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Daniele Enrico Mazzanti

3° I Scuola Media Statale Dante Alighieri


anno scolastico 2005/2006

Tesina su Giovanni Pascoli


UNA DEDICA PER I PROFESSORI CHE CI HANNO SEGUITO IN QUESTI ANNI, ED UNA AI
COMPAGNI CHE HANNO DIVISO CON ME, I SUDORI PER I COMPITI IN CLASSE, LE
PAURE DELLE INTERROGAZIONI, LE SODDISFAZIONI D’UN BEL VOTO E PERCHE’ NO,
ANCHE LE BIRICHINATE CHE ABBIAMO FATTO, E CHE FANNO ANCH’ESSE PARTE
DELLA PREPARAZIONE AL NOSTRO FUTURO.
SARA PIACEVOLE RIEVOCARLE, QUANDO GRANDI, INCONTREREMO UN COMPAGNO
DI CLASSE CHE NON SI VEDE DA TEMPO, O RACCONTARLE AI NUOVI AMICI NEL
PROSSIMO CICLO DI STUDI CHE AFFRONTEREMO CON FORZA E CORAGGIO RICAVATI
DA QUESTI PRIMI, IMPORTANTISSIMI, BASILARI, ANNI DI SCUOLA.
INFINE, MA NON IL MENO IMPORTANTE, UN GRAZIE A MIO FRATELLO CARLO PER ME
“EROE DI TUTTI IGIORNI” AL QUALE DEVO LA CERTEZZA DI UN ESEMPIO DI UN
CONFORTO E DI UNA COMPLICITA’ D’INTENTI

DANIELE ENRICO MAZZANTI


Il Decadentismo ebbe origine in Francia e si sviluppò in
Europa tra gli anni Ottanta dell’Ottocento e il primo
decennio del Novecento. Trova un corrispettivo nella
corrente che prese nomi diversi a seconda del paese in cui
fiorì: in Italia, in Francia, in Germania. Il Decadentismo
rappresenta una reazione decisa agli aspetti ideologici,
morali e letterari del Positivismo. Fu l’esasperazione di una
delle due tendenze del Romanticismo, quella rivolta alla
contemplazione di un mondo di mistero e di sogno,
all’espressione di un soggettivismo estremo, mentre il
realismo e il verismo ne avevano sviluppato la tendenza
oggettiva.
Il termine “decadente” ebbe, in origine, un senso negativo; fu
infatti rivolto contro alcuni poeti che esprimevano lo
smarrimento delle coscienze e la crisi di valori di fine
Ottocento, sconvolto dalla rivoluzione industriale, dai conflitti
di classe, da un progressivo scatenarsi degli imperialismi, dal
decadere dei più nobili ideali romantici. Questi poeti
avvertirono il fallimento del sogno più ambizioso del
Positivismo: la persuasione che la scienza, distruggendo le
“superstizioni” religiose, sarebbe riuscita a dare una
spiegazione razionale ed esauriente del mistero della vita e
avrebbe posto i fondamenti di una migliore convivenza degli
uomini.
Il Decadentismo fu, prima di tutto, uno stato d’animo di
perplessità smarrita, un sentimento di crisi esistenziale, che si è
venuto progressivamente approfondendo nella prima metà del
nostro secolo, travagliata da tragiche esperienze di guerre,
dittature, rivoluzioni, e anche da scoperte scientifiche
sconvolgenti.
Due sono gli aspetti fondamentali della spiritualità decadentista:
il sentimento della realtà come mistero e la scoperta di una
nuova dimensione nello spirito umano, quella cioè,
dell’inconscio, dell’istinto, concepita come anteriore e
sostanzialmente superiore alla razionalità.
La nuova spiritualità si riallaccia a due motivi essenziali del
Romanticismo: il sentimento ossessivo del mistero e
l’irrazionalismo. La ragione è decisamente ripudiata non più in
nome del sentimento, ma del disfrenarsi delle forze oscure del
subcosciente. In riferimento alla componente irrazionale del
comportamento umano, Henri Bergson concepì il tempo non come
unità di misura dello scorrere dei fatti ma come dimensione
soggettiva e psichica, e Friedrich Nietzsche diede risalto a quanto
vi è di cieco, irrazionale, animale nel comportamento umano.
Questa visione del mondo produce nell’arte una rivoluzione
radicale, nel contenuto e nelle forme, che potremmo riassumere nei
termini di simbolismo e misticismo estetico.
Ammessa l’impossibilità di conoscere la realtà vera mediante
l’esperienza, la ragione, la scienza, il decadente pensa che
soltanto la poesia, per il suo carattere di intuizione irrazionale
e immediata possa attingere il mistero, esprimere le rivelazioni
dell'ignoto. Essa diviene dunque la più alta forma di
conoscenza, l’atto vitale più importante; deve cogliere le
arcane analogie che legano le cose, scoprire la realtà che si
nasconde dietro le loro effimere apparenze, esprimere i
presentimenti che affiorano dal fondo dell’anima. Per questo è
concepita come pura illuminazione. Non rappresenta più
immagini o sentimenti concreti, rinuncia al racconto, alla
proclamazione di ideali; la parola non è usata come elemento
del discorso logico, ma per l’impressione intima che suscita,
per la sua virtù evocativa e suggestiva.
Nasce così la poesia del frammento rapido e illuminante, denso,
spesso, di una molteplicità di significati simbolici.
La nuova poesia non si rivolge all’intelletto o al sentimento del
lettore, ma alla profondità del suo inconscio, lo invita non a una
lettura, ma a una partecipazione vitale immediata. Essa si
propone di darci una consapevolezza più profonda del mistero.
Da questi principi sono nate molte mode letterarie e anche di
costume, a cominciare dal simbolismo (rappresentato, ad
esempio, dal , espressione più conseguente e radicale della nuova
poetica), per continuare con l’estetismo(rappresentato, ad
esempio, dal ); difatti il decadentismo ha aspirazioni
aristocratiche, che si esprimono nel gusto estetizzante. Sul piano
artistico l’estetismo si traduce nella ricerca di raffinatezza
esasperata ed estenuata.
L’idea della superiorità assoluta dell’esperienza estetica induce
l’artista a tentare di trasformare la vita stessa in opera d’arte,
dedicandosi al culto della bellezza in assoluta libertà materiale e
spirituale, in polemica contrapposizione con la volgarità del
mondo borghese La svalutazione della moralità e della
razionalità, portarono, tra l’altro, ai vari miti del superuomo.
Nasce a S.Mauro di Romagna nel 1855.

Nel ’62 entra nel collegio dei padri Scolopi a Urbino, dove
rimane fino al ’71. E’ il quarto di otto fratelli e il padre è
l’amministratore della tenuta “La Torre” dei principi Torlonia.
Nel ’67 accade l’episodio che segna indelebilmente la sensibilità
del piccolo Pascoli: viene assassinato il padre da ignoti, mentre
ritorna a casa . Non si seppe mai chi fu l’assassino, ma il Pascoli
crede di individuarlo nell’amministratore che successe a suo
padre nell’amministrazione della tenuta dei Torlonia e nella sua
poesia lo rappresenta come il “cuculo”, uccello che non si crea il
suo nido, ma che occupa quello degli altri. L’anno seguente
muore una sorella, poi, di seguito, la madre e due fratelli. La
morte della madre viene considerata dal Pascoli la tragedia
maggiore, perché viene meno il nucleo familiare, il “nido”. D’ora
in poi il suo proposito sarà sempre di riformare il nido originario.
Questa precoce esperienza di dolore e di morte sconvolge
profondamente l’anima del Pascoli; rimane una ferita non
chiusa, che si traduce in un senso sgomento del destino tragico e
inesplicabile dell’uomo, e segna il crollo di un mondo
d’innocenza e di infanzia serena a cui sempre il poeta aspirerà
con immutata nostalgia. Nel ’73 il Pascoli vince una borsa di
studio all’università di Bologna, dove si iscrive alla facoltà di
lettere. Il periodo bolognese lo mette in contatto con il
movimento anarchico e si avvicina così agli ideali socialisti.
Aderisce all’ Internazionale e inizia a frequentare Andrea Costa,
capo dell’anarchismo romagnolo. Nel ’79, in seguito a
dimostrazioni connesse all’ attentato dell’anarchico Passannante
contro il re Umberto I, subisce alcuni mesi di carcere
preventivo; quando vi esce riprende gli studi e da questo
momento in poi non si occuperà più di politica, essendone
rimasto evidentemente spaventato.
Non è più un ribelle, ma un uomo che china il capo davanti
all’oscuro destino. L’unico rimedio al male gli appare ora la
pietà e l’amore fraterno fra gli uomini, solo conforto al mistero
insondabile della vita. Nello stesso tempo, nasce in lui l’ideale
di ricostruire il proprio focolare domestico, con le due sorelle
superstiti, Ida e Maria, di ritrovare così nella quiete appartata e
nell’intimità degli affetti la pace.
Laureatosi nell’82, ottiene una cattedra presso il liceo di
Matera, Massa e Livorno. Nel frattempo, per più anni,
partecipa a concorsi di poesia latina ad Amsterdam,
vincendoli. Lo troviamo presso varie università: a Bologna,
dove inizialmente insegna latino e greco, a Messina ed infine,
nel 1906, succede al Carducci nella cattedra di letteratura
italiana all’università di Bologna, dove muore nel 1912. Viene
sepolto a Castelvecchio, in una casa di campagna che dal ’95
era stata il suo rifugio più caro insieme alle sorelle.
Il carattere dominante della poesia del Pascoli è costituito
dall’evasione della realtà per rifugiarsi nel mondo dell’infanzia,
un mondo rassicurante, dove l’individuo si sente isolato ma
tranquillo rispetto ad una realtà che non capisce e quindi teme.
Il Pascoli esprime questa sua poetica in uno scritto che intitola “Il
fanciullino”. Egli afferma che in tutti noi c’è un fanciullo che
durante l’infanzia fa sentire la sua voce, che si confonde con la
nostra, mentre in età adulta la lotta per la vita impedisce di sentire
la voce del fanciullo, per cui il momento veramente poetico è in
definitiva quello dell’infanzia. Di fatti il fanciullo vede tutto per la
prima volta, quindi con meraviglia; scopre la poesia che c’è nelle
cose, queste stesse gli rivelano il loro sorriso, le loro lacrime, per
cui il poeta non ha bisogno di creare nulla di nuovo, ma scopre
quello che già c'è in natura.
Il fanciullino è quello che parla alle bestie, agli alberi, alle nuvole
e scopre le relazioni più ingegnose che vi sono tra le cose, ride e
piange per ciò che sfugge ai nostri sensi, al nostro intelletto. La
poesia si presenta quindi con un carattere non razionale, ma
intuitivo e alogico. L’atteggiamento del fanciullo gli permette di
penetrare nel mistero della realtà, mistero colto non attraverso la
logica, ma attraverso l’intuizione ed espresso con linguaggio non
razionale ma fondato sull’analogia e sul simbolo. La funzione del
simbolo è proprio quella di far comprendere il senso riposto nella
realtà, per mezzo di collegamenti apparentemente logici fra oggetti
diversi, attraverso l’associazione di colori, profumi, suoni di cui si
può percepire la misteriosa affinità, attraverso la scelta delle parole
non per il loro significato concreto ed oggettivo, ma per le
suggestioni che sono in grado di evocare.
La poesia quindi può avere una grande utilità morale e sociale; il
sentimento poetico che è in tutti gli uomini gli fa sentire fratelli nel
comune dolore, pronti a deporre gli odi e le guerre, a corrersi
incontro ed abbracciarsi. Da un lato egli concepisce la poesia come
ispiratrice di amore umano, le assegna il compito di rendere gli
uomini più buoni, ma il poeta non deve proporselo come fine, perché
non è un oratore o un predicatore, ma ha unicamente il dono di
pronunciare la parola nella quale tutti gli altri uomini si riconoscono.
In definitiva il poeta è l’individuo abbastanza eccezionale che, pur
essendo cresciuto, riesce ancora a dare voce al quel fanciullo che c’è
in ogni uomo.
La situazione tipica della poesia pascoliana è quella del poeta
solitario, immerso nella campagna vasta e silenziosa ed inteso a
descrivere le rivelazioni delle cose. Di fatti gli eventi tragici
della vita del Pascoli ne condizionano la vita stessa ed anche la
poesia, creando vari miti; tra questi vediamo il “nido”, che
rappresenta la famiglia , che lo preserva dalla vita violenta e
difficile da affrontare, solo nel nido può trovare tranquillità e
serenità. Al di là del nido troviamo la “siepe”, che recinge uno
spazio che dà autarchia. Con il mito della siepe il Pascoli
rappresenta la situazione o il desiderio della piccola borghesia
contadina che mira ad una vita indipendente dall’esterno e
quindi autarchica. Oltre la siepe vi troviamo il “campo santo”:
una strada dritta porta dal podere al campo santo, ove giacciono i
morti, presenze costanti nella vita del Pascoli e che ritornano
continuamente confondendosi con i vivi. A questi tre elementi di
fondo il Pascoli circoscrive tutta quanta la sua esistenza.
Fu completamente nuovo, soprattutto per la letteratura italiana, in
cui persiste ancora la tradizione classica. Qui la frase si spezza; il
soggetto è spesso da solo, senza bisogno di un verbo che lo
specifichi. Il tutto è affidato a parole che riproducono suoni
(frequentissime sono le onomatopee) oppure a immagini che
evocano sentimenti. Possiamo quindi definirlo un linguaggio
completamente innovativo nella letteratura italiana, che nel Pascoli
forse è più intuitivo che non una semplice imitazione del
Decadentismo; è qualcosa di istintivo, che risponde perfettamente
al suo modo di esprimersi e alla sua visione della vita.
Possiamo definirlo inoltre un linguaggio pittorico: si affida molto al
colore, come anche alla musicalità e unendo queste due componenti
realizza spesso delle sinestesie (mescolando sensazioni che
provengono da sensi diversi).
Il Pascoli influisce fortemente sulla letteratura italiana proprio per la
particolare innovazione del linguaggio. Mentre D’Annunzio
influisce molto con la sua esperienza personale, quindi sul costume
italiano, il Pascoli è un importante innovatore del linguaggio
poetico.
I libri migliori del Pascoli sono “Myricae” e i “Canti di
Castelvecchio”.
Myricae è la prima raccolta di poesie; il titolo spiega già in parte
il contenuto: Myricae in latino significa tamerici, piante umili
che crescono al livello del terreno e che nessuno considera. Sono
il simbolo della poesia umile che il Pascoli intende comporre,
una poesia fatta di piccole cose osservate con la meraviglia del
fanciullo. La poesia del Pascoli è estremamente semplice e
ridotta al solo soggetto, verbo e complemento, ma riesce
comunque a creare un seguito di suggestioni visive e uditive.
Tra le poesie raccolte in Myricae ricordiamo:
 Arano
 Orfano
Dall’argine
 Novembre
 Patria
 Lavandare
Temporale
Il lampo
 X Agosto
 L’assiuolo
A Castelvecchio di Barga , nella casa di campagna dove soggiornò
frequentemente a partire dal ’95, il Pascoli scrisse queste nuove
myricae, che egli chiamò “autunnali”, alludendo alla declinante
stagione del suo vivere. Comuni alle due raccolte sono l’amore per
la vita della campagna e per le cose umili; ma c’è, qui nei Canti,
accanto alla rappresentazione realistica dell’ambiente contadino,
una visione simbolistica più decisa e le cose umili divengono come
un rifugio dall’ansia della morte, presenza continua nella vita del
Pascoli.

Tra le poesie raccolte nei Canti di Castelvecchio ricordiamo:


 Il gelsomino notturno
 Il bolide
 Nebbia
Nella nebbia
Da Myricae:

“Lavandare”

Lavandare è una delle myricae più caratteristiche. Ci si trova in un


quadro autunnale in un’ora incerta e senza tempo. I sensi del poeta,
immerso nella campagna solitaria, colgono vigili la natura intorno,
le sue immagini, le sue voci: un campo appena arato, un aratro
abbandonato sui solchi, i rumori prodotti dalla sciacquio delle
lavandaie, anch’esse parte del paesaggio. Poi tutto sfuma in
un’unica nota: un canto d’amore e di nostalgia, che è come il
modularsi, in una voce umana sperduta nell’immensità della
campagna, dello sfiorire autunnale, che già il Pascoli aveva colto in
quell’aratro abbandonato. E’ una poesia d’immagini e di sensazioni.
Gli oggetti sembrano dissolversi in un’onda di malinconia.
La prima parte è descrittiva, in cui prevale ancora il colore.
L’aratro dà un’idea di dimenticanza; difatti è stato abbandonato
nel campo. La seconda parte si lega alla prima attraverso il canto
delle lavandare, canto dell’abbandono: la persona amata si è
allontanata e ancora non ritorna al paese.

“Novembre”

Anche qui si ha una visione dell’autunno, sfumata in un alone di


tristezza. Il paesaggio è nitido e oggettivamente disegnato. E’
l’estate dei morti, una limpida giornata di novembre. Intorno si
diffonde una sensazione di primavere lontane, percepite, dietro le
suggestioni vaghe dei sensi, dalla memoria. Ma è un’illusione
breve: i rami sono stecchiti, il cielo vuoto di rondini, la terra resa
arida e compatta dal freddo; su tutto grava un’amara solitudine,
un silenzio sconfinato.
In questo silenzio l’anima coglie un lontano cadere di foglie, un
declinare irreversibile della vita. La poesia è capace di rendere le
sensazioni più impalpabili e la vibrazione che esse suscitano nella
vita della coscienza. Evoca il senso della morte.
“Arano”

Nonostante la stagione autunnale, questo quadro di vita campestre


è pervaso di sorridente felicità. Le immagini emergono nitide e
festose come un germogliare fresco di vita. Il Pascoli cerca di
aderire alle cose, alla natura semplice e buona. I gesti lenti dei
contadini, il loro lavoro placido, sereno e il canto del pettirosso
appaiono come un approdo di pace per l’anima. Il sentimento del
poeta sembra totalmente dimenticato nella contemplazione di quel
fresco quadro di natura; ma l’ultimo verso palpita di una ritrovata e
pura gioia del cuore.
La prima parte della poesia è dominata da elementi cromatici, come
il rosso del filare e il fumare della nebbia, mentre la seconda è
prevalsa da elementi uditivi.
“Orfano”

Questa poesia è incentrata su due immagini: il cadere lento della


neve ed un piccolo ambiente domestico, composto d’una culla che
dondola, un bimbo che dorme, una vecchia che gli canta una ninna
nanna. Il titolo “Orfano” esprime un’infelicità, caratterizzata da una
vaga e dolce memoria d’infanzia, cullata da un ritmo di carezzevole
nostalgia.
“Patria”
In un giorno d’estate egli sogna di ritornare a S.Mauro, la propria
terra, e rivive in una sorta d’estasi quel dolce paesaggio d’infanzia.
Poi, l’incantesimo s’infrange: un suono di campane riporta il senso
dell’antico dolore, il latrato di un cane fa sentire il poeta straniero
nella sua terra. È un sogno d’infanzia ritrovata, ma scoperta, nello
stesso istante, come perduta per sempre.
“X Agosto”

Questa poesia rievoca la morte del padre del poeta, che venne
ucciso il 10 agosto nel 1867. Questo giorno è anche la festività di
un martire, S. Lorenzo, e in cui si verifica il fenomeno delle stelle
cadenti. Il dolore personale del poeta si avverte già nel pianto
delle stelle con cui si apre la poesia e nell’immagine della rondine
uccisa, ma soprattutto nella quartina finale, dove il cielo s’incurva
lontano e pietoso sulla terra, dominata dalla tragica fatalità del
male.
Il Pascoli si era creato il problema se scrivere di questi eventi
tragici della sua vita o lasciarli fuori dalla sua poesia; questo è un
po’ lo stesso problema che aveva avuto il Leopardi, che fu accusato
di fare una poesia che fosse solo un lamento continuo. Il rischio è
che le vicende biografiche finiscano col legare il poeta alla sua
vicenda personale, levando quindi alla poesia la caratteristica di
universalità. Il Pascoli finì per venire sulle proprie vicende
personali.
“L’assiuolo”

E’ uno dei paesaggi più intensi di Myricae, decisamente legato alla


sensibilità e alla poetica del Decadentismo. Non è composto
d’oggetti definiti, ma di immagini sfumate. Le cose sembrano
esalare una loro essenza segreta; dietro di queste c’è come
un’ombra che si prolunga verso il mistero della vita universale. La
poesia diviene rivelazione d’una realtà ineffabile, di cui la gente
percepisce solo un pallido simbolo, e che non può essere compresa
dall’intelletto, ma soltanto intuita. Le immagini si succedono senza
un ordine logico, ma in un libero fluire e acquistano il carattere
d’improvvise rivelazioni. Il motivo principale della lirica è il canto
nella notte dell’assiuolo, piccolo rapace notturno.
Si percepisce il verso del chiù proveniente dai campi,
successivamente la voce si carica di un sentimento di dolore per
mezzo del singhiozzo ed a questo si unisce un pianto di morte.
Difatti progressivamente il verso dell’uccello termina con
l’evocare l’immagine di morte, immagine questa che ricorre
spesso nella poesia del Pascoli.

.
Da “Canti di Castelvecchio”:

“Il gelsomino notturno”


Il gelsomino notturno è un fiore notturno che si apre la sera per poi
dischiudersi all’alba ed esala un intenso profumo. La lirica rinuncia
ad ogni forma di sintassi, di concatenazione logica, per esprimere
un puro fluire senza tempo delle cose e dell’anima. Gli elementi
essenziali della rappresentazione sono costituiti dal profumo dei
fiori, dalle minuscole voci degli insetti, dal trascorrere lento delle
stelle, dalla luce che s’accende e si spegne nella casa solitaria.
Questa poesia venne dedicata ad un amico che si era sposato. La
poesia è pervasa da una velata allusione alle nozze e a quel rapporto
sessuale che non finisce di attrarre e allo stesso tempo d’impaurire
il Pascoli. Sullo sfondo della lirica vi è l’io del poeta che pensa ai
suoi cari (il consueto ricordo dei suoi morti, la loro misteriosa
presenza sulla sua vita), ma senza pianto.
Nasce qui la scoperta di una dimensione nuova della realtà. Il
tremore delle cose, il loro accendersi e spegnersi, i fiori che si
schiudono mentre il poeta è immerso in pensieri di morte, fanno
sentire il continuo fondersi della morte e della vita nell’unico
mistero dell’essere.
“Il bolide”

Nei “Canti di Castelvecchio” questa poesia fa parte di una sezione


intitolata “Ritorno a S. Mauro”. Immagina di andarsene verso il
tramonto per una strada solitaria ed una sorta di fantasia gli fa
immaginare che qualcuno gli tenti un agguato, come avevano fatto
a suo padre; ma all’improvviso sente uno scoppio: si tratta di un
bolide, di un meteorite caduto all’improvviso dal cielo, che ha
interrotto e si è inserito in quest’immagine di morte che il poeta
aveva pensato per sé.
”Nebbia”

E’ una delle più belle, allusive e simboliche poesie del Pascoli.


Raccoglie un po’ tutti i miti della sua poesia. La nebbia fa una
sorta di barriera tra lui e la realtà per tenerlo al di qua della siepe,
cioè di quello che è il suo ambito, il suo nido, che contiene le
certezze che lui si era fino ad ora creato. Di fatti per il poeta la
realtà è sempre stata negativa, rifiuta il suo passato perché
contiene episodi di effettivo pianto, lo rifiuta proprio per la sua
negatività. Tutte le cose nella realtà sono state sempre impre di
pianto e dolore. Nascosto ormai nel suo “cantuccio” di Castel
Vecchio, rassegnato al declino della sua vita e proteso alla
ricerca di una pace, il Pascoli prega la nebbia che gli nasconde le
cose lontane piene di pianto: l’infanzia e la giovinezza
angosciosa, i loro dolori non ancora spenti, la memoria ancora
lacerante. Restano solo davanti al suo sguardo le piccole immagini
quotidiane, simbolo della pace ritrovata, e quel cimitero dove
compirà, rassegnato, l’ultimo viaggio. Per sfuggire all’angoscia il
poeta si afferra alle cose presenti, alla loro realtà concreta. Egli
vuole vedere solo ciò che è al di qua della siepe: i due peschi e i due
peri, che danno il nettare e rappresentano proprio il desiderio di
autarchia che egli raccoglie nel mito della siepe. Sono presenti due
verbi nella poesia che nascondono tutti i timori del Pascoli:
ch’ami: raccoglie le esperienze importanti della vita come l’amore,
non solo verso gli altri, ma anche come amore sessuale, da cui si
sente attrarre e che allo stesso tempo lo impaurisce;
che vada: è il desiderio di abbandonare il suo mondo chiuso e
affrontare la vita.
Fuori dai limiti della siepe vi è una strada bianca che porta al
cimitero: il poeta vuole tenersi nel chiuso della vita che ha creato,
nelle cose che lo rassicurano e rifiuta tutto quello che è al di fuori.
Della morte non ha un’immagine triste; i defunti vivono tranquilli
e sereni.
Egli chiede inoltre alla nebbia di impedire il volo del suo cuore
verso nuove esperienze, verso la realtà, per rimanere a casa con le
rassicurazioni che si è creato.
”Nella nebbia”

In questa poesia si ha il simbolo centrale di un vecchio con un


grande fascio sulle spalle, che rappresenta l’uomo con il suo
travaglio e la sua difficoltà di vivere. Questa è un’immagine già
ritrovata in Leopardi, nel “Canto notturno di un pastore errante
dell’Asia”. L’immagine in questa poesia del Leopardi è molto
precisa, circostanziata, è in definitiva la rappresentazione della vita
dell’uomo. Egli descrive il vecchio che cammina tra un mare di
difficoltà e alla fine di questo grandissimo travaglio precipita nel
nulla della morte.
Nel Pascoli invece si ha un simbolo, un’immagine sfuocata che si
vede e non, un qualcosa che allude ed il lettore deve completarne
l’immagine. In Leopardi c’è la ragione attenta che valuta le cose,
mentre nel Pascoli non troviamo più la ragione perché prevale
decisamente il carattere irrazionale: egli sente la fatica del vivere,
ma a questa fatica non sa dare una spiegazione perché è venuta
meno la fiducia nella ragione. Quindi l’immagine si sfuma, non è
più recepibile razionalmente, ma esprime il sentimento profondo
della fatica della vita umana attraverso simboli vaghi, intuizioni
fuggevoli e suggestive.
Non si ha qui, dunque, un paesaggio reale, ma una visione
simbolica nella quale è proiettato un risentirsi dell’anima, il suo
smarrimento doloroso dinanzi al mistero imperscrutabile della
vita
Esterno e patio della villa
di Castelvecchio

Villa di campagna di
Castelvecchio

Interni della villa di


Castelvecchio
La villa di campagna dei Cardosi-Carrara,situata ai Caproni di
Castelvecchio, è la sistemazione che GiovanniPascoli scelse
come residenza nel 1895 e che da tempo cercava.
Il Poeta venne nella Valle del Serchio pago di aver trovato
"una bicocca con attorno un pò d'orto e di selva", portò con se
la sorella Maria ed il cane Gulì.
A Castelvecchio il Poeta trascorse gli anni più tranquilli della
sua esistenza, dal 1895 al 1912, anno della morte. In questa
casa hanno visto la luce la sistemazione di Myricae (1903), i
Primi Poemetti (1897), i Canti di Castelvecchio (1903), i
Poemi Conviviali (1904)
Questo periodo di grande produzione poetica coincide con i
riconoscimenti ufficiali tributati al Pascoli dalla critica, quale
innovatore della poesia italiana.
La casa conserva la struttura, gli arredi, la disposizione degli
spazi,che aveva al momento della morte di Giovanni Pascoli,
avvenuta a Bologna il 6 aprile 1912. La sorella del Poeta,
Maria, ha conservato con profondo affetto i beni pascoliani per
quarant'anni e riposa, vicino al fratello, nella cappella della
villa.
Il Comune di Barga, erede dei beni pascoliani per lascito di
Maria Pascoli,ha cura dell'archivio, delle opere, degli edifici
attraverso la figura di un conservatore.
Dopo la morte del Poeta l'edificio è stato dichiarato
monumento nazionale, di particolare interesse pubblico l'area
che comprende la casa.
L'archivio conserva circa 76.000 carte e la biblioteca circa
12.000 volumi
A passeggio nel
parco
IlPascoli nel
giardino di casa

Gionata di
festa

La passeggiata
Pascoli incontra
Puccini

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