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PIRANDELLO “IL FU MATTIA PASCAL”

1. LA CULTURA DI PIRANDELLO E LA POETICA DELL’UMORISMO.


Un elemento di originalità nella cultura di Pirandello è rappresentato dai suoi interessi per la
psicologia. Degno di rilievo è il suo interesse per gli studi di psicologia di Alfred Binet e per il suo
libro Le alterazioni della personalità (1892). In Binet, Pirandello poteva trovare una prima scoperta
(anteriore a quella di Freud) della realtà dell’inconscio, studiata dallo scienziato francese non solo
nei casi di sonnambulismo e d’isterismo e nelle loro conseguenze (come la scrittura automatica),
ma anche nella vita quotidiana e normale della psiche e quindi, per esempio, nei meccanismi della
memoria involontaria (in questo senso, Binet ha influenzato non solo Pirandello, ma anche Proust)
o, semplicemente, nel fenomeno della distrazione, che rivela il carattere multiplo della coscienza e
la compresenza in essa di momenti coscienti e incoscienti. Le pagine della Premessa seconda del
Fu Mattia Pascal in cui Mattia dichiara che, dal punto di vista della coscienza razionale, è assurdo
e inutile scrivere storie e romanzi dato che il mondo e il suo significato sono inconoscibili e che le
narrazioni possono essere intraprese solo in seguito ad una “distrazione” da tale consapevolezza,
risentono appunto della lettura del libro di Binet. Inoltre lo studioso francese teorizza che l’io è
prodotto da una sovrapposizione di strati successivi della coscienza, nessuno dei quali, anche se può
apparire dimenticato, è in realtà mai perduto, e che in ogni uomo coesistono simultaneamente
diversi livelli di coscienza e anche diverse personalità (di qui il fenomeno dello sdoppiamento della
personalità).
“ È possibile trovare in condizioni molto diverse dei frammenti di vita psicologica che hanno come caratteristica
essenziale di possedere una memoria propria; dire con ciò che questi stati non sono percepibili durante la veglia e
dunque non lasciano ricordi, ma il ritorno dello stesso stato riconduce i ricordi delle sue manifestazioni anteriori, e
l’individuo si ricorda allora tutti i fatti che egli aveva dimenticato durante la vita normale. [...]
Dal punto di vista puramente psicologico, il solo che a noi interessa, le suggestioni retroattive ci insegnano qualcosa
di nuovo sul meccanismo della divisione della coscienza. Esse ci insegnano anzitutto che una folla di ricordi antichi,
che noi consideriamo morti, perché siamo incapaci di evocarli volontariamente, continuano a vivere in noi; di
conseguenza i limiti della nostra memoria personale e cosciente non sono che quelli della nostra coscienza attuale e
dunque non sono limiti assoluti; al di là di queste linee, ci sono dei ricordi, delle percezioni, dei ragionamenti, e ciò
che noi conosciamo di noi stessi non è che una parte, forse una parte debolissima, di ciò che noi siamo. [...]
La nostra personalità si modifica col tempo: la personalità, infatti, non è una entità fissa, permanente e immutabile; è
una sintesi di fenomeni che varia cogli elementi che la compongono e che è in via di continua e incessante
trasformazione. Nel corso di una esistenza anche normale si succedono numerose personalità distinte; ed è solo per
artificio che noi le riuniamo in una sola, perché in realtà, a vent’anni di distanza, noi non abbiamo più lo stesso
modo di sentire e di giudicare. [...]
Ciascuno di noi non è uno, ma contiene numerose persone che non hanno tutte lo stesso valore. [...] In una stessa
persona diversi fatti di coscienza possono vivere separatamente senza confondersi, e dare luogo all’esistenza
simultanea di diverse coscienze e anche, in certi casi, di diverse personalità”.(Binet Le alterazioni della personalità)

“Le barriere, i limiti che noi poniamo alla nostra coscienza, sono anch’essi illusioni, sono le condizioni dell’apparir
della nostra individualità, relativa; ma, nella realtà, quei limiti non esistono punto. Non soltanto noi, quali ora
siamo, viviamo in noi stessi, ma anche noi, quali fummo in altro tempo viviamo tuttora e sentiamo e ragioniamo con
pensieri e affetti già da un lungo oblio oscurati, cancellati, spenti nella nostra coscienza presente, ma che a un urto,
a un tumulto improvviso dello spirito, possono ancora dar prova di vita, mostrando vivo in noi un altro essere
insospettato. I limiti della nostra memoria personale e cosciente non sono limiti assoluti. Di là da quella linea vi sono
memorie, vi sono percezioni e ragionamenti. Ciò che noi conosciamo di noi stessi, non è che una parte, forse una
piccolissima parte di ciò che noi siamo. E tante e tante cose, in certi momenti eccezionali, noi sorprendiamo in noi
stessi, percezioni, ragionamenti, stati di coscienza, che sono veramente oltre i limiti relativi della nostra esistenza
normale e cosciente. Certi ideali che crediamo ormai tramontati in noi e non più capaci d’alcuna azione nel nostro
pensiero, su i nostri affetti, su i nostri atti, forse persistono tuttavia, se non più nella forma intellettuale, pura, nel
sostrato loro, costituito dalle tendenze affettive e pratiche. E possono essere motivi reali di azione certe tendenze da
cui ci crediamo liberati, e non aver per l’opposto efficacia pratica in noi, se non illusoria, credenze nuove che
crediamo di possedere veramente, intimamente.
E appunto le varie tendenze che contrassegnano la personalità fanno pensare che non sia una l’anima individuale.
Come affermarla una, difatti, se passione e ragione, istinto e volontà, tendenze e idealità, costituiscono in certo modo
sistemi distinti e mobili, che fanno sì che l’individuo, vivendo ora l’uno ora l’altro di essi, ora qualche compromesso

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fra due o più orientamenti psichici, apparisca come se veramente in lui fossero più anime diverse e perfino opposte,
più e opposte personalità?
Non c’è uomo, osservò il Pascal, che differisca più da un altro che da sé stesso nella successione del tempo”.
(Pirandello L’umorismo)

Proprio la coscienza dello sdoppiamento dell’io e della capacità dell’uomo di vedersi vivere sono le
basi teoriche della poetica dell’umorismo, espressa nel saggio del 1908 appunto intitolato
L’umorismo e per la prima volta applicata nel Fu Mattia Pascal.
“Vedo una vecchia signora , coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca, e poi tutta goffamente
imbellettata e parata d’abiti giovanili. Mi metto a ridere: Avverto che quella signora è il contrario di ciò che una
vecchia rispettabile signora dovrebbe essere: Posso così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa
impressione comica. Il comico è appunto un avvertimento del contrario. Ma se ora interviene in me la riflessione, e
mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che
forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente s’inganna che, parata così, nascondendo così le rughe e la
canizie, riesca a trattenere a sé l’amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come
prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andare oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto
più addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed è
tutta qui la differenza tra il comico e l’umoristico.”
“Per l’umorista le cause, nella vita, non sono mai così logiche, così ordinate, come nelle nostre comuni opere d’arte,
in cui tutto è, in fondo, combinato, congegnato, ordinato ai fini che lo scrittore s’è proposto. L’ordine? La coerenza?
Ma se noi abbiamo dentro quattro, cinque anime in lotta fra loro: L’anima istintiva, l’anima morale, l’anima affettiva
e l’anima sociale? E seconda che domina questa o quella, s’atteggia la nostra coscienza; e noi riteniamo valida e
sincera quella rappresentazione fittizia di noi medesimi, del nostro essere interiore che ignoriamo, perché non si
manifesta mai tutt’intero, ma ora in un modo, ora in un altro, come volgono i casi della vita.
Sì, un poeta epico o drammatico può rappresentare un suo eroe, in cui si mostrino in lotta elementi opposti e
repugnanti; ma egli di questi elementi comporrà un carattere, e vorrà coglierlo coerente in ogni suo atto. Ebbene,
l’umorista fa proprio l’inverso: egli scompone il carattere nei suoi elementi; e mentre quegli cura di coglierlo
coerente in ogni atto, questi si diverte a rappresentarlo nelle sue incongruenze.” (Pirandello L’umorismo)
Insomma, al posto della coerenza sottentra l’incongruenza, l’imprevedibilità, l’incalcolabile di ogni
storia. La molteplicità al posto dell’unità. Da una parte definizione del carattere (psicologia), per
cui anche laddove “si mostrino in lotta elementi opposti e repugnanti” si tenderà ad assimilarli,
integrarli, costituirli in unità; dall’altra, inconcludenza, rifiuto di disegnare confini, di costruire
organismi, di addivenire ad una visione di totalità, distruzione dell’identità.
Nel cap. II del Fu Mattia Pascal, intitolato Premessa seconda (filosofica) a mo’ di scusa, Mattia
esclama Maledetto sia Copernico! La scoperta di Copernico, ponendo fine all’antropocentrismo
tolemaico, è considerata da Pirandello il presupposto stesso dell’atteggiamento umoristico, che è
fondato infatti su un assoluto relativismo. Viceversa il romanzo ottocentesco era ancora basato sulla
fiducia di poter dare un significato assoluto e certo alla realtà e alla vicenda umana; insomma, non
tirava tutte le conseguenze della rivoluzione copernicana.
Nella Premessa prima il protagonista dichiara di avere “ben misera stima dei libri”, e nella
Premessa seconda afferma di cominciare un romanzo solo per “distrazione”, cioè dimenticando per
qualche tempo che nella realtà non si danno storie né significati giacché gli uomini, “atomi
infinitesimali”, non possono che ignorare il senso delle cose ed essere alla mercé di una natura
maligna e incomprensibile che li sovrasta e che è, in ultima analisi, inconoscibile. D’altronde, tale
distrazione è “provvidenziale” non tanto perché permette di scrivere romanzi, quanto perché
consente di vivere, cioè di impegnarsi nella vita come se questa avesse un senso.
Con la mossa iniziale di dichiarare il proprio romanzo frutto di una “distrazione”, e dunque di
limitarne immediatamente il valore conoscitivo, Pirandello rivela la stessa coscienza autocritica di
Svevo che, all’inizio de La coscienza di Zeno, con la premessa del dottor S., avverte
preliminarmente il lettore che quanto segue è un cumulo di “verità e bugie”. Mentre il romanziere
tradizionale si sforza di far credere al destinatario che quanto egli scrive corrisponde a verità
indubitabile, Pirandello e Svevo sollecitano nel lettore la vigilanza critica e uno straniamento che
renda impossibile o almeno difficile la sua identificazione col protagonista e con la sua storia.
2. LA VICENDA.
CAPITOLI I-V

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Dopo i primi due capitoli-premessa, che servono a Mattia Pascal per giustificare in qualche modo il suo racconto
autobiografico, l’azione vera e propria inizio col cap. III.
A Miragno, paesetto dell’entroterra ligure in provincia di Oneglia, Mattia vive l’infanzia e l’adolescenza con la
madre e il fratello Roberto. Il padre, morto a soli 38 anni, ha lasciato la famiglia in un’agiatezza che va però
sfumando per l’incapacità della signora Pascal ad occuparsi del patrimonio, e per la scioperataggine dei figli che,
ormai adulti, non se ne curano minimamente. Ci pensa così Batta Malagna, il vecchio amministratore del padre, a
rosicchiare, pezzo dopo pezzo, tutte le sostanze dei Pascal.
Intanto, mentre il fratello Roberto ha contratto un vantaggioso matrimonio e si è trasferito ad Oneglia, Mattia si lascia
invece abbindolare dalle mene di una cugina del Malagna, Marianna Dondi, vedova Pescatore, da poco stabilitasi a
Miragno con la bella figlia Romilda. Il giovane Pascal, per l’appunto, corteggia un po' troppo ardentemente la
ragazza e, compromessala, si vede costretto al matrimonio riparatore; non prima, comunque, di aver ingravidato
anche Oliva, la giovane moglie del suo amministratore, cacciata di casa perché ritenuta sterile. Il Malagna, infatti,
complice la vedova Pescatore, vorrebbe approfittare dello stato di Romilda per vantarsi padre del nascituro; ma
appena Oliva lo informa di essere pure lei incinta, deve per forza riprendersela. È la beffa di Mattia, il quale sposa
Romilda e, al contempo, costringe la “talpa” dei suoi averi ad assumersi la paternità del figlio che lui, Mattia, ha fatto
concepire ad Oliva.
Ma ecco che Malagna si ripaga prontamente: manda in completa rovina i Pascal, tanto che la madre di Mattia, priva
addirittura di un tetto, è costretta a trasferirsi presso il figlio, a casa della vedova Pescatore, la quale, indispettita col
genero per lo scherzetto delle due gravidanze, da un lato lo accusa di inettitudine perché disoccupato, dall’altra dà
chiari segni di insofferenza verso l’anziana consuocera. Il giovane, stanco di questa situazione e deciso a trovare un
qualsiasi mestiere, riesce, tramite l’amico Pomino (primo spasimante di Romilda), ad impiegarsi alla “Boccamazza”,
la biblioteca comunale di Miragno. Eppure, nonostante il lavoro, le cose non migliorano in famiglia; e nemmeno la
nascita di due gemelle - che però muoiono entrambe: una nei primi giorni di vita, l’altra entro l’anno - servirà a
rasserenare l’ambiente. Contemporaneamente alla seconda figlia, scompare anche la madre di Mattia: e questi, nella
disperazione più nera, può contare oramai solo su zia Scolastica (l’arcigna sorella del padre), mentre il fratello
Roberto non ritiene neppure di presenziare alle esequie, cavandosela con 500 lire di contributo per le spese funebri.
Tale somma, comunque, il povero Mattia potrà segretamente tenerla per sé, in quanto ha fatto fronte a tutto la zia
Scolastica.
CAPITOLI VI-VII
Passa qualche tempo e Mattia, non tollerando più le solite scenate familiari, decide di fuggire dal paese portando con
sé unicamente le 500 lire del fratello. Marsiglia è la sua prima meta: da lì potrà poi imbarcarsi per l’America. Giunto
a Nizza, però, non se la sente di intraprendere l’avventura dell’emigrante povero: si ferma così nella città francese,
dove, girellando, viene per caso attratto dalla vetrina di un negozio che espone roulettes ed opuscoli vari su l gioco
d’azzardo. Mattia entra, e senza sapere bene perché, compra un libretto dal titolo Metodo per vincere alla roulette;
indi raggiunge in treno la vicina Montecarlo, determinato a buttare nel gioco le sue 500 lire. Entrato nel Casinò
monegasco, si siede quasi subito al tavolo verde. La fortuna, avversa all’inizio, gli diviene colpo dopo colpo propizia,
di modo che alla fine della giornata, ha già raggranellato un discreto gruzzolo. Mattia, frastornato, torna a Nizza e
prende alloggio in un albergo, dove potrà verificare la vincita e riposarsi. Il giorno seguente, volendo ritentare la
sorte, si ripresenta al Casinò di Montecarlo; e qui, in capo a dodici giorni e con la fortuna in poppa, finisce per
trovarsi in tasca una considerevole somma. Soddisfatto, decide di lasciare la Costa Azzurra per rientrare a Miragno.
Sul treno del ritorno Mattia pensa a come avrebbe potuto, con tutti quei soldi, pagare i creditori, ma si immagina pure
le scenate della moglie e della suocera che, appena rincasato, gli avrebbero rimproverato la lunga assenza, nonché
l’assai probabile perdita del posto di lavoro. Alla prima stazione italiana compra un giornale; sfogliandolo, viene
attratto da un titolo in grassetto, SUICIDIO. Nel leggere l’articolo apprende, con stupore crescente, che il suicida, del
suo stesso paese, sarebbe addirittura lui, Mattia Pascal, riconosciuto da moglie e suocera nel cadavere di un annegato
nella gora del suo ex podere, la Stìa. In preda a febbrile eccitazione, scende alla stazione di Alenga e, fra le molte
confuse idee che gli tumultuano nel cervello, comincia ad assaporare la possibilità di sottrarsi alle grinfie infernali di
moglie e suocera, rifacendosi una nuova vita. Dal momento che ha dimenticato il giornale sul treno, vuole sincerarsi
della “sua” morte verificandola su “Il Foglietto”, un giornalino di Miragno che si fa mandare il giorno dopo ad
Alenga, dove intanto s’è fermato a pernottare. Avuta la conferma della notizia - il direttore del giornale, certo Miro
Colzi, gli ha dedicato addirittura un lungo, toccante, retorico necrologio - Mattia, confortato anche dal frettoloso ed
interessato riconoscimento del cadavere da parte delle “sue” donne, vince ogni residua perplessità e, tirato un
lunghissimo sospiro di sollievo, opta senz’altro per la sparizione.
CAPITOLI VIII-IX
È sua intenzione, infatti, far di sé un altro uomo, vista la pessima riuscita come Mattia Pascal. Così, già prima di
partire da Alenga, ritiene opportuno accorciarsi la barba; poi, ormai sul treno per Torino, rimedierà un nuovo nome,
Adriano Meis, scaturito dalla dotta conversazione di due occasionali compagni di viaggio. Non gli resta che liberarsi
della fede nuziale, uno degli ultimi legami col passato: dopodiché Mattia può pensare a rifarsi una vita nei panni di
Adriano Meis, inventandosi pure origini e famiglia. Tanto per cominciare passa un po’ di tempo girando in lungo e in
largo per l’Italia e l’Europa, finché, stanco di viaggiare, si ferma a Milano. Qui cominciano a sorgere i primi dubbi
sull’idea che Mattia Pascal aveva creduto di inseguire e realizzare diventando Adriano Meis: non gli sono infatti

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consentite amicizie se non superficiali ed occasionali, pena il tradimento della sua vera identità; e la conseguente
solitudine finisce per ingenerargli, pian piano, una strisciante depressione. Decide pertanto di lasciare Milano, con
l’illusione di poter ricominciare una nuova autentica vita a Roma, dove pensa sia anche più facile mantenere
l’anonimato.
CAPITOLI X-XVI
Trova senza difficoltà una camera in affitto presso certo Anselmo Paleari, uno strano pensionato sessantenne che vive
con la secondogenita Adriana e il marito d’un’altra figlia da poco defunta, un uomo torbido di nome Terenzio
Papiano. In casa, oltre al fratello del genero, abita pure una pigionante, la matura signora Silvia Caporale, maestra di
piano. Il Paleari stringe subito ottimi rapporti con il nuovo inquilino: le loro discussioni vanno dall’evoluzionismo
scientifico all’esistenza dell’anima; finché, un giorno, l’anziano padrone di casa confessa ad Adriano il suo interesse
per la teosofia, e la pratica, di quanto in quanto, dello spiritismo.
Mattia-Adriano va sempre più prendendo coscienza che la libertà del suo anonimato comporta anche non pochi limiti
ad una vita di normali relazioni sociali: specie ora che anche la giovane Adriana e la signorina Caporale lo trattano
con amichevole familiarità. Una sera tardi, in seguito all’improvviso rientro di Terenzio Papiano da Napoli, il Meis
assiste involontariamente prima ad un alterco tra il nuovo venuto e la Caporale, indi ad una corte troppo insistente del
cognato nei confronti di Adriana. Non potendo ulteriormente reggere, Adriano si fa notare, e la giovane, rincuorata,
gli dimostra tacitamente la propria gratitudine. Egli riceve così la prima conferma del suo amore; e lui, dal canto suo,
sente di ricambiare tale sentimento: che si consolida quando, da una confidenza della pianista, apprende come
Papiano corteggi Adriana per puro interesse. La notizia non fa che aumentare l’antipatia fra i due uomini. È Papiano
comunque ad attaccare per primo: subodorato che il nuovo inquilino nasconde qualcosa, lo incalza in tutti i modi,
giungendo addirittura a portare in casa un poveraccio, anch’egli Meis di cognome, nel tentativo di scoprire il vero
passato di Adriano che, tuttavia, non si lascia incastrare. Un’altra visita - questa del tutto occasionale - di un amico di
Papiano che Pascal aveva casualmente conosciuto a Montecarlo, convince il giovane ad eliminare l’ultimo legame
con Mattia, l’occhio strabico, che si farà raddrizzare chirurgicamente.
Durante i quaranta giorni di convalescenza, trascorsi nel buio della sua stanza, il Meis riceve, oltre le gradite cure di
Adriana, le visite di Anselmo Paleari - che gli sciorina, tra l’altro, una sua strana concezione filosofica, la
lanterninosofia - e quelle meno piacevoli di Papiano, tutto teso ad indagare sul passato dell’ospite. Una sera poi, con
la scusa di tenergli compagnia, Papiano, che d’accordo con la Caporale suole carpire la buona fede del suocero
mediante sedute spiritiche, ne allestisce una addirittura nella camera di Adriano. Vi partecipano tutti e, per la prima
volta, anche Adriana. Durante la problematica preparazione della catena spiritica Adriana finisce accanto al Meis: ed
inizia così, mano nella mano, complice il buio, il loro muto colloquio d’amore che si concluderà con un bacio
appassionato. Al termine della seduta, però, dopo aver verificato i suoi sospetti - tutte le manifestazioni spiritiche
sono frutto sono il frutto dell’intesa Papiano-Caporale-fratello di quest’ultimo -, Adriano assiste, in piena luce, alla
lievitazione del tavolino; e, non riuscendo a spiegarsi razionalmente il fenomeno, passa la notte in fantasticherie,
giungendo persino ad attribuire il fenomeno all’anonimo suicida della Stìa, che si sarebbe in tal modo vendicato del
“favore” fatto a Mattia consentendogli di sparire.
Il giorno dopo il giovane si sveglia più innamorato che mai di Adriana, ma attanagliato dall’angosciosa
consapevolezza di non poterla rendere felice col matrimonio, in quanto individuo privo di identità anagrafica. Così,
quando l’amata bussa alla sua camera con la scusa di presentargli l’onorario del dottore per l’operazione all’occhio, il
Meis non può trattenersi dall’abbracciarla, ma al contempo si dispera per la propria anomala situazione. Decide
comunque di non rivelare nulla, temendo di aggravare la situazione; e, per fare qualcosa, si avvicina all’armadietto
dove custodisce i soldi, intenzionato a prelevare la somma necessaria a saldare il conto del dottore. Adriano però,
nell’infilare la chiave si accorge, con grande meraviglia, che lo stipetto è già aperto e, subito dopo, contato il denaro,
verifica la sparizione di 12 mila lire. Sia lui che Adriana individuano subito il colpevole: è stato Papiano durante la
seduta spiritica, coadiuvato dal fratello. La giovane vorrebbe denunziare all’istante il furto, ma Adriano glielo
impedisce, poiché ciò finirebbe col peggiorare la sua già critica situazione. Così, ottenuto il silenzio di Adriana, esce
di casa, e, nell’angoscia più profonda, medita sulla sua condizione di vivo per la morte e morto per la vita. La sua
ombra inconsistente, calpestata da tutti per la via, diviene il simbolo della sua esistenza vana e falsa.
Al rientro in casa il Meis s’accorge, dalle grida di Papiano e Paleari, che Adriana ha denunciato il furto al padre.
Stizzito, dichiara, mentendo, di aver ritrovato il denaro e, pur di non svelare il suo segreto, scagiona Papiano, il quale
comunque è già corso ai ripari scaricando sul fratello, impunibile in quanto malato di epilessia, ogni eventuale
responsabilità. Adriana non crede alle affermazioni dell’amato e si allontana singhiozzando. Meis, in un’amara ma
lucida analisi del suo stato, prende la risoluzione di staccarsi definitivamente dalla ragazza. angustiato e nauseato da
una condizione esistenziale insopportabile, decide di sparire; e la classica goccia che fa traboccare il vaso gliela offre
una lite, che Adriano non riesce ad onorare secondo le regole del duello, perché, privo di documenti, non può neppure
ambire alla tutela dei prescritti padrini.
Mentre, come istupidito, vaga per Roma, si trova per caso sul Ponte Margherita, e qui dà attuazione al suo proposito:
il cappello - con dentro un biglietto recante nome, data, indirizzo - e il bastone lasciati intenzionalmente sul parapetto
suffragheranno l’ipotesi del suicidio, mettendo per sempre fine all’inconsistente vita di Adriano Meis; nello stesso
tempo, ricomparendo a Miragno, potrà vendicarsi - Mattia Pascal redivivo - della fretta troppo interessata con cui
moglie e suocera l’avevano seppellito.

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CAPITOLI XVII-XVIII
Si dirige verso la stazione dove arriva appena in tempo per salire sul treno diretto a Pisa. Alla partenza del convoglio
tira un interminabile sospiro di sollievo: non più nei panni dell’inesistente Adriano Meis, bensì di nuovo Mattia
Pascal vivo e vegeto. Durante il viaggio non può comunque dimenticare Adriana e il dolore che le ha provocato
scomparendo. Ma poi si consola: non avrebbe potuto mai essere vivo per lei, tanto vale farsi credere morto. In mezzo
a tali pensieri Mattia elabora anche un piano di rinascita: passerà prima da Oneglia, per sperimentare sul fratello
Roberto l’impressione suscitata dalla sua ricomparsa; poi raggiungerà Miragno.
Intanto, una sosta a Pisa la giudica opportuna per liberarsi dei residui connotati di Adriano Meis. Sceso alla stazione
della città compra alcuni giornali di Roma da cui apprende come il suo caso sia stato liquidato senza troppo scalpore;
così, dopo qualche giorno, può tranquillamente proseguire per Oneglia. Qui trova il fratello che, passando ben presto
da un comprensibile iniziale stupore ad una schietta felicità, lo sconsiglia di recarsi a Miragno, poiché sua moglie s’è
risposata con Pomino, l’antico amico d’infanzia e primo spasimante di Romilda. Mattia dapprima trasecola, indi si
riprende e, sarcasticamente, pensa di vendicarsi, anche se il cognato di Roberto, avvocato, lo avverte che tornare in
paese equivale a doversi riprendere la moglie. Ma ormai Mattia è deciso, e non attende neppure l’indomani, come
invece gli va consigliando il fratello. Col treno delle otto, in preda all’ansia e alla rabbia, parte la sera stessa per
Miragno; appena giunto si reca subito all’abitazione di Pomino, intenzionato a far valere i propri diritti su Romilda.
Pomino e la moglie, nonché la vedova Pescatore, vengono colti da shock nel vederlo riapparire, tanto che gli
abbandonano in braccio la neonata figlioletta. I vagiti della bambina sfiammano però l’ira di Mattia sino a fargli
cambiare pian piano idea: resterà a Miragno, per dimostrare a tutti di essere vivo, lasciando comunque in pace la
nuova famiglia della moglie. Così, salutati i novelli sposi, se ne va. Ma dove? Gira e rigira per il paese, però nessuno
lo riconosce, e taluni fingono addirittura di non vederlo. Irritato, si dirige verso la biblioteca “Boccamazza” e, al suo
vecchio posto, trova don Eligio Pellegrinotto. Questi gli riserva un’accoglienza festosa, e lo porta quindi tra i
compaesani, che adesso lo riconoscono, subissandolo di domande cui Mattia risponde in modo evasivo.
Nei giorni seguenti, sistematosi presso zia Scolastica, passa parecchie ore della sua giornata di redivivo nella
biblioteca in compagnia di don Eligio. Proprio qui darà inizio alla stesura della sua storia, che porterà a termine in
capo a sei mesi; e, all’amico reverendo che gli ricorda come non sia possibile vivere fuori dalla legge e dalle
convenzioni sociali in genere, Mattia ribatte di non essere rientrato né nella legalità, né tantomeno nel godimento dei
suoi diritti: anzi, nella sua nuova veste, non sa più neppure dire esattamente chi è. Infatti, ai curiosi che lo seguono di
ritorno dal cimitero, dove ha deposto una corona sulla tomba dello sconosciuto defunto della Stìa, e gli chiedono
conto della sua identità, risponde: “Io sono il fu Mattia Pascal”.

3. LA STRUTTURA NARRATIVA E LA DINAMICA PSICOLOGICA DEL ROMANZO


A. La struttura narrativa: il rovesciamento del “romanzo di formazione”
Il romanzo è scritto in prima persona. Esso comincia dalla fine, a vicenda conclusa, secondo il
procedimento del racconto retrospettivo. A narrare, infatti, è il “fu” Mattia Pascal, che racconta la
sua strana storia dopo che questa è terminata. C’è dunque un io narrante che racconta e un io
narrato che è il protagonista della storia. La struttura, insomma, è quella di un’autobiografia che
racconti post factum l’intero arco di una vicenda. Nei tradizionali romanzi autobiografici però il
protagonista trae un insegnamento dalla propria vita, realizza cioè un romanzo di formazione,
mentre colui che dice io nel Fu Mattia Pascal al momento in cui comincia a scrivere si considera
già fuori della vita, estraneo al processo storico e a ogni suo possibile significato, e non ricava
alcun insegnamento, né per sé né per gli altri, dal bilancio della propria esistenza: la vita, per lui,
non ha né sviluppo né direzione né scopo, e il suo approdo non può che essere una condizione di
estraneità totale, quella di chi vive come se fosse già morto e scrive di sé nel chiuso di una
miserabile biblioteca, ormai lontano dal mondo - da cui ha reciso ormai ogni vitale radice e da ogni
possibile illusione. Questo atteggiamento di distacco - comunicato dall’io narrante già nei primi due
capitoli e poi confermato nell’ultimo - sta alla base dell’attitudine umoristica alla autoriflessività e
alla scomposizione critica applicata anche a se stesso da parte di chi scrive, per cui insieme al
ricordo abbiamo anche la critica del ricordo.
La vicenda è suddivisibile in tre momenti che formano come tre parti diverse del racconto, ciascuna
della quali ha un diverso protagonista (anche se la persona titolare della narrazione autobiografica è
sempre la stessa): Mattia Pascal nella prima, Adriano Meis nella seconda, il “fu” Mattia Pascal nella
terza. Sono questi i tre nuclei fondamentali del romanzo, ma non è un caso che il culmine di
tensione si dia proprio nel cap. XVI, alla conclusione della seconda parte, poco prima dello
scioglimento finale, quando Adriano Meis mette in atto il proprio falso suicidio. Il fallimento di
Adriano Meis è in realtà il fallimento del romanzo di formazione, vale a dire di un modello di

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romanzo strutturato intorno all’ipotesi di una progressiva formazione sentimentale, morale e
culturale del protagonista, il quale, attraverso di essa, mira a una vera e propria “costruzione” della
propria personalità. E appunto questo tenta di fare Pascal una volta trasformatosi in Adriano Meis.
Mentre il romanzo ottocentesco ruota intorno al problema della formazione dell’identità individuale
e alla progressiva realizzazione di sé, raggiunta dal protagonista attraverso una serie di “prove” che
ne permettono l’inserimento all’interno della società in modo costruttivo o, comunque, dinamico (si
pensi, per esempio, a fra Cristoforo nei Promessi sposi), ora tale autorealizzazione è immaginata
possibile solo al di fuori delle leggi sociali, delle convenzioni e dello stesso stato civile. Ma tale
assoluta libertà e disponibilità non porta affatto Pascal-Meis alla realizzazione piena di sé: essa non
libera l’individuo dalla voglia di vivere e dalle illusioni che a questa necessariamente si
accompagnano, per attuare le quali si rivelano indispensabili uno stato civile e dunque, di nuovo,
una condizione di dipendenza e di prigionia. Di qui il fallimento di Adriano Meis. D’altra parte,
Mattia Pascal alla fine non torna certo ad essere quello dell’inizio: ormai vive ai confini della vita e
fuori dell’ordine sociale, è un “fu”. Insomma, la conclusione del romanzo rivela un’assoluta
sfiducia sia nella società e nella possibilità di un libero e pieno sviluppo del soggetto al suo interno,
sia nella autorealizzazione dell’identità individuale attraverso una “costruzione” di sé. Perciò Il fu
Mattia Pascal è un romanzo di formazione alla rovescia, volto a dimostrare l’impossibilità di una
formazione individuale e di un’affermazione piena di sé da parte del protagonista.
Nella prima e nella seconda parte del romanzo si portano anche a dissoluzione due ambienti. Nella
prima parte, che si svolge nella prospettiva del paese, in una situazione provinciale che appare
ancora estranea alla modernità, si assiste alla disgregazione di quell’ambiente “idillico”,
caratterizzato dai valori della famiglia e della tradizione. La condizione idillica della giovinezza
scapestrata di Mattia è già insidiata dalla morte del padre e dalle ruberie dell’amministratore, e ben
presto la famiglia da centro di affetti (quale si intravede ancora nel tenero rapporto che lega Mattia
alla madre) si trasforma in una prigione, in una gabbia nevrotica, ove a guidare le scelte
fondamentali (quelle della vedova Pescatore o di Batta Malagna) sono solo l’interesse, il puntiglio
sciocco o, nel caso di Mattia, una non meno nevrotica tendenza alla “trasgressione” e alla
irresponsabilità. Nella seconda parte, che si svolge nello spazio della grande città (Milano o Roma)
e nel confronto con la modernità, viene condotto a dissoluzione il sogno di libertà e di costruzione
dell’io. Il moderno, la società delle macchine, dell’industria e del “progresso” che uccide il passato
ma non sa dare nuova identità al presente, cala l’uomo in un sistema di convenzioni che
impediscono la sua interiore realizzazione.
Distrutti i vecchi modelli di romanzo, Il fu Mattia Pascal già ne anticipa uno nuovo, quello aperto e
sperimentale delle avanguardie novecentesche. Tale nuovo modulo è fondato non già sulla linearità
dei rapporti causali e temporali della vicenda, ma sull’imprevedibilità dell’intreccio, sullo spazio
inusitato (e impensabile nel romanzo tradizionale) concesso alle digressioni, sulla dissoluzione
umoristica dell’ordine e dell’armonia, insomma su un’istanza piuttosto critico-negativa che
positiva. Possiamo dire che nel Fu Mattia Pascal è già presente un’esigenza tipica del romanzo del
Novecento: non è sufficiente raccontare, occorre anche riflettere e lo scrittore deve produrre
meccanismi di “distanziamento”, di riflessione nel lettore e quindi rompere con tutte le funzioni
narrative che producono, al contrario, identificazione (è questa la lezione, applicata alla narrativa,
del saggio L’umorismo).
B. La dinamica psicologica
La condizione iniziale di Mattia sembra essere quella di un’eterna adolescenza, il suo
comportamento pare determinato da un’esigenza di trasgressione che non giunge mai allo scontro
aperto con l’autorità, alla rivalità aperta e dunque al conflitto edipico col padre e con le sue figure
sostitutive. Pare ripetere meccanicamente l’atto della trasgressione impotente, senza la capacità di
controllarlo.
L’inetto. Egli non si fa alcun carico di responsabilità per quanto gli accade. “Che colpa ho io se
Pomino eseguì con troppa timidezza le mie prescrizioni? Che colpa ho io se Romilda, invece di
innamorarsi di Pomino si innamorò di me, che pur le parlavo sempre di lui? Che colpa, infine, se la
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perfida Marianna Dondi...” (cap. IV). Agendo per fini non propri, gli intrighi in cui si irretisce
restano estranei ai suoi intenti e sortiscono effetti rovesciati.
Alla sua storia si intrecciano quella di Pomino - di cui l’amico Mattia vorrebbe fare la felicità,
proponendolo alla giovane Romilda, lui, Pomino, troppo timido per rivelarle il suo amore - e quella
del laido Batta Malagna, che ripudia la giovane moglie Oliva, perché non gli partorisce un figlio e
che Mattia vorrebbe umiliare e rendere infelice per la sua impotenza a procreare. La trappola
concertata invece dalle donne per soddisfare i loro bassi scopi intorno a un matrimonio
vantaggioso, imprigiona come un topo proprio il solo che non aveva avuto alcuno scopo nell’agire,
Mattia, e fa invece della felicità, l’infelicità di Pomino, invece dello “scorno” al Malagna, la sua
beata soddisfazione. Non è un caso che nella biblioteca “Boccamazza”, frequentata da enormi topi,
le trappole imprigionino i gatti invece che i topi a cui erano destinate. Questa può essere una
corrispondenza figurata della triste sorte di Mattia.
Dal triangolo Mattia-Pomino-Romilda e da quello Mattia-Malagna-Oliva è Mattia a uscire
frustrato, costretto a piegarsi a un matrimonio fallito in partenza: ne sono segno la sciattezza della
moglie, prima bella e maliosa, l’ostilità rabbiosa della suocera e quelle figliolette “misere più di
quei due gattini che Mattia ritrovava ogni mattina dentro la trappola, che non avevano la forza di
vagire, come quelli di miagolare, e intanto, ecco, si graffiavano” cap. V), quasi che al mondo, per
un istinto animalesco non ci si potesse recare che dolore e sofferenza reciproca. Una morì in pochi
giorni, l’altra dopo meno di un anno.
Mattia perde anche quella sua beata “scioperataggine”, quando, per provvedere ai bisogni di
famiglia, accetta di lavorare nella tremenda solitudine della biblioteca. Ora Mattia è cosciente della
propria condizione di vinto e soggiogato dai casi del destino più forte di lui e sottolinea questo stato
con una considerazione vile e commiserata di se medesimo: “ero inetto a tutto; e la fama che m’ero
fatta con le mie imprese giovanili e con la mia scioperataggine non invogliava certo nessuno a
darmi da lavorare. Le scene poi, a cui giornalmente mi toccava di assistere e di prendere parte in
casa mia...” (cap. V). Tutto denota la passiva accettazione degli eventi, che si risolvono in
condizionamenti e convenzioni sociali, l’impotenza a decidere del proprio destino ed anche
l’incapacità di spiegarsene il perché.
Così Mattia Pascal di Pirandello, come Zeno Cosini di Svevo, portano sulla scena dei personaggi
quell’uomo senza qualità che nella letteratura europea diventa l’espressione dell’uomo del secolo
nuovo, il Novecento, incapace di tollerare la crisi dei valori della tradizione e di confrontarsi con i
suoi esiti.
Dopo la morte della figlia e della madre, grazie ai soldi inviatigli dal fratello che dovevano servire
alla sepoltura della madre, Mattia finisce per “seppellire” invece se stesso e grazie alla vincita a
Montecarlo si ritrova ricco.
L’identità. Mattia ha cambiato “status”, da povero a ricco, e già non si riconosce nei suoi panni.
Quello degli abiti è un tema ricorrente nell’opera pirandelliana. Un cappello, una barba, la foggia di
una giacca possono far sembrare quello che non siamo: così Mattia comincia a mettere in dubbio
l’opportunità della sua barba o dei suoi capelli. Il tema dell’essere-apparire balza in primo piano e
anticipa il tema dell’identità: “Chi sono io ora? Bisogna che ci pensi. Un nome, almeno un nome,
bisogna che me lo dia subito, per firmare il telegramma e per non trovarmi poi in imbarazzo se, alla
locanda, me lo domandano. Basterà che pensi soltanto al nome per adesso. Vediamo un po’! Come
mi chiamo?”.
Con un percorso circolare la narrazione ritorna alla battuta iniziale “io mi chiamo”, alla ricerca di
una certezza collegata al nome: “ignoravo allora che cosa volesse dire il non sapere neppur questo,
il non poter rispondere, cioè, come prima, all’occorrenza, io mi chiamo Mattia Pascal”.
I due capitoli-cerniera che narrativamente assolvono alla funzione di passaggio da Mattia a
Adriano, ripropongono, per Mattia, l’inutilità, e contraddittoriamente, per Adriano, l’importanza di
usufruire di un nome che indica l’appartenenza a una società, al di fuori della quale non è dato
vivere.

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Pirandello provoca e sconcerta il lettore con non-soluzioni paradossali: lo guida infatti, attraverso i
casi di Mattia, a spogliarsi delle istituzioni, delle convenzioni, dei ruoli, fino a restare socialmente
nudo, senza un nome, senza una famiglia, senza un mestiere, dunque libero e, come un fanciullo,
disponibile. Una condizione primigenia, di ingenuità e d’innocenza, dove la vita logorata e
consunta dai lacci e dalle tagliole della società può ricominciare intatta. L’autore, nella liberazione
di Mattia dal suo nome e, ufficialmente, anche dal suo corpo, sembra realizzare l’universale
desiderio di libertà. Ma, dopo aver spogliato quel Mattia in fuga dai suoi vecchi e pesanti panni, ce
lo presenta nella sua intatta nudità a disagio, disorientato, irritato: il paradosso è proprio nella
condizione di nudità di Mattia in una società di uomini “vestiti, pesantemente vestiti”.
La solitudine. Se il nuovo Adriano Meis è l’incarnazione della conquistata libertà, ne diventa
immediatamente anche il segno di contraddizione, poiché in quella situazione mobile e fluida
s’insinua inevitabilmente il tarlo della solitudine e l’altro, che ancora più rode, dei limiti che
l’assenza di una registrazione anagrafica impone ad una vita di per sé libera, in quanto inventata. I
condizionamenti anagrafici e burocratici, dai quali Mattia era fuggito, diventano l’anello mancante
tra Adriano e la vita; “ero più niente io; nessuno stato civile mi registrava, e così fuori da ogni
legge, senza alcun documento tra le mani che comprovasse, non dico altro, la mia esistenza reale,
ero nell’impossibilità di procacciarmi un qualche impiego” (cap. VIII). Ma neppure la compagnia
di un cucciolotto minuscolo, di pochi giorni, rincantucciato tra le scarpacce di un vecchio cerinaio,
egli può procacciarsi; infatti avrebbe dovuto, per quella proprietà, versare una tassa, lui che non
poteva pagarne, poiché anagraficamente o era morto o non esisteva.
La solitudine e un “senso penoso di precarietà”, per non avere né una casa propria né un’amicizia
propria, sono l’avvertimento che la libertà “totale”, cioè fuori da una dimensione storico-sociale,
diventa un ingombro e un impaccio: “ma la verità è questa: che nella mia libertà sconfinata, mi
riusciva difficile cominciare a vivere in qualche modo. Sul punto di prender una risoluzione, mi
sentivo come trattenuto, mi pareva di vedere tanti impedimenti e ombre e ostacoli” (cap. IX).
“ Da spettatore estraneo, nel rimescolio di gente” che gli passa davanti, risultano possibili solo
fugaci incontri.
Liberato dalla gabbia delle istituzioni - l’anagrafe, le tasse, l’impiego, il matrimonio - grazie ad una
morte stranamente attribuita a Mattia, alla fine del cap. IX troviamo Adriano sul punto di procurarsi
nuovi vincoli e nuovi legami: una città di residenza, una casa con fissa dimora, delle amicizie e
degli affetti per vincere la solitudine. Anche per Adriano Meis la vita non sembra poter esistere
fuori da tutto quello che, in fondo, Mattia si era lasciato alle spalle dopo quel “fatale” salto dal
treno.
Lo strappo nel cielo di carta. Una caratteristica dei personaggi di Pirandello è senza dubbio quella
di essere personaggi ragionatori, cioè che continuano ad interrogarsi su se stessi e sul mondo. Non
pochi sono anche i personaggi che “escono” dai confini sicuri della morale e della legge che il
“patto sociale” impone, che all’improvviso sono assaliti “da una strana impressione, come se, in un
baleno, gli si chiarisse una realtà vivente oltre la vista umana, fuori dalle forme della ragione”. Uno
di questi personaggi è senza dubbio Anselmo Paleari, il proprietario della pensione in cui alloggia
Adriano e suo interlocutore attento, compagno delle sue passeggiate come delle peregrinazioni della
sua mente.
Adriano e Anselmo sono opposti e complementari. Ambedue ragionano molto: l’uno, Adriano, in
maniera quasi tetra e pesante, mentre cerca la vita e della vita ha paura, l’altro, Anselmo, in forme
leggere, svagate e spaesate, mentre si muove nella libertà senza peso della morte e dei suoi misteri
(è un appassionato di sedute spiritiche). Sarà proprio Anselmo a dire ad Adriano: “Ora senta un po’
che bizzarria mi viene in mente! Se, nel momento culminante, proprio quando la marionetta che
rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno
strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe? Oreste rimarrebbe sconcertato da quel buco
nel cielo: Oreste sentirebbe ancora gli impulsi della vendetta, vorrebbe seguirli con smaniosa
passione, ma gli occhi, sul punto gli andrebbero lì, a quello strappo, donde ora ogni sorta di mali
influssi penetrerebbero nella scena, e si sentirebbe cader le braccia. Oreste, insomma, diventerebbe
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Amleto” (cap. XII). “Beate le marionette”, pensa riflettendo Adriano “sulle cui teste di legno il
finto cielo si conserva senza strappi! Non perplessità angosciose, né ritegni, né intoppi, né ombre,
né pietà: nulla!” (cap XII).
Dallo strappo nel cielo di carta prende il via la scoperta della “finzione” nella vita - è un cielo di
carta azzurrina e non un cielo vero - sono istituzioni, convenzioni, leggi e non sentimenti,
emozioni, idee. Lo strappo è quella scoperta improvvisa e lacerante tra ciò che vorresti e ciò che
sei, o che vogliono che tu sia. Da qui il dubbio amletico “essere o non essere”, lo scarto tra il
personaggio “eroico” e il personaggio “perplesso”, in posizione di ragionatore, che scopre la
finzione e la pena del vivere, dunque l’ironia e la pietà che Pirandello indica quali elementi
costitutivi dell’arte dello scrivere.
Lo stesso Pirandello in una Lettera autobiografica scrive: “Io penso che la vita è una molto triste
buffoneria, poiché abbiamo in noi, senza poter sapere né come né perché né da chi, la necessità di
ingannare di continuo noi stessi con la spontanea creazione di una realtà (una per ciascuno e non
mai la stessa per tutti) la quale di tratto in tratto si scopre vana e illusoria.
Chi ha capito il giuoco, non riesce più a ingannarsi; ma chi non riesce più a ingannarsi, non può più
prendere né gusto né piacere alla vita.”
La “lanterninosofia”. Ancora più significativa, in quanto chiave di lettura dell’esistenza umana, è
quella “speciosissima” concezione filosofica del Paleari (che corrisponde esattamente a quella
espressa da Pirandello nell’Umorismo), chiamata da Adriano la lanterninosofia, che il buon
Anselmo va così spiegando: “A noi uomini [...] nascendo è toccato un tristo privilegio: quello di
sentirci vivere, con la bella illusione che ne risulta: di prendere cioè come una realtà fuori di noi
questo nostro interno sentimento della vita, mutabile e vario, secondo i tempi, i casi e la fortuna.
[...] Un lanternino che proietta tutt’intorno a noi un cerchio più o meno ampio di luce, di là dal
quale è l’ombra nera, l’ombra paurosa che non esisterebbe, se il lanternino non fosse acceso in noi”
(cap XIII). Il passaggio dal mondo antico al moderno è dunque segnato dall’abbandono delle
certezze e dal conseguente relativismo. L’idea del mondo varia non solo da individuo a individuo,
ma, nella stessa persona, a secondo del momento e dello stato d’animo. Sfortunatamente, però, per
Pirandello, l’uomo ha la tendenza a dare un valore assoluto a ciò che invece è relativo: egli finisce
così per considerare come realtà fuori di sé, oggettiva, ciò che è solo il risultato di una proiezione
soggettiva, del vario e cangiante sentimento della vita che ognuno porta dentro di sé. Egli scambia
la luce del lanternino della propria coscienza, che gli serve per orientarsi nel mondo ma che anche
lo induce a vederlo in un modo determinato e individuale, per la luce stessa delle cose.
Il personaggio. In conclusione, comunque, Adriano Meis è una copia di Mattia Pascal, la dinamica
interiore è la stessa, la “coazione” che lo induce alla trasgressione ma non a rovesciare il rivale
(Papiano alla fine raggiunge il suo scopo) non è mutata. L’errore di Adriano Meis è stato quello di
restare “persona”, con una vecchia morale e una vecchia ambizione all’integrità individuale, e con
una ingenua predisposizione a cadere nei lacci della vita; ed ambedue queste istanze (quella etica e
quella vitalistica e passionale) richiedono di necessità la dipendenza da un ordine sociale e
convenzionale, che esse devono accettare anche per potersi soltanto manifestare.
La svolta decisiva si ha solo quando Pascal cessa di essere persona e si trasforma in personaggio.
Nella parte finale del romanzo, quando Mattia rinuncia a qualsiasi identità e diviene “il fu Mattia
Pascal”, nasce il personaggio, una maschera nuda: l’uomo non è più persona, ma è diventato un
simulacro di se stesso, estraniato dalla vita, lontano dalle sue illusioni e dalle sue tentazioni, nonché
dai suoi codici morali. Le categorie “vero/falso” hanno perso il loro valore. Pascal non si è
autorealizzato e neppure è giunto ad accettare pienamente lo stato civile e le convenzioni sociali, ha
solo imparato a vivere la propria diversità restando quasi “fuori dalla vita”: La vera identità non
esiste.
Qual è il “significato” complessivo del romanzo? Non c’è alternativa all’accettazione, seppure
estraniata, dello stato vigente delle cose? Da un lato la vicenda di Pascal prospetta l’aspirazione a
una libertà assoluta, dall’altro quest’ultima, essendo in contraddizione col sistema di rapporti sociali
e di convenzioni vigenti, si rivela impossibile. Ne discende dunque che la vita è male (convenzioni,
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fissità, maschera) nella sua realizzazione storico-sociale: ma è solo così o non è affatto; o è non
essere, dissoluzione angosciosa di se stessa, pulsione astratta e frustrata del desiderio. È il dramma
del personaggio pirandelliano, essere maschera nuda, avere voglia di vivere, di essere, ma aver
scoperto che vivere vuol dire accettare di essere maschera, accettare un ruolo, o più ruoli a seconda
degli interlocutori, aspirare ad essere uno e scoprire di essere nessuno e centomila. Citando ancora
le parole di Pirandello, “chi ha capito il giuoco [la maschera nuda], non riesce più a ingannarsi, non
può più prendere né gusto né piacere alla vita”. Diventa solo spettatore della vita, come il fu Mattia
Pascal.

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