Domande?». Limpazienza di
Eurito si palesò nella rapidità con cui scosse la testa.
ceTra le più proficue ricerche ìn cui Pitagora si è impe
gnato per trovare altre prove della mirabile relazione tra
numeri e suoni c'è sicuramente quella ottenuta con la di
sposizione dei nostri ciottoli)), Eratode se li fece rimbal
zare in mano. cc Partiamo da questo ciottolo scuro», disse
disponendo il primo ciottolo sullo scrittoio. ccQuanti ciot
toli chiari dovrai affiancargli per formare il quadrato più
piccolo possibile?)),
Eurito prese tre cioùoli e formò un quadrato.
77
Eurito prese cinque ciottoli e li dispose lungo due lati.
<<Ne ho aggiunti cinque e in tutto ne abbiamo nove)), disse
anticipando la domanda.
3 5 7
l 3 5 7
l 4 9 16
<<Noti qualcosa?».
Eurito si concentrò.
«Aggiungi una riga con i passi che abbiamo fatto)).
Il giovane, senza capire dove Eratocle volesse andare a
parare, scrisse· una terza riga che contava i passi.
7B
l 3 5 7
l 4 9 16
l 2 3 4
l=lx l
4=2x2
9=3x3
1 6=4x4
4= 1 +3
9= 1 +3+5
16 = l + 3 + 5 + 7
79
«Sono loro. Ma prima di riprendere la ricerca ti mostro
il risultato eccelso, che ha portato Pitagora alla scoperta
della sacra Tetraktys)), rispose Eratocle con un lampo obli
quo negli occhi.
Con mosse veloci Eratocle mostrò al discepolo come
costruire nuove disposizioni: partì dal ciottolo scuro e ne
aggiunse altri, passo a passo, in modo da formare non qua
drati bensì triangoli equilateri. Cioè con lati di lunghezza
uguale. Il quarto di questi triangoli non era più una sem
plice figura geometrica ma rappresentava la sacra Tetraktys,
. .
BO
criterio per determinare le terne di numeri che danno luo
go ai triangoli rettangoli. Vorrei che tu trovassi la relazione
che deve sussistere tra le lunghezze dei lati affinché il trian
golo sia rettangolo. Ti ho dato tutti gli strumenti. Se non
riuscirai a trovarla da solo, ci penseremo insieme domani)).
!l l
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B2
siasi numero. Moltiplicando per 3 ottengo 9, 1 2 e 1 5 che
soddisfa di nuovo il criterio. E lo stesso accade moltiplican
do per 4: fa 1 2, 1 6 e 20. E così via)).
((Sono esempi corretti . . . )), lo interruppe Eratocle. <<Ma
sono solo esempi: ci vorrebbe una dimostrazione)).
((Eccola!)), gridò l'allievo mettendo in mano a Eratocle
una nuova tavoletta. Calò il silenzio, mentre questi guarda
va e riguardava i segni incisi nella cera. ((Ottimo: questa sì
che è una dimostrazione)), si complimentò Eratocle.
((E su queste altre tavolette che cosa hai fatto?)).
((Ho cercato una terna che non si ottenesse da una mol
tiplicazione di 3, 4 e 5 e dopo molti tentativi ho trovato
5, 1 2 e 1 3; ho costruito il triangolo e ho verificato che era
rettangolo)), concluse l'allievo tutto d'un fiato.
((Hai avuto una buona intuizione che potrebbe essere
un buon punto di partenza per. . . )).
(( . . . per completare un giochino da ragazzi)), concluse
una voce sulla soglia della stanza. I due si voltarono e si tro
varono faccia a faccia con Ippaso che li fissava con un sorri
so storto. Un lampo d'ira attraversò lo sguardo di Eratocle.
((Bell'argomento quello delle terne)), continuò il meta
pontino. ((Ti ricordi quanto lo trovasti difficile all'inizio?)).
I.:intruso si concesse una pausa per far montare la rabbia in
Eratocle. (( . . . sarebbe interessante far conoscere al ragazzo
gli sviluppi di cui mi sto occupando io . . . ben oltre le ricer
che del maestro . . . )).
((Meglio non sovraccaricare chi sta facendo suoi concetti
nuovi)), cercò di fermarlo Eratocle.
((Ragazzo? Vuoi ascoltare uno sviluppo veramente inte
ressante?)).
Eurito guardò Eratocle. Poi arrossì, abbassò gli occhi e
annuì appena.
((Gli interessi degli allievi vanno sempre incoraggiati)),
Ippaso non perse l'occasione di incassare la vittoria su Era
rode. «Il possibile sviluppo è molto semplice: come Era
rode ti ha insegnato gli ovvi numeri quadrati, così puoi
immaginare i numeri cubici. Ci riesci, no?». La domanda
di Ippaso non lasciò tempo a una risposta del giovane. «A
questo punto potresti chiederti quali sono le terne di nu
meri che soddisfano la relazione di Pitagora per i numeri
cubici. Cioè, quali sono quei numeri a, b e c per cui il
numero cubico di a più il numero cubico di b è uguale al
numero cubico di c?».
Eurito guardò Ippaso smarrito e ammirato a un tempo.
«Poi ci sarebbero anche altri sviluppi», tagliò corto Ip
paso, «ma ne parleremo in futuro. . . Nel frattempo potrete
comunque discutere della mia idea».
Solo gli dèi potevano sapere quanto tempo sarebbe tra
scorso prima che la domanda di Ippaso trovasse una rispo
sta certa.
U4
L'ammissione di Muia
Dove lppaso conferisce il titolo di matematica a
Muia, la figlia di Pitagora, e dove Milone invita
Eratoc/e a casa sua.
HS
Sandali di pelle nera le fasciavano i piedi. Eratocle avrebbe
saputo descrivere ogni minuscola porzione delle sue splen
dide candide dita.
A presiedere la cerimonia era Ippaso. Pitagora aveva pre
ferito farsi sostituire per non essere lui a proclamare mate
matica la propria figlia.
B7
« Ippaso sa a essere insopportabile)), lo calmò Milone
mentre si allontanavano dalla sala.
«E poi ha in disprezzo la tradizione: quasi tutte le donne
affiliate alla scuola lo sono grazie a lui)).
«Con gran danno per le nostre finanze: i beni portati in
dote da una donna sono sempre miseri)).
BB
Eratocle aveva consuetudine con l'androne: il settore
della casa riservato agli uomini, ai ricevimenti e ai simpo
si. Le pareti erano rivestite di stucchi colorati e di dipinti.
I pavimenti erano ricoperti di mosaici. Larredamento era
costituito da tavoli, lettini e piccole sculture. Sul tavolo più
grande un piatto di terracotta dipinta di rosso conteneva
miniature di mele, uva, fichi, e melagrane, anch'essi in ter
racotta e decorati a imitazione dei frutti stessi. Ogni por
zione dell'androne era stata curata nei dettagli dai migliori
maestri che Milone aveva fatto arrivare da Atene.
Molti a Crotone erano rimasti ammirati dalla meravi
gliosa casa, ma non tutti. Quei lussi privati avevano su
scitato anche qualche critica. I tradizionalisti ritenevano
che solo gli edifici pubblici potessero far sfoggio di un tale
sfarzo e che per una casa privata quell'opulenza fosse disdi
cevole. ·
Alla preparazione del banchetto d'inaugurazione parte
ciparono dieci servitori. E anche le portate furono dieci:
carni, pesci, verdure, frutta e dolci serviti su piatti dipinti
con motivi a tema. A essere particolarmente ammirati fu
rono i piatti per il pesce: dallo sfondo nero emergevano una
seppia, un tonno e una sogliola disposti a triangolo.
Il banchetto fu annaffiato da otri di vino. Flautiste suo
narono, ballerine danzarono, attori recitarono Omero,
buffoni dileggiarono il pubblico e suscitarono sonore risate
con battute sui nemici sibariti e persiani, acrobati si esibi
rono con corde, lame e fuochi. Fu una giornata indimenti
cabile, ricordata negli anni. Qualcuno racconta addirittura
che per 1' occasione Milone avesse trasportato un bue sulle
spalle fino a casa e che l'avesse poi macellato, grigliato e
mangiato per intero durante il banchetto.
U9
Eratode non poté fare a meno di ricordare la festa di
inaugurazione mentre con Milone si accomodavano sui
lettini all'ombra del peristilio e il servitore addetto alla cu
cina posava due coppe di vino davanti a loro.
Una voce si affacciò al portone d'ingresso. ((Sapevo di
trovarvi qui. Vi avevo visto incamminarvi in questa d�re
zione».
((Vieni, Filolao! Bevi una coppa con noi!».
((Che sfrontata la ragazza! . . . tutto il tempo a guardare
Ippaso».
Continuarono a chiacchierare sdraiati sui lettini fino al
tramonto.
90
La lunghezza della diagonale
Dove lppaso cerca invano il numero del quale Muia
gli ha suggerito l'esistenza e Pitagora lo aiuta nella
ricerca.
91
<<Poi, se consideriamo che . >>, continuò il giovane men
. .
A = lxl + lxl = 2
A = dxd
E quindi
dxd = 2
94
2. ((Ecco il numero che risponde alla domanda di Muia»,
esclamò ad alta voce Ippaso.
Quale fosse questo numero, però, gli sfuggiva. Forse
Muia non era poi così sciocca . . . E Ippaso diede corpo ai
propri dubbi scrivendo.
3 3 9
- x - = - = 2 , 25
2 2 4
7 7 49
- x - 1 ,96
5 5 25
. . . troppo piccolo.
9S
. . . ancora più grandi.
11 11 121
-- x --
1 ,890625
8 8 64
99 99 980 1
-- x -- =
70 70 4900
2,00020408 1 63265306 1 2244897959 1 84
96
Il giorno dopo, il maestro arrivò che Ippaso stava anco
ra preparando la colazione. Mangiarono maza con miele e
bevvero ciceòne.
Rinfrancato il corpo e lo spirito, si misero al lavoro. Pi
tagora volle provare a migliorare i calcoli. Ben presto, però,
anche il maestro convenne che non erano sulla strada giu
sta.
((Non è lungo questo percorso che arriveremo alla solu
zione. Non possiamo continuare a procedere per tentativi.
I numeri che cerchiamo potrebbero essere grandissimi. E
potremmo non avere le capacità e il tempo per trovarli)).
((E allora? Che cosa facciamo?)).
((Qualcosa di nuovo . . . una strada inesplorata . . . che ci
porti oltre il calcolo)).
((Sì, ma quale?)), lo incalzò . Ippaso. ((Dobbiamo cercare
un risultato senza numeri?)).
((Qualcosa del genere . . . che succederebbe se ipotizzas
simo soltanto che quei due numeri esistano? . . . senza spe
cificare quali essi siano?)), Pitagora rifletteva a voce alta. ((A
quali conclusioni ci porta questa ipotesi? Ci aiuta a capire
meglio la loro natura?)).
Ippaso andò a prendere delle tavolette cerate. E sulla
prima scrisse.
n
d x d = 2d
m
n n
-- x - 2
m m
97
E sotto aggiunse.
nxn
2
mxm
YB
n = 2h m · = 2k
n 2h
--
m 2k
n h
m k
h
d =
k
99
La musica della diagonale
Dove lppaso scopre un numero impossibile e Filolao
si meraviglia che, sebbene impossibile, quel numero
abbia un suono.
1 00
((Di che cosa parli? Spiegami! Il maestro è scappato via
durante la vostra discussione?)),
((Sì. Stavamo discutendo di un mio dubbio e improv
visamente ha cambiato espressione: sembrava terrorizzato.
Ha troncato la discussione e se n'è andato)).
((Il maestro? [avrai di nuovo infastidito con qualche ri
sposta . . ))
, ,
1ot
qui Ippaso fece una pausa per lasciare a Filolao tempo e
modo di capire. <<Ecco. È stato a qui che il maestro ha avuto
quel brusco mutamento d'umore».
«Perché questa conclusione potrebbe averlo spaventa
to?».
<<Che cosa ci ha visto che noi non vediamo?».
«Non lo so», rifletté ad alta voce Filolao. «Non mi sem
bra che tu abbia aggiunto nulla di nuovo. Anzi, la tua os
servazione chiude il cerchio: dopo tutti quegli sforzi siete
tornati al punto di partenza, d=h/k».
Ippaso fissò la tavoletta.
«Non è . . . precisamente . . . un cerchio che si chiude . . . h
e k sono la metà di n e la metà di m . . . il punto dove arri
viamo non è proprio quello di partenza».
«Be', se non è un cerchio sarà una spirale . . . », rise Filo
lao.
«Una spirale)), sussurrò lppaso. «Una spi-ra-le», scandì
lentamente. «Una spirale! Ecco il punto! È questa terrifi
cante spirale ad aver terrorizzato il maestro!».
Tutti si voltarono a guardarli. Qualcuno protestò. Filo
lao e Ippaso raccolsero le loro tavolette e uscirono.
1 02
Mentre i due si incamminavano verso le scale, un uomo
col pileo sgattaiolò fuori dallo scrittorio e si avviò in fretta
nella direzione opposta alla loro.
Entrati in un'aula vuota, Ippaso e Filolao ripresero la
discussione.
«Capisci, Filolao? Se mi trovo nella situazione iniziale
ma con h e k che sono la metà di n ed m allora posso
ripetere tutto il ragionamento daccapo e arrivare ad altri
due numeri che sono la metà di h e k. Poi posso ripetere
di nuovo il tutto e arrivare ad altri due numeri che sono la
metà della metà, e così via lungo una spirale senza fine».
«Chiaro . . . e perché questo dovrebbe far paura al mae
stro?».
«Perché abbiamo una serie illimitata di coppie di nume
ri gli uni la metà dei precedenti».
Filolao meditò per qualche istante poi ebbe un sussulto.
«Ho capito! Una serie del genere non può esistere. O
meglio, non può essere illimitata . . . prima o poi dovrò arri
vare a un numero che non è divisibile per due».
<<Giusto. E invece il nostro metodo ci permetterebbe di
andare avanti illimitatamente», Ippaso vide che Filolao ri
guardava le tavolette. «Che c'è? Ti vedo perplesso. Non hai
afferrato il senso?».
«No, credo di aver capito . . . deve esserci un errore nel
le vostre deduzioni. Capisco che il maestro ci possa essere
rimasto male, ma non è da lui reagire in quel modo a un
errore».
<lLe nostre deduzioni sono corrette. Fidati».
«E la conclusione assurda?».
«C'è una sola spiegazione».
«Quale?».
«Se le deduzioni sono giuste, a essete sbagliate sono le
premesse».
103
<<Che vorresti dire?)).
«Dico che non possono esistere due numeri interi il cui
rapporto è d se contemporaneamente il quadrato di d è 2)).
Filolao fissò Ippaso. Un lento sorriso gli affiorò sulle lab
bra, per poi allargarsi a tutto il viso e sfociare in una sonora
risata.
«Ma è impossibile, Ippaso! Quel numero è la lunghez
za della diagonale del quadrato di lato l . Una lunghezza
in una figura geometrica semplicissima. È impensabile che
non sia il rapporto di due numeri. Tutte le realtà dell'Uni
verso sono esprimibili attraverso numeri. La causa prima
dell'Universo è il Numero. [Universo è costituito da nu
meri)), Filolao era un fiume in piena: la sua foga investiva
lppaso e non lasciava spazio a dubbi. «Potrei forse arrivare
a concepire l'esistenza di un'eccezione in altri ambiti. Ma
non per una lunghezza come la diagonale!)).
Ippaso, imperturbabile e irritante, non reagì. Allora Fi
lolao riprese con maggior enfasi: «Tutti i numeri o sono in
teri o sono un rapporto tra due interi. Se fosse vero quello
che tu dici allora la lunghezza della diagonale non sarebbe
un numero. Ti rendi conto dell'assurdità di questa conclu
sione? Una lunghezza che non è un numero? È semplice
mente in-con-ce-pi-bi-le!)), scandì con enfasi Filolao.
Ippaso sostenne il suo sguardo. «Non c'è altra spiega
zione)).
«Impossibile. Capisci le conseguenze? Sarebbe tutto fal
so: panta arithmos esti, tutto è Numero! La musica è fatta di
numeri, il movimento degli astri è fatto di suoni e numeri,
tutti gli oggetti dell'Universo sono fatti di numeri e quin
di di musica. Un oggetto senza numero non produrrebbe
suono. Quale sarebbe la musica della diagonale del qua
drato? Vuoi dirmi che una corda di quella lunghezza non
produce suono?)), Filolao prese un po' di fiato, poi concluse
con ancora maggior enfasi. <<Se fosse vero, la nostra teoria
non avrebbe più senso . . . le nostre lezioni sarebbero inuti
li. . . nessuno vorrebbe più frequentare la scuola . . . sarebbe
la nostra fine)).
«Lo so. E non mi lascia indifferente. Tuttavia l'argomen
tazione, prodotta per buona parte da Pitagora, è incoritro
vertibile. E giustifica la reazione del maestro. Sono state
proprio le possibili conseguenze a sconvolgerlo: Pitagora le
ha intuite molto prima di noi)).
Filolao conosceva il talento .di Ippaso. Sapeva di essere
stato vinto dalla sua argomentazione.
«Ma allora . . . ? Che dovremmo fare? Mantenere il segre
.
to per evitare le conseguenze?)).
«Non amo il segreto. Mi opposi a esso quando scoprim
mo la correlazione tra suoni e numeri. Ho ceduto perché
mi convinceste del possibile abuso di una teoria così po
tente. In questo caso, però, mantenere segreta la scoperta
significherebbe continuare a insegnare e a diffondere una
dottrina falsa! Non è stato il maestro a insegnarci che noi
siamo filosofi? Che siamo coloro che amano la sapienza? ...
Che amanti saremmo se la tradissimo alla prima occasio
ne?)).
«Che vuoi fare?)).
«Andrò dal maestro e gli dirò quello che penso)).
I OS
Odio, collera e silenzio
Dove, mentre Pitagora è travagliato dai pensieri e
dai dubbi, qualcuno complotta e trarria alle spalle
di lppaso.
l ()()
dianarnente da anni)), proseguì Pitagora. <<Ma nessuno di
noi aveva notato nulla: lui è stato il primo ad accorgersi che
qualcosa non andava)).
«Perché . . . allora . . . stava ancora indagando con Filo-
lao?)).
«Perché non era riuscito a cogliere a fondo la scoperta)).
«Quindi la scoperta è vostra, maestro, non di Ippaso!)).
«Mia . . . di Ippaso . . . chi può dirlo? Certo è che se non
mi avesse coinvolto nelle riflessioni, molto probabilmente
non mi sarei accorto di nulla. Poi ho visto io il problema
prima di lui e la mia reazione è stata quella di na.Scondere
il risultato. Tuttavia mi sono presto convinto che quel ri
sultato prima o poi lo avrebbe trovato da solo. E non mi
sbagliavo)).
«Ci è arrivato solo perché voi lo avete messo sulla buona
strada. Il merito è vostro)), insistette l'uomo.
«A che serve discutere dei meriti? Limportante è capire
le conseguenze. Tu riesci a immaginare dove potrebbe por
tarci questa infausta scoperta?)).
«Una catastrofe . . . è una catastrofe per tutti noi! Dob
biamo mantenerla segreta)).
«Ne sei sicuro?)), chiese Pitagora con la sofferenza in voi-
to.
«Non possiamo gettare in pasto a Caronte il lavoro di
.,
annt.)).
Pitagora sembrava inquieto. «Ci ho riflettuto molto. Ho
soppesato tutte le possibilità)), disse con voce roca. «Con
quale spirito potrei tenere nascosta una tale scoperta? E Ip
paso? Sono sicuro che si opporrebbe)).
«Ippaso, Ippaso>>, sbottò l'uomo. «Sono stufo di sentirne
il nome. Con che autorità ci condiziona? La decisione deve
essere presa dal Consiglio degli Eletti!)).
1 07
<<Contro i miei stessi insegnamenti? Contro la verità?)),
reagì Pitagora. «Noi siamo filosofi! Filosofi e matematici.
Dobbiamo ricercare la verità!)), ebbe bisogno di una pau
sa. «E Ippaso potrebbe decidere di divulgare comunque la
scoperta)).
«Sarà nostro compito impedirglielo)), tagliò corto l'uo
mo.
«Impedirglielo?)), ripeté Pitagora con un cenno d'ironia.
«E come?)).
«Lo decideremo nel Consiglio degli Eletth).
«Nel Consiglio degli Eletti. . . )).
I..:uomo si accomiatò: c'erano allievi che lo stavano
aspettando.
t OB
Filolao sedette mentre Ippaso rimase in piedi a fissare il
maestro. Il riverbero della lampada illuminava i loro volti.
La barba e i .lunghi capelli argentati di Pitagora luccicavano
appena. Il tremolio di luci e ombre marcava la tensione sul
volto di Ippaso. Affrontare il maestro era più difficile di
quanto avesse immaginato. Non sapeva come cominciare.
Le troppe parole che aveva in mente gli avevano come con
gestionato le corde vocali.
Fu Pitagora a parlare per primo. «So quello che hai da
dirmi, Ippaso».
I.:impassibilità del maestro spiazzò il metapontino e ne
accrebbe l'ira. «Credevate fossi uno stupido! Pensavate di
tenermi all'oscuro! Vi sbagliavate!».
Pitagora fu colto alla sprovvista. Pur conoscendo Ippaso
non si sarebbe aspettato un tono così aggressivo.
«Non è come credi, Ippaso», cercò di arginarlo stanca
mente.
«Non è come credo? E allora perché voi avete cercato di
occultare tutto?», gli gettò in faccia il discepolo.
«Sei in balia delle emozioni. Controllati. Dovremmo af
frontare questo discorso quando · sarai in grado di usare la
tua splendida razionalità».
«Ancora con le mie emozioni! Sono solo un pretesto per
evitarmi. . . per continuare a nascondere e a coprire». Tutti
gli insegnamenti appresi a scuola, tutti i consigli del ma
estro, erano come cancellati: Ippaso si lasciava trascinare
dalla collera, forse addirittura dall'odio.
(<Non confondere fatti così diversi, Ippaso. Non parlare
senza cognizione dei fatti. Non agire con supponenza».
«Ditelo! Allora, ditelo . . . che non so di che cosa sto par
.
lando. E se non so nulla, potrò ben rivelare a tutti quello
che so. Se non ha alcun valore, nessuno lo prenderà in con
siderazione! E io sono libero di ripeterlo a chiunque».
1 ()CJ
Filolao, che fino a quel momento era rimasto a guarda
re, ammutolito e spaventato dalla reazione di Ippaso, cercò
di intervenire. «lppaso, cerca di calmarti!», gli disse accom
pagnando le parole con un tocco lieve sul braccio. Ippaso
fuggì da quel contatto. Era furibondo. Guardava il maestro
con odio, con quell'odio spietato che può nutrire un figlio
che si ribella al padre.
Pitagora si alzò e, proprio in quel momento, la fiamma
del fuoco, alimentata da una corrente d'aria, raggiunse la
corteccia di un ciocco che avvampò all'istante. Il bagliore
rossastro accentuò il rossore sul volto del maestro. Ora la
chioma e la barba sembravano sfavillare come la brace. Pi
tagora puntò il dito contro il discepolo. «Stai oltrepassan
do il limite, ragazzo. Ora io ti impongo, difronte agli dèi,
l'assoluto silenzio sulla scoperta. Ti impongo la sospensio
ne dalla scuola almeno fino a quando non avremo deciso
come interpretare la scoperta».
1 1 ()
L'espulsione di Ippaso
Dove le trame arrivano al cospetto del Consiglio
degli Eletti che prende una decisione ineluttabile.
1 1 1
Dioniso si alzò e si rivolse ad Apollo e a Hera. «Signore
e signora degli Eletti, mi rivolgo a voi. Mi rivolgo a voi, o
mortale Diade, trasfigurazione della divina Diade. Mortale
e immortale, maschile e femminile, che vanno a fondersi
nella perfetta Tetrade, emblema della Giustizia universale.
Ed è a questa Giustizia universale e alla completezza del
Numero, che tutto comprende e tutto spiega, che chiedo
di giudicare la mia richiesta».
((Ti ascoltiamo, Dioniso. Narraci i fatti».
((Riporterò i fatti che ho osservato nella loro interezza e
con tutta l'oggettività possibile», rispose Dioniso con voce
grave. Poi poggiò lo sguardo su Ippaso, fissandolo negli oc
chi pieni d'odio.
(d fatti che osservai ebbero luogo un mese e mezzo fa.
Circa una luna dopo la sospensione di Ippaso dalla scuola.
Era l'ora del tramonto e piovigginava.
Come molti crotonesi, stavo rientrando, quando, in lon
tananza, notai Megacle uscire di casa. Il giovane mi sembrò
muoversi con fare sospetto. Decisi di seguirlo a distanza.
Dopo un tortuoso percorso per i vicoli meno frequentati,
Megacle giunse alla casa di Ippaso. Entrò nel cortile attra
verso il portone socchiuso. Io mi spostai silenziosamente
per gettare uno sguardo all'interno. Lo vidi raccogliere una
pietruzza e lanciarla contro una finestra. Immediatamen
te la porta di casa si dischiuse quel poco da permettere al
ragazzo di sgattaiolare dentro, per poi richiudersi alle sue
spalle. Attesi che la debole luce del crepuscolo fosse defini
tivamente calata, quindi mi avvicinai alla finestra. Il buio
nel cortile era pressoché totale. Dalle finestre del pianter
reno non provenivano luci. Da una sola al piano superiore
traspariva un fievolissimo chiarore. Rimasi fermo qualche
istante e mi accorsi che ne veniva anche un lieve bisbiglio».
((Qualcuno ti vide?», domandò Hera.
1 12
«Durante il percorso . . . l'ho già detto, c'era gente per
strada».
«E lì?».
«Lì, non credo».
«E che cosa facesti?».
«La curiosità fu più forte del buon senso. Decisi di ar
rampicarmi su quel muro bagnato. Mi avvicinai alla fine
stra e tastai l'intonaco fino a trovare qualche pietra spor
gente. Salii per un tratto. Feci diversi tentativi prima di
trovare il punto d'appoggio giusto. Proprio quando mi
sembrava di aver raggiunto la base della finestra, scivolai,
mi ritrovai a rotolare sul terreno bagnato e finii in una poz
zanghera. Rimasi fermo per qualche istante. Il bisbiglio era
cessato. E qualcuno si avvicinava alla finestra. Stetti così
immobile che l'ombra tornò verso l'interno della stanza.
lo, intanto, trovai un grosso ciocco salendo sul quale riuscii
a raggiungere la finestra: i bisbiglii risultavano finalmente
comprensibili.
Distinsi tre voci, tra le quali riconobbi Megacle e Ippa
so. Per capire di chi fosse la terza persona dovetti gettare
uno sguardo tra le stecche della finestra. Al tavolo i due
sedevano con Leucippo e con altre due persone di spalle
che non riuscii a riconoscere».
«Che cosa dicevano?>>, continuò a domandare Hera.
«Capii quasi tutto».
<<Riferiscicelo nel modo più fedele possibile», si rivolse
a lui Apollo.
«Ippaso aveva le mani occupate da una tavoletta e da
uno stilo», cominciò Dioniso. «Altre tavolette erano sparse
sul tavolo. A parlare era quasi sempre lui: leggeva e com
mentavà. Di tanto in tanto, i due giovani lo interrompeva
no con qualche domanda».
Ippaso ascoltava senza battere ciglio.
tn
«Cosa era scritto sulle tavolette?>>, tornò a chiedere Hera.
«Erano state stilate da Ippaso e contenevano sia l'infau..,
sta scoperta sia ulteriori studi che egli aveva intrapreso per
trovare risultati simili con altre figure geometriche».
<<Come fai a dirlo?», indagò Apollo.
«Sentii Megacle dire "Tu dici di aver dimostrato che la
lunghezza della diagonale di un quadrato di lato l non è
un numero. E la dimostrazione che ci hai illustrato è con
vincente. Ma un solo caso non può mandare all'aria tutta la
teoria del Numero". E Ippaso gli rispose che non era così.
Che bastava un solo caso per falsificare una teoria. E che
comunque lui di casi ne aveva trovati altri».
«Altri?», tuonò Apollo rivolto a Ippaso, la cui impassibi
lità lasciò spazio a un moto di compiacimento.
«Sì, altri», annuì grave Dioniso. «Ippaso disse a Megacle
di aver trovato una lunghezza non esprimibile come nume
ro persino nel pentagramma».
«Nel pentagramma?», urlò Apollo, per poi accasciarsi e
sussurrare << . . . nel simbolo della scuola».
Nel silenzio generale Ippaso sorrideva.
«Che altro disse Ippaso? Illustrò questa nuova dimostra
zione?», chiese Hera.
«Non posso dirlo», si affrettò a rispondere Dioniso. E,
sotto lo sguardo torvo di Apollo, precisò «Non saprei. . .
non so dirlo, perché proprio in quel momento il ciocco su
cui poggiavo crollò. Appena caduto a terra qualcuno mi si
scagliò addosso. Sollevai un braccio d'istinto e una lama
mi lacerò il braccio. Per mia fortuna riuscii ad afferrare una
pietra e a colpire l'aggressore alla testa. Approfittai del suo
stordimento per fuggire».
Il silenzio avvolse le parole drammatiche di Dioniso, in
terrotto, ancora una volta, da Apollo. «Sapresti riconoscere
chi ti ha aggredito?».
1 14
<<No. I..:oscurità era totale... sarà stato il servitore di Ip
paso . . Ah, c'è anche dell'altro», fece poi con tono quasi
.
distratto.
<<Che cosa?>>, chiese Apollo.
<& un'impressione che ebbi un istante prima di cadere».
<<Quale?», lo incalzò Hera.
<<Una voce femminile», fece una pausa per lasciare tem
po che tutti registrassero la cosa. <<Dalla finestra usciva an
che la voce di una giovane donna».
Un brusio si diffuse tra i presenti.
<<E tu, Ippaso, che hai da dire a tua discolpa?», esplose
Apollo azzittendo l'aula con un colpo sullo scranno.
<<Non ho nulla da dire: non ho colpe! Gli dèi mi sono
testimoni», rispose il giovane senza esitazioni.
<<Chi era la donna?», urlò Apollo.
<<Non c'era nessuna donna!».
<<Bada, Ippaso. Hai prestato giuramento sulla sacra Te
traktys», intervenne Dioniso.
<<Che valore può avere un giuramento su qualcosa in cui
non si crede?», replicò Ippaso con un sorriso sottile e pene
trante come una lama. La sua risposta scatenò un vocife
rare di commenti bisbigliati. "Non crede nella sacralità del
Numero?". " È un miscredente!". "Merita una condanna!".
<<Silenzio!», tuonò Apollo. E, dopo aver incrociato lo
sguardo con H era, riprese. <<Dichiaro terminata l'acqui
sizione dei fatti e apro la discussione del Consiglio degli
Eletti».
«Che i servitori accompagnino Ippaso e Dioniso fuori
dall'aula», ordinò Hera.
Una volta chiuse le porte, Apollo prese di nuovo la pa
rola. «I fatti esposti sono chiari. Chi vuole esprimere un
parere, lo faccia ora».
«lppaso merita una dura condanna!».
1 1s
«Che condanna proponi, Eracle, e con quali motivazio-
fil.� )) .
·
1 16
<<A Dioniso e me è parso che qualche problema ci sia . . . ».
«Di che problema parli?».
«La cosiddetta. . . dimostrazione si basa sul fatto che,
se ammettiamo l'esistenza di due numeri interi il cui rap
porto moltiplicato per se stesso dà come risultato 2, allora
riusciamo a generare una serie illimitata di coppie di nu
meri interi in cui i membri di ogni nuova coppia sono la
metà dei numeri precedenti. Poiché questo è impossibile,
anche l'assunzione di partenza deve esserlo. Ecco, è proprio
quest'ultimo passo che non convince né me né Dioniso».
«Per quale motivo?» chiese Hera.
«Potrei ribaltare la domanda e chiedere per quale mo
tivo dovremmo accettare questo tipo di argomentazione.
Perché se da un'assunzione riesco a dedurre una conclusio
ne falsa allora anche l'assunzione dovrebbe .essere falsa?».
« È logica, Eracle! Qualsiasi mente razionale accettereb
be quel passo».
«Dissento», ribatté Eracle fermamente. «La dimostra
zione divulgata da Ippaso è fallace. E questa fallacia ha
danneggiato tutti noi. È un'aggravante ulteriore che va a
rafforzare la motivazione per la massima condanna».
Laula gli rispose con accresciuto brusio. "È vero, la di
mostrazione non è valida!". "Ha usato una dimostrazione
falsa, quel traditore". "Ma perché Apollo non si pronun-
cta
. �. ,.
«La dimostrazione è corretta», affermò Apollo. «Ma, allo
stesso tempo, riconosco che la discussione sul risultato sia
ancora aperta e che questo fatto renda la posizione di Ippa
so meno difendibile. In ogni caso, la gravità del fatti non
è tale da giustificare una condanna a morte. Propongo di
espellere definitivamente Ippaso dalla scuola e, come detta
la regola, di dichiararlo morto per i pitagorici restituendo
gli il doppio dei suoi beni».
1 17
Tutti tacquero. Nessuno osò infrangere il silenzio che se
guì alle parole di Apollo.
<<Che si votino le due proposte», ordinò Hera.
Nove Eletti scelsero l'espulsione, tre la condanna a morte.
11B
La punizione degli dèi
Dove Muia soffre grandemente e dove Pitagora
cerca risposte nel Tempio di Apollo.
1 1 <)
Esitò nell'entrare nella cella templare. Titubante volse gli
occhi alla statua. Forse a causa dell'insolita luce che filtra
va dalle feritoie, Pitagora ebbe l'impressione che Apollo lo
guardasse con espressione severa. Il maestro si prostrò ai
piedi dell'effige.
((Oh, divino Apollo!», implorò. ((Aiutami in questo mo
mento difficile. Suggeriscimi le parole per consolare mia
figlia».
Il dio rimase impassibile.
((Tutta la città mi ascolta! Le mie parole sono giuste e
sagge per gli altri! Non lo sono più per lei: sono impotente
davanti alle pene del mio stesso sangue>>.
Il volto di Apollo cominciò a oscurarsi.
((Non mi abbandonare in questo momento di estremo
bisogno!».
I..:espressione della statua diventava sempre più severa,
l'odore dell'aria cambiava e l'atmosfera andava facendosi
opprimente. Era come se le tenebre stessero avvolgendo la
cella templare. All'improvviso il volto di Apollo emise un
bagliore seguito da un boato. Le mura vibrarono e con loro
le viscere di Pitagora. Poi da quelle vibrazioni si materializ
zò una voce.
((Sono in collera con te! Nostro padre Zeus è in collera
con te!».
Un nuovo bagliore illuminò il volto spettrale di Pitagora.
E il rombo che ne seguì si attenuò lasciando dietro di se un
fragoroso scroscio di pioggia.
((Perdonami, divino Apollo. Ho sbagliato a non venire
prima. Ero in preda al dubbio. Pensavo che non mi avresti
compreso. Che non avresti approvato».
((Ora è tardi. Anche se convincessi me, con mio padre
Zeus fallirai. Il signore degli dèi ha già formulato la sua
condanna».
1 20
La pioggia cessò di scrosciare d'improvviso.
«Condanna?)), chiese Pitagora, per poi ripetere con voce
più alta. ((Quale condanna?)). Non ebbe risposta. Il silenzio
era totale. A interromperlo fu un cigolio sinistro: il portale
della cella che si apriva. Due sagome scure si stagliarono
contro il vano d'ingresso. La luce esterna contribuiva a ren
dere irriconoscibili i due visitatori: una figura di grandi di
mensioni e una esile. Il maestro taceva atterrito. Mari. mano
che i due si avvicinavano, Pitagora capì che l'una era una
donna. Poi notò il pileo sul capo dell'altro. E li riconobbe.
Prostratasi ai piedi della statua la sacerdotessa parlò con
voce squillante e vigorosa. ((Sono qui come messaggera di
Apollo, latrice delle condanne che il padre Zeus volle inflig
gervi. Il signore dell'Olimpo vi punisce per il vostro ruolo
nelle vicende che portarono alla scomparsa di Ippaso)).
Elettra fece una pausa e passò lo sguardo dall'uomo a Pi
tagora, pietrificato e incapace di proferir parola.
((Tu, Pitagora)), riprese Elettra puntandogli contro il dito,
((sarai punito per aver ceduto a chi cercava di manipolarti.
A chi ha saputo usare i tuoi punti deboli per convincerti
di qualcosa di cui in profondità ancora dubiti. A chi ti ha
indotto a compiere azioni utili alla realizzazione del suo
piano. Un piano elaborato per eliminare l'unico ostacolo
a certi disegni di potere. Avresti potuto evitare l'epilogo
tragico di cui sei stato, allo stesso tempo, artefice incon
sapevole e vittima. Ma nulla hai fatto per far prevalere la
giustizia)).
((Sono pronto)), rispose Pitagora guardando Elettra negli
occhi. ((Pronto ad accettare la giusta condanna)), Poi lanciò
uno sguardo all'uomo, abbassò il capo e continuò ((Sono
stato uno stolto a non accorgermi di quello che stava acca
dendo)),
((A volte sfugge ciò che non si vuoi vedere)).
121
<<Oh Elettra, oh padre Apollo, oh divino Zeus! Eccomi
pronto alla pena. Non opporrò obiezione alcuna)).
«La condanna di Zeus vuole che tu, Pitagora, continui
a reincarnarti senza perdere mai completamente memoria
delle vite precedenti. Terminerai il tuo ciclo di reincarna
zioni solo quando avrai trovato risposta definitiva al pro
blema del suono senza numero. Visto che hai dubitato del
la dimostrazione di Ippaso e che il tuo dubbio ha portato
a tragici esiti, per espiare le tue colpe dovrai trovare quel
numero che moltiplicato per se stesso dia come risultato
2 o, in alternativa, una teoria che ne spieghi l'apparente
paradosso)).
«Che succederà il giorno in cui troverò una risposta defi
nitiva al problema?)).
«Quel giorno la tua anima troverà pace. La clemenza
di Zeus vuole che ella, dopo l'espiazione, abbia accesso ai
Campi Elisi>,.
«Sarò chiamato oggi stesso a cominciare il ciclo?''·
«No. Abiterai questo tuo corpo per altri venti anni du
rante i quali arriverai a governare la città. Ne sarai scac
ciato. Sarai costretto a fuggire e trascorrerai i tuoi ultimi
giorni in esilio''·
«Che Zeus sia lodato e che il suo volere misericordioso si
compia''·
Lo sguardo freddo di Elettra si spostò sul volto cadaveri
co dell'uomo col pileo che fino a quel momento era rima
sto immobile ad ascoltare.
«Tu, invece, per aver fatto nascere il Consiglio degli Elet
ti e per aver tessuto una rete di alleanze al solo scopo di
manipolare il maestro e la scuola; per aver compiuto il tuo
disegno volto a eliminare Ippaso, l'unico che avrebbe po
tuto impedire il tuo progetto di sposare Muia ed ereditare
il ruolo di capo della scuola. Tu, per questi misfatti finirai
1 22
i tuoi giorni sbranato dai lupi e la tua anima rimarrà per
sempre a soffrire le pene dell'Ade».
I.: uomo cercò di articolare qualche suono ma le parole gli
si strozzarono in gola.
<<0 . . ste . . . ».
.
123
Un'anima vagante nel tempo
Dove si continua a cercare la risposta.
1 24
Per molte e. molte reincarnazioni Pitagora non riuscì a
produrre alcun risultato degno di nota. Finché, a più di
un millennio e quaranta reincarnazioni di distanza, la sua
anima non capitò in una regione di lingue diverse: il per
siano e l'arabo. Fu in Persia, nel corpo del matematico Al
Mahani, che Pitagora capì un fatto fondamentale: quegli
strani oggetti, le grandezze incommensurabili, potevano
essere trattati come tutti gli altri numeri. Potevano essere
sommati, sottratti, moltiplicati e divisi senza la necessità di
porsi troppe domande sulla loro natura.
Ma neppure questo bastava. Non poteva bastare. Fun
zionava ma non bastava: Pitagora doveva capirne il perché!
Come si possono definire queste grandezze incommensu
rabili a partire dai numeri?
La risposta venne circa un millennio e altre trentanove
reincarnazioni dopo, quando Pitagora si reincarnò in Ger
mania, e precisamente a Braunschweig, nella Bassa Sasso
nia, nel corpo del matematico Richard Dedekind. Sotto
quelle spoglie, la sua anima trovò la risposta intorno al
1 860, quando Dedekind, professore non ancora trentenne
al Politecnico di Zurigo, definì quello che divenne poi noto
come il taglio di Dedekind. Attraverso quella definizione,
i numeri irrazionali, come la radice quadrata di 2, come
i matematici avevano chiamato nel frattempo il numero
che elevato al quadrato dà come risultato 2, poterono final
mente essere costruiti a partire dagli interi ed entrare così a
pieno titolo nell'insieme dei numeri.
Il 1 2 febbraio 1 9 16, dopo cento reincarnazioni e oltre
duemila quattrocento anni di peregrinazioni, l'anima di
Pitagora trovò finalmente pace nei Campi Elisi.
Di reincarnazione in reincarnazione, Pitagora aveva ap
preso molte nuove conoscenze e aveva visto smentite alcu
ne sue convinzioni di un tempo. Altre furono confermate
12S
e alcune di queste acquisirono primaria importanza nello
sviluppo della matematica e della scienza.
Il seguito degli aspetti mistici sfumò nel tempo: la stessa
Tetraktys fu grandemente ridimensionata. I modelli astro
nomici si rivelarono errati. Così come la convinzione che
la rotazione di ogni corpo celeste generasse un suono: la co
siddetta musica delle sfere. Ma, seppur sbagliata, l'idea dei
suoni celesti partiva dall'intuizione che i moti degli astri
fossero correlati attraverso rapporti numerici così come lo
erano i suoni consonanti. Tale intuizione portò Keplero a
elaborare le leggi astronomiche.
Ma ciò che più fece gioire Pitagora fu vedere alcune sco
perte della scuola di Crotone raggiungere l'Olimpo della
matematica. Il teorema, le terne, il metodo deduttivo, la
tecnica della dimostrazione per assurdo. E tra tutte questa
fu proprio la sua teoria più importante, quella del Numero,
a segnare maggiormente il destino dell'umanità: l'idea che
tutti i fenomeni del mondo fisico potessero essere interpre
tati attraverso i numeri. ridea che aveva prodotto così tanti
problemi e contrasti, così tanti entusiasmi e delusioni, così
tanti complotti e divisioni. Seppur privata degli aspetti mi
stici, fu quella teoria a dare linfa a tutte le scienze naturali
che Pitagora vide nascere durante le sue reincarnazioni e
che ancora oggi osserva dalla quiete dei Campi Elisi.
126
Appendice bibliografica
l l9
Per approfondire la figura storica o pseudo tale di
Pitagora
HO
una citazione di Aristosseno (IV sec. a.C.) che Giamblko
riporta nella sua Summa Pitagorica. I.:appendice del libro
contiene la dimostrazione che Jacob Bronowski pensava
potesse essere stata usata da Pitagora. La si trova in lhe
Ascent ofMan. Nella stesura del capitolo "Le lezioni di Era
tocle" mi sono ispirato a quella dimostrazione.
131
nell'antica Grecia. Particolare attenzione viene rivolta alle
interrelazioni tra forme di pensiero e forme del vivere co
munitario o privato, e tra la sfera del quotidiano e quella
del sacro.
1 32
Per farsi un'idea di com'era Crotone al tempo di Pitagora
t :n
E da dove parte se non da Pitagora?
Il fatto che Ippaso possa avere avuto l'idea di generalizzare
le teme pitagoriche e intuire l'Ultimo Teorema di Fermat
non è riportato da nessuna fonte ed è puro frutto della mia
immaginazione. Lo stesso dicasi per il Consiglio degli Elet
ti la cui esistenza non è storicamente provata ma risponde
solo a esigenze narrative.
1 34
Ringraziamenti
La Panegiri di Hera 11
Dove lppaso, ai margini di una festa cittadina,
si scontra con un mercante e, più tardi, è
protagonista di una violenta lite, alla fine della
quale ricorda la prima volta che ha visto la
festa quattordici anni prima.
Musica e numeri . 55
Dove Pitagora e Teano indagano i rapporti tra
musica e numeri e lppaso, non convinto, sfida
Teano con un 'ipotesi alternativa.
Le lezioni di Eratode 65
Dove Eratocle insegna il teorema di Pitagora
all'allievo Eurito.
Tutto è numero 74
Dove Eratocle riprende la lezione e insegna a
Eu rito la dottrina pitagorica fino a che lppaso
non scompagina la loro conversazione.
L'ammissione di Muia 85
Dove lppaso conferisce il titolo di matematica a
Muia, la figlia di Pitagora, e dove Milone invita
Eratocle a casa sua.
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