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DECADENTISMO

Il Decadentismo nasce a seguito della pubblicazione del sonetto Languore di Verlaine. In questo sonetto
Verlaine si cela nella situazione psicologica, morale e culturale dei romani vissuti nella tarda età imperiale, i
quali, mentre l’impero si sta sfasciando, non sanno fare altro che aspettare in silenzio la sua fine,
componendo con virtuosismo versi fatui da gettare al fuoco. Con questo rimando in realtà Verlaine vuole
raccontare il suo tempo, la fin du siècle che sembrava segnare il tramonto di una civiltà millenaria e del
clima dominante di stanchezza e di accidia, di esaurimento delle energie vitali che l’accompagnava.
Languore si riferisce alla fine di tutte le civiltà, che giunte a un livello di saturazione collassano su se stesse.
La parola languore riassume la condizione decadente della società e dell’uomo: uno stato di inerzia,
spossatezza e indolenza di chi non prova più interesse per la vita. È una sensazione simile alla sazietà
(“Tutto è bevuto! Tutto è mangiato!”). La sazietà si diffonde anche tra gli artisti, che ormai sono sterili dal
punto di vista creativo, creano contenuti altissimi a livello di forma ma privi di contenuto.
Nella seconda parte della poesia poi utilizza molte anafore e ripetizioni per enfatizzare il senso di
immobilismo, di paralisi, che verrà ripreso da molti altri autori (Joyce).
Verlaine fonda anche un’altra rivista chiamata Il Decadente, quindi coglie attorno a sé una comunità di
intellettuali che vive un sentimento voluttuoso, di auto compiacimento distruttivo relativo al vivere un
momento storico che rappresenta la fine della civiltà. Ci sono molte analogie tra l’atteggiamento degli
intellettuali e l’atteggiamento di Petronio nel Satyricon, e sarà molto citato.
Nasce in Francia e si diffonde velocemente in Europa negli anni 80 dell’800 e ha la caratteristica di essere
una grande corrente intellettuale che si percepisce antitetica rispetto al verismo in Italia. Raccoglie una serie
di intellettuali che credono che la ragione non sia la misura di tutte le cose, l’uomo non possa essere
rappresentato solo dalla ragione, e che la cultura positivisti a che ha fatto del progresso la sua battaglia sia
in realtà fallimentare.
Nell’ottocento ci sono quindi due correnti, una che va nella direzione del realismo legato alla scienza e al
progresso, e una che va nella direzione opposta, ovvero verso l’irrazionalità, il mistico e lo spirituale.
Queste distinzioni nette non sono sempre così, ci sono intellettuali decadenti che non prescindono dalla
ragione, ma che hanno un senso vicino al senso di fine della fine secolo. Sono convinti che la ragione sia
una base su cui fondare tutto ma che ci siano aspetti della vita dell’uomo che non possono essere spiegati
dalla ragione.
Il decadentismo si sviluppa agli inizi degli anni 80 e secondo alcuni non è ancora finito, ma per essere
precisi finisce con l’età delle avanguardie, quando all’inizio del 900 si sviluppa il futurismo.
Dentro il decadentismo ci sono delle sottocorrenti: c’è una corrente estetizzante (estetismo) e una corrente
simbolista, che parte dei poeti francesi e arriva in Italia attraverso la figura di Pascoli. Lo stesso D’Annunzio,
che sarebbe dell’estetismo, a livello poetico qualche rimando alla poesia simbolistica lo presenta. È difficile
guardare i movimenti in modo analitico.

Caratteristiche generali del decadentismo


La prima cosa viene dal romanticismo tedesco, ovvero l’attenzione per il mistero, l’andate a ricercare cosa
ci sia al di là della realtà visiva. Mentre i veristi si concentrano solo sulle cose riscontrabili, qui i decadenti
sono interessati all’inconoscibile (collegamento con Schopenhauer, velo di Maya). Il decadentismo quindi
assume un carattere mistico, perché secondo i decadenti tutte le cose sono legate da una serie di analogie
e corrispondenze. Il padre del Decadentismo è proprio Baudelaire (con Correspondances analogie) e Edgar
Allan Poe.
Il poeta diventa una sorta di veggente, è l’unico che ha una sensibilità per calarsi nell’essere e nelle cose,
che è in grado di far emergere che cosa c’è al di sotto dell’apparenza.
In questo modo si lega in modo sostanziale con tutto, in particolare modo con la natura, e l’io e la natura
diventano un tutt’uno. Ti senti parte di una rete di relazioni, non sai spiegare perché, ma è così. Diventano
un tutt’uno misterioso, dove non è facile scindere l’io dal tutto, che diventa un tutto inconsapevole. Questo
atteggiamento dei decadenti è il panismo – atteggiamento dei poeti di avere l’esperienze dell’ignoto
dell’assoluto calandosi dentro le cose, esempio è La pioggia nel pineto di D’Annunzio, dove i protagonisti
diventano tutt’uno con la pioggia (diventano acqua, silvano…), e l’autore coglie il legame tra natura e uomo.
Questa unione tra l’io e la natura è un’unione che si realizza sul piano dell’inconscio (Freud). C’è una zona
d’ombra che è il punto di fusione dell’io con il tutto, la fusione avviene ma è inconsapevole.
La scoperta dell’inconscio è fondamentale per il decadentismo. L’inconscio è una cosa che sta nella parte
più profonda di noi, ed è schiacciato dalla ragione, dall’io. È tutto ciò che c’è di nascosto dentro la nostra
persona, che noi controlliamo e molte volte mettiamo a tacere attraverso la ragione e attraverso le
convinzioni in cui viviamo e che ci aiutano a vivere. Per far emergere l’inconscio devi abbandonarti, devi
mettere da parte la ragione e fare emergere ciò che è irraggiungibile. È la scoperta della realtà più vera
dell’uomo, ed è uno degli aspetti fondamentali del decadentismo. Noi sempre indossiamo una maschera,
che è la maschera della convinzione sociale e morale, e quello che c’è dietro è volutamente controllato,
perché se emergesse sarebbe impossibile la relazione sociale e il vivere insieme agli altri. L’inconscio è
tenuto a freno, e per la sua relazione con il tutto il decadente scende nel profondo e fa emergere l’io più
nascosto.
Un po’ ci avevano provato gli scapigliati, Baudelaire ci riesce abbastanza (antiteticità del nostro essere,
tendere verso l’alto e verso l’abisso che è la parte che nascondiamo). I decadentisti vogliono togliere ogni
barriera e scoprire la parte più profonda dell’uomo, perché in realtà la ragione è paralizzante, è controllo e
non da spazio alla completezza dell’io.

Nella cultura decadente è frequente lo stato di grazia, che è il momento in cui il poeta nella vita ha il dono
di coglierne il senso, o di entrare dentro qualunque cosa. Questo è l’evento delle epifanie (Joyce, Proust,
Montale). Qualunque cosa anche banale ha per la persona un significato, gli fa capire qualcosa – es. Foglia
che cade accartocciata = male dell’esistenza. In qualunque attimo, in un evento qualsiasi c’è
un’immedesimazione con il tutto. Non c’è niente di divino nell’epifania, ma è una rivelazione (come nella
cristianità) dell’ignoto.
La natura ci parla e manda dei messaggi attraverso le apparizioni, l’epifania ha il dono di darci una verità
rivelata.

L’arte e la letteratura hanno una via privilegiata rispetto alla conoscenza. Antitesi con il positivismo, perché
la letteratura era una scienza, mentre adesso è l’arte che è privilegiata perché l’artista diventa un sacerdote
del vero, e quindi sono degli individui veggenti, che danno cogliere cosa c’è al di sotto di tutto. Puntano il
loro sguardo dove l’uomo comune non riesce ad arrivare e solo l’artista coglie l’assoluto.
Tutto ciò si traduce in un linguaggio nuovo dal punto di vista letterario e poetico, c’è una rivoluzione
poetica. Il linguaggio diventa estremamente suggestivo, diventa incentrato sulla parola che prende un
significato magico. La parola in se e per se ha un significato, a volte nella tessitura del linguaggio poetico
diventa oscuro, non è piano e lineare, non è degli scapigliati, è estremamente oscuro, al limite
dell’incomprensibilità. Questo aspetto del decadentismo permane nella tradizione poetica del decadentismo,
come si vede per esempio negli ermetici. Questo linguaggio ha un forte valore ideologico, nel senso che il
poeta decadente è un poeta elitario, non può essere compreso da tutti e non vuole essere compreso da
tutti, perché il poeta decadente si mette al di sopra della massa, è un poeta che rifiuta il mondo borghese.
Non è una aristocrazia a livello sociale, ma è un atteggiamento culturale. Quello che il poeta rappresenta
non è per tutti, e spesso si mette in una torre d’avorio rispetto agli altri. Questo è contro il positivismo, che
vuole un linguaggio borghese medio alto comprensibile.
Il vero problema del fine secolo è il rapporto degli intellettuali con la cultura di massa, e i decadenti cercano
di differenziarsi da ciò che è meccanico e ripetitivo, adatto a un pubblico vaso. Vanno nell’ottica della
differenziazione e dell’esaltazione della propria identità poetica. Si crea molte volte una frattura insanabile
tra il letterato e il suo pubblico.
Poi ci sono gli italiani. D’Annunzio sarà capace di tenere insieme tutto, sia ruolo del poeta che rapporto con
la massa, ma tendenzialmente l’uomo decadente si distanzia dal mondo comune e prende una sua strada. Il
linguaggio dei decadenti è molto simbolico, tutto è una foresta di simboli, e bisogna cercare il significato del
simbolo.
Tutto gioca sulla sinestesia, la figura retorica che gioca sulla confusione dei sensi, fonde insieme
impressioni che derivano da diverse percezioni sensoriali. Altra figura retorica impernare è la metafora.
Pascoli è fortemente simbolista.
C’è la ricerca di una sintassi non lineare, volutamente ambigua, che rende ambiguo il significato del
componimento. Se la parola ha significato in se e per se, allora la parola deve avere un valore fonico, infatti
si parla anche di fono simbolismo (fru fru fra la fratte).
Gli italiani sono maestri del compromesso. Questo perché non sono pienamente simbolisti, lo sono in parte.
Per esempio pascoli parte simbolista e poi cambia.

Quali sono i temi, i miti della letteratura decadente?


Un tema ricorrente è l’ammirazione per le epoche di decadenza e il sonetto di Verlaine ne è
l’esemplificazione. Non c’è esaltazione della classicità, della tradizione, che si solito è aurea, ma per tutte le
epoche che hanno visto un esaurisci della cultura. Per il periodo greco c’è esaltazione del periodo
alessandrino (ellenismo), per la letteratura latina Petronio, Marziale, gli autori dell’avvocata età imperiale.
Tutto ciò che rimanda a un senso di mancanza è esaltato.
Uno dei temi ricorrenti è l’amore per la raffinatezza e il lusso, il lusso è così esasperato da diventare
lussuria. Quindi attenzione che tutto ciò che è raro è prezioso e inconsueto, ma c’è anche il desiderio di
provare piaceri insoliti e profondi, a volte perversi e malvagi (tema della lussuria e della crudeltà). La
crudeltà a volte è cerebrale, intellettuale, e questo lo vediamo in Wilde e D’Annunzio, che cerca di imitare
Wilde. C’è una sorta di sadismo nelle relazioni amorose, ma d’altra parte tutto ciò che è sano non è
decadente.
Certamente intellettuale decadente e di conseguenza di protagonisti delle opere sono individui di sensibilità
esasperata, ai limiti della nevrosi.
Un altro aspetto tipico è la malattia, già visto con gli scapigliati. La malattia è umana, la patologia, ma anche
una malattia storica, cioè la condizione di un’epoca che si sta esaurendo, il crollo delle certezze della
società. L’intelletto ale che è sensibile riesce a entrare nel clima di malattia che non è solo fisica ma è della
coscienza.
“Morte a Venezia” di Thomas Mann è un esempio di letteratura decadente, la morte non è solo del
protagonista ma è anche della città, Venezia è una città che si consuma giorno dopo giorno. Venezia nella
sua malattia diventa bellissima, perché il bello è il malato, perché la malattia rende diversi. La città malata si
decompone e deteriora nella sua bellezza. A fronte di questo stato d’animo c’è una doppia anima del
decadentismo.
C’è una tendenza vitalistica. Di fronte al lento deteriorarsi di tutto, nel clima di morte, c’è qualcuno che si
può distinguere. Costui è colui che è in grado di manifestare il suo culto per la vita, e che ha una capacità
di manifestare una stanchezza e esaurimento che si percepisce della società. Chi ha uno spirito vitale
dominante è colui che manifesta tendenze di tipo superoministico. È colui che è in grado di controllare la
sua vita, di manifestare il suo slancio vitale e di guidare gli altri che sono schiacciati dal senso della morte.
Il superuomo è un uomo che reagisce al decadimento e si oppone alla morte esaltando la propria forza. È
un vitalismo morboso e barbarico, che mette individuo che lo prova nella condizione di essere diverso
dagli altri, perché intellettuale decadente è diverso, ha il rifiuto della normalità. Tutti i comportamenti
esagerati sono segno della propria forza individuale, perché il vero problema alla base di questa cultura è il
confronto con la società borghese, che è uniformità e appiattimento e omologazione.
L’intellettuale decadente si distacca dalla massa con atteggiamento vitalistico e superoministico, con
implicazioni politiche che questo comporta.
La doppia anima del decadentismo sta nel fatto che c’è la consapevolezza della decadenza, della morte
che corrompe, sentimento che accompagna gli intellettuali, ma di fronte a questa consapevolezza ci sono
due reazioni: c’è chi vive profondamente il decadimento e si mette ai margini della società (maledetto,
bohémien) e c’è chi risponde con slancio vitale esasperato, con vitalismo di cui parlato (superuomo).
Nel vitalismo ci mettiamo D’Annunzio, che è colui che rappresenta in Italia questa parte della corrente. Di
maledetti in Italia non ne abbiamo, forse scapigliati ma sono prima.
In Italia abbiamo altri due tipi di intellettuali: gli esteti (sempre D’Annunzio) e l’intellettuale inetto.
L’intellettuale esteta è quello che trasforma se stesso e la propria vita in un’opera d’arte, e si costruisce vita
esteriore che lo mette sopra la mediocrità borghese. Questi sono Wilde, Huysmann e D’Annunzio.
Gli inetti sono invece coloro che non sono capaci, non adatti, esclusi dalla vita. Sono incapaci di adattarsi al
mondo che li circonda, non hanno energia vitale, molti sogni ma mai realizzati, vorrebbe provare forti
passioni ma non le prova, bloccato nell’azione (Italo Svevo e Zeno e Pirandello).

In tutto questo mondo ossimorico, dove c’è assenza di energia o energia enorme, c’è anche un mondo
femminile, perché ci sono personaggi soprattutto nell’opera di D’Annunzio molto interessanti.
Come diventa la figura femminile presso intellettuali decadenti? È una femme fatale, donna dominatrice,
che domina sulle figure maschili. Lussuriosa, perversa, aristocratica e elegantissima. Una donna che ha un
fascino dal quale non si può sfuggire, consuma l’uomo e lo porta alla follia.

NIETZSCHE
È l’autore che suggestiona più di ogni altro D’Annunzio, perché D’Annunzio legge in traduzione due sue
opere: La nascita della tragedia e Cosi parlò zarathustra. Nella nascita della tragedia Nietzsche parla di due
concetti importanti, cioè l’apollineo e il dionisiaco. Spiega cosa rappresentano nella società occidentale.
Apollo rappresenta la luce, quindi la ragione, mentre Dioniso che è il dio dell'ebbrezza rappresenta il
nascosto, il primitivo. Per Nietzsche i greci sono stati i primi a dire che nell’uomo esistono due sensibilità,
una fatta di ordine e armonia e ragione, e l’altra fatta di uno spirito scomposto, irrefrenabile. C’è una ricerca
di ordine tramite la ragione ma dall’altra parte siamo essere istintivi e irrefrenabili. Lo spirito dionisiaco è
dominante, e trova spazio nell’arte, mentre lo spirito apollineo si può legare alla scienza, all’ordinamento,
alla legge e alla codificazione dei comportamenti. Freud scoprirà che nell’uomo sono presenti aspetti
controllati e razionali che schiacciano impulso e istinto.
Secondo Nietzsche i greci hanno fuso perfettamente questi due aspetti, ma lo spirito degli antichi greci si
infrange dopo, perché la tendenza prevalente nella civiltà successiva è quella apollinea. Quindi la nostra
cultura prende il sopravvento grazie all’apollineo e schiaccia il dionisiaco. Gli uomini occidentali hanno
rinunciato all’istinto, a esprimere spirito profondo e hanno accettato di conformarsi alla misura e all’ordine.
Gli spiriti possono convivere solo se sono espressi entrambi.
Continuare a conformarsi crea il formarsi di una civiltà fondata sulla funzione, dove è privilegiato ciò che è
razionale, abbandonato e represso ciò che è istintivo. Abbiamo represso i nostri desideri più profondi, e
abbiamo vissuto in un mondo fittizio fatto di ideali irrealizzabili.
Per secoli ci siamo raccontati delle storie, come per esempio che Dio sia misura e ordine, che sono
menzogne. Le bugie sono servite per tenere uomini tranquilli e dare loro ideale di vita. In realtà non esistono
valori e principi, ma solo un alternarsi di impeto dionisiaco e desiderio di ordine. Alla fine per risostenere la
sua tesi Nietzsche dice che lui è il filosofo della demistificazione, e ha il coraggio di dire che Dio è morto,
non c’è più, anche gli dei si decompongono, e Dio non risorge ma rimane morto (1882).
Questo significa che se io tolgo dio agli uomini tolgo un sistema di certezze, lascio uomo da solo difronte
alla vita. Secondo Nietzsche la solitudine dell’uomo che potrebbe sembrare pericolosa perché disorienta è
estremamente positiva, perché uomo in definitiva è in grado di decidere per se, e non ha bisogno di chi gli
dica cosa deve fare. Assapora finalmente completamente la vita, perché al di la di questa non c’è nulla.
Uomo può farsi dio di se stesso, creando nuovi assoluti e certezze. L’uomo più libero è il filosofo, che alla
notizia che il vecchio dio è morto si sente illuminato da una nuova luce. Trova davanti a se un orizzonte
libero e ogni tipo di conoscenza è permessa (il mare non è mai stato così aperto).
Nietzsche colpisce una nuova tipologia di essere umano, e nel 1883-84 pubblica Così parlò Zarathustra in
cui dice che è nato un nuovo uomo, ci insegna il superuomo. Lui dice vi insegno un uomo che è diverso,
perché sa andare oltre l’uomo, sa accogliere la vita per quello che è, nella sua dimensione tragica ma che
sa vivere nel vuoto dei valori, da convivere con la morte di dio, e che si propone di esserci attraverso una
volontà di potenza, che è la forza vitale che si afferma all’infinito. Avendo detto questo inconsapevolmente
ha offerto un sistema filosofico all’ideologia nazista, perché il mito dell’oltreuomo si presta a una
strumentalizzazione drammatica. In realtà quello che Nietzsche voleva fare era di scagliarsi contro il sistema
borghese, e nessuno dei totalitarismi successivi sarebbero potuti esistere senza il mondo borghese. Tutto il
nostro decadentismo c’è questo filo di superomismo e vitalismo che si traduce nell’esperienza letteraria e
politica di D’Annunzio.
Anche l’atteggiamento anti borghese che Nietzsche fa offre agli autori del decadentismo delle posizioni
piuttosto reazionarie e oscurantiste e aggressive. Il decadentismo è dal punto di vista ideologico è antitetico
al positivismo e al naturalismo, perché di fatto il positivismo è orientato verso una direzione progressiva
progressista, mente il decadentismo sulla scia di letture poco critiche di testi filosofici come Nietzsche
diventa reazionario politicamente e intellettualmente. Pensiamo all’autore italiano decadente per eccellenza,
D’Annunzio, che ha di fronte la classe dominante e si propone come cantore della classe dominante che
proprio perché è superoministica ha il diritto di vivere una vita esemplare che è in contrasto con la banalità e
la pochezza del mondo della massa.
Nietzsche non dice niente in questa direzione, dice che siamo arrivati a un punto in cui ci sarà un
superuomo che avrà la forza di accettare il niente, e si distingue dalla massa, che invece è quella che ha
bisogno delle certezze religiose, della struttura sociale definita, di un economia sostenuta per vivere. Le
letture di Nietzsche sono il problema, non quello che effettivamente scrive.
Questo è il problema del vivere nella società di massa. Perché bisogna vivere reagendo nel modo dei
decadenti? Il desiderio di raggiungimento di un bene maggiore porta a un arrivo della crisi, nella massa c’è
un problema. Il decadentismo risponde al mito del progresso, delle battaglie civili e sociali attraverso questa
modalità, che sono decadenti, di un'epoca che finisce e che si apre in modo nuovo e antitetiche (da un lato
c’è D’Annunzio e dall’altro c’è qualcun altro che dice che non risponde al modello di uomo che la società
richiede ed è un inetto).

Il positivismo è una mentalità di tipo borghese. Nietzsche non è politicamente schierato, è un filosofo che
parla di una componente che c’è nella nostra persona irrazionale, e dicendo questo ideologicamente
scardina i principi su cui si fonda la società borghese (ordine e misura). Lui dice ciò che è represso nella
società borghese, ma non fa un’azione anti borghese affettiva. I decadenti invece che respirano il clima di
irrazionalità sono antiborghesi, perché cercano di distinguersi dalla massa attraverso delle scelte esemplari.
Quindi Nietzsche in realtà non c’entra nulla, ma lo usano come giustificazione. Colgono nel pensiero di
Nietzsche n fondamento ideologico per giustificare scelte come scelte politicamente autoritarie.
Il letterato deve scegliere tra la strada della vita esemplare oppure decide di essere la voce di una
minoranza. C’è sempre un modo per distinguersi dalla massa, che è una che premia quelli che vincono
economicamente e quelli che sanno parlare culturalmente di più.
Pascoli, professore che vive in campagna, risponde in modo antitetico a D’Annunzio. E svevo (industriale) fa
vedere come sia difficile vivere nel mondo borghese e come spesso ci si sente inadatti. Così sarà per tutto il
secolo successivo. Per questo si dice che il decadentismo non è ancora finito.
La letteratura si occupa solo dell’interiorità del personaggio e indaga la sua personalità,
indipendentemente da condizionamenti esterni. L’ottica diventa soggettiva e ristretta. Gli eventi narrati sono
filtrati da un unico punto di vista, che è quello del poeta e del personaggio del romanzo.

ESPERIENZA ESTETIZZANTE DEL DECADENTISMO


Il ritratto di Dorian Grey è del 1890, il piacere di D’Annunzio del 1889, e Huysmann 1884. Il testo di
Huyssmann è la bibbia del decadentismo.

A REBOURS - CONTROCORRENTE
Il protagonista del romanzo è un giovane aristocratico di famiglia ricchissima che lo educa alla raffinatezza e
all’eleganza. Proprio per questo non è in grado di vivere insieme agli altri, prova un rifiuto per la città di
Parigi (emblema della massa), e sceglie di andare a vivere lontano da tutti in un dimora sontuosa che arreda
secondo il suo gusto. Il suo gusto è eccentrico ed elegante, che nasce da un bisogno di soddisfare tutti i
suoi sensi. La dimora avrà arredi preziosi, stanze dedicati ai profumi e alle essenze, avrà degli animali
confacenti all’originalità del proprietario. Questo vivere lontano da tutti rinunciando a ogni forma di
collaborazione con gli altri, questo appagare i propri sensi, accuisce il disagio esistenziale del personaggio,
che progressivamente si ammala sempre più.
Nella sua dimora sceglie e colleziona tutto ciò che l’arte ha saputo creare di veramente bello, che per lui
vuol dire artefatto, innaturale e morboso. Non apprezza tutto ciò che è considerato bello e monumentale (età
augustea o fine repubblicana).
Fa una critica al classicismo come misura di tutte le forme -> è senza fantasia, con lucano il latino è più
espressivo, Petronio ritrae la società del tempo, unico degno di considerazioni perché non accetta quello
che il mondo ha scelto come autorità. Virgilio è esempio di classicismo e non funziona perché la lingua è
noioso e c’è la volontà di insegnare la morale. Quello di cui c’è bisogno è di un intellettuale non asservito
che non vuole proporre una visione del mondo, ma rappresentare come un fotografo.
È una scrittura a cascata, un flusso di pensieri, la parola è ricercata, quindi mette in luce la sua cultura
raffinata attraverso un linguaggio alto, non naturalista.
Le immagini sono ricercate e al servizio dell’eccentricità.
Dal personaggio Des Essentiel (protagonista di controcorrente) prende poi vita Andrea Sperelli (Piacere di
D’Annunzio), con una differenza: il primo conclude con una volontà di tornare alla vita nella società, ma il
disturbo psicologico non trova conforto se non con una crisi mistica religiosa più legata al modo di vivere,
mentre il secondo ha una risposta non complessa e profonda.
GABRIELE D’ANNUNZIO
Ci dice cose interessanti sulla società di massa, nonostante abbia cercato di vivere una vita al di sopra della
massa. È un personaggio contraddittorio, che ha saputo esprimere i miti e i limiti della società di inizio 900.
Reagisce alla massificazione con l’idea di una vita inimitabile, costruisce il proprio personaggio dando voce
a un sogno collettivo, interpretando le velleità delle persone. È un autore che non nasconde i caratteri tipici
del decadentismo, è un individuo ossessionato dalla decadenza e dalla morte.
Nasce nel 1863 a Pescara in una famiglia alto borghese, svolge gli studi al Collegio Cicognini di Prato, liceo
classico, e si iscrive a lettere a Roma, laurea mai conseguita. Questo lo mette in una situazione diversa da
Carducci e Pascoli, che sono laureati e docenti universitari a Bologna. I suoi due contraltari sono i due poeti
laureati.
Esordisce a 16 anni come poeta e scrive una raccolta, “Primo vere”, e a 18 anni si trasferisce a Roma e
comincia a frequentare i salotti mondani e collabora con importanti riviste. Pubblica nell’82 “altri versi” (anni
veristi) e una raccolta di racconti ispirandosi a verga. Scrive sia poesia che novelle e romanzi.
A vent’anni si sposa con una nobile, è un matrimonio organizzato. Dopo 7 anni la lascia e inizia relazioni
particolari con tra l’altro l’attrice Eleonora Duse. D’Annunzio ama la bella vita, che è costosa e non si può
fare solo facendo il giornalista, quindi si riempie di debiti e scappa da Roma e si trasferisce a Napoli.
Per risolvere il problema del denaro pubblica delle opere di carattere scandalistico, cerca l’attenzione dei
media e cerca un successo facile attraverso opere pruriginose (opere pornografiche). Diventa un cronista
mondano della “Tribuna” e viene accusato di plagio, e nel 1889 pubblica (Trêves, che non vogliono
pubblicare Mastro don Gesualdo ma pubblicano questo) l’opera che gli da il successo, il romanzo Il piacere,
il manifesto dell’estetismo italiano, copiato da A Ritroso.
Va a Francavilla e qui compone Il trionfo della morte e una tragedia. Decide poi di scopiazzare un po’ Delitto
e castigo.
Anni 90: consacrazione come romanziere, anche in Francia. Pubblica L’innocente (1892, anche Svevo inizia
a pubblicare) e La vergine delle rocce. Tema sempre amoroso erotico tranne nella vergine delle rocce,
romanzo in cui manifesta il suo super ominismo.
Nel 1898 si trasferisce in Toscana insieme a Eleonora Duse, e le dedica una serie di opere. Per vivere in
modo inimitabile non basta essere un autore di successo, ci vuole la carriera politica. Nel 97 entra in
politica prima coi conservatori è poi passa all’estrema sinistra per opportunismo, perché lui sceglie la vita,
quello che asseconda la sua forza vitale. Debiti crescono e fugge in Francia. Qui comincia relazioni con
diverse donne. Il martirio di San Sebastiano -> unisce sacro e profano.
Intesse relazioni con grandi personaggi, e il testo teatrale viene musicato da Debussy. Inizia a lavorare al
Corriere della Sera, dove appaiono le canzoni delle gesta d'oltremare, canzoni sulla guerra di Libia, dove
dimostra un grandissimo nazionalismo. Si dedica anche al cinema e scrive soggetti come il film Caviria
(diventa personaggio di Fellini). Rientra con Ungaretti in Italia quando scoppiò la prima guerra mondiale. Qui
diventa portavoce dell’interventismo, e deve partecipare a delle imprese che lo rendano un uomo
memorabile.
Nel 1916 subisce un incidente e perde la vista di un occhio, diventando argomento del Notturno. Partecipa
alla beffa di buccari (incursione marittima contro una vedetta austriaca) e il volo su Vienna dove lancia
volantini patriottici. Questa è la sua fine, perché finito il conflitto (vittoria mutilata) si mette a capo di un
gruppo di legionari che occupano fiume, e insedia un governo non autorizzato. Questa cosa lo mette in
contrasto con Mussolini e viene cacciato (non rispetta il trattato di Rapallo) e comincia la vita appartata.
A mussolini D’Annunzio non piace, perché è ingombrante e oscura la sua persona. Si trasferisce quindi al
Vittoriale, luogo che diventa il Vittoriale degli italiani (il suo luogo di ritiro e museo delle glorie). Lo abbellisce
con oggetti, navi, che ricordino imprese italiani contro austriaci. È una villa che si affaccia sul lago con teatro
simil greco sul lago e anche uno esterno.
Al vittoriale muore da solo nel 1938.

D’Annunzio pratica ogni genere letterario seguendo il principio del rinnovarsi continuamente. Dall’altra
parte la sua inclinazione lo espone a un certo dilettantismo. Il dilettantismo c’è perché non ha
un’inclinazione personale, ma ricama sul già fatto. Non ha un’esigenza profonda di scrivere, è sempre
ispirato da qualcosa che hanno fatto gli altri, non è un letterato di professione perché può fare solo quello, lui
può fare tutto (politica, cinema, guerra) e si cimenta in tutto, sperimenta tutto, con una capacità, però mai
con originalità profonda. L’unica opera considerata originale è il Notturno, l’ultima opera della sua vita, che
scrive quando si ritira. Questo lo mette in posizione difficile perché gli intellettuali non lo amano mentre il
pubblico di massa lo adora.
D’Annunzio odia la massa, vuole distinguersi, ma senza la massa non esisterebbe. Svevo lo considera
un prodotto degenerato della letteratura. Le sue opere sono facili da leggere, non c’è mai un’analisi
approfondita, solo giochi di parole.
D’Annunzio cerca ispirazione nell’arte, che è il primo punto di partenza. Va a cercare le opere straordinarie,
e su quelle costruisce le proprie. Sulle opere d’arte costruisce la sua vita, perché il manifesto dell’esteta è
costruire vita come opera d’arte. Ama la bellezza, l’esteriorità, la fattura e la vita bella e inimitabile. Tutti i
personaggi dannunziani sono belli, raffinati e si distinguono dalla massa per eleganza e ricchezza, la parola
che distingue i personaggi è ricca e aristocratica, diversa dal linguaggio della massa.
I suoi personaggi sono caratterizzati da una componente volontaristica: volontà di essere e affermarsi,
volontà di potenza.
I personaggi di D’Annunzio hanno una volontà fortissima, vogliono raggiungere quello che desiderano a
prescindere dalle loro possibilità. Può essere che spirito velleitario vada deluso. Anche il super uomo,
protagonista della vergine delle rocce non conclude il suo progetto. Sono tutti perdenti perché manca la
forza di portare a termine il desiderio. I romanzi mettono in luce un grande edonismo, raffinatezza ma
anche una sconfitta determinata dalla paura del decadimento e della morte.
D’Annunzio è importante perché scrive dei romanzi da leggere per divertimento, letture leggere, non
metafore o linguaggio troppo difficile. Questa è la sua importanza.
Nella poesia gli dobbiamo riconoscere la sua capacità di giocare con i rimandi, rielabora linguaggi altrui in
dimensione personale (sa usare le parole), lessico svariato. Dal punto di vista estetico e formale grande
maestria. Mancano i contenuti. D’Annunzio parte da qualcuno e poi lo rielabora.
Per generare superuomo D’Annunzio deve trovare una donna che condivida il suo ideale. Il
superominismo è pensato solo per se stesso, non per una nuova razza di individui.

IL PIACERE
È un romanzo che risponde all’estremismo francese del 1884. È la risposta italiana al romanzo contro
corrente. Il protagonista, Andrea Sperelli, è un giovane aristocratico che cerca una vita di raffinatezza,
esclusività e di bellezza. La bellezza è personale, culto della persona, ed è ricercata nell’amore, nelle
donne, e ricercata nell’arte. Questo giovane si innamora di una donna fatale, Elena Muti (Elena come troia,
porta disgrazie), che accende in Andrea sensazioni fortissime. La donna però per motivi di denaro sposa un
altro, e vive con lui a Londra. A un certo punto torna a Roma e rivede Andrea. Questo genera in Andrea un
desiderio di ricominciare la relazione. In realtà Andrea dopo un duello rimane ferito e percorre
convalescente in una dimora fuori Roma dove conosce Maria Ferres (Maria vergine). Maria Ferres è madre
e moglie che si lascia trascinare in una relazione. Quando Andrea riesce a possedere una donna che vuole,
fa errore: chiama Maria Elena. Finisce male.

Brano sul libro pag 474 – LA VITA COME UN’OPERA D’ARTE


Andrea sperelli parla col padre. Padre è esteta
Idéal tipo di giovine signore – riprende Parini.
Andrea Sperelli non va alla scuola pubblica, non si mescola alla collettività. Istruzione viene data dal
genitore, autore delle massime che vengono dette nel testo. L’educazione era viva, fatta di esperienza. Le
ha provate tutte, e quando provi tutto non sei più appagante da nulla, e devi cercare continuamente cose
che ti provocano piacere. In questo caso una donna fedele che non cede mai.
Il personaggio è delineato con chiarezza, esteta e disinteressato a ciò che appartiene al mondo comune e
cerca sempre di appagare sensi. L'atteggiamento velleitario è determinato dall'educazione che ha ricevuto
dal padre.
È un personaggio distinto da massime (non principi, sentenze). Le massime possono essere interpretate
come principi morali, ma in realtà non lo sono. Il padre si riveste di frasi importanti ma non sa tradurre nella
vita quello che afferma.
L’educazione malsana del padre lo porta a produrre una vita senza coscienza – non può mai essere
sincero e non può avere su se stesso il pieno dominio. Non è affidabile, non sa guardare dentro se stesso, e
non essendo sincero con se stesso non si può neanche controllare.
Quando Andrea si ritrova da solo senza padre cresce in balia delle sue passioni e rispondendo alle sue
sensazioni edonistiche. La bellezza non è il bello morale ma è il bello e basta. Va a Roma per predilezione,
perché roma è bella – roma era il suo grande amore, non la Roma dei latini ma la Roma dei papi.
Roma dei papi – roma sfarzosa, Barocco. La Roma dei papi è licenziosa, i papi sono dei principi più che
uomini licenziosi. Gli piace l’aspetto scenografico di Roma. Con il cattolicesimo non ha niente che condivide,
se non il fatto che gli piaccia la rima dei papi.
Vive un grande malessere che deriva dalla luce di roma, dal clima di roma. Siamo in un mondo borghese
dove il bello viene sostituito all’utile.

D’Annunzio sta sperimentando. Ha dietro di lui i naturalisti e veristi, e di questo qualcosa tiene, come la
documentazione delle date e descrizione delle città, c’è un desiderio di fotografare la realtà in cui si muove,
ma lo fa in ottica diversa dai realisti. Tutto è filtrato attraverso le sue sensazioni. Quello che vede passa
attraverso il suo stato di languore. Il contrasto è giocato tra l'esterno e l’interno, quello che conta è l’effetto
che l’esterno produce sull’interiorità, e l’esterno è filtrato attraverso l’interiorità. Vuole essere un
romanzo psicologico attraverso cui D’Annunzio fa un’analisi non scientifica del personaggio e delle sue
sensazioni che affiorano senza un ordine stabilito.
È un romanzo nuovo, allusivo e simbolico, perché dietro sensazioni ci sta un altro significato che si fatica
a cogliere.

La cosa interessante di D’Annunzio è che vuole trovare delle nuove cose da sperimentare. Non vuole fare
un romanzo realista o esperienza di Zola, Flaubert o Verga, vuole attraversare una strada nuova. Cerca il
romanzo estetizzante dove mette in luce le sue conoscenze (artistiche, descrive nel dettaglio), il suo modo
di essere.
Nello stesso tempo concentrando tutto sulle descrizioni distoglie dall’idea centrale di mettere in luce come
un uomo che vive solo di esteriorità è un uomo destinato al fallimento.
Cerca sempre una corrispondenza tra stati d’animo e cosa c’è all’esterno, è simbolista. Oggetti e monumenti
servono per rimandare a quello che ha dentro.
A differenza di simbolisti però lui non rinuncia alla comunicazione. Ha bisogno di comunicare tutto quello
che prova e vede, e lo fa con capacità di scrittura estremamente controllata e dove c’è bisogno di
aggiungere. Si vedono le ossessioni dell’artista, che vive in un mondo diverso dalla realtà.

Descrizione di Elena pag 484 – UNA DONNA FATALE


Brano che descrive l’entrata in scena di Elena Muti, femme fatale, durante un ballo. Nessuno rimane
indifferente al fascino di Elena, sembra Elena di Troia. È una donna consapevole della sua bellezza,
un’ammaliatrice, consuma gli uomini. Caratteristiche della donna elencate prima, le incarna tutte.

LA VERGINE DELLE ROCCE


Questo libro è il proclamo di D’Annunzio. Dice con estrema chiarezza che la massa è un gregge e che ci
sono spiriti che sono pochi eletti che hanno la funzione di guidare la società. La morfogregge si deve
sottomettere e i pochi eletti hanno diritto alla piena realizzazione di loro stessi. Questo romanzo però alla
fine si conclude con un insuccesso, perché i grandi proclami si scontrano con l’impossibilità di essere
realizzati. Questo perché il giovane che ha l’ambizione di essere un grande, che dice di essere colui che
capeggia una rinascita della classe aristocratica, che ha un avo nel rinascimento che si confronta con
Leonardo Da Vinci (il suo demone, daimon, mette in comunicazione divinità con persona). L’uomo legato a
Leonardo Da Vinci suggerisce a Claudio di intraprendere questa ascesa e progetto di rifondazione degli
eletti attraverso la generazione di una nuova stirpe.
Claudio Cantelmo sostenuto dal suo demone deve rappresentare il vero “tipo latino”. Il tipo latino è un
uomo forte rigoroso e possente, che porta con sé una forza che viene dal mondo antico, non tanto dalla
tradizione del pio Enea ma dalla forza in guerra che i latini hanno rappresentato. Il maschio latino ha la forza
per essere dominatore ed essere la guida della massa che considera gregge. Cantelmo vuole diventare
esemplare di uomo latino, che ha un amo nel rinascimento ti – latino forza, rinascimento principe, uomo
colto e raffinato -> mette insieme la cultura estrema e la forza. L’uomo latino cresciuto nel lusso e nello
sfarzo, ha il compito di trasferire la sua visione di superiorità in un erede, e quindi generare qualcuno che
possa portare avanti il suo progetto, deve trasferire in un altro la sua visione del mondo (eletti e che deve
sopravvivere), deve generare qualcuno che porterà avanti la rinascita.
Per fare ciò va a cercare la donna ideale. La cerca in un'aristocrazia decaduta, perché l’idea del
decomporsi, essere in fase di crisi, alimenta lo spirito di rivalsa e la forza dell’uomo latino. Risollevare le sorti
dell’aristocrazia decrescente dà impeto al personaggio. Claudio conosce la famiglia di nobili che ha tre figlie,
e passa in rassegna tutte le figlie, prima di decidere quale sia la possibile madre dell’erede. Inizialmente è
attratto da Anatolia, donna forte e benefica, generosa, ma questa rifiuta il ruolo, dicendo che deve pensare
alla sua famiglia. Ce n’è un’altra, Massimilia, che rappresenta la suora, che quindi rifiuta. Alla fine Cantelmo
si vede rifiutato da tutte le parti, e non trova la figura femminile con cui generare il nuovo erede.

Questo testo è più complesso del piacere.


In questa fase produttiva di D’Annunzio è chiaro che non trova un personaggio innocente, non riesce a
creare dal punto di vista letterario una figura dominante come vorrebbe. Sperelli alla fine non possiede le
donne che desidera e Cantelmo non trova con chi generare il nuovo re di roma. Il suo progetto quindi si
sposta sulla dimensione personale, non sono i personaggi letterari ad essere vincenti ma è lui, e nel giro di
7/8 anni D’Annunzio pensa che forse nella poesia sarà in grado di celebrare il suo spirito superominista, e si
lascia andare nel progetto delle Laudi, una raccolta poetica.
In D’Annunzio le donne hanno funzione strumentale, vengono usate dall’uomo per raggiungere obiettivo.

LE LAUDI
Nei primi anni del 900 cerca di raccontare la sua visione superoministica del mondo attraverso ciclo poetico,
e scrive le Laudi, una raccolta sterminata di 7 grandi componimenti che hanno ciascuno il nome delle stelle
che compongono la costellazione delle Pleiadi – Maia, Elettra, Alcyone (1904-5), Merope (canzoni gesta
d’oltremare, 1912), Asterope (1933, ci sono i canti della guerra latina, prima guerra mondiale), dovevano
essere 7 ma sono solo 5.
I nomi vengono anche da cantico delle creature, come Francesco ha scritto le lodi alla natura, così
D’Annunzio scrive le Laus Vitae, lodi alla vita. Al centro c’è vita e natura. In San Francesco attraverso la
natura si loda dio, qui invece si loda attraverso la natura l’uomo.
Nei primi tre D’Annunzio cerca di raccontare il suo sentimento di superiorità, e di spiegare chi è per lui il
superuomo. Nei primi tre libri racconta la crescita del superuomo, il manifestarsi della sua volontà sugli altri,
fino a quando nel terzo libro racconta la pausa del superuomo, che vive un’esperienza unica con la natura
tra Firenze, Fiesole e la Versilia. Nella pausa estiva il superuomo manifesta la sua capacità di congiungersi
con la natura, essere un tutt’uno per dominare tutto. L’Alcione è la fase in cui viene raccontato il panismo
dannunziano. Qui ci sono La sera fiesolana e La pioggia nel pineto, dove la natura è uno strumento nelle
mani di D’Annunzio che sa far suonare attraverso la parola ogni aspetto della natura.
Mentre D’Annunzio scrive queste cose Pascoli è nel pieno della sua esperienza, e anche Pirandello ha già
pubblicato il fu Mattia Pascal. La stessa società produce dentro lo stesso movimento due reazioni distinte. È
chiaro che Mattia non sa vivere, non può fare altro che guardarsi vivere, perché non ha la forza di stare
dentro il mondo, mentre D’Annunzio propone un uomo che tiene il mondo tra le proprie mani e lo plasma
come desidera.
Le Laudi rappresentano un punto di partenza per discorso superoministico che parte da una rivisitazione
delle figure mitiche del mondo antico. D’Annunzio si propone attraverso il culto degli eroi antichi di rivolgere
al proprio pubblico una nuova morale, un moderno superuomo che proprio perché deriva dal mondo antico è
un superuomo pagano, cioè che poggia su radici di tipo religioso e spirituale. Quindi D’Annunzio racconta la
sua volontà superoministica e di potenza attraverso le figure del passato, e la prima è Ulisse nella raccolta
delle Laudi primo libro. Nel secondo volume, Elettra, il superuomo va ritrovato dentro gli eroi della storia
italiana, e traccia una sintesi della cultura italiana passando da Dante che è il primo grande arrivando a
Garibaldi e Giuseppe Verdi e Vittorio Emanuele. Attraverso i grandi della storia patria ha anche una
rivisitazione dei pensieri filosofici che hanno caratterizzato cultura italiana. C’è anche un episodio dedicato a
Nietzsche, che con le sue opere offre la spinta superoministica. Il terzo libro è l’Alcione, che è il momento
della esaltazione del superuomo D’Annunzio, il quale si ferma dalle grandi azioni per concedersi una pausa
(fine primavera al mese di settembre) nella natura Toscana. Il terzo libro delle Laudi Alcione è la tregua del
superuomo, riposo nella natura, che si conclude con un saluto alla natura settembrina Toscana. Si è
superuomini sia quando si è grandi personaggi ma anche quando si è in vacanza (lo spiega proprio
nell’Alcione).

ULISSE
Prerogativa di D’Annunzio: strofe lunghissime, perché la scelta poetica è quella di una scrittura a cascata, e
la strofa diventa lunghissima, quasi sempre più di 20 versi di fila.
D’Annunzio ha fatto una crociera in Grecia e questo viaggio lo esalta, perché è l’incontrò con la grecità. Dice
di incontrare Ulisse nelle Acri Leucade (di fronte a Zante, Saffo si butta giù, è un luogo letterario). Leucade è
un’isola vicino a Itaca impervia, con un mare tempestoso che le circonda. Continua una lunga descrizione,
dice isola macra (grande) che ha la struttura di un corpo fatto di ossa messe una sopra l’altra, che sembra
cintato di una cintura d’argento, fatta dalla luce abbagliante del mediterraneo.
Verso 10-11: richiama omero, le concave navi.
Descrive un Ulisse non giovane, che porta sul capo un copricapo di tessuto, tipo bandana, sul capo canuto.
Ha una tunica e la palpebra aperta con occhio vigile.

Ulisse descritto da D’Annunzio è un uomo che si erge poderoso rispetto a tutti i suoi compagni.
D’Annunzio quando scorge l’imbarcazione di Ulisse gli grida eccitato, sta mettendo il luce il suo spirito
dionisiaco. Lo chiama con epiteti omerici (re degli uomini, piloto delle sirti).
Prima lo appella e poi si presenta, come Ulisse tiene la scorta della sua imbarcazione, così D’Annunzio
tiene le corda della propria vita.

La parte importante è dal verso 48 perché li D’Annunzio incontra Ulisse e dialoga con lui. D’Annunzio dice
riferendosi a Ulisse
«o Re degli Uomini, eversore di mura, piloto di tutte
50 le sirti, ove navighi? A quali meravigliosi perigli conduci il legno tuo nero? Liberi uomini siamo
e come tu la tua scotta
55 noi la vita nostra nel pugno
tegnamo, pronti a lasciarla

in bando o a tenderla ancóra. Ma, se un re volessimo avere, te solo vorremmo


60 per re, te che sai mille vie. Prendici nella tua nave
tuoi fedeli insino alla morte!» (diventerà lo slogan di D’Annunzio per seguire il regime)
Ulisse dirige la nave e D’Annunzio è con i suoi compagni. D’Annunzio dice che se volessero avere un re lo
vorrebbero come Ulisse, un personaggio capace di dominare. Ma Ulisse non risponde, e continua
imperturbabile a condurre la sua nave. A questo punto D’Annunzio capisce che Ulisse non si confronta con i
più, e dal “noi” passa all’”io”.

Dice:
«Odimi» io gridai sul clamor dei cari compagni «odimi, o Re di tempeste!
Tra costoro io sono il più forte.
Mettimi a prova. E, se tendo l’arco tuo grande,
qual tuo pari prendimi teco. Ma, s’io nol tendo, ignudo tu configgimi alla tua prua».
Ulisse di fronte alla richiesta di D’Annunzio volge il suo sguardo verso di lui e lo fissa in mezzo alla fronte,
poi si allontana. A questo punto il cuore di D’Annunzio è partito per sempre da quello dei suoi compagni.
Ulisse ha disdegnato tutti tranne che per un secondo D’Annunzio, e questo lo autorizza a pensare che lui
possa essere come lui, un dominatore degli altri. Infatti D’Annunzio come Ulisse crede solo in se stesso.
Ulisse ha investito D’Annunzio con il suo sguardo di un ruolo, quello di essere superiore ai compagni.
E io tacqui
95 in disparte, e fui solo;
per sempre fui solo sul mare. E in me solo credetti.
Uomo, io non credetti ad altra virtù se non a quella
100 inesorabile d’un cuore possente. E a me solo fedele io fui, al mio solo disegno.
È la sua forza che lo distingue da tutti gli altri, una forza che è come un ferro che viene battuto su un
incudine che produce delle faville. È chiaro che il superominismo di Ulisse si trasferisce direttamente nella
figura di D’Annunzio, e versi conclusivi sono un inno alla volontà di potenza. C’è solo la virtù di un cuore
possente, fedele solo a se stesso e al suo progetto.
D’Annunzio attraverso le laudi racconta di tanti superuomini fini ad arrivare a se stesso.

ALCIONE
Nell’Alcyone D’Annunzio racconta il rapporto con la natura. Il superuomo si immerge in modo panico
(totalmente) nel mondo naturale che lo circonda. Cerca di entrare in una piena armonia con la natura
stessa, che diventa parte di lui e lui parte di questa. Solo il superuomo è capace di entrare così nel mondo
naturale, e solo il superuomo la sa fare parlare attraverso la parola e il verso, che diventa musicale e
armonioso. Nella natura non racconta nulla ma descrive in modo ineccepibile la varietà del mondo naturale.
D’Annunzio sostiene che la poesia sia una forma d’arte superiore perché il verso può tutto, è più malleabile
di un metallo, più tagliente di una spada, può rendere i minimi moti del sentimento e dell’azione. Il verso può
tutto.
Nelle Laudi riesce a mettere in luce questi pensieri.

LA SERA FIESOLANA
Pubblicato prima in una rivista. D’Annunzio si trova alla villa della capponcina insieme a Eleonora Duse.
Immagina di parlare alla sua donna e insieme a una pioggia contempla il paesaggio collinare all’ombra del
tramonto. La sera produce un incanto (Foscolo e Leopardi), ma è un incanto Placido rasserenante (tregua
del superuomo) fatto di immagini evocative.
Componimento fatto di tre strofe, e tra una e l’altra c’è una antifona. Sono tre versi fatti di endecasillabi che
richiamano Laudato si mio signore, ovvero San Francesco.
D’Annunzio dice che spera che le sue parole siano per te fresche come le foglie di un gelso che un
contadino raccoglie, e si attarda a quest’opera condotta lentamente su una scala. La scala si fa scura e
contrasta con il colore argenteo del fusto del gelso. Il gelso ha rami spogli e la luna è prossima all’orizzonte.
Dice che le sue parole nella sera devono essere dolci come una pioggia fuggitiva, è il pianto commosso
della primavera che lascia spazio all’estate.
D’Annunzio condurrà verso un fiume le cui acque sembrano parlare, e dirà alla donna come le colline fanno
una curva e come vorrebbero parlare, e questa volontà di parlare le rende più belle di ogni umano desiderio.
Il silenzio delle colline da una nuova capacità di consolare, e la sera ha funzione consolatrice (Foscolo).
D’Annunzio ci fa vedere tutta la sua bravura. La su poesia e la natura sono belle, perché il superuomo è
obbligato a raccontare la bellezza. Il superuomo della poesia può fare quello che vuole, e cosi entra nella
natura. È un gioco stilistico fatto alla perfezione.
D’Annunzio usa versi liberi, usa sia endecasillabi che settenari e quinari, quindi c’è andamento originale, con
alla fine l’antifona (richiamo alla religione, è la risposta del fedeli nella messa).
D’Annunzio quando inizia non si ferma più, usa il verso a cascata. La descrizione non è mai puntuale. Se
pensiamo a Leopardi li non c’è mai una parola di troppo, qui invece si generano una serie di
puntualizzazioni. Accumula a cascata tutto, senza punti di interpunzione. È come se fosse un flusso di
coscienza, si va in questa direzione.
LA PIOGGIA NEL PINETO
Più lunga, sempre emergono sensualità e languore.
Nella pioggia nel pineto il poeta vate usa il congiuntivo esortativo, poi passa all’imperativo categorico
(Taci e cosi procedi). Entra quindi il potere del superuomo. Non bisogna cercare significati specifici ma la
capacità di usare le parole, la variazione delle note timbriche – è molto simbolista.
Ermione è Eleonora Duse. I personaggi sono in Versilia in un pineto e inizia a piovere. Ermione è l’unica
figlia di Menelao.
Malomonti qualche anno prima, un poetino di campagna, scrive una raccolta poetica dal titolo Mirice
(Tamerici in latino, arbusti, piante semplici, quarta bucolica di Virgilio).
D’Annunzio dice che le tamerici sono umili ma raffinate, partono da Virgilio ma arrivano a Pascoli,
D’Annunzio le rende più belle, le descrive benissimo.
Nella seconda strofa alla pioggia rispondono le cicale e anche le piante. La natura risponde con la sua
musicalità alla pioggia.
E immersi
noi siam nello spirto silvestre,
d’arborea vita viventi; e il tuo vólto ebro
è molle di pioggia come una foglia,
e le tue chiome auliscono come
le chiare ginestre, o creatura terrestre che hai nome Ermione.
Sta avvenendo la metamorfosi con la natura.
Le citare rimepiono il mondo del loro canto, che si unisce alla pioggia. A questi si unisce il canto delle rane e
più piove sull’ombra che diventa scura. Piove sulle ciglia nere.
La Duse sta diventando come una pianta (COLLEGAMENTO CON OVIDIO METAMORFOSI E BIENNALE
VENEZIA).
E tutta la vita è in noi fresca aulente,
il cuor nel petto è come pèsca intatta,
tra le pàlpebre gli occhi
son come polle tra l’erbe,
i denti negli alvèoli
son come mandorle acerbe. E andiam di fratta in fratta,
or congiunti, or disciolti (e il verde vigor rude
ci allaccia i mallèoli c’intrica i ginocchi)
115 chi sa dove, chi sa dove! E piove su i nostri vólti silvani,
piove su le nostre mani ignude,
120 su i nostri vestimenti leggieri,
su i freschi pensieri che l’anima schiude novella,
125 su la favola bella che ieri
m’illuse, che oggi t’illude, o Ermione.
D’Annunzio sperimenta più che in ogni altro componimento il linguaggio simbolista. Usa parole che vanno a
suscitare in noi percezione di ciò che accade nel luogo. È molto attento ai sensi, alla percezione sensoriale,
che è visiva ma anche uditiva e tattile.
Nella natura trova una serie di rimandi e simboli, tutto diventa analogico. C’è una trama sonora nella natura
che solo il poeta superuomo sa cogliere. Il poeta è capace, è forte, sa cogliere quello che gli altri non
colgono (vedi Baudelaire), per questo diventa il poeta vate.
D’Annunzio vuole celebrare la poesia come un canto fascinoso, non vuole trasmettere concetti ma uno stato
d’animo, quindi gioca con le parole.
Nei punti chiave del componimento mette verbi imperativi, mentre nel resto congiuntivo esortativo, quindi sa
cogliere attenzione del lettore. USA anche effetti sonici, gioca sulla vocale aperta (taci, parole, umane), poi
però usa anche dei toni cupi (bosco) e Toni acuti (foglie). Usa la tecnica della ripetizione. Usa iperbato,
quindi separa l’ordina naturale sintattico per dare un senso di attesa, tiene il lettore in attesa. Usa rime
interne e parallelismi dal punto di vista sintattico (uso dei pronomi).
D’Annunzio è un autore imprescindibile, non per valutazioni specifiche tecniche ma perché tutti quelli che
sono venuti dopo sono passati attraverso di lui, o per antitesi (sia poetica che ideologica), o per
partecipazione.
Eugenio Montale parafrasa la pioggia nel pineto. Da leggere, è bella .

LA SABBIA DEL TEMPO


Testo giocato sull’analogia tra la sabbia del mare e il rapido fuggire del tempo. È simbolista.
Come scorrea la calda sabbia lieve
Per entro il cavo della mano in ozio,
Il cor sentì che il giorno era più breve.
E un'ansia repentina il cor m'assalse
Per l'appressar dell'umido equinozio
Che offusca l'oro delle piagge salse.
Alla sabbia del Tempo urna la mano
Era, clessidra il cor mio palpitante,
L'ombra crescente d'ogni stelo vano
Quasi ombra d'ago in tacito quadrante.
È un madrigale, fa sempre parte dell’alcione. Porta con se una nota di tristezza. Le giornate estive di stanno
accorciando e mi prende un’improvvisa ansia per l’arrivo dell’autunno, che attenua la luce sulle spiagge
salmastre. Il cuore è dominato da un’ansia palpitante, perché come una clessidra sente il passare del
tempo. Snodo del tempo.
Grande capacità poetica stilistica, insieme al bello si unisce un tema più profondo.

IL NOTTURNO (vedi libro)


D’Annunzio compie una meditazione sul significato della vita è dell’arte, scrive una sorta di memoriale ,
molto originale perché si esprime per quello che è davvero.
Come il memoriale è il memoriale esteriore della sua essenza, possiamo solo vedere la parte esterna
destinata agli abiti o bagno… Paura del vuoto che si evidenzia anche da come decora le sue stanze. Si
paragona qui a uno scriba egizio o alla sibilla cumana che scrive sulle foglie i suoi verdetti (rimandi
mitologici) scrivendo del suo prenderne passato è futuro fondendo tutto in un unico tempo, il tempo della
coscienza (berkson filosofia). Il tempo di quando si scrive, adottando stili diversi, fa si che si possa scrivere
di una complessità unica che ingloba tutto, con una visione molto poetica sincera e sofferta, che fa vedere il
vero personaggio

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