Allievo Docente
Anno II
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una parola con lettere mescolate o si pronuncia un enunciato in modo confuso. L’errore quindi non è
dire ciò che non è ma dire qualcosa di diverso da ciò che è. Questa tesi viene ripresa da Aristotele il
quale però intende ciò che è con la sostanza e spiega che l’intelletto non può errare quando riflette
sulla struttura sostanziale dell’essere, mentre può errare quando esprime affermazioni accidentali.
Dopo Aristotele il problema dell’errore non è legato al tema della verità in quanto “i principi
cui la filosofia fa ricorso implicano che l’uomo è necessariamente nella verità ed escludono la
possibilità dell’errore”.v Le soluzioni più comuni saranno allora quelle di dire che l’errore non c’è o
che l’errore è dovuto ad una forza che interviene a disturbare il regolamento dell’intelletto e questa
forza è dovuta o ai sensi o alla volontà. S. Agostino (De Civitate Dei, XII, 7; De vera religione, 20)
parla appunto di volontà malvagia dell’uomo il quale pur essendo partecipe della verità eterna (per
grazia naturale) se ne allontana per via delle sue passioni.vi
Tommaso d’Aquino dice che l’errore accade quando si accetta il falso per il vero ma in
particolare quando si emette una sentenza falsa riguardo a cose che non si conoscono. Come
Aristotele per l’Aquinate la responsabilità dell’errore non ricade sui sensi ma sull’intelletto e questo
perché “la conoscenza sensitiva, che può essere vera e normalmente lo è, è priva della
consapevolezza della verità”.vii L’intelletto, invece, cade in errore quando non effettua i debiti
controlli circa il funzionamento dei sensi e la loro corretta rappresentazione. Tommaso d’Aquino
precisa, inoltre, che l’intelletto non può commettere errori durante il processo di astrazione (la prima
operazione dell’intelletto); quindi l’errore non accade quando l’intelletto ha una idea non conforme
ma piuttosto nel momento in cui l’intelletto conferma che c’è adeguamento tra l’idea formata e
l’oggetto posto in attenzione.
Quindi per Tommaso d’Aquino solo nel giudizio si dà verità e falsità. Infatti egli dice “nel giudizio
l’intelletto non è solamente in possesso dell’immagine della cosa conosciuta ma è anche consapevole
della somiglianza che esiste tra immagine e la cosa, ci riflette sopra, la conosce e la giudica. Da ciò
risulta che la verità non esiste nelle cose primariamente, bensì nella mente soltanto in quanto
compone e divide”. viii
Nella filosofia moderna abbiamo Cartesio (Principia Philosophiae, I, 31-38) il quale sostiene
che la volontà è più estesa dell’intelletto e che pertanto essa può assentire anche a ciò che, per
intelletto, non ha chiarezza e distinzione sufficienti. Spinoza nega l’esistenza dell’errore perché esso
implicherebbe l’imperfezione ontologica della sostanza. L’errore sarà solo ignoranza, mancanza di
conoscenza o meglio mancanza di quell’idea la quale escluderebbe l’esistenza degli oggetti che
l’immaginazione crede presenti.
Nella dottrina kantiana vediamo, intanto, il problema metafisico della verità e dell’errore
lasciare il posto soltanto a quello logico-gnoseologico in quanto la conoscenza non può avvenire come
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accordo del pensiero con realtà esterne ma solo con i suoi concetti. Osserviamo inoltre che la verità
e l’errore possono risiedere soltanto nel giudizio, cioè nel rapporto del nostro intelletto con l’oggetto.
E apprendiamo, infine, che nell’uomo non errano né i sensi né l’intelletto presi di per sé; è piuttosto
l’influsso inavvertito che la sensibilità esercita sull’attività intellettuale che induce in errore “facendo
sì che vengano considerati oggettivi dei fondamenti puramente soggettivi del giudizio i quali
inducono a scambiare la verità con una semplice apparenza”.
Pare che la teoria dell’errore non abbia ricevuto molta attenzione nella filosofia
contemporanea. Pare, infatti, che alcuni autori si siano posti sulla linea di Hegel e dell’idealismo
romantico non ammettendo la possibilità dell’errore. La posizione degli idealisti hegeliani è ben posta
per via di Giovanni Gentile che dice nell’opera (Teoria dello spirito, cap.16 Par. 8) “L’errore è errore
in quanto superato: in quanto, in altri termini, sta dirimpetto al concetto nostro, come suo non essere.
Esso è pertanto, come il dolore, non una realtà che si opponga a quella che è spirito ma è la stessa
realtà di qua dalla sua realizzazione; in un suo momento ideale”.ix Si tratta una soluzione articolata
secondo la dialettica hegeliana che vede l’errore come un momento negativo destinato “ad essere
superato o inverato nel momento positivo e concreto. Come errore non esiste”. x
Altri autori del 900 approcciano il problema dell’errore o come intrinseca fallibilità dei processi
cognitivi dell’uomo o nella teoria della falsificabilità di Popper che vede nell’errore il limite della
scienza da cui però si può imparare e migliorare e dirà “Evitare errori è un ideale meschino: se non
osiamo affrontare problemi che siano così difficili da rendere l’errore quasi inevitabile, non vi sarà
allora sviluppo della conoscenza. In effetti, è dalle nostre teorie più ardite, incluse quelle che sono
erronee, che noi impariamo di più. Nessuno può evitare di fare errori; la cosa più grande è imparare
da essi”. xi
Il riferimento a Popper e del suo pronunciamento mi permette di introdurre il cammino di
riflessione sull’errare del primo Martin Heidegger. Egli è l’autore di Essere e Tempo, opera in cui,
trovando insoddisfacenti le risposte che la scienza e la tecnica davano ai problemi del tempo, ha
rovesciato il tavolo da gioco filosofico e ha riportato la domanda filosofica sul piano ontologico
chiedendo nella fattispecie “Cosa è l’essere” a quell’unico “ente per eccellenza” che solo può porsi
la domanda sull’essere: l’uomo che Heidegger chiama esserCi. L’intento di Heidegger non è quello
di elaborare altre teorie astratte sull’essere quanto cercare - con disincanto e lucidità - le cause dei
mutamenti che si stavano producendo nel mondo (crisi di identità, svalutazione dei valori, perdita del
centro, alienazione ecc…) per poter rimediare.
Per Heidegger più radicale e profonda è la ricerca delle cause di quanto prodotto in termini negativi
a livello di superficie storica, tanto più efficace sarà la terapia utile per risolvere questi problemi. La
diagnosi che Heidegger fornisce sul malessere del mondo contemporaneo indica come causa quella
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che lui chiama l’essenza della tecnica, cioè quell’atteggiamento che esplica a livello planetario la
volontà di dominio conoscitivo ed operativo dell’esserCi su tutto l’ente. In questo contesto vi è una
dimensione profonda che Heidegger indica con Essere, la quale non è presente all’uomo
contemporaneo; una dimensione nella quale l’uomo contemporaneo maturerebbe una consapevolezza
della sua impotenza della sua finitudine e quindi della precarietà del suo progetto tecnico
predominanza e padroneggiamento della realtà. Questa arroganza di fronte all’ente che Heidegger
riconduce ad un senso di spaesamento del Dasein che, gettato in un mondo violento, si sente spaesato,
ma capendo di potersi progettare, tenta di venir via dalla gettatezza e darsi un senso, un fondamento.
Nel tentativo di quietare sè stesso e di poter sentirsi a casa nel mondo, l’esserCi diventa egli stesso
inquietante per gli altri enti con cui dispone relazioni generalmente “inautentiche” attraverso le quali
fa di tutto per usare le cose.
Questo tema dello spaesamento è chiaro nell’interpretazione che Heidegger fa del primo stasimo
dell’Antigone di Sofocle. Nei versi cantati dal coro il termine per indicare ciò che spaesa, che turba
è deinos. L’uomo sofocleo viene chiamato deinoteros (il più inquietante tra gli inquietanti) ma
Heidegger traduce con deinotatos secondo il superlativo assoluto. Per farlo usa una parola tedesca
che è Unheimliche con la quale più propriamente si indica uno spaesamento dato da allontanarsi da,
un ab-esse e dall’altra è un de-esse, un’assenza che è mancanza, nostalgia, perdita, un essere interdetti
da ciò che silenziosamente parla del focolare domestico, casa (heim) luogo per eccellenza del
raccoglimento e dell’intimità familiare, luogo in cui si è di casa cioè l’essere.
Lo spaesamento vira all’interno della dialettica tra la natura che è inquietante perché pericolosa per
l’uomo che vi sta in mezzo e l’uomo che per dominare la natura impone la sua tecnica. Recitano
infatti i versi “Balza sul flutto schiumante pel vento del sud invernale e incrocia sulle creste delle
onde furiosamente spalancantisi. Anche la più sublime delle divinità, la terra, l’indistruttibile
infaticabile, egli l’estenua, rivoltandola di anno in anno, passandovi e ripassandovi con i cavalli gli
aratri”. Sofocle, in poche righe ci dimostra che l’uomo, spaesato nella natura, si impone e predomina
usando qualsiasi cosa: il mare, il vento, i cavalli, pure la terra che infaticabile viene estenuata da uno
strumento che l’uomo stesso ha saputo creare. In questo continuo rapporto funzionale rispetto al
mondo, l’uomo errando di esperienza in esperienza giunge al nulla come cantano i signori di Tebe
“dappertutto aggirandosi, tutto esperendo per via, senza scampo, inesperto, perviene al nulla”.
Heidegger raccoglie questa idea sofoclea e spiega che l’uomo nel suo esperire il mondo procede
secondo un movimento rovinoso che orienta e indirizza la vita innanzitutto e per lo più verso la
modalità di attuazione inautentica, caratterizzata dall’anonimato del si : “si dice, si pensa, fatta di
molteplici e svariati rapporti di natura funzionale con gli altri enti, di chiacchiere, di curiosità
morbose e di equivoci”. Alla lunga, nel tentativo di ergersi come il più inquietante l’uomo continua
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ad errare cadendo nella situazione in cui è stato originariamente gettato reificandosi. L’erramento,
quindi va visto come un allontanamento dall’essere, dal mistero mentre va “via via da un oggetto
all’altro e che fa sì che egli non si accorga del mistero è l’errore. L’uomo erra. Ma non nel senso
che cade nell’erranza. Egli, infatti, si muove già da sempre nell’erranza e sta già in essa in quanto
e-sistendo in-siste (cioè è nel mondo). L’erranza, per la quale l’uomo va, non è qualcosa che gli sta
acconto come una buca nella quale a volte egli cada ma appartiene a quella costituzione intrinseca
dell’esserCi nella quale l’uomo storico è coinvolto”xii.
In queste frasi si riflette un po’ l’uomo del coro dell’Antigone che completamente immerso nell’etica
della protezione della polis, non ama affatto gli spaesamenti e dice “Non divenga egli intimo del mio
focolare” riferendosi a quell’uomo che tra tutto ciò che è Unheimliche è il più Unheimliche.
Possiamo vedere riflessa anche l’immagine di Ismene che non riesce a concepire il fatto che la sorella
Antigone si opponga all’ordine costituito, che infranga le regole di Creonte e della polis spaesando
tutti quei Dasein della polis che si crogiolano nell’anonimato del Sì impersonale, sotto il predominio
della legge di Creonte. Possiamo intravedere anche l’errare di Creonte il quale, con i suoi nomoi si è
imposto come l’inquietante sulla natura. Egli, soddisfatto dal suo modo di sperimentare il mondo,
finisce per aver cura degli enti limitando la loro libertà e i loro diritti e quando potrebbe dimostrare
di aver cura dell’altro facendone un fine e non un mezzo, decide di usare la violenza per dimostrare
la propria carica predominante. Dirà alla fine “Errore del mio pensiero insensato! Ostinazione
fatale”. E il coro replicherà “Troppo tardi per riconoscere ciò che è giusto”.
Creonte, quindi, ci permette di avere un esempio del fatto che l’erramento si pone a fondamento
dell’errore. L’errore non va visto come un particolare sbaglio ma come il dominio “della storia delle
trame intricate di tutti i modi dell’errore”xiii. Ogni esserCi ha un suo modo di errare in modo
conforme ai progetti che ha per sè e al modo con cui si mantiene in relazione con gli enti. In questo
senso l’errore assume diverse modalità “dal più comune sbagliarsi, prendere una svista, far male i
conti, fino al perdersi e all’essere stravaganti negli atteggiamenti e nelle decisioni essenziali.
Tuttavia, ciò che di abitualmente si conosce come errore, stando anche alle dottrine della filosofia,
ossia la non conformità del giudizio e la falsità della conoscenza, è solo un modo dell’errore e per
giunta il più superficiale. L’erranza, in cui l’umanità storica è ogni volta costretta a muoversi
affinché il suo cammino sia errante è connessa essenzialmente con l’apertura dell’esserci. L’erranza
domina l’uomo dall’interno fuorviandolo. Ma come fuorviamento, l’erranza contribuisce al tempo
stesso a creare la possibilità che l’uomo può trarre fuori dalla sua e-sistenza di non lasciarsi
fuorviare.” xiv
In questo erramento continuo può accadere che l’uomo esperisca l’angoscia davanti al nulla, un
abisso spiritualexv lo chiama Paul P. Gilbert che dell’angoscia ci dice: “L’angoscia nasce nel
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momento in cui lo spirito, scoprendo che la piena realizzazione del suo desiderio è nello stesso tempo
impossibile e necessaria, sa che il suo scacco è inevitabile. La volontà volente non si chiude mai in
una delle sue realizzazioni, anche la più prestigiosa, ma deve sempre andare più lontano; le è dunque
impossibile realizzarsi. La realizzazione del desiderio nel contingente le è tuttavia necessaria; la sua
verità è allora inutile”.xvi E riprendendo alcuni passi di Essere e Tempo di Heidegger Gilbert dice
ancora che l’angoscia nasce nel segno dell’etica di quello spirito scopre la potenza infinita della sua
libertà che però non ha un fondamento. Le scelte che compie sono proprie, niente le determina se non
lo stesso esserCi il quale è capace di tutto ciò che è “indefinitamente possibile”xvii e può impegnare
la propria libertà in quel mondo dove i progetti della libertà non hanno ragione, non hanno un
fondamento. Per cui se l’esserCi non fosse nel mondo non sarebbe inquieto; invece vive nel nulla del
mondo, nel destino della morte e della finitudine, che è il suo vero esser di casa, il suo vero focolare.
E l’angoscia “il quotidiano della sua verità”xviii. Per riprendere Sofocle “Dall’incombere, solo, della
morte con nessuna fuga può giammai difendersi”.
Una scelta autentica dovrebbe prevedere il superamento dell’angoscia accettando il fatto che
nella sua esistenza in-siste nel mondo che esso stesso crea e perché questo mondo abbia successo
deve venire fuori dall’anonimato del Si e vivere nell’anticipazione della morte, della propria
finitudine, accettando l’eremo in cui verrà gettato dagli altri. Paul Gilbert riprendendo Heidegger dice
proprio che l’uomo scegliendo volontariamente la via autentica si apre come essere possibile
nell’isolamento, nel solipsismo di chi si dà possibilità nella maniera in cui “solo a partire da se stesso
può essere ciò che è”.xix Ogni atto di vita è un atto suo e di nessun altro, ogni scelta è una scelta sua
e di nessun altro e anche la morte è sua e di nessun altro.
Un po’ come l’Antigone di Sofocle la quale alla sorella Ismene che le fa notare come sia sconveniente
cercare come arché delle proprie azioni l’impossibile risponde “E perciò lascia stare me e ciò che,
difficile e pericoloso, da me stessa prende consiglio: assumere nella propria essenza il deinon che
qui e ora si rende manifesto. Nulla e per nessun riguardo esperirò, per cui il mio morire non debba
appartenere all’essere.” Antigone ha deciso di andare contro Creonte e tutte le regole della polis per
dare degna sepoltura al fratello Polinice. Il suo deinon, il suo essere inquietante è riferito alla
tranquillità della polis, dei signori di Tebe (Siamo pure sempre in una tragedia greca la cui funzione
è quella di ricordare al cittadino le conseguenze delle azioni che si compiono). Tuttavia ella decide di
andare a caccia del suo arché, e quindi di assumere attivamente quel deinon che è quel tratto
caratteristico di spaesamento che fa dire al coro “fuori dal mio focolare” pur sapendo che il suo
progetto di vita la condurrà ad essere una a-polis, “condotta in luogo deserto eremos e rimessa al
regno sotterraneo, all’Abisso dell’Ade che non va visto come il tremendo di una morte precoce ma
come quel morire che sta in una appartenenza essenziale all’essere stesso”.xx
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Va da sé che una vita autentica se da una parte rende il mondo meno ricco (nel senso di capitalista)
induce a non cadere nell’erramento heideggeriano perché traccia una via secondo quell’unica certezza
che caratterizza la vita dell’uomo: la morte. È su questa via che l’uomo comprende la ricchezza di
ogni istante della propria vita ed evita quindi di perderlo nelle chiacchiere e negli equivoci.
Concludo con la speranza di non aver errato invano tra le parole e di essere riuscita a dare un
ampio spettro dei modi di pensare l’errore. Mi rimetto alla bontà di Heidegger che sosteneva la
possibilità di errare pure nella logica linguaggio quando ci si incammina nei sentieri della ricerca
filosofica. In fondo bisogna essere un po’ poeti (si legge anche filosofi), perché i poeti secondo
Heidegger abitano la radura dell’essere, scendono nell’abisso, si mettono sulle tracce degli dèi
fuggitivi, accettano la miseria del mondo e in ultimo sono coloro che meglio di altri sanno darci le
istruzioni per vivere da umani (ché uomini lo siamo già).
i
N. Abbagnano, Errore, in Dizionario di Filosofia, UTET, Torino 1971,312.
ii
F.Bonomi, Errare, in Dizionario etimologico online, https://www.etimo.it/?term=errare.
iii
Ho volutamente scritto “sbaglio” e non “erro” per avere l’occasione di sottolineare la differenza tra sbaglio ed errore.
L’errore che deriva da errare è un verbo che indica un processo continuo, come un cammino. Lo sbaglio che è associato
all’abbaglio è invece un fenomeno discreto. Non è un caso se i tecnici che operano misure non studiano una teoria dello
sbaglio ma dell’errore. Se essi ogni tanto prendono una svista di cui si accorgono facilmente, gli strumenti e i metodi di
misurazione hanno nel loro statuto l’errore sistematico che deve sempre essere previsto e calcolato e che non può non
accadere. L’errore sistematico non è una possibilità ma una necessità al contrario dello sbaglio che può esserci o non
esserci.
iv
A. Molinaro, Lessico di Metafisica, Edizioni San Paolo, Milano 1998,104.
v
N. Abbagnano, Errore, in Dizionario di Filosofia, UTET, Torino 1971,313.
vi
AA.VV, Errore, in Enciclopedia Garzanti di Filosofia, Garzanti editore, Milano 1993,326.
vii
B. Mondin, Errore, in Dizionario enciclopedico del pensiero di S.Tommaso D’Aquino, PDUL Edizioni Studio
Domenicano, Bologna 2000,248-249.
viii
Cf. Ib.
ix
AA.VV, Errore, in Enciclopedia Garzanti di Filosofia, Garzanti editore, Milano 1993,326.
x
N. Abbagnano, Errore, in Dizionario di Filosofia, UTET, Torino 1971,314.
xi
U. Galimberti, Errore, in Dizionario di Psicologia, UTET, Torino 2006,355.
xii
Cf. G. D’Acunto (a cura di), Martin Heidegger - Sull’essenza della verità, Armando editore, Roma 1999, 49-50.
xiii
Cf. Ib.
xiv
Cf. Ib.
xv
Cf.Paul P. Gilbert, La semplicità del principio. Introduzione alla Metafisica, Edizioni Piemme, casale Monferrato (AL)
1992,323.
xvi
Cf. Ib,330.
xvii
Cf. Ib,331.
xviii
Cf. Ib,332.
xix
Cf. Ib.
xx
Pietro Montani (a cura di), Antigone e la filosofia, Donzelli editore, Roma 2017, 194.