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Emmanuel Levinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano 1990 (ed. or.

: La Haye
1961)

Prefazione

28: «La parola di prefazione che cerca di aprire un varco nello schermo teso tra l’autore e il lettore dal libro
stesso, non è data con una parola d’onore. Essa sta soltanto nell’essenza stessa del linguaggio che consiste
nel disfare, ad ogni istante, la sua frase con la prefazione o l’esegesi, nel disdire il detto, nel tentare di ridire
senza complimenti ciò che è già stato mal inteso nell’inevitabile cerimoniale in cui si compiace del detto»

Sezione prima. Il Medesimo e l’Altro

A. Metafisica e trascendenza

2. Rottura della totalità

37: «Altro secondo un’alterità che non limita il Medesimo, perché, limitando il Medesimo, l’Altro non
sarebbe rigorosamente Altro: avendo una frontiera comune, sarebbe, all’interno del sistema, ancora il
Medesimo.[…] Assenza di una patria comune che fa dell’Altro lo Straniero; lo Straniero che viene a turbare
la mia casa. Ma Straniero significa anche libero. Su di lui non posso potere. Sfugge alla mia presa per un
fatto essenziale, anche se dispongo di lui. Non è interamente nel mio luogo. Ma io, che non ho con lo
Straniero un concetto comune, sono, come lui, senza genere. Siamo il Medesimo e l’Altro. La congiunzione
e non indica qui né addizione, né potere di un termine sull’altro. Cercheremo dimostrare che il rapporto del
Medesimo e dell’Altro − al quale sembriamo imporre delle condizioni così straordinarie − è il linguaggio. Il
linguaggio attua infatti un rapporto tale che i termini non sono limitrofi in questo rapporto, tale che l’Altro,
malgrado il rapporto con il Medesimo, resta trascendente al Medesimo. La relazione del Medesimo e
dell’Altro − o metafisica − si dispiega originariamente come discorso nel quale il Medesimo, raccolto nella
sua ipseità di “io” − di ente particolare unico ed autoctono − esce da sé»

38: «noi conosciamo questa relazione − notevole già per questo motivo − solo nella misura in cui la
realizziamo. L’alterità è possibile solo a partire da me. Il discorso, proprio per il fatto che mantiene la
distanza tra me ed Altri, la separazione radicale che impedisce la ricostituzione della totalità, e che è
pretesa nella trascendenza, non può rinunciare all’egoismo della sua esistenza; ma appunto il fatto di
trovarsi in un discorso consiste nel riconoscere ad altri un diritto su questo egoismo e così a giustificarsi. […]
Invece di costituire con esso, come con un oggetto, un totale, il pensiero consiste nel parlare. Noi
proponiamo di chiamare religione il legame che si stabilisce tra il Medesimo e l’Altro, senza costituire una
totalità»

B. Separazione e discorso

3. Il discorso

65: «ciò che è essenziale nel linguaggio: la coincidenza del rivelatore e del rivelato nel volto, che si attua
situandosi al di sopra di noi − insegnando. […] L’esperienza assoluta non è svelamento. Svelare, partire da

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un orizzonte soggettivo significa già perdere il noumeno. Solo l’interlocutore è il termine di un’esperienza
pura in cui altri entra in relazione, pur rimanendo kath’auto; in cui si esprime senza che lo si debba svelare
a partire da un “punto di vista”, in una luce fittizia. L’ “oggettività” cercata dalla conoscenza pienamente
conoscenza si attua al di là dell’oggettività dell’oggetto. L’interlocutore il cui modo consiste nel partire da
sé, nell’essere straniero e, tuttavia, nel presentarsi a me, è ciò che si presenta come indipendente da ogni
movimento soggettivo»

67: «ci si può però domandare se il dare del tu non situi l’Altro in una relazione reciproca e se questa
reciprocità è originaria. […] [L’essenza del linguaggio] sta nell’interpellanza, nel vocativo. […] L’invocato non
è quello che io comprendo: non è soggetto a categorie. È quello al quale io parlo − ha riferimento soltanto a
sé, non ha quiddità»

67-68: l’oralità «porta ciò di cui la parola scritta è già priva: la maestria. La parola, molto di più che un mero
segno, è essenzialmente magistrale. Essa insegna innanzitutto proprio questo insegnamento, grazie al quale
essa può soltanto insegnare (e non, come la maieutica, risvegliare in me) cose ed idee. Le idee istruiscono a
partire dal maestro che me le presenta: che le mette in causa; l’oggettivazione e il tema cui accede la
conoscenza oggettiva si fondano già sull’insegnamento. […] L’oggetto si offre quando abbiamo dato
accoglienza ad un interlocutore. Il maestro − coincidenza dell’insegnamento e dell’insegnante − a sua volta,
non è un fatto qualunque. Il presente della manifestazione del maestro che insegna, supera l’anarchia del
fatto»

5. Discorso ed Etica

71: «lungi dal presupporre universalità e generalità, soltanto il linguaggio li rende possibili. […] Discorso che
non è dunque lo svolgimento di una logica interna prefabbricata, ma costituzione di verità in una lotta fra
pensatori, con tutti i rischi della libertà. Il rapporto del linguaggio presuppone la trascendenza, la
separazione radicale, l’estraneità degli interlocutori, la rivelazione dell’Altro a me. In altri termini, il
linguaggio si parla là dove manca la comunità tra i termini della relazione»

72: «per una cosa la nudità è la sporgenza del suo essere sulla sua finalità. […] La cosa è sempre un’opacità,
una resistenza, una bruttura. […] Gli oggetti non hanno luce propria, brillano di luce riflessa. […] Svelare una
cosa significa illuminarla con la forma: trovarle un posto nel tutto scoprendo la sua funzione o la sua
bellezza»

72-73: «l’opera del linguaggio è completamente diversa: consiste nell’entrare in rapporto con una nudità
libera da qualsiasi forma, ma che ha un senso per se stessa, kath’auto, che è significante prima che noi si
proietti la luce su di essa […] Questa nudità è volto. La nudità del volto non è ciò che si offre a me perché lo
sveli […] È per se stesso e non in riferimento ad un sistema. […] Ma la differenza tra la nudità del volto che
si volta verso di me e lo svelamento della cosa illuminata dalla sua forma non separa semplicemente due
modi di “conoscenza”. La relazione con il volto non è conoscenza di un oggetto. La trascendenza del volto è,
ad un tempo, la sua assenza dal mondo in cui entra, lo sradicamento da un essere, la sua condizione di
straniero, privo di tutto, di proletario.[…] L’altro, il libero è anche lo straniero. La nudità del suo volto si
prolunga nella nudità del corpo che ha freddo e che si vergogna della sua nudità. L’esistenza kath’auto è,
nel mondo, una miseria»

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74: «La presenza d’Altri equivale a questa messa in questione del mio indisturbato possesso del mondo. […]
Oggettività coincide con l’abolizione della proprietà inalienabile − ciò che presuppone l’epifania dell’Altro.
[…] La generalità dell’Oggetto è correlativa alla generosità del soggetto che va verso Altri, al di là del
godimento egoistico e solitario, e che fa, quindi, brillare nella proprietà esclusiva del godimento la
comunità dei beni di questo mondo. Riconoscere altri significa dunque raggiungerlo attraverso il mondo
delle cose possedute, ma, simultaneamente, instaurare, con il dono, la comunità e il universalità. Il
linguaggio è universale appunto perché è il passaggio dall’individuale al generale, perché offre cose mie ad
altri. Parlare significa rendere il mondo comune, creare dei luoghi comuni. Il linguaggio non si riferisce alla
generalità dei concetti ma getta le basi di un possesso comune. Abolisce la proprietà inalienabile del
godimento. Il mondo nel discorso non è più quello che è nella separazione − la casa mia nella quale tutto mi
è dato − è quello che io do − il comunicabile, il pensato, l’universale»

C. Verità e giustizia

2. L’investitura della libertà o la critica

87: «per la tradizione filosofica dell’Occidente, ogni relazione tra il Medesimo e l’Altro, quando non è più
l’affermazione della supremazia del Medesimo, si riconduce ad una relazione impersonale in un ordine
universale. La filosofia stessa si identifica con la sostituzione di idee alle persone, del tema all’interlocutore,
dell’interiorità del rapporto logico all’esteriorità dell’interpellazione. Gli enti si riconducono al Neutro
dell’idea, dell’essere, del concetto. […] Parlare presuppone una possibilità di rompere e di cominciare. […]
separarsi da tutta una tradizione filosofica che cercava in sé il fondamento di sé, al di fuori delle opinioni
eteronome. […] La metafisica non consiste quindi nel rivolgere la propria attenzione al “per sé” dell’io, per
cercarvi il terreno solido di un accesso assoluto all’essere. Il suo ultimo passo non continua nel “conosci te
stesso”»

3. La verità presuppone la giustizia

a. L’anarchia dello spettacolo: lo spirito maligno

89: «ma un mondo assolutamente silenzioso che non arrivasse a noi tramite la parola, foss’anche
menzognera, sarebbe an-archico, senza principio, senza inizio. Il pensiero non si scontrerebbe con nulla di
sostanziale»

b. L’espressione è il principio

91: «il mondo è offerto nel linguaggio d’Altri, delle proposizioni lo portano. Altri è principio del fenomeno»

d. Oggettività e linguaggio

95: «l’oggettività dell’oggetto e il suo significato provengono dal linguaggio»

95-96: «la proposizione si situa nel campo teso delle domande e delle risposte. La proposizione è già un
segno che si interpreta, che porta con sé la propria chiave. Questa presenza della chiave che interpreta nel
segno che deve essere interpretato è appunto la presenza dell’Altro nella proposizione, la presenza di

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quello che può portare aiuto al proprio discorso, il carattere di insegnamento insito in ogni parola. Il
discorso orale è la pienezza del discorso»

97: «un mondo nel quale ogni apparizione è possibile dissimulazione, nel quale non c’è inizio. La parola
introduce un principio in quest’anarchia. La parola scioglie dall’incantesimo»

e. Linguaggio e attenzione

98: «l’insegnamento non trasmette semplicemente un contenuto astratto e generale, già comune a me e
ad Altri. […] Situare la parola all’origine della verità significa abbandonare la rivelazione che presuppone la
solitudine della visione − come opera primaria della verità»

99: «la scuola, senza la quale nessun pensiero può essere esplicito, condiziona la scienza. Proprio qui si
afferma l’esteriorità che attua la libertà invece di lederla: l’esteriorità del Maestro. L’esplicitazione di un
pensiero è possibile solo se si è in due; e non si limita a trovare quello che era già posseduto. Ma il primo
insegnamento dell’insegnante è costituito appunto dalla sua presenza di insegnante a partire dalla quale
nasce la rappresentazione»

f. Linguaggio e giustizia

99: «La presenza del Maestro che con la sua parola dà un senso ai fenomeni e consente di tematizzarli, non
si offre ad un sapere oggettivo; essa è, in forza della sua stessa presenza, in società con me»

100: «La transitività dell’insegnamento, e non l’interiorità della reminiscenza, manifesta l’essere. La società
è il luogo della verità. […] Il linguaggio, infatti, può essere parlato solo se l’interlocutore è il principio del suo
discorso, se resta, quindi, al di là del sistema, se non è sul mio stesso piano. L’interlocutore non è un Tu, è
un Lei. Si rivela nella sua signoria»

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Sezione seconda. Interiorità ed economia

D. La dimora

2. L’abitazione e il femminile

158: «l’intimità che è già presupposta dalla familiarità e un’intimità con qualcuno. L’interiorità del
raccoglimento è una solitudine in un mondo che è già umano. Il raccoglimento si riferisce ad
un’accoglienza. […] E l’Altro la cui presenza è discretamente un’assenza a partire dal quale si attua
l’accoglienza ospitale per eccellenza che descrive il campo dell’intimità, è la Donna. La donna è la
condizione del raccoglimento, dell’interiorità della Casa e dell’abitazione. […] Altri che accoglie nell’intimità
non è il voi del volto che si rivela in una dimensione di maestà – ma appunto il tu della familiarità:
linguaggio senza insegnamento, linguaggio silenzioso, intesa senza parole, espressione nel silenzio. L’io-tu
nel quale Buber scorge la categoria della relazione interumana non è la relazione con l’interlocutore, ma
con l’alterità femminile. Questa alterità si situa su un piano diverso da quello del linguaggio e non
rappresenta affatto un linguaggio monco, balbettante, ancora elementare»

6. La libertà della rappresentazione e la donazione

176-177: «La relazione con altri non si produce al di fuori del mondo, ma mette in questione il mondo
posseduto. La relazione con altri, la trascendenza, consiste nel dire il mondo ad Altri. Ma il linguaggio attua
la messa in comune originaria − che si riferisce al possesso e presuppone l’economia. L’universalità che una
cosa riceve dalla parola che la strappa all’hic et nunc, perde il suo mistero nella prospettiva etica in cui si
situa al linguaggio. L’hic et nunc risale a sua volta al possesso in cui la cosa è posseduta e il linguaggio che la
designa all’altro è uno spossessamento originario, una prima donazione. […] Il linguaggio non esteriorizza
una visione preesistente in me − esso mette in comune un mondo fino ad allora mio. […] Vedere il volto
significa parlare del mondo»

E. Il mondo dei fenomeni e l’espressione

3. Fenomeno ed essere

186: «l’essere è un mondo in cui si parla e di cui si parla. La società è la presenza dell’essere. L’essere, la
cosa in sé, non è, rispetto al fenomeno, il nascosto. La sua presenza si presenta nella parola. […] linguaggio
scritto che è ridiventato segno. Il segno è un linguaggio muto, un linguaggio impacciato. […] Non ha la
trasparenza totale dello sguardo che fissa un altro sguardo, la sincerità assoluta del faccia a faccia che
sottende ogni parola. Io mi assento dalla mia parola-attività, come vengo meno ad ogni mio prodotto»

187: «l’esistenza dell’uomo resta fenomenica finché resta interiorità. Il linguaggio con il quale un essere
esiste per un altro è la sua unica possibilità di esistere secondo un’esistenza che è più della sua esistenza
interiore. Il sovrappiù del linguaggio rispetto a tutti i lavori e le opere che manifestano un uomo misura lo
scarto tra l’uomo vivo e l’uomo morto, il solo peraltro che la storia − che lo incontra oggettivamente nella
sua opera o nella sua eredità − riconosca. Tra la soggettività rinchiusa nella propria interiorità e la
soggettività mal compresa nella storia, c’è l’assistenza della soggettività che parla. […] Il ritorno all’essere
esterno, all’essere in senso univoco − nel senso che non nasconde nessun altro senso − significa entrare

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nella rettitudine del faccia a faccia. Non è un gioco di specchi, ma la mia responsabilità, cioè un’esistenza
già obbligata. Essa situa il centro di gravitazione di un essere al di fuori di questo essere. Il superamento
dell’esistenza fenomenica o interiore non consiste nel ricevere il riconoscimento da altri, ma nell’offrirgli il
proprio essere. Essere in sé significa esprimersi, cioè, già servire altri. L’espressione in fondo è bontà. Essere
kath’auto significa essere buoni»

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Sezione terza. Il volto e l’esteriorità

B. Volto ed etica

3. Volto e ragione

208: «la relazione etica, il faccia a faccia sporge anche su ogni relazione che si potrebbe definire mistica e
nella quale […] il discorso diventa incantesimo come la preghiera che diventa rito e liturgia, nella quale gli
interlocutori si trovano a recitare una parte in un dramma che ha avuto inizio senza di loro. […] relazione
che conserva la discontinuità del rapporto, che si sottrae alla fusione […] Il discorso è rottura ed inizio,
rottura del ritmo che avvince e rapisce gli interlocutori − prosa»

4. Il discorso instaura il significato

213: «se il faccia a faccia fonda il linguaggio, se il volto dà il significato e addirittura instaura la significazione
nell’essere, allora il linguaggio non solo serve la ragione ma è la ragione. La ragione nel senso di una legalità
impersonale, non permette di rendere conto del discorso poiché assorbe la pluralità degli interlocutori. La
ragione, unica, non può parlare ad un’altra ragione»

5. Linguaggio e oggettività

214: «L’oggettività dipende dal linguaggio che permette di mettere in causa il possesso. […] Tematizzare
significa offrire il mondo ad Altri con la parola»

Sezione Quarta. Al di là del volto

B. Fenomenologia dell’eros

272: «il rapporto che, nella voluttà, si stabilisce fra gli amanti, fondamentalmente refrattario
all’universalizzazione, è completamente all’opposto del rapporto sociale. Esso esclude il terzo, resta
intimità, solitudine a due, società chiusa, il non-pubblico per eccellenza. Il femminile è l’Altro, refrattario
alla società, membro di una società a due, di una società intima, di una società senza linguaggio»

Conclusioni

303: «l’esteriorità del discorso non si muta in interiorità. L’interlocutore non può − ed in nessun modo −
trovare posto in un’intimità. È, per sempre, all’esterno. Il rapporto tra gli esseri separati non li totalizza,
“Rapporto senza rapporto” che nessuno può inglobare o tematizzare»

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Emmanuel Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, Jaca Book, Milano 1983 (ed. or.: Martinus
Niyhoff Publishers BV, La Haye 1974)

L’argomento

Capitolo primo. Essenza e disinteressamento

3. Il Dire e il Detto

10: «L’altrimenti che essere si enuncia in un dire che deve anche disdirsi per strappare così l’altrimenti che
essere al detto in cui l’altrimenti che essere si mette già a significare un essere altrimenti»

4. La soggettività

12: «La storia della filosofia in alcuni suoi momenti luminosi ha conosciuto questa soggettività che rompe,
come in una giovinezza estrema, con l’essenza. Dopo l’Uno senza l’essere di Platone e fino all’Io puro di
Husserl, trascendente nell’immanenza, essa ha conosciuto il metafisico sradicamento dall’essere; anche se
poi, immediatamente, nel tradimento del Detto, come sotto l’effetto di un oracolo, l’eccezione, restituita
all’essenza e al destino, rientrava nella regola e conduceva solo “dietro il mondo”»

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L’esposizione

Capitolo secondo. Dall’intenzionalità al sentire

1. L’interrogazione e l’obbedienza ad Altri

33: «Si tenterà di esporre, nella nozione del Dire senza Detto, una tale modalità del soggettivo, un
altrimenti che essere»

2. L’interrogazione e l’essere; tempo e reminescenza

33: «Il linguaggio, raccogliendo in nomi e in proposizioni la dispersione della durata, lascia intendere essere
e ente. Tuttavia in questo Detto sorprenderemo l’eco del Dire la cui significazione non è radunabile»

3. Tempo e discorso

d. L’anfibologia dell’essere e dell’ente

54: «il logos è l’equivoco dell’essere e dell’ente – anfibologia primordiale. […] Da quel momento essere
designa invece di risuonare. […] E la mutazione è ambivalente. Ogni identità nominabile può mutarsi in
verbo. […] Dire è solo la forma attiva del Detto? “Dirsi” equivale ad “esser detto”?»

55: «mostrare la significazione propria del Dire al di qua della tematizzazione del Detto. […] La
responsabilità per altri è precisamente un Dire prima di ogni Detto»

e. La Riduzione

55: «un’interruzione dell’essenza, un disinteressamento»

4. Il Dire e la soggettività

a. Il Dire senza Detto

58: «l’essere e l’ente hanno un peso grazie al Dire che li mette al mondo. […] Si tratta precisamente di
raggiungere questo Dire prima del Detto o di ridurre il Detto»

b. Il Dire come esposizione all’Altro

62: «l’intenzionalità rimane aspirazione a colmare e riempimento, movimento centripeto di una coscienza
che coincide con sé e si copre e si ritrova senza invecchiare e riposa nella certezza di sé, che si conferma, si
raddoppia, si consolida, si inspessisce in sostanza. Il soggetto nel Dire si approssima al prossimo
esprimendosi, espellendosi (nel senso letterale del termine) fuori da ogni luogo, non abitando più, non
calpestando più nessun suolo»

63: «è necessario che la spoliazione continui, nella sua puntualità, fino a strapparsi da sé, che l’uno
assegnato si apre fino a separarsi dalla propria interiorità legata all’esse – è necessario che si dis-interessi»

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63-64: «la soggettività del soggetto è la vulnerabilità, esposizione dell’affezione, sensibilità, passività più
passiva di ogni passività, tempo irrecuperabile, dia-cronia non sincronizzabile della pazienza, esposizione
sempre da esporre, esposizione da esprimere, e così, da Dire e, così, da Dare»

c. Malgrado sé

67: «questa forma nominale viene d’altrove che dalla verbalità dell’essenza. Essa è inseparabile dalla
chiamata senza possibilità di fuga o dalla convocazione»

e. L’uno

73: «La diacronia del soggetto non è una metafora. Il soggetto detto, per quanto è possibile (poiché il fondo
del Dire non è mai propriamente detto), non è nel tempo, ma è la diacronia stessa»

Capitolo terzo. Sensibilità e prossimità

5. Vulnerabilità e contatto

97: «limitarsi alla significazione del Detto − e del Dire che se ne va in apophansis, dimentichi della
proposizione e dell’esposizione all’altro in cui essi significano − significa limitarsi al soggetto-coscienza, cioè,
in fin dei conti, al soggetto coscienza di sé e origine − arché − a cui conduce la filosofia occidentale.
Qualunque sia l’abisso che separa la psyché degli antichi dalla coscienza dei moderni, entrambe emergono
da una tradizione dell’intelligibilità che risale alla raccolta dei termini riuniti in sistema, cioè per un locutore
che enuncia un’apophansis, che è la situazione concreta della raccolta in sistema. Qui, il soggetto, è origine,
iniziativa, libertà, presente. Muoversi da sé o avere coscienza di sé significa infatti riferirsi a sé, essere
origine. [… Da qui la necessità di risalire all’inizio − o alla coscienza − che appare come il compito proprio
della filosofia: ritorno alla sua isola per rinchiudersi nella simultaneità dell’istante eterno, per riavvicinarsi
alla mens istantanea di Dio»

Capitolo quarto. La sostituzione

2. La ricorrenza

136: «non-luogo, frat-tempo o contrat-tempo (o disgrazia) al di qua dell’essere e al di qua del nulla
tematizzabile come l’essere»

3. Il Sé

138-139: «ricorrenza in cui l’espulsione di sé fuori di sé è la sua sostituzione all’altro – il che significherebbe
esattamente il Sé che si vuota di se stesso? Ricorrenza che sarebbe l’ultimo segreto dell’incarnazione del
soggetto – anteriore ad ogni riflessione, ad ogni “appercezione”, al di qua di ogni posizione, un
“indebitamento” prima di ogni prestito, non assunto, anarchico, soggettività di una passività senza fondo,
tessuta di convocazione, come l’eco di un suono che precederebbe la risonanza di questo suono stesso»

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140: «Nella responsabilità verso Altri, la soggettività non è che questa passività illimitata di un accusativo
che non è il seguito di una declinazione che essa avrebbe subito a partire dal nominativo»

5. La Comunicazione

150: «L’idea che la verità possa significare testimonianza resa all’Infinito, non è neanche sospettata»

Capitolo quinto. Soggettività e infinito

2. La gloria dell’Infinito

a. L’ispirazione

178: «A questo comando, teso senza pausa, non si può che rispondere “eccomi” in cui il pronome “io” è
all’accusativo, declinato prima di ogni declinazione, posseduto dall’altro, malato [nota 5: « “io sono malato
d’amore”: Cantico dei Cantici 5,8»], identico. […] Per nulla l’anodino di una relazione formale, ma tutta la
gravità del corpo estirpato dal suo conatus essendi nella possibilità del dare»

e. Testimonianza e profetismo

187: «il profetismo sarebbe lo psichismo stesso dell’anima: l’altro nel medesimo […] l’ “eccomi” mi significa
in nome di Dio al servizio degli uomini che mi riguardano, senza avere niente con cui identificarmi, se non
con il suono della mia voce o con la figura del mio gesto − con il dire stesso»

3. Dal Dire al Detto o la Saggezza del Desiderio

193: «il volto non è una presenza che annuncia un “non detto” che, dietro ad esso, si dirà»

194: «quale senso può avere la comunità nella Differenza senza ridurre la Differenza? […] Il discorso stesso
che teniamo in questo momento sulla significazione, sulla dia-cronia e sulla trascendenza dell’approssimarsi
all’al di là dell’essere − discorso che vuole essere filosofico − è tematizzazione, sincronizzazione dei termini,
ricorso al linguaggio sistematico, uso costante del verbo essere che riconduce nel girone dell’essere ogni
significazione che si è preteso pensare al di la dell’essere»

195-196: «Inversione dell’ordine: la rivelazione diviene attraverso colui che la riceve, attraverso il soggetto
ispirato la cui ispirazione − alterità nel medesimo − è la soggettività o lo psichismo del soggetto»

198: «il prossimo che mi ossessiona è già volto, al tempo stesso comparabile ed incomparabile, volto unico
e in rapporto con dei volti, precisamente visibile nella preoccupazione di giustizia. […] La relazione con il
terzo è una incessante correzione dell’asimmetria della prossimità in cui il volto si s-figura (dé-visage). C’è
valutazione, pensiero, oggettivazione e, attraverso ciò, un arresto in cui si tradisce la mia relazione an-
archica all’illeità, ma anche relazione nuova con essa […] Il “passaggio” di Dio […] è precisamente il
capovolgimento del soggetto incomparabile in membro della società. Nella comparazione
dell’incomparabile sarebbe la nascita latente della rappresentazione, del logos, della coscienza, del lavoro,
della nozione neutra: essere. […] La giustizia esige la contemporaneità della rappresentazione. È così che il

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prossimo diviene visibile e, squadrato, si presenta, e che c’è anche giustizia per me. Il Dire si fissa in Detto −
precisamente si scrive, diviene libro, diritto e scienza»

199: «tutte le relazioni umane in quanto umane procedono dal disinteressamento. […] Ma la
contemporaneità del multiplo si annoda intorno alla dia-cronia di due […] l’uguaglianza di tutti è portata
dalla mia disuguaglianza, dal surplus dei miei doveri sui miei diritti. L’oblio di sé muove la giustizia. Non è
perciò senza importanza sapere se lo Stato ugualitario e giusto in cui si compie l’uomo (e che si tratta di
istituire, e, soprattutto, di mantenere) proceda dalla guerra di tutti contro tutti o dalla responsabilità
irriducibile dell’uno per tutti, e se possa fare a meno di amicizie e di volti. Non è senza importanza saperlo
affinché la guerra non divenga instaurazione di una guerra con buona coscienza»

203: «in un Detto, tutto si traduce davanti a noi, anche l’ineffabile, al prezzo di un tradimento che la
filosofia è chiamata a ridurre: filosofia chiamata a pensare l’ambivalenza […] la filosofia: saggezza
dell’amore al servizio dell’amore»

5. Scetticismo e ragione

207: «tra l’uno che io sono e l’altro per cui sono responsabile, si spalanca una differenza senza fondamento
comune. […] L’inenarrabile! − altri che perde nella narrazione il proprio volto di prossimo. Relazione
indescrivibile, nel senso letterale del termine; inconvertibile in storia, irriducibile alla simultaneità dello
scritto, all’eterno presente dello scritto che registra o presenta dei risultati. Questa differenza nella
prossimità tra l’uno nell’altro − tra me e il prossimo − si trasforma in non-indifferenza precisamente nella
mia responsabilità»

210: «Nel logos detto − scritto − il logos sopravvive alla morte degli interlocutori che l’enunciano,
garantendo la continuità della cultura»

212: «questo riferimento all’interlocutore trafigge in modo permanente il testo che il discorso pretende
organizzare tematizzando e avviluppando ogni cosa. […] Nello scritto certamente il dire diviene puro detto,
simultaneità del dire e delle sue condizioni. Il discorso interrotto che recupera le sue proprie rotture è il
libro. Ma i libri hanno il loro destino, appartengono a un mondo che non racchiudono, ma che riconoscono
scrivendosi e stampandosi e facendosi scrivere una pre-fazione e facendosi precedere da un’introduzione.
Si interrompono e si richiamano ad altri libri e si interpretano in fin dei conti in un dire distinto dal detto.
[…] La totalità, che ingloba ogni escatologia ed ogni interruzione, avrebbe potuto fermarsi se fosse silenzio,
se il discorso silenzioso fosse possibile, se lo scritto potesse restare scritto per sempre − rinunciare, senza
perdere il suo senso, alla tradizione che lo sostiene e lo interpreta. […] Ogni discorso, anche detto
interiormente, è nella prossimità e non abbraccia la totalità»

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Altrimenti detto

Capitolo sesto. Al di fuori

224: «che la respirazione attraverso cui gli enti sembrano affermarsi trionfalmente nel loro spazio vitale, sia
una consumazione, una denucleazione della mia sostanzialità; che nella respirazione io mi apra già alla mia
soggezione all’altro invisibile […] Il linguaggio filosofico che riduce il Detto al Dire, riduce il Detto alla
respirazione che si apre all’altro e significa da altri la sua significanza stessa. Riduzione che è dunque un
incessante disdetto del Detto, al Dire sempre tradito dal Detto»

226: «l’essenza non è forse l’impossibilità stessa di nient’altro, di nessuna rivoluzione che non sia una
rivoluzione su di sé? […] Solo il senso d’altri è irrecusabile e interdice la reclusione e il rientro nel guscio del
sé. Una voce viene dall’altra riva. Una voce interrompe il dire del già detto»

229: «dopo la morte di un certo dio abitante dietro ai mondi, la sostituzione dell’ostaggio scopre la traccia −
scrittura impronunciabile − di ciò, che, sempre già passato − sempre “esso” (il) − non entra in nessun
presente e a cui non convengono più i nomi designanti gli esseri, né i verbi in cui risuona la loro essenza −
ma che, Pro-nome, segna col suo sigillo tutto ciò che può portare un nome»

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