Sei sulla pagina 1di 42

GIACOMO LEOPARDI

Giacomo Leopardi nasce il 29 giugno 1798 a Recanati, una cittadina delle Marche compresa all’epoca nello
Stato della Chiesa. La sua è una nobile famiglia; è il primo di cinque figli. Cresce in un ambiente reazionario
e conformista. Si applica da autodidatta, grazie alla ricca biblioteca paterna, allo studio della letteratura
italiana, delle lingue e letterature classiche e della lingua ebraica: diventa così padrone di un’immensa
erudizione. Questo studio da lui stesso definito «matto e disperatissimo» gli rovinerà per sempre la salute,
causandogli una leggera deformazione al corpo e disturbi alla vista. Durante il corso sua vita compirà
numerosi viaggi e spostamenti per tutta Italia. Morirà a soli 39 anni a Napoli.

POETICA

Nell’opera poetica di Giacomo Leopardi emerge la pessimistica concezione della vita, dominata dal dolore e
dall’infelicità. Al centro della sua meditazione c’è l’uomo e il suo rapporto con la natura. La filosofia di
Leopardi è basata più sull’emotività che sulla razionalità. Si possono così distinguere 3 fasi del pessimismo
leopardiano: la fase del pessimismo individuale, la successiva fase del pessimismo storico e infine la fase del
pessimismo cosmico.

Pessimismo individuale: le principali cause scatenanti del pessimismo individuale leopardiano sono il
carattere molto sensibile del poeta, i problemi di salute, un ambiente familiare severo e opprimente e non
meno importanti sono le complicate frequentazioni del Leopardi col mondo femminile. Leopardi in questa
fase si sente destinato ad una vita di sofferenza e l’unico motivo di consolazione si può trovare nella
contemplazione della natura. Il suo pessimismo nella prima fase è una condizione puramente personale, il
poeta crede che la vita sia stata spietata con lui, ma che gli altri possano comunque essere felici.

Pessimismo storico: Leopardi in questa fase riconduce la causa dell’infelicità umana al processo storico. La
natura da madre benigna, ha donato all’uomo le illusioni nelle quali può trovare un rimedio alla propria
infelicità, e con le quali può raggiungere qualsiasi tipo di piacere. Nell’antichità (cioè nella preistoria e poi
presso i greci e i romani) l’uomo era più vicino alla natura e disponeva così in massima misura di illusioni,
immaginazione e piaceri. Secondo Leopardi la vera causa della felicità umana era proprio dovuta alla stretta
vicinanza con la natura di cui gli antichi godevano. Con il passare degli anni, e con il cosiddetto “processo
storico” la civiltà si è gradualmente allontanata dalla natura e di conseguenza dalla felicità. L’uomo
moderno distaccatosi dalla natura, viene indotto a creare un “ordine artificiale”, una seconda natura, che
però genera solo un costante stato di insoddisfazione condannandolo all’infelicità totale.

Teoria del piacere: L’uomo moderno, secondo il poeta, è alla costante ricerca di un piacere, che una volta
raggiunto viene sostituito dalla successiva ricerca di un piacere ancora più grande. L’infelicità dell’uomo
deriva proprio dall’insoddisfazione che questo “piacere infinito” gli porta non potendo mai essere
raggiunto.

Pessimismo cosmico: Dopo aver subito aggravanti problemi salutari, e una crisi che lo portò
all’allontanamento dalla religione cattolica, Leopardi a partire dal 1819 cambiò il suo pensiero riguardante
le cause relative all’infelicità umana. In questa fase la natura, vista precedentemente come madre benigna,
passa da benefica a ostile rispetto all’uomo. Secondo Leopardi la natura, retta da leggi proprie, rimane
indifferente nei confronti dei mali che subisce l’uomo, svelandosi così maligna, cieca e avversa rispetto al
genere umano. L’infelicità è oggettiva e universale, indipendentemente da ogni epoca e luogo, la natura ha
donato all’uomo assieme alla vita anche il desiderio di piacere infinito, senza però donargli i mezzi per
raggiungerlo e condannandolo così al dolore.
L’INFINITO

Composta nel 1819, si trova nella raccolta degli Idilli. La peculiarità dell’idillio è quella di proporre
un’immagine piccola, ristretta, limitata: è quella che si presenta al poeta durante la sua osservazione
dell’orizzonte, ostacolata da una siepe, posta in cima a un colle; pertanto, paradossalmente, alla base di un
componimento che ha come tema l’infinito, si ritrova il senso del limite e una visuale incompleta. Lo stesso
dualismo si ritrova sul piano contenutistico, giocato su un continuo confronto tra limite e illimitato, tra
un’immagine, limitata e sbarrata, ed un pensiero che si perde e naufraga nell’infinito. Si tratta del continuo
passaggio e del continuo gioco di rimandi tra ciò che vediamo e sentiamo e ciò che immaginiamo. Leopardi
intende suscitare nel lettore due differenti sensazioni, una visiva e l’altra uditiva, tese a produrre due
differenti percezioni, una dell’infinito spaziale e una dell’infinito temporale. La poesia è strettamente
collegata a quella teoria del piacere secondo la quale l’uomo ha un’inclinazione naturale all’infinito. Per
quanto riguarda lo schema metrico, ci troviamo di fronte a degli endecasillabi sciolti privi di strofe e di rime.

ALLA LUNA

Composto con molta probabilità a Recanati nel 1819, affronta un tema molto caro a Leopardi, quello del
ricordo. Il componimento è facilmente divisibile in due parti: una prima in cui viene descritto un notturno
lunare e una seconda in cui viene evidenziato il grandissimo valore del ricordo come consolazione. Il tema
della poesia è squisitamente romantico. Essa sviluppa il rapporto che c’è tra uomo e paesaggio notturno
senza trascurare il tema assai caro di quanto un ricordo possa essere dolce e amaro per l’uomo. Appare
evidente sin da subito come, in questa poesia, ci sia una combinazione tra gli scorci di paesaggio notturno e
le sensazioni dell’autore nel momento in cui lo guarda. Questo componimento ha più di un punto in
comune con L’infinito, a partire dalla forma e dal periodo in cui è stato composto, così come dal luogo
privilegiato d’osservazione: la sommità del Monte Tabor. Le due poesie sono accomunate anche dalla
brevità e dalla densità di significato in così pochi versi.

Nella prima invocazione domina il paesaggio notturno verso il quale Leopardi proietta la propria angoscia
tornando su quel colle, un anno dopo, e vedendo la stessa luna che vide allora. Nonostante il tempo sia
passato, lo stato d’animo dell’autore non è cambiato. La prima parte del componimento è dunque
prevalentemente narrativa, mentre dal decimo verso in poi si apre una riflessione teorico-filosofica
incentrata sulla poetica della rimembranza.

Nella seconda parte Il ricordo di un passato triste che si tramuta in un presente triste sembra consolare il
poeta, anche se nel testo non viene spiegato il motivo per cui è così. Tutta la poesia è strutturata
sull’opposizione tra passato e presente, sebbene i sentimenti permangano uguali il poeta trova un po’ di
consolazione nel ricordo. Proprio il ricordo permette di avere il tono dolce e pacato di questo testo.

LA SERA DEL Dì DI FESTA

È uno dei 6 idilli composti, 1820. Due sono qui i grandi temi affrontati nella Sera del dì di festa:

l'infelicità del poeta e il suo senso di esclusione alle gioie della giovinezza; il distruttivo passare del tempo
che annienta ogni opera umana.

La poesia si apre con la descrizione di un tranquillo paesaggio notturno La seconda parte della Sera del dì di
festa sviluppa il tema della delusione e della sofferenza d'amore, che per il poeta si ricollega direttamente
all’intrinseca infelicità imposta dalla Natura alla sua esistenza, escludendolo dalle gioie della vita. La terza
sezione della Sera si apre con una tragica considerazione sul potere distruttivo del tempo, che nel suo
inesorabile passaggio conduce all'oblio le grandi imprese dell'uomo.

LE RICORDANZE

Le ricordanze è una poesia di Giacomo Leopardi. Scritta nel 1829, la poesia appartiene ai cosiddetti Canti
pisano-recanatesi (o Grandi idilli). Così come suggerisce il titolo, al centro di questa poesia c’è la ricordanza:
Leopardi, tornato dopo qualche anno a Recanati (il “natio borgo selvaggio”), esplora le memorie legate al
suo passato. La casa paterna, il paese natale, sé stesso in gioventù: questi gli oggetti del ricordo del poeta,
che esplora e misura la sofferenza inflitta nella vita a lui e a tutti gli esseri umani, vittime delle illusioni
infrante dell’infanzia e dell’adolescenza. La poesia è una canzone libera leopardiana, composta da 173
endecasillabi sciolti divisi in sette strofe di lunghezza differente.

n questa poesia si parla di ciò che per Leopardi si può considerare l’essenza della poesia stessa: il ricordo.
Come teorizzato nello Zibaldone, perché qualcosa sia poetico è necessario che susciti un ricordo (spesso
nato da una fonte uditiva). Un paesaggio, un oggetto, uno scorcio: tutto viene poeticizzato se lo si
rimembra.

In questa poesia viene messo in scena il ritorno a Recanati di Leopardi, articolato in un confronto tra ciò che
è passato e ciò che è presente. Una volta giunto nella casa paterna, il poeta fa sue immagini e sensazioni
che aveva represso sulla sua infanzia, periodo pieno di dolci illusioni e di sogni. Quello era il periodo in cui
ancora non aveva idea di ciò che sarebbe stata la vita, con un mondo tutto da esplorare ancora avanti a sé.

Così come in altre poesie di Giacomo Leopardi, il ricordo scatta grazie a un elemento acustico. Altri esempi
di questo procedimento possono essere considerati il suono del vento tra le fronde ne’ L’infinito, che
improvvisamente ridesta il poeta, o il canto lontano dell’artigiano ne La sera del dì di festa.

Centrale nel componimento è la riflessione rammaricata sulla gioventù trascorsa e mai vissuta e sulle
speranze che hanno caratterizzato quegli anni. Simbolo tanto della gioventù quanto delle sue speranze
ormai superate e sempre vivissime è Nerina, la figura femminile che appare nella seconda parte del
componimento, legata a una triste e prematura scomparsa. Attraverso Nerina, Leopardi indaga un altro
tema fondamentale del componimento: l’amore. Per queste caratteristiche, Nerina si può considerare
specchio e completamento di Silvia in A Silvia.

CANTO NOTTURNO DI UN PASTORE ERRANTE DELL’ASIA

Nella poesia il poeta si cala nelle vesti di un pastore e interroga la luna sulla sua condizione umana. Tra il
pastore e il suo gregge esiste, infatti, una differenza sostanziale: gli animali vivono beati e non conoscono la
sofferenza a cui l’uomo è condannato con la nascita.

È un componimento particolarmente emblematico della poetica leopardiana; forse il più rappresentativo


della sua filosofia. Il riferimento all’Asia da cui trae origine il componimento (è lo stesso Leopardi a dirlo in
un appunto dello Zibaldone) deriva da un racconto letto da Leopardi: il resoconto di un viaggio presso una
popolazione dell’Asia centrale, in cui veniva narrato come alcuni pastori si rivolgessero direttamente alla
luna coi loro canti. Il pastore a cui è affidato il canto è però, fin da subito, portavoce del pensiero del poeta.
È un pastore-filosofo, che rivolge un disperato tentativo di dialogo a due creature mute, una celeste e
lontanissima (la Luna) e una vicina e terrena (il gregge), entrambe ugualmente prive di risposte. Non è la
prima volta che il poeta si rivolge alla Luna (un esempio su tutti è sicuramente l’idillio Alla Luna). A questo
topos letterario si sommano altri aspetti tipicamente romantici, tra cui l’ambientazione notturna e
l’esotismo. La poesia è divisa in sei strofe, ognuna con una storia a sé. Gli interlocutori silenziosi del poeta
sono la luna e il suo gregge. Nella prima strofa egli si rivolge alla luna, eterna e muta, paragonando le
proprie condizioni di pastore a quelle dell’astro, simili per certi versi, ma completamente opposte per altri.
Non ottenendo alcuna risposta, il pastore si interroga sulla sua vita confrontandola con quella del suo
gregge e domandandosi perché gli animali, almeno in apparenza, non solo provino meno tormento, ma
soprattutto non conoscano la noia. L’uomo, invece, non solo vive nel dolore fin dalla nascita (tanto che
l’atto migliore che un genitore può fare nei confronti dei propri figli è consolarlo), ma è subito vinto dalla
noia. Particolarmente rappresentativa della condizione umana è l’immagine del “vecchierel” che occupa la
seconda strofa del componimento: affronta avversità e fatiche indicibili solo per arrivare a un abisso pronto
a inghiottirlo. Ma questa insensatezza e questa inconcepibilità della vita fanno un passo oltre e travolgono
tutto ciò che circonda il pastore, che si domanda non solo che scopo possa mai avere l’esistenza dell’uomo,
ma quale senso possano mai avere il gregge o il moto degli astri. Un ultimo lampo di speranza, per il
pastore, è il pensiero del volo, che subito viene però rovesciato, ribadendo che la nascita, per ogni creatura,
non è altro che fonte di dolore.

A SILVIA

È uno dei grandi idilli, hanno un contenuto oggettivo, contengono cioè la meditazione del poeta sulla
condizione umana di miseria e di dolore. Composto a Pisa nel 1828, è dedicato a una ragazza che il poeta
conobbe realmente, Teresa Fattorini. Nella fantasia leopardiana Silvia è soprattutto il simbolo della
speranza della giovinezza, fatta di attese, illusioni e delusioni. Il canto si divide in due parti: la prima parte
ha carattere rievocativo, incentrato sulla poetica della memoria, la seconda parte ha carattere riflessivo.

Nella prima parte, Leopardi domanda a Silvia se, dopo tanti anni, ricorda ancora i giorni felici nei quali si
affacciava alla giovinezza. Quando anche il poeta aveva nel cuore la fiducia nella vita. Tuttavia questo è
destinato a finire per colpa della natura, che promette negli anni della giovinezza e dell’adolescenza, ma poi
non mantiene ciò che ha promesso.

Nella seconda parte il poeta fa un paragone tra il destino della ragazza e il suo. Silvia moriva senza veder
fiorire la sua giovinezza e con la sua morte, tramontava anche la speranza di felicità di Leopardi. Svaniti
dunque i sogni con l’apparire della realtà dolorosa, non resta altro che la morte per liberarci dalla miseria e
dalle amarezze della vita.

IL SABATO DEL VILLAGGIO

Il canto, composto a Recanati nel 1829, chiude la raccolta fiorentina Canti (1931). La composizione non è
che una riflessione del poeta attorno al piacere, che si concretizza, prendendo vita nella descrizione di un
sabato paesano e nel suo clima di festa. A contrapporsi con l’illusione della felicità, che il sabato
rappresenta richiamando il tema della fanciullezza, è la domenica, che coincide con la vita adulta, la
scoperta del vero e la caduta delle illusioni.

Nella prima lunga strofa le percezioni sono per lo più visive, mentre nella seconda subentrano invece quelle
acustiche, molto importanti poiché in questi tratti è assente l’io del poeta che però viene immaginato dal
lettore insonne nella notte, isolato dalla vita del paese. Il rapporto tra fanciullezza e maturità è la vera
morale del canto, Leopardi però, non aggiunge altro che un’esortazione al fanciullo di godersi questi attimi
felici della “stagion lieta” (giovinezza) con una sorta di moderno carpe diem.

A SE STESSO

Nel 1833 il sogno d’amore di Giacomo Leopardi per Fanny Targioni Tozzetti svanì per sempre. Dalla cocente
delusione nacque A sé stesso, una lirica ad alto tasso di drammaticità. Leopardi scrisse questa breve poesia
nel settembre 1833, a Firenze. Fu pubblicata per la prima volta nell’edizione napoletana dei Canti nel 1835.
La lirica appartiene al cosiddetto ciclo di Aspasia, l’ultima stagione poetica del poeta di Recanati, nel quale
Leopardi concentra i temi della sofferenza amorosa, della morte e l’atroce insensatezza delle illusioni
umane. Aspasia era il nome con il quale il Conte di Recanati era solito chiamare Fanny Targioni Tozzetti, la
nobildonna fiorentina per cui provò un sentimento assoluto e totalizzante, ma non corrisposto.

A se stesso altro non è che un dialogo fra il poeta e il suo cuore. Alla parte più intima e profonda di sé,
l’autore, ormai completamente disilluso e in balia della disperazione più cieca, impone di abbandonare la
vita e ogni barlume di speranza invitandolo invece a constatare l’insensatezza di tutto ciò che lo circonda.
Secondo gran parte della critica, A se stesso rappresenta l’apice del pessimismo leopardiano e in effetti la
visione che se ne ricava è quella di un crescendo di disperazione senza neppure il minimo conforto,
sebbene essa resti sempre lucida ed eroica. Perché la consapevolezza della propria dignità morale non
viene mai meno, esattamente come non vi è alcun tentennamento nell’accettazione coraggiosa della
propria tragica condizione di uomo in contrapposizione alla sordida malignità della natura. Lo stile e il
metro della poesia, una unica strofa di endecasillabi e settenari, una sorta di unicum nella vasta produzione
leopardiana, contribuiscono a renderne più evidente il significato, rafforzandolo. Nessuna retorica
elaborata, non la consolazione delle memorie e neanche la dolcezza del ripiegamento interiore rischiarano,
almeno in parte, la cupezza di A se stesso, che si compone di frasi brevi, tronche, spezzate, che a volte
danno un senso di incompletezza e l’impressione di restare come sospese. Il ritmo è duro, vigorosamente
cadenzato, non ci sono né immagini né abbandoni che possano in qualche modo mitigare la raggelante
asprezza del verso, scarno ed essenziale, espressione formale e tangibile dello stato d’animo di un Leopardi
la cui unica aspirazione, ormai, è il raggiungimento della suprema indifferenza, al di là e al di fuori di ogni
vana e illusoria speranza.

LA GINESTRA

La ginestra viene composta da Leopardi nella primavera del 1836 e si tratta del testo più lungo di tutti i suoi
canti, le sue sette strofe hanno dimensioni eccezionali e i suoi periodi a volte si snodano a cavallo di decine
di versi, ciò rende la ginestra un vero e proprio poemetto lirico-filosofico.

Lo stile della ginestra è molto vario e ricco, passando per toni diversi: aspri e ricchi di polemica, difficili e
sublimi da cui nasce una contemplazione molto profonda e, infine, quelli dolci del dialogo lirico.

Nella prima strofa la ginestra svolge il ruolo di interlocutore del poeta, il fiore che cresce sulle pendici del
Vesuvio, un tempo sede di fiorenti città, ormai deserte e cosparse di rovine, simboleggiano il tragico destino
dell’umanità.

Nella seconda strofa vi troviamo la critica di Leopardi verso l’ottocento, definito “secol superbo e sciocco”
accusandolo di aver rifiutato le verità del pensiero razionalista.

Nella terza oppone la stupidità di coloro che rifiutano di constatare la miseria umana a coloro che invece
osano guardarla in faccia attribuendo la responsabilità alla natura, contro la quale gli uomini son chiamati a
stringere legami di solidarietà.

Nella quarta strofa l’infelicità umana allarga la sua prospettiva: dall’individualità del poeta scaturisce una
meditazione indotta dalla contemplazione dei corpi celesti, le inutili pretese dell’uomo di stare al centro
dell’universo portano il poeta ad utilizzare un tono sarcastico.

Nella quinta strofa è contenuta una lunga similitudine: come un frutto che cade da un albero, distruggendo
un formicaio intero, l’eruzione del Vesuvio ha creato distruzione per tutte le città sottostanti. Il destino
dell’uomo, per la natura conta non più di quello di una formica.

Nella sesta strofa viene presentato, nell’osservazione della continua potenzialità distruttiva del vulcano, un
rapporto tra il tempo umano e i grandi cicli naturali, i quali appaiono immobili ma travolgono ogni cosa.
Nell’ultima strofa il poeta si rivolge nuovamente alla ginestra della quale elogia l’umiltà e il coraggio, unica
consolatrice nel deserto, anch’essa è destinata a soccombere alla crudele natura, ciò però non ne scalfisce
l’eroismo ma lo esalta, il tono ormai commosso ci induce a pensare al coinvolgimento emotivo del poeta al
tragico destino dell’annientamento di tutte le cose.

La contemplazione del paesaggio vesuviano è il tema fondamentale della poesia, specchio della condizione
umana e del suo rapporto con la natura, responsabile del dolore umano e, in generale, di tutta la sofferenza
degli esseri viventi, sottolinea un distacco totale dal pessimismo storico, facendoci comprendere la
maturazione poetica di Leopardi, questo cambiamento, iniziato con le operette morali nel Dialogo della
Natura e di un Islandese che ci fornisce la prima immagine di una natura matrigna e infligge ai suoi figli
sofferenza e dolore fino a portare alla morte, sancisce la fase del pessimismo cosmico.

DIALOGO DELLA NATURA E DI UN ISLANDESE

All’interno di quest’operetta morale il passaggio di Leopardi da una concezione positiva e benefica della
Natura a quella contraria di Natura matrigna, crudele e indifferente. Prendendo spunto da un'opera del
filosofo illuminista francese, Voltaire Storia di Jenni o il saggio e l’ateo (1775), in cui il filosofo parla delle
minacce naturali, quali gelo e vulcani, a cui sono sottoposti gli islandesi, Leopardi sviluppa l'idea di un
Islandese che viaggia, fuggendo la Natura. Ma giunto in Africa, in un luogo misterioso ed esotico, incontra
proprio colei che stava evitando, con la forma di una donna gigantesca dall'aspetto "tra bello e terribile". La
Natura interroga l'Islandese sulle ragioni della sua fuga. La spiegazione dell'uomo è un lungo monologo in
cui egli ripercorre le sue concezioni sulla condizione umana: un'articolata riflessione che lo porta a
comprendere l'ineliminabile infelicità dell'esistenza. Inizialmente ritiene che la sofferenza nasca dai rapporti
umani, spesso violenti. Ma il dolore può nascere anche dall'esterno, quindi inizia a credere che l'individuo
soffra perché valica i limiti assegnati dalla Natura. Infine comprende che la sofferenza è insita nell'uomo,
caratterizzato da un piacere mai realizzabile del tutto, e non può essere eliminata. La vera causa
dell'infelicità è la Natura, che crea e poi tormenta gli esseri viventi. Questa ha assegnato all'uomo il
desiderio insaziabile di piacere che non solo è irraggiungibile nel corso di una vita intera, ma a volte è anche
dannoso e debilitante.

LA CULTURA DEL POSITIVISMO


Il Positivismo si estende in tutto l'ottocento, e da esso derivano, in campo letterario, il Naturalismo e il
Verismo. Nel positivismo la scienza è l'unica forma di conoscenza certa da estendere a tutti i saperi in cui si
voglia raggiungere la certezza. Il metodo scientifico va quindi esteso allo studio dell'uomo sia con la
psicologia sia con la sociologia. Il compito della filosofia è di trovare tratti comuni tra le varie scienze per
costruire un metodo che possa fungere da modello di riferimento. Il positivismo non si configura dunque
come un pensiero filosofico organizzato in un sistema definito come quello che aveva caratterizzato la
filosofia idealistica, ma piuttosto come un movimento per certi aspetti simile all'illuminismo, di cui
condivide la fiducia nella scienza e nel progresso scientifico-tecnologico, e per altro affine alla concezione
romantica della storia che vede nella progressiva affermazione della ragione la base del progresso o
evoluzione sociale. Questo ottimismo sfocia in un vero e proprio culto sfrenato della scienza e della tecnica,
che presuppone quindi un rifiuto delle visioni di tipo metafisico, idealistico, religioso. La scienza diventa il
modo di spiegare la realtà e di conoscerla, consentendo quindi di dominarla asservendola ai bisogni
dell'uomo grazie alla tecnologia. La cultura in questo periodo diventa dominante tra le classi dirigenti, i ceti
medi e pure i ceti popolari.

*Contesto storico: Seconda metà '800. Impulso coloniale. Seconda rivoluzione industriale: notevole
progresso scientifico (telegrafo, telefono, radio automobile) e conseguenti trasformazioni sociali (realtà
metropolitana, prime avvisaglie del femminismo, squilibri sociali). Le scienze della natura con le loro
scoperte e i loro successi si pongono come modello di ricerca e di conoscenza. Fermenti sociali derivanti
dall'unificazione e dall'industrializzazione; nuove ideologie Marxismo, comunismo, socialismo. La fiducia
nella scienza molte volte si innesta su una concezione pessimistica della realtà sociale: condizioni di vita
degradate di alcuni ceti sociali, in particolare proletariato urbano, sono quasi equiparate a delle malattie da
studiare e debellare con metodi rigorosi e scientifici (psicologia e sociologia).

ROMANZO DELL'OTTOCENTO: Il romanzo dell’800 ha una struttura chiusa, presenta un inizio e una fine
chiari perché la realtà è conoscibile. La struttura è solida, chiusa. Possiamo seguire il personaggio nella sua
evoluzione. Viene rappresentato il mondo reale perché il romanzo è mimesi, imitazione della realtà storica.
Per il romanticismo il mondo reale può essere presente o passato (sempre con atteggiamento di
verosimiglianza), nel positivismo il mondo è solo la società presente, attuale. Se il romanzo è solido, ben
strutturato, vuol dire che si ispira a un disegno che coordina le azioni. Infatti ci sono delle certezze ben
definite, per il romanticismo si tratta di Dio, per il positivismo si parla di scienza, grazie alle quali lo scrittore
si sente sicuro di poter dominare la realtà. La realtà può anche essere condannabile, ma l’autore non è
disorientato: Verga è sicuro dell’esistenza delle leggi economiche che schiacciano i deboli e Manzoni è
sicuro che la storia sia guidata dalla provvidenza, Zola è sicuro che i mali di questo mondo si possano
sanare.

LA SCAPIGLIATURA

La scapigliatura è un gruppo di scrittori che operano negli anni 60/70 dell'Ottocento, la città principale è
Milano e sono accomunati da un'insofferenza per le convenzioni della letteratura contemporanea. anno a
vivere nei bassifondi nei quali hanno rapporti con prostitute, fanno uso di droghe e bevono alcool
(moriranno quasi tutti giovani). La scapigliatura è l'equivalente del francese bohème. Conflitto tra artista e
società tipico del romanticismo europeo. Difronte alla modernità assumono un atteggiamento ambivalente:
da un lato orrore e si aggrappano ai valori del passato (bellezza, arte e natura), dall'altro delusi dal fatto che
oramai quei valori sono perduti essi si rassegnano a rappresentare il vero nei suoi aspetti più duri,
accettando la scienza positiva. Appunto per questo il manifesto degli scapigliati è la poesia di Arrigo Boito
chiamata 'Dualismo'. Recupero di temi romantici: esplorazione dell'irrazionale, dimensione del sogno, il
macabro, l'orrore, il satanismo (appunto per questo rifiutano Manzoni) ma anche l'esotismo e gli
atteggiamenti umoristici e ironici. Morte, malattia, soprattutto malattie psicologiche, rifiuto della tradizione
e ricerca di una nuova espressione. I loro modelli principali sono i romantici tedeschi, ma soprattutto
Baudelaire (fa parte della bohème francese) e Poe. Introducono in Italia il gusto nascente del Naturalismo
francese per quanto riguarda il culto del vero e l'attenzione per ciò che è patologico, analizzato con la
crudeltà dell'anatomista, invece la tensione verso il mistero e l'inspiegabile, esplorazione delle zone buie
della psiche sono temi che verranno poi affrontati nella letteratura decadentista.

GIOVANNI VERGA
Giovanni Verga nasce a Catania nel 1840 in una famiglia nobile ma di orientamento liberale. Rimane in
Sicilia per tutti gli anni dell’infanzia e della prima giovinezza, partecipando attivamente alla vita culturale
della sua città, sin da piccolo infatti parve molto appassionato di letteratura. Decide di iscriversi a legge, ma
abbandona presto gli studi per dedicarsi alla produzione letteraria, anche se le persone a lui care non
accettarono di buon grado questa sua scelta.

Si trasferisce a Firenze nel 1865, in quel periodo Firenze era capitale d’Italia, non solo era capitale d’Italia,
ma Firenze era la patria degli intellettuali italiani del risorgimento, ciò gli permise di conoscere tanti
personaggi della letteratura e cultura italiana, che gli hanno permesso di crescere e maturare non solo
come uomo, ma anche come autore. A Firenze, infatti pubblica i suoi primi romanzi di successo, tra cui il
celebre: Una peccatrice.

Nel 1872 si sposta a Milano, qui viene in contatto con alcuni dei più importanti autori dell’epoca e inizia a
maturare la sua adesione al Verismo. Nel 1893 torna definitivamente a vivere in Sicilia, trascorrendo gli
ultimi anni della sua vita in solitudine, deluso per il mancato successo delle sue opere “migliori” e
ossessionato dalle preoccupazioni economiche. Nel 1920 viene nominato senatore del Regno d’Italia e due
anni più tardi muore a causa di un’emorragia cerebrale.

Nelle sue opere, Verga applica la formula verista, utilizzando il concetto di impersonalità del narratore. Il
linguaggio utilizzato riflette la realtà dei contadini e dei pescatori siciliani; la lingua è quindi semplice,
elementare come anche la psicologia dei personaggi e il loro modo di vedere le cose. Non mancano le
espressioni popolari, dialettali, i modi di dire e i proverbi che racchiudono l’antica sapienza contadina e
l’essenza della gente. Verga voleva essere comprensibile da tutti, voleva farsi capire dalla gente.

Tutti i personaggi usciti dalla penna di Verga sono dei “vinti”, la loro vita è dominata dal destino, quel
destino che non permette all’uomo di realizzare i propri sogni e le proprie aspirazioni. Chi cerca di sfuggire
al destino non trova mai la felicità sperata, ma al contrario va immancabilmente incontro a sofferenze
maggiori. Nonostante il principio dell’Impersonalità, Verga prova comprensione e pietà per queste persone,
costrette a soccombere nella dura lotta per la vita. La sua più che pietà, in realtà è una sorta di forma di
tenerezza nei confronti di quelli che sono più deboli. Verga ha molto a cuore le persone che non sono
riuscite a realizzare i loro sogni e che si son dovute accontentare di ciò che gli ha destinato la vita.

ROSSO MALPELO

Rosso Malpelo, una delle più celebri novelle di Vita dei campi, è anche la prima in ordine di composizione
tra quelle che Verga riunisce nella raccolta del 1880. La novella, uno dei capolavori di tutta la produzione
verghiana, nasce nel clima della Milano di quegli anni e tocca una questione ben presente all’opinione
pubblica del tempo: il lavoro minorile.

Riassunto: Malpelo lavora in una cava di rena rossa ed è oggetto di pregiudizi popolari a causa del colore
dei suoi capelli. Il ragazzo vive in una condizione di totale isolamento ed è malvoluto da tutti, persino dalla
madre che lo accusa di rubare soldi dallo stipendio che porta a casa. L’unico a dimostrargli affetto è il padre,
Misciu Bestia, con cui lavora nella cava. Una sera, mentre sta lavorando all’abbattimento di un pilastro in
condizioni molto pericolose, l’uomo resta ucciso. A nulla servono le richieste d’aiuto del povero figlio, che
scava a mani nude per salvare il genitore. Questa perdita lo segna in modo inequivocabile. Persino
Ranocchio, un ragazzino claudicante arrivato a lavorare in miniera con lui, lo abbandona perché vinto dalla
fatica e dalla tubercolosi. Anche l’asino che usa picchiare viene trovato morto e il suo cadavere viene
mangiato dalle bestie. La sua solitudine è definitiva: la madre ha sposato un altro uomo, la sorella cambia
quartiere, nessuno gli si avvicina perché si crede che porti sfortuna con i suoi capelli rossi e occhiacci grigi.
Per questa ragione, preso lo stretto necessario, gli attrezzi e i vestiti di suo padre (che custodisce
gelosamente dalla tragica morte) decide di addentrarsi in uno stretto cunicolo della cava, da cui non ne
uscirà mai più.

«Così si persero persin le ossa di Malpelo, e i ragazzi della cava abbassano la voce quando parlano di lui nel
sotterraneo, ché hanno paura di vederselo comparire dinanzi, coi capelli rossi e gli occhiacci grigi».

Analisi: La novella Rosso Malpelo può essere considerata il primo esempio di Verismo verghiano. In primis
perché lo scrittore adotta la tecnica dell’impersonalità, assume cioè il punto di vista dell’ambiente che
descrive: la sua voce corrisponde a quella del paese, della comunità che guarda al ragazzo con i capelli rossi
con estremo sospetto. Emerge, dunque, che Malpelo è una vittima, un “vinto” dalla società che ignora
valori come la pietà, il senso di giustizia, l’affetto sincero. I suoi comportamenti sono la reazione alle
sventure che la vita gli pone davanti, a quella “lotta per la sopravvivenza” a cui è costretto a sottostare.
Malpelo è un rassegnato, non crede che il suo destino possa cambiare. Il pessimismo del personaggio, che
«se non fosse mai nato sarebbe stato meglio», riflette quello dell’autore che, attraverso queste parole, fa
conoscere il suo reale punto di vista. La struttura del racconto è concepita per interrogare il lettore: la
malvagità appartiene a Rosso Malpelo o alla comunità che lo isola e lo deride per il colore dei suoi capelli?
I temi affrontati sono l’emarginazione, la mancanza di speranza, la lotta alla sopravvivenza e il pregiudizio.

LA LUPA

Riassunto: Gnà Pina, la protagonista della novella, viene chiamata dai suoi concittadini "La lupa". È una
donna alta, magra, con una fisicità molto sensuale nonostante non sia più giovanissima. La figura della lupa
desta un misto di invidia e paura nelle altre donne del paese le quali, quando la vedono camminare da sola,
come un cane randagio, arrivano a farsi il segno della croce. Gnà Pina è quindi una donna esclusa dalla
società per colpa probabilmente proprio del suo atteggiamento conturbante e a tratti diabolico.
Nonostante questo, La Lupa ha una figlia, Maricchia, una dolce e bella ragazza rassegnata a rimanere sola a
causa della nomea e del comportamento della madre. Un giorno La Lupa si imbatte in un giovane appena
tornato dal servizio militare, Nanni. Il ragazzo lavora come bracciante nei campi vicino alla sua abitazione e,
in realtà, è innamorato della figlia della Lupa, Maricchia. Gnà Pina, follemente innamorata del giovane,
decide di dargli in sposa la figlia con l'unico scopo di avere Nanni in casa, il più vicino possibile a lei, per
poterlo sedurre. Il diabolico piano della Lupa si compie: Nanni sposa Maricchia e i due vanno a vivere
proprio in casa di gnà Pina. In un primo momento, davanti ai tentativi di seduzione della madre nei
confronti del marito, Maricchia tace, ma alla fine esasperata cerca di fermare la madre, intimandole di
smettere di provare a corrompere Nanni. La Lupa però è inarrestabile e continua a cercare di sedurre il
marito della figlia. Maricchia a quel punto denuncia la madre alle forze dell'ordine chiedendo che gnà Pina
venga allontanata da casa. Nanni, nel mentre, viene convocato dalla Polizia per giustificare i motivi del suo
ripetuto adulterio nei confronti della moglie e davanti alle forze dell'ordine l'uomo si lascia andare alla sua
totale disperazione non negando i tradimenti, ma limitandosi a piangere a strillare che la donna era la
"tentazione dell'inferno" e che dovevano mettere lui in galera affinché non la vedesse mai più. Le forze
dell'ordine così intimano alla Lupa di lasciare l'abitazione, ma la donna non se ne vuole andare. Ad un certo
punto, però, Nanni viene ferito gravemente da un mulo e rischia di morire: il prete, tuttavia, non vuole dare
al ragazzo l'estrema unzione se la Lupa è in casa e solo a quel punto gnà Pina decide di andarsene. Inizia un
brevissimo periodo di serenità per Maricchia e Nanni, ma quando le condizioni del giovane sono migliorate,
La Lupa torna a casa. Nanni disperato la implora di lasciarlo stare, di non perseguitarlo più, ma è tutto
inutile. Nanni alla fine uccide la Lupa e questo gesto brutale ed estremo chiude, con altrettanta rapidità, la
novella.

Analisi: La Lupa, gnà Pina è il personaggio su cui incentrare l'analisi della novella. Viene descritta usando
molte metafore sessuali e diaboliche. È un personaggio che rappresenta l'estraneo dalla comunità, una
reietta malefica. La Lupa è un elemento disturbante nel nucleo familiare di Nanni e Maricchia poiché
trasgredisce ogni tabù morale e sfida tutte le convenzioni sociali della Sicilia dell'epoca e per questo viene
dipinta come una strega nell'immaginario popolare. La Lupa, il soprannome datole dalla comunità,
rappresenta tutto questo: una belva affamata che spolpa l'uomo. La figura femminile qui descritta è
caratterizzata da questa sessualità così estrema e animalesca da essere paragonata al diavolo o a una
strega. La donna sembra riuscire ad ammaliare il povero Nanni, che non riesce a resistere alla donna e cede
alle sue tentazioni come se fosse sotto l'effetto di un incantesimo che si può rompere solo in modo brutale
e quindi con un assassinio. In questa novella l’uomo è vittima di una figura diabolica.

I MALAVOGLIA

Trama breve: Malavoglia è il soprannome dei Toscano, una famiglia di pescatori di Aci Trezza. Capofamiglia
è il vecchio padron 'Ntoni. Con lui nella casa del "nespolo" vivono il figlio Bastianazzo con la moglie Marezza
detta la "Longa" e i loro cinque figli 'Ntoni, Luca, Mena, Alessi e Lia. Il giovane 'Ntoni parte per il servizio
militare e la famiglia perde uno dei maggiori sostegni. Per questo il vecchio 'Ntoni decide di prendere a
credito una partita di lupini che conta di rivendere al mercato di Riposto. Durante il viaggio per mare la
"Provvidenza", la barca dei Malavoglia, naufraga: il carico si perde, Bastianazzo muore. Padron 'Ntoni
pressato dai debiti è costretto a vendere la casa del "nespolo". Una serie di sventure si abbatte sui
Malavoglia troncando ogni speranza di riscatto. Luca arruolatosi muore nella battaglia di Lissa, seguito poco
dopo da Maruzza vittima di un'epidemia di colera. L'inquieto 'Ntoni si dà al contrabbando e viene arrestato.
Lia, compromessa per una presunta relazione col brigadiere don Michele, lascia il paese e diventa una
prostituta. Mena per le difficoltà familiari non può sposare compare Alfio e triste e sfiorita invecchia
precocemente. Alla morte del vecchio 'Ntoni, che si spegne solo e disperato in un letto d'ospedale, il suo
posto viene preso da Alessi, che dopo aver sposato la Nunziata, riscatta la casa del "nespolo" e riprende
l'attività del nonno. Una notte, scontata la pena, torna 'Ntoni, ma solo per dare l'addio definitivo a una vita
che non gli appartiene più.

Tecniche narrative e stile: Verga usa particolari tecniche narrative:

-il discorso indiretto libero: consiste nell’inserire direttamente nel testo le parole e i modi di dire del
personaggio stesso, senza distinzione rispetto alla voce del narratore;

-la regressione del punto di vista: i fatti vengono narrati e giudicati secondo il punto di vista e i valori
espressi dai personaggi, non secondo la visione dell’autore;

-l’uso di espressioni dialettali e/o gergali: introduzione frequente di modi di dire proverbiali, espressioni
popolari, termini del dialetto siciliano e del gergo dei vari ambienti, soprannomi ecc.

Per rappresentare realisticamente gli uomini che agiscono nel loro ambiente Verga usa la loro lingua come
elemento di realismo. Riproduce il modo di esprimersi dei personaggi. Sempre nella Prefazione, Verga dice
parlando dei romanzi che dovevano seguire I Malavoglia: «Persino il linguaggio tende ad individualizzarsi,
ad arricchirsi di tutte le mezze tinte dei mezzi sentimenti, di tutti gli artifici della parola onde dar rilievo
all’idea». Il linguaggio dei Malavoglia è semplice e immediato, mentre quello delle classi colte esprime
sfumature e ambiguità.

Breve analisi della prefazione ai Malavoglia: La Prefazione ai Malavoglia non costituisce soltanto la
presentazione del progetto del ciclo dei Vinti ma espone anche i punti principali del pensiero dell’autore.
Verga scandisce il testo in quattro capoversi, ciascuno dei quali mette a fuoco una concezione o un
proposito: le prime irrequietudini del benessere, che nascono ai livelli sociali più bassi e sono motivate dalla
ricerca del meglio;

il proposito di raffigurare in che modo questa ricerca del meglio avviene nelle diverse classi sociali; viene
qui delineato il progetto dei cinque romanzi, di cui I Malavoglia avrebbero dovuto costituire la prima tappa;

la scoperta che il cammino del progresso è un processo crudele, che nasconde sofferenze e sconfitte;

il proposito di ritrarre la sconfitta dei vinti, ai diversi livelli sociali, con lo sguardo dell’osservatore e non del
giudice. In questo testo si coglie il clima della cultura positivistica di fine Ottocento.

Secondo Verga, l’ambiente degli umili si presta meglio all’analisi scientifica dei comportamenti umani nella
società.

Verga traccia il progetto del ciclo dei Vinti immaginando una campionatura per strati sociali: si individuano
così le cinque tappe del ciclo romanzesco a imitazione, dal basso verso l’alto, delle classi sociali.

Dal punto di vista letterario, Verga espone qui alcuni principi della propria poetica verista e i temi trattati
sono il desiderio di stare meglio e le sue tragiche conseguenze, la comunanza di tutte le classi sociali tanto
nella lotta per la vita quanto nella sconfitta, l’analisi di tale fenomeno a partire dal livello sociale più basso,
perché meno complicato, il progetto di un ciclo romanzesco.
T1 Malavoglia, riassunto: Ad Aci Trezza, un piccolo paesino presso Catania, in Sicilia, vive alla casa del
nespolo una famiglia di pescatori, i Toscano, soprannominati da tutti Malavoglia. Capo famiglia è padron
‘Ntoni, ci sono poi il figlio Bastianazzo con la moglie Maruzza, soprannominata Longa, e i figli: ‘Ntoni, il
maggiore, di vent’anni, Luca, Mena, soprannominata Sant’Agata perché passa tutto il suo tempo al telaio,
Alessi e la piccola Lia. Il quadro familiare è quindi variegato: se pardon ‘Ntoni è il capofamiglia, Bastianazzo
ne ha ereditato la forza e la dedizione al lavoro; ‘Ntoni è da subito un giovane buono ma sfaticato. I
Malavoglia, dal punto di vista sociale, sono dei “possidenti” poiché, oltre alla casa del nespolo, sono i
proprietari della “Provvidenza”, una barca da pesca. L’ordine della famiglia viene turbato quando ‘Ntoni
riceve la chiamata di leva: quest’evento priva la famiglia di una vitale forza-lavoro. Essendo in un periodo di
ristrettezze e pensando di fare un affare, padron ‘Ntoni, con la mediazione di Piedipapera, acquista a
credito dal ricco zio Crocifisso, l’usuraio del paese, un carico di lupini e manda Bastianazzo con la
Provvidenza, a venderli a Riposto. Con lui parte pure Menico.

T5 riassunto: Padron ‘Ntoni è ormai vecchio e malato, ma Mena e Alessi non vogliono portarlo in ospedale
e farlo morire lontano da casa sua. Comprendendo la situazione padron ‘Ntoni chiede ad Alfio Mosca, che è
ritornato in paese, di portarlo in ospedale in un momento in cui i due nipoti sono assenti. Alessi si sposa con
la Nunziata, che amava sin da ragazzino e riscatta la casa del nespolo, pur a prezzo di durissimi sacrifici.
Padron ‘Ntoni muore prima che possano portarlo a casa. Alfio Mosca chiede la mano di Mena ma la ragazza
rifiuta perché ormai ha già ventisei anni e la storia di Lia ha fatto sprofondare la famiglia nel disonore. Così
Mena si ritira a curare i figli di Alessi e Nunziata. Una notte si presenta a casa ‘Ntoni, da poco uscito dal
carcere, Alessi gli propone di restare ma ‘Ntoni sceglie amaramente di andarsene prima del sorgere del
sole.

LINEA VERISTA IN ITALIA

Zola (naturalista) comincia ad affascinare qualche italiano. Comunque l'Italia sente meno l'influenza
positivista europea.

Esponenti del verismo = Giovanni Verga – Capuana – Federico de Roberto

Tutti e tre sono siciliani, è anche importante dire che verga e Capuana avevano lavorato a Milano, molto più
sviluppata. Proprio a Milano entrano in rapporto con ambienti letterari e sono più vicini alla letteratura
francese: si appassionano per l'orientamento realista. Il verismo italiano però ha uno sforzo teorico meno
sistematico. Non c'è un manifesto come quello di Zola, è tutto meno programmatico. Il verismo sono le
opere stesse, senza una linea che possiamo descrivere e che ritroviamo in tutte le opere realiste.

Differenze:

− naturalismo è fiducioso nel progresso, sa che il progresso sanerà prima o poi le ingiustizie e i soprusi, il
verismo non ha questa fiducia anzi è intriso di pessimismo. Diffida dalla nuova civiltà che avanza.

− L'ambientazione delle opere naturaliste è metropolitana e proletaria, in particolare Parigi. Quella italiana
è contadina, c'è la campagna arretratissima del sud, si focalizza sulle varietà regionali.

− Stile: il verismo usa una lingua più intrisa di dialettalità, non lo usa direttamente ma sa rendere concreta
la parlata dei suoi personaggi. Nel naturalismo c'è questa tendenza ma molto meno marcatamente.

DECADENTISMO
Il Decadentismo è un movimento letterario che si è sviluppato in Italia e in Europa con caratteristiche
differenti, tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento. Decadentismo deriva da décadent, termine
usato in Francia con significato dispregiativo nella seconda metà dell’800, contro i poeti maledetti: Verlaine,
Rimbaud, Mallarmé su tutti, che con la novità della loro arte e la loro vita irregolare e disordinata
apparivano alla gente come dei decadenti, cioè corrotti e dissoluti. Essi non si offesero per questo
appellativo se ne impadronirono usandolo nel titolo di una rivista “Le Décadent”, come emblema di
battaglia.

L’espressione poeti maledetti deriva dal titolo di un’antologia che prendeva spunto da una poesia di
Baudelaire, in cui la madre di un poeta maledice il momento in cui concepì il figlio. L’espressione fu usata
dai decadenti come un atto di accusa contro la società, che odia e maledice il poeta, perché non sa
comprenderlo, mentre è proprio il poeta che con la sua creatività fa progredire lo spirito umano.

Oggi però il termine Decadentismo non ha più alcun significato negativo in quanto indica sul piano storico –
culturale la crisi del Positivismo. Il decadentismo (come lo era il romanticismo) è un fenomeno europeo,
ebbe il suo centro in Francia, dove furono elaborate le più importanti poetiche del movimento.

POESIA DEL DECADENTISMO

Ammessa l’impossibilità di conoscere la realtà vera mediante l’esperienza, la ragione, la scienza, il


decadente pensa che soltanto la poesia, per il suo carattere di intuizione irrazionale e immediata possa
attingere il mistero, esprimere le rivelazioni dell'ignoto. Essa diviene dunque la più alta forma di
conoscenza, l’atto vitale più importante; deve cogliere le arcane analogie che legano le cose, scoprire la
realtà che si nasconde dietro le loro effimere apparenze, esprimere i presentimenti che affiorano dal fondo
dell’anima. Per questo è concepita come pura illuminazione. Non rappresenta più immagini o sentimenti
concreti, rinuncia al racconto, alla proclamazione di ideali; la parola non è usata come elemento del
discorso logico, ma per l’impressione intima che suscita, per la sua virtù evocativa e suggestiva.

ESTETISMO

La caratteristica fondamentale dell’Estetismo è il culto estremo della bellezza e dell’arte e il principio


fondamentale è “l’arte per l’arte”, cioè l’esaltazione dell’arte per sé stessa separata da ogni contesto e
condizionamento sociale, da ogni condizionamento morale. L’estetismo esalta l’arte come forma superiore
di esistenza e quindi sviluppa l’equivalenza e lo scambio tra arte e vita. Anche la biografia dell’artista deve
conformarsi ad alti modelli estetici, proprio perché c’è una differenza profonda tra la vita dell’artista che si
contrappone alla volgarità dell’esistenza borghese. Si può utilizzare la definizione di Estetismo per epoche e
aspetti diversi della cultura, ma noi ci riferiamo a quella tendenza esteta che ha il suo sviluppo tra gli anni
che vanno dal 1866 al 1890.

Estetismo significa dandismo, l’eccentrica eleganza nell’abbigliamento, negli atteggiamenti, snobismo,


individualismo raffinato aristocratico, ad esempio: un esteta è D’Annunzio, Wilde, e per certi versi anche
Baudelaire (nel suo abbigliamento eccentrico).

SPLEEN

Baudelaire utilizza questo termine per non ricorrere all’ormai logoro “malinconia”, abusato e troppo
connotato letterariamente. Il termine infatti era associato alla poesia classicistica e connesso alla
contemplazione solitaria, in special modo delle rovine greco-latine. Baudelaire con questo termine indica
l’umore nero, cioè una sorta di malattia o indisposizione d’animo vicina alla noia o al tedio ed associa
questo complesso e contraddittorio stato d’animo al paesaggio urbano, agli oggetti della vita cittadina.

P. VERLAINE, LANGUORE

Io sono l'Impero alla fine della decadenza,


che guarda passare i grandi Barbari bianchi
componendo acrostici indolenti in aureo stile
in cui danza il languore del sole. […]

Il poeta paragona sé stesso all’Impero Romano nel periodo di decadenza, incapace di reagire di fronte alle
invasioni dei barbari e privo ormai anche della volontà di reagire. I barbari sono simbolo della borghesia del
tempo che domina la società con la sua mentalità (metafora). Perfino la poesia, in questo stato d’animo, si
riduce a esercizio di stile virtuoso, di fatto inutile (un poema un po’ fatuo che si getta alle fiamme). Anche i
piaceri del bere e del mangiare non danno più alcuno stimolo e rimane solo un vuoto nell’animo che spinge
ad abbandonarsi alla noia e all’inerzia. Non c’è la forza e la volontà di partecipare all’esistenza. In questo
atteggiamento c’è un certo fascino che i poeti maledetti provano nei confronti della morte, della fine delle
cose.

CH. BAUDELAIRE, LA CADUTA DELL’AUREOLA

Come, voi qui, mio caro? In un bordello, voi, il bevitore di quintessenza, voi, il mangiatore d’ambrosia!
“Mio caro, sapete quanto temo i cavalli e le carrozze. Poco fa nell’attraversare il Boulevard, in gran fretta,
mentre saltellavo nel fango tra quel caos dove la morte giunge al galoppo da tutte le parti tutt’in una volta,
la mia aureola è scivolata a causa di un brusco movimento, giù dal capo nel fango del macadam. Non ebbi
il coraggio di raccattarla, e mi parve meno spiacevole perder le insegne, che non farmi rompere le ossa. E
poi, ho pensato, non tutto il male viene per nuocere. Ora posso passeggiare in incognito, commetter
bassezze, buttarmi alla crapula come il semplice mortale. Eccomi qua, proprio simile a voi, come vedete!”
[…]

Si tratta di una prosa che è insieme allegorica e satirica. Perché “allegorica”? I poeti, almeno da Dante e
Petrarca in poi, erano i cosiddetti “poeti laureati”, nel senso che avevano in testa una corona d’alloro
(=lauro), una corona d’alloro significava il riconoscimento della funzione sacra della poesia e del poeta.
Petrarca verrà addirittura incoronato in Campidoglio con la corona d’alloro. Questo poeta, invece, ha perso
la sua aureola che, tuttavia, non va scambiata con l’aureola dei santi.

In forma di aneddoto, Baudelaire ci racconta di uno strano episodio cittadino: questa aureola gli cade dal
capo e, naturalmente l’incidente è da leggersi in senso allegorico. Il poeta ha perso la sua aureola, ha perso
la sua corona d’alloro, cioè ha perso, fuor di metafora o fuor di allegoria, la sua sacralità, la sua investitura,
non è più la coscienza critica della società, il portavoce dei suoi ideali, non è più cioè quello che si chiamava
un tempo “il poeta-vate”, il poeta oracolare, il poeta-sacerdote, insomma la coscienza collettiva di una
certa società. È come se, a causa di certi cambiamenti epocali, il pubblico avesse ritirato il suo mandato al
poeta, avesse ritirato la sua investitura, gli avesse tolto insomma quel carisma, quella sacralità che appunto
si identifica allegoricamente nell’aureola.

L’ALBATRO

Spesso, per divertirsi, le ciurme


Catturano degli albatri, grandi uccelli marini,
che seguono, compagni di viaggio pigri,
il veliero che scivola sugli amari abissi. […]

L’albatro (L’albatros) è il titolo di uno dei componimenti poetici più noti di Charles Baudelaire e fa parte
della sezione Spleen e ideale, la prima delle sei che compongono I fiori del male;
In questo componimento, il poeta riflette sul nuovo ruolo dell’artista nella società di massa, tema che verrà
affrontato anche nel poemetto in prosa Perdita d’aureola (1869). Il volo dell’albatro è allegoria della
condizione di prestigio da sempre rivestita dai poeti: qui, però, l’uccello marino viene catturato, tormentato
e deriso dai marinai. Probabilmente Baudelaire conosceva la Ballata del vecchio marinaio (1798) di Samuel
T. Coleridge nella quale l’uccisione di un albatro da parte di un marinaio rappresenta il gesto che dà inizio a
una serie di vicende funeste e sventurate per l’uomo.

CORRISPONDENZE

La Natura è un tempio dove incerte parole


mormorano pilastri che sono vivi,
una foresta di simboli che l’uomo
attraversa nel raggio dei loro sguardi familiari. […]

È un testo poetico di Charles Baudelaire, tra i più importanti del poeta francese ed è considerato il
manifesto della poesia simbolista. Corrispondenze fa parte della prima sezione, “Spleen et ideal”, de “I fiori
del male”. È un testo complesso ed importante per capire la poetica e la poesia del simbolismo. Il titolo
Corrispondenze rimanda ad una realtà più profonda che si può conoscere attraverso i simboli che vediamo,
che corrispondono a un qualcosa di non visibile, ossia all’essenza del mondo. Il linguaggio è giocato tutto
sulle sinestesie, analogie ed enjambement. Baudelaire vuole raccontare le sensazioni olfattive (profumi e
odori) vaghe ma palpabili. I colori hanno suggestionato molto l’immaginario di Baudelaire, ed è una
caratteristica del poeta. Anche la musica ha un ruolo importante, non è solo un suono, ma serve per
conoscere come la poesia. Il poetare viene assimilato ad una sorta di atto magico, ecco che il poeta è
veggente: riesce ad andare al di là delle apparenze per cogliere la realtà.

GABRIELE D’ANNUNZIO
D’Annunzio nasce a Pescara il 12 marzo 1863, dove passa la sua infanzia e adolescenza ed inizia ad
appassionarsi alla letteratura.

Nel 1881 si trasferisce a Roma e inizia a collaborare con periodici e testate giornalistiche sulle quali pubblica
poesie e prose. Si sposa nel luglio del 1883 con la duchessa Maria Hardouin e inizia a pubblicare i primi
passi di una poetica estetizzante, dalla duchessa riceve tre figli ma per amore di un'altra donna si separa da
essa, nel frattempo si ritira a Francavilla per lavorare al suo primo romanzo “Il Piacere”. Si trasferisce a
Napoli e il suo romanzo “L’Innocente” inizia a riscuotere successo in Francia e nel mentre si appassiona agli
studi di Nietzsche, Zola e Wagner. Nel 1910, per sottrarsi ai creditori per via del suo stile di vita molto caro,
si auto-esilia in Francia. Nel 1915 torna in Italia con un grande senso di patriottismo e esorta i suoi
compatrioti a entrare in guerra, si arruola e viene ferito e, a guerra finita si dirige nella città di Fiume; nasce
il mito del “poeta soldato”.

Si ritira infine nel Vittoriale degli italiani dove compone varie opere, anche di consenso verso il regime
fascista, ed infine, muore il primo marzo del 1938.

POETICA

Insieme a Pascoli, D’Annunzio è considerato il maggiore esponente del decadentismo italiano.

Gli elementi che contraddistinsero D’Annunzio furono il suo estetismo, culto per la bellezza, il vitalismo per
cui concepiva la vita come opera d’arte, il dinamismo e l’esaltazione della letteratura classica e in generale
la celebrazione del mondo antico. Gli aspetti più significativi del decadentismo D’Annunziano sono quindi
l’estetismo artistico (vita come arte), estetismo pratico (vita praticata fuori da ogni legge morale), ricerca
delle sensazioni più raffinate, gusto per la parola ed il panismo (ossia la tendenza ad abbandonarsi alla vita
dei sensi e dell'istinto e ad immedesimarsi con la natura, a sentirsi quindi parte del tutto, nella circolarità
della vita cosmica), assimilazione con la natura, sentirsi parte di essa (Pioggia nel Pineto). Importante fu
anche l’incontro con la teoria del super-uomo di Nietzsche, teoria con il quale D’Annunzio si avvicino agli
ideali individualisti della supremazia di una razza migliore.

LA DONNA DANNUNZIANA

D’Annunzio, nella sua produzione, immagina la donna come un essere superiore, ma non intendendo non
tanto la forza della donna seduttrice quanto la fragilità dell’uomo sedotto. Il poeta era capace di capire le
donne, di corteggiarle con le parole giuste e di farle sentire esseri divini. Con il poeta Vate, la donna diventa
moglie, amante, sorella, nemica, intellettuale e seduttrice. Per D’Annunzio la donna andava elogiata e
corteggiata, capita e amate, mentre oggi la figura femminile troppo spesso ricalca solo qualche scarno
stereotipo, sia nella lettura che nella quotidianità.

SUPERUOMO

In D'Annunzio il superuomo è il poeta Vate, capace di essere una guida e un profeta per il paese, che vive
una vita originale, piena di emozioni e passioni in una dimensione estetica, in cui la virtù è consacrata
all'arte. Per il superuomo dannunziano si tratta di una ricerca di nuovi valori fuori dalla morale comune, e
non - come avviene in Nietzsche - per la fondazione di una nuova conoscenza. D'Annunzio punta insomma a
generare stupore, appoggiandosi sul culto della forma e dell'estetica.

IL PIACERE

Scritto nel 1889, Il piacere è senza alcun dubbio il più famoso romanzo di Gabriele D’Annunzio. Dopo aver
riscosso un successo immediato, il protagonista dell’opera, il raffinato e coltissimo Andrea Sperelli, divenne
ben presto emblema di un ideale estetico-decadente destinato ad influenzare la Letteratura italiana per
diversi anni. Il Piacere fece così da contraltare a tutta quella tendenza naturalistico-positivista che in quel
decennio aveva preso piede in Italia e che portava alla luce, proprio nello stesso anno, un altro capolavoro
del calibro di Mastro Don Gesualdo di Giovanni Verga.

Il Piacere è la storia di Andrea Sperelli, un ricco e aristocratico cultore dell’arte in tutte le sue sfaccettature,
incline ai piaceri della vita quotidiana. Giunto a Roma nell’ottobre 1884, Andrea inizia a frequentare i luoghi
e le feste più elitarie della capitale. È in una di queste che conosce Elena Muti, una giovane contessa
rimasta vedova con la quale intraprende ben presto una focosa relazione. Quando però, nel marzo 1885, la
donna annuncia ad Andrea di voler troncare la storia e di aver preso la decisione di andarsene da Roma,
questi inizia una vita volta alla dissoluzione e alla depravazione. Dopo essere passato di donna in donna, fa
la conoscenza di Maria Ferres, donna casta e religiosa di cui si invaghisce e che intende ad ogni costo
conquistare.

Tornata nel frattempo a Roma anche Elena, Andrea decide di fare sue entrambe le donne; ma se con Maria
la strada sembra essere in discesa, la Muti gli resiste, accrescendo in lui il desiderio di possederla. Così, pur
avendo instaurato una intensa relazione con Maria, il giovane Sperelli non fa che pensare ad Elena e per
errore chiama la propria donna con il suo nome. Dopo aver perso Elena, Andrea perde così anche Maria,
restando solo.

GIOVANNI PASCOLI
(1855, San Mauro di Romagna-1912, Bologna)

Il NIDO
La parola, presa dal linguaggio ornitologico, rimanda la casa come luogo caldo, raccolto in un'esistenza
priva di rapporti con l’esterno. Questo luogo è riservato solo ai legami di sangue più intimi vissuti sotto il
segno di miti familiari e di un linguaggio privato. L'esempio più evidente è in X agosto, in cui c’è il
parallelismo tra la vicenda della rondine e dell'uomo, ma anche la contrapposizione fra il mondo chiuso
della casa-nido e l'immensità del cielo. L'ambiente del nido è anche legato al mondo dei familiari morti e
alla vigilanza del loro ricordo. Nella società ridotta del nido la madre domina con la sua presenza insieme
con le sorelle. Ma il nido familiare conserva il ricordo del padre, la cui morte costituisce il motivo della
dispersione della famiglia e l'aspirazione alla ricostruzione di un altro nido (Il gelsomino notturno).

PENSIERO E POETICA

La lirica pascoliana è fondata su quella che viene definita la poetica delle cose, in opposizione con la poetica
delle parole dannunziana (approfondisci!!). In Pascoli si incontrano l'aspirazione classicista e l'ascolto della
modernità. L’ispirazione classicista è connessa allo spiccato interesse per la letteratura classica coltivata da
Pascoli. Su un altro versante, Pascoli appoggia gli atteggiamenti e la sensibilità di fine ottocento, di cui ne
filtra gli aspetti culturali. Nella sua poesia sono presenti aspetti tipici del linguaggio simbolista, come la
sinestesia e l'analogia (utilizzati da Baudelaire). Alcune liriche hanno toni affini all'estetismo, ma su tutto si
afferma una tendenza allo sperimentalismo metrico e linguistico che attua una vera e propria rivoluzione
nella tradizione poetica.

Nella sua poetica, il legame con la modernità si riflette in un nuovo rapporto tra io e mondo, in cui vengono
meno delle certezze su cui si erano fondati il Positivismo e il Romanticismo. L'inquietudine del soggetto di
fronte alla realtà esterna si esprime nelle forme di una sfiducia verso la conoscenza scientifico razionale
della realtà. Pascoli privilegia la forma conoscitiva dell'intuizione e la forma espressiva del simbolo, quali
uniche vie capaci di penetrare nel mistero delle cose e di coglierne le segrete corrispondenze. In direzione
antipositivistica, ci sono le influenze filosofiche di Schopenauer e di Bergson. Del primo apprezza la
concezione della musica come linguaggio universale, che avrebbe influito nella sua scelta di privilegiare la
dimensione sonora (significante) rispetto al significato. Del secondo ne apprezza la valorizzazione della
componente intuitiva dell’uomo. Uno degli elementi più rilevanti è la poetica del fanciullino: essa richiama,
con la sua attenzione all'infanzia come fase centrale per l'animo umano e per la poesia, la riflessione che
Freud stava portando avanti in quegli anni.

IL FANCIULLO E IL POETA

Il tema dell’infanzia è ricorrente nella produzione pascoliana. Il “paradiso perduto” dell'età della
fanciullezza rivive nello sguardo innocente simile a quello di un fanciullo, che è proprio del poeta. Il poeta,
nella prosa intitolata Il fanciullino, osserva la realtà e riesce a coglierne le armonie segrete le voci che
parlano solo a chi le sa ascoltare.il fanciullino riesce a vedere ciò che gli adulti non scorgono più, attraverso
l'intuizione e capacità percettive particolari. Sono proprio queste facoltà che deve saper utilizzare il poeta,
che grazie allo stupore e alla fantasia, può andare aldilà degli oggetti e metterli in relazione fra loro. Il poeta
diventa una sorta di indovino, colui che è in grado di rilevare e rivelare agli altri le armonie della natura:
questa rivalutazione della capacità conoscitiva alogica e intuitiva della poesia colloca Pascoli sulla linea del
Simbolismo europeo. Si riconosce in questo un'idea forte di poesia ed il poeta per questo ha un ruolo
importante nella società.

DIMENSIONE POLITICA E RUOLO DELLA POESIA

Pascoli comunque non rinuncia ad assegnare alla poesia una funzione morale e sociale percepita come
strumento consolatorio in grado di allentare le tensioni sociali attraverso la contemplazione comune della
bellezza. La dimensione politica di Pascoli, non andrà cercata nell'adesione a ideologie, ma nell'attitudine
del poeta a interrogarsi sul ruolo etico sociale che la poesia può avere nella società. Pascoli rifiuta l'idea
della lotta di classe e del marxismo e inizia ad avvicinarsi al socialismo improntato a un generico ideale di
solidarietà umana. Anche La grande proletaria si è mossa, ispirata dal nazionalismo, non ha basi ideologico-
politiche, ma si ispira a una difesa della patria come luogo-nido e a un solidarismo sociale che vede nelle
nuove colonie un possibile sbocco di lavoro per i ceti più poveri.

VISIONE DELLA STORIA

Pascoli non ha una visione positiva e progressiva della storia infatti l'unico rifugio possibile lo ritrova negli
affetti e in una vaga filantropia. Nelle Canzoni di re Enzo è evidente di come Pascoli prenda le distanze
dall'idea positivistica di progresso e anziché celebrare le ambizioni di gloria, ne smaschererà la loro
inconsistenza.

VISIONE DEL MONDO

La morte è un tema rilevante nell'universo pascoliano: i numerosi lutti familiari che hanno turbato in modo
decisivo la sua infanzia tornano nella sua lirica. Ogni descrizione naturale è pervasa da una sottile
inquietudine e il peso opprimente dell'ingiustizia umana che ha privato innocenti del loro padre torna a
turbare continuamente il poeta. L'ossessivo pensiero della morte si manifesta negli oggetti, nelle visioni e
nei suoni resi con onomatopea. La poesia diventa allora la sola ragione di vita e consolazione al male
intrinseco dell’esistenza. Pascoli supera questa situazione di dolore trovando rifugio in ogni forma di
intimità familiare, dal nido al focolare, fino alla patria. Per Pascoli è dunque essenziale trovare un orizzonte
conosciuto in cui rifugiarsi e come protezione dal mondo egli utilizza anche l'immagine metaforica della
nebbia, impalpabile ma fitta e difensiva. Ricorrenti anche l'immagine della siepe, che esprime il bisogno di
protezione e di certezze, configurandosi come il limite che non si vorrebbe mai infranto dalla violenza del
mondo esterno. Questo desiderio di protezione non è riducibile ad un'armonica dimensione idillica: la
natura e il paesaggio sono continuamente percorsi da inquietudini che riflettono una visione del rapporto
tra soggetto e realtà fitta di dubbi, lontana dalle certezze positivistiche e dal vitalismo dannunziano. La
natura pascoliana si fa specchio della crisi dell’io.

POETICA DELLE COSE

Gli oggetti diventano simboli di un ricordo. Ciascuna cosa diventa significativa nel discorso poetico. In
questo consiste la poetica delle cose di Pascoli: gli oggetti sono poetici indipendentemente dal loro essere
umili o alti e il loro significato non dipende da una precostituita scala di valori ma da un'esigenza interiore
che attribuisce un significato agli oggetti più vari. L’oggettività della natura viene filtrata dalla sensibilità
inquieta del soggetto. In quest'ottica il mondo di Pascoli si riempie di particolari dal nome esatto, spesso
accompagnati da un suono: la dimensione uditiva e fonosimbolica della realtà diviene centrale nella lingua
di Pascoli, grazie alla loro carica evocativa. Anche la visione è fondamentale, con la sua ambiguità fra
oggettività della natura e distorsione individuale. Effetto: continua tensione dinamica tra determinato e
indeterminato > il particolare esatto, nominato con precisione terminologica, viene avvolto da una specie di
musicalità fatta di onomatopee, anafore, allitterazioni, iterazioni. Il dato concreto, sfumato in un’atmosfera
rarefatta, si ammanta di un’aura di allusività che conferisce alla poesia un tratto impressionistico. Tra le
tematiche pascoliane l'amore e l'eros hanno scarsissimo spazio.

Sperimentalismo lessicale: Pascoli affianca termini tecnici a termini preziosi, quotidiani e dialettali. Se a ciò
si aggiungono anche le onomatopee e altre forme di linguaggio “inarticolato” l’effetto è quello di un vero e
proprio plurilinguismo.

Il filologo Gianfranco Contini ha individuato l’uso da parte di Pascoli di tre livelli di lingua: Linguaggio pre-
grammaticale = onomatopee; Linguaggio grammaticale = parole comprensibili al lettore; Linguaggio post-
grammaticale = termini tecnici, lingue speciali, gerghi e dialetti. Latino pascoliano: si rivela estremamente
duttile; Si distanzia da quello classico per la presenza di termini tecnici e si avvicina a quello tardo e
medievale per i numerosi calchi di parole italiane. La sintassi è innovativa, spesso frantumata, si articola in
segmenti discontinui, linee spezzate e in frasi collegate per asindeto: le parti del discorso, più che
subordinate secondo una logica gerarchica, sono “allineate”. Si tratta di un esempio di “frammentismo” in
cui le associazioni analogiche procedono per accostamenti intuitivi, in cui i nessi logici sono taciuti e rimossi.
Altri elementi forniti intervengono a ristabilire un'unità di fondo. Allegare le singole immagini collabora una
sintassi ripetitiva che crea una sorta di cerchi musicali. La poesia procede per “sottrazione” di materia, per
silenzio. Tra le espressioni del silenzio troviamo l'uso dei tre puntini di sospensione che sfumano il dettato
nell’indeterminatezza, in qualcosa di “non detto”, non esplicitato; la frantumazione è sottolineata dalla
presenza di cesure e di enjambent.

IL FANCIULLINO

Tra il 1895 e il 1897 Pascoli precisa i fondamenti della sua poetica.

Nel 1897 pubblica sul “Marzocco” venti brevi capitoli intitolati complessivamente Il fanciullino Titolo in
diminutivo: richiama la predilezione per il piccolo e per la dimensione infantile, per quell’atteggiamento
infantile nel guardare il mondo, nello scoprire e nel relazionarsi alle cose che caratterizza l’indole del poeta.
Ognuno conserva persino da adulto un fanciullo “eterno” che guarda alle realtà e pronuncia le parole con lo
stupore proprio delle origini dell’umanità; tuttavia gli adulti spesso dimenticano il fanciullo che si cela in
loro e il poeta è l’unico tra gli adulti che riesce ancora a dargli ascolto; Poesia = infanzia psichica che dà voce
alla meraviglia con cui il mondo si presenta al fanciullo, ovvero al poeta. I tratti del fanciullo-poeta
comprendono un’ingenuità del tutto inadatta alla vita reale: paura del buio, parlare alle bestie, piangere e
ridere senza motivo. La poesia non crea, bensì scopre il poetico che è nelle cose, anche nelle più piccole e
dismesse. Il fanciullino si presenta come l’esatto opposto del superuomo: la facoltà dello stupore poetico è
innata in ciascun uomo e non è prerogativa di alcuni individui, non è insita esclusivamente nel poeta, ma è
poeta chi riesce a darle voce. Nel negare l’eccezionalità del poeta si distanzia dal Simbolismo, tuttavia si
avvicina ad esso per il valore attribuito alla componente irrazionale, all’intuizione e al simbolo e nella
ricerca di un linguaggio poetico assoluto. Freud e Pascoli affrontano il tema dell’infanzia da due posizioni
contrapposte: Freud scopre nell’infanzia, destando scandalo, le pulsioni di una sessualità non ancora
imbrigliata delle regole adulte, mentre Pascoli sottolinea lo sguardo ingenuo e stupito del fanciullo,
negando a suo carico qualsiasi forma di eros. Tuttavia entrambi trovano un elemento comune nel risalto
della componente alogica e spontanea dell’istinto fanciullesco, non riducibile alle regole sociali
comunemente condivise.

Quella di Pascoli è una poesia priva di finalità pratiche. Il poeta non si propone fini morali o civili ed è
proprio il fatto di essere disinteressata che ne rivela la sua utilità: dando voce al fanciullino, il poeta
sopprime i sentimenti di odio e violenza e stimola invece la bontà, l’amore e la fratellanza. La poesia
pascoliana ha implicita in sé un’utopia umanitaria, che propone il superamento delle divisioni tra classi per
raggiungere una fratellanza universale tra tutti gli uomini. Questa negazione della lotta tra classi trova
corrispondenza nel rifiuto della distinzione tra temi alti e temi bassi, tipica della poesia classica. Tutti gli
argomenti, secondo Pascoli, sono degni di essere trattati in una poesia. Anche le cose più piccole hanno un
loro particolare sublime, che il poeta-fanciullo è in grado di riconoscere. Fedele a questo principio, Pascoli
nella sua poesia cantò quindi sia le cose più umili e dimesse, sia le grandi glorie nazionali.

MYRICAE

(edizioni definitiva del 1900)

Il titolo si riferisce al nome latino delle tamerici, arbusti comuni nei paesaggi mediterranei. L’ispirazione
proviene da un verso delle Bucoliche di Virgilio, posto epigrafe: “arbusta iuvant humilesque myricae” (a noi
piacciono gli arbusti e le umili Tamerici).il richiamo a questa epigrafe è un'indiretta dichiarazione di poetica
in favore delle cose umili, di tono comune e discorsivo. Il riferimento al poeta latino sottolinea la presenza
di registri differenti, in cui convivono un'ispirazione in apparenza dimessa il rinvio alla tradizione classica. Le
sezioni interne sono organizzate in base ai raggruppamenti di forme metriche omogenee si richiamano tra
loro con una fitta trama di rimandi. Le Myricae mostrano la preferenza per la forma breve e il frammento
lirico.

Il metro

La raccolta è caratterizzata da una varietà di metri e un linguaggio che aderisce alle cose tramite l'uso di
termini precisi. Quello di Pascoli è un linguaggio evocativo che precede il significato, che rimanda agli
oggetti e al loro valore tramite un suono. A questa scelta è connesso all'uso dell'onomatopea, della
sinestesia e dell’analogia. Gli effetti fonosimbolici possono generarsi attraverso l’allitterazione (il passero
solitario t), oppure da un avere propria trascrizione mimetica di suoni (la mia sera gre gre).

La dimensione uditiva della realtà è una prospettiva prevalente nella rappresentazione della natura. Il
rifugiarsi nell'orizzonte del mondo conosciuto favorisce l'attenzione e la sensibilità per tutti i suoni e la
disponibilità all'ascolto della voce interiore del fanciullino. Quest'ultima di rivela la poeticità delle piccole
cose e gli ricorda la meraviglia e lo stupore con i quali guardare la realtà.

Tema funebre

È centrale il tema della morte, legato al mito della tragedia familiare. Il lutto privato supera la dimensione
soggettiva per farsi espressione di un dolore universale, che domina la storia e la natura. Nella prefazione
appare la tomba, che ritorna con insistenza, il camposanto e la casa a cui il poeta cerca contrapporre il nido.

La natura madre

Nella raccolta vita un senso di profonda solitudine ed estraneità agli esseri umani. Lo spiraglio vitale si deve
alla natura, la quale per Pascoli, contrariamente alla concezione di Leopardi, non è matrigna, bensì “madre
dolcissima”, persino nel momento della morte. Solo gli uomini sono responsabili del male che soffrono,
male al quale il poeta cerca di rispondere con l'amore.

Il paesaggio

I paesaggi pascoliani non hanno nulla di realistico, ma sembrano fluttuare in una dimensione onirica che li
rende inafferrabili: l'apparente realtà idillica nasconde una minacciosa inquietudine. La visione della natura
è dunque lontana da quella verista, infatti il paesaggio naturale risente dello sguardo dell'osservatore, che
vi proietta sensazioni ed angosce proprie. Immergersi nella natura può contribuire a equilibrare le
disarmonie conflitti che agitano il soggetto.

I CANTI DI CASTELVECCHIO (1903)

Il titolo è un riferimento biografico a Castelvecchio, paese dove il poeta si era stabilito con la sorella ed
esprime il legame alla tradizione, richiamando i Canti leopardiani.

La misura breve viene abbandonata. Il passo della poesia è più ampio e la struttura della raccolta è scandita
dal succedersi delle stagioni dell'anno, da autunno in autunno. Si tratta di una scansione solo
apparentemente naturalistica, infatti a dominare sono le sensazioni del poeta e un simbolismo, che riporta i
temi della tragedia familiare. Dal punto di vista linguistico troviamo il consueto plurilinguismo pascoliano e
metricamente c'è un ritorno dell'endecasillabo e l'ampiezza delle liriche consentono uno sperimentalismo
metrico.

ETA DELL’ANSIA
È un periodo che va dalla fine dell’ottocento fino agli inizi del novecento. Con il positivismo si pensava che
la scienza potesse spiegare il mondo, poi si ebbero i primi segni di sfiducia con il decadentismo. Ma quando
nel 1899 Freud pubblica “Interpretazione dei sogni” e inizia a lavorare sull’inconscio umano, abbandonando
la medicina tradizionale e dedicandosi alla psicoanalisi, che influenzò anche la letteratura e l’arte
(rappresentazione dell’oggetto non solo dal punto di vista fisico), si ebbe la crisi di tutte le certezze che
c’erano in quel momento.

Questa caduta delle certezze era dovuta principalmente a :1) nascita della psicoanalisi; 2) nascita dei regimi
totalitari in Europa e scoppio della Prima Guerra Mondiale; 3) Teorie di Einstein e teoria quantistica.

LE AVANGUARDIE LETTERARIE

Il termine avanguardia, appartiene al vocabolario militare e indica pattuglie di soldati che vanno in
avanscoperta. Questo termine, in campo artistico-letterario, va ad indicare i gruppi che si ponevano a capo
di movimenti rivoluzionari di rottura con il passato. Questi sono movimenti interculturali e internazionali e
si ponevano in atteggiamento critico con il passato: propongono un nuovo modo di fare arte, puntando al
futuro. La cultura è vista come un’attività di gruppo e i vari gruppi creavano dei manifesti in cui esponevano
le proprie idee e il proprio programma. Dal punto di vista letterario, lo scrittore critica il “mercato
culturale”, ovvero l’aver trasformato l’arte (in tutte le sue forme) in una merce, che si assoggetta ai gusti del
pubblico. Proprio per questo motivo si inizia ad abbandonare i canoni estetici tradizionali e l’opera d’arte
risulta quindi di difficile comprensione e questo va ad urtare le abitudini dei fruitori con un intento
chiaramente provocatorio. Gli avanguardisti sentono anche la necessita di riunirsi in gruppi, in modo che la
forza d’urto sia maggiore.

FUTURISMO

Il futurismo è l’unico movimento di Avanguardia nato in Italia, fondato da Filippo Tommaso Marinetti.
Questo movimento esaltava la velocità, il dinamismo, l’attivismo e l’azione violenta ed esasperata per
questo motivo i futuristi appoggiavano il nazionalismo e il militarismo e celebravano la guerra. L’uomo è
visto come una macchina dinamica, che rifiuta ogni forma di sentimentalismo e spiritualismo nei confronti
della donna amata e dell’amore: viene così rifiutata la letteratura del passato, considerata ormai superata.
La rottura rivoluzionaria del Futurismo, consiste proprio nel linguaggio, in cui viene usata una forma
lessicale più abbreviata e sintetica, espressa spesso con analogie che accostano realtà diverse e lontane tra
loro; inoltre viene distrutta la sintassi, utilizzando le “parole in libertà”, ovvero parole in ordine casuale,
imitando in tal modo la maniera con cui si presentano al pensiero e fornendo un’immagine mentale. Oltre a
ciò l’ordine casuale delle parole doveva essere anche un segno visibile e concreto, in modo da rimandare a
sensazioni tattili o uditive.

MANIFESTO DEL FUTURISMO DI MARINETTI

È l’atto di nascita del movimento marinettiano, in cui vengono espressi i principali punti del futurismo.
Vengono elogiati il movimento, l’audacia e la velocità, vista come nuovo canone di bellezza della società; la
letteratura del passato è vista come una cultura imbalsamata e immobile, mentre loro vogliono dare una
scossa a questa visione. Distruzione di biblioteche, accademie e musei; combattere contro il femminismo e
il moralismo; rifiuto della cultura del passato: se rimaniamo attaccati ad esso, non possiamo tirare fuori la
nostra creatività; ammirare le opere del passato è da moribondi e infermi. L’elemento per eccellenza è
l’automobile, simbolo di velocità e dinamismo; la violenza è l’elemento principale.

ITALO SVEVO
Nasce a Trieste nel 1861 da una famiglia borghese, il padre, un imprenditore che lavora in un'azienda di
vetrami, cerca di fornire ai figli un'educazione commerciale consentendogli di studiare lingue e mandandoli
in Germania, paese molto più sviluppato dell'Italia a livello scolastico. Il nome Italo Svevo, in realtà è uno
pseudonimo, il suo vero nome è infatti è Ettore Smithz. Terminati gli studi Svevo inizia a lavorare in banca,
dove resterà per vent'anni. Tutte le sue conoscenze letterarie sono frutto di studi personali eseguiti da
autodidatta nel tempo libero, egli approfondisce i classici italiani, legge i testi dei naturalisti francesi, e,
sapendo il tedesco, analizza molti romantici tedeschi. Inizia a comporre per diletto, non pubblicando però
niente fino al 1892, anno in cui dà alle stampe “una vita”, romanzo che però fu totale fallimento sia a livello
di critica che di pubblico. Nel 1896 si sposa, abbandona la banca, e, nel 1899 inizia a lavorare nella ditta del
suocero (una ditta di vernici sottomarine) dove fa tantissima esperienza commerciale. Nel 1898 scrive
“Senilità”, che però si rivela un altro flop. Decide per questo di smettere di scrivere e dedicarsi solo al
lavoro. In questi anni continua a leggere, approfondisce la sua conoscenza dei romanzieri russi, dei filosofi i
quali Schopenhauer e Nietzsche, e nel 1908 si avvicina alla psicoanalisi di Freud, che sperimenta anche su di
sé. Questa la porta a considerare la malattia dell'uomo come strettamente legata alla condizione della vita
moderna: Svevo pensa che la società si divida in due categorie: i sani e i malati. Nel 1923 decide di tornare a
scrivere e pubblica “la coscienza di Zeno”, che però all'inizio, similmente ai libri precedenti, si rivelerà un
fallimento. Dopo tre anni, però, la critica inizia ad elogiarlo, grazie a molti articoli fatti da Montale e Joyce.
Svevo inizia quindi ad essere apprezzato non solo in Italia, ma in tutta Europa. Nel 1927 decide di
pubblicare, dopo una revisione stilistica, “senilità”, che questa volta gli darà un discreto successo. Nel 1928
muore in un incidente automobilistico.

POETICA

La figura dell'inetto. Un ruolo centrale nella narrativa di Svevo è occupato dalla figura dell’inetto. L’inetto si
contrappone all’esteta, infatti si sente inadatto a vivere poiché non riesce ad aderire alla vita, non ha valori
in cui credere, non ha scopi, non ha un ruolo nella società in cui riconoscersi, quindi non riesce a dare un
senso alla propria vita. Inoltre l’inetto si sente malato di quella malattia che è il disagio del ‘900: l’incapacità
di provare sentimenti, che provoca nell’uomo un intenso alone di tristezza e di infelicità.

L’inetto quindi, è sempre un eroe sconfitto che potrebbe apparire al pubblico molto simile ai personaggi
vinti rappresentati da Verga, ma esiste una notevole differenza: mentre la sconfitta dei vinti era da
imputare esclusivamente all’ambiente, il fallimento dell’inetto è da ricondurre alla frattura venutasi a
creare tra l’io e la realtà e all’interno dell’uomo con la scoperta dell’inconscio.

LA COSCIENZA DI ZENO

Il testo si compone di otto capitoli, che sarà utile seguire per focalizzare bene la trama del romanzo. In una
breve Prefazione il dottore presenta la sua decisione di pubblicare le memorie di Svevo. Nel successivo
Preambolo la parola passa a Zeno, che ci dice di non poter recuperare la sua infanzia, ormai troppo lontana
nella memoria.

Il capitolo Il fumo è dedicato al famoso proposito dell’ultima sigaretta, che Zeno non riesce mai a mettere in
pratica, perché ogni volta che si impone di smettere di fumare fallisce per i sotterfugi che egli stesso mette
in pratica. Nel capitolo La morte di mio padre invece Zeno torna indietro alla sua giovinezza e al difficile
rapporto col padre che, in punto di morte, gli dà uno schiaffo (che poteva anche essere una carezza), che
Zeno interpreta come ultima punizione e sberleffo del padre nei suoi confronti.

Nel capitolo La storia del mio matrimonio si parla della frequentazione di Zeno con la famiglia Malfenti e le
quattro sorelle Ada, Augusta, Alberta e Anna. Zeno è innamorato della bellissima Ada, ma l’impossibilità di
questo amore lo induce a ripiegare verso Alberta e infine, quasi senza rendersene conto, verso la meno
bella Augusta, che però si rivela una moglie modello, dotata di quella concretezza e quella salute di cui
Zeno si sente privo. Questo tormento continuo porta Zeno, marito felice, a instaurare un rapporto
clandestino con Carla, di cui si racconta nel capitolo La moglie e l’amante.

Nel capitolo Storia di un’associazione commerciale Zeno ci conduce all’interno del suo mondo lavorativo e
ci racconta il suo rapporto con Guido Speier, marito di Ada, la cui abilità nel lavoro e la cui fortuna in tutte
le cose della vita fanno da contraltare ai continui fallimenti di Zeno. Tuttavia Guido si rivelerà alla fine più
fragile di quello che sembrava e le improvvise difficoltà lo porteranno al suicidio.

Nell’ultimo capitolo, Psico-analisi, la narrazione torna al presente e Zeno annuncia la sua decisione di
abbandonare la cura, criticando il metodo psicanalitico del medico e dichiarando di essere guarito dalla sua
malattia grazie a una serie di successi commerciali favoriti dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale.

LUIGI PIRANDELLO
Luigi Pirandello nacque nel 1867 a Girgenti (nome della città di Agrigento fino al 1927) in una famiglia
borghese di condizioni economiche agiate, grazie al commercio e all’estrazione dello zolfo. Ebbe
un’istruzione elementare privata e nel 1878 venne iscritto dal padre alla regia scuola tecnica di Girgenti.
Tuttavia Luigi preparò di nascosto il passaggio agli studi classici. La famiglia fu poi costretta a trasferirsi a
Palermo a causa di un dissesto economico: fu proprio qui che il nostro autore iniziò a frequentare il regio
ginnasio Vittorio Emanuele II e si appassionò alla letteratura. Dopo aver aiutato per un breve periodo di
tempo il padre nel commercio dello zolfo, avviò i suoi studi universitari nel 1886 dapprima a Palermo ed in
seguito a Roma ed infine a Bonn.

Nel 1892 si traferì a Roma, dove frequentò i salotti intellettuali, e nel 1894  sposò Maria Antonietta
Portulano a Girgenti. Si trattò di un matrimonio combinato: la ragazza era infatti figlia di un ricco socio del
padre e questo fu di giovamento per gli interessi economici della sua famiglia. Nonostante il matrimonio fu
celebrato per questi motivi, i due si innamorarono e vissero felicemente. Si trasferirono a Roma e nel 1895
nacque il lo primogenito Stefano. In seguito ad un allagamento e ad una frana nel 1903 nella miniera di
Zolfo di proprietà familiare, le condizioni economiche peggiorarono notevolmente e ciò ebbe una grave
ricaduta sulla salute psicologica della moglie di Pirandello. Il primo grande successo letterario tra il pubblico
di Pirandello fu il romanzo "Il fu Mattia Pascal”, pubblicato nel 1904 e tradotto in diverse lingue. La critica
invece non riconobbe subito allo scrittore il merito che gli spettava.

Nel 1919 Pirandello accettò il ricovero della moglie presso un ospedale psichiatrico. La malattia della moglie
fu per lo scrittore uno stimolo per avvicinarsi alle teorie sulla psicoanalisi di Sigmund Freud ed allo studio
dei meccanismi di funzionamento della mente umana.

Il successo di Pirandello sbocciò solamente nel 1922 con le sue opere teatrali. Nel 1925 fondò la Compagnia
del Teatro d’Arte di Roma con Marta Abba e Ruggero Ruggeri, con cui iniziò a viaggiate per il mondo fino ai
teatri di Broadway. Nel 1934, dopo essere divenuto il drammaturgo più famoso nel mondo, ricevette
il Premio Nobel per la letteratura. L’autore non prese mai particolari posizioni politiche, ma ammirò il
patriottismo garibaldino e condivise alcune ideologie dei giovani Fasci siciliani e del socialismo.
Successivamente aderì al fascismo e a causa di ciò fu soggetto di attacchi da parte di alcuni intellettuali e
politici italiani. Si ammalò di polmonite nel 1936 durante la proiezione di un film tratto dal suo romanzo “Il
fu Mattia Pascal” a Cinecittà. La malattia si aggravò rapidamente e nel dicembre 1936 Luigi Pirandello morì.

POETICA

Alla base della visione del mondo pirandelliana vi è una concezione vitalistica: infatti, secondo questa idea,
la realtà tutta è “vita”, “perpetuo movimento vitale”, inteso come flusso continuo, come lo scorrere di un
magma vulcanico. Tutto ciò che si stacca dal flusso, per Pirandello, assumendo forma distinta e individuale,
si irrigidisce e comincia a morire. Noi siamo parte indistinta dell’eterno fluire della vita, ma tendiamo ad
assumere forme individuali; non solo noi stessi ci diamo una “forma”, ma anche gli altri, vedendoci ciascuno
dalla sua prospettiva ci danno determinate forme. Pertanto noi crediamo di essere “uno”, mentre siamo
tanti individui diversi. Ad esempio, un individuo può crearsi di sé stesso un’immagine gratificante
dell’onesto lavoratore, mentre gli altri magari lo fissano come uomo senza scrupoli. Quindi ciascuna di
queste forme è una maschera che noi stessi ci imponiamo e che ci impone il contesto sociale; sotto questa
maschera, però, c’è un fluire continuo di stati e di personalità distinte.

In questo periodo, l’instaurarsi del capitale monopolistico si afferma; infatti, l’evoluzione dell’industria e
l’uso delle macchine meccanizzano l’esistenza dell’uomo riducendolo a rotella di un gigantesco
meccanismo. L’idea classica dell’individuo creatore del proprio destino ora tramonta: l’individuo infatti non
conta più, si indebolisce, e diventa nessuno. L’avvertire di non essere “nessuno” provoca nell’uomo un
senso di angoscia e orrore, generando un senso di solitudine. Pertanto l’uomo “si vede vivere”, si esamina
dall’esterno, imponendo una sua maschera, una sua parte. Tutte queste forme sembrano vere e proprie
trappole, come un carcere, e in questo contesto Pirandello pensa che la società fosse come un’enorme
“pupazzata”, una costruzione fittizia che impoverisce l’uomo. Possiamo quindi dedurre che alla base di tutta
l’opera pirandelliana vi è il rifiuto della vita sociale e dei ruoli che essa impone; egli infatti in fondo è un
anarchico, un ribelle insofferente dei legami della società. Per lui la società che è “condannabile” e non
modificabile, essa trova l’unica via di salvezza nella fuga nell’irrazionale. Un'altra via di salvezza che trova
Pirandello è la follia, che fa esplodere convenzioni e rituali della società. Per Pirandello, quindi, l’eroe è il
“forestiere della vita”, cioè colui che ha capito il gioco della vita, ha compreso il meccanismo sociale e si
esclude dalla vita, si isola, guardando vivere gli altri dall’esterno.

L’«UMORISMO»

Uno dei saggi più importanti di Pirandello è L’umorismo, che risale al 1908; in esso si possono scorgere la
concezione dell’arte e la poetica del poeta. Il volume si compone di una parte storica, in cui l’autore
esamina le varie fasi dell’arte umoristica, e di una parte teorica, in cui viene definito il concetto di
umorismo.

Nell’opera umoristica la riflessione non si nasconde, ma si pone dinanzi ad esso come un giudice,
analizzandolo e componendolo. Da qui nasce il “sentimento del contrario”; esempio: se vedo una vecchia
signora con i capelli tinti e tutta imbellettata, avverto che è il contrario di ciò che una vecchia signora
dovrebbe essere. Questo avvertimento del contrario, quindi, è comico. Se però interviene la riflessione, e
suggerisce che quella signora soffre nel conciarsi il quel modo, ma lo fa solo per trattenersi l’amore del
marito più giovane, non c’è più comicità ma si passa all’atteggiamento umoristico. La riflessione quindi
coglie il carattere molteplice e contraddittorio della realtà, permettendo di vederla da diverse prospettive.
Si coglie il ridicolo di una persona, ne individua anche l’umana sofferenza. Le opere e le novelle di Pirandello
sono tutti testi “umoristici”, in cui il tragico e comico, il riso e la serietà sono mescolati, da cui emerge il
senso di un mondo frantumato, polivalente, al limite dell’assurdo.

IL FU MATTIA PASCAL

Il romanzo Il fu Mattia Pascal  è una delle opere di Luigi Pirandello più conosciute e amate dal pubblico. Il
romanzo, come ci anticipa già il titolo stesso, ruota interamente attorno al tema, fondamentale in
Pirandello, dell'identità individuale: quella di Mattia Pascal e del suo alter ego, Adriano Meis. Il romanzo,
scritto in prima persona, è infatti il racconto da parte del protagonista della propria vita e delle vicende che
l'hanno portato ad essere il "fu" di sé stesso. Dopo la morte del padre, che aveva fatto fortuna al  gioco, la
madre di Mattia, sceglie di dare in gestione l’eredità del marito a Batta Malagna, amministratore poco
onesto che deruba giorno per giorno la famiglia Pascal. Impoverito dalla mala gestione dell'eredità paterna,
il protagonista deve impiegarsi come bibliotecario e vivere con la moglie a casa della suocera, donna
arcigna e che lo disistima profondamente. Non passa molto tempo che la vita matrimoniale diventa
insopportabile e, dopo la perdita di entrambe le figlie che amplifica la frustrazione dei coniugi, Mattia
decide di partire in direzione Montecarlo, per tentare di arricchirsi al gioco. Le sue speranze vengono
esaudite: il protagonista vince una somma considerevole alla roulette. Si rimette così in viaggio verso il
paese natio, tronfio della vittoria e deciso a riscattarsi. Durante il viaggio in treno, però, accade
l’imprevedibile: Mattia legge sul giornale la cronaca di un suicidio avvenuto a Miragno, e scopre con
enorme stupore di essere stato identificato nel cadavere dello sventurato, già in stato di putrefazione e
quindi poco riconoscibile. Abbandonata l'identità di Mattia Pascal, cui si associa l'idea di fallimento
esistenziale, il protagonista adotta il nuovo nome di Adriano Meis, convincendosi che liberarsi dalla figura
sociale di Mattia (il nome, la fimiglia, la vita usuale di tutti i giorni) sia il primo passo di una nuova vita. Dopo
un periodo trascorso a vagare tra Italia e Germania, Adriano si stabilizza a Roma, dove prende in affitto una
stanza dal signor Paleari. Qui però il protagonista si scontra coi limiti intrinseci di un’esistenza al di fuori
delle convenzioni sociali: non possedendo documenti né un’identità riconosciuta, non può denunciare un
torto che gli viene fatto - nello specifico, un furto - e, cosa ben più grave, non può sposare la figlia del
padrone di casa, Adriana, di cui è nel frattempo s'è innamorato. Frustrato dalla sua condizione, decide di
rinunciare anche all'identità di Adriano Meis, di cui inscena il suicidio, e di riprendere la vecchia identità,
facendo "risorgere" - per così dire - Mattia Pascal. Tornato a Miragno, Mattia trova però una situazione ben
diversa da quella che aveva lasciato: sua moglie ha sposato un amico di vecchia data, Pomino. Mattia è
dunque escluso anche da ciò che inizialmente, con l'episodio fortunato della  roulette, aveva provato a
fuggire e che ora vorrebbe recuperare in extremis. L'ordine sociale (rappresentato dalla famiglia e dal
matrimonio, oltre che dal nome e dal cognome che ci identifica di fronte agli altri) isola definitivamente
Mattia, che può solo riprendere il suo precedente impiego di bibliotecario, ritirandosi in una vita
condannata al senso di estraneità dal mondo, la cui unica distrazione è la visita saltuaria alla propria
tomba.

UNO, NESSUNO, CENTOMILA

Inizialmente Vitangelo Moscarda (Gengé per gli amici) ci viene presentato come un uomo del


tutto comune e normale, senza nessun tipo di angoscia né di tipo esistenziale né materiale: conduce una
vita agiata e priva di problemi grazie alla banca (e alla connessa attività di usuraio) ereditata dal padre. Un
giorno questa piatta tranquillità viene però turbata: l’elemento disturbatore è un banale e innocente
commento pronunciato dalla moglie di Vitangelo riguardo al fatto che il suo naso penda un po’ da una
parte. Da questo momento la vita del protagonista cambia completamente, poiché Gengé si rende conto di
apparire al prossimo molto diverso da come egli si è sempre percepito. Così decide di cambiare
radicalmente il suo stile di vita, nella speranza di scoprire chi sia veramente, e a quale  proiezione di
sé corrisponda il suo animo. Nel processo di ricerca per trovare sé stesso compie azioni che vanno contro a
quella che era stata la sua natura sino a quel momento: sfratta una famiglia di affittuari per poi donare loro
una casa, si sbarazza della banca ereditata dal padre (inimicandosi ovviamente familiari e parenti), e inizia
ad ossessionare chi gli sta vicino, con discorsi e riflessioni oscure che lo fanno passare per pazzo agli occhi
della comunità. La situazione si aggrava al punto che la moglie abbandona la casa coniugale, e, insieme ad
alcuni amici, inizia un'azione legale contro Vitangelo col fine d’interdirlo. Gli rimane fedele in un primo
momento solo un’amica della moglie, Anna Rosa, che poco dopo però, spaventata dai ragionamenti di
Vitangelo, arriva addirittura a sparargli, senza ucciderlo ma ferendolo in modo serio. Vitangelo, il cui "io" è
ormai completamente frantumato nei suoi "centomila" alter ego, sembra trovare una tregua ai propri
patimenti solo nel confronto con un religioso, Monsignor Partanna, che lo sprona a rinunciare a tutti i suoi
beni terreni in favore dei meno fortunati. Il tormentato protagonista pirandelliano, rifugiatosi
nell'ospizio ch'egli stesso ha donato alla città, riesce così a trovare un po’ di pace e di serenità solo
nella fusione totalizzante (e quasi misticheggiante) con il mondo di Natura, l'unico in cui egli può
abbandonare senza timori tutte le "maschere" che la società umana gli ha a mano a mano imposto.
Nell'ultimo capitolo di Uno, nessuno e centomila, dal titolo “Non conclude”, il protagonista affronta il
processo sempre più avanzato di dismissione dalle forme rigide, rinunciando a guardarsi allo specchio e
negando addirittura il peso del nome. La tappa finale è quella in cui viene identificata l'essenza più
profonda della vita: data l’inconclusione della vita, Vitangelo si definisce “vivo”, perciò “non conclude”, cioè
non si fissa in una forma in un'identità, in quanto si considera parte di questo flusso in interrotto. Egli difatti
rinuncia totalmente alla propria individualità e solo in questo modo riesce a sentirsi libero, morendo e
rinascendo continuamente.
I QUADERNI DI SERAFINO GUBBBIO OPERATORE

Tramite questo romanzo, Pirandello si propone di mettere in evidenza il senso di alienazione che avviluppa
l’uomo moderno a servizio della macchina. Il narratore adopera la tecnica dell’analessi, che consiste nel
presentare un episodio tramite ricordi frammentati di eventi passati. Serafino Gubbio è un cineoperatore
che ha il compito di girare la cinepresa per registrare le scene. Egli si sente totalmente alienato dal suo
lavoro al punto da affermare: “finii d’esser Gubbio e diventai una mano”. Un giorno Serafino viene
incaricato di riprendere con la sua cinepresa la scena dell’uccisione di una tigre da parte di un cacciatore.
All’interno della gabbia si trova l’attore che veste i panni del cacciatore, la tigre e un’attrice. L’attore che
dovrebbe uccidere l’animale rivolge l’arma contro l’attrice, togliendole la vita per questioni di gelosia, e la
tigre, terrorizzata, si avventa sull’uomo e lo sbrana. Serafino, che sta filmando la scena, rinuncia a ogni
forma di sentimento e di comunicazione: egli continua meccanicamente a girare la manovella della
cinepresa, indifferente al dramma che si sta consumando davanti ai suoi occhi. Da ciò il titolo originario
dell’opera: “Si gira”. Serafino diviene muto per lo choc e si rifugia nell’alienazione. Il mutismo di Serafino
può avere una doppia interpretazione: potrebbe essere il frutto dell’orrore e del trauma che il protagonista
affronta, ma potrebbe anche alludere al mutismo degli intellettuali nei confronti della società durante gli
anni della Grande Guerra, periodo in cui fu scritto il romanzo. In riferimento all’atteggiamento che gli
intellettuali assunsero durante l’età prefascista si parla di “reificazione”, termine che indica l’uomo muto,
diventato una cosa, ridotto a un oggetto alla stregua delle macchine. In questo romanzo, Pirandello rende
evidente l’alienazione dell’uomo diventato quasi un’appendice delle macchine che adopera. Questo tema
venne riproposto vent’anni dopo la stesura del romanzo, nel 1936, da Charlie Chaplin nel film “Tempi
Moderni”, in cui si parla proprio dell’uomo robotizzato.

SEI PERSONAGGI IN CERCA D’AUTORE

In un teatro di prosa, alcuni attori diretti da un capocomico stanno provando una commedia.
Improvvisamente si presentano i sei personaggi (Padre, madre, figliastra, figlio, giovinetto e bambina). Il
Padre spiega subito al direttore-capocomico che loro sono personaggi in carne ed ossa, ed essendo
portatori di un dramma sono in cerca di un autore che voglia rappresentarlo. La vicenda da rappresentare è
semplice: Padre e Madre hanno avuto un figlio. Un giorno il padre s'accorge che la moglie, di carattere
affine a quello del suo segretario, potrebbe formare una nuova famiglia con lui e la spinge a farlo. La donna
avrà ancora tre figli. Passano glia anni e muore il segretario. Un giorno nella sartoria di madama Pace (una
casa di appuntamento) il Padre incontra la figliastra. Prima che possano avere un rapporto sopraggiunge la
Madre. Il Padre, sopraffatto dalla vergogna e dalla pietà per quelle donne, decide di riprendere con sé la
nuova famiglia. La situazione non è accettata da nessuno, e la madre sembra essere un capro espiatorio del
dolore e della sofferenza di tutti i familiari. Il dramma scoppia improvviso: la bambina muore annegata nella
vasca del giardino; il giovinetto si uccide con un colpo di pistola; la madre 'annega' nel dolore; alla figliastra
sono rimaste solo risate d'isterismo misto a dolore; il figlio rimane con la sua insofferenza del prossimo; ed
il padre, al capocomico che spiega alla compagnia che è solo finzione, grida con voce rotta dal peso di un
ineluttabile dramma doloroso: " Ma che finzione! Realtà, realtà, signori! Realtà!". Quindi, i quattro
superstiti personaggi, portando via i corpi senza vita della bambina e del giovinetto, spariscono dietro il
fondalino, per poi ricomparire come ombre fumose.

Questo è il vero esempio per dimostrare che Pirandello è rivoluzionario. Ci sono infatti novità, gli attori
salgono sul palco dalla platea per coinvolgere il pubblico. Il teatro di Pirandello è basato sulla dissoluzione
del personaggio e sul fatto che non c’è distacco tra pubblico e palcoscenico, il pubblico non è uno
spettatore passivo ma attivo. Il teatro non deve essere un puro intrattenimento. Deve andare oltre la prima
impressione, riflettere e capire il significato di quello che viene mostrato.

ENRICO IV
Un giovane, mentre prende parte a una cavalcata in costume, nei panni di Enrico IV imperatore di
Germania, viene sbalzato da cavallo, batte la testa e impazzisce. Da quel momento, crede di essere
veramente Enrico IV, esigendo rispetto per il suo ruolo regale. La finzione è pietosamente assecondata da
parenti e amici, che trasformano la sua villa in una reggia, e lo circondano di servi travestiti da cortigiani; in
questa corte fittizia Enrico IV (l'autore non cita mai il nome che egli aveva in precedenza) vive per dodici
anni finché, a un tratto, rinsavisce. Si ritrova già maturo, senza avere vissuto la giovinezza, e ormai è solo;
Matilde Spina, la giovane marchesa che lo accompagnava la sera della cavalcata, è diventata l'amante di
Belcredi, odiato rivale, colui che provocò la sua caduta per sbarazzarsi di lui. Escluso dalla vita, egli decide di
farsi credere ancora pazzo e guardare la vita curiosamente dal di fuori, ora che la vita gli è ormai negata.

A questo punto comincia il dramma; arrivano al castello la bella ma ormai attempata Matilde con la figlia
Frida, il fidanzato di questa, Belcredi e un medico che si propone di guarire colui che è creduto folle.
L'udienza con l'imperatore (Matilde sotto le vesti della contessa Matilde di Toscana, e Belcredi in tenuta da
Pier Damiani) è drammatica e preparatoria. Enrico IV si diverte a condurre un gioco enigmatico con la loro
ragione, rivolge a Matilde discorsi allusivi che le danno l'impressione che egli l'abbia riconosciuta. Il medico,
che osserva il caso con rigore scientifico, non dubita di quella pazzia, ma crede che basterà un semplice
esperimento per rendere a Enrico IV la ragione: preparerà un incontro fra Enrico IV, la marchesa Matilde e
la figliola Frida, vestite entrambe da contessa Matilde di Toscana; facendogli ravvisare nella figlia le fattezze
della Matilde di un tempo (che lo fiancheggiava a cavallo in quella tragica sera), riporterà il folle a quel
momento e gli permetterà di riprendere, a partire da quel momento di trauma, una nuova vita. Ma Enrico,
mentre i preparativi fervono, si e già rivelato ai suoi servi. Sconvolto dalla vista di Belcredi, egli confessa di
non essere più pazzo e avvisa che la mascherata sta per finire. Arriva Frida. Travestita da contessa Matilde,
ha preso il posto di un grande dipinto raffigurante la contessa; quando Enrico entra, ella lo chiama, e quella
visione dà a Enrico un terrore folle, gli fa credere d'essere ancora pazzo e di vedere fantasmi. Gli altri
irrompono: i servi hanno già rivelato tutto e, visto che la pazzia è finita, Belcredi e Matilda lo vogliono
portar via con loro. Ma dove può andare, ormai, Enrico IV? L'ultima via di scampo è offerta da Frida; il
tempo pare essersi fermato in lei, e rinasce in quest'ennesima finzione. Non impunemente, però. Enrico IV
fa per abbracciare Frida e quando Belcredi cerca di impedirglielo lo trafigge con la spada. D'ora in avanti la
pazzia sarà necessaria a Enrico IV come condanna e insieme liberazione.

GIUSEPPE UNGARETTI

Giuseppe Ungaretti nasce l’8 febbraio 1888 ad Alessandria d'Egitto da Antonio Ungaretti e Maria Lunardini,
entrambi lucchesi. I suoi genitori si erano trasferiti per lavoro, dal momento che il padre lavorava alla
costruzione del canale di Suez. Giuseppe avrà sempre un ricordo profondo del deserto che osservava nella
sua città di infanzia. Resta orfano del padre che muore in un incidente di lavoro (1890). Frequenta l'Ecole
Suisse Jacot, ed è lì, tra i banchi di scuola, che scopre la passione per la letteratura Parigi in quegli anni
brulica di artisti da tutto il mondo: Ungaretti ha l’occasione di stringere amicizie importantissime, che lo
legano all’avanguardia artistico-letteraria. Bastino questi nomi: Apollinaire, Palazzeschi, Picasso, Modigliani,
De Chirico. Poco dopo aver pubblicato le sue prime poesie sulla rivista «Lacerba», si arruola volontario in
fanteria per lo scoppio della Grande Guerra: comincia quella straordinaria e drammatica esperienza al
fronte, circondato, asfissiato dalla morte. Combatte sul Carso e sul fronte francese. In trincea Ungaretti
scrive «lettere piene d’amore»: le poesie che andranno a far parte della raccolta Il porto sepolto, pubblicata
prima a Udine in pochissime copie, grazie all’amico Ettore Serra. Sono poesie fulminanti, rapide, concise,
dove l’emozione che le sostiene cerca la costante complicità del lettore. Nel 1919, a guerra finita, è a Parigi.
A Firenze viene pubblicata la sua raccolta Allegria di naufragi, un titolo leopardiano. Nel 1920 sposa Jeanne
Dupoix, un’insegnante di francese, dalla quale ha due figli Anna-Maria e Antonietto. Nel 1921 si trasferisce
a Marino (Roma) e collabora con il Ministero degli Affari Esteri. Nel 1930 muore la madre, cui dedica una
poesia piena che esprime un dolore composto e la speranza di rivederla, un giorno. Nel 1931 pubblica
l’Allegria che raccoglie le poesie delle prime due raccolte. La sua fama cresce e durante una visita in
Argentina, nel 1936, gli viene offerta la cattedra di Letteratura Italiana presso l'Università di San Paolo, che
terrà fino al 1942. Nel 1937 muore il fratello Costantino. Nel 1939 un altro lutto: per un’appendicite
malcurata muore Antonietto, suo figlio, di nove anni. Questo lutto getta il poeta in uno sconforto senza
apparente via d’uscita. I lutti, i viaggi, la lontananza creano la base per un’altra raccolta fondamentale di
Ungaretti: Il dolore, del 1947. In occasione degli ottant'anni viene onorato dal governo italiano: a Palazzo
Chigi è festeggiato dal Presidente del Consiglio Aldo Moro, oltre che da Montale e Quasimodo. Muore a
Milano nella notte tra il 1° e il 2° giugno del 1970.

POETICA

In tutta la produzione poetica di Ungaretti il legame tra vita e poesia è essenziale. I suoi oggetti poetici sono
quasi sempre in rapporto a eventi, luoghi, situazioni, legati strettamente alla biografia: centrale è infatti la
nozione di Memoria, intesa come consapevolezza di un vissuto che si deposita nella coscienza. La memoria
rappresenta però una sorta di polo negativo poiché custodisce spesso un passato doloroso: ad essa si
oppone dunque la nozione di innocenza, uno stato ideale teso ad una felicità priva di consapevolezza e di
dolore e che si identifica a volte con l’infanzia. La produzione poetica diventa quindi, nel proprio insieme,
una sorta di biografia allegorica. La biografia poetica di Ungaretti si può scandire in tre periodi:

-Il primo periodo coincide con i versi scaturiti dall’esperienza della guerra (Allegria di naufragi)

-Il secondo periodo ha inizio con il trasferimento a Roma, a partire dal 1921

-Il terzo periodo è quello aperto alla raccolta Il Dolore

L’esperienza della Prima Guerra Mondiale è il punto d’avvio della biografia poetica di Ungaretti e
rappresenta il contatto con la dimensione scarna ed essenziale dell’esistenza. Egli si pone come testimone
lirico della guerra, ben lontano sia dalla mitologia nazional-patriottica di d’Annunzio, sia dai futuristi, per i
quali la guerra era “sola igiene del mondo”. Per lui il conflitto bellico diventa occasione di ricerca della sua
identità profonda e insieme indagine sulla condizione umana messa a nudo dall’esperienza di trincea. Il
poeta si interroga non sul perché della guerra ma su come la condizione militare e la presenza del rischio
strappino l’individuo a se stesso spingendolo a ricercare l’innocenza perduta, ovvero quella condizione
originaria in cui l’io riconosce la sua fragilità di creatura e, in virtù di questa ritrovata consapevolezza, cerca
un intimo legame con i suoi simili e con il cosmo.

Il nuovo linguaggio che Ungaretti ha in mente deve costruirsi con una parola nuova. Il poeta è chiamato a
mettersi in contatto con le cose, con la natura e con l’umanità come se per la prima volta guardasse ciò che
lo circonda. Egli deve riuscire a esprimere insieme una “Limpida meraviglia” e un “Delirante fermento”. La
nuova parola poetica non deve essere arcaica, tradizionale, non deve ricalcare modelli o schemi precedenti,
non deve essere presa dai vocabolari: deve essere totalmente vergine, pura, essenziale. Anche la sintassi
vive un cambiamento: la frase si fa scarna, la punteggiatura minima e quasi assente, il ritmo si spessa, e le
frasi della poesia di Ungaretti, “Uomo di pena”, si danno quasi come un singhiozzo.

La seconda stagione poetica, quella di Sentimento del Tempo, ha inizio con il ritorno a Roma nel 1921. La
lunga permanenza del poeta nella capitale comporta una continua immersione tra le architetture e i
capolavori dell’arte seicentesca: questo contatto con le forme del barocco risveglia in lui una particolare
tonalità emotiva. Il Barocco viene ad essere per Ungaretti la rappresentazione figurativa del tormento
esistenziale, della metamorfosi dolorosa e continua a cui la vita obbliga, della pienezza abbondante che è
reazione del vuoto provocato dalla sofferenza e dalla morte. In questa nuova stagione il poeta supera la
soggettività del suo primo fare poetico: ne nasce una nuova consapevolezza del dolore, vicenda non solo
personale ma universale.

I viaggi, i ritorni, gli incontri e le morti segnano profondamente la terza stagione poetica di Ungaretti. Egli in
questa ultima fase della sua poetica vuole rapportarsi agli eventi senza filtri, senza mediazioni mitiche o
retoriche. Il dramma personale e quello collettivo coincidono ne Il Dolore (1947), una raccolta che elabora
le esperienze e la sofferenza del soggiorno in Brasile. Il ritorno dal Sud America è un ritorno alla misura, alla
civiltà, alla classicità, anche se il dolore nell’anima lascia un vuoto difficile da colmare.

Osserviamo come oltre alla produzione in versi Ungaretti si sia interessato anche a quella in prosa: egli
aveva ricercato in essa “La luce giusta” di un nuovo comporre. L’esperienza della narrazione si collega in lui
alla riscoperta della storia. Le prose di viaggio che dal 1926 val 1935 egli pubblica sui quotidiani hanno il
loro centro ideale nell’Egitto, patria geografica dell’autore. Queste sono racconti di invenzione strettamente
vincolati ad una personale poetica e rispecchiano gli stati d’animo del poeta di fronte a paesaggi, epoche e
persone sottratte a ogni precisa informazione obbiettiva. La prosa nella propria costruzione ritmica tende a
farsi poesia.

È ormai assunto, in sede critica e storiografica, che il 1916, anno di uscita del Porto sepolto, rappresenti
l’inizio della nuova poesia italiana del Novecento. Ungaretti, con la sua distanza sia dalle invenzioni estreme
del Futurismo, sia dal formalismo classico, opera una mediazione storica fra l’avanguardia e la tradizione a
diversi livelli: nella metrica, nel suono, nel ritmo, nell’atteggiamento umano e nel messaggio spirituale. La
vitalità della sua lezione è testimoniata dalla presenza della “forma breve” nella poesia italiana degli anni
’30, il cosiddetto Ermetismo. Della lezione formale di Ungaretti rimangono vivi, soprattutto, alcuni elementi
della sua prima stagione poetica: il verso brevissimo e mono verbale dell’Allegria, le imprevedibili cesure, i
silenzi di certe pause tra strofe, i ritmi stringati, e quell’apparenza di calligramma di certi testi in cui i versi
sono disposti con forte attenzione agli spazi e alla posizione delle parole.

L’ALLEGRIA

La prima vera raccolta compiuta di versi di Ungaretti è Il Porto Sepolto. Le trentadue liriche sono composte
tutte al fronte, durante la guerra di trincea, ed escono in edizione semiclandestina nel 1916. Le poesie si
propongono quasi come una successione di “Fogli di diario”: sono infatti corredate di precise indicazioni
cronologiche e di luogo. Il titolo scelto dal poeta proviene da lontano, dalla sua adolescenza egiziana e
dall’ipotesi, di cui gli avevano parlato, di un antichissimo porto di Alessandria d’Egitto: un porto però, mai
trovato, ancora sepolto ed anteriore all’epoca alessandrina.

Tutta la raccolta ruota attorno alla dialettica simbolica guerra-pace: la guerra è il tema cardine, l’ossessione
esistenziale a cui si contrappone l’aspirazione, talvolta sottaciuta e allusa, alla pace. A questo nucleo di
significati si affianca quello costituito dal rapporto vita-morte: la morte rappresenta il punto estremo
dell’uomo e insieme il quesito fondamentale dell’esistenza, che dalla guerra viene indagato e reso ancor più
urgente e drammatico. Il tema della distruzione bellica, collegato a immagini di frantumazione e di
smembramento della corporeità si manifesta anche come aridità e desertificazione poste come metafora
della condizione umana, con i suoi miraggi ingannevoli.

Le parole all’interno dell’opera vengono usate come oggetti sonori, e vengono messe in relazione fra loro
attraverso catene di omofonie (il ricorrere degli stessi suoni). L’omofonia induce il poeta a procedere per
analogie, a produrre associazioni e metafore ardite. Questo contatto tra suono e metafore si affianca ad
una particolarissima dimensione grafica e tipografica. Ungaretti accosta al suono e al senso l’apporto dello
spazio bianco, che corrisponde a un’esperienza di silenzio nell’accumulo di nessi fonetici.

Nelle sue poesie possiamo parlare di passaggio dalla parola-verso alla sillaba-verso: la parola si stacca
isolata, nel verso o nella strofa, e produce il cosiddetto “sillabato ungarettiano”. I versicoli dell’Allegria
nascono dalla spezzatura del metro italiano tradizionale, in particolare dell’endecasillabo, che viene
scomposto in più versi a costituire strofe compiute. Viene inoltre azzerato l’uso della rima a favore
dell’assonanza o dell’anafora. La distruzione del sintagma minimo determina la verticalizzazione della
sintassi, tratto caratteristico della poesia di Ungaretti.

EUGENIO MONTALE
Nato a Genoa nel 1896, viene da una famiglia medio borghese. Avviato agli studi tecnici presso i padri
barnabiti, deve interromperli per la salute malferma. La sorella lo spinge a proseguire privatamente la sua
istruzione guidandoli i primi interessi culturali, letterari e musicali. Presso la biblioteca civica si accosta la
poesia romantica inglese e legge poeti decadenti e simbolisti. A queste letture si aggiungeranno quelle di
Leopardi e quella dei poeti contemporanei da Pascoli a D'Annunzio.

Nel 1915, presa la licenza di ragioniere è chiamato alle armi, e prima della partenza per il fronte scrive
“meriggiare pallido e assorto”.

LA FORMAZIONE

Nel 1917 frequenta un corso ufficiali alla scuola di applicazione di fanteria a Parma. Qui conosce Sergio
Solmi, critico letterario e scrittore amico per tutta la vita.

Dopo l'armistizio, è comandante di un campo di prigionieri a Lanzo Torinese nel 1919, anno del suo
congedo. ritornato a Genova frequenta il Caffè Diana in Galleria Mazzini. Sono anni di intense letture dei
poeti inglesi e spagnoli.

A FIRENZE, GLI ANNI “SOLARIANI”

Nel Marzo 1927 Montale si trasferisce a Firenze, dove lavora per la casa editrice Bemporad. In questi anni
fa vari incontri culturali: frequenta il caffè delle Giubbe Rosse ed entra a far parte del gruppo della rivista
“Solaria”, nata con l'intento di aprire la letteratura italiana al contatto con le nuove esperienze europee.

Nel 1929 Montale viene nominato direttore del Gabinetto Vieusseux, nota istituzione letteraria Fiorentina.

La vita del poeta in questi anni è strettamente legata al gruppo di “Solaria”, che cerca di porre un argine alla
retorica del regime e all’asservimento della letteratura alle direttive del potere.

Il fascismo sopprime la rivista nel 1934 e Montale viene licenziato nel 1938 dalla direzione del Vieusseux.

DAL SECONDO CONFLITTO MONDIALE AGLI ANNI ‘70

Dopo essere stato richiamato alle armi nel 1940, poi congedato per motivi di salute nel 1942, Montale è
costretto per guadagnarsi da vivere intraprende una serie di traduzioni di scrittori americani e di classici.
Alla fine della guerra entra a far parte del comitato per la Cultura e per l’Arte del CLN (Comitato di
liberazione nazionale) e aderisce al Partito d’Azione.

Nel 1945, prende la direzione del settimanale culturale “il Mondo”.

Nel 1948 si trasferisce a Milano per lavorare come redattore del “Corriere della Sera”. Per conto del
giornale, compie anche numerosi viaggi: tra il 1948 e il 1954 visita New York, la Bretagna, Parigi, Barcellona
e la Normandia.

Nel 1948 si reca a Londra e vi conosce il poeta Thomas Stearns Eliot.

Nel 1961 Montale riceve la laurea in lettere ad honorem dall'università di Milano, a cui seguono quella di
Cambridge e Basilea, e, nel 1962, il premio internazionale Feltrinelli dell'Accademia dei Lincei.
Nel 1967 il presidente della Repubblica nomina Montale senatore a vita per gli altissimi meriti nel campo
letterario artistico.

Alla fine del novembre 1973 Montale cessa la sua collaborazione al “Corriere della Sera”.

Nel 1975, da Stoccolma, viene dato l'annuncio del conferimento del premio Nobel per la letteratura a
Montale.

IL PENSIERO E LA POETICA

Montale approda a una concezione della poesia che congiunge la linea della lirica italiana più alta con la
grande letteratura europea moderna.

Egli trova, nella sua poetica, una voce alla riflessione critica sulla funzione della poesia nella società
contemporanea, senza per questo rinunciare legami profondi con la tradizione letteraria. Inoltre, sembra
che il poeta opti a una poesia come linguaggio privilegiato e d’eccezione.

In tutta l'opera montaliana, si avverte una convinta e coraggiosa difesa del senso della letteratura, in cui il
poeta ligure vede incarnati i valori più alti della civiltà, messi a rischio dalle profonde trasformazioni storico
politiche e culturali che investono l'umanità moderna.

Tra i caratteri salienti della sua produzione spicca da subito l'abbassamento di tono e di linguaggio. A questa
scelta stilistica si accompagna a una decisa predilezione per una realtà fatta di paesaggi oggetti dimessi (I
limoni, gli ossi di seppia, i fossi erbosi, le pozzanghere, le anguille) che si Lega alla polemica contro i poeti
laureati.

la poesia per Montale non è una via privilegiata verso l’assoluto, essa può esprimere solo messaggi in
negativo. ciò non comporta il Montale una rinuncia a poetare, piuttosto da essa deriva la lucida difesa del
valore etico della letteratura.

È verso la metà degli anni ‘20 che Montale giunge alla propria autonomia poetica. Il suo apprendistato
letterario si svolge a modo appartato e provinciale: egli è un autodidatta e inoltre è un assiduo
frequentatore di biblioteche pubbliche e private di Genova. In questo modo, il poeta si delimita un
territorio lirico molto personale in cui Dante, Leopardi e D'Annunzio rappresentano un'importante quadro
di riferimento.

La ricerca dell'essenziale costituirà l'obiettivo primario dell'indagine montaliana. Altro tema chiave della sua
visione e quello della coscienza: l'unica realtà data all'uomo è il dolore.

LA POETICA DELL’OGGETTO E LO STILE

Nella poesia di Montale l'esistenza del singolo si pone come specchio di una condizione universale, riflessa
e oggettivata nelle cose. Lo sguardo montaliano si ferma sulle cose cogliendone la natura essenziale e
astratta; persino la poesia si fa oggetto della propria esperienza interiore. Questa linea poetica si basa
sull'evidenza del mondo e delle cose, a cui il poeta guarda nella coscienza della sua immobilità, pur nella
speranza di trovare uno spiraglio che liberi l'uomo da un destino di impietrita sofferenza.

Il tramite fra l'uomo e gli Stati dell'essere è dunque in Montale l'oggetto. Da Thomas Stearns Eliot Mutua la
tecnica del correlativo oggettivo, in virtù della quale l'oggetto diventa un segno fisico che rimanda a una
condizione astratta dell'esistenza, una sorta di incarnazione di stati d'animo o di vita. l'oggetto, per
Montale, dà voce a una tensione verso la verità, ha una richiesta di senso che è solo cercata ma destinata a
rimanere senza esito.

La poesia di Montale non è rivoluzionaria, a differenza di quanto avviene nella poesia futurista o in
Ungaretti: la metrica montaliana presenta chiari elementi propri della tradizione e concepisce la poesia
come musicalità, spesso ottenuta con catene di iterazioni foniche. La forma primaria in Montale e la
quartina; i componimenti lunghi o medi evidenziano una derivazione dalla canzone libera di Leopardi e
dalla strofa lunga dannunziana. La versificazione è dominata dall’endecasillabo, intrecciato spesso con il
settenario. Nell'opera poetica montaliana si assiste inoltre al recupero della rima.

Nelle sue raccolte “Satura”, “Diario del ’71 e del ‘72” e “Quaderno di quattro anni” Egli si farà interprete del
logoramento e della difficoltà di esistenza della poesia nella società di massa. Il poeta annoterà così gli
avvenimenti del mondo che lo circonda e mali della società in cui vive, e ripenserà le cose della propria vita
senza più l'amarezza inconsolabile del male di vivere ma con la saggezza e lo scetticismo di chi ha molto
vissuto. Al poeta non resta che l'ironia per testimoniare il proprio distacco.

OSSI DI SEPPIA

La prima edizione degli “Ossi di seppia” esce in un momento critico per l'Italia: il fascismo. Il primo libro
montaliano risente certamente di questo clima storico e ne offre in qualche misura un'espressione intensa
e sintetica, che trova corpo nelle immagini legate alla metafora del male di vivere e della prigionia cui si
sente costretto l'io dell'opera.

L'organizzazione della raccolta è volta a dare all'insieme delle poesie è una forma compatta di libro,
attraverso cui passa una dimensione narrativa. Il primo libro montaliano è composto di varie sezioni:

1. la poesia d'apertura presenta i temi principali della raccolta.

2. segue “I limoni”, Una poesia programmatica che definisce stile e intenzioni poetiche.

3. le sezioni centrali sono costituite da liriche brevi e coese.

4. le sezioni finali presentano testi più lunghi e complessi ai quali l'autore affida il proprio messaggio e
una problematizzazione dei vari temi.

“I limoni” contiene una prima consapevole dichiarazione di poetica. Con tono prosastico ironico, Montale
prende le distanze dai “poeti laureati”. La poesia montaliana rifiuta il sublime e si appunta sulla
rappresentazione di un ambiente dimesso e quotidiano come il giardino di limoni, che fa da contesto a
vicenda di scacco e di frustrazione esistenziale.

In Montale, il rapporto di identificazione dell'io con la natura corrisponde alla sua estraneità e condanna.
Montale si riconosce nei frantumi scissi dal contesto, nei particolari espulsi dall'universale. La tematica del
detrito comporta un sentimento di scacco e di fallimento in senso esistenziale e sociale.

La terra ha nella raccolta una doppia valenza: da un lato, emblema dei sentimenti di aridità, di esilio e
solitudine; dall'altro, di quell'atteggiamento scabro ed essenziale, ascetico, stoico che si basa sulla dignità
dell'individuo e la sua capacità di resistenza al male di vivere.

La poesia degli “Ossi di seppia” è la poesia della negatività senza scampo, della necessità che stringe gli
esseri umani lasciando appena qualche spiraglio al caso e forse al prodigio. In queste poesie, il male di
vivere si manifesta con memorie leopardiane. Nell'insieme, la prima poesia montaliana esprime un'idea
della vita come prigione: l'individuo non riesce a cogliere il senso della vita, ma può solo vedere singoli
aspetti del dolore del mondo. Nasce da qui la poesia oggettuale di Montale.

LE OCCASIONI

“Le occasioni” viene pubblicata nel 1939 a Torino, presso Enaudi. Per comprendere la genesi del progetto
occorre ricordare che nel 1927 il poeta si era trasferito a Firenze dove aveva preso a frequentare
intellettuali antifascisti presso il caffè delle Giubbe Rosse. Gli anni fiorentini sono dunque anni importanti
per Montale, che dirige il Gabinetto Vieusseux e partecipa attivamente al clima culturale della città.

Montale sembra recuperare nella sua seconda raccolta la dimensione dell’allegoria dantesca, incrociandola
con l’esperienza del correlativo oggettivo di Eliot. Le moderne allegorie montaliane traducono con la loro
potente carica emblematica una domanda di significato, la cui risposta sfugge o appare solo per fulminei e
improvvisi momenti, che non restituiscono mai la pienezza del senso.

TEMI, SIGNIFICATI, STILE DELLA RACCOLTA

La poesia si cala interamente in un’ambientazione urbana. La sostituzione di una dimensione all’altra, tra le
due raccolte, allude al passaggio dallo stato naturale alla civiltà.

Il soggetto montaliano, sperimenta l’impossibilità di pervenire all’assoluto tramite il contatto con la natura,
vede riflessa nella dimensione urbana la sua condizione di disarmonia e di inautenticità. La città delle
Occasioni si rivela dunque come uno scenario infermale popolato da uomini anonimi, autonomi privi di
identità e di volto.

L’io del poeta chiama a raccolta le sue deboli forze per resistere a questo processo di graduale e
inarrestabile spersonalizzazione, e per tentare l’ultima estrema difesa dei valori della civiltà umanistica e
della letteratura.

Ma la dimensione urbana nella seconda raccolta di Montale non ha solo valenze negative e inquietanti.
Infatti, la città umanistica (Firenze) può ancora celare tracce di quei miti culturali che vanno difesi e tutelati:
di qui la costante dialettica di luce-buio e di spazi esterni-spazi interni su cui si strutturano molte liriche.

Spesso a questa dialettica si collega l’opposizione tra vita e morte: la vita è nella luce, nel calore e nel fuoco
che emanano dai valori della civiltà, attaccati dai messaggeri del buio della storia e della morte.

L’io del poeta non è solo. Di qui la centralità assume il rapporto con la figura femminile sullo sfondo di un
inospitale scenario cittadino. Dominano infatti i modi di un dialogo in cui il poeta si rivolge a un “Tu”, che
trasforma la raccolta in un canzoniere d’amore. Ma si tratta di un canzoniere sui generis, in cui si sviluppa
un dialogo vissuto in assenza della donna, che è ormai lontana, costretta dagli eventi della storia a partire
per rifugiarsi altrove.

La presenza femminile dominante nella raccolta è quella dell’enigmatica Clizia. Essa nasconde l’identità
storica della donna che è stata identificata in Irma Brandeis, una studiosa americana di Dante amata da
Montale.
Lo pseudonimo di Clizia rinvia al mito della ninfa che, già amante di Apollo, a causa dell’abbandono da parte
del dio, si trasformò in girasole, il fiore che segue il corso del Sole (Apollo).

Inoltre, il cognome Brandeis contiene la parola brand che in tedesco significa incendio, fiamma. Alla donna
è legato anche l’elemento del Nord rappresentato dall’inverno e dai ghiacci, la seconda parte eis significa
ghiaccio. Inoltre, a lei è connesso un movimento discendente dal cielo alla terra.

Questi aspetti fanno di Clizia una sorta di angelo visitante, una nuova Beatrice. Ma la partenza della donna
mette in discussione tutto questo e sottopone a rischio la salvezza del poeta.

La raccolta offre a Montale la possibilità di riflettere anche sulla funzione della memoria sia in chiave
privata, come garante del vissuto individuale, sia in chiave pubblica, come tramite dei valori significativi che
si perpetuano attraverso il tempo.

L’attenzione del poeta si sofferma in particolare sulle intermittenze dei ricordi e sul recupero affidato al
soggetto. L’occasione, cioè l’insieme irripetibile di circostanze esterne che fa scattare il ricordo, rivela la
natura discontinua e selettiva della memoria.

La memoria appare associate ad aree tematiche esistenziali dominate dall’infelicità: la solitudine


dell’individuo, la precarietà del ricordo e l’assenza di comunicazione. Eppure, la memoria ha anche un
risvolto positivo, in quanto è l’unico modo in cui gli uomini possono cercare di costruirsi e di conservare
un’identità.

UMBERTO SABA
Umberto Poli, che dal 1910 assume lo pseudonimo di Umberto Saba, nasce a Trieste il 9 marzo del 1883, da
un agente di commercio veneziano e un’ebrea triestina. Il carattere difficile della madre e l’assenza del
padre, che aveva abbandonato la madre prima che lui nascesse, ne segnano in maniera negativa l’infanzia
ed il resto della vita, in cui sarà vittima di periodiche crisi depressive.  La sua formazione avviene
essenzialmente da autodidatta, attraverso la lettura di Petrarca, Alfieri, Parini ed anche di autori più
moderni come D’Annunzio e Carducci.  

Tra il 1905 e il 1906 Umberto Saba è a Firenze, dove ha rapporti molto marginali con il gruppo de La
Voce che, essenzialmente, lo respinge. Tra il periodo fiorentino e la pubblicazione della sua prima raccolta,
c’erano stati gli anni del militare ed il matrimonio con Carolina Wölfler. Nel 1912 pubblica la sua seconda
raccolta di poesie, divenuta poi nota col nome di Trieste e una donna, accolta con freddezza dalla critica;
nel frattempo legge Nietzsche e Freud, due pensatori che avranno un’influenza notevolissima sulla sua
produzione successiva. Sebbene Trieste fosse città dell’Impero austro-ungarico, Umberto Saba ha
cittadinanza italiana ed esprime posizioni fermamente interventiste.

Allo scoppio della guerra viene chiamato alle armi per il Regio esercito ed opera in diverse funzioni ma
rimanendo sempre nelle retrovie. Alla fine del conflitto ritorna a Trieste dove  acquista una libreria, e nel
1921 pubblica la prime edizione del Canzoniere. Nel 1938, anno della promulgazione delle leggi razziali
del fascismo, inizia un periodo particolarmente difficile nella vita di Saba: costretto a vendere la libreria si
trasferisce in Francia, ma ritorna a Trieste per l’inizio del secondo conflitto mondiale, che trascorre
spostandosi in varie città del nord Italia. È solo nel dopoguerra che si afferma come poeta: nel 1946
collabora con il Corriere della sera e pubblica Scorciatoie e raccontini, una raccolta di prose che gli vale
il Premio Viareggio, e nel 1948 pubblica la terza edizione del Canzoniere. Gli anni ’50 sono segnati
dall’acuirsi delle sue crisi depressive, per le quali decide di farsi ricoverare in clinica. Queste crisi, e
la malattia della moglie ne segnano dolorosamente gli ultimi anni di vita. Umberto Saba si spegne a Gorizia
nell’agosto del 1957.

POETICA
L’elemento biografico che più influisce sulla poesia di Saba è la nascita a Trieste, nella periferia geografica
dello Stato Italiano. Essa determina una formazione intellettuale dai tratti periferici e anomali rispetto al
resto della penisola, ma proprio la sua marginalità mette in condizione il poeta di accogliere aspetti ed
esperienze della nuova cultura europea e mitteleuropea. Trieste resta estranea o quasi ai fenomeni letterari
che contraddistinguono il primo Novecento italiano, mentre è influenzata dalle suggestioni letterarie che
provengono da Franz Kafka e James Joyce.

La poesia di Saba è ispirata al canone formale della tradizione e non entra nel dibattito culturale prevalente
nella prima metà del secolo. Questa “linea sabiana” viene detta anche anti-novecentesca, proprio per la
tendenza a recuperare modi linguistici e stilistici precedenti. Una fonte stilistica importante per la poesia di
Saba è sicuramente la tradizione lirica italiana, da Petrarca a Leopardi fino al d’Annunzio paradisiaco.
Centrale è poi la frequentazione del pensiero di Friedrich Nietzsche di cui Saba conosce le opere: Aurora e
Umano e Troppo umano.

Con l’opera “Quello che resta da fare dei poeti”, il giovane Saba esprime una concezione della poesia
lontana dall’estetismo e dal superomismo dannunziano, così come della furia eversiva dei futuristi e della
poesia mesta dei crepuscolari. Celebre frase di Saba è appunto: “Ai poeti resta da fare la poesia onesta”. La
poesia onesta, che è la vera, autentica poesia, è quindi strumento di scavo interiore per superare le
ambiguità e le doppiezze dell’apparenza e arrivare al nucleo importante elle cose e dei sentimenti.

Dal filosofo tedesco Nietzsche il poeta apprende il metodo dell’aforisma, che chiama “scorciatoia”. L’opera
del filosofo tedesco fornisce inoltre al poeta triestino anche vari concetti e strumenti di penetrazione
psicologica: la vita è per tutti gli esseri viventi essenzialmente un nodo di amore e dolore, bisogno di essere
amati e capacità di soffrire. La poesia richiede un preciso impegno morale e la chiarezza è parte di tale
impegno.

IL CANZONIERE

Il primo dei vari canzonieri, uscito nel 1921, appare come il capitolo iniziale di un progetto vasto e
totalizzante, un testo concepito come una sorta di “Romanzo”, di libro totale. Il Canzoniere non si limita,
infatti, a riproporre in serie le poesie che il poeta triestino pubblica negli anni in riviste o raccolte, ma si
sforza di integrare tutte queste parti in una nuova costruzione, in una forma di libro che ha i suoi pilastri
nelle parti cronologiche che il poeta chiama volumi. Nella costruzione dell’opera-macrotesto, vi è una cura
particolare agli equilibri numerici, alle simmetrie e alle rispondenze interne (L’impiego delle strutture
chiuse).

Due opposte tendenze rivelano un’ambivalenza mai risolta: da un lato, l’aderenza alla realtà biografica
abolisce ogni astratta tensione verso un ideale di purezza lirica; dall’altro, la vicinanza sul piano linguistico e
metrico alla tradizione, soprattutto Petrarca e Leopardi, portano verso un’estrema letterarietà. Dal punto di
vista della metrica Il Canzoniere si presenta come un’opera fortemente omogenea e coerente:
versificazione regolare che si basa sulle misure canoniche della tradizione italiana e sul valore della rima.

CESARE PAVESE
Nasce a Santo Stefano Belbo 1908, nel 1926 si iscrive a Torino alla facoltà di lettere, nel 1930 si laurea con
la tesi sul poeta americano Walt Whitman. Nel 1935 viene arrestato, perché teneva delle lettere di
opposizione al regime Fascista. Durante il suo arresto scrive il diario “Il mestiere di vivere”, che verrà
pubblicato nel 1952.

Esce di prigione nel 1936 e inizia l’attività di traduzione e composizione narrativa. Dopo l’armistizio dell’8
settembre si rifugia nel Monferrato, per evitare di venir nuovamente arrestato.

Nel 1941 c’è il suo esordio con il romanzo “I paesi tuoi” pubblicato da Einaudi.
Un importante fatto che segna la vita del poeta è la fine della guerra, l’autore si impegna per restaurare la
sede dell’Einaudi e ne stabilisce un’altra a Roma. In questo periodo è importante anche la relazione tra
Pavese e Bianca Garufi per la quale scrive dei versi pubblicati nel 1947 intitolati “La terra e la morte”. In
quell’anno pubblica anche “Il compagno” e “i Dialoghi con Leucò”.

Per saldare un impegno politico entra nel Partito Comunista.

Nel 1948 avvia la collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici, progettata con il filosofo e antropologo
Ernesto de Martino, e pubblica sotto il titolo “Prima che il gallo canti” i romanzi Il carcere e La casa in
collina. L'anno seguente è invece la volta de La bella estate.

Sempre nel 1950 esce presso Einaudi “La luna e i falò”, compendio dei temi e dello stile tipici di Pavese.
Nell'agosto l'autore si uccide a Torino.

IL PENSIERO E LA POETICA

Il modo disincantato di spiegare le contraddizioni dell’impegno politico, che si intreccia con una sorta di
disagio esistenziale è stato il fattore principale grazie al quale Pavese fu uno degli autori più letti del
dopoguerra. Questi aspetti però hanno anche portato a far considerare questo autore un autore
neorealistico-adolescenziale.

Nonostante fosse uno degli autori più celebri del suo momento, Pavese sceglie di rimanere sempre nella
sua solitudine, caratteristica non solo tipica dei suoi romanzi, come “Lavorare stanca” o “La casa sulla
collina” ma anche della sua vita privata. Nel romanzo “Lavorare stanca”, Pavese decide di utilizzare il verso
lungo e uno stile di poesia-racconto, opponendo la sobrietà stilistica alla retorica.

Grazie all'eccezionalità dei suoi interessi intellettuali Pavese, nonostante il suo isolamento, contribuisce non
poco allo svecchiamento della cultura italiana. Questo impegno viene da lui perseguito con instancabile
lucidità critica negli anni in cui è direttore editoriale di Einaudi. Insieme con Vittorini e la sua antologia
“Americana” 1941, Pavese contribuisce in modo decisivo alla diffusione in Italia della cultura e della
letteratura dell'America del Nord, spesso vista come giovane mondo, quasi mitico, portatore di ideali di
libertà e vitalismo.

Pavese e Ernesto de Martino iniziarono a scriversi e a discutere del progetto di una collana editoriale.
Argomento dei loro fitti scambi è quella che prenderà il nome di «Collezione di studi religiosi, etnologici e
psicologici» dell’editore Einaudi, la «collana viola» che ebbe il merito di introdurre in Italia scienze fino
allora pressoché sconosciute: l’etnologia e la storia delle religioni, la psicologia religiosa e lo studio dei
dislivelli culturali. La collana fu un successo, ma fu anche motivo di scandalo.

Pavese espone la sua ideologia politica nel 1946 sulle colonne dell’Unità, organo di stampa del partito
Comunista, in essi si può vedere il rapporto della cultura con il potere e le masse e il ruolo degli intellettuali
nel comunismo. Secondo pavese un intellettuale non deve solamente avere ruolo nella militanza in un
partito o nell’esporre l’ideologia di un partito, ma deve riconoscere la comunanza con gli uomini di ogni
condizione, sulla base della comune umanità. L’intellettuale, secondo pavese quindi non deve andare verso
il popolo ma deve esserlo.

IL MITO, IL SIMBOLO E LA REALTA’

Pavese riconosce una coincidenza tra il mito personale, la storia di un singolo individuo, e un mito
antropologico, che è connesso alle esperienze razionali dell’età primitiva dell’uomo. Entrambi si basano
sull’esperienza di un contatto con il mistero, il selvaggio.

C’è una relazione tra mito e poesia, in quanto alla radice dell’espressione poetica c’è il mito, del quale ne
vengono neutralizzate le forme irrazionali attraverso l’operazione razionale della poesia. In questo senso
viene teorizzata la funzione del simbolo che rimanda a una realtà altra, sotterranea, per questo parla di una
necessità della presenza di un ritmo, cioè una pulsazione nascosta che si percepisca dall’inizio alla fine. Il
ritmo può essere realizzato attraverso ricorrenze di immagini, situazioni, gesti o parole.

IL MITO PER PAVESE

All’interno del mito pavese riconosce un valore conoscitivo riportandolo a una dimensione etica, perduta
con d’Annunzio, il quale attribuisce al mito un valore estetico. Il mito quindi rappresenta una forma di
conoscenza più autentica di quella razionale. strettamente connessa è la riflessione sull’infanzia, intesa
come infanzia dell’individuo, scoperta dei luoghi sacri, e del mondo, esperienze irrazionali, dimensione
antropologica.

Il contatto con il mito dell’infanzia è reso possibile dalla memoria che permette un ritorno alla dimensione
originaria e rende attivo il valore conoscitivo del mito. (conoscere è il riconoscere).

L’infanzia si contrappone alla maturità, un altro tema centrale in Pavese. E per molti personaggi pavesiani è
difficile fare i conti con la maturità, poiché tentano di sottrarsi alla storia attraverso l’isolamento.

Secondo pavese c’è una relazione tra infanzia e campagna, rappresentata come collina, che è il luogo di
origine e di salvezza connesso con la ciclicità eterna della natura. La natura ha un volto ambiguo in Pavese,
perché la campagna è anche il luogo della sessualità primigenia e violenta. Campagna vs città, non è uno
scontro diretto. La città è un complemento della campagna, però con la perdita dell’innocenza infantile
primigenia. la loro opposizione esiste solo in funzione della storia.

Campagna: città = infanzia: maturità

REALISMO MITICO

Il realismo per Pavese non è una scelta poetica ma di firma, che nasce dalla volontà di rifare la vita e di
riprodurre una forma naturale propria del mito e ciò che rende mitiche le storie è la possibilità di scoprirvi
un destino, ovvero qualcosa di prefissato pur non sembrando tale. È quindi necessario ridurre gli uomini a
destino (centro della storia) e bisogna anche ricreare miti moderni con il materiale contemporaneo, questo
si intende con realismo mitico.

PIER PAOLO PASOLINI


Pier Paolo Pasolini nasce a Bologna il 5 marzo 1922, il padre era un tenente di fanteria e la madre una
maestra delle elementari, la famiglia vive spostandosi costantemente e il suo unico punto di riferimento
rimane Casarsa, luogo che diventerà nella poesia dell’autore un oggetto di desiderio reale e simbolico.
Pasolini vive un rapporto simbiotico con la madre e, al contrario, un rapporto conflittuale col padre. Dalle
elementari ottiene il passaggio al ginnasio di Conegliano e, in questi anni, fonda insieme a dei compagni un
gruppo letterario per parlare di poesie. A soli 17 anni Pier Paolo ha già finito il liceo e si iscrive alla facoltà di
lettere dell’Università di Bologna. Arriva il momento della Seconda Guerra Mondiale, periodo veramente
difficile per lo scrittore. Egli viene arruolato sotto le armi a Livorno nel 1943 ma, l’8 settembre, fugge dopo
aver disobbedito all’ordine di consegnare le armi ai tedeschi. Dopo essere stato un po’ in giro per tutta
Italia, torna a Casarsa. Con la famiglia si sposta a Versuta, al di là del Tagliamento, perché è un luogo meno
esposto ai bombardamenti. Qui insegna ai ragazzi dei primi anni del ginnasio, ma quegli anni saranno
segnati dalla morte del fratello Guido, massacrato in guerra dai garibaldini. La sua famiglia saprà della
morte e delle circostanze solo a guerra finita. Nel 1945 Pasolini si laurea discutendo la sua tesi dal titolo
“Antologia della lirica Pascoliniana” e va a vivere definitivamente in Friuli.

Comincia in questi anni la sua militanza politica, con la sua iscrizione al PCI nel 1947. A partire dal 1949
viene travolto da una trafila giudiziaria che parte con un processo per corruzione di minore. Sarà per lui
umiliante, negli anni, essere oggetto di vari procedimenti che cambieranno per sempre la sua vita. Per
l’accusa che subisce Pier Paolo perde tutto: viene espulso dal PCI, perdendo anche il posto di insegnate e
incrinando momentaneamente il rapporto con la madre. A quel punto, insieme alla madre, Pasolini fugge
da Casarsa per trasferirsi a Roma. I primi anni a Roma sono difficili, segnati da povertà, solitudine e
insicurezza, dato l’ambiente molto diverso delle borgate romane. Pasolini prova a trovare lavoro con le sue
forze, senza chiedere aiuto ai letterati che conosce, e arriva alla strada del cinema. Ottiene così una parte di
generico a Cinecittà, fa il correttore di bozze e vende i suoi libri alle bancarelle rionali. Grazie al poeta Vittori
Clemente, finalmente Pasolini trova un posto come insegnante in una scuola di Ciampino. Sono questi gli
anni in cui nasce il mito del sottoproletariato romano, scaturito dalla penna di Pasolini che cambia cornice
alle sue opere e dalla campagna friulana passa alle disordinate borgate romane. In questo periodo prepara
le antologie sulla sua poesia dialettale, dove pubblica la prima versione del primo capitolo di Ragazzi di vita.
A quel punto la vita a Roma comincia a sorridergli e Angioletti lo chiama a far parte della sezione letteraria
del giornale radio. Risale al 1955 la pubblicazione del romanzo Ragazzi di vita con Garzanti.

Il successo è vasto, sia da parte del pubblico che da parte della critica. Chi giudica male il suo operato sono
gli intellettuali di sinistra, in particolare il PCI. Il romanzo, che per un anno viene tolto dalle librerie, viene
dissequestrato. Pasolini, però, diventa bersaglio anche per la cronaca nera, che lo accusa dei reati più
assurdi, dalla rapina al favoreggiamento per rissa. Il suo primo film come regista e soggettista risale al 1961
ed è Accattone. Vietato ai minori di 18 anni, il film suscita polemiche alla XXII mostra del cinema di Venezia.
Dal ’64 al ’75 Pasolini dirige moltissime pellicole, praticamente una all’anno, ottenendo moltissimo
successo. Anche negli anni ’70, i famosi anni delle rivoluzioni studentesche, Pasolini assume una posizione
inedita, diversa da quella di tanti altri intellettuali di sinistra. Seppur accettando e appoggiando le
motivazioni dietro le rivolte studentesche, ritiene questi ragazzi antropologicamente dei borghesi e, proprio
per questo, destinati già a fallire nelle loro aspirazioni di rivoluzione.

Il 2 novembre 1975, sul litorale romano ad Ostia, più precisamente in un campo incolto, una donna scopre il
cadavere di un uomo. Ninetto Davoli riconoscerà in lui Pierpaolo Pasolini. Dell’omicidio verrà accusato Piero
Pelosi, giovane che racconta di essere stato adescato da Pasolini alla stazione Termini di Roma, portato a
cena e poi nel luogo di ritrovamento del cadavere. Secondo la sua versione, Pasolini avrebbe tentato un
approccio di tipo sessuale e, vedendosi respinto, avrebbe reagito in maniera violenta causando la reazione
del ragazzo. Pier Paolo Pasolini muore quindi assassinato il 2 novembre 1975, a 53 anni.

POETICA

Nelle opere di Pier Paolo Pasolini è evidente la tristezza di uomo moderno che si affanna nella ricerca della
verità. Estremamente critico verso la società del suo tempo, Pasolini disse che “a un inferno medievale con
le vecchie pene si contrappone un inferno neocapitalistico”. Nel suo ultimo film, Salò e le ultime giornate di
Sodoma (1975), si nota che qualsiasi speranza è tramontata e che la violenza, la distruzione e la morte
prevalgono. Sempre molto apprezzati dai giovani sono Ragazzi di vita e Una vita violenta, romanzi in cui
Pasolini ha utilizzato un linguaggio tutto suo, a metà tra il gergo e il dialetto. In entrambi i libri i protagonisti
sono i giovani di borgata e il loro mondo viene descritto con estrema precisione, quasi si trattasse di un
documentario, e con un amore spassionato. Pasolini è affascinato dal fare anarchico di questi ragazzi, dal
loro seguire impulsi e istinti sottraendosi alle regole. Lo stile di Pier Paolo Pasolini è sempre, qualsiasi sia la
forma che assumano le sue opere, incisivo e provocatorio. Col suo lavoro Pasolini mira ad accentuare gli
aspetti più amari e crudi della vita, arrivando a metterne in evidenza anche gli aspetti repellenti, spesso. A
tratti comico, più spesso drammatico. Alla base della sua poetica c’è un nuovo modo di rapportarsi alla
tradizione; Pasolini cerca, infatti, di allontanarsi e differenziarsi dalla poetica che andava al tempo, con
elementi liricheggianti nel linguaggio uniti all’ermetismo. L’autore preferisce utilizzare strumenti stilistici
pre-novecenteschi, più vicini alla lingua quotidiana allo scopo di ridare razionalità al discorso poetico.

RAGAZZI DI VITA
Il romanzo è composto di otto capitoli attraverso i quali non emerge una vicenda né la storia di un solo
personaggio, ma la rappresentazione della vita del sottoproletariato delle borgate romane. Essi raccontano
la vita di un gruppo di ragazzi di Pietralata, quartiere dell’infernale periferia romana degli anni ’50. Il
Riccetto, Marcello, Alduccio, il Caciotta, il Lenzetta, Genesio, il Begalone, il Pistoletta sono i “ragazzi di vita”.

Nel 1955 esce Ragazzi di vita di Pier Paolo Pasolini, romanzo sul mondo delle borgate e i quartieri periferici
di Roma. Pasolini inizia a lavorare al libro fin dal suo arrivo nella Capitale nel 1950: visita le borgate,
frequenta i ragazzi che le abitano e studia i loro comportamenti e abitudini. Lo scrittore si appassiona a
questo mondo periferico, che, a suo parere, conserva ancora l’autenticità del mondo rurale, semplice e
sotto certi aspetti primitivo, non ancora corrotto dal consumismo. Ciò che emerge dal romanzo è una realtà
degradata, allo stesso tempo vitale, in cui i personaggi agiscono spinti dall’istinto e dalle passioni.
Protagonisti del racconto pasoliniano sono i ragazzi del titolo, abitanti delle borgate, abituati a vivere di
sotterfugi ed espedienti più o meno legali in questo mondo povero, caotico, in cui non esistono punti di
riferimento (come la famiglia o la scuola) e dove ogni giorno i protagonisti devono confrontarsi con la noia,
la miseria e la morte. Le vicende, ambientate nell’immediato dopoguerra, ruotano soprattutto intorno a
uno di questi ragazzi, Riccetto, di cui l’autore segue la crescita e il suo tentativo di inserirsi e integrarsi nella
società. L’opera è costruita ad episodi in un arco narrativo che parte con il salvataggio da parte del giovane
Riccetto di una rondine che sta annegando e si conclude con l’annegamento di Genesio, un bambino delle
borgate, e con il mancato intervento del protagonista, ormai adulto e responsabilizzato. Pasolini evidenzia
così l’evoluzione di questo personaggio da ragazzino delle borgate sensibile e impulsivo a uomo integrato,
ma intrappolato nel ruolo impostogli dalla società, ormai vuoto e privo di passioni. Pasolini rappresenta
questo mondo con estremo realismo, i cui migliori esiti si riscontrano sul piano linguistico. L’autore infatti
sceglie di utilizzare nei dialoghi il lessico e il gergo delle borgate, mentre la voce narrante mantiene
l’italiano standard, caratterizzato da aggettivi volti ad evidenziare l’ambiente degradato. Questa scelta
linguistica da un lato appare come la volontà dell’autore di creare un’opera realistica e quasi documentaria,
ma dall’altro - come hanno notato diversi critici - può sembrare un gioco linguistico di Pasolini, in cui
mettere in campo i suoi interessi per i dialetti e i suoi studi sulla lingua popolare.

SCRITTI CORSARI

Scritti corsari è una raccolta di articoli che Pierpaolo Pasolini scrisse per vari giornali tra il 1973 e il 1975, che
tra recensioni di libri di diversi autori, critiche e brevi saggi rappresentano una base testuale della filosofia
dell’autore. Temi importanti di questi articoli che presentano il pensiero dell’autore sono principalmente: la
società dei consumi italiana post seconda guerra mondiale e il suo degrado culturale, fascismo e
antifascismo, le riforme dell’aborto e del divorzio.

Nonostante si definisca come intellettuale, in questi articoli Pasolini spiega anche una teoria politica circa la
destra e la sinistra, riferendosi ai principali partiti del tempo, e la loro omologazione. Secondo lo scrittore,
infatti, gli italiani non possono più definirsi liberi: la società consumistica sviluppatosi negli ultimi decenni ha
creato delle catene ideologiche che in un modo o nell’altro tengono tutti prigionieri.

La società di massa ha trasformato quel che era di sinistra in qualche era di destra, e viceversa: la ribellione
verso la società attuale non è altro che un riflesso della cultura stessa nei limiti che essa ci pone. Ciò che
una volta era visto come rivoluzionario e negativo oggi è visto come alternativo e positivo; rivoluzionario e
alternativo erano da considerarsi infatti come comportamenti tipici di sinistra, ma questa forma di
ribellione verso la società di destra non è altro che è un prodotto della società contemporanea stessa, che
ne fa una moda e li rende di destra.

Una rivoluzione politica, oltre che ideologica, era in quel periodo in atto: le classi operaie venivano attratte,
attraverso la cultura di massa e l’innovazione tecnologica, dai partiti di destra, nonostante questi volessero
comunque difendere le istituzioni e l’ambiente politico da questi. Allo stesso tempo, anche l’”io” stava
subendo dei mutamenti dovuti alla società di massa e pensieri, opinioni, sogni, venivano influenzati da
questa: dal momento che si può interiorizzare solo ciò che è esteriore, anche quando all’uomo sembrasse
di perdersi nei suoi pensieri, di fantasticare, in realtà non stava che interiorizzando i prodotti della società
consumistica. Non esiste un vero io, né tantomeno un rapporto uomo natura.

ITALO CALVINO
Nasce nel 1923 a cuba. Ha una cultura scientifica laica e antifascista. Si iscrive alla facoltà di agraria di
Torino, in seguito si sposta a Firenze. Presso la casa editrice Einaudi pubblica la sua prima opera, il Sentiero
dei nidi di ragno nel 1947 dedicato al tema della resistenza. Gli anni 50 sono dedicati al conseguimento di
un equilibrio tra realismo e mondo fiabesco. Scrive i primi romanzi di orientamento realista: la formica, la
nuvola di smog (coglie la tradizione della società capitalistica), la speculazione edilizia. In essi domina il
grigiore della vita cittadina immersa nell’inquinamento e nella cementificazione e una certa sfiducia
politica. Emergono temi ecologisti. Dopo la repressione dei regimi sovietici si iscrive al PCI. Questo è un
periodo di crisi creativa, in cui affiora la nuova vena fiabesca-fantastica, che si manifesta nella trilogia degli
antenati (Visconte dimezzato, barone rampante, cavaliere inesistente). Gli anni 60 sono segnati dalle
collaborazioni a riviste e dalle partecipazioni a conferenze. Calvino sta elaborando nuove vie di
trasfigurazione letteraria, capace di essere una reazione razionale e ordinatrice della complessità labirintica
del mondo contemporaneo. Nel 1967 inizia la fase parigina ed entra a far parte dell’Oulipo, un gruppo di
scrittori in cui si celebra l’incontro tra matematica e letteratura. È un laboratorio di scrittura potenziale in
cui viene sperimentata la letteratura combinatoria, nella quale vengono utilizzati gli strumenti delle scienze
esatte come metodo di indagine e rappresentazione.

Questo gruppo mira alla creazione letteraria attraverso una scrittura vincolata e il vincolo è spesso di natura
matematica o geometrica, specialmente nell’impostazione della struttura del testo.

Da questa esperienza nascono: Le città invisibili, I castelli dei destini incrociati e Se una notte d’inverno un
viaggiatore.

Negli anni 80 si trasferisce a Roma dove collabora con Rizzoli ed Einaudi, nel 1983 pubblica Palomar. Muore
nel 1985 per un ictus e nel ’88viene pubblicato le Lezioni americane.

POETICA

Calvino nel suo percorso artistico possiede un’intima coerenza, determinata dal perdurare di orientamenti
intellettuali e morali. La letteratura rappresenta un mezzo di conoscenza del mondo tentando di
organizzare ordinatamente le informazioni su di esso. Calvino mette in rapporto i piani della realtà e della
letteratura, in uno sforzo di comprensione e rappresentazione di una realtà mutevole.

Nella sua produzione esistono 4 fasi: fase realistico-fiabesca, fase di riflessione degli anni ’60, fase
metanarrativa, fase finale caratterizzata dalla riflessione sulla propria esperienza di uomo intellettuale. È
diffidente nei confronti di una letteratura che esprima il piano personale dell’esperienza, ovvero di un io
troppo ingombrante. Questo orientamento lo spingerà a ricercare sempre ragioni di utilità extra individuale
dell’attività umana. Sceglie quindi la via oggettiva del realismo, intesa come ricerca di stile e di forma,
nell’urgenza di conferire un sapore di verità a una rappresentazione in cui doveva riconoscersi il vasto
mondo. Si distanzia dalla fase degli anni ’50, di orientamento stilistico neorealista, in quanto risultava
essere forse troppo vicina al punto di vista del narratore: l’io dell’autore rischiava di emergere in modo
esplicito, rischiando di rimanere coinvolto nella materia della narrazione. In sostanza mancava la presa di
distanza dalle cose, che permette di osservarle con maggior chiarezza. Calvio appare poco incline alla
scrittura dell’io, per lui l’individuo è solo una parte del tutto, e la sua storia vale solo in un mosaico di
rapporti, in grado di esprimere la molteplicità del reale e di portare messaggi universali. Da questo deriva il
suo rapporto nevrotico con l’autobiografismo. Nonostante ciò negli ultimi anni ha alcuni ripensamenti
evidenti in Palomar, chiaro alter ego di Calvino. Egli riflette sul fatto che non possiamo conoscere l’universo
senza contemplare prima ciò che abbiamo imparato a conoscere in noi.

La tendenza alla frammentazione analitica rivela all’uomo la natura complessa del mondo, difficile da
comprendere, ma soprattutto da spiegare. Le opere della fase di produzione dell’Oulipo obbediscono a un
principio fondato su frammenti separati e autonomi, sui quali interviene la razionalità ordinatrice
dell’autore, che ricombina gli elementi in una cornice, tentando di imporre un ordine razionale a ciò che
sembra non averne. Il labirinto, per calvino è fatto affinché chi entra si perda ed erri. Ma il labirinto
costituisce una sfida per il visitatore, il quale ne deve ricostruire il piano. Attraverso la letteratura, quindi
Calvino propone una sfida al labirinto. La vittoria su di esso non sarà mai definitiva: non si può pretendere
che la letteratura fornisca la mappa che consenta di uscire dal labirinto, ma essa può definire
l’atteggiamento da prendere per provare a uscirne. Il tema del labirinto è emblematico nella produzione di
Calvino ed è l’immagine di una complessità indistricabile, nella quale il pensiero umano si smarrisce.
Tuttavia la struttura del labirinto è un esempio di logica e organizzazione, che possono essere comprese
solo attraverso uno sguardo esterno e distaccato. Nasce così la sfida al labirinto come impegno di natura
etica affidato allo scrittore e all’intellettuale, che si assumono il compito di individuare nella letteratura uno
strumento di comprensione della realtà, per riconoscere l’ordine superiore alla complessità e al caos del
mondo.

Affinché la letteratura possa compiere la sua funzione morale è decisivo il ruolo del lettore. Infatti in Se una
notte di inverno un viaggiatore c’è un tentativo di coinvolgere il lettore nel processo della creazione
letteraria. In quest’opera Calvino compie un’operazione meta-narrativa, costruendo un libro che riflette su
sé stesso.

Calvino indica nelle lezioni americane i valori che solo la letteratura è in grado di incarnare: eredità e pro
memoria. Antidoto alla pesantezza del vivere, la letteratura è il luogo in cui realtà opposte possono
convivere senza rinunciare alla propria specificità. È uno spazio che protegge l’uomo dall’omologazione e
dall’appiattimento, poiché la funzione della letteratura è quella di esaltare le differenze. Inoltre un’altra
capacità della letteratura è quella di saper tenere insieme la frammentarietà del mondo, e dunque essere in
grado di accettare la sfida di rappresentare l’universo. La letteratura come visione del mondo è necessaria
poiché riesce a contrastare le forze che opprimono l’uomo (letteratura come slancio antigravitazionale).

ELIO VITTORINI
1908-1966. Curiosità intellettuale, passione civile e politica sono tratti della sua personalità. Adesione al
fascismo di sinistra da giovane, dopo la guerra civile in Spagna (1936) si avvicina al partito comunista. 1938
sulla rivista “Lettura” esce “conversazioni in Sicilia” dove i temi centrali sono il ritorno alle origini, il viaggio,
e lo sdegno per il mondo offeso degli oppressi. Nel 1945 “uomini e no” romanzo della resistenza e della
ritrovata fiducia nel ruolo attivo dell'intellettuale, secondo il titolo: da una parte ci stanno gli uomini che si
battono con dignità e per la libertà e dall'altra i non uomini, oppressori, i tedeschi feroci. 1945/47 dirige la
rivista “il politecnico” teatro di una polemica tra Vittorini e il segretario del ripartito comunista Palmiro
Togliatti. 1950 Dirige con Calvino la rivista “il Menabó”.

Tono lirico, simbolico e a tratti surreale

BEPPE FENOGLIO
Nasce ad Alba nel 1922. Studioso di letteratura inglese infatti è un traduttore. Si arruola tra i partigiani.
1952 raccolta de “i ventitré giorni della città di alba”. 1959 “Primavera di bellezza”. Muore a Torino il 1963.

L’opera Fenogliana ha due grandi temi: l’ambiente contadino delle Langhe e la guerra partigiana. I
personaggi sono passionali e violenti e raccontati con oggettività.
Romanzi del filone resistenziale: Il partigiano Johnny, una questione privata, Primavera di bellezza, hanno i
protagonisti con caratteristiche comuni: sono proiezioni dell'autore che vivono la resistenza come
avventura umana nel suo significato più ampio. La guerra è concepita come metafora della violenza della
vita da cui l’umanità cerca di difendersi.

Il partigiano Johnny: esce postumo nel 1968. Il romanzo si incontra sulla figura del solitario Johnny che vive
la sua vita senza illusioni e senza retorica. Tradizione della memorialistica tipica dell’epoca e della tradizione
epica. I ridiamo linguistico, viene usato l'inglese per sottrarsi al monolinguismo.

SALVATORE QUASIMODO
Nato nel 1901 a Modica, in provincia di Ragusa, da modesta famiglia, Quasimodo trascorre l’infanzia in
Sicilia. Nel 1929 si stabilisce a Firenze su invito del cognato Elio Vittorini: lì entra a far parte del gruppo di
“Solaria” e conosce Eugenio Montale. Nel 1930 pubblica per le Edizioni di Solaria la sua raccolta d’esordio,
Acque e Terre. Nel 1938 esce la sua prima raccolta riassuntiva delle Poesie. Nel 1940 pubblica la traduzione
dei Lirici Greci e l’anno seguente ottiene per “chiara fama” la cattedra di Letteratura Italiana al
Conservatorio di Milano. Gli anni seguenti segnano un mutamento netto della sua poesia, contrassegnata
dall’impegno e dalle tematiche della guerra e della resistenza, di cui reca testimonianza nel libro: Giorno
dopo Giorno. A partire dagli anni ’50 guadagna numerosi riconoscimenti, fino ad arrivare al premio Nobel
nel 1959. Muore a Napoli nel 1968.

La poesia di Quasimodo appare intessuta soprattutto di ricordi fissati nel paesaggio siciliano, luogo
d’infanzia e insieme mito di una primitiva innocenza e perduta comunione con le cose. Questa sua prima
fase poetica costituisce uno dei momenti più alti dell’ermetismo. Si tratta di una poesia fondata sul valore
assoluto della parola, sulla musicalità e sul fluire della memoria. Nel dopoguerra a partire da Giorno dopo
giorno, irrompe nella poesia l’esperienza dolorosa della guerra. Questa nuova fase della sua attività poetica
vede il netto prevalere dell’impegno civile, etico-politico, non senza accenti retorici e fondato sulla ripresa
di moduli tradizionali. Quasimodo mantiene intatta l’ambizione di essere il cantore dell’umano sentimento
e così le sue meditazioni esistenziali si arricchiscono dell’apertura al dolore degli altri uomini. Egli sente il
bisogno di sperare nel futuro e di collaborare, con i valori eterni della poesia, a “rifare l’uomo”. L’opera di
Quasimodo appare oggi meno fondativa per la poesia novecentesca di quella di Ungaretti e Montale: la sua
fortuna critica come poeta è stata sostituita, negli anni, da un maggiore apprezzamento per i suoi lavori di
traduzione.

PRIMO LEVI
Nato a Torino nel 1919 da famiglia ebrea piemontese. Venne arrestato dalla milizia fascista nel 1943 e
portato al campo di concentramento di Fossoli da dove poi viene deportato in Germania. Tornato in patria
scrive “Se questo è un uomo” pubblicato nel 1947. Muore suicida nel 1987 a Torino.

Aveva una grande formazione scientifica di chimico.

Due tipi di opere: quelle conservate in onore dell'olocausto e i testi che si riconnettono alla mentalità
scientifica, alla fiducia nel lavoro e alla libertà creativa.

“Se questo è un uomo” motivi per cui l’ha scritto: bisogno di raccontare gli orrori di Auschwitz,
documentare l'esperienza, mostrare come prevenire le conseguenze del razzismo, meditare sul
comportamento umano, raccontare per liberarsi dell’ossessione. Nel testo si alternano ricordo e racconto,
emotività e valutazione, l’autore da un’interpretazione personale.

Potrebbero piacerti anche