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GIACOMO LEOPARDI – LA VITA

Giacomo Leopardi nacque nel 1798 Recanati, uno degli stati italiani più arretrati e chiusi dell’epoca che faceva parte
dello stato pontificio. Equi fu il primogenito di una nobile famiglia in difficoltà economiche. Il padre Monaldo era un
uomo colto ma di idee conservatrici, non riuscì a comprendere le aspirazioni dei figli. La madre era una donna severa
e bigotta, che considerava la bellezza come una disgrazia e vedendo il figlio brutto e deforme ringraziava dio. Non lo
aiutava a nascondere i difetti, anzi pretendeva che in vista di essi rinunciasse alla vita nella sua gioventù, ed era
contraria al suo successo. Il giovane Giacomo era di salute cagionevole e venne educato da istituti privati senza avere
altri contatti con il mondo esterno. A 10 anni continuò a studiare da solo attingendo alla ricca biblioteca paterna. I 7
anni successivi furono come scrisse lui stesso anni di “studio matto e disperatissimo”: un’attività intellettuale
instancabile, durante la quale scrisse molti saggi e traduzioni di opere greche e latine, ma che gli rovinò la salute,
provocandogli una deviazione alla spina dorsale e la malattia agli occhi. A 17 anni riemerse dalla biblioteca di casa
con un’erudizione vastissima e il desiderio di vivere esperienze intellettuali più stimolanti al di fuori di Recanati, dove
si sentiva solo e incompreso. Il legame con Recanati, amata e odiata allo stesso tempo, è un tema ricorrente nelle
sue opere. Fu proprio a Recanati che compose lo Zibaldone (un diario di pensieri e riflessioni filosofiche) e alcune
delle sue poesie come L’infinito e Alla luna. Nel 1822 ottenne il permesso dal padre di Recarsi a Roma. Il viaggio così
tanto atteso però si rivela una delusione. Rientrato a recanati cominciò a comporre le Operette Morali. Tra il 1825/28
ottenne uno stipendio mensile da una casa editrice come esperto letterario. Lasciò nuovamente Recanati e si Recò a
Milano, Bologna, Firenze e Pisa. A Bologna egli intreccia una prima relazione con una bionda contessa, Teresa
Molvezzi. Fu un esperienza vissuta e concreta, con una lunga infatuazione ma che finì con l’umiliazione e il rifiuto. Le
sue condizioni si aggravarono e dovette ritornare a Recanati dove rimase fino al 1830 in solitudine. In questo periodo
scrisse La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, Il passero Solitario. Nello stesso anno lasciò
definitivamente la terra natale e si recò prima a Firenze, dove conosce Fanny Targlioni Torzetti. Anche questo fu un
amore non ricambiato. In seguito si recò a Napoli ospite dall’amico Ranieri, nella speranza che il clima temperato gli
giovasse in qualche modo. Ma le sue condizioni peggiorarono ancora di più. Ciò nonostante compose La ginestra e i
Pensieri. Morì nel 1837 in seguito a una crisi d’asma a 39 anni. Leopardi creò la canzone libera, che non aveva in
numero prefissato di versi ne rispettava uno schema.

IL PENSIERO
Leopardi svolse per tutta la vita un’intensa meditazione filosofica. Le fasi principali del suo pensiero furono tre: il
pessimismo individuale, storico e cosmico. Il pessimismo individuale è la prima fase del pessimismo leopardiano.
Esso sorge quando ancora il poeta è un adolescente e già si sente escluso dalla gioia di vivere. A determinare questo
sentimento concorrono diverse cause, la prima fra tutte è l’ambiente familiare. La madre non riesce a creare intorno
ai figli un’atmosfera calda, infatti si dedica di più a difendere il patrimonio familiare dissestato dalla cattiva
amministrazione del marito. Il padre invece lo scoraggiava continuamente, specialmente quando egli grazie all’amico
giordano si apre alle idee democratiche. A ciò si aggiunge anche una delicata sensibilità d’animo aumentata da una
salute cagionevole. Insomma era accompagnato dalla convinzione di essere destinato all’angoscia e che l’unica
possibilità di conforto era la contemplazione della natura. Di questo pessimismo ne fa parte L’infinito. Il pessimismo
storico si ha con l’aggravarsi delle condizioni di salute di Leopardi. Egli allarga la sua meditazione e comprende che
l’infelicità non è solo sua ma appartiene all’umanità intera. La natura ci crea felici. Essa è riconosciuta come madre
benigna. È la ragione a renderci infelici perché distrugge le illusioni e ci svela il “vero”, ossia la nullità delle cose.
L’uomo è causa della sua infelicità, in quanto fa un uso eccessivo della ragione. Si è allontanato dallo stato di natura
primitivo, ingenuo e fantasioso in cui si trovava. Per questo motivo leopardi afferma che gli uomini furono davvero
felici solo durante la fanciullezza, quando si è guidati solo dalla fantasia. Il pessimismo cosmico è quella fase in cui la
natura non è più vista come madre benigna ma come matrigna. Essa causa l’infelicità dell’uomo in quanto l’ha creato
con un desiderio di raggiungere la felicità negando glie il raggiungimento di quest’ultima in continuazione. La natura
è una forza cieca legata a un eterno ciclo di creazione e distruzione. Ogni creatura è priva di importanza di fronte ad
essa. Alla fine Leopardi giunse a una rivalutazione della ragione che non è nemica dell’uomo, anzi è l’unica che
potrebbe svelare l’inganno della natura facendo condurre all’uomo un’esistenza lucida e senza illusioni.
I CANTI
I canti racchiudono il percorso sentimentale ed esistenziale di Leopardi. Essi sono una meditazione sul senso della
vita. Essi sono divisi in 4 gruppi (fasi).

 la prima fase tratta di temi eroici, delle canzoni del suicidio, temi della natura e sul senso della vita. La voce
poetica sembra giungere dall'antico e dalla natura, laddove anche morire diventa necessario per durare
poeticamente, l'umanità è eroica e decaduta, e l'io è ricordo.
 la seconda fase comprende i piccoli idilli (l’infinito,la sera del dì di festa,alla luna, il sogno,la vita solitaria) e
i canti pisano-recanatesi o grandi idilli (il risorgimento, a silvia, il canto notturno, il sabato del villaggio, la quiete
dopo la tempesta ecc). La differenza tra i piccoli e i grandi idilli è che nei piccoli la natura viene vista come madre
benigna mentre nei grandi è matrigna. Nei grandi idilli approda il pessimismo cosmico.
 la terza fase, nominata ciclo di Aspasia, è dedicata a Fanny Targioni Tozzetti. Il nome Aspasia si riferisce ad
Aspasia di Mileto, etera ateniese amata da Pericle, il grande politico e condottiero ateniese.
 l'ultima fase comprende le due canzoni "sepolcrali", la Palinodia, il capitolo I nuovi credenti, La ginestra e Il
tramonto della Luna. La ginestra è il fiore che resiste sulle pendici del vulcano.

L’INFINITO
Esso è il componimento più celebre di Leopardi, scritto intorno al 1819 e fa parte degli idilli. Gli idilli sono poesie che
esprimevano situazioni, avventure storiche, del suo animo. Il termine idillio nel linguaggio poetico indica un
componimento dedicato alla contemplazione di un paesaggio e all’espressione dei sentimenti del poeta . In greco
Idillio significa “piccolo quadretto campestre” L'ascesa al Monte Tabor, rifugio ideale del poeta, si configura in ultima
analisi come uno studio visivo-prospettico degli elementi del paesaggio: la siepe che impedisce la vista dell'orizzonte
e l'ostacolo percettivo che permette la fuga della mente dall'esperienza immediata dei sensi. Al di là della siepe si
schiudono dunque spazi senza limite, silenzi profondi e pace assoluta, portatrice di sgomento, e indizio di
quell'eternità a cui l'improvviso stormire del vento tra le fronde conduce il poeta, il cui io naufraga, cioè si annienta,
fondendosi con l'universo. Così, tra la minaccia del silenzio (sovrumani / silenzi, e profondissima quiete / io nel
pensier mi fingo, ove per poco / il cor non si spaura, versi dal 5 all'8) e la presenza sonora della natura (E come il
vento / odo stormir tra queste piante, versi 8 e 9), il pensiero afferra l'inafferrabile universalità dell'infinito,
superando la contingenza. Con "infinito" e "spazi al di là della quiete" il poeta si riferisce al futuro, che ci apparirà
sempre come una dolcissima illusione che non abbandonerà mai l'uomo. La siepe, invece, è il muro che divide il
presente dal futuro, il poeta dall'infinito e lascia solo immaginare in cosa consista il nostro fato. Ogni uomo può
tentare di cogliere l'infinito che procura un profondo benessere ma anche un senso di pauroso sgomento.

IL SABATO DEL VILLAGGIO


Il sabato del villaggio è una poesia composta nel 1829 durante il suo ultimo periodo trascorso a Recanati. Questa
poesia descrive un quadro di vita paesana durante un sabato sera, una fervente attesa del giorno festivo
all'indomani, destinata poi a rimanerne profondamente delusa: è con questa suggestiva allegoria che Leopardi
illustra la sua visione sul piacere secondo la quale la gioia umana si manifesta nell'attesa di un piacere
irraggiungibile, ed è pertanto fugace ed effimera. Il canto si apre con una descrizione della vita di paese, il sabato
pomeriggio, quando gli abitanti del villaggio sono colti nei preparativi per la domenica. Tutti aspettano la domenica
perché è appunto giorno di riposo ma il poeta afferma “di sette è il più gradito giorno”, in quanto la felicità risiede
dell’attesa. La domenica infatti non porterà gioia, ma solo tristezza e noia in quanto ognuno penserà agli impegni
della settimana successiva. Allo stesso modo è l’età adulta, che è tanta desiderata in gioventù ma che poi quando
arriva porta solo delusione, in quanto l’unica felicità, l’unica <<festa>> sta nell’attesa di essa.

A SILVIA
Questa canzone è stata composta a Pisa nel 1828. Silvia è comunemente identificata con Teresa Fattorini, figlia del
cocchiere di casa leopardi, morta di tubercolosi. Leopardi la ricorda nel pieno della sua giovinezza. Ella stessa è
simbolo del tempo felice della giovinezza, in cui gli umani si nutrono di illusioni. Parlando di Silvia, il poeta rievoca
anche le proprio speranze giovanili, tradite poi dalla vita, cosi come quelle della ragazza sono cadute a causa della
morte. L’unica certezza per leopardi è la morte, rappresentata da una tomba dimenticata, i sogni e le illusioni si
dissolvono.

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