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PSICOLOGIA DELLA COMUNICAZIONE


La comunicazione è un concetto – e un termine – molto utilizzato, in diversi ambiti e sotto diversi aspetti. Essa
denota un’area importante della vita quotidiana dell’essere umano che trova nella dimensione comunicativa –
relazionale gran parte del suo significato di esistenza.
Per questo motivo, la comunicazione, essendo il veicolo che rende possibile la relazione e l’interazione è al
centro di un continuo dibattito e di ripetuti cambiamenti e aggiornamenti di prospettiva.
Non è dunque facile dare una definizione completa del concetto di comunicazione.
Va infatti precisato che la comunicazione è una definizione generale che raggruppa molti fenomeni
appartenenti a categorie anche molto differenti tra loro: la pubblicazione di una legge o l’espressione di rabbia,
un normale dialogo o una cerimonia particolare sono solo alcuni esempi di eventi che rientrano nel concetto
superiore di comunicazione.
Risulta evidente come i confini della comunicazione siano sfuocati e allargati: essa non è, infatti, una categoria
chiusa, ma un vero e proprio insieme di processi, di cui sono elementi distintivi:
- La complessità
- L’intensità
- La precisione
- Il livello di coscienza (consapevolezza)
- La simbolicità

Perché sia possibile comunicare è necessario:


- Aver acquisito una competenza linguistica (precondizione)
- Padroneggiare la lingua in cui avviene una conversazione
- Conoscere e gestire la comunicazione non verbale (gesti, mimica, prossemica o gestione dello
spazio) e paralinguistica (modulazione della voce, velocità di eloquio, esclamazioni, intercalari, …)
- Rispettare i turni di parola, le conversazioni sociali che rendono possibile e attuabile comunicare
- Conoscere l’argomento oggetto della conversazione, l’interlocutore, la situazione

Secondo il senso comune comunicare è la capacità di esprimersi verbalmente per chiedere qualcosa,
esprimere un bisogno, un’opinione, condividere ricordi ed aspettative.
Quando l’uomo acquisisce un determinato codice comunicativo in relazione ad una specifica comunità umana
nascono le singole lingue naturali.
A partire dagli elementi introduttivi possiamo giungere alla definizione generale del concetto di comunicazione,
che può essere intesa come: uno scambio interattivo osservabile tra due o più partecipanti, dotato di
intenzionalità reciproca e di un certo livello di consapevolezza, in grado di far condividere un determinato
significato sulla base di sistemi simboli e convenzionali di significazione e di segnalazione secondo la cultura
di riferimento.
Proprio in virtù della sua complessità e ampiezza, la comunicazione viene spesso sovrapposta per ruolo o
significato ad altri concetti che, non sostituendola, ne sono però frequentemente parte costitutiva.
Un esempio è il comportamento.
Esso è riscontrabile in un’azione di qualsiasi genere ed entità che, compiuta da un individuo, viene percepita
ed identificata come tale da altri.
Il comportamento può essere cosciente o meno, automatico o volontario.

Comunicazione e comportamento
Il rapporto tra comunicazione e comportamento è di tipo inclusivo: ogni comunicazione è un comportamento,
ma non è vero il contrario. Esistono dei comportamenti che non sono comunicativi, mancando di intenzionalità,
e risultano per questo soltanto informativi.
Lo studio relativo al comportamento in psicologia ha inizialmente trattato i due concetti come equivalenti
(Watzlawick). Questo approccio tipico del behaviorismo è stato poi rivisto in virtù delle altrimenti non valutate
specificità della comunicazione (singificazione, intenzione, condivisione, …).
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Comunicazione ed informazione
È necessario esplicitare la differenza tra comunicazione ed informazione  definibile come un insieme di
conoscenze derivate autonomamente e inconsapevolmente da comportamenti e azioni di un soggetto.

Comunicazione ed interazione
L’aspetto che differenzia questi due concetti è la consapevolezza di base dello scambio che avviene. Nella
comunicazione essa infatti è massima, mentre nell’interazione può essere nulla.
Per interazione, comunque, si intende qualsiasi contatto che avviene tra individui e che modifica in quale
aspetto la situazione di partenza.

Origini della comunicazione


Lo studio sistematico della comunicazione è relativamente recente: è, infatti, a partire dagli anni Quaranta del
XX secolo che le ricerche in materia hanno presentato aspetti di scientificità.
In campo psicologico il concetto di informazione ha contribuito alla nascita di nuovi modelli teorici quali:
cognitivismo, connessionismo, intelligenza artificiale e comunicazione virtuale.
L’evoluzione della specie umana ha visto lo sviluppo contemporaneo della comunicazione nelle sue diverse
forme.
Il linguaggio verbale, rispetto ad altri sistemi, è comparso relativamente tardi, coincidendo con la comparsa
della stazione eretta con l’aumento delle possibilità gestuali, nonché con il cambiamento della conformazione
del cranio e della mandibola che rendeva più semplice la fonazione.
Non va dimenticata l’importanza della creazione di un sistema condiviso di simboli, facilitato anche
dall’incremento della produzione di artefatti che hanno consentito alla specie umana un rapido progresso dal
punto di vista evolutivo.
Dal punto di vista dell’ontogenesi individuale sono i processi comunicativi preverbali a rendere dotati di senso
gli eventi: fin dai primi istanti di vita al bambino viene presentato il mondo attraverso descrizioni e sequenze
logico-temporali che gli consentono l’apprendimento della consequenzialità, della regolazione dei turni,
nonché dei significati condivisi.
E’ proprio per questo che nel parlare di comunicazione non si può non tenere presente la forte connessione
che essa ha con il pensiero: esiste infatti una vera e propria interdipendenza intrinseca tra i due cardini della
cognizione umana.

Iniziamo con il definire la comunicazione in quanto attività:


- Sociale  la comunicazione è alla base dell’interazione sociale e il contesto sociale garantisce e
condiziona la comunicazione stessa.
Il gruppo rappresenta una condizione ed un veicolo perché possa generarsi, elaborarsi e conservarsi
un sistema comunicativo. Socialità e comunicazione sono due dimensioni distinte ma interdipendenti,
che evolvono congiuntamente.
La comunicazione è alla base di interazioni sociali e delle relazioni interpersonali.
- Partecipativa  ha una matrice culturale e natura convenzionale, perché si basa sulla condivisione e
la trasfrormazione di significati e sistemi simbolici.
La comunicazione sottende: la condivisione di significati e segni di una cultura specifica (a seguito di
processi di negoziazione), accordo tra i partecipanti di regole sottese ad ogni scambio e ina matrice
culturale importante che definisce le modalità di espressione generale dei rapporti tra partecipanti e le
manifestazioni emotive.
- Cognitiva  per comunicare occorre esplicitare o propri pensieri ed interazioni e pianificare l’azione
comunicativa.
Comunicare significare rendere esplicito il proprio pensiero e le proprie intenzioni. Comunicare
significa pianificare l’azione comunicativa, la frase e il comportamento non verbale.
Pensiero e comunicazione si influenzano, arricchiscono e modificano reciprocamente.
- Connessa con l’azione  ogni atto ha effetto sul successivo e sull’intero processo comunicativo.
Comunicare è sempre fare qualcosa, ogni atto comunicativo da forma all’interazione e definisce la
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relazione tra i partecipanti.


Una comunicazione può assumere forme particolari come quelle ironiche, menzognere, seduttive e
patologiche.

La comunicazione è quindi un’attività umana complessa, sofisticata, articolata che contribuisce a definire
l’identità dei partecipanti e la cultura di appartenenza.
La comunicazione è quindi diventata oggetto di interesse e di studio da parte di discipline diverse: filosofia,
semiotica, etologia, antropologia, linguistica, matematica e psicologia.

Funzioni della comunicazione


La comunicazione, che sia orientata ad ottenere uno scopo preciso o che sia utilizzata in maniera fine a sé
stessa, è un’attività gratificante per l’essere umano. Essa, infatti, è il mezzo principale tramite il quale gli
individui perseguono determinati scopi, e questo avviene grazie alle funzioni che la comunicazione in quanto
tale svolge.
Essenzialmente le funzioni di base sono:
1. Funzione proposizionale  riguarda il pensiero, l’intenzionalità e l’azione pianificata
2. Funzione relazionale  concerne la dimensione intenzionale e del contatto sociale, aspetti
fondamentali dell’atto comunicativo
3. Funzione espressiva  connota la comunicazione e permette l’espressione della creatività
comunicativa caratterizzata da novità, sensibilità soggettiva e comprensibilità e partecipazione.

Le funzioni proposizionale e relazionale sono tra loro interdipendenti, anche se ognuna mantiene un certo
grado di indipendenza.
Sostanzialmente rappresentano due aspetti diversi del medesimo concetto e questo significa che concorrono
nel definirlo.
Non è quindi possibile parlare di funzione proposizionale senza tenere conto dell’influenza che essa riceve
dall’altra e viceversa. Tuttavia, ognuna delle sue funzioni ha un preciso campo d’azione indipendente e
raggruppa al suo interno ulteriori funzioni caratterizzate da una maggiore specificità.
Proprio per questo motivo la funzione proposizionale e quella relazionale sono delle vere e proprie
“metafunzioni”.

La persona umana è quindi un essere fondamentalmente comunicante. Aspetti di primaria importanza sono:
- La propensione a comunicare
- La scelta di come farlo
La comunicazione è una pianificazione intenzionale. Non si è sempre comunicativi, ma solo se vi è
intenzionalità, se vi è dunque la volontà di rendere l’interlocutore consapevole della propria propensione a
comunicare.

Il punto di vista matematico


A partire dal 1940 la comunicazione è divenuta oggetto ufficiale di studio scientifico da parte di numerose
discipline.
Secondo il punto di vista matematico la comunicazione può essere definita come: il passaggio di un segnale
da una fonte A (emittente) attraverso un trasmettitore, lungo un canale, ad un destinatario B, grazie ad un
recettore.
I concetti principali dell’approccio matematico sono:
- L’informazione intesa come differenza tra due o più elementi
- Energia non più considerata come un motore dell’azione
- Comunicazione definita come una lineare trasmissione di informazioni da un emittente ad un
ricevente.
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Il punto di vista matematico considera la comunicazione come la trasmissione di informazioni; l’autore che ha
postulato questo approccio è Shannon (1948). Il passaggio di informazioni avviene secondo il seguente
passaggio:
 Da una fonte (persona, animale o oggetto)
 Attraverso un trasmettitore (dispositivo che permette il passaggio di informazioni)
 Il canale che trasferisce l’informazione
 Ci può essere il rumore o interferenze
 Il messaggio arriva ad un recettore (il dispositivo che permette la conversione del segnale in una
forma comprensibile per il destinatario.
 E a un destinatario (animale, persona o oggetto).

I processi che permettono la trasmissione di informazioni e la comprensione del messaggio sono chiamati
codifiche:
- Encoding  da parte dell’emittente che traduce l’informazione utilizzando un codice condivisibile con
il destinatario in modo da farsi comprendere.
- Decoding  da parte del ricevente che traduce il messaggio in modo da comprenderlo.
Il codice può essere definito come un insieme di regole che associano in maniera coerente e in maniera
tendenzialmente biunivoca gli elementi di un sistema con gli elementi di un altro sistema.
Questo approccio propone una Teoria forte del codice, secondo la quale è necessario e sufficiente avere a
disposizione un codice di trasmissione dei messaggi (ad esempio il linguaggio) per poter comunicare.
Un concetto importante dal punto di vista matematico sulla comunicazione è quello di feedback, cioè la
quantità di informazione che dal ricevente ritorna all’emittente.
Il feedback può essere:
- Positivo: ampliamento dell’informazione di ingresso
- Negativo: riduzione dell’informazione di ingresso
Con il concetto di feedback la comunicazione va considerata come un processo circolare ricorrente senza fine
in cui le informazioni passano dal trasmettitore al ricevente e poi ritornano all’emittente.
Altri concetti importanti, teorizzati da Shannon e Weaver (1949) sono:
- Rumore è interferenza con un altro segnale che percorre lo stesso canale
- Ridondanza riguarda il “surplus” di informazioni, è la ripetizione della codifica del messaggio per
favorirne la decodifica.
- Filtro modifica il segnale di partenza e di arrivo; seleziona alcuni aspetti e proprietà del segnale nella
decodifica.

Approccio semiotico alla comunicazione


La semiotica è la scienza che studia i segni e la loro storia all’interno del contesto sociale di riferimento.
La comunicazione viene vista come il mezzo necessario alla creazione di significato: essa infatti veicola
segno, facendo riferimento ad un referente e ad un codice.
Secondo l’approccio semiotico, la comunicazione è significazione, cioè la proprietà fondamentale di ogni
messaggio è quella di avere un significato/ senso per i comunicanti. Rapporto che i segni hanno con il
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significato e fa riferimento sia al rapporto tra il referente ed il codice.

Referenza  immagine mentale, uno schema o un concetto.


Referente  oggetto nella sua realtà fisica
Non esiste un rapporto diretto tra espressione e referente in quanto è sempre indiretto e mediato dalla
rappresentazione mentale rispetto ad un determinato concetto.

Una critica mossa a questo approccio è quella della fallacia referenziale: cioè assumere un rapporto diretto tra
simbolo e referente. Il simbolo è sempre un prodotto culturale. Rapporto intrinseco tra comunicazione e cultura
poiché i sistemi e le modalità di comunicazione rappresentano il frutto di un’elaborazione condivisa da parte
dei membri di una determinata comunità.
Occorre precisare una distinzione importante relativa al ruolo che il segno svolge nel processo comunicativo:
- Segno come equivalenza (prospettiva strutturale)
- Segno come inferenza
Secondo la prima prospettiva strutturale il segno non è nient’altro che l’unione tra un’immagine acustica
(significante) e un’immagine mentale (significato).
Ad esempio, la parola cane rimanda ad un’immagine “prototipo” dell’animale o dell’esperienza personale del
soggetto.
Il segno è dunque visto in termini di equivalenza perché la perfetta la corrispondenza tra significante e
significato veicola la piena comprensione del messaggio erogato con un atto comunicativo.

Secondo la seconda prospettiva (Peirce) il segno è qualcosa che per qualcuno sta al posto di qualcos’altro
sotto qualche rispetto o capacità (1894).
Il segno ha dunque la funzione di rimando e a seconda del rapporto che ha con il referente il segno può
essere di tre tipi:
- Icona: somiglianza con il referente
- Indice: contiguità fisica con l’oggetto cui si riferisce
- Simbolo: basato su una contiguità precedentemente appresa e dunque arbitraria
Il segno è qui dunque visto come inferenza poiché costituisce un indizio dal quale è possibile comprendere
significato ed eventuali conseguenze. Il segno come inferenza consente di cogliere la plasticità dell’impiego
dei segni stessi; consente di spiegare lo scarto tra ciò che è detto e da ciò che è implicato in quanto è stato
detto.
In sintesi, il processo di significazione è la capacità di generare significati. Ogni messaggio ha un senso;
questo processo fa riferimento sia al referente che al codice.
Il referente è l’oggetto, l’oggetto su cui si comunica mentre il codice è il sistema impiegato dai partecipanti alla
comunicazione.
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Il diagramma della significazione prevede:


- Un simbolo: immagine acustica o icona di un oggetto o eventi; la stringa di suoni che costituiscono la
parola
- La referenza: la rappresentazione mentale, immagine mentale che forma il concetto
- Referente: oggetto o evento reale
Il rapporto tra simbolo e referente è mediato dalla referenza.
Secondo l’ipotesi secondo cui il segno sia un equivalente; la lingua viene definita da De Saussure come un
sistema di differenze di suoni combinati ad un insieme di differenze di significati. L’autore distingue tra:
- Linguistica interna o primaria (insieme di norme che permettono l’attività linguistica)
- Linguistica esterna o secondaria (si occupa delle parole)  atto concreto e reale di applicare un certo
codice linguistico da parte di un soggetto.
Secondo Priece il segno come indizio comporta la presenza di modelli mentali e culturali che garantiscono il
significato dei messaggi verbali e non verbali.
Un soggetto comunica più di quanto dice.
Il segno in quanto inferenza rimanda alla nozione di contesto: indica qualcosa e lo collega ad aspetti
contestuali.

Punto di vista pragmatico


La pragmatica si occupa della modalità di utilizzo dei significati; ciò significa che l’oggetto di studio è l’uso che i
comunicanti intendono veicolare attraverso la loro azione comunicativa.
Morris (1938) ha distinto:
- Semantica: si occupa dei significati dei segni
- Sintassi: studia le relazioni formali tra i segni
- Pragmatica: esplora la relazione dei segni con i parlanti
Intendendo valutare l’uso dei significati, la pragmatica prende in esame i processi implicati nella
comunicazione, quelli cioè che non sono evidenti nemmeno al locutore e che sono osservabili nel
comportamento non verbale.
Esiste poi tutti il filone di studi relativo all’atto linguistico del quale fa parte:
- Teoria degli atti linguistici di Austin
- Il principio di Cooperazione e le Massime di Grice
Il punto di vista pragmatico pone in evidenza la comunicazione come azione: Austin (1962) propone la Teoria
degli atti linguistici secondo cui dire qualcosa è anche fare qualcosa.
L’autore distingue tre tipi di azione che compiamo quando parliamo:
- Atti locutori (atti di dire qualcosa): si tratta di azioni che compiamo per il solo fatto di parlare
(emissione di suoni o uso di specifiche parole ricorrenti).
- Atti illocutori (atti nel dire qualcosa): sono atti che si compiono attraverso il parlare stesso (domandare,
comandare).
- Atti perlocutori (atti con il dire qualcosa): sono gli effetti che parlando produciamo (espressione di
credenze, sentimenti, condotte).
Ogni atto linguistico ha una sua forza, la forza dell’atto.
Tale forza è data da:
- Forza illocutoria: l’efficacia dell’atto linguistico (generata da verbi, sequenza, accenti, intonazioni e
punteggiatura).
- Atti perlocutori: gli effetti che ogni atto linguistico genera sull’interlocutore
Bisogna poi distinguere tra:
- Atti linguistici diretti: in cui è evidente una coerenza fra la forza illocutoria che il parlante intende
imprimere all’enunciato e al significato letterale delle parole.
- Atti linguistici indiretti in cui la forza dell’atto dipende da fattori paralinguistici ed extralinguistici, cioè da
fattori non verbali della comunicazione come il tono di voce, il ritmo e l’intensità dell’eloquio.
La teoria degli atti di Austin propone la trasparenza intenzionale secondo cui la comunicazione è un processo
in cui un emittente ha intenzione di produrre intenzionalmente certi effetti sul ricevente attraverso l’espressione
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delle sue credenze e grazie a certe azioni.


A sua volta il ricevente riconosce le intenzioni comunicative dell’emittente, all’interno di un processo di
conoscenza reciproca.

All’interno del punto di vista pragmatico un altro autore importante è Grice.


Grice (1976) propone il principio di cooperazione definendolo come la necessità di dare il personale contributo
alla conversazione al momento opportuno, così com’è richiesto dagli scopi e dall’orientamento della
conversazione stessa.
Il parlante desidera dire qualcosa all’interlocutore e quindi diviene fondamentale il concetto di intenzione
comunicativa e consapevolezza reciproca di tale intenzione.
Grice individua 4 massime che dovrebbero guidare la condotta dei comunicanti:
1. Di quantità = dare informazioni necessarie che soddisfino la richiesta di informazioni in modo
adeguato agli scopi della conversazione.
2. Di qualità = dare contributi veritieri, non falsità.
3. Di relazione = i contributi devono essere pertinenti
4. Di modo = chiarezza e brevità nell’esposizione
La violazione di qualunque di queste massime va a minacciare la conversazione tra due o più interlocutori.
Secondo l’autori quindi: “La conversazione è un’attività sociale regolata, basata sul principio di cooperazione e
il possesso di uno scopo comune”.
Grice distingue tra:
- Intenzionalità informativa che serve ad aumentare le conoscenze dell’interlocutore
- Intenzionalità comunicativa che riguarda la consapevolezza dell’interlocutore circe le nuove
informazioni acquisite.
- Significato naturale: non prodotto intenzionalmente, indizio naturale (ad esempio il fumo come
espressione naturale di un incendio).
- Significato conversazionale (non naturale): prodotto intenzionalmente (bandiera rossa in spiaggia per
indicare che il mare è così agitato da sconsigliare la balneazione).
Un altro concetto importante è quello di implicatura conversazionale  procedimento inferenziale attraverso il
quale si colgono credenze, pensieri, affermazioni non direttamente esplicitato dal parlante. L’implicatura
conversazionale permette di cogliere le intenzioni più profonde del parlante.
Le implicature conversazionali sono:
- Cancellabili (superate quando si acquistano altre informazioni a quelle generali)
- Non distaccabili (sono in relazione con il valore semantico e non con la forma linguistica).
- Calcolabili (a partire dal principio di cooperazione e le massime conversazionali, si prevede che
l’interlocutore sappia fare l’inferenza corretta).
- Non conversazionali (il significato è negoziato ogni volta in funzione del contesto, lo stesso enunciato
può assumere significati differenti in diverse occasioni.

Modello ostentivo-inferenziale
Le premesse sono:
- L’interlocutore deve riconoscere l’intenzione del parlante
- Il messaggio del parlante deve produrre una risposta nell’interlocutore
- La risposta dell’interlocutore si basa (almeno in parte) su tale riconoscimento
L’intenzione comunicativa è la condizione necessaria e sufficiente per comunicare i partecipanti devono
rendere manifesta l’intenzione comunicativa (ostensione).
Sperber e Wilson introducono il concetto di:
- Essere manifesto: un fatto è manifesto ad un soggetto se lo si può rappresentare in un’immagine
mentale, se è percepibile e inferibile.
- Mutuo Ambiente Cognitivo: insieme delle ipotesi possibili condivise che vengono vagliate dai
partecipanti in base alla pertinenza rispetto al contesto specifico. Questo garantisce la cooperazione.
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Pertinenza  nelle conversazioni c’è la capacità di genere nuove informazioni dall’integrazione tra
conoscenze precedenti e nuove, attraverso processi di inferenza.
Ci sono inferenze deduttive, non dimostrative e le implicature contestuali che considerano lo specifico
contesto in cui avviene la conversazione per trarne inferenze.
Il grado di pertinenza delle inferenze è funzione del:
1. Numero di effetti contestuali generati dall’informazione
2. Pertinenza ottimale cioè la capacità degli interlocutori di seguire l’ipotesi comunicativa che
ottimizza gli effetti contestuali e minimizza l’impegno cognitivo.

Modello dei significati presuntivi


Sempre all’interno del punto di vista pragmatico, Levinson propone il modello dei significati presunti.
L’autore descrive una teoria della comunicazione basata su tre livelli esplicativi:
1. Significato – tipo della frase: inteso come significato astratto e ideale, basato su condizioni di verità,
semantica, grammatica, …
2. Significato – occorrenza dell’enunciato: significato contingente, assunto un dato contesto
3. Significato – tipo dell’enunciato: significato abituale, solitamente riferibile ad una data classe di
contesti, che permette di generare inferenze sistematiche e prevedibili.
Levinson ha approfondito la nozione di implicatura conversazionale generalizzata che aveva proposto Grice;
esso descrive questa implicatura basandola su tre euristiche generali ed è vincolante per tutti i contesti:
- Quello che non è detto non c’è
- Quello che è descritto in modo semplice è esemplificato in modo stereotipato
- Quello che è detto in modo non usuale, non è usuale
Su queste tre euristiche Levinson descrive tre principi pragmatici per spiegare la comunicazione:
Principio Q
Per il parlante: non fare affermazioni più deboli del tuo livello di conoscenza; scegli l’informazione più forte a
livello informativo che sia coerente con il contesto.
Per il destinatario: assumi che il parlante faccia un’affermazione consistente con quanto conosce.
Principio I
Per il parlante: dì il minimo indispensabile al raggiungimento dello scopo comunicativo
Per il destinatario: amplia il contenuto dell’enunciato del parlante con interpretazioni specifiche per individuare
la sua intenzione
Principio M
Per il parlante: esplicita le situazioni inusuali con espressioni marcate che contrastino con quelle abitualmente
utilizzate per situazioni usuali.
Per il destinatario: ciò che è comunicato in modo inusuale, indica una situazione non usuale.

PUNTO DI VISTA SOCIOLOGICO


L’approccio sociologico si configura a partire dalla disciplina di riferimento: sociologia della comunicazione.
Il concetto fondamentale di questa visione della comunicazione è la valutazione dell’importanza del contesto
sociale nel determinare l’esito dell’atto comunicativo.
Contesto  insieme di condizioni, opportunità e vincoli spaziali, temporali, relazionali, istituzionali e culturali
per qualsiasi atto comunicativo.
Morale, razionalità e riflessività sono i punti cardine di questo modello.
La realtà viene costruita dal contesto sociale ed è il prodotto della razionalità umana; infatti, non è possibile
parlare di una razionalità universale e astratta, ma di razionalità attuale e pertinente.
Viene operata la distinzione tra:
- Microsociologia  attraverso l’osservazione, studia i processi della vita quotidiana.
- Macrosociologia  studia l’organizzazione generale dei processi relativi alle istituzioni.
Ogni sistema sociale è regolato da sistemi di comunicazione e da rituali: le strategie comunicative emergono
in relazione alle esigenze degli individui nel “qui ed ora”.
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La globalizzazione è un concetto contraddittorio nella realtà contemporanea in quanto raccoglie in sé un certo


numero di antinomie:
- Universalismo – particolarismo
- Omogeneizzazione – differenziazione
- Integrazione – frammentazione
- Centralizzazione – decentralizzazione
La riflessività come scopo finale: mettersi in discussione e determina il confrontarsi con gli altri attraverso la
dinamica comunicativa.
In sintesi, l’approccio sociologico valuta l’importanza del contesto sociale nel determinare l’esito dell’atto
comunicativo. Abbiamo visto la distinzione tra microsociologia e macrosociologia.
Goffman (1981) studia contesti quotidiani ed elabora la sociologia delle occasioni e delle situazioni trascurate.
L’autore studia le conversazioni e analizza gli aspetti verbali e non verbali della comunicazione. Le
conversazioni vengono analizzate all’interno del frame, di una cornice contestuale in cui si realizza lo scambio
comunicativo.
Studia anche le strategie comunicative e la sua prospettiva viene definita drammaturgica.
Abbiamo poi visto l’attuale concetto di globalizzazione, fatto di contraddizioni e ibridazioni.
La globalizzazione induce la riflessività, intesa come la capacità di mettersi in gioco, di confrontare i propri
punti di vista con quelli degli altri, la propria cultura con le altre.
La comunicazione è il luogo di riflessività.

PUNTO DI VISTA PSICOLOGICO


La comunicazione pervade la vita quotidiana dell’individuo che non può esistere senza l’utilizzo costante della
stessa per mantenere la sua rete relazionale.
L’importanza di quest’ultima per la vita dell’individuo è l’oggetto di studio delle scienze psicologiche, in
relazione al concetto di comunicazione.
Questo approccio sostiene che essere in comunicazione significa essere inseriti in una rete di relazioni e
nessun individuo può esistere al di fuori di una rete.
Il comunicatore si rivolge agli interlocutori su due livello comunicativi proposti da Beatson (1972):
- Livello di notizia
- Livello di comando
Il livello di notizia si riferisce ai contenuti del suo atto comunicativo.
Il livello di comando indica la modalità di interpretazione necessaria per comprendere il suo messaggio.
La comunicazione ha quindi più livelli di interpretazione: quello prettamente comunicativo, il messaggio e
quello metacomunicativo, la comunicazione e riflessione sulla comunicazione stessa.
Dal punto di vista psicologico la funzione fondamentale della comunicazione è la definizione di sé e dell’altro
nel continuo scambio di interazioni e interpretazioni.
La comunicazione è un flusso continuo: una sequenza ininterrotta e una spirale di messaggi. In questa spirale,
stimolo, risposta e rinforzo si sovrappongono.
L’eguaglianza dei rapporti tra gli interlocutori determina l’instaurarsi di una relazione simmetrica.
La definizione di una differenza relazionale porta ad una relazione complementare: questa prevede uno stato
di dominazione di un soggetto sull’altro (ad esempio una conversazione con il capoufficio).
In sintesi, il punto di vista psicologico considera la comunicazione come lo strumento per essere inseriti in una
rete di relazioni e nessun individuo può esistere al di fuori di una rete.
Il comunicatore si rivolge agli interlocutori su due livello comunicativi:
- Livello di notizia
- Livello di comando
Dal punto di vista psicologico la funzione fondamentale della comunicazione è la definizione di sé e dell’altro
nel continuo scambio di intenzioni ed interpretazioni.
Questo punto di vista considera il livello di comunicazione, cioè i contenuti, e il livello di metacomunicazione,
cioè il parlare sulla comunicazione stessa.
La parte psicologica della comunicazione contribuisce alla definizione di sé e dell’altro e alla creazioni di giochi
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psicologici, per esempio la seduzione, l’innamoramento, la competizione, la persuasione, …


Considera anche i conflitti come flusso ininterrotto di comunicazione e non lineare.

COMUNICAZIONE UMANA E ANIMALE


La comunicazione appartiene sia alla specie umana che agli animali e ha le sue radici nell’evoluzione della
specie.
Esistono due posizioni teoriche:
- Antropocentrica  considera la comunicazione umana come un’attività unica, privilegiata, esclusiva
che ha elaborato il linguaggio come elemento differenziale rispetto alla comunicazione di altre specie
animali. Il limite di questo approccio teorico fa riferimento al non dare dignità alle competenze
comunicative di altre specie animali.
- Antropomorfica  sottolinea le somiglianze tra i diversi sistemi di comunicazione e rischia, così, di
attribuire competenze comunicative e cognitive tipicamente umane ad altre specie animali.
Possiamo considerare una condizione intermedia: ogni specie animale ha una specificità comunicativa relativa
alla dotazione genetica, alle strutture nervose, all’ambiente e all’organizzazione sociale. Bisogna considerare
anche le somiglianze comunicative tra le diverse specie animali.
I primati non umani hanno capacità cognitive molto elevate in grado di permettere loro una buona conoscenza
dell’ambiente circostante e delle relazioni sociali nel gruppo.
- Conoscono e padroneggiano il campo sociale  riconoscono i membri del proprio gruppo di
appartenenza, i tipi di relazioni e riescono a prevederne le azioni e gli stati motivazionali a seconda dei
rituali comportamentali esibiti.
- I primati non umani instaurano coalizioni e alleanze perché stabiliscono nel campo sociale interazioni
cooperative e competitive e così necessitano di scambi comunicativi.
- A seguito di alleanze e coalizioni, instaurano giochi di scambi e reciprocità e stimano i “debiti” e i
“crediti” nei riguardi dei consimili. Attuano forme di negoziazione reciproca.
- Mostrano comportamenti altruistici vantaggiosi per il gruppo e svantaggiosi per sé.
In questo intreccio relazionale, i rapporti sociali sono importanti ed i primati non umani necessitano, quindi, di
buone modalità comunicative per la sopravvivenza del singolo e della specie.
Senza comunicazione non è possibile qualsiasi forma di interazione e di scambio sociale

Comunicazione e Teoria della Mente negli animali


Una domanda di ricerca ha mosso gli studiosi a tentare di comprendere se gli animali posseggono una teoria
della mente, che è alla base dei processi cognitivi e della comunicazione.
La Teoria della Mente (Premack, Woodruff, 1978): capacità degli individui di attribuire stati mentali a sé e agli
altri e di prevedere il proprio e l’altrui comportamento sulla base di tali stati; si sviluppa intorno ai 4 anni.
 Concetto prevalentemente cognitivo
 Gli studi riguardano principalmente l’attribuzione di stati interni agli altri
 Linguaggio e Teoria della Mente: l’uso di termini quali “volere”, “desiderare” (2 anni), “credere” indica lo
sviluppo della Teoria della Mente nel bambino, in quanto indica quali contenuti mentali egli è in grado di
comprendere ed attribuire a sé e agli altri per interpretare le situazioni sociali.
Il bambino sviluppando la Teoria della Mente:
- È in grado di riflettere in modo implicito ed esplicito sulla propria mente e su quella dell’altro
- Riesce a distinguere i contenuti della propria mente da quelli della mente di un altro (falsa credenza)
- Comprende emozioni sempre più complesse, quali le emozioni miste e quelle sociali/ morali
- Distingue il proprio punto di vista da quello altrui.
I prerequisiti e precursori della Teoria della Mente sono molti, tra questi troviamo:
- Il riconoscimento di sé allo specchio
- Inversione dei ruoli
- Permanenza dell’oggetto
- Ripetizione ed emulazione di comportamenti propri e altrui
I principali indicatori della Teoria della Mente nei primati:
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- Comprensione dello sguardo e dell’attenzione dei consimili: i primati comprendono lo sguardo come
fondamentale nelle relazioni sociali
- Riconoscimento di sé allo specchio: alcune specie di animali si riconoscono allo specchio e questo
viene considerato un precursore dello sviluppo della Teoria della Mente.
- Condotte e comunicazioni ingannevoli: la ricerca attuale non riesce a fornire risposte certe circa
l’intenzionalità nei comportamenti ingannevoli dei primati non umani.
Gli studiosi non riescono ad affermare con sicurezza che i primati non umani posseggano la ToM; sembra che
i primati reagiscano ai comportamenti degli altri e non ai loro stati mentali  si basano sulla teoria del
comportamento e non sulla teoria della Mente altrui. Si limitano a rappresentazioni primarie dei comportamenti
manifesti dei consimili, tali manifestazioni sarebbero esplicative di stati intenzionali, emozioni, motivazioni. I
primati non umani non si servono della ToM ma reagiscono ai comportamenti altrui.

Caratteristiche della comunicazione dei primati non umani


Le principali competenze comunicative dei primati sono:
1. Comunicazione referenziale: capacità di riferirsi ad un oggetto o ad un evento esterno in modo da
identificarlo distinguendolo da possibili alternative. Il valore referenziale “fa riferimento” all’occorrenza
dell’oggetto. Un tempo si pensava che i primati comunicassero esclusivamente i propri stati emotivi e
motivazionali, gli studi attuali mostrano anche la loro capacità di comunicazione referenziale.
2. Comunicazione intenzionale: implica che un individuo sappia usare lo stesso segnale in modo
flessibile in differenti contesti, e sappia usare segnali diversi nello stesso contesto o lo sappia inibire.
Gli studiosi concordano nel ritenere che i primati abbiano una comunicazione intenzionale.
3. Comunicazione simbolica: vari studi hanno dimostrato che scimpanzé allevati in contesto umano sono
capaci di impiegare e capire i simboli linguisti umani.
4. Comunicazione gestuale con gli umani: gli scimpanzé utilizzano gesti con un valore “dichiarativo”
similmente a come fanno i bambini.
5. Uso dei simboli: vari studi hanno dimostrato che primati allevati in un ambiente umano possono
padroneggiare e servirsi di simboli astratti. D’altra parte, hanno evidenziato che la comunicazione dei
primati serve a svolgere azioni, a dare e a ricevere, a capire ed eseguire ordini e desideri, ma non può
raccontare i propri pensieri, per personali credenze e opinioni, non può creare cultura.

Caratteristiche distintive della comunicazione animale


La comunicazione animale è sostanzialmente di natura relazionale: serve ad esprimere bisogni, motivazioni,
desideri, richieste; si basa su segnali non verbali di significazione e segnalazione; non permette di condividere
affermazioni e pensieri. La comunicazione relazionale facilita la vita sociale molto densa, sia in termini di
gerarchie si di alleanze e coalizioni. Incoraggia le relazioni cooperative e anche competitive, di vicinanza e di
distanza, di sottomissione e di dominanza.
La comunicazione animale di tipo relazionale è compatibile con la comunicazione referenziale perché
presuppone di associare suoni o gesti i movimenti a specifici aspetti dell’ambiente e la condivisione
dell’attenzione.
I primati non umani hanno una comunicazione rappresentazionale semplice perché non sanno assumere un
punto di vista dell’altro, in funzione delle loro capacità cognitive semplici.

Comunicazione e cultura
Nel passaggio da comunicazione animale e comunicazione umana la cultura costituisce il fattore
determinante.
La cultura fondamentale per:
- Elaborazione di significati
- Comprensione reciproca della realtà
- Costruzione di significati
- Prefigurazione di futuri scenari e comportamenti
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Cultura e comunicazione sono intrinsecamente connesse, non possono sussistere l’una senza l’altra.

COMUNICAZIONE E SIGNIFICATO – LA SEMANTICA VERO -CONDIZONALE


L’essere umano, per sua natura, cerca di dare significato alle cose e agli eventi in modo da poterli spiegare.
Tali significati assumono un ruolo centrale all’interno del sistema linguistico, che ha una funzione
proposizionale.
Gli individui, infatti, utilizzano gli enunciati per poter trasmettere conoscenze e attribuire senso alle condotte
degli altri; tuttavia, per poter attribuire significato agli atti comunicativi, non ci serviamo solo del canale
linguistico, ma anche dei sistemi di comunicazione non verbale.
Alla luce di quanto detto, appare evidente il legame esistente tra comunicazione e significato, nonché
l’importanza del ruolo che quest’ultimo riveste negli scambi comunicativi, ragione per cui è stato oggetto di
svariati studi condotti da diversi punti di vista.
Questi approcci hanno dato tre interpretazioni diverse al concetto di significato che, seppur divergenti, hanno
evidenziato tre aspetti fondamentali:
1. La semantica vero-condizionale  prende in considerazione il rapporto tra significato e realtà.
Il significato consiste nell’affermare la veridicità di uno stato di cose o entità appartenenti al mondo
esterno.
In questi termini, gli enunciati avrebbero un riferimento diretto ai loro riferimenti esterni (entità alle
quali fanno riferimento) attraverso l’atto linguistico.
Al contrario, Frege propone l’esistenza di una relazione mediata tra il segno e referente , in quanto è
possibile fare riferimento alla stessa realtà pur utilizzando espressioni linguistiche differenti dotate di
senso diverso.
Il senso di una frase è quella parte di significato che determina il valore di verità, ovvero il modo in cui
il soggetto (parlante) interpreta il referente.
Il senso non coincide con l’idea soggettiva del referente (rappresentazione), in quanto, così
interpretato, fa riferimento a caratteristiche interne al soggetto, quindi troppo variabili.
Esso, però, non coincide neanche con il referente e il mondo esterno, piuttosto si configura come un
terzo ambito, ovvero una proprietà della parola che non si modifica a seconda del contesto.
Il senso è il mezzo che ci permette di comprendere le cose, che possiede un contenuto mentale e un
carattere oggettivo.
Con questa interpretazione Frege spoglia il concetto di senso di ogni caratteristica psicologica e
interattiva, in quanto proprietà della mente individuale e aspetto oggettivo del linguaggio.
2. La semantica strutturale  De Saussure che si propone di raggiungere una definizione prettamente
linguistica del concetto.
Si tratta di una concezione antireferenzialista e antipsicologica, in quanto definisce il significato come
svincolato da qualsiasi riferimento al contesto e alla soggettività.
L’analisi dei significati, quindi, va intesa come rapporto tra significato e significante, due concetti
esclusivamente linguistici.
De Saussure introduce il concetto di significato come valore, ovvero la possibilità di un termine di
essere confrontato e opposto a qualsiasi altra parola della stessa lingua.
In questi termini il significato ha origine dalle relazioni intralinguistiche con le altre parole.
3. La semantica cognitiva  Si occupa delle modalità attraverso cui un individuo capisce ciò che
comunica.
Recentemente è stata elaborata una nuova concezione del significato che valorizza gli aspetti più
psicologici e referenziali di tale concetto, definita semantica cognitiva, elaborata da Fillmore,
Jackendokk e Lakoff.
Secondo questa prospettiva il significato è definibile come “il modo in cui i soggetti comprendono ciò
che comunicano”. La semantica diviene la “Teoria della comprensione”, attenta ai processi mentali e
associativi sottesi all’attribuzione dei significati.
Quindi, spiegare il significato vuol dire spiegare in che modo il soggetto capisce un evento.
La semantica cognitiva prevede anche un criterio di elaborazione del significato; tale criterio riguarda
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la plausibilità psicologica, fondamentale per accettare o rifiutate un modello esplicativo.


Secondo questo modello il linguaggio rappresenta una funzione cognitiva non svincolabile dalle altre
attività mentali (come percezione, categorizzazione, …).
L’attribuzione di significato è possibile non solo grazie alle conoscenze linguistiche di natura
direzionale, ma anche grazie a conoscenze enciclopediche, originate dalle nostre conoscenze
pregresse.
Tali conoscenze rendono esplicita l’interconnessione esistente con le altre funzioni mentali, in quanto,
per poter accedere e utilizzare tali conoscenze, sono necessari processi quali la categorizzazione, la
creazione di script (precise sequenze di azioni) e la creazione di categorie mentali.
Il soggetto opera continui processi di inferenza che gli permettono di cogliere gli indizi presenti nella
realtà, alla vase del processo di attribuzione del significato.
La semantica cognitiva, pur mantenendo una prospettiva referenzialista, si differenzia dalla semantica vero –
condizionale, in quanto adotta una concezione realista del significato.
Esso è interpretato come risultato dell’elaborazione cognitiva e della rappresentazione mentale di un
determinato oggetto/evento da parte del soggetto e sulla base delle conoscenze acquisite nel tempo.

Questi paradigmi teorici hanno permesso di identificare tre aspetti fondamentali del significato:
- La dimensione referenziale
- La dimensione inferenziale
- Dimensione differenziale
La dimensione referenziale rappresenta la necessità di porre un significato in relazione alla realtà; il
riferimento, in questo caso, si denota come rinvio e ancoraggio al reale, senza il quale si avrebbe totale
soggettivismo.
Il riferimento non rappresenta un’entità assoluta e oggettiva, bensì esso rimanda al contenuto dell’esperienza
del soggetto, sempre influenzata dalla cultura di riferimento; quest’ultima, a sua volta, guida il processo di
attribuzione di significato attraverso i suoi schemi mentali e pratici e i suoi valori.

La dimensione inferenziale è l’organizzazione cognitiva del significato a partire dagli indizi raccolti dalla realtà.
Questa organizzazione implica un nesso tra significato e concetto, un costrutto mentale che permette di
categorizzare, rappresentare e definire oggetti/eventi.

La dimensione differenziale definisce il sistema comunicativo come un sistema complesso che contribuisce a
costruire il significato di una parola a partire dalla possibilità di confronto tra i diversi termini linguistici (una
mela non è una pera).

SEMANTICA A TRATTI
Il modello della semantica a tratti concepisce il significato come una realtà eterogenea composta da diversi
tratti.
Secondo tale teoria il significato è scomponibile in tratti semantici, di quantità limitata, che rappresentano
condizioni necessarie che rappresentano condizioni necessarie e sufficienti (CNS) per la sua formazione.
Questo modello prevede alcuni principi:
- Nessun tratto può essere cancellato, in quanto condizione necessaria e sufficiente
- Nessun tratto può essere aggiunto, in quanti i tratti sono sufficienti
- I tratti sono organizzati secondo un ordine gerarchico ma sono tutti uguali
- Viene applicata la regola della assenza/presenza, che prevede confini netti del significato (o si ha
significato o non si ha).
Il modello CNS si configura come un sistema binario (dicotomico) in cui la presenza di un tratto implica
necessariamente l’assenza di un altro.
Le componenti base del significato sono proprietà analitiche e, in quanto tali non cancellabili, perché
essenziali per definire il concetto. Di conseguenza, esiste un solo significato di una parola, dettato dalle sue
componenti costruttive; viene così garantito l’isomorfismo tra il livello semantico (contenuto) e il livello fonico
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(espressione).
Quindi il significato è da considerarsi un’unità discreta, combinabile con altre unità discrete in modo da
formare una frase.
All’interno di questo modello viene fatta una distinzione tra conoscenze direzionali (costruttive del significato) e
conoscenze enciclopediche (conoscenze secondarie e accessorie).
Un ulteriore distinzione è quella tra proprietà accidentali (di natura contingente e fattuale) e proprietà
necessarie (identificative del significato).
Tuttavia, questo modello presenta dei limiti:
- Non ammette eccezioni, in quanto la modificazione di uno solo dei tratti rende inapplicabile il modello.
- In secondo luogo, i significati sono definiti come entità discrete con confini definiti, in quanto tali non
sono ammesse sfumature di significato.
- È stata ampiamente criticata l’ipotesi, avanzata dal modello, che il significato sia costituito da un
numero finito di tratti e di proprietà; per esempio, se diciamo che tutte le finestre hanno un vetro, ma
rompiamo uno dei vetri della finestra, possiamo ancora definirla tale? Secondo questo modello no.
- Risultano insostenibili le differenze effettuate tra conoscenze enciclopediche e direzionali, di fatto
entrambe di natura culturale e mediate dall’esperienza, nonché tra tratti accidentali e necessari, in
quanto ogni parola prevede una certa gradualità semantica.
- Il CNS non spiega neanche la polisemia semantica, intesa come molteplicità di significati di una
stessa parola.

MODELLO DEL PROTOTIPO


Negli ultimi decenni, in alternativa al modello CNS, ha preso piede il modello del prototipo, fondato sul
concetto di categoria mentale e sul processo di classificazione.
La categorizzazione rende possibile la segmentazione del flusso di informazioni provenienti dall’ambiente, in
questo modo il soggetto risparmia energie cognitive e organizza in modo funzionale il materiale.
Rosch (1978) assumendo una concezione realista, ha definito la categoria come una classe di oggetti.
L’analisi di tali categorie può essere condotta secondo due dimensioni:
- Verticale  volta ad esaminare la struttura intracategoriale, permette di collegare tra loro diverse
categorie attraverso il processo di inclusione.
- Orizzontale  volta ad esaminare la struttura interna di una determinata categoria.
Le categorie più importanti sono quelle di base, che rappresentano quelle con il maggior numero di tratti della
categoria di appartenenza (prototipo).
Le categorie di base rappresentano quelle con la maggiore differenziazione categoriale, in particolare,
massimizzano le differenze intercategoriali e le somiglianze intercategoriali.
Questo processo è stato definito da Rosch con il concetto di validità di indizio, ovvero la probabilità che un
soggetto che possiede quello specifico indizio (caratteristica) ha di entrare a far parte di una determinata
categoria.
Si possono identificare altre due tipologie di categorie:
- Sovraordinate (più astratte e maggiormente inclusive)
- Subordinate (specifiche ma meno informative)
La categoria orizzontale, invece, riguarda l’organizzazione interna ad una categoria e le relazioni esistenti, in
termini di appartenenza, tra gli oggetti che la compongono.
Rispetto al concetto di prototipo è possibile identificare due teorie principali che si sono occupate della sia
definizione.
La teoria standard del prototipo, elaborata negli anni ’70, definisce il prototipo come il miglior esemplare di una
determinata categoria, ovvero quella che lo rappresenta meglio.
Sono previsti criteri che consentono di elaborare la categoria stessa:
1. Le categorie non possono essere costruite sulla base di un elenco di proprietà comuni e sufficienti, in
quanto la categorizzazione non procede in modo analitico ma globale.
2. I prototipi di una categoria divengono gli elementi centrali della stessa, intorno ai quali si struttura tutta
la categoria.
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3. Le regole di appartenenza ad una specifica categoria, non di ordine dicotomico, ma graduale perché
fondato sulla base della somiglianza con il prototipo.
4. Le categorie non hanno confini netti, bensì si può parlare di una somiglianza di famiglia che li unifica.
Negli anni ’90 è stata elaborata la teoria estesa del prototipo, nella quale quest’ultimo è inteso come entità
astratta e come costrutto mentale.
Il prototipo diviene l’insieme di effetti prototipici (caratteristiche salienti) sulla base dei quali vengono
differenziate le diverse categorie.
In questo modo, una categoria può rimandare a diversi referenti senza essere percepita come ambigua, come
accade nel caso della polisemia (molteplicità di significati per lo stesso termine).
L’appartenenza ad una categoria è data dalle proprietà essenziali, più importanti e comuni a tutti gli elementi
definite attraverso la negazione.
Per esempio: se un animale non ha il becco e le piume non viene inserito nella categoria uccelli.

Le proprietà tipiche, invece, sono intese come caratteristiche specifiche, cancellabili e soggette ad accezioni
che possono, quindi mettere a rischio la stessa appartenenza. Esse sono definite culturalmente e strettamente
collegate alla prototipicità di una categoria: maggiori sono le caratteristiche tipiche, maggiore è il livello di
rappresentatività dell’elemento di una data categoria.

LA SEMANTICA UNIFICATA
Il significato, inteso come percorso interpretativo, ha tre dimensioni fondamentali:
1. Referenziale  il significato è sempre mediato dall’esperienza personale del parlante (manifestazione
di un punto di vista, di valori, di schemi mentali e pratiche comunicative; esito di un’attività culturale
personale, poi condivisa con altri.
2. Differenziale  il sistema lingua contribuisce a costruire il significato di una parola, in questo senso le
strutture semantiche vincolano le rappresentazioni mentali (modi espressivi, enunciazione,
disposizione alle parole, …).
3. Inferenziale  riguarda l’organizzazione cognitiva dei significati.
Significato e concetto sono distinti ma interdipendenti:
- Concetti = rappresentazioni multimodali elaborate a partire da informazioni multisensoriali, emotive e
motorie. Si basano sull’esperienza, sono radicati nel corpo e situati nel contesto immediato.
- Significati = convenzioni culturali, formazione del contesto e del rapporto tra parlanti.
Sintonia semantica e pragmatica: il significato esprime la convergenza tra sistemi di significazione e
segnalazioni: l’unione di componenti verbali e non verbali precisa il significato di un messaggio.
Scarto lessicale  quando non esiste un unico termine per esprimere una categoria concettuale.
Polisemia  quando esiste un rapporto biunivoco tra parola e concetto (ad un termine corrispondono concetti
diversi)
Sinonimia  quando uno stesso concetto è rappresentato da più termini.
I significati richiedono processi di inferenza in funzione del contesto e della rete di relazioni. Le parole sono,
cioè, indizi linguistici per effettuare ipotesi interpretative.

Dal punto di vista semiotico della comunicazione umana, analizzare la comunicazione significa osservare un
processo, cioè un sistema che coinvolge più soggetti sociali.
Significa focalizzarsi sull’interazione e sulla relazione tra gli interlocutori, sui comportamenti dei partecipanti,
sulla costruzione e condivisione dei significati che si realizzano in determinati contesti sociali di vita quotidiana.

Esaminando proprio quest’ultimo aspetto e ricordando gli studi di De Saussure, si può riflettere sulla relazione
tra significato e significante.
La potenzialità di un messaggio di produrre senso viene definita “significazione” mentre la comunicazione è
l’attuazione di queste potenzialità in uno scambio concreto, tale scambio è possibile se due interlocutori
condividono un codice comune, cioè un sistema di regole per originare dei segni che uniscano il significante
(un’immagine acustica) e il significato (immagine mentale).
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Di conseguenza ogni comunicazione è un processo di significazione intenzionalmente e deliberatamente


indirizzata da un emittente ad un ricevente.
Considerando più specificatamente il linguaggio, De Saussure ritiene che esso sia caratterizzato da
arbitrarietà del legame tra significato e significante: la lingua è una convenzione che lega due componenti,
significato e significante, le quali sono entrambe frutto di scelte arbitrarie.
Questo sembra essere il risultato dell’evoluzione, di una progressiva differenziazione e polarizzazione: Werner
e Kaplan (1963) hanno elaborato un modello evolutivo del linguaggio secondo cui nei modi primitivi di
espressione (nel linguaggio dei bambini e in quello dei popoli primitivi) il significato e il significante sono
strettamente fusi tra loro e quasi confusi.
Dogana (1983) sottolinea come, a livello linguistico, questo si manifesta in una predilezione, ad esempio, da
parte del bambino che apprende il linguaggio, per le onomatopee e le qualità fonosimboliche della lingua, in
tali espressioni in significato è materializzato nel significante.
Solo più tardi, quando il pensiero pre-logico lascia il posto a quello adulto, il bambino accetta l’arbitrarietà e
funzionalità del linguaggio.
Il settore linguistico considerato spesso sede di fenomeni imitativi e fonosimbolici è quello della poesia.
Studiando tale ambito, Dogana (1988) ha evidenziato che nei componimenti poetici la scelta dei significati
avviene secondo specifiche esigenze ritmiche e timbriche, secondo particolari qualità espressive.
Questo non significa che la poesia si riduce a banali effetti di onomatopee ma, certamente, il poeta è molto
attento alla relazione tra suono e senso in modo che i valori semantici possano essere espressi anche dalla
materia sonora.
Nella poesia significato e significante si fondono e lavorano sinergicamente per eliminare l’arbitrarietà del
linguaggio quotidiano. A tale scopo il poeta utilizza onomatopee:
- I suoni acuti e striduli sono riprodotti con l’insistenza sulle vocali acute come la “i”.
- Rumori vibranti sono rappresentati dalla “r”.
In altri casi anche le suggestioni provenienti dalla forma grafica delle lettere, oltre che la loro sonorità, vengono
utilizzate per avvicinare la parola alla realtà concreta.
Dogana sottolinea come il poeta non accetta la convenzionalità della lingua ma cerca di riscattarne la
materialità, ricorre alle risorse iconiche della lingua, utilizza la bellezza dei suoni e della morfologia delle
singole parole.
Come lo scultore è incantato dalle proprietà fisiche del marmo, del legno e della pietra, il pittore dagli aspetti
cromatici della realtà, l’artista della parola è affascinato dalle qualità espressive della materia fonica.
L’artista, sia scultore, sia pittore, poeta o musicista, utilizza una modalità di comunicazione particolare che
valorizza la stretta connessione tra significato e significante.
La capacità di comprendere la prospettiva dell’artista permette l’instaurarsi di un legame intimo tra autore e
spettatore.
L’opera d’arte è intuitivamente ed empaticamente recepita dal fruitore che ne è attratto o respinto, appagato o
messo a disagio.
Lorenzetti (1999) sostiene che il fruitore gode del prodotto artistico e sancisce l’artisticità” di un’opera,
mettendo in atto un comportamento estetico, che è quell’insieme di processi cognitivi, motivazionali, intellettivi
e affettivi che portano l’essere umano a valutare qualcosa come bella o brutta.
L’atteggiamento del fruitore sarà dato dall’interazione tra:
 Le sue convinzioni o credenze o concezioni (aspetto intellettivo)
 I suoi sentimenti (aspetto affettivo)
 Le sue valutazioni (aspetto valutativo) verso l’arte.
Il fruitore è mosso verso l’”arte” dei bisogni estetici, da atteggiamenti, dallo stile cognitivo, dall’influenza delle
variabili culturali, sociali ed individuali.
I tentativi si spiegare l’interesse umano per la bellezza nelle sue varie forme sono diversi:
 Secondo Freud l’arte si colloca in un’area intermedia tra la realtà che frustra i desideri e la fantasia
che, invece, li appaga; sia l’artista che il fruitore possono, attraverso l’opera d’arte, accedere a questa
soddisfazione sublimata.
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 La teoria della Gestalt fa riferimento al concetto di “buona forma”, ponendo in luce il ruolo di elementi
degli e stimoli come la semplicità, equilibrio, ordine, …
 Per altro verso, Eysenck (1941), ha focalizzato l’attenzione sui tratti di personalità che sembrano
predisporre a specifiche preferenze artistiche. Secondo le sue indagini, ad esempio, gli estroversi e i
giovani sembrano amare di più l’arte astratta, gli stimoli ricchi di colore e con composizione irregolare;
gli introversi, invece, preferirebbero le forme classiche, più semplici e regolari.
 Seguendo la stessa linea di ricerca, Lindauer (1985) ha dimostrato che le persone “esteticamente
sensibili”, non mostrano particolari doti creative, ma possiedono un profondo interesse per le
manifestazioni artistiche e hanno un’intensa capacità immaginativa.
 Inoltre, interessanti studi hanno valutato l’organizzazione cognitiva della personalità artistica,
individuando le differenze funzionali dei due emisferi cerebrali. Gli studi di Sperry e di Torrnce (1978)
hanno identificato tre stili prevalenti di una persona: destro, sinistro ed integrato.
- Il pensiero “destro” è caratterizzato da un’elaborazione simultanea delle informazioni, da abilità
creative, musicali e fantasiose, da risoluzioni di problemi intuitive ed immediate.
- Il pensiero “sinistro” è quello in cui dominano i processi mentali tipici di questo emisfero cerebrale,
cioè le elaborazioni linguistiche delle informazioni, le produzioni di idee logiche ed analitiche, le
procedure di risoluzione di tipo sequenziale.
- Il pensiero “integrato” è l’integrazione dei due precedenti stili cognitivi
La sensibilità e la capacità artistica sarebbero legate alla dominanza dell’emisfero destro: la creatività e il
gusto per la bellezza dipenderebbero, così, dalla tendenza dei soggetti ad utilizzare principalmente lo stile di
“pensiero destro”.
Vediamo ora come il fenomeno sinestesico sia connesso alla sensibilità estetica e alla comunicazione
artistica.
L’attitudine sinestesica è un aspetto importante della predisposizione artistica, può essere definita come uno
specifico modo di funzionamento della percezione, cioè è la capacità di percepire corrispondenze tra
stimolazioni pertinenti a campi sensoriali differenti.
Ad esempio, le frasi “questo profumo è morbido” o “quel brano musicale è dolce”, sono modi di dire che
appartengono al nostro vocabolario abituale e che racchiudono un miscuglio di esperienze sensoriali inerenti
alla vista, udito e tatto.
Tali accostamenti linguistici sono in realtà metafore sinestesiche, nelle quali una stimolazione riguardante uno
specifico canale sensoriale (ad esempio l’odorato) è definita con riferimento ad un’altra modalità sensoriale
(ad esempio il tatto).
Le persone differiscono nella disponibilità ad accettare le “acrobazie di senso” implicite in tali metafore, così
come differiscono nel fruire e produrre un linguaggio artistico.
Non ci sono opinioni univoche riguardo al legame tra sinestesia e predisposizione alla sensibilità estetica e
alla creatività. Tuttavia, è indubbio che i maggiori esempi di associazioni sinestesiche sono presenti in ambito
artistico.
Secondo un famoso esperto d’arte, quale G. Dorfles (1967), alla base della motivazione a creare e a fruire
dell’opera d’arte, ci sarebbe proprio la capacità di integrare immagini sensoriali diverse.
In poesia, gli esempi più eclatanti sono quelli dei “poeti maledetti” francesi della seconda metà dell’800.
Costoro, attraverso l’assunzione di hashish, descrivevano in versi le loro confusioni sensoriali.
Anche in pittura l’artista può avere il preciso desiderio, attraverso la sua tela, di comunicare un sapore, un
grido, e via di seguito.
Ad esempio, Giotto nella Resurrezione di Lazzaro vuole farci “sentire l’odore” acre del corpo di Lazzaro, già in
avanzato stato di decomposizione, e così, dipinge gli astanti mente si chiudono il naso.
Ancora, le nature morte fiamminghe del Seicento e del Settecento, desiderano trasmettere una sensazione
gustativa attraverso un codice visivo. Nell’arte è possibile vedere colori caldi, freddi, silenziosi, rumorosi,
leggeri, pesanti; avere sensazioni acustiche morbide, pungenti, dolci o luminose.
Nel nostro secolo, il cinema, la radio, la televisione e il computer hanno creato prodotti estetici che, sempre
più, hanno fuso tipi diversi di linguaggi e cercano di colpire simultaneamente diversi organi sensoriali.
Ad esempio, si possono osservare le immagini pubblicitarie: quando è necessario esaltare la franchezza del
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prodotto, prevalgono il verde e il bianco; per il soffice, i colori tenui come quelli pastello; per i prodotti di
profumeria, il lilla e l’azzurro e così via.
Molte pratiche artistiche di oggi sono finalizzate ad una percezione estetica simultanea e “multisensoriale”,
tanto che si fatica a trovare ordinamenti e classificazioni di genere.

STILI COMUNICATIVI
Come abbiamo visto, Grice ha individuato 4 massime che, se rispettate dagli interlocutori, permettono una
conversazione efficace:
- Quantità: gli interlocutori forniscono informazioni necessarie, esaurienti, non rispondenti e superflue.
- Qualità: gli interlocutori assumono la veridicità delle informazioni che forniscono e ricevono
- Relazione: gli interlocutori riferiscono informazioni pertinenti con lo scambio comunicativo
- Modo: chiarezza comunicativa e comprensibilità nelle modalità di conversazione.
IL PRINCIPIO DI COOPERAZIONE è alla base di ogni conversazione e riassume in sé le massime.

Assiomi della comunicazione


Watzlawitck e altri, autori de La pragmatica della comunicazione umana, hanno descritto cinque assiomi della
comunicazione che sono divenuti capisaldi fondamentali.
1. Non si può non comunicare: in qualsiasi tipo di interazione tra persone si comunica sempre qualcosa
all’altro.
2. Ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto ed uno di relazione: si tratta di una
metacomunicazione che definisce i rapporti tra gli interlocutori.
3. Gli scambi comunicativi non sono una sequenza ininterrotta ma sono organizzati come se seguissero
una sorta di punteggiatura, identificando, in tal modo, chi parla e chi risponde.
4. Gli uomini comunicano in modo sia digitale (parole, i numeri sul display dell’orologio) che analogico
(immagini, simboli, lancette che girano negli orologi meccanici).
5. Gli scambi comunicativi sono simmetrici e complementari. Questo assioma si riferisce al tipo di
relazione che c’è tra gli interlocutori: gli scambi comunicativi di tipo simmetrico avvengono tra persone
sullo stesso piano (ad esempio tra due amici).
Gli scambi complementari sono quelli tra persone che assumono piani diversi, come quelli tra madre e
figlio o tra lavoratore e responsabile.
Stili comunicativi
Norton, 1983  Modo in cui una persona interagisce a livello verbale e paraverbale al fine di segnalare come
il significato letterale debba essere recepito, interpretato, filtrato e compreso.
Elemento fondamentale del comportamento comunicativo e, come tale, è osservabile in un contesto
relazionale; riflette disposizioni, orientamenti, tratti personali dell’individuo che esibisce; quindi è individuale;
attribuisce un senso alla relazione in atto, più precisamente risponde a determinati bisogni relazionali; dà
forma al contenuto del messaggio, fornisce indicazioni sul modo in cui tale contenuto debba essere
interpretato; assume sfumature diverse a seconda del contesto, degli scopi, delle necessità, del tipo di
relazione.
Funzioni degli stili comunicativi:
- Dare forma al contenuto (il come): aiutano a specificare meglio il contenuto della comunicazione e ne
facilitano, quindi, la lettura da parte del ricevente
- Identità comunicativa: descrivono le caratteristiche dell’emittente, le sue intenzioni, la sua identità.
- Crea aspettative, relazioni tra i due interlocutori
I principali stili comunicativi individuati da Norton sono:
- Rilassato: caratterizzato da tranquillità, calma, fiducia in sé. La persona mostra una postura rilassata,
un tono di voce non teso, un ritmo calmo.
- Amicale e disponibile: è tipico della persona empatica, che cerca intimità e comprensione nelle
relazioni attraverso supporto, conferma, ammirazione e incoraggiamento.
- Aperto: stile tipico di chi è percepito come esplicito nell’esprimere sentimenti ed emozioni, si tratta di
una persona estroversa, espansiva ma che può sconfinare nella brutalità.
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- Di impatto: stile definito “distintivo”, cioè lascia una forte impressione sull’ascoltatore, può essere
un’impressione positiva o negativa ma comunque intensa.
- Dominante, polemico e preciso: chi utilizza questo stile appare assertivo e sicuro, mostra un
trascinante carisma attraverso il tono di voce forte, il contatto diretto dello sguardo, la brevità dei tempi
di latenza. Lo stile preciso si riferisce alle continue precisazioni nelle argomentazioni e alle frequenti
distinzioni di significato.
- Drammatico e animato: è caratteristico di chi usa sapientemente il ritmo della voce, la gestualità, le
espressioni mimiche e gioca con le emozioni e la tensione.
ASCOLTO ATTIVO
Tipo di comunicazione completa. Coinvolge aspetti comunicativi verbali e non verbali ed è espressione della
disponibilità degli interlocutori sia in termini di attenzione che di comprensione.
Facilita la costruzione di una buona relazione e fa sentire l’altro accolto.
Un ascolto attivo rappresenta l’integrazione delle capacità di:
- Attenzione
- Comprensione
- Osservazione dell’interlocutore
Lo psicologo statunitense Thomas Gordon si è occupato di comunicazione in vari ambiti (scolastico,
ambientale, nella relazione genitori-figli, per gli educatori e operatori sociali, …), ha individuato 4 fasi per
migliorare le capacità di ascolto in un colloquio:
1. Ascolto passivo: permettere all’altro di esporre senza essere interrotto, il proprio vissuto/problema, di
vista. Questa fase prevede il silenzio e la concentrazione di tutte le capacità attentive.
2. Messaggi di accoglimento e cenni di attenzione: Indicano all’altro che lo stiamo seguendo e
ascoltando, possono essere:
- Non verbali (cenno della testa, sorriso)
- Verbali (“Ti ascolto”, “sto cercando di capire).
3. Espressioni facilitanti: incoraggiano l’altro a parlare e ad approfondire quello che sta dicendo; non
valutano ne giudicano.
4. Ascolto attivo: “Riflette” il messaggio all’altro, recependo solamente senza emettere ulteriori messaggi
personali. In questo modo l’altro si può sentire oggetto di attenzione, non subisce valutazioni negative
e può trovare da solo l’eventuale soluzione ai suoi problemi.
Esempi di frasi che introducono l’ascolto attivo:
- Ti senti …
- Dal tuo punto di vista…
- Mi stai dicendo che …
- Sembra che tu …
- Mi pare di capire …
- Vediamo se ho capito …
Esempi di frasi che facilitano l’espressione e il racconto di sé nell’interlocutore, inducono l’altro a raccontarsi o
a spiegare meglio il suo pensiero, l’evento che si sta descrivendo.
Questo aiuta la comprensione non sono nel ricevente ma anche nell’emittente che, dovendo spiegare meglio,
potrà approfondire ed aumentare il livello di consapevolezza.

I più semplici I più espliciti


Capisco Raccontami
Davvero Di che si tratta
Ah! Spiegami meglio
Non mi dire Vorrei sapere cosa ne pensi
Ma guarda un po'… Ti va di parlarne?
Ah, si, eh? Cosa vuoi dire
Ma veramente Dimmi tutto – Parla, ti ascolto
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I messaggi in prima persona sono più efficaci perché chi parla si assume la responsabilità del proprio stato
d’animo e lo esprime apertamente, lasciando all’altro la responsabilità del proprio comportamento.
I messaggi in prima persona evitano l’impatto, negativo e permettono all’altro di sentirsi considerato piuttosto
che risentito e arrabbiato.
Più precisamente, i messaggi “io”:
- Possono con molta facilità sollecitare la volontà di cambiamento
- Riducono al minimo la valutazione negativa dell’altro
- Non pregiudicano il rapporto
Molti dei messaggi con il “tu” hanno i seguenti effetti:
- Concentrano l’attenzione sull’altro
- Scaricano la responsabilità di quanto accade sull’altro
- Sono quasi sempre recepito dall’altro come valutazione negativa di sé stesso.
(Smettila, non dovresti comportarti così, non ti permettere mai più di, e non la smetti, perché fai così, sei
tremendo! ti stai comportando come un bambino, vuoi attirare l’attenzione, …).

Fasi del messaggio – io


1. Descrizione senza giudizio cioè occorre far capire all’altro di cosa stiamo parlando, qual è la
situazione o il comportamento a cui ci stiamo riferendo che prova il problema, ad esempio:
- “Quando trovo le carte in disordine” oppure “se sono interrotto mentre sto parlando”
L’uso di “quando” e “se “chiarisce che il problema è legato alla situazione (non alla persona).
2. Effetto tangibile e concreto: occorre definire e descrivere le conseguenze che il comportamento
dell’altro provoca su di noi. (“Devo passare del tempo a sistemarle” o “Devo riprendere continuamente
il filo del discorso”).
3. Reazioni agli effetti è la dichiarazione dei sentimenti provati da noi (mi disturba, mi procura fastidio, se
lasci in giro i tuoi documenti, posso confonderli e sbagliare ad archiviarli, quindi temo di non fare bene
il mio lavoro).
Anche un messaggio in prima persona può provocare dispiacere, imbarazzo, pianto, …
- Di fronte alle reazioni dell’altro, possiamo accettare queste e avviare l’ascolto attivo, non insistendo
ancora sui messaggi in prima persona.
- Se il sentimento nel nostro messaggio “io” è la collera le cose sono più complesse (la collera deriva da
un sentimento primario) perché bisogna lavorare per riconoscere ed esprimere in modo produttivo e
non distruttivo i sentimenti primari (paura, senso di prevaricazione, insicurezza).
- Gestire i rischi: il messaggio “io” comporta l’esporsi e questo determina l’assunzione di responsabilità
e una possibile modificazione di sé. È un’opportunità di crescita personale.
- Progressivamente anche l’interlocutore impara ad utilizzare i messaggi in prima persona. Si genera un
circolo virtuoso e la comunicazione diviene sempre più arricchente ed efficace.

CONFLITTO E COMUNICAZIONE IN ADOLESCENZA


L’adolescenza è definita da molti autori come l’”età incerta”.
I cambiamenti in età adolescenziale definiscono trasformazioni molto significative e riguardano:
- Corpo
- Mente
- Modalità relazionali sia nei confronti dei pari sia degli adulti di riferimento.
- Aspetti progettuali
Uno dei compiti di sviluppo in adolescenza è il processo di separazione – individuazione, in cui:
- L’adolescente inizia a percepirsi come differente dalle figure genitoriali e avvia un processo
identificatorio che lo porta distante dalle identificazioni precedenti
- L’adolescente avvia momenti di allontanamento fisico e psichico dai genitori
Secondo la definizione di Anolli, l’uomo è un essere comunicante cioè la comunicazione fa parte dell’essere
umano in modo costitutivo e non opzionale.
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Adolescenza e trasgressione sono costitutivamente legate: un ragazzo per crescere deve mettere in
discussione le regole che gli adulti hanno insegnato e che egli ha interiorizzato durante l’infanzia, per poterle
far proprie, per modificarle o per rifiutarle (Maggiolini, Riva, 1999).
Secondo una prospettiva relazionale il conflitto è la situazione in cui due o più individui si trovano in
disaccordo perché le loro posizioni, interessi, necessità, desideri o valori sono incompatibili o percepiti come
tali.
Le relazioni tra le parti possono uscirne rinsaldate o deteriorate in relazione al processo di soluzione.
In fase adolescenziale, uno dei compiti di sviluppo riguarda la richiesta di autonomia e il processo di
separazione ed individuazione del sé.
Solo attraverso il confronto, anche aspro, si avviano processi di ristrutturazione dell’identità dell’adolescente e
dei rapporti famigliari della nuova fase del ciclo di vita della famiglia.
I motivi di discussione spesso riguardano questioni ordinarie, quotidiane non temi valoriali o morali  non si
arriva ad intaccare il legame affettivo profondo.
Il sé aggressivo adolescenziale si contrappone all’autorità, al mondo adulto per chiedere spazi di autonomia,
la possibilità di sperimentarsi come differenti dai genitori.

Il conflitto non è sempre negativo, anzi potrebbe:


- Rilevare problemi e bisogni nascosti
- Migliorare il livello di consapevolezza di coloro che lo vivono
- Aprire la strada al cambiamento
- Condurre a riconoscere l’esistenza della diversità
- Aiutare l’emancipazione delle costrizioni
- Facilitare la definizione dei ruoli
- Riequilibrare i sistemi psichici relazionali

I presupposti per il risolvimento dei conflitti


1. Coinvolgimento dei partecipanti
2. Stimolazione del confronto interpersonale
3. Responsabilità di assumere una decisione in relazione alla disputa
4. Percezione del conflitto e delle diversità come elementi generativi e di confronto, occasioni di crescita
5. Riconoscimento del valore dell’altro, nella sia diversità e complessità, nella sua indispensabile
presenza, perché esista una relazione (educare alla responsabilità verso l’altro).
6. Non ragionare in un’ottica di vincitori e vinti, ma pensare ad un’occasione in cui tutti vinciamo e
cresciamo
7. Comunicazione e ascolto

Stili educativi genitoriali


Gli stili educativi sono modalità educative e di accudimento cui i genitori svolgono la propria funzione e si
rapportano ai figli. Ogni stile genitoriale è influenzato dalle caratteristiche del figlio e del genitore, dalle
credenze genitoriali e dai modelli socioculturali di riferimento.
Orientano la costruzione della relazione coi figli, influenzano lo sviluppo sociale e il percorso di
socializzazione.
Gli stili educativi genitoriali presentano due dimensioni:
1. Controllo  espresso dalle richieste dei genitori per sollecitare comportamenti maturi.
2. Supporto  azioni genitoriali che favoriscono individualità e affermazione dell’identità.
Gli stili educativi genitoriali possono essere:
a. Stile autoritario  pretende obbedienza e offre poche spiegazioni, impone regole inflessibili, è
direttivo nelle scelte del figlio, evita le comunicazioni a due vie.
b. Stile permissivo  non è severo ed è poco coerente nel mantenere la disciplina, non offre regole né
limiti, soddisfa tutti i desideri del figlio, ascolta spesso distratto le comunicazioni del figlio.
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c. Stile trascurante  disimpegnato, non sente la responsabilità educativa, non offre sostegno né
affetto, è disinteressato alle attività, ai pensieri e alle emozioni del figlio, scoraggia il dialogo e una
comunicazione a due vie; non tiene conto delle opinioni e dei sentimenti del figlio.
d. Stile autorevole  dà spiegazioni circa le decisioni che assume, offre regole e limiti, mostra i
sentimenti e ascolta e dialoga con il figlio in modo empatico e valorizzandolo.

Vi sono alcuni atteggiamenti e stili genitoriali che facilitano il superamento del conflitto con figli adolescenti e
permettono una crescita sufficientemente armonica dei ragazzi:
1. Stile autorevole  equilibrio tra richieste e sollecitudine; scambi comunicativi efficaci.
2. Disposizione all’ascolto attivo
3. Funzione di guida e sostegno (presenza sicura e rassicurante, un punto di riferimento.
4. Chiarezza dei ruoli educativi
5. Importanza di dire no e porre limiti.
Abbiamo visto nelle lezioni precedenti come la comunicazione sia: “Scambio interattivo, osservabile tra due o
più partecipanti, dotato di intenzionalità reciproca e di un certo livello di consapevolezza, in grado di far
condividere un significato sulla base di sistemi simbolici e conversazionali di significazione e di segnalazione
secondo la cultura di riferimento.
Secondo Beatson le persone “sono” in comunicazione e giocano sé stessi e la propria identità. Ogni scambio
comunicativo implica un’interazione concreta tra due o più persone e determina il tessuto che crea, modifica e
rinnova i legami tra soggetti.
La comunicazione diventa base costitutiva dell’identità e delle reti di relazioni in cui ciascuno è inserito.
Spesso gli adolescenti cercano modalità di comunicazione ed espressione di sé particolari (tatuaggi, graffiti,
stili di vita, diario intimo e poesie oppure internet e social network).

Il conflitto viene generalmente definito come un confronto acceso, di carattere vario e non definito: può essere
verbale, fisico o figurato.
Alla base di questa dinamica gioca un ruolo fondamentale la modalità comunicativa utilizzata dai soggetti;
essa, infatti, oltre ad essere il mezzo con il quale il conflitto si protrae, spesso è anche la causa del suo
avviarsi. Le incomprensioni e difetti di comunicazione ne sono infatti le ragioni più frequenti.
Alla base di ogni conflitto vi è una relazione. Questa affermazione è importante perché definisce il reale punto
di partenza di una comunicazione che evolve negativamente. Qualsiasi interazione, infatti, anche se
prevalentemente informativa, è rappresentante e portatrice della relazione che si crea tra gli interlocutori.
Definizione: “Il conflitto si esplicita in situazioni in cui nella discussione si intrecciano aspetti di tipo più ampio
del contenuto di ciò che si sta discutendo, tali da sfuggire alla specifica finalità della discussione, mettendo in
gioco l’aspetto relazionale del contendere” (Mizzau, 2002).
Non tutti gli scontri sono conflitti; abbiamo visto che l’aspetto di relazionalità già opera una discriminazione:
spesso discussioni o litigi, ad esempio, sono la causa di un conflitto, ma non lo rappresentano.
IL conflitto aperto si manifesta in scontri diretti, a livello verbale e non verbale, litigi, manifestazioni aggressive
o di rabbia: è esplicito.
Il conflitto coperto si articola in un sottile piano volto a colpire l’altro in maniera studiata e diretta, in profondità.
Si tratta di una modalità implicita.
La spiegazione primaria dell’origine di un conflitto risiede nel livello comunicativo: la funzione interattiva della
comunicazione prende forma andando in due direzioni che, però, si allontanano progressivamente fino a
divenire opposte.
Da una parte, la propensione a costruire e mantenere uno stato di quiete ed armonia. Qui la ricerca del
consenso porta alla condivisione e all’accettazione dell’altro e delle sue opinioni. Dall’altra, la motivazione
all’autoaffermazione porta il soggetto a mettere in secondo piano la condivisione e l’armonia per prevalere
sull’altro.
La comunicazione diviene così strumento atto a portare avanti le esigenze individuali e il procedere nella
seconda direzione incrementa la portata emozionale e cognitiva, generando in questo modo il conflitto.
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Il conflitto implicito si attua in maniera spesso ambigua e non chiara, proprio in virtù del fatto che lo scopo degli
interlocutori, pur essendo ben evidente, rimane su un piano nascosto a livello dichiarativo.
Le strategie tipiche di questa tipologia di conflitto si attuano in modi che permettono grande libertà di
interpretazione, che, nella fattispecie ha una duplice conseguenza: da un lato consente di ripararsi dagli esiti
negativi e rischiosi della conflittualità esplicita, dall’altro salva, in apparenza, dignità e credibilità dell’altra
persona, non evidenziando bruscamente quanto invece detto in maniera subliminale.
Le strategie per mettere in atto un conflitto possono essere:
Fare intendere nello scambio verbale, vengono utilizzati termini che suonano come “presupposizioni”, oppure
che rivelano intenzioni differenti da quelle evidenti (es. “Potresti almeno darmi una mano”).
Sottintendere: viene intenzionalmente omessa qualche informazione rilevante ai fini di una comprensione
corretta. Viene violato il principio di cooperazione di Grice (1967), secondo il quale il contributo del soggetto
alla conversazione deve contenere informazioni di quantità, qualità, relazione o pertinenza e modo sufficienti
ad una comprensione corretta e completa.
Dare ad intendere: in questa categoria rientrano le risposte intenzionalmente fuorvianti: le intenzioni sono
mascherate o la verità omessa. Il bluff al gioco ne è un esempio.
Impertinenze comunicative: vengono presi alla lettera modi di dire o affermazioni non pertinenti ma
contestualizzate. In questo modo si innesca un processo polemico o di difficile comprensione che genera il
conflitto.
Volontà di non capire: all’esposizione chiara es esplicita di un concetto (disturbante per il ricevente) viene data
una risposta intenzionalmente non pertinente, in grado di fuorviare il discorso.
Malinteso provocatorio: fraintendimento intenzionale, in certi casi mascherato ma in modo del tutto evidente
anche all’interlocutore (es. “Posso aver capito male” “si, senza dubbio”).
Fingere di non capire: questa strategia consiste nel dichiarare una mancata comprensione, rendendo invece
implicitamente evidente il contrario. Questo atteggiamento costringe l’interlocutore a ripetere, pur essendo
infastidito e generando così uno scambio comunicativo conflittuale.

CONFLITTO PROLUNGATO
La perpetuazione e il prolungamento della situazione conflittuale avvengono specialmente tra soggetti con
relazioni interpersonali durature e stabili e con un certo grado di conoscenza. Queste circostanze consentono
lo svolgersi e l’evolversi del conflitto “a più riprese” e con differenti modalità di attuazione.
È comunque anche possibile il verificarsi di un conflitto “prolungato” tra persone non legate da relazioni di
continuità: in questo caso ogni occasione di incontro viene impostata su una logica comunicativa conflittuale.
Obliquità comunicativa  il bisogno e la preferenza di innescare un conflitto ma senza esporsi
eccessivamente porta a mettere in atto strategie che rientrano nel concetto di conflitto implicito
precedentemente trattato. La forma di comunicazione dell’obliquità comunicativa nasce dall’innescarsi del
contenuto del messaggio e della relazione esistente tra interlocutori.
All’interno di questa categoria distinguiamo:
- La generalizzazione: parlando per il tutto riferendosi al particolare
- La perpetuosità: opposta alla precedente. Le accuse sono formulate a partire da un particolare per
stigmatizzare una serie o la ripetizione di atteggiamenti della stessa categoria.
- Dire l’opposto: viene violata la massima di quantità di Grice
- Parlare d’altro: il focus del discorso viene spostato del tutto
- Silenzio: caso estremo, molto eloquente nelle intenzioni
Circolarità  ogni comportamento è causa del comportamento dell’altro e viceversa. Si innesca così un
circolo vizioso di attribuzioni negative all’interlocutore e giustificazioni personali dal quale è difficile uscire.
La profezia che si autoavvera  il pensiero costante o la paura che si avveri qualcosa di immaginato porta a
mettere in atto comportamenti per cui l’avvenimento temuto si verifica effettivamente nella realtà.
Impegno ed evitamento  Il conflitto tra intimi si instaura lungo un continuum i cui estremi sono rappresentati
dall’impegno e dall’evitamento. Da una parte, infatti, si tende a ricercare un confronto verbale che sia
immediato e aperto, mentre dall’altra c’è la tendenza ad evitare il conflitto, e in particolare, le sue conseguenze
perlopiù negative.
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Si mettono in atto così, comportamenti di allontanamento. Il giusto equilibrio tra questi due estremi avvicina i
contendenti alla volontà di risoluzione.

LA RISOLUZIONE
Nella conclusione di un conflitto sono presenti moltissimi aspetti che coinvolgono il soggetto su più livelli.
Contrariamente alle fasi precedenti, infatti, non sono soltanto la valutazione emozionale e quella cognitiva a
dominare le azioni svolte, ma anche la previsione e la gestione di un piano e delle conseguenze a breve e a
lungo termine. La decisione di dirigersi verso una soluzione positiva o negativa per sé e per gli altri (o una non
– soluzione) determinano un’attivazione globale delle risorse dell’individuo.
È stato frequentemente verificato a livello sperimentale che si tende a privilegiare la scelta di proseguire con il
conflitto piuttosto che quella di trovare una soluzione. Un’altra modalità molto frequente è il mantenimento di
una situazione bloccata, una sorta di “pausa” che si rivela risolutrice. Questa avviene specialmente nei conflitti
a carattere episodico, che sono più frequenti, e che vedono coinvolti soprattutto componenti di un gruppo ben
definito (famiglia).
Tale comportamento si verifica anche perché, in questi casi, data la vicinanza, si attende che il conflitto venga
cancellato da altri eventi o aspetti di maggiore rilevanza nel contesto.

Modalità risolutive dei conflitti episodici


Sono state individuate (Vuchinic, 1990) alcune modalità risolutive relative ai conflitti di carattere episodico:
1. Sottomissione  un soggetto accetta totalmente la posizione della controparte
2. Sottomissione dovuta ad una terza parte dominante  l’intervento di un esterno superiore risolve a
favore di una parte.
3. Il compromesso  incontro intermedio tra i contendenti. Entrambi concedono qualcosa in cambio di
qualcosa.
4. Lo stallo  vengono mantenute le posizioni di partenza sospendendo il contendere
5. La ritirata  l’abbandono (anche reale) da parte di un contendente del piano comunicativo –
conflittuale.
Generalmente la strategia maggiormente adottata è lo stallo; seguita da sottomissione, compromesso,
intervento di terzi e ritirata.
Il dialogo  nonostante sia opinione comune che riuscire ad affrontare il problema in maniera
metacomunicativa (parlare dell’argomento del contendere) possa essere la giusta strategia risolutiva, non
sempre questo si verifica nella realtà.
La causa di questa difficoltà può essere riscontrata nel fenomeno della simmetria competitiva (Mizzau, 2002):
chi propone l’argomento si colloca in posizione dominante ed è frequente he nell’altro si inneschi un
comportamento difensivo, quindi conflittuale. Ecco allora che, invece di risolversi, il conflitto si intensifica.

Cambio di livello
Una strategia particolare, ma spesso vincente è portare la comunicazione su un altro piano: il passaggio da
quello conflittuale, di scontro, a quello complice di gioco o di scherzo si rivela una tra le modalità risolutive con
frequente esito positivo.
Ironia, paradosso e gioco interrompono bruscamente la dinamica obbligando i partecipanti a bloccarsi per
comprendere un evento inaspettato. Proprio quest’ultimo, se anche piacevole, ridefinisce ruoli e posizioni e
permette di trovare un punto di incontro o di accordo per ripartire con una comunicazione basata su premesse
diverse.

COMUNICAZIONE NON VERBALE


La comunicazione nella sua complessità comprende sistemi di significazione e di segnalazione molto diversi
tra loro. All’interno delle possibili differenziazioni tra vari sistemi, una risulta particolarmente importante, anche
ai fini di una migliore comprensione degli esiti comunicativi, quella tra:
- Comunicazione verbale
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- Comunicazione non verbale (CNV), chiamata anche comunicazione extra – linguistica e comprende
un insieme molto ampio di processi comunicativi
I sistemi che compongono l’insieme della comunicazione non verbale si intersecano nell’elaborazione di un
significato (cosiddetta porzione di significato) che è parte della configurazione finale.
Il rapporto che esiste tra i due sistemi è di intersezione: il codice linguistico, espressione della comunicazione
verbale, si appoggia ad una serie di sistemi non verbali di significazione e segnalazione che permettono la
creazione e l’identificazione di un messaggio globale.
A livello teorico vi sono due prospettive che si contrappongono:
1. L’ipotesi della contrapposizione dicotomica tra linguistico ed extra – linguistico: non contempla
l’intersezione tra sistemi linguistici ed extra – linguistici.
2. L’ipotesi dell’autonomia dei sistemi non verbali e relativa interdipendenza semantica: teorizza
un’interdipendenza tra i diversi sistemi caratterizzata però dall’autonomia degli stessi.

L’ambito comunicativo verbale, costituito dal linguaggio, parole e significati, non ha un’articolazione precisa e
standard. Esso, infatti, raccoglie in sé aspetti culturali e contestuali specifici che sfociano nel campo dell’analisi
del discorso.
Le aree di pertinenza della comunicazione verbale sono:
- Linguaggio
- Parole
- Relativi significati
Le aree di pertinenza della comunicazione non verbale sono:
- Espressioni e gesti del corpo
- Espressioni del viso
- Postura
- Aspetti vocali non verbali (tono, intensità della voce, …)
- I segnali che contribuiscono a dare significato alle parole eventualmente pronunciate

La comunicazione non verbale si riferisce alle seguenti tre aree


A. Mimica facciale: espressioni e connotazioni temporanee o stabili del volto
B. Sguardo: direzione dello sguardo, durata, reciprocità, fissazione oculare
C. Gesti e postura: gesticolare (gesti iconici), pantomima, emblemi (gesti simbolici), gesti deittici
(convenzionali ad esempio indicare), gesti motori, linguaggio dei segni, postura del corpo.
D. Prossemica e aptica: territorialità, contatto corporeo, distanza spaziale

Gli SCOPI del comportamento non verbale, in ogni sua forma di espressione:
- Rendere manifeste certe informazioni riguardanti lo stato d’animo dei protagonisti dell’interazione e il
loro atteggiamento reciproco
- Stabilire la regolazione dei turni di parola attraverso la segnalazione e anticipazione
- Rendere evidente il livello di intimità tra gli interlocutori
- Stabilire gradi di dominanza e controllo tra i progetti protagonisti dell’interazione
- Fornire una presentazione degli stessi
I comportamenti non verbali accompagnano, supportano ed enfatizzano il nucleo prettamente verbale
dell’interazione; data questa premessa, però, va sottolineato un aspetto fondamentale e sul quale si basa la
maggior parte delle teorie e degli studi sulla comunicazione non verbale: non sempre il contenuto verbale e
quello non verbale di un messaggio nel contesto di un’interazione coincidono o sono coerenti.
L’aspetto non verbale è quasi totalmente sotto il controllo volontario del parlante contrariamente a quello non
verbale. Espressioni, gesti e movimenti spesso tradiscono i pensieri e le emozioni realmente provate
nonostante i tentativi di dissimulazione fatti dal parlante.
Sono proprio i comportamenti non verbali, infatti, ad essere evidenti e salienti per l’interlocutore: è noto,
inoltre, che l’espressione del volto sia l’aspetto più semplice da controllare, ma spesso contrastante con gesti
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e movimenti che denotano l’esatto contrario rispetto a ciò che il soggetto vuole mostrare.

Alcuni aspetti fondamentali della comunicazione non verbale sono: la prossemica, la cronemica e la postura,
aptica e sguardo.
Prossemica
Studio delle modalità con cui l’individuo percepisce e utilizza lo spazio che circonda. La distanza tra emittente
e ricevente del messaggio è un fattore che influenza la stessa interpretazione del messaggio.
In quest’area di studio in particolare è importante tenere presente le differenze che esistono tra le varie culture
nell’intendere questo concetto. È stato infatti dimostrato che la percezione e l’uso dello spazio hanno un tasso
di variabilità interculturale molto ampio.
Nell’analisi della comunicazione non verbale lo spazio viene diviso in 4 categorie a seconda della prossimità
del soggetto. Lo spazio è dunque:
- Intimo
- Personale
- Sociale
- Pubblico
La distanza tra gli interlocutori dipende anche dal genere, dallo status e dal ruolo sociale.
A livello evolutivo le origini della prossemica possono essere ricercate nella territorialità tipica degli animali. Gli
studi comunicativi a riguardo sono partiti dalla definizione di questa modalità di relazione che, tipica degli
animali, ha precise corrispondenze negli umani.

Cronemica
Questo ambito di studi riguarda l’utilizzo del tempo in contesti di comunicazione non verbale.
Il modo di usufruire del tempo e il modo di percepirlo e gestirlo sono aspetti che descrivono e definiscono
l’interlocutore. Puntualità e disponibilità di attesa, velocità dell’eloquio e durata sono gli elementi costitutivi da
valutare in sede di ricerca in questo ambito. La collocazione temporale e la frequenza di un’azione sono fattori
rilevanti nell’interpretazione dei messaggi non verbali.
Si possono identificare due modalità dominanti di gestione e percezione del tempo:
- Monocronica: il fattore tempo è considerato molto importante ed è caratterizzato da organizzazione
precisa e schematica. Viene scandito da eventi programmati ed è visto come qualcosa che può
essere controllato volontariamente o sprecato.
La tendenza è quella di compiere una sola azione alla volta. Questa modalità è tipica del Nord Europa
e del Nord America.
- Policronica: qui viene valutato maggiormente il coinvolgimento personale rispetto all’organizzazione e
l’enfasi è posta sull’aspetto relazionale più che sul controllo.
Questa modalità è tipica dei paesi orientali e del sud America.

Postura
Nella comunicazione non verbale la postura è un indice significativo per determinare il grado di risorse
attentive del soggetto e del suo coinvolgimento nell’eventuale interazione.
Gli studi hanno dimostrato come sia importante a livello relazionale la congruenza tra gli interlocutori: si parla
di immagine specchio e di posture complementari per spiegare la tendenza imitatrice e compensatrice dei
comunicati negli atteggiamenti.
La postura viene valutata attraverso i seguenti indicatori:
- Orientamento del corpo
- Chiusura
- Direzione del busto
- Posizione delle braccia
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Aptica
Lo studio del contratto da un punto di vista comunicativo. Tutti quei gesti che quotidianamente vengono fatti a
livello personale ed interpersonale sono un importante veicolo di messaggi. Essi possono essere: tenersi per
mano, stringersi, baciarsi, utilizzare gesti convenzionali (“dammi il cinque!” o “pacca sulla spalla”), grattarsi un
braccio, …
In un contesto comunicativo, questi comportamenti sono considerati come adattatori e veicolano messaggi
che svelano intenzioni, sentimenti e pensieri.
Fondamentale in questo ambito è la considerazione dell’intensità e del contesto, sia situazionale sia culturale,
per poter dare un significato pertinente all’azione.

Sguardo
Lo studio del contatto oculare e del movimento degli occhi è un ambito di ricerca tra i più significativi nel
contesto della comunicazione non verbale.
Di questa categoria fanno parte:
 Guardare durante la conversazione
 Frequenza e velocità dell’occhiata
 Sbattere le palpebre
 Dilatazione della pupilla
 Movimenti muscolari orbitali
 Reciprocità
 Fissazione oculare

La comunicazione vocale
I segni paralinguistici sono essenziali per capire appieno un dialogo e, allo stesso modo, non si può
comprendere totalmente un discorso senza considerare i segni soprassegnati o prosodici, che risultano cioè
dall’applicazione delle categorie musicali alla catena parlata.
Tutto ciò acquista notevole rilevanza, non tanto in un normale contesto, ma soprattutto prosodia tipica del
linguaggio oratorio, che attiva tutta una gamma di tratti soprasegmentali.
Ci si riferisce qui ad alcune categorie paramusicali come:
- Volume o intensità di voce
- Altezza o livello della linea melodico – recitativa
- Attacchi e clausole
- Enfasi o foga con cui la frase è pronunciata
- Ritmo o velocità con cui si susseguono le varie unità dell’enunciato
- Legatura e spaziatura delle sillabe
- Alterazione della pronuncia di certe vocali e consonanti.
Fondamentale è il ruolo delle pause, sia piene sia vuote. Esse costituiscono infatti un organico codice con gli
altri elementi linguistici.
Le pause piene contengono:
- Vocalizzi
- Respiri o altri effetti
Le pause vuote prevedono l’interruzione silenziosa dell’eloquio.
La pausa riesce spesso a legare più di una congiunzione: riesce a creare infatti un’attesa che, gestita e
studiata, risulta essere una saldatura.
Inoltre, allungando l’attesa rende più soddisfacente l’esaudimento.
In questo gioco di parole e silenzi è naturale la rilevanza dell’aspetto del tempismo. Una pausa troppo lunga è
snervante, una troppo breve insufficiente a rendere l’aspetto che si vuole.

Gesti
Un gesto è qualsiasi movimento corporeo, non vocale, volto ad esprimere qualcosa e dotato di significato a
seconda del contesto, dell’intenzione e della soggettività di chi lo compie.
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I gesti sono molto frequenti a livello delle mani, ma possono essere svolti con tutto il corpo, con le braccia e
includono movimenti della testa, del viso e degli occhi.
Il legame tra gesti e linguaggio è fortissimo tanto che la comunicazione verbale e quella non verbale si
coordinano in virtù della presenza dei gesti.
Ottenheimer (2007) ha elencato cinque tipologie di gesti:
1. Emblemi sono gesti che significano qualcosa di per sé: sono una traduzione dell’aspetto comunicativo
verbale.
2. Gesti illusori mimano l’evento o l’oggetto inteso, per ottenere chiarezza maggiore
3. Gesti affettivi manifestano emozioni provate
4. Gesti regolatori forniscono una cadenza all’interazione
5. Gesti adattatori, tipo autocontatto o tic, riempiono il contesto relazionale

Un’ulteriore differenziazione può essere operata tra gesti:


- Connessi al discorso
- Indipendenti dal discorso
Interpretazione di questi ultimi dipende dalla cultura di appartenenza e hanno una traduzione immediata a
livello verbale. I primi invece forniscono informazioni supplementari destinate all’approfondimento di un
messaggio verbale. Non hanno significato se valutati in maniera acontestuale.

CONCETTO DI DISCORSO
Possiamo definire il sapere scientifico come un particolare linguaggio che ha come scopo quello di dare
spiegazioni, certe ed attendibili, nei vari ambiti della realtà.
La svolta portata dal recente dibattito epistemologico comporta la concezione delle discipline scientifiche come
universi di discorso, soggetti a continue riformulazioni ed esposti a conflitti di interpretazioni.
Ogni sapere scientifico è una pratica discorsiva regolata da specifiche procedure di produzione di senso o
significazione. (Anolli, 2002).
Discorso = atto del discorrere, esprimere il pensiero per mezzo della parola.
In un senso più specifico con il termine discorso si fa riferimento al parlare di qualcuno. Discorso = pratica di
costruzione di senso con la quale una particolare persona fa valere la sua unicità nel sistema di relazioni che
lo lega al mondo.
Nella tradizione della civiltà occidentale troviamo parole che definiscono in modo ambiguo, e mai univoco, la
capacità specifica dell’individuo di usare il linguaggio.
In greco logos vuol dire parola, ma anche RAGIONE.
Il discorso nella cultura occidentale ha dunque una doppia responsabilità: quella di dare consistenza e validità
alla razionalità e quella di prendersi cura degli eventi.
In conclusione, possiamo dire che: definendo il discorso si passa dalla risposta più semplice (linguaggio in
uso, pratica del parlare), a quella più completa di qualsiasi procedura umana di produzione di senso, questo ci
fa rendere conto di come la società umana sia costruita discorsivamente anche mediante pratiche talvolta
silenziose (Anolli, 2002).
Linguaggio  Discorso
Psicologia Moderna: il linguaggio come metafora dello specchio
Psicologia Postmoderna: discorso come metafora della ragnatela
Lo spostamento terminologico da linguaggio a discorso dimostra il diverso valore assegnato all’agire
comunicativo e all’ordine simbolico come oggetto delle scienze umane, e in particolar modo della psicologia.
Nella psicologia moderna il linguaggio viene rappresentato con la metafora dello specchio, questo perché si
ritiene che il parlare umano faccia vedere qualcos’altro:
- Organizzazione della mente
- Struttura della società
- Flusso delle culture
Nella psicologia postmoderna la parola discorso viene comparata alla metafora della ragnatela, in quanto, si è
rilevato che il parlare è un’azione di tessitura autopoietica, da cui le persone attingono il senso globale della
29

loro identità e della loro appartenenza ad una comunità socioculturale.


La svolta discorsiva può essere considerata come una seconda rivoluzione cognitiva per le scienze umane in
generale e in particolar modo per la psicologia, in quanto focalizza l’attenzione sulla ricerca del significato che
le esperienze hanno per gli esseri umani (Bruner, 1990).
La proposta della concezione postmoderna del mondo significa mettere in discussione l’ opzione
sociocostruzionista (realtà come costrutto; realtà è un effetto di senso prodotto dalla prospettiva utilizzata nelle
pratiche discorsive attivate dall’uomo).

 Scienza moderna: concezione oggettivistica, l’universo esiste indipendentemente da noi e solitamente


nei nostri discorsi ci riferiamo ad oggetti che esistono per proprio conto nella realtà e che si possono
conoscere in modo oggettivo.
 Costruzionismo sociale: sono le pratiche discorsive che danno le basi di riferimento di ciò che le
persone considerano come reale nei loro rapporti.
Alcuni socio-costruzionisti (Edward, Gergen, Pottere e Shotter) hanno trasformato l’accusa di relativismo in un
punto di forza, e sostengono la plausibilità del relativismo. La capacità umana non potrà mai cogliere come le
cose stanno oggettivamente. La realtà si dissolve nella rete dei discorsi.
Altri studiosi (Harré e Parker) rilevano come gli apparati conoscitivi della realtà non si possono staccare né
dall’adozione di un dato punto di vista né dai formati culturali in cui si trovano le pratiche discorsive.
Detto ciò, essi sostengono che è possibile trasformare l’oggettivismo del senso comune, in realismo critico
della persona (che è consapevole che la propria conoscenza ha delle potenzialità, ma anche dei limiti).

All’interno del costruzionismo sociale, negli ultimi 30 anni, è nato un orientamento di studio noto come Analisi
del Discorso (AD).
L’AD è una prospettiva di indagine sulla comunicazione (comunicazione intesa come una serie di pratiche in
grado di attivare vari sistemi di segni). I suoi assunti di base sono:
 Natura socio – costruttiva della conoscenza (forma, cultura e contenuto dei processi cognitivi sono
situati nella storia e nella cultura di una data comunità).
 Carattere intenzionale del significato ( azione intra individuale dell’intenzione di senso è legata con le
dinamiche interindividuali realizzate dai discorsi).
Partendo dal paradigma di Chomsky si possono evidenziare due principali direzioni di ricerca che hanno
permesso nuovi percorsi di indagine caratterizzabili come AD.
- Linguistica testuale  pone l’accento sull’assetto gestaltico del parlare, inteso come il prende forma
in unità strutturate, che organizzano le procedure di connessione degli elementi linguistici in base alle
attese di coerenza e coesione della propria mente.
- Pragmatica linguistica  sottolinea la natura di azione del parlare e il suo radicarsi inevitabile nel
contesto.
M. Foucault con la sua lezione inaugurale tenuta al Collège de France (1971) fornisce un manifesto
programmatico per l’AD.
In tale discorso affronta questi interrogativi: dove, quando, perché, come comincia e finisce un discorso?
La difficoltà nel rispondere a questi interrogativi sta nel fatto che il termine discorso è un termine ambiguo; gli
esseri umani sono sia soggetti che oggetti della parola. Allo stesso modo sono sia capaci di determinare un
assetto enunciativo sia inermi rispetto alle prescrizioni che escludono quanto è socialmente sgradito alla sfera
del dicibile (Anolli, 2002).
L’idea principale di Foucault è quella di rintracciare la trama che collega la produzione dei discorsi alle forme
di potere.
La capacità discorsiva umana viene intesa come una decisone all’ordine, e quindi ogni categorizzazione si
traduce in prescrizione (il discorso è nell’ordine delle leggi).
Foucault mette l’accento sui meccanismi di controllo e di esclusione che le società di discorso esercitano
stabilendo ordinamenti e gerarchie.
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La situazione linguistica ideale


Habermas (1971), filosofo tedesco, alla nozione di discorso collega l’aspirazione per un’etica sociale basata
sulla competenza comunicativa liberata dall’ossessione del potere.
Gli esseri umani con il discorso, secondo l’autore, sono tenuti a cercare una definizione che sia contestuale di:
vero, giusto e bello, in questo modo si veicolano l’un l’altro all’andamento dell’argomentazione.

Altro autore importante per l’AD è Van Dijk. Il suo lavoro si inserisce in una particolare direzione di ricerca
etichettata come Analisi Critica del Discorso (ACD).
L’ACD è indirizzata a far risaltare la tensione demistificatrice che dovrebbe animare qualsiasi indagine sul
nesso tra le pratiche enunciative di senso e l’ideologia dell’organizzazione sociale di appartenenza (Anolli,
2002).

ETNOMETODOLOGIA
Etno: conoscenza etnica; propria del senso comune; relativa alla società cui si appartiene e che ciascun
individuo possiede.
Metodologia: ragionamento pratico a cui ricorrono i membri di una società nel costruire e valutare azioni ed
eventi.
Essa intende esaminare la capacità degli individui di produrre ed interpretare l’interazione sociale in base a
comuni schemi socioculturali (Anolli, 2002).
Focus dell’attenzione: pratiche quotidiane
Obiettivo: esplicitare gli aspetti impliciti che in tali pratiche si danno per acquisiti da parte dei partecipanti.
Assunto di partenza: le attività attraverso cui le persone producono e gestiscono le relazioni quotidiane,
all’interno di una comunità, sono identiche ai procedimenti usati dai membri della comunità medesima per
renderle spiegabili (Anolli, 2002).
Due sono le caratteristiche delle pratiche quotidiane:
1. Indessicalità  le attività pratiche sono indissolubilmente legate al contesto di uso, e il loro significato
è strettamente dipendente dalle condizioni contestuali.
2. Riflessività  supera la dicotomia tra il fare società e lo spiegare la società; non esiste una società
(che fa) e una meta società (che riflette sulla prima e la spiega). La società è una sola e fornisce le
categorie sia per interagire sia per interpretare.

Garfinker (1967) ha studiato le regole che governano la conversazione e ha definito le procedure ad hoc e le
pratiche di glossa.
- Procedure ad hoc  servono ai soggetti coinvolti nella comunicazione per collegare ad un contesto
specifico gli aspetti razionali del proprio agire sociale, con particolare attenzione alle norme.
- Pratiche di glossa  rendere espliciti gli assunti a cui il parlante si riferisce, facendoli diventare
oggetto stesso della comunicazione.
Svolgono la funzione di disambiguare la comunicazione e di mostrare come essa vada intesa da parte
di chi vi partecipa.
Colloquio  deriva dal latino “colloqui”, parlare con, parlare insieme. Il colloquio è un’intervista fissata di
comune accordo, tra due o più persone per dare l’agio all’una di sottoporre all’altra questioni di certo interesse,
oppure uno scambio di opinioni e idee con il fine di un avvicinamento e accordo tra correnti (partiti politici) o
ancora un qualsiasi esame orale che si svolga sotto forma di conversazione che permetta al candidato di
rivelare le proprie capacità e preparazione.
Quindi la definizione del dizionario, individua il colloquio con la presenza di due persone, di cui una pone delle
questioni mentre l’altra risponde; il fatto che vi sia un accordo comune e un oggetto, un fine e uno scopo, vi sia
un clima che favorisca la conversazione, tutti questi elementi vengono accettati come costitutivi delle
definizioni tecniche che gli autori principali che si sono occupati di studiare i colloqui propongono.
Indipendentemente dalla cornice teorica di riferimento, dal punto di vista psicologico, le varie definizioni di
colloquio prendono in considerazione tutti questi elementi.
Definizione di Carli e Padovani di “Colloquio”  particolare tipo di test in cui il processo di conoscenza
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avviene attraverso il crearsi di un rapporto emotivo tra psicologo e soggetto nel corso del quale il conduttore
sospende ogni atteggiamento valutativo. Questo aspetto è importante  non ci può essere giudizio e
valutazione; il colloquio viene realizzato mediante tecniche non direttive che consentono di far sentire a
proprio agio il soggetto, in modo che questo percepisca nel conduttore disponibilità e apertura affettiva e si
senta considerato come una persona con un proprio valore ed una propria autonomia.
Secondo questi autori il colloquio ha come suoi ambiti di applicazione, quello diagnostico e quello
psicoterapeutico.
Carli e Padovani individuano ed esplicitano quegli aspetti che sono già presenti nella definizione riportata dal
dizionario e che caratterizzano il colloquio in ambito psicologico cioè:
- Motivazione
- Scopo
- Processo di conoscenza
- Oggetto (azione)
- Mezzo di scambio (parola)
Bisogna considerare la situazione dinamica motivazionale e il rapporto emotivo che si instaura tra i
partecipanti. Essa si può creare anche su basi cognitive, può svilupparsi il processo conoscitivo.
La definizione di colloquio su cui è necessario riflettere è più ambia di quella relativo all’ambito psico –
diagnostico e psicoterapeutico.
Un colloquio è un particolare tipo di strumento caratterizzato da uno scambio verbale in una situazione
dinamica di interazione psichica, che permetta lo svilupparsi di un processo di conoscenza e per raggiungere
tale obiettivo ci si basa sul consenso tra conduttore e partecipante.
Per facilitare la conoscenza, il conduttore utilizza tecniche non direttive, consente al soggetto di sentirsi
valorizzato, non sottoposto a giudizio valutativo, trattato come persona da un’altra persona di cui percepisce la
disponibilità.
Nel 1980, Trentini, introducendo il “Manuale sul colloquio e intervista” sottolinea l’assenza in Italia, ma anche
in Europa, che proponga la trattazione di questo tema; il lavoro dell’autore si poneva di colmare questa lacuna.

Sempre negli anni ’80, Quadro e Ugazio presentavano una rassegna dell’utilizzo del colloquio in ambito clinico
e sociale e, a distanza di anni dal lavoro di questi autori gli studi sul colloquio si sono ampliati e sottoposti ad
approfondimenti ed i contributi sono arrivati da discipline anche non psicologiche. Il colloquio si situa
nell’interfaccia tra diverse discipline psicologiche e diversi ambiti di ricerca che contribuiscono in maniera
parziale, a completare questo puzzle di definizioni.
Un elemento costitutivo del colloquio è la Tecnica di analisi della domanda che prevede colloqui, interviste e
questionari. Il colloquio, quindi, a differenza di un questionario, prevede un’interazione ed una modalità di
linguaggio chiaro, semplice, monitorato costantemente in quanto vi è un substrato emotivo che garantisce
quella relazione.

TESTO ED ENUNCIAZIONE
La linguistica ha fornito contributi importanti per comprendere i processi che stanno alla base delle pratiche
discorsive quotidiane in grado di attivare vari sistemi di segni in interdipendenza tra loro.
- Linguistica: scienza del linguaggio
- Morfema: in linguistica, elemento formativo che conferisce aspetto e funzionalità alle parole e alle
radici, definendone la categoria grammaticale e la funzione sintattica.
In altre parole, sono le più piccole unità dotate di significato, esprimibili in un lessico.
- Frasi: unità strutturate che organizzano, a loro volta, unità elementari (fonemi e sintagmi).

Linguistica temporale
Regole generative della testualità (De Beaugrande, Dressler, 1981):
- Coesione: rispetto dei vincoli grammaticali della lingua
- Coerenza: garanzia di reciproca accessibilità tra le componenti testuali che devono essere attinenti ad
un particolare tema
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- Intenzionalità: le componenti testuali devono essere in sintonia con gli scopi dell’enunciatore.
- Accettabilità: considerare le aspettative e le capacità inferenziali dell’auditorio a cui il comunicatore si
rivolge.
- Situazionalità: congruenza tra le componenti testuali e le circostanze
- Informatività: grado di prevedibilità di ciò che le componenti testuali propongono in base alla loro
probabilità attesta
- Intertestualità: ogni testo è riconoscibile per il sistema di somiglianze e di differenze rispetto ad altri
testi.

Psicologia dell’enunciazione
Ha come scopo quello di reperire le procedure di modalizzazione del discorso, dal momento che esse
possono valere da indicatori del legame tra il soggetto ed il suo contesto di riferimento (Anolli, 2002).
- Verbi modali (potere, dovere, volere, sapere)
- Avverbi di modo (con suffisso -mente)
Modellano l’immagine di sé che chi comunica vuole consegnare a ciò che dice.
Altro indicatore di modalità è il grado di evidenzialità (posizione epistemica del parlante rispetto alle
informazioni trasmesse).
- Marcare con certezza (è ovvio, naturalmente, certo, davvero, giusto, …)
- Marcare come credenza opinabile (forse, si dice, …)
Da qui si può deviare il profilo di identità del parlante: può presentarsi come persona sicura/ affidabile o
insicura/dubbiosa. Le procedure di modalizzazione enunciativa possono essere utilizzate come base per
individuare gli stili personali di comunicazione.
La pragmatica linguistica fornisce all’AD la nozione basilare di azione sociale.
Lo scopo è quello di reperire l’ordine intenzionale del discorso, cercando di trovare risposta alle seguenti
domande:
- Come la comunicazione verbale come attività congiunta?
- Come le persone coordinano il loro parlare?
- Che cosa fanno con il linguaggio?
- Come usano per presentare sé stessi e compiere la vita sociale?
- Che cosa rende possibile le pratiche discorsive?

Il discorso è un costrutto teorico intrinsecamente interattivo.


Quando qualcuno parla si rivolge necessariamente a qualcun altro; allo stesso modo quando ci si occupa di
discorsi si ha a che fare con soggetti parlanti in relazione.
Il discorso non può far riferimento all’intenzione individuale, ma bensì a un’intenzione condivisa all’interno
della cornice di una determinata interazione. L’ interazione discorsiva è resa possibile dall’attivazione tacita di
uno sfondo di conoscenze condivise e allo stesso tempo mira a rinnovare in continuazione un clima di
consenso e accordo.
Da qui capiamo bene come il contesto assuma una rilevanza fondamentale per poter attribuire senso ad
un’interazione discorsiva.
Uno degli studi più noti riguardo l’influenza del contesto è quello di Halliday (1978); egli analizza l’azione del
contesto sul testo a tre dimensioni:
- Campo (che cosa dice?)
- Tenore (perché dice ciò che dice?)
- Modo (come appare per come lo dice?)
Nozione di DIATESTO  mette in evidenza che il contesto non si limita a far da cornice agli enunciati, ma
penetra nell’azione dialogica dalla progettazione da parte degli interlocutori.
Il contesto, in questo senso, contribuisce non solo a precisare il significato delle singole parole e frasi, ma
anche e soprattutto il percorso di senso del discorso.
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I METODI DELL’ANALISI DEL DISCORSO


Non esiste, e non può esistere, il metodo dell’AD, ma vi sono tanti metodi per la comprensione del senso di ciò
che accade in un particolare discorso quante sono le teorie di riferimento.
Esistono diversi modi, e diverse finalità, attraverso le quali le interazioni discorsive possono essere analizzate.
La variazione dei risultati non è da intendersi come fonte di errore, piuttosto valorizzata come ricchezza
interpretativa.
Le tecniche variano in base a:
- Prospettiva d’indagine
- Obiettivi che guidano i ricercatori
Linee guida riguardo i dispositivi metodologici dell’AD
- Naturalità: le interazioni discorsive si sono effettivamente prodotte così come sono proposte per l’AD
- Contestualità: le interazioni discorsive sono situate in specifici ambienti
- Oralità: il formato orale è lo scenario primordiale e prototipico delle interazioni discorsive
- Socialità: le interazioni discorsive sono pratiche sociali
- Indessicalità: viene rispettato il sistema di categorie dei partecipanti alle interazioni discorsive
- Sequenzialità: lo svolgimento delle interazioni discorsive è lineare e coerente nella loro successione
- Costruttività: le interazioni discorsive si organizzano progressivamente per unità costruttive
- Dimensionalità: le interazioni discorsive hanno come base funzionale la ricerca del significato
- Regolarità: le interazioni discorsive vengono regolate da norme (ad esempio quelle grammaticali,
stilistiche, …).

Analisi proposizionale del discorso (APD)


Si tratta di una metodologia ibrida (tra approccio qualitativo e quantitativo) che rientra tra le metodiche
praticate dal Grupe de Richerce sur la Parole fondato da Ghiglione.
Può avvalersi di un supporto informatico (il programma TROPES) e prevede 5 fasi di realizzazione:
 Segmentazione proposizionale  testo viene scomposto belle sue macrounità sotto il profilo cognitivo
ed espressivo
 Reperimento dei referti-nodi  si individuano i sostantivi che comparendo molto frequentemente
possono svolgere una funzione strutturante della superficie testuale.
 Costruzione dei modelli argomentativi  si rilevano le principali tendenze di organizzazione del
discorso in base al prevalere di certi schemi predicativi, generati da tre classi di verbi (fattivi,
dichiarativi e stativi).
 Ristrutturazione per delinearizzazione numerica e/o testuale  riorganizzazione del testo in base a
qualche criterio quantitativo.
 Interpretazione  si prospetta un’ipotesi psicologica che possa giustificare il modo in cui è stato
prodotto quel determinato discorso

Analisi comprensiva del discorso


Questa metodologia è stata usata da Labov e Fanshel per esaminare l’impianto discorsivo della psicoterapia.
Consiste nell’estendere le sequenze testuali degli enunciati passando da: ciò che si è detto e ciò che è inteso.
Questo attraverso le informazioni ricavate da:
- Piano sintattico
- Piano proposizionale
- Piano sequenziale
- Piano biografico
- Piano socioculturale

IL PARADOSSO DEL DISCORSO E DELLA COMUNICAZIONE


Le persone sono e non sono in grado di capirsi. L’intesa sul senso di ciò che su fa quando si parla è sempre
minacciata e può arrestarsi in una delle qualsiasi fasi del processo ermeneutico a cui gli interlocutori
partecipano.
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L’oggetto d’indagine della psicologia discorsiva è la produzione, la comprensione e lo scambio del significato
come fulcro che attiva la mente.
Assunto generale: la condotta umana è significativa per default in condizioni standard. In questa prospettiva
prevale una psicologia dell’azione rispetto alla psicologia cognitiva.
Il concetto di repertorio interpretativo esemplifica bene il passaggio dalla rappresentazione all’azione implicato
dalla psicologia discorsiva. In questo contesto di senso viene posto al centro dell’analisi il concetto di
rappresentazione mentale, in quanto dispositivo cognitivo in grado di elaborare, conservare e rinnovare la
conoscenza della realtà e il controllo su di essa.

ANALISI DELLA CONVERSAZIONE


Conversazione = dal latino “trovarsi insieme”, trovarsi in più persone per conversare.
Forme più o meno famigliari di interazioni discorsive in cui due o più partecipanti si alternano spontaneamente
a parlare e a manifestare il proprio punto di vista.
Si tratta di un’attività polifonica che occupa buona parte del tempo libero e anche del tempo di lavoro nelle
forme e nei luoghi più svariati.
Possiamo intendere la conversazione come il risultato di un’interazione tra due punti o più individui, spesso
caratterizzati da interessi divergenti, orientati al raggiungimento di uno scopo.
La conversazione già in partenza si presenta come una pratica comunicativa complessa e caotica in
apparenza.
L’ordine e la coerenza nella conversazione non si trovano sul piano linguistico, ma a livello delle mosse
interattive che i partecipanti compiono in modo apparentemente casuale.
La conversazione è un’interazione comunicativa molto variabile sia ne tempo, sia nel numero di partecipanti
coinvolti; inoltre può essere a livello formale o a livello informale (può riguardare qualsiasi argomento).
La conversazione ha quindi un ampio grado di variabilità e flessibilità. Nonostante, però, abbia un’apparenza a
volte casuale e caotica la conversazione presenta un’organizzazione complessiva che corrisponde ad una
definita struttura socialmente condivisa e che segue precisi standard culturali.
Una conversazione è caratterizzata da:
1. FASE D’INIZIO: avvio della conversazione attraverso saluti (formali o non) di uno dei partecipanti; essi
hanno una funzione di introduzione alla conversazione e rispondono a regole stereotipate e
conversazionali; rispondono alle regole della buona cortesia e servono per stabilire il contatto
informale di avvio tra i partecipanti.
2. SVILUPPO DI UNO O PIU’ ARGOMENTI: sviluppo (lungo o breve) degli argomenti a cui i partecipanti
sono interessati; questo implica l’impegno comunicativo diretto e personale dei partecipanti,
soprattutto se sono due. Nel caso invece di più partecipanti, qualcuno può restare in secondo piano, e
questo comporta l’applicazione dei processi interattivi di elaborazione condivisa dei significati, di
manifestazione della personale intenzione comunicativa, di responsabilità, …
Spesso la conversazione procede per associazione libera, gli argomenti sono legati non da un nesso
logico, ma da un legame di contiguità temporale.
L’argomento trattato ha un’inerzia comunicativa che predispone l’altro a continuare nel medesimo
ambito. La continuità conversazionale non consiste nel parlare degli stessi referenti e neppure
nell’impiegare gli stessi concetti, piuttosto di condividere in modo contingente e locale un fuoco
comunicativo da parte dei partecipanti.
Quando i turni di parola trattano dello stesso argomento non sono marcati a livello comunicativo,
quando invece interviene un cambiamento di argomento è solitamente marcato e segnato sul piano
conversazionale a livello verbale e non verbale.
3. SEZIONE DI CHIUSURA: avviene al termine degli scambi tra i vari argomenti e rappresenta la
conclusione. Questa solitamente avviene con una ripetizione simmetrica di frasi di commiato che
serve a gestire il momento della chiusura come momentanea esperienza di separazione. La chiusura
ha una doppia funzione: gestisce il momento di distacco e pone le premesse per il prossimo incontro,
affinché la partenza della comunicazione sia realizzata nelle condizioni più favorevoli.
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Concludendo si può dire che la conversazione è un’attività complessa ed impegnativa in cui i partecipanti
giocano sé stessi attraverso le mosse che hanno a loro disposizione.
Oltre ad un’aria di superficialità e spontaneità, la conversazione nasconde in sé dispositivi comunicativi molto
potenti, i quali richiedono una grande attenzione nella scelta e nella calibrazione delle parole e dei segnali non
verbali.
Si ha una conversazione quando si ha un avvicendamento dei turni. In una conversazione a due il parlante A
parla e poi si ferma, inizia a parlare il parlante B e poi si ferma, riprende A e così via (si avrà quindi una
sequenza del tipo A-B-C-D). Si ha solo un 5% (a volte anche meno) di sovrapposizioni tra i due parlanti.
Questo dato ci dice come in una struttura così fluttuante e in apparenza casuale le sovrapposizioni siano
minime (e la loro durata è di pochi decimi di secondo).
Com’è possibile un’interazione così ordinata in circostanze molto disparate tra loro?

Sistema a gestione locale


Ogni parlante è responsabile della costruzione di un turno (=unità minima di parole compresa tra due possibili
segnali di intesa tra i partecipanti; solo al termine di tale unità l’ascoltatore può intervenire).
Il punto finale di quest’unità rappresenta un punto in cui i partecipanti possono avvicendarsi nel turno: si tratta
di un punto di rilevanza transizionale (PRT).
Il PRT segna un momento temporale in cui può avvenire uno scambio di turno tra il parlante e l’ascoltatore e
tale passaggio è regolato dalla norma della minimizzazione della pausa tra turni (GAP), nell’ordine dei decimi
di secondo nella cultura occidentale, al fine di assicurare fluidità alla conversazione medesima, evitando la
sensazione di appesantimento.
I PRT sono regolati da una serie di regole che consentono uno spazio di regolazione tra i parlanti medesimi.
Alcune regole che governano i PRT:
- Conservazione del turno: quando un partecipante non ha intenzione di cedere il turno di parola e non
vuole essere interrotto solitamente aumenta la media di intensità della voce in particolare nella parte
finale dell’enunciato; può anche incrementare la velocità di articolazione ostacolando in questo modo
una possibile interruzione; può far ricorso alle pause piene per segnalare al suo interlocutore che ha
terminato un pensiero, ma che non ha ancora terminato di parlare
- Cessione del turno: solitamente quando il parlante ha intenzione di cedere il turno di parola fa ricorso
alle pause vuote che si alternano ai segmenti di suono. Oltre alla pausa vuota, la cessazione del turno
è segnalata dal rallentamento del ritmo dell’eloquio e dalla variazione della tonalità. Inoltre, il profilo di
intonazione diviene ascendente come nella domanda totale e si piò terminare con una domanda
appellativa (vero? Giusto?)
- Richiesta di turno: è normale che in una conversazione standard l’ascoltatore desideri interrompere il
parlante per prendere a sua volta la parola, ma è altrettanto normale che il parlante non faccia mai
pause sufficienti a consentire un’interruzione. In questi casi la richiesta del turno può avvenire tramite
segnali vocali caratteristici, tra i quali gli inizi balbettanti che vengono inseriti nella conversazione
mentre il parlante continua a tenere il suo turno. Può esserci anche il tentativo di ottenere il turno di
parola alzando il volume della voce per superare quello del parlante.
- Rifiuto del turno: può esserci il caso in cui l’ascoltatore intenda rifiutare l’avvicendamento del turno,
anche se il parlante abbia già segnalato la sua intenzione di cederglielo. Il parlante può manifestare
questa sua intenzione tramite cenni di assenso del capo, con espressioni facciali di approvazione, con
lo sguardo e con vocalizzazioni che confermino il parlante e che lo incoraggino a continuare.
- Conversazione continua e discontinua: la continuità o discontinuità di una conversazione è data dalla
frequenza e dalla durata dei periodi di silenzio tra un turno e quello successivo. Il silenzio interno
durante un turno è considerato come una pausa che non va interrotta e che per essere tollerata non
può essere troppo lunga. I silenzi prolungati possono diventare scorrettezze comunicative perché
rendono difficoltosa la conversazione, creano imbarazzo e indicano atteggiamenti negativi
(disattenzione, intenzionale astensione dall’argomento).
Le regole qui elencate consentono di mettere a punto e di seguire un sistema a gestione locale che assicuri
fluidità e continuità nella conversazione; esso inoltre consente di evitare le sovrapposizioni.
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L’alternanza dei turni appare quindi regolata da un sistema variabile di segnali non verbali; come lo sguardo,
le espressioni facciali, e soprattutto le qualità soprasegmentali della voce (queste risultano molto utili nei turni
delle conversazioni senza visione come quelle telefoniche).

Le sequenze complementari
Sono un altro processo conversazionale a gestione locale. Esempi di frequenze complementari tipiche sono le
coppie comunicative domanda/risposta, invito/accettazione, scusa/minimizzazione, …
Esse sono:
- Normalmente adiacenti tra loro
- Sono prodotte da parlanti diversi
- Prevedono una distinzione di ordine tra la “prima parte” e la “parte complementare”
- Costituiscono routine comunicative, in quanto una prima parte richiede necessariamente il
complemento.
Solitamente chi ha enunciato la prima parte deve lasciare il turno all’interlocutore per lo svolgimento della
parte complementare.
L’adiacenza non costituisce un vincolo assoluto, ma può prevedere una sequenza – inserto che solitamente
consiste in un’altra coppia domanda-risposta:
- Mi può fare lo sconto?
- Ha la tessera dei soci?
- No
- NO
La prima parte (domanda o invito) può essere seguita da una gamma molto estesa di parti complementari:
- Che lavoro fa Gianni?
- Lavora con i PC
- Fa un po' di tutto
- Non lo so
- Vive di rendita
- Che c’entra con questo
Il concetto di preferenza
Tra le alternative delle varie risposte si possono individuare le parti complementari preferenziali rispetto a
quelle non preferenziali.
A livello comunicativo, il concetto di preferenza corrisponde a marcatezza, in quanto i componenti preferenziali
sono non marcati (sono semplici, fluenti – vedi conversazione A), mentre i componenti non preferenziali sono
marcati (sono cioè più elaborati e complessi – conversazione B).

Componenti preferenziali non marcati


- Potresti spostare, ehm, il libro?
- Si
Componenti preferenziali marcati
- Mi chiedevo se non potremmo vederci per andare a pranzo insieme
- Beh, molto gentile da parte tua. Non credo che ce la farò
- Uhm Uhm
- Ho gia, scusa, ho già promesso a Roberta di uscire a pranzo con lei e non posso dirle di no ancora
una volta.

Secondi turni non preferenziali


Solitamente i secondi turni non preferenziali sono marcati a livello comunicativo da una serie di indizi.
- INDUGIO  tramite pause o inserti
- PREFAZIONE  come l’annuncio di turni non preferenziali queli bhe, l’espressione di accordo prima
di manifestare il rifiuto, la manifestazione di scusa, …
- SPIEGAZIONE  come giustificazione del proprio rifiuto
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In questa situazione la marcatezza comunicativa consente all’interlocutore di gestire in modo meno


dirompente sul piano relazionale l’esplicitazione del rifiuto ad un invito o ad una domanda.
Anche nel caso della valutazione vale l’organizzazione delle risposte preferenziali e non preferenziali.
a. C’è un sole splendido fuori
b. Si è fantastico

a. Ma non te la prendere. Non è grave


b. Beh veramente è grave

L’analisi delle sequenze complementari mette in luce che nella conversazione compaiono vincoli comunicativi
che occorre tener presenti.
Questi vincoli possono trasformarsi in opportunità in quanto offrono gradi di libertà ai partecipanti in funzione
dei quali essi sono in grado di declinare le loro mosse a proprio vantaggio per raggiungere il loro scopo.

Le sequenze preferenziali e la correzione


Il concetto di preferenzialità si estende anche alla correzione in caso di errori o di fraintendimenti. Ogni turno
ha in linea di massima il vincolo (non tassativo) di attenersi e di continuare l’argomento di quelli che l’hanno
immediatamente preceduto, almeno che non ci sia una segnalazione di cambiamento dell’argomento.
In caso di fraintendimenti la procedura della correzione serve a mantenere la continuità della conversazione e
ad affrontare eventuali incomprensioni.
Nel caso della correzione le sequenze preferenziali prevedono questo ordine:
- Autocorrezione spontanea
- Correzione sollecitata nel turno successivo
- Correzione richiesta dall’interlocutore

Le pre-sequenze
Solitamente la conversazione quotidiana non consiste in un flusso continuo di turni con il medesimo valore
comunicativo, ma si articola e si organizza in modo gerarchico con turni più rilevanti rispetto a turni secondari
e preparatori.
Questo fenomeno è particolarmente evidente con le pre-sequenze, ossia con scambi conversazionali che
prevedono dei turni preliminari:
- Che fai Valentino?
- Niente
- Hai voglia di venire al bar con me?
La logica comunicativa sottesa alla precedente modalità conversazionale è la seguente:
a. Una domanda preliminare volta ad accertare se è soddisfatta una certa precondizione
b. Indicazione che tale condizione è soddisfatta
c. Attuazione della proposta e dell’invito da parte del parlante
Oppure:
b2. La precondizione non è soddisfatta
C2. L’invito da parte del parlante non si realizza.

L’organizzazione conversazionale delle pre-sequenze è evidente anche nei preannunci e nelle pre-richieste.
Nel caso dei pre-annunci:
- Il turno preliminare serve ad attivare l’attenzione, l’interesse, la partecipazione dell’interlocutore
- La risposta di quest’ultimo risulta positiva
- Il parlante ha modo di esprimere al meglio la notizia preannunciata
a. Eleonora, hai sentito l’ultima?
b. No
c. Il preside ha sospeso le lezioni per domani dopo la nostra denuncia
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I preannunci servono a garantire al parlante il turno successivo e a consentirgli un notevole spazio


proporzionale all’importanza delle notizie riferite. Fanno da cornice alla notizia medesima e le forniscono
un’adeguata importanza conversazionale.

LE VARIAZIONI CULTURALI NELLA COMUNICAZIONE


La conversazione rappresenta un sistema comunicativo universale in quanto è presente in tutte le culture;
essa rappresenta la dimostrazione che la comunicazione ha una natura sociale ed interattiva.
Un’analisi attenta della conversazione mette in evidenza che esistono rilevanti variazioni culturali.

Variazioni di loquacità e frequenza


Le culture loquaci sono quelle africane, sudamericane e latine, in queste culture il silenzio è considerato
pesante e minaccioso; esistono invece popolazioni, come i paliyani del sud dell’India, che comunicano
pochissimo e verso i quarant’anni divengono addirittura quasi silenti e per la loro loquacità e una buona
verbalità risulta essere anormale e offensiva. Similmente i lapponi del nord della Svezia hanno conversazioni
con un ritmo molto rallentato fra loro (tra una richiesta semplice e una risposta possono passare anche alcuni
minuti).

Variabili che riguardano la gerarchia sociale


In India, nelle società asiatiche influenzate dal confucianesimo e nella società balinese, le differenze di status
sociale sono molto sentite.
A Bali, per esempio, quando due estranei si incontrano prima di salutarsi, si chiedono “Dove siedi?” che è una
metafora per stabilire la casta. Conosciuta la casta dell’altro, ognuno sa quali forme linguistiche adottare e la
conversazione può iniziare.
In queste culture la conversazione è strettamente legata all’assetto gerarchico della società. La conversazione
è caratterizzata profondamente dalle procedure di distribuzione dei turni, delle forme di precedenza, dall’uso di
tutoli degli onorifici.
Nelle culture individualiste (quelle occidentali e nordamericana in particolare) l’impiego dei titoli si è molto
diradato nelle conversazioni quotidiane e le distinzioni asimmetriche si sono notevolmente attenuate.
Anche la gestione delle coppie adiacenti presenta rilevanti differenze culturali.

I saluti
In alcune culture l’inferiore deve rivolgere l primo saluto a chi è in una posizione sociale superiore; in altre
culture è il superiore che deve salutare per primo. Nella maggioranza delle culture occidentali le forme di
precedenza in materia si sono molto attenuate.
Spesso i saluti vengono accompagnati da domande rituali che riguardano lo stato di salute (come va?). In
Giappone questa domanda appare molto indiscreta, mentre in Vietnam si usa la domanda sul benessere
gastronomico (Come, ha mangiato riso?).

La coppia domanda – risposta


Per esempio, in Cile i bambini araucani imparano che la ripetizione di una domanda equivale ad un insulto.
Anche nelle forme di ringraziamento vi sono significative differenze. Nelle culture occidentali a seguito di un
ringraziamento si risponde con un segnale di ricezione (prego, you’re welcome, …). Mente in alcune società
orientali ed africane le formule di ringraziamento sono proibite fra i prossimi (parenti e amici) come se fossero
un insulto.
Inoltre, vi sono differenze culturali anche nella durata della pausa tra un turno e l’altro. Negli USA il gap tra un
turno e l’altro è pari a 0,5 mentre in Italia e Francia è pari a 0,3.
La conversazione costituisce, come abbiamo detto, un sistema comunicativo universale che presenta
proprietà basilari comuni (alternanza dei turni, evitamento delle sovrapposizioni, presenza di coppie adiacenti,
sincronizzazione dei ritmi, organizzazione complessiva dall’apertura alla chiusura).
Le diverse culture però elaborano e sviluppano dei sistemi locali di conversazione che comportano la
presenza di importanti differenze.
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Tali differenze possono rappresentare la base per i malintesi e fraintendimenti, che se non chiariti, generano
malinteso su malinteso.
In società sempre più multiculturali e sempre più globalizzate, dove gli incontri e le conversazioni tra membri di
diverse culture sono inevitabili, tali differenze assumono una notevole importanza.

LA DISCOMUNICAZIONE
La comunicazione è sempre un’attività a rischio. Seguendo l’idea della psicologia ingenua le persone
avrebbero una predisposizione naturale a comunicare, come se la comunicazione fosse un dono di natura
fondato sulla trasparenza dei segni, come se la comunicazione fosse un dato e non un processo in cui gli
assunti non sono né totalmente prevedibili né deducibili dagli scambi precedenti.
Rispetto alla comunicazione per default parliamo di discomunicazione in tutti quei casi in cui gli aspetti impliciti
e indiretti della comunicazione prevalgono su quelli espliciti e diretti; emerge quindi uno scarto rilevante tra
detto e non detto.
La discomunicazione rappresenta non soltanto una mancanza e una violazione delle regole comunicative, ma
comprende anche le forme della comunicazione ironica, menzognera o seduttiva, del linguaggio figurato, della
finzione e della parodia.
Comunicazione per default e discomunicazione non rappresentano due ambiti separati e distinti di
comunicazione, ma fra essi esiste una soluzione di continuità che impedisce una netta separazione e
dicotomia.
Nel caso della discomunicazione, oltre a non avere la condizione di trasparenza né semantica né intenzionale,
abbiamo più che nella comunicazione per default, una condizione di opacità intenzionale cioè l’intenzione
comunicativa dell’attore risulta essere diversa dall’intenzione espressiva o informativa.
Vi è quindi una sorta di copertura/velatura intenzionale, in quanto il gioco tra i diversi livelli intenzionali
conduce ad un messaggio segnatamente plurivoco, lasciando al partner la responsabilità di disambiguare e di
scegliere un certo percorso di senso tra quelli possibili suggeriti dall’autore medesimo.
Vantaggi  essa aumenta i gradi di libertà dei partecipanti; apre nuovi scenari comunicativi e dischiude nuove
possibilità di interazione sul piano relazionale e di condivisione dei significati. In questo senso la
discomunicazione può essere considerata un’opportunità.
La discomunicazione non può essere intesa come un fallimento della comunicazione, in quanto un fallimento
implica una sorta di arresto e di soppressione dello scambio comunicativo medesimo. Per default la
comunicazione non può né fallire né essere silente, ma è un sistema continuo e articolato di processi e
fenomeni che variano in modo flessibile e mutevole in funzione delle condizioni dei partecipanti e del contesto
di riferimento.

LA COMUNICAZIONE IRONICA
Ironia = nell’uso comune significa dissimulazione del proprio pensiero (e la corrispondente figura retorica) con
parole che significano il contrario di ciò che si vuol dire, con un tono tuttavia che lascia intendere il verso
sentimento.
A livello etimologico:
- Dal greco ironia significa finzione; colui che interroga fingendo di non sapere
- Dall’etimologia semitica di ironia deriva dall’accadico erewum, che significa coprire.
Sul piano comunicativo l’ironia si configura come una strategia del “fare come se” sfuggendo all’alternativa
vero-falso e sospendendo i parametri di giudizio che ne conseguono. È rivolta a raggiungere un’efficace
salvaguardia dei rapporti interpersonali, lasciando notevoli spazi di libertà per la gestione dei significati e le
relazioni.
L’ironia non è un fenomeno unico e fisso, ma copre una “famiglia “di processi discomunicativi:
 Ironia sarcastica: consiste nel disprezzare il partner con parole di elogio. In questo modo non si vuole
attenuare la durezza dell’impostazione critica, ma all’opposto si vuole condannare l’altro senza
scomporsi, umiliandolo con sarcasmo e freddezza.
 Ironia bonaria: consiste nell’elogiare il partner facendo ricorso a frasi di critica, così in questo modo è
possibile ridurre l’euforia dell’elogio diretto che può essere fonte di imbarazzo.
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 Ironia socratica: consiste nell’usare un modo di comunicare che risulti elegante, ingegnoso, garbato
per mettere in discussione mode o dogmi senza sbilanciarsi né compromettersi.
 Ironia scherzosa (o giocosa): si avvicina alla battuta di spirito e serve a sdrammatizzare
eventualmente una situazione tesa o conflittuale.
Possiamo, in conclusione dire, che l’ironia è l’arte di essere chiaro senza essere evidente. La chiarezza
dell’enunciato ironico non implica trasparenza comunicativa e per questa ragione l’ironia costituisce una forma
di discomunicazione.
L’ironia è come una maschera che copre ciò che si pensa e si prova, ma che per certi versi rivela ciò che
copre e opera altri versi copre ciò che svela.

Principali teorie sulla comunicazione ironica

Prospettiva razionalista: teoria avanzata da Grice che ha formalizzato l’impostazione classica dell’antifrasi, in
quanto l’enunciato ironico consiste nel “dire p facendo intendere non-p”. In questo senso l’ironia rappresenta
una trasgressione alla massima di Qualità.
Searle sostiene anch’esso questa posizione razionalista e identifica l’ironia come negazione logica
dell’interpretazione letterale.
Fish inoltre attribuisce particolare importanza all’interpretazione della comunicazione ironica. Non esiste ironia
univoca o equivoca: il dilemma si risolve nel livello di competenza del partner, perché l’ironia è una strategia
comunicativa indiretta, ma chiara.
In sintesi, possiamo dire che la prospettiva razionalista rimane ancorata all’articolazione linguistica della
comunicazione ironica e non prende in considerazione gli aspetti psicologici e relazionali della stessa.

Prospettiva macchiavellica: in questa teoria l’ironia viene intesa come forma comunicativa volta a creare una
serie di effetti sul partner, senza tenere in debito conto il rispetto delle regole formali del linguaggio, né la
veridicità del messaggio.
Implica la violazione delle attese contestuali del partner. Secondo l’ipotesi della simulazione allusiva gli effetti
ironici sono generati dall’allusione ad un’attesa mancata, prevista sul piano conversazionale (se uno fa una
brutta figura aspetta una critica e non un elogio).
Sempre secondo questa teoria alla base della comunicazione ironica vi è una condizione di incongruenza
suscitata dall’incoerenza e dalla mancata aderenza ad uno script atteso.
La comprensione dell’ironia dipende da un processo a due livelli:
1. La percezione di incongruenza rispetto alla situazione in oggetto
2. La rilevazione del valore ironico della frase come soluzione dell’incongruenza percepita
In questo senso possiamo dire che l’efficacia della comunicazione ironica è inversamente proporzionale alla
presenza di segnalatori espliciti e raggiunge il suo massimo livello quando risulta essere il più sottile e implicita
possibile.

Teoria ecoica o della menzione


Secondo questa teoria il parlante produce un enunciato che fa da eco (menzione implicita) a quanto detto o
fatto in precedenza dal partner, ponendo in evidenza nel medesimo tempo il proprio atteggiamento critico e
denigratorio o umoristico. L’ironia è il tipo di citazione indiretta, impiegata con lo scopo di fare eco in modo
distorcente. Gli autori sostengono che la comunicazione è “far intendere un’idea su un’idea”.
Esempio: chiedendo al partner “Ti sei ricordato di annaffiare i fiori?” dopo i giorni di pioggia, significa
sottolineare l’eventuale mania del partner che è preoccupato di non dare abbastanza acqua ai fiori.
In questa prospettiva rientra il fenomeno della tongue-in-cheek (lingua nella guancia): commento laterale e di
sottofondo quanto viene detto o fatto da parte di altri (commento arguto e sottile tipicamente inglese).
Ricordiamo anche il modello dell’ironia citazionale: l’ironia è una citazione di quanto è accaduto in precedenza.

Prospettiva teatrale
In questa prospettiva la comunicazione ironica è interpretata anche come finzione. Morgan parla di finzione
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trasparente: il parlante afferma qualcosa facendo finta di credervi e, nel medesimo tempo, segnala, attraverso
gli indicatori paralinguistici, che si tratta di una finzione. In questa prospettiva si colloca anche il concetto di
ironia come simulazione, propsoto da Clark e Gerring, ironista lungi dall’usare una frase per farne capire la
contraddittorietà, fa finta di servirsene e crea una sorta di complicità con il destinatario.
La comunicazione ironica si avvicina alla parodia: si fonda sul meccanismo dell’antinomia, contrapposizione
antitetica di due termini da cui sorge l’effetto ironico. L’ironia come parodia e come la rappresentazione
teatrale implica una sorta di complicità tra l’autore e il destinatario, in quanto richiedono la condivisione dei
livelli di comunicazione primario-secondario. Il commesso ironico comporta necessariamente la facoltà di
selezionare il destinatario in base alla competenza, alla condivisone di uno specifico patrimonio di conoscenze
e anche al riferimento ad un dato contesto.
Con la comunicazione ironica si crea una triangolazione comunicativa in quanto si verifica un’esclusione,
selezione di chi deve capire; in un certo senso è una comunicazione discriminante tra chi può e chi non può
capire. La comunicazione ironica diviene allora in questo senso, una strategia di esclusione (chi può capire è
incluso mentre chi non può capire ne rimane escluso).

Funzioni psicologiche della comunicazione ironica


Possiamo definire la comunicazione ironica come una comunicazione obliqua in quanto da un lato mostra ciò
che nasconde e dall’altro nasconde ciò che dice. L’ironia costituisce una modalità rilevante di
discomunicazione in quanto consente di: DIRE PER NON DIRE.
Rappresenta altresì un’espressione emblematica della dialogicità discorsiva, secondo cui la parola non è
semanticamente unidirezionale (monosemica) ma è a più voci (polisemica) e la sua interpretazione assume
forme diverse sia in funzione della sua collocazione all’interno del discorso, sia in relazione all’operazione di
messa a fuoco mediante la quale alcune sue proprietà sono poste in primo piano e altre sono occultate.
Nella comunicazione ironica, paradossalmente, la maschera posta in primo piano, assume una posizione di
sfondo nello scambio tra ironista e il suo partner.
- COMUNICAZIONE IRONICA COME RISPETTO DELLE CONVENZIONI (come aggirare la censura in modo
culturalmente corretto): il commento ironico consente di evitare la censura degli altri pur affrontando quei temi
che altrimenti andrebbero taciuti. L’ironista abile è colui che è in grado di gestire le relazioni interpersonali al
meglio, in conformità con le norme di desiderabilità sociale e rispettando i canoni impliciti della propria cultura.
Proprio per questa ragione la comunicazione ironica trova il suo apice nelle culture che attribuiscono grande
importanza all’ideale dell’autocontrollo (è positivo sapersi mantenere distaccati dagli eventi, anche sul piano
emotivo); la cultura anglosassone rappresenta un buon esempio.
- COMUNICAZIONE IRONICA COME CONFINE DI RISERVATEZZA (come proteggere lo spazio personale).
Strategia utile per proteggere la propria riservatezza (privacy), evitando i rischi dell’esposizione di sé sia in
contesti di intimità sia in determinati ambiti pubblici. L’ironista non scopre apertamente il proprio gioco, ma
lascia l’iniziativa interpretativa al partner, pronto per smentirla se è il caso; in questo modo l’ironista si colloca
in una posizione difficile da raggiungere e da controllare, in quanto egli ha in ogni caso la passibilità di passare
dal livello lessicale a quello latente e viceversa.
- COMUNICAZIONE IRONICA COME AMBIGUITA’ RELAZIONALE (come rinegoziare i significati): “Per
essere meglio intesi, occorre essere fraintesi”, secondo Jankelevitch questo rappresenta il paradosso della
comunicazione ironica. In questo senso si può parlare di polisemia pragmatica della comunicazione ironica,
nel senso che il messaggio ironico offre diversi percorsi di senso all’interpretazione da parte del destinatario.
Si possono così negoziare e rinegoziare i significati del commento ironico, offrendo all’ironista la libertà di non
assumere pienamente la responsabilità di ciò a cui allude e quindi di non compromettersi. La responsabilità
del valore ironico di una frase passa in questo modo dall’autore al partner e all’interpretazione che
quest’ultimo ne dà. La comunicazione ironica serve a prendere le distanze dalla propria responsabilità
comunicativa.
In questa cornice assume particolare importanza la regolazione del peso implicito. In alcuni casi l’ironia
assume un ruolo di attenuazione mentre in altri ha funzione di esaltazione dell’implicito.
Parliamo di:
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 Mitigazione dell’implicito: critica espressa in modo ironico appare più leggera di un insulto aperto; un
elogio espresso in maniera ironica appare meno imbarazzante di un apprezzamento esplicito
 Accentuazione dell’implicito: un commento sarcastico risulta più mirato, calcolato e quindi incisivo di
una critica aperta.

La voce dell’ironia
La comunicazione ironica è un fenomeno fortemente vocale, originato, cioè, dal gioco contrastivo tra gli aspetti
linguistici e gli aspetti paralinguistici nella produzione di un dato enunciato.
Lo studio sperimentale della voce ironica ha posto in evidenza che:
- Il profilo vocale della comunicazione ironica è dato dalla combinazione di tono acuto e modulato,
intensità elevata e ritmo rallentato, in alcuni casi con una tendenza alla nasalizzazione.
- La voce ironica si presenta come una sorta di sottolineatura caricatoriale e una marcatura enfatica dei
tratti soprasegmentali, in funzione della quale l’ironia appare come tecnica per giocare con la voce, la
quale viene usata in modo non naturale ma studiato e premeditato.
I diversi profili vocali in riferimento alle diverse forme di ironia sono:
- IRONIA SARCASTICA si caratterizza per un tono fortemente acuto e ricco di variazioni e per
un’intensità elevata e costante (voce ampia e tesa) che enfatizzano il disprezzo.
- IRONIA BONARIA: è espressa con tono medio e modulato e con un’intensità non molto elevata
(ampia e distesa) che attenuano l’elogio.

L’ironia non è una menzogna


Nella menzogna le parole sono false, nell’ironia le parole sono finte (un gioiello finto è diverso da un gioiello
falso). Infatti, il finto è la negazione palese di ciò che appare. L’ironista non ha come scopo quello di
ingannare, ma di essere chiaro senza che il suo messaggio risulti evidente, esplicito.

LA COMUNICAZIONE SEDUTTIVA
Iniziamo questa parte relativa alla comunicazione seduttiva utilizzando una metafora che spiega bene il
cosiddetto dilemma del porcospino.
Stare insieme senza ferirsi: il dilemma del porcospino di Schopenhauer
“Alcuni porcospini, in una fredda giornata di inverno, si strinsero vicini vicini per proteggersi, con calore
reciproco, dal rimanere assiderati. Ben presto, però, sentirono le spine reciproche. Il dolore li costrinse di
nuovo ad allontanarsi l’uno dall’altro. Quando poi il bisogno di riscaldarsi li portò nuovamente a stare insieme,
si ripeté quell’altro malanno: di modo che venivano sballottati avanti e indietro tra i due mali. Finché non
ebbero trovato una moderata distanza reciproca, che rappresentava per loro la migliore posizione”.

La vicinanza e la distanza fisica e psicologica tra gli individui è oggetto di un complesso sistema di regolazione
che non può essere né definitivo né stabile, ma suscettibile di continue variazioni e oscillazioni.
La seduzione costituisce un importante processo di avvicinamento tra presone e l’esito sperato è quello di una
notevole diminuzione della distanza psicologica fra due individui.
Possiamo definire la seduzione come: una sequenza strategica ed intenzionale di mosse il cui traguardo è
quello di attrarre (anche sul piano sessuale) un’altra persona (di solito di sesso opposto). Lo scopo della
seduzione è quello di costruire un legame forte ed intrigante con il partner con l’obiettivo di raggiungere (con
lui o con lei) una relazione intima. (Anolli 2002).
In questa prospettiva la seduzione viene alimentata da sentimenti forti ed importanti, attivati
dall’innamoramento dell’altra persona. Essa, altresì, può consistere anche in altri tipi di giochi relazionali legati
all’autostima, all’immagine di sé, all’esigenza di mettere alla prova la propria capacità interattiva, …
Il processo comunicativo specifico, che permette il raggiungimento del traguardo della seduzione, rappresenta
la comunicazione seduttiva.

Storiella per descrivere le differenze di genere nel corteggiamento: Effetto Coolidge  il termine deriverebbe
da una vecchia battuta secondo la quale la moglie del Presidente degli Stati Uniti Calvin Coolidge, in visita ad
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una fattoria sperimentale patrocinata dal governo, notò un gallo che si accoppiava molto frequentemente.
Chiedendo al suo accompagnatore quanto spesso avvenisse il fanno, le venne risposto “dozzine di volte al
giorno”. “Lo dica al signor Coolidge” replicò la First Lady.
Il Presidente, informato della cosa, chiese a sua volta “Ma ogni volta la stessa gallina?” “NO”, rispose il
contadino, “ogni volta con una gallina diversa”. “Lo dica alla signora Coolidge” disse il presidente.
Per la specie umana questo effetto si traduce in comportamenti comunicativi precisi durante il corteggiamento.

Gli uomini: tendono ad enfatizzare la loro posizione sociale e la loro disponibilità di risorse (come segno
implicito di capacità di mantenere la prole).
Le donne: tendono a privilegiare gli indicatori morfologici della bellezza, della giovinezza e della salute (come
segnali di fertilità).
All’interno di questa cornice prende avvio e si svolge la danza del corteggiamento, che ha lo scopo di
conquistare il partner con un gioco reciproco di seduzione che prevede una sequenza di tappe successive:
individuazione e selezione di un partner attraente e interessante; stabilire il contatto con il potenziale partner
attraverso opportune strategie di esibizione, al fine di farsi notare, di catturare la sua attenzione e di farsi
scegliere a sua volta; stabilire un reciproco avvicinamento per instaurare una relazione di intimità attraverso la
riduzione progressiva del grado di incertezza; decisione di mantenere un legame in una cornice di relativa
stabilità.
Per concludere è interessante notare come, dall’etimo, seduzione vuol dire:
- Se – ducere da un lato significa far deviare, nel senso di traviare, prendere la strada sbagliata, come
se la seduzione fosse una forza inarrestabile del destino che conduce alla perdizione; Nel linguaggio
comune richiama al serpente che promette ad Eva l’albero della conoscenza del bene e del male che
la renderà come Dio.
- Se – ducere da un lato significa condurre in disparte, appartarsi, al fine di far crescere l’intimità e
l’esclusività.

Paradossalità della comunicazione seduttiva


Primo obiettivo del seduttore è quello di emergere dall’anonimato, cambiare status: passare dall’essere
qualunque all’essere qualcuno.
In questa fase aumentano gli aspetti “estetici” della comunicazione e si riducono i contenuti referenziali,
questo serve a nascondere e a mascherare i propri limiti e difetti per diventare oggetto di desiderio nei
confronti dell’altro. Vengono invece esaltate le qualità ed i punti di forza.
Durante il corteggiamento ciascun partner cerca di apparire diverso e migliore di quello che è in realtà.
Come dice bene Anolli la seduzione è una strategia dell’apparenza come strumento di attrazione. Si tratta di
uno spazio intermedio tra falso, finto e reale; al pari del trucco, il messaggio seduttivo è una sapiente
combinazione tra finzione e realtà, dove l’una sfuma nell’altra e dove la percezione lascia spazio
all’immaginazione.
La seduzione invece non ha nulla a che fare con la comunicazione menzognera, anche se presentano alcuni
punti di contatto ed analogie. La seduzione, infatti, non ha come scopo l’inganno, ma l’esaltazione della
propria immagine per esaltare l’immagine dell’altro.

L’esibizione paradossale
La seduzione, pur essendo evidente, non è formalizzata; pur essendo esplicita, non è dichiarata. Questo
perché nella comunicazione seduttiva l’individuo mette in gioco sé stesso, ma allo stesso non può rischiare un
rifiuto netto da parte del partner, dall’altro dall’esigenza di rispettare la sua libertà. Per questo motivo,
l’esibizione seduttiva non può diventare costrizione violenta e tantomeno abuso.
La comunicazione seduttiva inoltre implica un certo grado di responsabilità relazionale, in quanto implica un
coinvolgimento diretto e totale, una dichiarazione di responsabilità all’avventura e all’impegno nei confronti
dell’eventuale compagno/a.
Una volta avvenuto il contatto tra i partner si passa alla fase di avvicinamento reciproco.
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In questa fase ci si scambiano conoscenze sulle proprie esperienze, si narra sé stessi e la propria vita all’altro
e questo fa sì che si riduca l’incertezza, limitando il rischio di rendersi vulnerabili l’un l’altro.

La seduzione viene spesso definita come una forma di manipolazione, una sorta di rielaborazione tendenziosa
della verità mediante la presentazione alterata o parziale delle notizie, per manovrare, secondo i propri fini,
qualcun altro.
L’idea della seduzione come meccanismo comunicativo di distorsione della verità che opera dal dominio della
completa inconsapevolezza sembra suggerire l’idea della seduzione come, appunto, manipolazione.
In questo senso la seduzione è concepibile come una forma di inganno. Tuttavia, la seduzione non coincide
necessariamente con una forma di inganno simile alla manipolazione.
Nella seduzione le emozioni hanno un ruolo centrale nel modulare la comprensione del contenuto che viene
comunicato e inoltre la seduzione può essere esplicitata (a differenza dell’inganno) e portare ad un guadagno
condiviso. In questo senso la seduzione ha un significato positivo e può essere vista come un impulso a
conoscere e fare qualcosa di nuovo.
Si può pensare che l’accezione negativa legata alla seduzione, almeno nella tradizione filosofica occidentale,
ha nozione di decisione, deliberazione contrapposta alle emozioni. In questa prospettiva l’uso critico della
ragione sembra avere poco a che fare con il carattere soggettivo e temporaneo dei fenomeni emozionali il cui
funzionamento è automatico, inconscio e obbligato dalle emozioni.
Altri autori hanno sostenuto che nella presa di decisione, la vigilanza ovvero la capacità che ci permette di far
fronte agli inganni e ai tentativi di manipolazione svolge un ruolo fondamentale nel filtrare le emozioni. C’è un
meccanismo cognitivo adibito alla vigilanza, che ci permette di cogliere quello che dicono gli altri in termini di
malevolenza (che è un aspetto emotivo), in termini di falsità (aspetto epistemico), con l’intenzione di
ingannare. Questa capacità che ci permette di vedere questi aspetti ci aiuta a prendere delle decisioni
attraverso la ragione e la valutazione degli argomenti addotti dall’interlocutore, quindi ci permette di capire se
possiamo dare fiducia o no all’interlocutore.
In questo senso la seduzione può essere distinta dall’inganno e dalla manipolazione affinando l’aspetto
affettivo della vigilanza; nella seduzione le emozioni contribuiscono alla valutazione sia della fonte sia del
contenuto dell’informazione comunicata e quindi, diversamente dall’inganno, dove le emozioni svolgono un
ruolo negativo, la seduzione presuppone un ruolo positivo delle emozioni che porta la persona sedotta a
pensare maggiormente e ad avere maggiormente attenzione.
Quando pensiamo alle prese di decisione ispirate ai principi di razionalità, basate su informazioni veritiere si
tenta di tenere distinti gli aspetti emotivi e persuasivi dai quali possiamo essere sedotti ed ingannati.
Uno degli autori che ha contribuito a fissare il confine tra comunicazione e seduzione, denunciando l’invasione
dei processi di seduzione e dando una valutazione negativa degli stessi, fu Baudrillard, la cui prospettiva parte
da un’analisi dei comportamenti di consumo e da un attacco alla società post-moderna in cui è stato creato il
bisogno di avere bisogno. La seduzione sarebbe quindi lo strumento che il marketing e la comunicazione,
soprattutto in ambito pubblicitario, utilizzano per condizionare i comportamenti di consumo il cui obiettivo non
sarebbe quello di acquistare dei beni di cui si ha bisogno ma di avere la rappresentazione simbolica degli
oggetti. Gli oggetti sono considerati segni e ciò che conta è appropriarsi della loro immagine, consumarli come
parte di un linguaggio.
In questo quadro avviene una valutazione negativa dell’ipertrofia di immagini e segni considerati parti di una
realtà illusoria. La conseguenza di questa prospettiva è credere che sedurre coincida con spostare l’altro dalla
realtà, sviare, volgere le cose verso un gioco di apparenze e rendere fragile e affascinante. Tuttavia, gli aspetti
emotivi e persuasivi, che hanno lo scopo di convincere l’altro della veridicità di ciò che stiamo comunicando,
sono comunque presenti in qualunque atto comunicativo.
La seduzione è un tipico effetto espressivo che dipende dalla capacità dell’emittente di esprimere un forte
valore di sé stesso. Rinunciando a dare valore e significato al modo in cui comunichiamo un contenuto, stiamo
rinunciando a rendere condiviso e comprensibile il nostro messaggio e questo diviene un duro prezzo da
pagare, sia in ambito pubblicitario ma anche in amore o in tutte le iniziative volte a generare una tendenza
(moda, commercio, …) in cui l’obiettivo di raggiungere un aspetto persuasivo è esplicito e in tutti questi casi, è
evidente il ruolo predominante della funzione espressiva che determina l’efficacia del messaggio.
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Nel processo di comunicazione seduttiva, il cui obiettivo è quello di condurre il destinatario a condividere i
propri valori e le emozioni, diventa rilevante la valutazione di successo dell’azione comunicativa.
Gli aspetti negativi della comunicazione persuasiva, cioè indurre un comportamento d’acquisto specifico ad
esempio non legato ad un bisogno funzionale, si trasferisce alle modalità di comunicazione conducendo a
scindere la buona dalla cattiva comunicazione secondo parametri che vedono da una parte l’argomentazione
logico – simbolica, il cui esito è una conseguenza veritiera e accettabile delle regole asettiche del sistema
logico di riferimento, dall’altra quelle di seduzione che includono anche gli aspetti emotivi legati all’aspetto non
verbale e paraverbale.

L’obliquità della comunicazione seduttiva


La natura della comunicazione seduttiva è complessa e per questo bisogna ricorrere ad una comunicazione
obliqua e indiretta.
Il seduttore deve attenersi al principio di dire abbastanza ma non troppo e deve mantenere la possibilità di
operare aggiustamenti fra manifestazione dei propri intenti e l’eventualità di ritirarsi in base alle reazioni del
partner.
Assume particolare importanza in questo contesto la comunicazione intrigante.
Essa si fonda su forme allusive di comunicare e lascia intendere più di quanto si dica con le parole.
Il messaggio seduttivo è un messaggio in cui, seppur svelando in parte i propri sentimenti, passioni, intenzioni,
lascia all’altro la libertà e la responsabilità di continuare il gioco in un vortice crescente di attaccamento e
avvicinamento.
La seduzione costituisce allora un processo di conquista reciproca, in cui entrambi i partner hanno la propria
parte e in cui diventa difficile decidere se le responsabilità maggiori in fatto di seduzione siano dell’uno o
dell’altro.
Una particolare strategia efficace di comunicazione obliqua seduttiva (almeno inizialmente, è rappresentata
dalla vulnerabilità.
Il seduttore si pone in una condizione di difficoltà e di richiesta d’aiuto, adottando un atteggiamento di
sottomissione che favorisce l’avvicinamento di un eventuale partner, riducendo il suo grado di resistenza e
aumentando il livello di intimità.
Ogni forma di comunicazione seduttiva ha come proprietà emblematica quella di evitare ogni forma di
minaccia ed intimidazione dell’altro.

Modalità non verbali della comunicazione seduttiva


Le modalità non verbali sono fondamentali per catturare l’attenzione e per sedurre l’eventuale partner. Il
contatto oculare assume una notevole importanza: esprime fiducia, credibilità, disponibilità, interesse; la
dilatazione della pupilla è un potente segnale di attrazione verso il potenziale partner.
Tanto più è elevata la tendenza a ricambiare lo sguardo e a prolungare il contatto oculare, tanto maggiori sono
le possibilità di ridurre la distanza interpersonale.
Nella cultura occidentale sono le donne a lanciare più sguardi e nell’interazione seduttiva si basano
maggiormente sul feedback visivo, rispetto agli uomini.
Anche le espressioni mimiche del volto hanno molta importanza all’interazione seduttiva: il sorriso “timido”,
appena accennato, presente soprattutto nelle donne; la sincronizzazione dei gesti, aumenta la percezione di
soddisfazione e di intesa reciproca.
La voce attraente viene associata in modo sistematico ai giudizi di piacevolezza e di desiderabilità sociale.
Solitamente si fa ricorso ad una voce quasi infantili con toni più acuti e una frequenza ridotta.

Profilo vocale nei seduttori efficaci e non efficaci


Recentemente una ricerca condotta da Anolli e Ciceri ha messo in evidenza una differenza sistematica nel
profilo vocale dei seduttori efficaci rispetto ai seduttori non efficaci.
Seduttori efficaci: presentano maggiori variazioni prosodiche nel loro parlato e sanno modulare la loro voce in
modo più flessibile e mutevole durante l’interazione seduttiva.
Inizialmente la loro voce risulta essere altisonante e piena, in grado di richiamare l’attenzione del partner, ma
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anche di trasmettere segnali di socievolezza, entusiasmo, virilità. Successivamente, dopo essere riusciti a
stabilire il contatto iniziale, la voce diviene tenera e calda, caratterizzata da un tono più basso e da un’intensità
più debole per favorire l’avvicinamento reciproco e stabilire un legame affettivo.

Seduttori non efficaci: presentano una voce debole e piatta, monotona ed uguale, senza variazioni rilevanti nel
corso dell’interazione seduttiva; il tono è basso e con intensità debole. Si tratta di una voce calda e anche
noiosa.

L’insieme dei segnali non verbali della comunicazione seduttiva rimanda alla capacità di sintonizzarsi con il
partner attraverso l’attenta valutazione dei suoi feedback a cui adeguare il messaggio successivo.
Si tratta di riuscire a manifestare un’attenzione incondizionata verso il partner, di farlo sentire esclusivo ed
indispensabile, nell’inversione di un ruolo per cui seduce chi si mostra sedotto.

LA COMUNICAZIONE MENZOGNERA
Rappresenta una forma rilevante di discomunicazione ed è stata oggetto di numerosi studi in questi ultimi 30
anni.
Possiamo individuare due filoni di ricerca:
1. Studi naturalistici sul campo: attraverso la rilevazione dei comportamenti ingannevoli attuati nel corso
della vita quotidiana.
2. Studi sperimentali di laboratorio: attraverso l’analisi sistematica dei processi cognitivi, emotivi e
comunicativi coinvolti nell’agire menzognero.

Prima di addentrarci nel territorio della comunicazione menzognera è utile definire bene il termine menzogna.
La menzogna NON è finzione; la prima, infatti, rimanda al concetto di falso, mentre la seconda rinvia al
concetto di finto. Esempio: “La maschera è finta” (esibisce i segni del suo non essere vera) mentre “La
parrucca è falsa” (in quanto vuole essere creduta per quello che non è).
La finzione è fare finta, è la trasposizione di una certa attività con un dato significato in un’attività analoga che
in un altro contesto assume significato diverso (un esempio è il gioco del dottore da parte dei bambini, il loro
giocare al dottore è molto diverso dalla professione medica in una situazione standard).
La finzione è la negazione palese e ostentata di ciò che appare. Rientrano in questa categoria fenomeno e
processi diversi tra i quali: la satira, la parodia, l’ironia e l’umorismo, l’arte e la letteratura, l’immaginario dei miti
e delle saghe popolari.
La finzione costituisce quindi il risultato delle capacità di inventare da parte dell’essere umano ed è un’attività
improntata alla fantasia e all’immaginazione.
La finzione implica la distinzione tra il mondo reale e il mondo fantastico e la consapevolezza che durante tale
attività (gioco di finzione) le proprie azioni non sono vere in quanto non producono effetti sulla vita reale. Nella
finzione il valore della verità non è né fondamentale né decisivo, importanti sono invece i valori della creatività
e della bellezza.
Nella menzogna il valore di verità è essenziale.

Menzogna ed errore
Esiste una grande differenza tra menzogna ed errore. Nella menzogna si conosce la verità e poi si dice il
falso; nell’errore si dice il falso senza essere consapevoli e pensando di dire il vero, poi si viene a conoscenza
della verità. Se una persona dice il falso per errore nel momento in cui lo dice non lo ritiene tale.

Menzogna e segreto
In questo caso abbiamo a che fare, in entrambi i casi, con l’occultamento intenzionale di informazioni. Sia chi
tiene un segreto sia chi dice che una bugia non rivela intenzionalmente un’informazione. Tutti sanno però che:
un conto è dire una menzogna, un conto è tenere un segreto.
Il segreto è una conoscenza che una persona (Tizio) non vuol far sapere ad un’altra persona (Caio) poiché si
sente in diritto di non fargliela sapere. Tale diritto riguarda certi ambiti della propria vita personale e sociale.
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Il diritto a tenere un segreto entra in competizione con il diritto a sapere da parte dell’interlocutore.
Il giudice ha diritto di sciogliere il segreto professionale in udienze riservate e nei casi previsti dalla legge. In
questa prospettiva il segreto è il risultato di un processo di negoziazione fra il diritto di tacere di Tizio e il diritto
di conoscere di Caio. Il segreto può divenire una menzogna quando Tizio non ha il diritto di tacere e Caio ha il
diritto di conoscere. In questo caso il segreto si trasforma in omissione di informazioni che è un esempio
classico di inganno e menzogna.

La MENZOGNA è: un atto comunicativo deliberato e consapevole di ingannare un altro che non è


consapevole e che non desidera essere ingannato. L’intenzione di ingannare è quella di far sì che il
destinatario crea ciò che il parlante sa non essere vero.

L’inganno non è una categoria comunicativa omogenea, ma è articolata al suo interno in diverse
sottocategorie.
- Auto-inganno e falsità patologica: l’impiego sistematico e regolare della menzogna nell’interazione con
gli altri;
- Menzogne preparate: solitamente usate per evitare una punizione
- Menzogne impreparate: per far fronte ad una situazione imbarazzante
- Bugie pedagogiche: per rassicurare un bambino
- Bugie innocenti o convenzionali: dette per buona educazione

Incrociando due fattori (volere che l’interlocutore creda il falso e non volere che egli creda il vero) si ottengono
4 sottogruppi di inganni:
1. Omissione: il parlante omette di fornire al partner alcune informazioni essenziali per gli scopi di
quest’ultimo
2. Occultamento: il parlante nasconde alcune informazioni rilevanti, fornendo al partner informazioni
divergenti o secondarie per fargli assumere false credenze.
3. Falsificazione: il parlante deliberatamente invia al partner informazioni che sa essere false
4. Mascheramento: il parlante cela informazioni importanti e pertinenti, fornendo al partner altre
informazioni false.

Non è quindi necessario dire il falso per dire una menzogna, anzi spesso vero e falso sono mescolati tra loro.
Si può dire una menzogna anche dicendo la verità (come nelle esagerazioni), o facendo sì che pur dicendo la
verità il partner assuma false credenze sulla base di false presupposizioni.
Il parlante può produrre in base a quanto detto sopra:
- Inganno per commissione
- Inganno per omissione
Non è corretto però parlare di categorie di inganno come se fossero categorie discrete, separate da confini
precisi e netti, ma è più corretto parlare di un continuum di fenomeni ingannevoli, dai confini sfumati, sulla
base di una certa somiglianza di famiglia.

Teorie sulla comunicazione menzognera

INFORMATION MANIPULATION THEORY (IMT)  elaborata da McCornack (1992), considera la


comunicazione menzognera come una classe specifica di fenomeni comunicativi. Secondo questa teoria i
comunicatori manipolano e trasformano contemporaneamente l’informazione lungo differenti dimensioni
mentre ingannano gli altri, andando da una rappresentazione distorta degli eventi a una loro esplicita
falsificazione. Secondo questa teoria, che prende la via del principio di Cooperazione e delle Massime di Grice
(qualità, quantità, pertinenza e modo), l’inganno è il risultato della violazione coperta da una o più di tali
massime.
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INTERPERSONAL DECEPTION THEORY (IDT)  elaborata da Buller e Burgoon, questa teoria assume
un’impostazione strategica nella spiegazione dell’inganno e considera la comunicazione menzognera come
una categoria comunicativa a sé stante, contrapposta a quella veritiera. I mentitori controllano in maniera
strategica le informazioni dei loro messaggi ingannevoli con lo scopo di presentarsi in modo affabile.
L’interazione menzognera è vista come una serie di mosse e contromosse e il successo il fallimento finale
dipende dall’abilità di entrambi i partner (contendenti): si ha successo se il mentitore è in grado di trasmettere
informazioni false in modo credibile e se il partner non è abile nello scoprire la menzogna attraverso gli indizi
di smascheramento; nel caso opposto si ha il fallimento.
La teoria dell’IDT ha distinto all’interno dell’interazione ingannevole la comunicazione strategica e quella non
strategica:
- Comunicazione strategica  è attuata in modo consapevole dal mentitore con lo scopo di presentarsi
in modo credibile e sincero e di fornire un’impressione onesta di sé mentre sta dicendo il falso.
Le strategie comunicative impiegate in questa direzione sono:
a. Incertezza (o vaghezza): inviare messaggi volutamente ambigui, con la presenza di informazioni
irrilevanti, l’impiego modesto di verbi assoluti, …
b. Reticenza (o non immediatezza): ritirarsi da un’intenzione diretta attraverso risposte più brevi, tempi
di latenza lunghi per le risposte, minore frequenza nello sguardo, distanza prossemica ampia, …
c. Dissociazione: allontanare da sé la responsabilità della menzogna per mezzo di un limitato
riferimento alle proprie esperienze ed interessi, maggiore riferimento agli altri, scarsa immediatezza
linguistica, …
d. Protezione dell’immagine e della relazione: presentarsi in modo positivo e favorevole attraverso
cenni del capo, sorrisi, evitando le interruzioni delle frasi o delle parole, …
- Comunicazione non strategica  essa è formata dagli indizi di smascheramento, che sono involontari
e non intenzionali, quando il mentitore non è in grado di controllare la produzione del proprio discorso
menzognero, essi sono rivelatori della presenza di inganno e si possono raggruppare in tre categorie:
a) Rivelatori di attivazione emotiva e di nervosismo: l’ammiccamento frequente, il tono elevato della
voce, la disfluenza e la presenza di errori linguistici, numero elevato di errori linguistici, numero
elevato di movimenti delle gambe e dei piedi, maggiore frequenza dei cambiamenti di postura, …
b) Rilevatori di effetti negativi: espressioni facciali di spiacevolezza, ridotto contatto oculare, maggiore
frequenza di frasi negative, …
C) Rilevatori di incompetenza comunicativa: esitazioni e ripetizioni di parole, frasi brevi e interrotte,
maggiore frequenza di pause piene e vuote, asincronia fra il canale linguistico e gli altri canali non
verbali, …
Secondo la teoria IDT possiamo considerare la comunicazione menzognera come l’esito di un bilanciamento
tra segnali intenzionali e segnali non intenzionali. Se prevalgono i primi è probabile che la menzogna abbia
successo, se prevalgono i secondi è probabile il fallimento della menzogna.

DECEPTIVE MISCOMMUNICATION THEORY (DeMiT): proposta da Anolli, Balconi e Ciceri (2002). Questa
teoria assume che la comunicazione menzognera sia un processo eterogeneo e non omogeneo. In
particolare, si distingue tra: menzogne ad alto contenuto e menzogne a basso contenuto.
Le prime hanno conseguenze serie sia per il mentitore (perdere la faccia e l’autostima, essere attaccato come
bugiardo e disonesto, …) sia per il partner (essere sfruttato a vantaggio del mentitore, essere danneggiato nei
propri interessi, …). La comunicazione menzognera, inoltre, sempre in base a questa teoria, è governata da
un atteggiamento intenzionale o complesso e graduabile in funzione della produzione dell’atto ingannevole
entro un dato contesto relazionale. Essa segue comunque gli stessi meccanismi e processi cognitivi di
pianificazione del messaggio della comunicazione veritiera. La comunicazione menzognera è realizzata
seguendo le regole di una gestione locale degli scambi conversazionali, legate ad una situazione contingente
e con la condivisione di un focus discorsivo.
In funzione di questa gestione locale si distinguono:
- Mentitori ingenui: quelli che spesso falliscono
- Mentitori abili: quelli che solitamente hanno successo
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LA COMUNICAZIONE PATOLOGICA
La comunicazione schizofrenica
La comunicazione è un’attività relazionale articolata che va a toccare le radici dell’identità personale e della
posizione sociale di ogni individuo; essa è costituita dal se di ogni soggetto e per questo la comunicazione
stessa è una condizione essenziale del benessere e del disagio psicologico.
La sofferenza psicologica è strettamente collegata con quanto gli altri ci hanno comunicato attraverso parole,
gesti o fatti.
Molti psicologi clinici hanno ipotizzato una stretta interdipendenza tra disturbi comunicativi e disturbi patologici,
in quanto i modi di comunicare costituiscono fattori fondamentali per la genesi e il mantenimento dei disturbi
mentali.
La schizofrenia rappresenta una delle forme più gravi di disagio psichico ed è caratterizzata da un dissesto
generale della personalità che va dalla percezione e dal pensiero ai sentimenti e alle emozioni, ai rapporti
sociali e produttivi. Il soggetto schizofrenico tende a rifiutare ciò che è evidente in quanto pura apparenza e
invece tende alla continua ricerca di indizi che convalidino la sua vera interpretazione della realtà.
La sua attenzione tende a mantenere uno stato di ipervigilanza e il suo pensiero è caratterizzato da forme
deliranti di costruzione di eventi e di interpretazione della realtà.
Presenta inoltre una forma di iperintenzionalità in quanto coglie segnali minimi degli altri per attribuirvi
significati particolari e bizzarri.
Niente è privo di senso per uno schizofrenico e niente può sfuggire al suo controllo, tutto va previsto. In questo
modo si crea un enorme distacco tra realtà esterna e il suo mondo mentale,
A livello comunicativo parliamo di uno stile comunicativo contraddittorio, frammentario, dispero,
sgrammaticato, con la presenza consistente di neologismi e di forme sintattiche idiosincratiche. L’esito di
questo tipo di comunicazione è l’incomprensibilità e l’inafferrabilità. In questo modo egli può mantenere il
controllo nel confronto delle relazioni con gli altri, con la presunzione di restarne fuori.

Modelli schizofrenici di comunicazione


Bisogna sottolineare che tale forma di sofferenza psichica non riguarda solo un singolo individuo, ma investe il
sistema relazionale di riferimento (solitamente da famiglia); infatti lo stile schizofrenico di comunicazione non
riguarda soltanto il soggetto che manifesta i sintomi, ma anche gli altri membri della famiglia attraverso un
sistema di squalifiche, ambiguità, espressioni criptiche, contraddizioni e di bizzarrie imprevedibili.
Haley (1959) parlava di sistema modello facendo riferimento alla famiglia dello schizofrenico, mettendo in
evidenza modalità disturbate di comunicazione.
Alla base di questa forma di comunicazione patologica troviamo l’impossibilità di definire le relazioni tra i
partecipanti.
Le relazioni interpersonali normali sono sufficientemente definite per consentire un’appropriata comunicazione
e interazione, attraverso forme elementari di percezione interpersonale (esempio: ecco come mi vedo nei tuoi
confronti. Ecco come ti vedo nei miei confronti, e a un meta-livello superiore: ecco come mi vedo che tu mi
vedi). In questo modo si può negoziare e intendersi sulle rispettive definizioni di sé che comportano reciproche
aspettative, credenze, sentimenti, emozioni, …
Quando invece vi è una definizione relazionale instabile e fluttuante è impossibile giungere ad una definizione
delle relazioni, e a maggior ragione all’identità personale e alla comunicazione medesima. La mancanza di
definizione rende la relazione insostenibile e la comunicazione impossibile.
“Lo schizofrense è una lingua che lascia all’ascoltatore la scelta tra molti significati possibili. Diventa così
possibile negare parzialmente o totalmente di aspetti di un messaggio”.
Il meccanismo di base della comunicazione si fonda su una richiesta paradossale, che è quella di cambiare
una definizione della relazione che non è mai stata definita. Ciò che non è mai stato circoscritto non può
essere cambiato e di conseguenza qualsiasi tentativo di cambiamento è destinato a fallire.
Ognuno è sbagliato, qualsiasi cosa faccia e in qualsiasi modo lo faccia; è sempre fuori posto, è sempre
svalutato. Nella comunicazione schizofrenica ognuno si aspetta e chiede all’altro di cambiare. Questo però è
impossibile, ogni cambiamento è impossibile in quanto rimanda ad una condizione indefinita ed indefinibile.
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Allo stesso modo si giunge ad una condizione comunicativa indicibile perché diventa impossibile pronunciarsi
sulla realtà dei rapporti e ogni scambio comunicativo finisce nell’ambiguo e nel vago.
Parliamo quindi di una situazione relazionale caotica ed imprevedibile, caratterizzata da:
- Impenetrabilità: che comporta l’impegno a non definire sé stessi, a comparire come una sfinge
enigmatica, a comunicare in modo criptico ed incomprensibile.
- Imprendibilità: comporta la situazione di irraggiungibilità, di collocarsi fuori dagli schemi standard
previsti dalla cultura di appartenenza e della comunicazione di default.
L’impenetrabilità è una condizione comunicativa alla base dei giochi psicotici della famiglia. Parliamo di:
1. Imbroglio: consiste in una cera e propria truffa relazionale e si svolge in più tappe. Prima si ha una
coalizione stretta fra un genitore e un figlio contro l’altro genitore, ma appena tale coalizione rischia di
diventare insostenibile, il figlio è abbandonato dal padre a favore del suo riavvicinamento con la
madre. Il risultato di questa triangolazione è che il figlio si sentirà ingannato e strumentalizzato per i
giochi di coppia fra i suoi genitori. Questa condizione relazionale di imbroglio comporta autentiche
tempeste emotive, un misto di rabbia, vergogna, confusione e impotenza che se protratte nel tempo
conducono a esiti psicologici infausti.
2. Istigazione: processo di comportamenti da parte del genitore per spingere un figlio ad avere una serie
di reazioni aggressive contro l’altro genitore. Il figlio è quindi strumentalizzato dalla madre per
vendicarsi del marito, per togliergli il potere, per rispondere alle provocazioni, … Il risultato anche in
questo caso è l’emergere di emozioni violente e negative.
Imbroglio ed istigazione rappresentano giochi sporchi, in quanto i partecipanti fanno ricorso a mezzi
comunicativi sleali come menzogne sfacciate, raggiri, truffe, vendette camuffate, pseudo seduzioni, promesse
ambigue, …

Storia di Sara  siamo di fronte ad una storia che presenta elementi di gravità clinica cioè l’esordio giovanile,
manifestazioni sintomatiche rilevanti, i comportamenti altamente inadeguati in certe situazioni.
La scarsa coscienza e consapevolezza della malattia con conseguente rifiuto di curarsi e di fare terapia.
Questi esordi e questi comportamenti sono anche conseguenza della sensibilità di questa ragazza che
influisce sulla tipologia dei sintomi presentati. In questo caso possono derivare anche dal fatto che non si sia
costituito subito, tra la paziente e chi cerca di curarla, un rapporto di fiducia; questo non è raro nei soggetti
schizofrenici, in quanto difficili da conquistare nella collaborazione terapeutica. Si deve poi considerare che la
collaborazione medico-paziente, mancata fino a quel momento, non possa realizzarsi in futuro. Talvolta, i
pazienti schizofrenici riescono ad instaurare un rapporto di fiducia con il terapeuta dopo averne scartati diversi,
anche molto validi.
La paziente, nonostante la malattia e le difficoltà di vario genere che hanno impedito l’intraprendere una
continuità terapeutica, hanno mantenuto delle aree di funzionamento psichico e di buon adattamento alla
realtà; nonostante i momenti di crisi, essa raggiunge degli obiettivi scolastici e musicali e supera delle
difficoltà. Questo conferma che vi sono delle aree di funzionamento che comportano un miglioramento, e
questo fa anche pensare che i pazienti schizofrenici non sono destinati al deterioramento grave e totale delle
funzioni psichiche e all’emarginazione dalla società, ma, anzi, vi sono delle aree di funzionamento che
vengono ancora mantenute e su quelle si può lavorare per sostenere e facilitare un adattamento alla realtà.
Non è da escludere che gli interventi terapeutici proposti fino ad ora non siano stati vissuti da Sara come un
tentativo di invadere il suo modo d’essere e di vivere piuttosto che un valido sostegno ed aiuto.
La fragilità di fondo dei pazienti schizofrenici, il timore di essere manipolati e costretti dalla volontà altrui li
porta spesso a diffidare delle terapie proposte considerate come strumenti di manipolazione per ottenere
potere su di loro, sia nella mente che nel corpo.
I farmaci vengono vissuti come strumenti pericolosi nelle mani di un medico di cui ancora questi pazienti non
si fidano e sicuramente, anche le modalità di comunicazione che sostengono l’alleanza e facilitano la
costruzione di una relazione di fiducia sono estremamente importanti (non soltanto medico- paziente ma
anche tra i membri della famiglia).
C’è bisogno di un reale sostegno che mantenga l’alleanza non solo tra Sara e i medici ma anche tra i membri
della famiglia che la sosterranno durante la riabilitazione clinica.
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LA COMUNICAZIONE PARADOSSALE
Paradosso: contraddizione che deriva dalla deduzione corretta da premesse coerenti. Vi sono 3 tipi di
paradossi:
1. Antinomia logica: comporta una contraddizione sul piano formale, come “la classe di tutte le classi che
non dono membri di se stesse” risolta da Russell con la teoria dei tipi logici;
2. Antinomia semantica: implica un’incoerenza contraddittoria del linguaggio come frase detta da un
cretese “Tutti i cretesi sono bugiardi”, risolta da Carnap e Tarski con la teoria dei livelli di linguaggio;
3. Paradosso pragmatico: consiste in messaggi paradossali come ingiunzioni e predizioni. L’ingiunzione
“Sii spontaneo!” rappresenta l’esempio paradigmatico della comunicazione paradossale.
Qualsiasi persona che riceve questo messaggio si trova in una posizione insostenibile, questo perché tale
ingiunzione richiede di essere obbedita, ma di fatto deve essere disobbedita per essere obbedita.
La comunicazione paradossale implica che vi sia una relazione asimmetrica tra chi avanza l’ingiunzione e chi
deve seguirla (genitore – figlio, generale – soldato, …); richiede inoltre che il destinatario dell’ingiunzione non
è nella condizione di uscire fuori dallo schema relazionale e di meta comunicazione ribellandosi a tale
ingiunzione.
Esempi di comunicazione paradossale:
- Dovresti amarmi (se una persona ama un’altra per suo ordine o per dovere non può più essere
considerato amore inteso come sentimento spontaneo).
- Voglio che tu mi domini (frase detta dalla moglie al marito, in questo caso come fa il marito a dominare
un’altra persona che glielo ha comandato).
- Non essere così obbediente (frase detta dai genitori al figlio, con la situazione comunicativa
dell’esempio precedente).

Teoria del doppio legame


Beatson, Jackson, Haley e Weakland (1956) hanno elaborato la teoria del doppio legame come ipotesi
esplicativa della comunicazione paradossale sottesa alla schizofrenia. Questa teoria prevede:
1) Due o più persone sono coinvolte in una relazione importante che ha un rilevante valore per la
sopravvivenza di una o più di esse (dalla famiglia ai gruppi religiosi e politici, alla prigionia, alla
relazione psicoterapeutica, …).
2) In questo contenuto un membro invia ad un altro un tipo di messaggio caratterizzato in questo modo:
asserisce qualcosa, asserisce qualcosa sulla propria asserzione ad un altro livello comunicativo,
queste due asserzioni si escludono a vicenda; di conseguenza si tratta di un messaggio indecidibile;
infatti, se è un comando, il comando va disobbedito; se è una definizione di sé stesso, egli è tale
soltanto se non lo è.
3) Al destinatario di questo tipo di messaggio contraddittorio è impedito di uscire fuori dalla relazione né
meta comunicando né fuggendo via. Ogni tentativo fatto in questa direzione è qualificato come folle o
come cattivo, in quanto follia e cattiveria sono le categorie più ricorrenti per etichettare comportamenti
non standard e non rispettosi delle convenzioni culturali.

In questa condizione si assiste ad un modello di comunicazione nel quale ciò che è detto a voce è
regolarmente smentito a livello non verbale.
Facciamo un esempio: Una madre depressa che si rivolge al suo piccolo dicendogli: “Vieni qui in braccio a me
caro” – e non appena il figlio si avvicina lei ha un moto di irrigidimento per il suo avvicinarsi.
Abbiamo in questa situazione una desincronizzazione e una desintonizzazione strutturale e funzionale fra i
diversi sistemi di significazione e segnalazione.
L’esito è la frammentazione e la dispersione del significato che non riesce a comporsi in un’unità conclusiva e
coerente; il destinatario si sente dunque smarrito e mentalmente confuso, poiché non sa quale pezzo o parte
di significato assume come valido. Di conseguenza qualunque parte di significato egli assuma è sempre
sbagliato, in quanto ha ignorato altre parti rilevanti del significato.
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LA COMUNICAZIONE E I NEW MEDIA – INTRODUZIONE


I new media hanno ormai una notevole ed importante influenza sui nostri processi comunicativi. La maggior
diffusione di PC, internet, dei telefoni cellulari ha modificato e continua a modificare il nostro modo di
comunicare.
Analizzando che cosa fanno gli utenti su Internet, ci si accorge che un ruolo centrale è svolto dai social
network.
Il dicembre 2019 rappresenta un momento importante per la storia di internet, infatti per la prima volta social
network e blog sono diventati la destinazione più popolare sul web in termini di tempo trascorso, superando i
motori di ricerca, siti di informazione ed acquisto, giochi online e portali che per anni sono stati il punto di
riferimento per il mondo di internet.
Nel marzo 2010 poi, per un’intera settimana le visite alla homepage di Facebook hanno superato per la prima
volta quelle di Google. Questa crescente diffusione dei social network non può essere considerata solo come
un dato statico, ma rappresenta un processo di cambiamento che ha un impatto significativo sulla nostra
esperienza.
L’uso dei social network ha portato e introdotto nuovi modelli di comunicazione, creando modalità di
interazione che si differenziano immensamente dalla tradizionale comunicazione faccia a faccia.
Nonostante la portata dei cambiamenti, lo studio dei social network non è stato o non è ancora oggetti
privilegiato della ricerca psicologica e sociale.
La complessità dell’argomento richiede competenze che spazino dall’ergonomia, all’informatica, alle scienze
cognitive e sociali.
Fino all’avvento dei media le caratteristiche d’identità sociale (caratteristiche della propria posizione all’interno
dei gruppi sociali di riferimento di cui il soggetto fa parte) e della rete sociale (insieme delle persone cui sono
collegato da una forma qualsiasi di relazione sociale) erano limitate da vincoli spaziali e temporali a cui tutti noi
eravamo soggetti.
La nascita e lo sviluppo di internet ha consentito di allargare i confini delle proprie reti sociali, portando alla
creazione di un nuovo spazio sociale chiamato cyberspazio.
Grazie ad esso è possibile far entrare nella propria rete sociale anche amici virtuali, persone cioè mai
conosciute dal vivo.
Diventati molto popolari grazie al successo di servizi come Facebook e MySpace i servizi di social network
stanno cambiando le nostre abitudini. Secondo gli ultimi dati disponibili oltre 10 mln di italiani sono utenti di Fb
e di questi, quasi 1/3 trascorre almeno 1 ora al giorno sui social network per rimanere in contatto con amici
reali e virtuali.
Inoltre, i social network non vengono usati solo per conoscere nuovi amici, ma anche per cercare lavoro e
collaboratori.

Un social network può essere definito come una piattaforma basata sui nuovi media che consenta all’utente di
gestire sia la propria rete sociale, sia la propria identità sociale. Secondo Bond e Ellison sono tre le
caratteristiche dei social:
1. Presenza di spazio virtuale (forum) in cui l’utente può costruire ed esibire un proprio profilo,
accessibile, anche in forma parziale, a tutti gli utenti dello spazio.
2. La possibilità di creare una lista di altri utenti (rete) con cui è possibile comunicare e entrare in
contatto;
3. Possibilità di analizzare le caratteristiche della propria rete, in particolar modo le connessioni degli altri
utenti.
Risulta evidente come la principale caratteristica dei social non sia quella di facilitare la creazione di nuove
relazioni con gli sconosciuti. Questo era già possibile utilizzando un forum o una chat, un sito o un blog.
Invece quello che differenzia i social dai nuovi media disponibili in precedenza è la capacità di rendere visibili
ed utilizzabili le proprie reti sociali. Attraverso di essi, infatti, è possibile identificare opportunità personali,
relazioni e professionali altrimenti non immediatamente evidenti.
L’iscrizione ad un social permette a tutti i partecipanti alla Rete di consultare in maniera parziale i profili degli
altri. In seguito, sarà possibile prendere contatto con le persone più interessanti per chiedere loro di attivare
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una relazione.
Le relazioni possibili in un social network sono di due tipi:
1. Bidirezionali: (definita amicizia) permette ad entrambi gli utenti di accedere in maniera completa al
profilo del nuovo amico e di contattarlo direttamente mediante mail. Questo meccanismo permette di
creare una rete sociale chiusa (possono entrare solo le persone accettate come amici) al cui interno
nessuno è un totale sconosciuto e chiunque è identificabile come amico di qualcun altro.
2. “A stella” (tipica, per esempio, di Twitter) distingue esplicitamente tra emittente e ricevente.
La modalità bidirezionale consente di creare reti chiuse composte solo da amici di amici, mentre la modalità di
relazione a stella crea reti aperte in cui la maggior parte degli utenti riceventi (follower) non hanno altri contatti
con l’emittente a parte quello della rete sociale. In questo caso, a legare emittente e ricevente sono due tipi di
bisogni opposti: gli emittenti cercano visibilità, i riceventi invece sono curiosi di conoscere la vita o le
impressioni degli emittenti scelti. I social inoltre permettono di decidere come presentarsi alle persone che
compongono la rete, attraverso due tipi di strumenti:
Strumenti individuali
- Profilo  consente di descriversi in maniera codificata, cioè rispettando una serie di parametri definiti
dal social network (professione, interessi, musica, …).
- Possibilità di condividere foto e video
- Bacheca (se presente): utilizzata per raccontare quello che si sta facendo e pensando
Strumenti di gruppo
I principali strumenti di gruppo per la descrizione/definizione della propria identità sociale sono 3:
1. I GRUPPI: consentono a più persone di aggregarsi secondo un interesse comune (quale può essere
l’appartenenza ad una stessa università, l’interesse per un gruppo musicale, …). I gruppi non hanno
luogo e scadenza.
2. EVENTI: a differenza dei gruppi hanno una precisa descrizione spazio - temporale. Sono eventi le
feste, i concerti, gli incontri o qualsiasi altro appuntamento che si vuole segnalare alla propria rete di
amici o al proprio gruppo.
3. ALTRE APPLICAZIONI presenti non comuni a tutti i social network. Per esempio, “cause” (presente
su Facebook), permette di segnalare e sostenere cause di ogni tipo; o “viaggi” che permette di
indicare le città visitate o da visitare.

Perché dovremmo usare i social network?


Prochaska e DiClemente sottolineano come i soggetti cambiano solo se costretti o se il cambiamento
rappresenta un’opportunità significativa.
Rogers (2003) con la sua ricerca ha sottolineato come ogni innovazione tecnologica richieda un lungo e
complesso processo caratterizzato da diverse fasi di adozione:
1. Fase della consapevolezza  gli individui scoprono l’esistenza dell’innovazione tecnologica, ma
mancano delle informazioni complete a riguardo. In questa fase ad adottare la tecnologia sono gli
innovatori, cioè i soggetti caratterizzati da un’elevata capacità di affrontare l’incertezza, unita alla
competenza tecnica ed economica necessaria per affrontare l’innovazione.
2. Fase dell’interesse  nasce nelle persone un interesse verso l’innovazione che li porta a cercare di
saperne di più. In questa fase ad adottare la tecnologia sono i pionieri, cioè i soggetti integrati nella
rete sociale dove svolgono il ruolo di opinion leader, e che sono disposti ad accettare l’innovazione se
ne vedono il vantaggio.
3. Fase della valutazione  le persone sono in grado di comprendere i possibili effetti dell’innovazione
sulla propria situazione presente e futura. In questa fase, ad adottare la tecnologia, è la maggioranza
anticipatrice, cioè i soggetti spesso in posizioni di leadership che adottano una nuova idea solo dopo
averne valutato con estrema attenzione i vantaggi e gli svantaggi.
4. Fase della sperimentazione  le persone iniziano a provare l’innovazione per verificare direttamente
l’utilità. In questa fase ad adottare la tecnologia è la maggioranza ritardataria, cioè i soggetti
normalmente scettici, tradizionalisti, con uno status economico basso, che si avvicinano
all’innovazione per la pressione sociale dei pari.
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5. Fase dell’adozione  le persone decidono di usare pienamente l’innovazione. In questa fase ad


adottare la tecnologia sono i ritardatari, cioè i soggetti isolati, più sospettosi, con relazioni sociali
ridotte, lenti nelle decisioni e dotati di risorse limitate.
Il modello di Rogers sottolinea come, indipendentemente dalle caratteristiche specifiche di una tecnologia, il
concetto di opportunità sia critico per poter valutare il potenziale impatto dei social network.
Gibson ha introdotto il concetto di opportunità intesa come una risorsa che l’ambiente offre a un soggetto in
grado di coglierla. Ogni oggetto o ambiente è caratterizzato da una serie di proprietà che supportano un
particolare tipo di azione e non altre. L’opportunità può essere quindi intesa come una specie di invito
dell’ambiente ad essere utilizzato in un certo modo.
Bisogna sottolineare come le opportunità non siano tutte uguali, ma variano di importanza a seconda del
bisogno specifico a cui fanno riferimento. Uno dei contributi più importanti a questo proposito viene dall’analisi
dei bisogni di Maslow (1992). Maslow sostiene che i diversi bisogni che ciascuno di noi sperimenta non sono
isolati e a sé stanti, ma tendono a disporsi in una gerarchia di importanza.

Alla base della piramide si trovano i bisogni fisiologici (fame, sete, sonno, …) che sono i bisogni fondamentali
connessi alla sopravvivenza; al gradino successivo troviamo i bisogni di sicurezza e protezione che servono
per garantire all’individuo protezione e tranquillità; al gradino successivo troviamo i bisogni associativi (amore,
affetto, amicizia) che sono i bisogni legati alle necessità di sentirsi parte di un gruppo, di sentirsi amato e
amare, di cooperare con gli altri; al gradino ancora successivo troviamo i bisogni di autostima che riguardano
la necessità di essere rispettati, apprezzati e approvati, di sentirsi competenti e produttivi; all’ultimo gradino
della piramide troviamo i bisogni di autorealizzazione che riguardano l’esigenza di realizzare la propria identità
e di portare a compimento le proprie aspettative, nonché di occupare una posizione soddisfacente nel proprio
gruppo. Per soddisfare i bisogni presenti ai livelli più elevati della piramide il soggetto deve prima soddisfare
quelli collocati nei livelli più bassi.

A che livello di bisogni risponde il social network?


Possiamo dire che i social possono aiutare i loro diversi utenti a soddisfare le seguenti categorie di bisogni:
- Bisogni di sicurezza  nel social le persone con cui si comunica sono solo amici e non estranei; si
può scegliere chi è amico e cosa racconta si sé, commentarlo;
- Bisogni associativi  con questi “amici” possono comunicare e scambiare risorse, opinioni,
applicazioni; se voglio posso anche cercare l’anima gemella.,
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- Bisogni di autostima  io posso scegliere gli amici, ma anche gli altri possono farlo, per questo se
tanti mi scelgono come amico allora valgo;
- Bisogni di autorealizzazione  posso raccontare me stesso, dove sono, cosa faccio e lo racconto
come voglio, possono usare le mie competenze per aiutare qualcuno dei miei amici che mi ascolta.

Troviamo quindi utenti che utilizzano i social network come strumento espressivo, per condividere con gli
amici i momenti salienti della loro vita, troviamo anche utenti che utilizzano i social invece come strumento
professionale a scopo promozionale e persuasivo. In mezzo a queste due tipologie troviamo gli utenti che
usano i social per organizzare la propria vita relazionale.
In altre parole, possiamo dire che i social network sono in grado di offrire una risposta ai bisogni di utenti molto
diversi, e proprio questa capacità di offrire opportunità molto diverse tra loro è una delle spiegazioni del
successo dei social network.
Attraverso questi strumenti l’utente può sviluppare la propria identità, sia comprendere quella dell’altro; allo
stesso tempo può cercare supporto e offrirlo.
L’attrazione verso i social non si può spiegare solo con la capacità di offrire numerose opportunità agli utenti.
Una recente ricerca condotta dagli psicologi dello IULM e della Cattolica di Milano ha mostrato la capacità dei
social network di produrre esperienze ottimali (definite flusso), in grado di fornire una ricompensa intrinseca ai
propri utenti.
Dan Pink (2010) sottolinea come la capacità di un’esperienza di essere gratificante, indipendentemente dal
motivo per cui viene fatta, è la forma di motivazione più efficace. La gioia del compito diventa principale
ricompensa che spinge il soggetto a ripeterla.
Possiamo considerare i social come uno spazio sociale ibrido, un’ irrealtà che permette di far entrare il virtuale
nel nostro mondo reale e viceversa, offrendo a tutti noi un potentissimo strumento per creare e/o modificare la
nostra esperienza sociale.
Proprio grazie all’irrealtà possiamo usare i social network sia come strumento di supporto alla nostra rete
sociale, sia come strumento di espressione della nostra identità sociale, sia come strumento di analisi
dell’identità sociale degli altri.

Effetti della povertà della comunicazione mediata dal computer


Oggi esiste un accordo tra ricercatori che si occupano dei nuovi media nel considerare i social network come
un luogo digitale: il cyberspazio, un luogo in grado di accogliere e supportare comunità disperse.
Le bacheche elettroniche virtuali in cui far apparire messaggi virtuali (newsgroup) possono essere considerate
come gli antenati degli attuali social network. I newsgroup sono stati il primo luogo elettronico in cui è stato
possibile incontrare persone non conosciute e interagire con esse su tematiche non necessariamente definite.
I newsgroup hanno trasformato inoltre la comunicazione da bidirezionale a multidirezionale e possono essere
considerati la prima forma di comunicazione virtuale.
L’interazione dei newsgroup rispetto a quella nei contesti interattivi tradizionali è molto rarefatta; quale effetto
ha tale povertà comunicativa sui processi comunicativi e relazionali?
Secondo Sproull e Kiesler la comunicazione mediata dai computer manca degli elementi metalinguistici propri
della comunicazione faccia a faccia; inoltre è priva dei segnali di feedback che consentano agli attori
interagenti di identificare con precisione gli aspetti relazionali e sociali.
Le studiose delle loro ricerche arrivano a concludere che i nuovi media producono una situazione di vuoto
sociale in cui l’identità personale degli attori coinvolti tende a sfumare fino a scomparire.
Le principali conseguenze comunicative di questa posizione, definita dalla letteratura come Reduced Social
Cues Theory sono le seguenti:
- Nei media testuali i soggetti sono più aperti e più liberi di esprimersi. Le persone che interagiscono via
computer sono isolate dalle regole sociali e questo le fa sentire al sicuro dal controllo e dalle critiche;
- La perdita dell’identità personale spinge gli attori a violare le norme sociali. A sostegno di questa
posizione viene sottolineata la diffusione di molti comportamenti disfunzionale – come l’uso frequente
di insulti e termini aggressivi - tipici di questi media.
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Le teorie presentate da Sproull e Kiesler hanno alla base un’ipotesi molto precisa: la social presence
di un medium, intesa come le sua capacità di convogliare la presenza dei soggetti comunicanti, è
direttamente proporzionale alla sua media richness la quantità di informazioni trasmesse per unità ditempo
(Daft, Lengel, 1986). In quest’ottica i nuovi media, trasmettendo una quantità limitata di
informazione rispetto al faccia a faccia, non sarebbero in grado di supportare efficacemente le
relazioni interpersonali (Riva, 2010).
Sempre secondo le due studiose Sproull e Kiesler gli effetti di questi media non si manifestano solo
sul singolo soggetto, ma hanno anche un impatto rilevante anche sulle organizzazioni, rendendole
piùdemocratiche. La rarefazione dei media testuali infatti (in particolare delle e-mail) produrrebbe
all’interno delle organizzazioni un effetto di egualizzazione dovuto alla minore influenza delle norme sociali.
Questo rende le informazioni più accessibili consentendo una maggiore partecipazione degli attori alle
decisioni (Dubrovsky, Kiesler, Sethna, 1991).
Le posizioni espresse da Sproull e Kiesler sono state molto criticate.
Numerosi studi e l’esperienza di molti utenti dei nuovi media testimoniano come i soggetti impegnati nelle
interazioni di breve e lungo periodo attraverso le reti di computer siano comunque in grado di sviluppare
relazioni interpersonali con altre persone (Riva, 2010).

Cyberspazio – identità e comunicazione


Il Social Identity De-Individuation Model (Side) per cercare di spiegare le comunità virtuali propone un
quadro teorico alternativo.
1. Il primo elemento che caratterizza il modello Side è la distinzione tra media richness di un medium
comunicativo e la sua capacità di trasmettere indici sociali (Spears, Lea, 1992).
I soggetti interagenti possono infatti trasmettere e ricavare questi indici indipendentemente dalla quantità di
informazione trasmessa utilizzando:
• informazioni che fanno da cornice a un messaggio (esempio: l’intestazione o la firma);
• conoscenze precedenti relative agli interlocutori;
• deduzioni ricavate a partire dalla situazione comunicativa (esempio: l’argomento della mailing list a cui si
partecipa).
2. Il secondo elemento che caratterizza il modello Side è il riferimento alle teorie dell’identità sociale e della
Self-Cat-egorization Theory (Tajfel, Turner, 1986).
Secondo questi approcci i soggetti non sono caratterizzati da un Sé fisso, ma da diversi Sé (self categories)
che comprendono l’identità personale (le caratteristiche del sé che corrispondono alla personalità unica e
individuale) e le identità sociali (le caratteristiche del proprio gruppo sociale di riferimento nelle varie situazioni
di vita quotidiana) che emergono in base al contesto sociale in cui i soggetti sono inseriti (Riva, 2010).
Duplice è la conseguenza di questa visione, da una parte l’osservanza delle norme sociali di gruppo non
dipende strettamente dal fatto che siano compresenti altre persone, fisicamente vicine al soggetto e che lo
possono osservare: per il modello Side il sociale è dentro le persone e fa parte dell’identità (Paccagnella,
2000).
Inoltre data la rarefazione che caratterizza i nuovi media, l’influenza del contesto può essere più forte in essi
che nella conversazione faccia a faccia (Riva, 2010).
Il modello Side sottolinea il ruolo giocato anche nei media dalle norme sociali, ma non chiarisce come i
soggetti siano in grado di usare i ridotti indici sociali a disposizione nella comunicazione mediata per creare
relazioni interpersonali soddisfacenti (Riva, 2010).
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