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GIACOMO LEOPARDI.

Giacomo Leopardi nacque il 29 giugno 1798 nel palazzo nobiliare di Recanati, comune che alla
fine del 700 entrò a far parte dello Stato della Chiesa e nel quale erano ancora presenti
pregiudizi e feudali. Nelle lettere e nelle stesse composizioni poetiche, Leopardi tracciò un
ritratto aspramente negativo del suo paese, da cui tuttavia egli trarrà i nuclei fondamentali del
suo immaginario poetico. Il padre di Giacomo, conte Monaldo, era un rappresentante della
nobiltà di provincia, convinto che questa classe sociale dovesse costituire un argine contro le
deviazioni della modernità sia sul piano politico che morale. La gestione culturale ed educativa
dei figli spettava al conte Monaldo, mentre la gestione economica era affidata alla moglie
Adelaide Antici, la quale era una donna estremamente rigida e fredda soprattutto nel rapporto
con i figli. Di Adelaide, Leopardi fornì un terribile ritratto in una pagina dello Zibaldone.
Sostenuto dalla moglie, Monaldo cercò di impedire il più possibile contatti dei figli con il
mondo esterno. L’educazione dei ragazzi Leopardi avvenne esclusivamente in casa che andò ad
assumere sempre più le connotazioni di una prigione. Fu questo l’ambiente e il clima
psicologico in cui Leopardi visse l’infanzia e l’adolescenza, confortato sola dall’affettuoso
rapporto con il fratello Carlo e la sorella Paolina. Giacomo cercò di evadere da questo
soffocante contesto, ma senza successo: il senso di colpa e la crisi di identità vissuta ad ogni
allontanamento da Recanati gli impedirono di staccarsi realmente dalla famiglia. Egli dimostrò
sin da subito di possedere straordinarie doti intellettuali. In particolare, a 12 anni scrisse un
trattato di astronomia, a 14 attaccò in una dissertazione le nuove idee filosofiche e a 17
compose un’orazione politica a difesa del dispotismo illuminato. Il mondo di Leopardi è
racchiuso nella biblioteca di casa sua che comprendeva 20.000 volumi. Giacomo trascorse qui
la sua giovinezza, apprendendo da solo il greco, l’ebraismo e l’inglese e acquisendo gli
strumenti che gli permisero di diventare filologo. L’eccesso di studio cui si dedicò produssero
però gravi danni sul piano fisico: una cifosi deformerà per sempre il suo aspetto. Nel 1816,
avvenne la svolta che portò il poeta a contrapporsi agli orizzonti culturali del padre. In questo
cambiamento, svolse un ruolo fondamentale la scoperta della propria vocazione poetica: è
infatti grazie ad essa che Giacomo troverà il coraggio di contrapporsi all’universo culturale di
Monaldo. A determinare tale mutamento, contribuirono diverse esperienze personali e culturali
come alcune letture preromantiche quali la Vita di Alfieri e l’Ortis di Foscolo, poi una prima
esperienza amorosa più fantastica che reale ed infine l’amicizia con il letterato Pietro Giordano.
Nel 1819, Giacomo tentò ingenuamente di scappare da Recanati, ma non ci riuscì poiché il suo
piano di fuga venne scoperto da Monaldo e di conseguenza dovette rinunciarvi. Il disagio
interiore provocato da questo episodio si manifestò sul piano fisico: il poeta ebbe infatti disturbi
agli occhi, che gli impedirono di scrivere e di leggere, procurandogli un forte senso di
disperazione. La drammatica condizione psico-fisica cui fu sottoposto lo portò a prendere
coscienza della propria infelicità, a scoprire il vero e a diventare filosofo. Nello stesso anno, egli
pubblicò il più celebre testo leopardiano: L’infinito. Successivamente, Monaldo gli concesse
finalmente il permesso di uscire da Recanati per soggiornare a Roma presso lo zio Carlo Antici.
Tuttavia, l’esperienza nella città eterna si rivelò deludente per più di una ragione. La città eterna
gli creò un senso di spaesamento e di solitudine tale da arrivare a rimpiangere Recanati, in cui
tornò nel 1823, con la triste consapevolezza della sua inabilità a vivere. La grave crisi d’identità
seguita all’avventura romana è superata con l’intensificarsi della riflessione filosofica: essa
porta Leopardi a definire un sistema di pensiero originale, lontano sia dal razionalismo
dell’Illuminismo che dallo spiritualismo. Nel 1824, in una condizione di gelo interiore, egli
compose ventiquattro Operette morali, testimonianza di una filosofia del disinganno. Gli anni
dal 1825 al 1828 saranno per Leopardi anni di continui spostamenti alla ricerca costante di una
sistemazione che gli consentisse di vivere fuori dalla casa paterna. Egli si recò dapprima a
Milano per avviare una collaborazione con l’editore Stella e poi a Firenze, dove trovò una calda
accoglienza e reale amicizia. Trascorse infine l’inverno del 1828 a Pisa dove inaspettatamente
avvertì una sorta di disgelo del cuore: si aprì con il Risorgimento e con A Silvia una grande
stagione poetica. A causa di stringenti necessità economiche, il poeta fu costretto a ritornare a
Recanati, dove passò sedici mesi orribili, affetto da problemi fisici e da una grave senso di
malinconia. Nonostante ciò, compose i suoi più grandi testi poetici, prima di lasciare
definitivamente Recanati nel 1830, approfittando dell’offerta di alcuni amici fiorenti. A Firenze,
egli conobbe un giovane letterato napoletano, Antonio Ranieri, a cui si legò di un’amicizia tanto
intima di scegliere di vivere insieme a lui. Si innamorò di Fanny Tozzetti, anche se consapevole
di fungere da intermediario tra la donna e Ranieri, di cui è invaghita. Gli ultimi anni della sua
vita, trascorsi a Napoli, furono penosi a causa sia di un degrado economico umiliante che di una
condizione di salute sempre più grave. Leopardi morì il 14 giugno 1837, a soli 39 anni, assistito
da Ranieri e dalla sorella di lui.
IL PESSIMISMO STORICO.
Nel 1817, Leopardi iniziò a stendere gli appunti dello Zibaldone, in cui annoterà le idee che
stava elaborando e le considerazioni poetiche. In Leopardi, poesia e filosofia sono legate, dato
che le acquisizioni filosofiche si traducono direttamente in idee sulla poesia. A cavallo tra il
1817 e il 1822, Leopardi definì alcuni punti fondamentali del suo pensiero e della sua poetica.
Inizialmente la sua riflessione si articola in una serie di concetti opposti: natura/ragione,
natura/civiltà, bello/vero. Parallelamente alla scoperta della dimensione poetica, Leopardi
scopre la negatività della ragione che nell’età infantile-adolescenziale aveva esaltato. Un’altra
contrapposizione di cui parla Leopardi è quella antichi/moderni che descrive nel Discorso di un
italiano sulla poesia romantica, scritta in relazione alla polemica che iniziava a contrapporre
classicisti e romantici. Per Leopardi, l’autentica poesia è propria del mondo antico. Il poeta
infatti idealizza il mondo classico come età di armonia uomo-natura in cui la poesia è
grandissima per il potere smisurato dell'immaginazione. Il mondo antico viene così assimilato
alla condizione infantile: “antichi” in un certo senso siamo stati tutti quando eravamo capaci di
immaginare. Tale condizione è stata compromessa dal razionalismo e dal sapere scientifico: la
civilizzazione è per Leopardi negativa perché distrugge le illusioni e allontana dalla natura. Il
Discorso interessa soprattutto perché contiene i primi pensieri leopardiani riguardanti la poetica.
Esse collocano il poeta in una posizione autonoma rispetto sia ai classicisti sia ai romantici. Per
il Leopardi di questo periodo, la poesia è espressione dell’immaginazione e della fantasia e il
suo fine è illudere. Da ciò deriva la polemica con i romantici che il poeta critica poiché a suo
parere, si allontano dalla vera poesia. Dei classicisti, invece, rifiuta il rispetto alle regole e l’uso
della mitologia. Il tema della diversità antichi/moderni e la contrapposizione natura/ragione si
radicalizzano dopo la crisi del ’19. È l’anno in cui Leopardi vive la traumatica fine delle
illusioni che cedono il passo al vero. L’immaginazione poetica si spegne: da poeta Leopardi
diventa filosofo. Leopardi sprofonda in una condizione di indolenza e inattività che coincide
con la noia. L’esperienza dolorosa della malattia agli occhi non induce però Leopardi a
un’autocommiserazione, ma diventa lucido strumento conoscitivo che egli applica alla
riflessione sulla condizione umana. La riflessione leopardiana si sofferma anche sul tema della
felicità/infelicità che viene esteso alla storia intera della civiltà. Com’è accaduto nella sua
esperienza personale, così la conoscenza del vero propria della modernità ci allontana dalla
felice condizione degli antichi e porta alla noia, alla morte della poesia stessa. Nella fase che è
stata definita dai critici pessimismo storico, l’infelicità appare a Leopardi un esito negativo del
progresso, dell’eccesso di razionalità che ha allontanato l’uomo dalla natura. Il negativo si lega
esclusivamente al presente, mentre felice è considerata da Leopardi la condizione degli antichi.
Vero e proprio manifesto del pessimismo storico è la canzone Ad Angelo Mai (1820).
(*PESSIMISMO STORICO: l'uomo è causa della propria infelicità in quanto, facendo uso
eccessivo della ragione, si è allontanato dallo stato di natura primitivo, ingenuo e fantasioso in
cui si trovava originariamente. Soltanto durante la fanciullezza l'uomo moderno può conoscere,
seppure per poco, quella condizione di naturalezza e spontaneità che possedevano gli antichi e
che genera uno stato d'animo di felice aspettativa del domani).
LA TEORIA DEL PIACERE E LA POETICA DEL VAGO E DELL’INDEFINITO.
Tra il 1820 e il 1821, Leopardi elabora la teoria del piacere. Il tema su cui Leopardi riflette è la
felicità, che per l’Illuminismo era un diritto dell’individuo che la società e gli organismi politici
dovevano realizzare. La prospettiva di Leopardi è però ben diversa: per il poeta, il piacere è
legato alla dimensione terrena e alla sfera sensoriale ed è quindi ben lontano da una visione
spiritualistica come quella romantica. Secondo Leopardi, nell’uomo è insito per natura il
desiderio di un piacere infinito, cioè di una felicità non parziale e limitata, un desiderio che è
destinato a rimanere sempre frustrato: il piacere vero dunque nella realtà non esiste. Tale
concezione verrà approfondita sul piano poetico dalle due allegorie del piacere: il sabato nel
villaggio e la quiete dopo la tempesta. La condizione costante dell’uomo è l’infelicità che non
può essere cancellata ma solo allontanata dal continuo agire o dall’immaginazione. Nel 1819,
Leopardi ha preso coscienza della negatività del presente e dell’impossibilità di un ritorno alla
natura per l’uomo moderno poiché il processo storico che ha portato alla civiltà è irreversibile.
Di conseguenza, propria dei moderni potrà essere solo la poesia sentimentale cioè una poesia
riflessiva e problematica. Nello stesso periodo, Leopardi compone anche gli idilli, una serie di
liriche in cui la dimensione sentimentale (la riflessione sul sé e sul mondo) convive con
l’insperato recupero di una dimensione immaginativo-fantastica, dimensione che attinge al
piacere dell’indefinito, del vago. In una serie di passi dello Zibaldone, il poeta costruisce una
sorta di catalogo della poeticità, ossia un insieme di situazioni, percezioni ed espressioni che
evocano l’indefinito e che producono in noi piacere proprio. Si può affermare che la poesia in
Leopardi ha a che fare con il riaffiorare inaspettato di immagini e percezioni infantili: la
dimensione poetica si insedia nell’età infantile in cui è ancora viva l’illusione della felicità e
soprattutto in cui si è ancora capaci di sensazioni vaghe e indefinite. (in un importante passo
dello Zibaldone, afferma che quasi non esisterebbero in noi immagini indefinite se non fossimo
stati bambini).
TESTI: 1. UN IMPIETOSO RITRATTO DI RECANATI.
Al tempo in cui scrive questa lettera dell’aprile 1817, Leopardi aveva da poco conosciuto Pietro
Giordani, con il quale avvia una fitta corrispondenza epistolare. In questa lettera, il poeta
risponde a una precedente di Giordani che lo invitava a non eccedere nello studio e a non
disprezzare troppo Recanati. Il diciannovenne Giacomo così ritrae l’ambiente socio-culturale e
umano della sua cittadina, che contrappone, idealizzandoli, ad altri ambienti più evoluti d’Italia
in cui vi sono librai, giornali, in cui si può discutere e confrontarsi.
2. DOPO L’ESPERIENZA ROMANA: LA PRESA DI COSCIENZA DELL’INCAPACITÀ DI
VIVERE.
L’esperienza del sospirato viaggio a Roma, l’uscita dall’aborrita Recanati finalmente concessa
si rivela un fallimento. La grande città crea a Giacomo un senso di spaesamento, una crisi di
identità. In questo passo di una lettera al Giordani del 4 agosto 1823, Leopardi individua le reali
ragioni della sua delusione: disadattamento, incapacità manifesta di vivere, di essere giovane,
come avrebbe richiesto l’uscita da Recanati e la vita in una grande città.
3. IL RAPPORTO CON IL PADRE: DIAGNOSI DI UNA DIPENDENZA. (tratto dallo
Zibaldone: chiamato così per la varietà degli argomenti trattati (nel 700 lo zibaldone era uno
scartafaccio di appunti. L’obiettivo di Leopardi era quello di costruire un tracciato ad uso
esclusivamente personale della propria storia intellettuale. Tuttavia, nel 1827, in seguito a un
suggerimento dell’editore milanese Stella, Leopardi iniziò a stilare un indice tematico al fine di
organizzare gli appunti stessi intorno a nuclei tematici che consentissero di farne una sorta di
dizionario per voci significative. I temi trattati sono riflessioni filosofiche. Polemiche, spunti
autobiografici, principi di poetica, la natura delle cose, il piacere, il suicidio, la disperazione, la
società, il rapporto tra antico e moderno ecc. Lo stile è per lo più asciutto. Grazie allo
Zibaldone, conosciamo la personalità di Leopardi e l’evoluzione del suo pensiero. Fu pubblicato
postumo intorno al 1900 da Giosuè Carducci.)
La difficoltà di Leopardi di vivere lontano da Recanati senza dubbio ha a che fare con il suo
rapporto di dipendenza dal padre, che il poeta non riuscì mai effettivamente a risolvere e ad
abbondare, nonostante la lucidità con cui ne diagnostica la reale natura in una nota dello
Zibaldone del 1826 dimostrando una straordinaria e sorprendentemente moderna capacità di
autoanalisi.

IL PRIMO TEMPO DELLA POESIA LEOPARDIANA: LE CANZONI E GLI IDILLI


La poesia di Leopardi nasce tra il 1818 e il 1823 e si divide in dieci canzoni da un lato e idilli
dall’altro. Questi ultimi furono inaugurati dal celebre L’infinito.
L’epoca delle canzoni fu meno innovativa, in quanto il poeta si confronta con uno dei generi
metrici più illustri della nostra letteratura: la canzone, appunto. In questo caso Leopardi
rivendica lo stile e l’originalità tematica delle sue canzoni rispetto alla tradizione.
Le prime cinque canzoni risentirono dell’influenza di Pietro Giordani con cui Leopardi aveva
un rapporto di reciproca stima: entrambi vogliono una poesia ispirata da modelli classici e di
valore civile. Tema fondamentale delle prime 5 canzoni è dunque la condanna dell’Italia
contemporanea, decaduta dal punto di vista culturale ed etico, a cui si è contrapposto un
passato fatto di bellezza e valori. La canzone più significativa tra le canzoni del primo gruppo è
Ad Angelo Mori in cui il poeta si interroga sul passaggio dallo stato antico allo stato moderno e
vede il progresso come una perdita di illusioni. Perciò la canzone è un esempio del cosiddetto
pessimismo storico.
Le due canzoni successive sono posteriori alla composizione degli idilli, con i quali Leopardi
sperimenta nuove tecniche poetiche. Questo si ripercuote anche sulle canzoni Bruto minore e
Ultimo canto di Saffo, in cui la poesia appare più moderna e sentimentale. Non vi è più il tema
patriottico-civile, bensì una riflessione esistenziale, affidata al monologo dei due protagonisti.
In particolare Leopardi si nasconde dietro due controfigure del mondo classico, ovvero Bruto
(uccisore di Giulio Cesare) e la poetessa greca Saffo. Entrambi i personaggi muoiono suicidi.
BRUTO MINORE-> Bruto, dopo la sconfitta subita a Filippi nel 42 a.C., prima di uccidersi,
lamenta la caduta di Roma repubblicana e accusa il fato e gli dei, i quali sono indifferenti nei
confronti della sorte dell’uomo. La virtù e la gloria sono quindi solo illusioni.
ULTIMO CANTO DI SAFFO-> qui c’è una proiezione autobiografica: nel lamento di Saffo si
riconosce la voce di Leopardi, accomunato alla poetessa greca a causa dell’ingegno e di un
aspetto fisico poco gradevole. Infatti Saffo si lamenta per l’esclusione dalla bellezza della
natura. Le domande di Saffo sul perché della sua sorte infelice rimangono però senza risposta.
Nella canzone il tema dell’infelicità è fondamentale ed è connotato come destino individuale:
Saffo a causa del suo aspetto è destinata ad essere emarginata e l’infelicità che ne deriva è
connessa alla condizione stessa del genere umano.
Nel 1822 Leopardi compone altre due canzoni di minore rilevanza: Alla Primavera e l’Inno ai
Patriarchi.

GLI IDILLI
Con il termine idilli Leopardi indica inizialmente un gruppetto di liriche in endecasillabi sciolti
scritte tra il 1819 e il 1821. Il nucleo più importante degli idilli è costituito da cinque testi:
L’infinito, Alla luna, La sera del dì di festa, Il sogno, La vita solitaria. Il termine idillio in
particolare rimanda alla poesia greca di età ellenistica. Con il primo dei suoi idilli Leopardi
fonda la poesia moderna in Italia: il paesaggio naturale diviene uno spunto per una
meditazione esistenziale che scaturisce da momenti autobiografici. Significativo è il passaggio a
un io lirico, mentre nelle canzoni il poeta affidava il suo messaggio a personaggi antichi in cui
si specchia.
Leopardi abbandona quindi la forma della canzone per passare all’endecasillabo sciolto per
esprimere i moti del cuore. Dal punto di vista linguistico il linguaggio è più piano ed evocativo
e viene recuperata una condizione poetica quale isola intoccata nel deserto del presente.
IL MANIFESTO DEL PESSIMISMO COSMICO: IL DIALOGO DELLA NATURA E DI UN
ISLANDESE.
La più celebre delle Operette morali fu composta tra il 21 e il 30 maggio 1824. In essa Leopardi
immagina che un islandese, dopo aver vagato per tutto il mondo, incontri la Natura,
personificata in una donna gigantesca, e la interroghi sul tema della felicità/infelicità e sul
significato dell'esistenza dell'uomo e dell'universo stesso. Nel Dialogo trova una sistemazione
definitiva il nucleo principale del pensiero leopardiano nella forma comunemente nota come
"pessimismo cosmico": la natura stessa è la causa prima dell'infelicità dell'uomo, e non è la
benigna consolatrice, quale compare nella teoria del piacere. Viene qui abbandonata, e
sarcasticamente confutata, anche la concezione, d'origi rousseauiana, secondo cui la ragione e il
progresso avrebbero allontanato l'uomo da una condizione di naturalità felice.
PESSIMISMO COSMICO: approdo definitivo del pensiero di Leopardi. Causa dell'infelicità
umana non è la ragione, ma la natura stessa, che istilla nell'uomo il desiderio della felicità per
poi negargliela costantemente. La natura è matrigna, una forza cieca legata a un eterno ciclo di
creazione e distruzione; tutte le creature viventi non sono che piccole parti di questo ciclo e le
loro singole esistenze sono del tutto prive di importanza.

DIALOGO DI UN VEDNITORE D’ALMANACCHI E DI UN PASSEGGERE.


Scritto nel 1832, a differenza delle altre Operette, il dialogo si fonda su una situazione
verosimile, realistica: siamo presumibilmente negli ultimi giorni dell'anno, un venditore/
ambulante offre ai passanti dei calendari nuovi (gli "almanacchi" nominati nel titolo. Da questa
banale circostanza si sviluppa il dialogo, incentrato sullo scambio di battute tra/ il venditore,
portavoce dell'opinione corrente riguardo alla felicità, e il passante, che gradualmente lo porta a
conclusioni diverse rispetto all'inizio.
L'operetta, di particolare brevità, attraverso il serrato dialogo tra due personaggi, si configura
come la sceneggiatura di un tema chiave della riflessione leopardiana: il piacere e la felicità. La
situazione in cui si colloca il dialogo fa riferimento alla dimensione quotidiana e verosimile. I
due personaggi, anch'essi esempi di una comune umanità, rappresentano nel dialogo due
differenti punti di vista e nel proporre il tema svolgono un diverso ruolo.
La premessa implicita da cui prende le mosse l'incalzante fuoco di fila del passeggere è il fatto
che le persone, di fronte all'anno che sta per iniziare, immaginano che sarà sicuramente più
felice di quello passato. Ma come evidenziano le serrate considerazioni del passeggere, questa
immagine del futuro è creata dalla delusione vissuta anno dopo anno, compreso quello che sta
per terminare.
L’INFINITO
Composto nel 1819, nei mesi appena successivi al fallito tentativo di fuga da Recanati,
L'infinito è uno dei testi più celebri dell'intera letteratura italiana. Oltre che una lirica di
altissimo livello poetico, è di centrale importanza per comprendere la poetica leopardiana, che
ha il suo fondamento proprio sulla suggestione esercitata dal "vago" e dall'"indefinito".
Interessante è che il testo poetico precede le notazioni di poetica, presenti nello Zibaldone a
partire dal 1820, costituendo un modello per la visione leopardiana di poesia (e non
un'applicazione dei principi di essa, come si potrebbe pensare).
LA SERA DEL DÍ DI FESTA.
La sera del dì di festa, composto probabilmente nella primavera del 1820, è il secondo degli
idilli, posto subito dopo L'infinito. Leopardi esibisce qui con molta enfasi patetica il motivo
dell'infelicità, che rimane per ora a livello esclusivamente personale-esistenziale. Nel testo, che
si apre con un celebre "notturno", compare anche una figura femminile, indifferente all'amore
del poeta, che funge da pretesto per una delle prime esplorazioni poetiche del grande tema
dell'infelicità che percorre l'intera opera leopardiana.
CANTO I PARADISO.
1° Canto Paradiso
Proemio della Cantica (1-36)
Dante dichiara di essere stato nel Cielo del Paradiso (l'Empireo) che riceve maggiormente la
luce divina che si difFonde nell'Universo: lì ha visto cose difficili da riferire a parole, poiché
l'intelletto umano non riesce a ricordare ciò che vede quando penetra in Dio. Il poeta tenterà di
descrivere il regno santo nella III Cantica e per questo invoca l'assistenza di Apollo, in quanto
l'aiuto delle Muse non gli è più sufficiente. Il dio pagano dovrà ispirarlo col suo canto, come
fece quando vinse il satiro Marsia, tanto da permettergli di affrontare l'alta materia del Paradiso
e meritare così l'alloro poetico. Apollo dovrebbe essere lieto che qualcuno desideri essere
incoronato, poiché ciò accade raramente nei tempi moderni; Dante si augura che il suo esempio
sia seguito da altri poeti dopo di lui.
Ascesa di Dante e Beatrice (37-63)
Il sole sorge sull'orizzonte da diversi punti, ma quello da cui sorge quando è l'equinozio di
primavera si trova in congiunzione con la costellazione dell'Ariete, quindi i raggi del sole allora
sono più benefici per il mondo. Quel punto dell'orizzonte divide l'emisfero nord, in cui è già
notte, da quello sud, in cui è giorno pieno: in questo momento Dante vede Beatrice rivolta a
sinistra e intenta a fissare il sole come farebbe un'aquila. L'atto della donna induce Dante
a imitarla, proprio come un raggio di sole riflesso si leva con lo stesso angolo del primo raggio,
per cui il poeta fissa il sole più di quanto farebbe sulla Terra. Nell'Eden le facoltà umane sono
accresciute e Dante può vedere la luce aumentare tutt'intorno, come se fosse spuntato un
secondo sole.
Trasumanazione di Dante (64-81)
Dante distoglie lo sguardo dal sole e osserva Beatrice, che a sua volta fissa il Cielo. Il poeta si
perde a tal punto nel suo aspetto che subisce una trasformazione simile a quella di Glauco
quando divenne una creatura marina: è impossibile descrivere a parole l'andare oltre alla natura
umana, perciò il lettore dovrà accontentarsi dell'esempio mitologico e sperare di averne
esperienza diretta in Paradiso. Dante non sa dire se, in questo momento, sia ancora in possesso
del suo corpo mortale o sia soltanto anima, ma di certo fissa il suo sguardo nei Cieli che ruotano
con una melodia armoniosa e gli sembra che la luce del sole abbia acceso in modo straordinario
tutto lo spazio circostante.
Primo dubbio di Dante e spiegazione di Beatrice (82-93)
Nel poeta si accende un fortissimo desiderio di conoscere l'origine del suono e della luce, per
cui Beatrice, che legge nella sua mente ogni pensiero, si rivolge subito a lui per placare il suo
animo. La donna spiega che Dante immagina cose errate, poiché non si trova più in Terra come
ancora crede: egli sta salendo in Paradiso e nessuna folgore, cadendo dalla sfera del fuoco in
basso, fu tanto rapida quanto lui che torna al luogo che gli è proprio (il Paradiso).
Secondo dubbio di Dante: l'ordine dell'Universo (94-142)
Beatrice ha risolto il primo dubbio di Dante, ma ora il poeta è tormentato da un altro e chiede
alla donna come sia possibile che lui, dotato di un corpo mortale, stia salendo oltre l'aria e il
fuoco. Beatrice trae un profondo sospiro, quindi guarda Dante come farebbe una madre col
figlio che dice cose insensate e spiega che tutte le cose dell'Universo sono ordinate tra loro, così
da formare un tutto armonico. In questo ordine le creature razionali (uomini e angeli) scorgono
l'impronta di Dio, che è il fine cui tendono tutte le cose. Tutte le creature, infatti, sono inclini
verso Dio in base alla loro natura e tendono a fini diversi per diverse strade, secondo l'impulso
che è dato loro. Questo fa sì che il fuoco salga verso l'alto, che si muova il cuore degli esseri
irrazionali, che la Terra stia coesa in sé stessa; tale condizione è comune alle creature irrazionali
e a quelle dotate di intelletto. Dio risiede nell'Empireo come vuole la Provvidenza, e Dante e
Beatrice si dirigono lì in quanto il loro istinto naturale li spinge verso il loro principio, che è
Dio. È pur vero, spiega Beatrice, che talvolta la creatura non asseconda questo impulso e devia
dal suo corso naturale in virtù del suo libero arbitrio; così l'uomo talvolta si piega verso i beni
terreni e non verso il Cielo, come una saetta tende verso il basso e non verso l'alto. Dante, se
riflette bene, non deve più stupirsi della sua ascesa proprio come di un fiume che scorre dalla
montagna a valle; dovrebbe stupirsi del contrario, se cioè non salisse pur privo di impedimenti,
come un fuoco che sulla Terra restasse fermo. Alla fine delle sue parole, Beatrice torna a fissare
il Cielo.

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